fotografia storica

  • L’Immaginario della Shoah e della guerra

    Autore: Claudio Monopoli

    Continua il percorso inaugurato tre anni fa dall'Università di Bari sulla storia e la didattica della Shoah. L'insegnamento e la formazione attraverso un'equilibrata strategia didattica e fuori da ogni distorsione retorica e demagogica, sono gli obiettivi che lo hanno accompagnato fin dall’inizio. Il tema di quest’anno è stato L'immaginario della Shoah e della guerra (17 e 18 ottobre 2014). Se è vero che la nostra epoca è definibile "età delle immagini", è altrettanto vero che i metodi di comunicazione e di didattica storica sono obbligati ad affrontare questo argomento.

     

    Gli aspetti teorici

    Introducendo i lavori, Francesca R. Recchia Luciani ha esaminato il problema dell'effettiva rappresentabilità della Shoah. La cultura oggettivo-visuale e artistica ha fatto spesso ricorso a strategie di trasmissione e riproduzione di sentimenti e stati d'animo, con l'obiettivo di permettere un "transfer" emotivo nell’osservatore. Una volta aperta l'epoca "del trauma senza trauma" (D. Giglioli), la pratica della riproduzione della sofferenza, tuttavia, ha richiesto l’uso di immagini sempre più forti e spettacolari per far fronte alla perdita degli effetti emozionali che la loro estrema diffusione ha provocato, rendendo non scontato il processo di empatia. In un simile contesto, per non smettere di comprendere il dramma della sofferenza, di Auschwitz, non è più l'immagine in sé ad aiutarci, ma l'immaginazione che, richiamandosi alle nostre esperienze corporali, permette la condivisione partendo dalla constatazione della comune appartenenza al genere umano.

    Nel campo della didattica e della formazione, spesso non è facile trattare adeguatamente i temi "violenti" della storia. Ma è anche vero che non si possono escluderli dal curriculum. Partendo da questa necessità, Antonio Brusa ha proposto l’istituzione di un “laboratorio del tempo presente”. Muovendo dalle "questioni sensibili", ovvero dagli eventi angoscianti odierni, l'insegnante può sempre aprire delle "finestre didattiche" sul mondo contemporaneo. E’ fondamentale non abbandonare tali questioni alle commemorazioni e alle celebrazioni, oppure riservare loro unicamente gli ultimi istanti della programmazione. Il progetto di Laboratorio del tempo presente ha dunque l'obiettivo di costruire capacità e metodi di analisi su tematiche che attraversano l’intero racconto storico (immigrazione, malattie, guerra, ecc.) e di saggiare le capacità dei ragazzi nell’interpretarle. Il racconto scolastico, perciò, deve guardarsi dalle eccessive semplificazioni; si deve aprire al dibattito. Nel caso della guerra, deve accogliere le diverse “configurazioni” di questo evento: dall'alto, dal basso e quella culturalista (Prost e Winter). Dal canto loro, anche le immagini rischiano continuamente la banalizzazione. A questa si oppone il metodo storico: chiedersi i contesti nei quali l’immagine è prodotta, gli scopi dell’autore, i mezzi di produzione dell’immagine e, infine, la sua circolazione e il pubblico dei suoi fruitori. Questo vale tanto per un bassorilievo assiro, come per le foto delle atrocità naziste.

    Offrendo la sua preziosa testimonianza, Pino Bruno, reporter di guerra dal 1990 al 1994, ha illustrato come vengono realizzate le immagini di guerra e quali fattori influiscono sulla sua divulgazione. La stessa figura del giornalista di guerra di oggi, non più soldato come nel periodo antecedente alla guerra in Vietnam, implica una selezione all'origine dell’immagine. Un giornalista embedded, al seguito dell'esercito è obbligato a riprendere solo determinate scene, mentre i giornalisti “liberi” sono costretti a riprendere immagini lontano dalle zone di guerra. Non solo: diversi programmi di elaborazione grafica intervengono oggi sull'immagine finale, destinata alla diffusione, con la finalità di evidenziare o eliminare determinati elementi, a volte trasformando il senso complessivo dell'immagine.


    Il lavoro pratico

    I lavori della prima giornata hanno compreso un secondo blocco tematico, inaugurato dall'intervento di Elena Musci, sul tema della visita come proposta didattica. Il luogo storico si presenta come un insieme di dati materiali e simbolici in grado di richiamare eventi o figure. E’ una fonte stratificata nel tempo e "muta" se non vengono create le condizioni necessarie metterla in relazione con gli eventi passati. Per possedere le chiavi di comprensione di un luogo storico, è pertanto necessario raccontare questi raccordi e lavorare con le fonti. La visita didattica, supportata anche da mezzi digitali, può essere impostata interattivamente. Nello specifico, la Casa Rossa di Alberobello, meta della seconda giornata del corso, si presta ad un accurato lavoro di decostruzione, proprio a causa delle diverse funzioni che essa ha ricoperto a partire dal 1887.

    La Casa Rossa di Alberobello non è l'unico luogo utilizzato in Puglia come campo di concentramento. Nel suo intervento, Sergio Chiaffaratta ha illustrato questo aspetto di storia pugliese. Proprio all'indomani della guerra in Libia del 1911, circa quattromila libici vennero trasferiti nelle colonie penitenziarie delle Isole Tremiti, Gaeta, Ustica, Ponza, Caserta e Favignana. Anche durante la Grande Guerra, che aveva trasformato l’Adriatico in un fronte di battaglia, vennero istituiti numerosi campi di concentramento per i prigionieri austro-ungarici in diverse zone della Puglia e della Basilicata. Con l'emanazione delle leggi fasciste del 1926, molti dei luoghi già utilizzati nelle guerre citate furono impiegati come luoghi di confino, come ad esempio le isole Tremiti, che ospitarono diversi prigionieri omosessuali. Un altro importante passo è rappresentato delle leggi razziali del '38, che spinsero molti cittadini ebrei ad imbarcarsi dal porto di Brindisi verso la Palestina; e nel 1940 (fino al 1943) vennero istituiti numerosissimi campi di concentramento in tutt'Italia e in Puglia Fra questi: i campi di Pisticci (primo campo di concentramento italiano), Ferramonti di Tarsia, Isole Tremiti, Manfredonia, Gioia del Colle, ed ovviamente la casa Rossa di Alberobello. Con la liberazione di Bari del 1943, infine, vennero istituiti numerosi campi profughi e di transito, convertendo anche i vecchi campi di prigionia, come ad esempio i campi di Torre Tresca, Altamura e Santa Maria al Bagno.

    I lavori della prima giornata si sono conclusi con l'intervento di Raffaele Pellegrino, sul tema della Musica al servizio del Terzo Reich. Il singolare esempio preso in analisi è stato quello del campo di Terezin, situato a 60 km da Praga. In questo campo si realizzò il progetto nazista di creare un'immagine di fittizia del campo, presentato come fucina artistica e culturale. Internando musicisti ed esponenti del mondo culturale ebraico, i nazisti hanno mascherato gli orrori del campo di concentramento. La musica, inoltre, fu utilizzata nel sistema di potere del Terzo Reich come strumento di propaganda, filtrata dai nazisti attraverso la censura, i quali innalzavano a loro vessillo opere di autori da loro considerati rappresentanti della cultura ariana, come Wagner, Bach, Bruckner e Beethoven.

    La seconda parte del corso, la mattina del 18 ottobre, è consistita nella visita della Casa Rossa di Alberobello, a cura da Francesco Terzulli, autore di La casa rossa. Un campo di concentramento ad Alberobello e Una stella fra i trulli. Impiegata dal 1887 (data di fondazione) al 1939 come Scuola Agraria, fu utilizzata prima dai fascisti come campo di concentramento fino al 1943 per sudditi inglesi, ebrei stranieri, ex jugoslavi ed ebrei italiani; poi dal governo italiano come campo di prigionia per i fascisti fino al 1946; e successivamente, in età repubblicana fino al 1949, la Casa ospitò donne straniere di tutta Europa ex-collaborazioniste o prostitute o sbandate, bambini, profughi di tutta Europa, e non solo. La Casa, nel corso del tempo, ha conosciuto l’intera varietà della detenzione bellica: campo di internamento, prigionia, confino, concentramento, transito e per profughi.

     

     

  • Le quattro foto “vere/false” di Auschwitz. Georges Didi-Huberman e il dibattito sulla rappresentazione della Shoah

    di Antonio Prampolini

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 2Fig.2: foto di Gabriele Croppi in “Shoah and Postmemory”, Edizioni Sonda, 2012. FonteIndice

    1. La rappresentabilità per immagini della Shoah

    1.1 L’importanza delle fotografie nel racconto del genocidio degli ebrei
    1.2 Le fotografie necessitano di una contestualizzazione storica
    1.3 Immagini reiterate all’infinito
    1.4 La personalizzazione della Shoah attraverso gli album di famiglia
    1.5 Il progetto fotografico “Shoah and Postmemory” di Gabriele Croppi

    2. “Immagini malgrado tutto” di Georges Didi-Huberman

    3. Le quattro foto del Sonderkommando di Auschwitz

    4. Le fotografie della Shoah in rete: sitografia

     

    1. La rappresentabilità per immagini della Shoah

    1.1 L'importanza delle fotografie nel racconto del genocidio degli ebrei

    Dalla fine della Seconda guerra mondiale, la storia della Shoah è giunta a noi anche grazie a numerose testimonianze fotografiche prodotte da diversi soggetti: dai nazisti, dagli eserciti alleati al momento della liberazione dei lager e, eccezionalmente, dalle stesse vittime. Si stima che il patrimonio visivo della Shoah ammonti ad oltre due milioni di fotografie che, oggi, grazie alla digitalizzazione e a Intenet-Web, sono facilmente accessibili non solo dagli specialisti ma anche dal vasto pubblico degli utenti della rete.

    Alcune di queste immagini sono diventate nel tempo delle icone che si sono radicate con forza nell’immaginario collettivo. Si pensi alla scritta Arbeit macht frei posta all’ingresso del campo di Auschwitz, al filo spinato elettrificato che circondava i lager, alle torrette di avvistamento, ai binari di Auschwitz II–Birkenau, e, soprattutto, ai corpi senza vita ammassati nelle fosse comuni o in attesa di essere inceneriti, e a quelli denutriti e scheletriti dei sopravvissuti.

    Diversamente dalla tesi iconoclasta espressa in modo radicale da Marc Chevrie, per il quale «non ci può essere alcuna altra immagine possibile del genocidio se non l’assenza di immagini»1, Marianne Hirsch e Clément Chéroux ne hanno sottolineato, all’opposto, il ruolo fondamentale nella documentazione della Shoah.

    Le fotografie, spiega Marianne Hirsch in “Immagini che sopravvivono: le fotografie dell’Olocausto e la post-memoria”, permettono di accedere al passato e di connetterlo al presente, resuscitandolo attraverso lo sguardo dello spettatore:

    «Le fotografie dell’Olocausto collegano passato e presente attraverso l’“esserci stato” dell’immagine fotografica; sono messaggere di un tempo di orrore che non è ancora abbastanza lontano»2.

    E Clément Chéroux, in occasione di una mostra da lui curata sulle immagini della Shoah, allestita in diverse città europee negli anni 2001-2002:

    «la fotografia è un vero e proprio passaggio di testimone, [interviene] come un prolungamento dello sguardo diretto, un sostituto con il compito di esportare le visioni dell’orrore al di là del perimetro dei campi»3.

     

    1.2 Le fotografie necessitano di una contestualizzazione storica

    Per una corretta interpretazione delle immagini del genocidio degli ebrei è necessario porsi alcune domande preliminari sui motivi per cui sono state prodotte, come ha osservato giustamente Laura Fontana4.

    Con riferimento ai carnefici:
    • Come auto-glorificazione e souvenir della guerra e dello sterminio?
    • Come prova o dono da inviare ai propri superiori gerarchici per mostrare loro un “lavoro” ben fatto, una organizzazione efficiente?
    • Come testimonianza storica, da lasciarsi alle generazioni future?
    • Come necessità burocratica?

    Con riferimento alle vittime:
    • Come atto di resistenza per denunciare i crimini perpetrati dai nazisti?
    • Come dimostrazione della propria esistenza quali esseri umani?
    • Come testamento morale per i propri famigliari?
    • Come atto di speranza e fiducia nella liberazione?

    Domande, queste, che non sempre sono state prese in considerazione dagli studiosi della Shoah, tra i quali è prevalso un uso delle immagini fotografiche condizionato più dalla loro portata simbolica che dalla loro valenza documentale.
    Le immagini sono state spesso scelte per scioccare il pubblico, non per informarlo attraverso una corretta contestualizzazione, e, come ha scritto Clément Chéroux, «per produrre l’impatto desiderato non era necessario che all’immagine fosse associata una didascalia: la foto di per sé era già sufficiente».
    E la conseguenza di ciò viene evidenziata dalla catena di imprecisioni e di errori storiografici che a lungo hanno condizionato l’utilizzo delle fotografie della Shoah.

     

    1.3 Immagini reiterate all'infinito

    Sui media, ma anche nei manuali scolastici e nei testi divulgativi (soprattutto in rete) vengono pubblicate sempre le stesse immagini della Shoah, generalmente prive di adeguate didascalie e soprattutto di schede interpretative. Questa “reiterazione all’infinito” di fotografie con montagne di cadaveri e ritratti di corpi scheletriti dei sopravvissuti alla “soluzione finale” dei nazisti, invece di rafforzare il collegamento con quel drammatico evento della storia del Novecento e invocare il dovere della memoria, alimenta uno sguardo sempre più superficiale e apatico delle nuove generazioni verso la tragedia della Shoah.
    I media contemporanei riempono gli schermi (TV e Internet) di quantità crescenti di “atrocità”, di reportage di guerra che «mettono in scacco la capacità dell’uomo contemporaneo di sentire e di immaginare»5 e, soprattutto, di confrontarsi con la storia. In questo contesto le fotografie della Shoah corrono il rischio di trasformarsi in un «catalogo di un’infamia moderna senza confini, dove tutto si scontorna nell’inflazione delle immagini»6.

     

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 1Fig.1: Foto della famiglia ebrea polacca Grossman - Ghetto di Łódź. Fonte1.4 La personalizzazione della Shoah attraverso gli album di famiglia

    Le fotografie degli “album di famiglia” delle vittime della Shoah offrono, attraverso “storie di vita”, un percorso alternativo di avvicinamento al genocidio degli ebrei (valido anche in ambito didattico), di comprensione di quell’evento tragico, capace di evitare la diffusa desensibilizzazione, assuefazione generata dalla reiterazione di immagini macabre della morte di massa nei campi di sterminio.

    Come ha giustamente osservato Clément Chéroux:

    «al contrario delle rappresentazioni spersonalizzate delle fosse comuni, le immagini tratte dagli album di famiglia re-individualizzano il nostro rapporto con la Shoah, instaurando un tenue legame con esistenze un tempo simili alle nostre. [...] Queste fotografie costituiscono certamente un cordone ombelicale, ma sono, ancor di più, il legame estremo, l’ultima traccia di coloro che scomparvero durante la “soluzione finale”»7.

    Gli album fotografici delle famiglie ebraiche sono fonti importanti perché permettono di attivare quel processo di rimpicciolimento della storia descritto da Marianne Hirsh; il solo capace, per la studiosa americana, di suscitare sentimenti di empatia verso le vittime della Shoah, poiché è «la smisuratezza di quella tragedia uno degli elementi che pongono in scacco l’immaginazione dell’uomo»8.

     

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 2Fig.2: foto di Gabriele Croppi in “Shoah and Postmemory”, Edizioni Sonda, 2012. Fonte1.5 Il progetto fotografico "Shoah and Postmemory" di Gabriele Croppi

    Shoah and Postmemory è un progetto di rivisitazione della Shoah del fotografo Gabriele Croppi; un progetto espositivo che ha messo insieme una selezione di fotografie scattate in vari campi di concentramento, quartieri e cimiteri ebraici, durante un suo viaggio in Austria, Germania e Polonia, tra il 2008 e il 2011 (il catalogo della mostra è visionabile online in modalità open access).

    È un tentativo di analizzare le ragioni estetiche, psicologiche e sociologiche che sono alla base della memoria della tragedia della Shoah delle generazioni successive a quella delle vittime e dei testimoni (la “postmemoria” analizzata da Marianne Hirsch9): le generazioni che sono venute a conoscenza del genocidio degli ebrei non più tramite un collegamento diretto con l’evento storico, ma attraverso rappresentazioni simboliche e iconiche diffuse dai mass media.

    Gabriele Croppi «pesca dal repertorio dell’immaginario sedimentato in ognuno di noi scegliendo icone minime dalla portata massima»: binari di treni, pile di scarpe, sequenze di numeri cuciti su divise sudice, una doccia arrugginita, le geometrie del filo spinato che avvolge i lager nazisti. Il suo intento è duplice: «da una parte mostrarci la fisionomia delle sensazioni da lui provate, dall’altra prendere dichiaratamente le distanze dalla diffusa tendenza ad una “museificazione” dei luoghi della Shoah»10.

    Non ci sono cadaveri nelle foto di Croppi. I luoghi da lui ritratti «parlano, oggi, una lingua della commozione». Le sue foto «assolvono a un ruolo non più documentale, ma propriamente emozionale, di evocazione ed invocazione»11.

     

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 3Fig.3: copertina del libro “Immagini malgrado tutto” di Georges Didi-Huberman, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005. Fonte2. "Immagini malgrado tutto" di Georges Didi-Huberman

    Nell’estate del 1944 alcuni membri del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau (il “comando speciale” composto da prigionieri costretti a “ripulire” le camere a gas trasportando i corpi delle vittime nei forni crematori o gettandoli nelle fosse di incinerazione all’aperto) riuscirono a scattare quattro fotografie di quella terribile realtà. I negativi, nascosti in un tubetto di dentifricio, furono poi fatti pervenire clandestinamente alla Resistenza polacca. Le foto ritraggono scene drammatiche in prossimità del crematorio V di Auschwitz-Birkenau: l’incenerimento all’aria aperta dei corpi dei detenuti gasati e l’ingresso di donne nude nella camera a gas.

    Queste quattro foto sono diventate l’oggetto di una attenta riflessione da parte del filoso-storico dell’arte Georges Didi-Huberman nel suo libro Immagini malgrado tutto (pubblicato in Francia nel 2003 e in Italia nel 2005), col quale egli si inserisce autorevolmente all’interno del dibattito francese (e non solo) sulla rappresentabilità della Shoah12. Come ci ricorda lo stesso Didi-Huberman, quelle foto «erano da tempo note agli storici, ma non erano mai state guardate davvero». Esigevano un’approfondita indagine filologica perché, a suo giudizio, molti erano gli elementi concreti che confutavano «quell’estetica negativa, da molti condivisa, che appunto vorrebbe [il genocidio degli ebrei] irrappresentabile, indicibile, inimmaginabile». Inimmaginabile come avrebbe dovuto esserlo nelle intenzioni stesse dei nazisti che avevano programmato «la scomparsa dei corpi, delle anime, della lingua, delle immagini, dei testimoni, dei documenti, persino degli strumenti della scomparsa stessa»13.

    La tesi di Didi-Huberman è che quelle quattro foto, malgrado la loro lacunosità e incompletezza, hanno il potere di sottrarre la memoria di Auschwitz dall’oblio del trascorrere del tempo, accompagnato dall’inevitabile scomparsa dei testimoni. Immagini certamente parziali ma rappresentative di una tragica verità. E per cogliere questa verità occorre tenere presente il loro doppio regime: sono vere e oscure allo stesso tempo; e per questo non dobbiamo chiedere loro troppo, oppure troppo poco, poiché «intrattengono con la verità di cui rendono testimonianza un rapporto frammentario e lacunoso, ma sono in fondo tutto ciò di cui noi disponiamo»14.

    In Immagini malgrado tutto, Didi-Huberman critica, in particolare, le manipolazioni a cui sono state sottoposte nel corso degli anni le fotografie scattate in condizioni terribili dai membri del Sonderkommando di Auschwitz. Interventi finalizzati a raddrizzare il quadro, ingrandire le figure, eliminare le zone d’ombra. «In queste manipolazioni ciò che viene eliminato è in primo luogo il racconto delle circostanze in cui sono state scattate, la clandestinità, le difficoltà e la paura dietro questo gesto, quello di fotografare e testimoniare, così desiderato. Dunque, dissolvendo la loro oscurità, è la loro verità che viene eliminata»15.

    La posizione assunta da Didi-Huberman sul ruolo delle immagini nella memoria della Shoah ha suscitato diverse e aspre critiche, in particolare da parte di Gérard Wajcman e Elisabeth Pagnoux. La seconda parte del libro Immagini malgrado tutto è interamente dedicata alle risposte dell’autore alle loro critiche; risposte che mettono in luce temi di particolare interesse. Tra questi, innanzitutto, la non assolutezza dell’immagine (l’immagine-lacuna) che costituzionalmente non può dirci tutto, ma che ugualmente deve essere inclusa, senza alcun rischio di delegittimazione, nell’indagine storica.

    «L’immagine non è “nè tutto né niente”. Se l’immagine fosse tutta [la realtà], bisognerebbe senz’altro concludere che non ci sono immagini della Shoah. Ma proprio perché “l’immagine non è tutta [la realtà]”, che è legittimo constatare quanto segue: ci sono immagini della Shoah che, pur non dicendo tutto – e tantomeno “il tutto” – della Shoah, sono comunque degne di essere guardate e interrogate come fatti precisi e come testimonianze di questa tragica storia»16.

     

    3. Le quattro foto del Sonderkommando di Auschwitz

    Nei lager nazisti vigeva il divieto più assoluto di scattare fotografie delle camere a gas, dei forni crematori e delle fosse di incinerazione. Proprio per questo le quattro fotografie del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau costituiscono una testimonianza fondamentale delle pratiche di stermino degli ebrei e, nello stesso tempo, ci raccontano del grande coraggio di coloro che, nonostante il divieto, resero possibili quelle fotografie17. Destinati come gli altri detenuti ad essere eliminati, volevano con quelle immagini comunicare all’esterno la terribile realtà dei lager, che per nazisti doveva rimanere segreta, e trasmetterne la memoria alle future generazioni.

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 6Fig.4: Fonte: Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 5Fig.5: Fonte: Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 6Fig.6: Fonte: Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 7Fig.7: Fonte: Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    Nella prima foto vediamo i componenti del Sonderkommando impegnati nel loro “lavoro quotidiano”, che consiste nel trascinare i corpi appena estratti dalla camera a gas nelle fosse di incinerazione, mentre un fumo denso li avvolge. Sullo sfondo un boschetto di betulle. Il fotografo (un componente del Sonderkommando), per non essere scoperto dalle SS che sovrintendono alle operazioni del crematorio, ha dovuto nascondersi nell’ingresso della camera a gas appena svuotata, dove l’oscurità lo protegge e scattare la foto da un’apertura che incornicia l’immagine.

    Nella seconda foto, l’inquadratura del Sondercommando al lavoro appare più frontale e leggermente più ravvicinata. E’ come se il fotografo avesse preso coraggio per strappare un’immagine da quell’inferno dantesco in cui egli stesso è prigioniero e condannato a morte.

    La terza foto è stata scattata dall’improvvisato fotografo all’esterno della camera a gas, probabilmente correndo e con la macchina nascosta tra le mani, impossibilitato a puntarla con precisione. L’inquadratura è storta e in un angolo si intravedono le donne già svestite e spinte dalle SS verso la camera a gas in cui credono di doversi fare una doccia.

    La quarta foto è un’immagine astratta, rovinata dalla luce abbagliante del sole che filtra dai rami delle betulle. Un’inquadratura dal basso verso l’alto in cui si intravedono solamente le cime degli alberi e che, a prima vista, potrebbe sembrare inutile, ma che invece ci ricorda le condizioni drammatiche in cui sono state scattate le foto del Sonderkommando di Auschwitz- Birkenau in quella tragica estate del 1944.

     

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 8Fig.8: Fonte: Museo di Stato di Auschwitz-BirkenauFOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 9Fig.9: Fonte: Museo di Stato di Auschwitz-BirkenauFOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 10Fig.10: Fonte: Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    Le quattro foto, oggi conservate presso il Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, vennero diffuse per iniziativa della Resistenza polacca con alcune modifiche. Per fare risaltare l’attività del Sonderkommando nelle fosse di incinerazione, furono rimosse nelle prime due foto le cornici nere e, per rendere più nitide le figure umane, venne ritagliata e ingrandita la terza foto dove appaiono, in un angolo, le donne che si incamminano verso la camera a gas.
    Modifiche, queste, che però offrono una visione distorta degli eventi (come sottolineato da Didi-Huberman) dando l’impressione che l’eroico fotografo del Sonderkommando avesse potuto fotografare liberamente, senza alcun pericolo, quelle terribili scene di morte nel crematorio di Auschwitz.

     

    4. Le fotografie della Shoah in rete: sitografia

    Nell’elenco che segue segnaliamo alcune risorse della rete, ad accesso libero e gratuito, che propongono collezioni fotografiche dedicate alla Shoah/Olocausto, utilizzabili anche in ambito didattico.
    Un’avvertenza: le fotografie digitali che circolano numerose sul web devono sempre essere sottoposte ad una critica delle fonti, con una particolare attenzione sia all’organizzazione che alle finalità dei siti che le pubblicano.

    - In Wikimedia Commons (l’archivio digitale open access di immagini, suoni e video, di pubblico dominio o con licenza libera, creato nel 2004 dalla Wikimedia Foundation, e che funge da repository di file multimediali per i vari progetti della fondazione, tra cui Wikipedia) è possibile accedere a due categorie (aggregati di file) dedicate all’Olocausto:

    Category: Holocaust historical photographs, suddivisa in sei sottocategorie:

    Historical photographs of Holocaust deportation‎,

    Historical photographs of Nazi concentration camps‎,

    Historical photographs of Nazi ghettos‎,

    Holocaust historical photographs by country‎,

    Holocaust murders in progress‎,

    Exhibition The persecution of the Jews in photographs‎;

     

    Category: Sonderkommando photographs.

    Sui fotografi dell’Olocausto, la Category: Holocaust photographers.

    - In Wikipedia, edizione in lingua italiana, troviamo alcune voci interessanti dedicate alle fotografie e ai fotografi del genocidio degli ebrei: Fotografie dell'Olocausto, Foto del Sonderkommando, Auschwitz Album, L'ultimo ebreo di Vinnitsa.

     

    - La Britannica propone una articolata raccolta di immagini e video sull’argomento: Holocaust: Media.

    - Sul sito dello Yad Vashem (l'Ente nazionale per la Memoria dell’Olocausto con sede a Gerusalemme) è possibile accedere ad una vasta collezione di immagini, Photo Collections, organizzata per Soggetti, Tipo di materiale, Fotografi, Diritti d’autore. Il sito pubblica, in particolare, le foto dell’Album di Auschwitz. Le foto furono scattate dai fotografi dell'Erkennungsdienst, il servizio di identificazione del campo di sterminio di Auschwitz II-Birkenau. Le foto mostrano l'arrivo degli ebrei ungheresi stipati nei carri bestiame, le operazioni di selezione con la separazione degli abili al lavoro dagli inabili (vecchi, donne e bambini) destinati alle camere a gas.

    - L’United States Holocaust Memorial Museum – USHMM, una delle principali istituzioni, con sede a Washington, che a livello mondiale si dedicano alla conservazione della memoria del genocidio degli ebrei, mette a disposizioni degli utenti della rete una collezione di fotografie (trenta immagini dell’orrore) scattate dall’esercito americano durante la liberazione dei lager nazisti: World War II Liberation Photography. Il sito del museo-memoriale USHMM pubblica anche un interessante album di una famiglia ebraica (the Grossman family) prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Le fotografie del tempo di guerra documentano la vita quotidiana nel ghetto di Łódź (Polonia), comprese scene di strada e deportazioni. Per visualizzare in ordine alfabetico tutte le immagini storiche del Museo-Memoriale che illustrano persone, luoghi ed eventi prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale e l’Olocausto, consultare la Lista Immagini.

    - Il Mémorial de la Shoah, con sede a Parigi, è il principale centro europeo per la preservazione, la ricerca e la diffusione della memoria del genocidio degli ebrei. Possiede una collezione composta da più di 300.000 fotografie, un terzo delle quali è disponibile online, riguardanti in particolare la storia degli ebrei nella Francia occupata dalla Germania nazista e nel territorio controllato dal Governo di Vichy tra il 1940 e il 1944. Nella sezione La photothèque del sito del memoriale possibile impostare ricerche sulla documentazione scegliendo: i campi di concentramento-sterminio, la tipologia di documento, le date di riferimento.

     


    Note

    1 Citato in La postmemoria: arte e testimonianza della Shoah nell’età digitale di Claudio Vercelli, 7 Marzo 2021. Tra i sostenitori della tesi iconoclasta in Francia, ricordiamo, oltre all’interprete dell’iconofobia tipica dell'ebraismo Claude Lanzmann, anche gli autori delle violente critiche rivolte a Georges Didi-Huberman (Images malgré tout): Gérard Wajcman e di Elizabeth Pagnoux.

    2 Marianne Hirsch, Immagini che sopravvivono: le fotografie dell’Olocausto e la post-memoria, in «Storia della Shoah» (a cura di Cattaruzza M., Flores M., Levis Sullam S., Traverso E.), vol. III, Riflessioni, luoghi e politiche della memoria, Torino, UTET, 2006, pp.385-421.

    Sempre citato in La postmemoria: arte e testimonianza della Shoah nell’età digitale di Claudio Vercelli. Il catalogo della mostra, Memoria dei campi. Fotografie dei campi di concentramento e di sterminio nazisti, 1933-1999 è stato pubblicato dalla casa editrice Contrasto nel 2001.

    4 Laura Fontana, Usi e abusi dell’iconografia della Shoah: insegnare Auschwitz attraverso le fonti visive, Assemblea Legislativa Emilia Romagna, s.d..

    5 Maurizio Guerri, Ancora immagini della Shoah? Günther Anders e la fiction “Holocaust”, Novecento.org, n. 15, febbraio 2021.

    6 Claudio Vercelli, La postmemoria: arte e testimonianza della Shoah nell’età digitale, 7 Marzo 2021.

    7 Si veda il catalogo della mostra curata da Clément Chéroux Memoria dei campi. Fotografie dei campi di concentramento e di sterminio nazisti, 1933-1999. Il catalogo è stato pubblicato dalla casa editrice Contrasto nel 2001.

    8 Maurizio Guerri, Ancora immagini della Shoah? Günther Anders e la fiction “Holocaust”, Novecento.org, n. 15, febbraio 2021.

    9 Marianne Hirsch, The Generation of Postmemory: Writing and Visual Culture After the Holocaust, Columbia University Press, 2012.

    10 Shoah e postmemoria, articolo redazionale pubblicato il 21/01/2012 su photographers.it.

    11 Helga Marsala, Il volto dell’Olocausto, dalla rappresentazione del male alla postmemoria. Le immagini di Gabriele Croppi, 27/01/2015.

    12 Per informazioni bio-bibliografiche su Georges Didi-Huberman, si veda la voce di Wikipedia in lingua francese a lui dedicata. Si veda anche la voce Images malgré tout.

    13 Con Didi-Huberman nel tempo delle immagini di Andrea Pinotti, «Il Manifesto», 07/09/2007.

    14 Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Cortina, Milano 2005, p. 52.

    15  Daniela Angelucci, «Immaginario malgrado tutto». Note su Didi-Huberman, in Fotografia e culture visuali del XXI secolo a cura di Enrico Menduni e Lorenzo Marmo, Roma Tre-Press, 2018, pp.69-75.

    16 Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Cortina, Milano 2005, p. 89. 

    17 Dalla testimonianza di un sopravvissuto del Sonderkommando: «Nel giorno in cui sono state scattate le foto alcuni di noi dovevano seguire la persona con la macchina fotografica. Dovevano cioè vigilare attentamente sull'avvicinarsi di chiunque non conoscesse il segreto e soprattutto sulla presenza nella zona di eventuali SS. Alla fine arrivò il momento. Ci riunimmo tutti presso l'ingresso occidentale che conduce dall'esterno alla camera a gas del crematorio V: non vedemmo nessuna SS nella torre di guardia che sovrastava la porta dal filo spinato, né vicino al luogo dove dovevano essere scattate le foto. Alex, l'ebreo greco, ha tirato fuori velocemente la sua macchina fotografica, l'ha puntata verso un mucchio di corpi in fiamme e ha premuto l'otturatore. Ecco perché la fotografia mostra i prigionieri del Sonderkommando che lavorano ammassati. Accanto a loro c'era una delle SS, ma dava le spalle all'edificio del crematorio. Un'altra foto è stata scattata dall'altro lato dell'edificio, dove donne e uomini si spogliavano tra gli alberi. Provenivano da un trasporto che doveva essere assassinato nella camera a gas del crematorio V» (Janina Struk, Photographing the Holocaust: Interpretations of the Evidence, I. B. Tauris, London, 2004, p. 114).

     

  • The Saigon Execution: “La foto che fece perdere la guerra”

    Laboratorio su una foto iconica: lettura e contestualizzazione*

    di Antonio Brusa 

     

    The Saigon Executione la guerra del Vietnam

     

    saigonE. Adams/Associated Press, General Nguyễn Ngọc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon (1968)All’una e trenta della mattina del 31 gennaio del 1968 i marines nordvietnamiti e i vietcong (i guerriglieri comunisti del sud Vietnam) scatenarono l’offensiva del Têt (il Capodanno vietnamita). Ottantamila soldati attaccarono contemporaneamente le più importanti città del Vietnam del sud. Contavano sulla sollevazione della popolazione, stanca degli americani e della guerra, e sul rapido disfacimento delle truppe del Vietnam del Sud, che ritenevano un esercito-fantoccio al servizio degli Usa. Si lanciarono all’attacco convinti che non sarebbero più ritornati nei loro rifugi nella foresta e che avrebbero ributtato in mare gli invasori. La loro sconfitta fu cocente. La popolazione, per quanto antiamericana potesse essere considerata, non guardava affatto con simpatia i soldati del nord e non si ribellò. L’esercito sud-vietnamita difese strenuamente le città, mentre gli americani ebbero modo di scatenare per intero la loro potenza di fuoco su bande di guerriglieri venute finalmente allo scoperto. Le cifre non consentono dubbi: i combattenti comunisti contarono circa 60 mila morti; la coalizione americana circa 4.500 (La cronistoria della battaglia su “Retestorica”;) all’offensiva del Têt e agli eventi del ’68 è dedicato il sesto episodio della Guerra del Vietnam (PBS, 2017) di Ken Burst e Lynn Novick, significativamente intitolato Tutto cade a pezzi, che sarà oggetto di analisi nell’ultima parte di questo laboratorio: altri riferimenti si troveranno nella sitografia sui movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam, curata da Antonio Prampolini e pubblicata qui, su HL.

    2mappeL’Offensiva del Têt su Pinterest (a; https://www.pinterest.it/pin/417286721693184202/) e la guerra del Vietnam secondo l’Enciclopedia Treccani (b; http://www.treccani.it/enciclopedia/vietnam/)

    La battaglia che gli americani avevano vinto sul campo fu da loro persa politicamente. Pochi giorni dopo la sua fine, nel marzo del 1968, sospesero i bombardamenti nel Nord Vietnam, chiesero l’apertura di colloqui di pace e il presidente Lyndon B. Johnson decise di non ripresentarsi alle elezioni. Il generale William Westmoreland, comandante in capo delle armate americane, che aveva chiesto altri 200 mila soldati per concludere la guerra, fu richiamato in patria. Prese il via un estenuante e contorto percorso diplomatico che portò, nel 1975, a fermare il conflitto più lungo al quale gli Usa abbiano mai partecipato (G. Herring, America Longest War. 1950-1975 , Temple University Press, Philadelphia 1979).

    Sulle ragioni del sorprendente esito di quella battaglia, storici, politici e giornalisti hanno discusso a lungo. Hanno ragionato sul costo della guerra e il peso che questa aveva sulle finanze americane, sulla mobilitazione militare della quale il nord comunista aveva dato ampia dimostrazione, insieme con la sua tenacia nel resistere a un nemico enormemente più forte, sulle titubanze e i contrasti della dirigenza americana, sullo choc della gente che si sentì ingannata dai proclami trionfali di Johnson e Westmoreland (G. W. Hopkins, Historians and the Vietnam War. The Conflitcs Over Interpretations continue, in “Studies in Popular Culture”, 23, 2, 2000, pp. 99-108, 100).

     

    La foto iconica

    Fra le cause di questa sconfitta si citano spesso i media e, in particolare, alcune foto che ebbero un successo straordinario, dal momento che apparvero su giornali e tv di tutto il mondo. Erano immagini che colpivano il lettore. Non avevano bisogno di didascalie (No caption needed), talmente chiaro era il loro messaggio sulla brutalità della guerra. Erano foto iconiche. Robert Lariman e John Lucaites ci insegnano che per definire iconica una foto sono necessarie quattro caratteristiche:

    • è conosciuta da tutti,
    • evoca delle emozioni,
    • viene replicata all’infinito dai media,
    • continua a essere replicata nel corso del tempo (No Caption Needed: Iconic Photographs, Public Culture, and Liberal Democracy, Chicago, 2007).

    Questo genere di immagini “acquista immediatamente un carattere simbolico”: lo scrisse Wicki Goldberg, la studiosa che usò per prima questa espressione – foto iconica –  per distinguere quelle che avevano il potere metonimico di sintetizzare una storia in un colpo d’occhio e, qualche volta, addirittura di cambiarla (N. Smith Damen et al. (2018), The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon e W. Goldberg, The Power of Photography: How Photographs Changed our Lives, New York, 1991).

    Tutti ne conserviamo qualcuna in qualche angolo della memoria, come il miliziano ucciso durante la Guerra civile spagnola; o il vecchio siciliano che indica la strada al ragazzone yankee appena sbarcato in Sicilia nel 1943, entrambe frutto del genio visivo di Robert Capa; il bambino di Varsavia, immortalato da un anonimo fotografo al servizio di Hitler, e l’altro bambino, Ālān Kurdî, ripreso da Nilüfer Demir, morto sulla spiaggia di Bodrum. Le conserviamo non solo per la loro bellezza tecnica e per il loro carattere simbolico, ma perché attribuiamo loro un qualche significato profondo, un “valore” che le rende importanti ai nostri occhi.

    La guerra del Vietnam ce ne ha lasciate almeno sette:

    • The Burning Monkdi Malcom Browne (1963). Thích Quảng Đức era un monaco buddista che si diede fuoco per protestare contro il regime sud-vietnamita. “Nessuna fotografia nella storia del giornalismo ha mai generato le stesse emozioni di questa”, dichiarò John Kennedy.
    • Reaching out di Larry Barrows (1966), che informò gli americani che anche i marines potevano cadere in battaglia;
    • General Nguien Ngoc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon (1968) fu scattata da Eddie Adams per le strade di Saigon. È conosciuta anche con altri nomi: Rough Justice on a Saigon Street (Giustizia sommaria in una strada di Saigon), Têt execution o Saigon Execution, dizione che userò in questo contributo. Vinse il premio Pulitzer nel 1969 e, da allora, diventò il prototipo della foto che cambia la storia (M. Astor, A Photo That Changed the Course of the Vietnam War, 1 febbraio 2018, “N.Y. Times” e  R. Hamilton, Image and Context: The Production and Reproduction of The Execution of a VC Suspect by Eddie Adams, in J. Walsh et al. (eds.), Vietnam Images: War and Representation, Editorial Board, Lumiere (Co-operative Press Ltd 1989, p. 171).
    • And Babies? (1968) è il titolo del manifesto tratto dalla foto di Ron Haeberle, fotografo dell’esercito americano, che testimoniava le atrocità del massacro di My Lay, un evento che scosse l’opinione pubblica mondiale;
    • Kent State Massacre (1970), scattata da uno studente, John Filo, per testimoniare la sparatoria della Guardia Nazionale contro i giovani che protestavano contro la guerra del Vietnam;
    • Accidental Napalm(1972), di Nick Ut, la celebre foto della bambina nuda che fugge dal villaggio incendiato dal napalm;
    • Helicopter evacuation from Sai Gon(1975), di Hubert van Es che ritrae l’elicottero che imbarca i fuggiaschi dal terrazzo della residenza del capo della Cia a Saigon.

    Al principio del suo Flags of our Fathers(2006), il film che racconta le memorie ferite dei marines che issarono la bandiera americana sul monte Suribachi a Jwo Jima, Clint Easwood accosta The Saigon Execution alla celebre foto che ritrae la scena dell’alzabandiera (Raising the Flag on Iwo Jima), per la quale Joe Rosenthal guadagnò il Pulitzer in quello stesso 1945, proprio perché entrambe – si dice nel film - ebbero il potere di cambiare la storia: questa incoraggiando la popolazione americana a sostenere una guerra che pareva a molti troppo lunga e sanguinosa; quella, la Saigon Execution, convincendola della sua crudeltà inutile.

    The Saigon execution èinclusa da "Time"fra le cento foto che contrassegnano la storia contemporanea. Oltre a questa, il 1968 – un anno record! - ne conta altre tre: l’invasione di Praga, il saluto col pugno chiuso dei quattrocentisti neri alle olimpiadi del Messico e l’Earthrise, la foto del sorgere della terra scattata da Bill Anders mentre orbitava intorno alla luna.

    Su The Saigon execution imposterò un modello di laboratorio storico per questo genere di fonte visiva che ne permetta di mettere a fuoco i problemi storico-didattici e, al tempo stesso, fornisca ai docenti qualche idea concreta di lavoro

     

    Prima fase: lettura della fonte

    Una foto iconica si presta, quasi per natura, a un percorso che parte dall’approccio emotivo e si chiude con la riflessione critica. Lo organizzo in quattro fasi, che per ragioni di comodità vengono pubblicate in due puntate.

    Nella prima fase, dopo aver chiesto agli allievi di esprimere le proprie impressioni, li si guida alla lettura strutturata della fonte. Nella seconda, si sottopongono a revisione critica gli elementi ottenuti dalla lettura: confronto tra fonti diverse, valutazione della fonte e sua contestualizzazione. Nella terza, si affronta la questione del rapporto fra passato e presente, dal punto di vista della comunicazione e dei problemi etici che questa comporta. Nella quarta, infine, si focalizza l’attenzione degli allievi sul contributo che la storiografia può dare nella costruzione di una visione critica di quell’evento. Queste fasi sono organizzate, ancora, secondo un ordine progressivo di difficoltà. Le prime due sono composte da testi brevi, molto legati all’osservazione della fonte. Nelle successive, invece, i testi sono più lunghi e invitano a riflettere su questioni sociologiche, storiche e memoriali. Come si ribadirà in seguito, ogni fase può essere svolta sia nel modo tradizionale (lezioni e lettura dei testi: non mi occupo in questa sede della valutazione), sia in forme didattiche partecipate, delle quali si fornirà sempre un modello. Tuttavia, per favorire il docente che voglia provare strategie diverse, i brani sono di lunghezza breve (escluso gli ultimi due), in modo da poter essere “montati” altrimenti.

    Scrivono Jeffrey Walsh e James Aulich, i curatori di Vietnam Images: War and Representation (cit, pp. 1-9), che un’immagine cristallizza l’evento e lo decontestualizza. Il compito dello storico è quello di riportarlo nel suo contesto.  È questo lavoro che ci permette, da una parte, di capire in profondità quell’evento e, dall’altra, di rapportarci a quello correttamente, sia pure a distanza di quasi mezzo secolo. “Rapportarsi correttamente” vuol dire fare i conti con questioni quali la memoria pubblica, l’uso pubblico della storia, la cosiddetta “memoria condivisa” e i media, nuovi e vecchi, che sono lo strumento principale di socializzazione di questi problemi. Si tratta, dunque, di fare storia, ma al tempo stesso educazione alla cittadinanza e, come si vedrà soprattutto nella seconda parte (nelle proposte di Valerio Bernardi e Giulia Perrino), convocare intorno al tema posto dalla Saigon Execution altre discipline, come la filosofia e le scienze della comunicazione e artistiche.

    In questo laboratorio i documenti e i materiali non andrebbero presentati insieme, in un unico dossier, ma poco per volta, secondo le modalità che vengono di seguito indicate. Ho cercato di realizzare un’antica idea di Scipione Guarracino, che vagheggiava un’attività nella quale ad ogni nuovo documento gli allievi fossero spinti a modificare le conclusioni fino a quel momento raggiunte (S. Guarracino, La logica della ricerca e la didattica dell’archivio, in Didattica della storia e archivi. Atti degli incontri di studio, Caltanissetta, 1-2 dicembre 1986, a cura di C. Torrisi, Caltanissetta-Roma 1987, pp. 55-85). Mi sembra una buona strategia per far rivivere agli allievi il gusto della scoperta progressiva, tipico di una ricerca scientifica.

    Dopo aver motivato i ragazzi al lavoro e fornito gli elementi essenziali di contestualizzazione (date, luogo e motivi della guerra; cenni sull’Offensiva del Têt), l’insegnante presenta la foto, chiede di commentarla o di esprimere che cosa provano guardandola. Chiede, ancora, di ipotizzare che cosa essa rappresenti. In pratica, mette alla prova il potere della fonte iconica di suscitare emozioni senza bisogno di tante parole. Afferma un manuale recente: “La fotografia cattura perfettamente la drammaticità della morte e la disumanità della guerra. Il volto contratto del condannato e quello vuoto e rilassato dell’esecutore” (A. Graziosi, a cura di, Storie. Il passato nel presente, Giunti, Firenze 2019, p. 502). Il contrasto fra i due protagonisti della foto sollecita sentimenti e pensieri. Li si trascrive man mano che vengono espressi.

    Altre domande sono suggerite dallo stesso manuale: “le immagini della violenza contro i prigionieri vietcong ebbero un effetto dirompente nell’opinione pubblica americana”. Per riprendere il titolo di questo contributo, questa fu una foto “spartiacque”. Fino a quella foto, era stata una guerra di bravi ragazzi. Dopo, cominciò ad essere una sporca guerra. Perché? Chiediamo agli allievi di congetturare delle risposte.

     

    Una lettura strutturata

    Robert Hamilton fornisce un saggio di lettura denotativa di questa foto. Può essere una guida per mettere in luce particolari sfuggiti e stilare una descrizione analitica precisa.

     

    La fotografia mostra due figure principali. Una, in uniforme, è vista di profilo, con il braccio teso mentre punta una pistola alla testa dell’altra figura, che è in posizione frontale, veste una camicia a scacchi e ha le mani dietro la schiena. La fotografia include anche due figure marginali e l’ombra di una terza; ci sono alcune costruzioni in secondo piano, che vanno da destra verso sinistra, come uno scenario indistinto e poco chiaro.  Le due figure in primo piano stanno in piedi, in contrasto tonale con lo sfondo indistinto. La postura e l’espressione indicano che il colpo è stato appena sparato.

    La scena potrebbe indicare che “un soldato o un poliziotto spara a un civile disarmato per strada” (R. Hamilton, cit., p. 172).

     

    Angie Lovelace ci fornisce, invece, un modello di descrizione fortemente connotata, “semiotica”, come la definisce (Iconic photos of the Vietnam War era: A semiotic analysis as a means of understanting, 2010). In ogni caso, una descrizione molto partecipata.

    Il boia doveva essere consapevole della macchina fotografica puntata su di lui quando ha deciso di puntare la pistola contro il vietcong prigioniero. Ha girato il corpo e il viso lontano dall’obiettivo, nascondendo così la sua espressione e lo scopo della sua azione. Dal canto suo, il volto della vittima rivela paura e l’angoscia di essere ucciso.

    La camicia scozzese spiegazzata della vittima è l'opposto della mimetica tipica di un militare. Il suo abbigliamento dice a chi guarda che non è un militare, ma un cittadino che viene colpito a sangue freddo. Viene sparato a bruciapelo, senza processo, in una strada deserta. Non viene sparato con un mitra o un fucile, armi che in genere portano i soldati, ma con una pistola. Ciò accentua la disumanità della scena, perché questa non rappresenta più un’azione militare, ma l’odio fra due uomini, o, in questo caso, l’odio fra le due parti in conflitto

    La posizione delle braccia dei due personaggi mostra la disparità del potere. Il braccio del tiratore è steso orizzontalmente. Mentre preme il grilletto, i muscoli del suo braccio si tendono, mostrando il potere che sta esercitando sulla sua vittima. Le braccia del vietcong non sono visibili; sono legate dietro la schiena. Mostrano la sua privazione di potere e la sua impossibilità di reagire. Il vietcong è immobile. Nessuno lo sta trattenendo, ma non sta cercando di scappare. Ha accettato il suo destino. Non prova nemmeno a ruotare il suo corpo o a sottrarsi al colpo di pistola e al suo destino imminente.

    Il soldato a sinistra digrigna i denti. Il suo volto mostra l’emozione per l’atto raccapricciante che sta guardando.

    Questa foto crea empatia per la vittima e criminalizza l’esecutore. Si può anche non conoscere la situazione concreta, ma questo non impedisce di simpatizzare con la vittima e considerare questa scena inumana. Questa foto mostra un atto disumano, che enfatizza la disumanità della guerra del Vietnam nel suo complesso”  (A. Lovelace, cit., pp. 40-41).

     

    Procedimento didattico

    Questi due brani possono essere usati in vari modi. Possono essere spiegati oppure dati direttamente in lettura. Il docente li può tenere per sé e utilizzare come scaletta per domande guida per l’analisi, in un dialogo informale con gli allievi. Altrimenti, in modo più formale, proporrà di completare una tabella - individualmente o in gruppi - per poi controllarla avvalendosi delle descrizioni di Hamilton e Lovelace.

    Ciò che è importante, comunque, è tenere per fermo che più attenta è l’analisi del documento, più vivaci saranno le discussioni successive.

    Particolare della foto Descrizione analitica.   Significato                       
    Testa e volto dell'esecutore    
    Testa e volto della vittima    
    Corpo e braccia dell'esecutore    
    Corpo e braccia della vittima    
    Abbigliamento dell'esecutore    
    Abbigliamento della vittima    
    Armi    
    Personaggi secondari    
    Sfondo    

     

    La scena e i protagonisti

    In questa parte del laboratorio suggerisco di dividere la classe in tre gruppi. A tutti verrà consegnato il primo testo, la descrizione della scena (di seguito: testo a). Poi si suddivideranno le tre biografie (testi b, c, d), una per ciascun gruppo. Ogni gruppo, dunque, avrà due testi da leggere e commentare. Essendo testi brevi, si può prevedere un tempo ragionevolmente ridotto. Richard Stocktonpropone una ricostruzione dettagliata della vicenda, che può servire da guida all’insegnante per seguire il lavoro dei gruppi e gestire la discussione collettiva finale, facendo attenzione a non anticipare – e bruciare così – i temi che verranno presentati successivamente (The Story Behind Eddie Adams’ Iconic “Saigon Execution” Photo, 2020)

     

    a. La scena (per tutti i gruppi)

    Il primo febbraio i marines sudvietnamiti catturarono un sospetto vietcong presso la Pagoda buddista dove si era asserragliato un commando comunista. L’unica identificazione militare del prigioniero era una pistola, del tipo solitamente usato dagli ufficiali vietcong. Indossava una camicia a scacchi e pantaloncini corti. Fu condotto per la strada, con le mani legate dietro la schiena, di fronte al generale di brigata Nguyễn Ngọc Loan, capo della Polizia nazionale. Quando il prigioniero gli si avvicinò, Loan estrasse il revolver e lo agitò per allontanare i marines. Senza dire una parola, puntò la pistola alla tempia del prigioniero e premette il grilletto. L’uomo cadde per terra, mentre il sangue schizzava dalla ferita”. (Hamilton, p. 173). Poi, diretto verso i presenti, disse: “Questa gente uccide molti americani e molti dei nostri. Buddha mi perdonerà. (C. Bonnet, L'exécution de Saïgon: quand le photographe devient l'ami du tueur, “L’OBS”, 2017)

    saigon sequence

    Dalla sequenza delle foto si capisce che il reporter ha continuato a scattare anche dopo l’uccisione. Infatti, si vede il vietcong a terra e, nell’ultima inquadratura, un soldato americano che lo riprende, dopo che gli è stato posto sul petto un numero di riconoscimento. Poco dopo, non ripreso dal fotografo, passa un camion militare che raccoglie il corpo per seppellirlo in un posto ancora sconosciuto. 

     

    b. Nguyễn Ngọc Loan (1930 – 1998)

    Loan pizzeriaLoan nella sua pizzeria “Les trois continents” - in https://vietbao.com/a279394/ky-niem-voi-tuong-nguyen-ngoc-loan

    Aveva fatto l’aviatore nell’esercito del Vietnam del sud. Apprezzato per la sua bravura, ma anche grazie ad amicizie altolocate, fece carriera diventando generale e capo della polizia di Saigon. Svolgeva il suo lavoro con estremo rigore e spietatezza. Non faceva sconti a nessuno, nemmeno agli americani, che – difatti – lo consideravano un piantagrane fastidioso. Era adorato dai suoi uomini, tenacemente anticomunista e, al tempo stesso, convinto nazionalista, con un forte senso dello stato. Così lo descrive Pham Phong Dinh, un suo amico. Sappiamo, tuttavia, che fece accordi con la mafia locale, e dai proventi del traffico di oppio ricavava denaro da distribuire ai suoi agenti (Ho Dieu Anh and Spencer C. Tucker, voce Nguyễn Ngọc Loan, in Martin J. Manning and Clarence R. Wyatt (a cura di), Encyclopedia of Media and Propaganda in Wartime America, Clio, Oxford, 2011, p. 667).

     

    Aveva trentotto anni quando gli fu assegnato il compito di difendere il quartiere dove si trovava la Pagoda buddista, uno degli obiettivi dei guerriglieri durante l’Offensiva del Têt. La foto dell’esecuzione lo rese famoso e detestato in tutto il mondo. Tre mesi dopo l’Offensiva, fu ferito gravemente. Gli dovettero amputare una gamba. Trasportato in Australia per essere curato, venne riconosciuto e costretto a ritornare in Vietnam.

     

    Oriana Fallaci scrisse di lui che era la persona più odiata di Saigon. Lo aveva intervistato mentre era in ospedale. Gli chiese il motivo di quell’uccisione brutale. Lui rispose che il vietcong sparava senza uniforme. Era un vigliacco. Lo uccise perché fu preso da un moto di collera. “Forse fui veramente cattivo - concluse congedandosi dalla giornalista -  ma colui che uccisi era forse migliore di me?” (Niente e così sia, Rizzoli, Milano 1969, pp. 203-206)

     

    Nel 1975, quando il Vietnam del Nord vinse definitivamente la guerra, scappò negli Stati Uniti, dove aprì una pizzeria. La foto continuava a perseguitarlo anche qui. Denunciato per crimini di guerra, venne assolto da un tribunale americano: fra i testimoni a sua difesa ci fu lo stesso Eddie Adams, che nel frattempo era diventato suo amico. Morì di cancro nel 1998. Adams gli dedicò un elogio sul “Time”, nel quale scrisse: “in quella fotografia morirono due persone: il destinatario del proiettile e il generale Nguyễn Ngọc Loan. Io ho ucciso il generale con la mia macchina fotografica” (Eulogy: General Nguyen Ngoc Loan, “Time”, 27 luglio 1998).

     

     c. Nguyễn Văn Lém (1931 o 1932 – Saigon, 1 febbraio 1968)

    Nguyễn Văn Lém è stato un attivista vietnamita, membro del Fronte di Liberazione Nazionale, nelle cui fila combatteva col nome di battaglia di Bai Lop. Fu sommariamente giustiziato a Saigon dal capo della Polizia Nazionale della Repubblica del Vietnam, Nguyễn Ngọc Loan, durante l'offensiva del Têt, di fronte ad un cameraman dell'NBC e ad un fotografo dell'Associated Press, Eddie Adams. Il vietcong in questione era stato arrestato in quanto sospettato di aver ucciso un ufficiale sud vietnamita, sua moglie e sei dei suoi figli (uno dei quali sopravvisse). Nella stessa azione la sua unità, della quale Lém era l'ufficiale superiore, aveva inoltre sommariamente fucilato altri 31 civili. (Wikipedia e A. Miconi, Saigon Execution 1968: “The Photo that lost the War”, in “Problemi dell’informazione”, 63, 1, pp. 63-86).

     

    mogliePhilip Jones Griffiths, (1996), Nguyễn Thi Lop mostra un giornale con la foto del marito e la medaglia al valore del Vietnam, in https://pro.magnumphotos.com/Asset/-29YL5346576G.hIl giorno in cui fu ucciso, Nguyễn Thi Lop, sua moglie – che allora aveva 30 anni ed era incinta di un mese - vide i suoi vicini riuniti attorno a un giornale e si avvicinò loro. "Guarda Loan che uccide un vietcong!" uno di loro le disse. "Capii all'istante che era Lém", dichiarò in seguito Lop, "ma non potevo dire nulla, dovevo nascondere il mio dolore e portarmelo dietro come il fardello di un venditore ambulante mentre vagavo per la città cercando di scoprire in silenzio cosa fosse successo. Ero troppo terrorizzata per avvicinarmi alla sua unità per paura di essere identificata".

    Nel 1998, in occasione della morte del generale Loan, viene intervistata da un giornalista. È una bisnonna di 66 anni che non vuole dimenticare il passato. Ha battezzato sua figlia Loan “nel tentativo di purificare l'anima dell'uomo che lei chiama il male". Dice: “Una sola cosa avrei voluto: incontrare Loan e chiedergli perché aveva ucciso mio marito” (War secret dies with killer of Saigon, in “South China Morning Post”, 23 luglio 1998). Non serba rancore nei confronti del fotografo, perché solo grazie a lui – dice – si è conservato il ricordo di Lém, del quale non si trovò nemmeno il cadavere.

     

    Saigon Execution è esposta nel Museo della Guerra di Ho Chi Minh City (il nome odierno di Saigon). Nel nuovo contesto ha cambiato significato. Non testimonia la lotta fra mondo libero e comunismo né l’orrore della guerra. È il simbolo dei “tormenti del Vietnam” (R. Hamilton, cit., p. 181) e della guerra per la liberazione nazionale, per la quale Nguyễn Văn Lém è un eroe.

     

    d. Eddie Adams

    È il terzo protagonista di questa scena. Non compare nella foto, ma senza di lui quell’uccisione non sarebbe diventata l’Esecuzione di Saigon.

    Eddie Adams si era specializzato nei fotoreportage di guerra sotto le armi, avendo combattuto in Corea nel corpo dei marines, al principio degli anni ’50. Poi aveva cominciato a lavorare per l’Associated Press (AP), la più grande agenzia americana di fotogiornalismo. Nella sua lunga carriera ha scattato migliaia di foto, che gli avevano meritato oltre 500 premi e riconoscimenti di vario genere. Ma la foto per la quale è ricordato, e che lo rese celebre, fu proprio l’istantanea dell’uccisione di Nguyễn Văn Lém.

     

    meme lezamaIl fotografo vittima della sua foto. Montaggio (meme) di Julio Lezama, in Victimas o Victimarios, cit.Confessava di sentire quasi un senso di colpa per quella foto. Per lui, il Generale Nguyễn Ngọc Loan era una brava persona, un eroe che la foto trasformò in un mostro. In quei giorni Saigon era piena di cadaveri. Si sparava a vista contro chiunque. La foto non racconta tutta la storia – diceva - ma solo un pezzo. Racconta bugie e il generale ne era stato una vittima.

    Ma anche lui, in qualche modo, ne era una vittima. Si sentiva perseguitato da quella foto. Diceva di aver realizzato decine di reportage nei quali “nessuno si era fatto male”. Non gli piaceva di essere ricordato solo per quell’assassinio. Non sopportava, lui – ex-marine e sostenitore degli Usa – che la sua foto venisse usata come simbolo della politica militarista degli Stati Uniti dagli studenti che, nel frattempo, occupavano le Università e manifestavano nelle piazze di tutto il mondo. Non sopportava che fosse diventata “un dannosissimo e perfetto strumento di propaganda nelle mani del Vietnam del nord” (R. Hamilton, cit.,  p. 179).

     

    Quando il generale estrasse la pistola, pensava che l’avrebbe usata per minacciare il prigioniero, per farlo confessare. Dichiarò che non avrebbe mai immaginato che avrebbe sparato (BB news, 29 gennaio 2018). Ma, dopo il colpo, Loan si voltò verso di lui e disse che quell’uomo aveva ucciso molti americani e molti vietnamiti (qui Eddie Adams parla della Saigon Execution, nel 2008).

     

    Discussione e lezione conclusiva

    I tre gruppi, dopo aver letto e discusso brevemente le biografie, confrontano le loro conclusioni. Tutti insieme, poi, verificano le impressioni espresse all’inizio dell’attività. Erano corrette? Vanno modificate e in che modo? È accettabile l’assunto che una foto iconica “non ha bisogno di didascalie”?

    Può essere usato come “innesco della discussione” questo testo di Julio Lezama, che gioca molto sull’emotività. Nel caso l’unità di lavoro finisca qui, l’insegnante terrà conto – per la sua lezione conclusiva - dell’andamento del dibattito, dei problemi emersi e, soprattutto, dei nuovi dati presentati nella seconda fase.

     

    TRE FOTO

     (J. Lezama, Victimas o Victimarios, cit., con qualche modifica)

     

    Seconda fase. Lettura critica e contestualizzazione della fonte

    Adams pulitzerEddie Adams riceve il Premio Pulitzer nel 1969 e mostra la foto premiata, in J. Lezema, Victimas o Victimarios cit.

     

    Procedimento didattico

    Questa seconda fase si apre con uno schema riassuntivo delle conclusioni raggiunte, che si potrebbe comporre con l’aiuto di questa tabella:

     

      Le nostre conclusioni
    Eddie Adams  
    Nguyễn Ngọc Loan  
    Nguyễn Văn Lém  
    Impatto della foto con il pubblico  
    Incidenza della foto nella guerra  

     

    Anche in questa seconda fase consiglio tre gruppi di discussione:

    • sulla produzione della fonte iconica (testo e);
    • sul’affidabilità dei testimoni (testo f);
    • sul suo impatto sul pubblico (testo g).

    L’insegnante consegna a ciascun gruppo uno dei tre testi (e, f, g), insieme con quelli già esaminati nella prima fase (a, b, c, d). Quindi ogni gruppo avrà un dossier di cinque testi su cui lavorare, dei quali almeno due già letti e commentati. Essendo, anche in questo caso, testi brevi, si prevedrà un tempo ragionevolmente ridotto. Terminata l’analisi, ci si riunisce e si decidono le eventuali modifiche da apportare allo schema iniziale. Come per la fase precedente, se il lavoro ha preso troppo tempo, si può chiudere a questo punto con la lezione conclusiva. Altrimenti, si passerà alla terza fase.

     

    Il laboratorio di discussione

    Come abbiamo appena detto, l’insegnante consegna a ciascun gruppo il piccolo dossier e i gruppi si riuniscono separatamente per discuterlo. Questa volta, però, sono necessarie alcune avvertenze, dal momento che i nuovi testi metteranno in luce delle contraddizioni e faranno sorgere molti dubbi.

    La rete – e, in genere, la storia pubblica -  ci ha abituato a paralogismi, derivanti in larga misura dall’impianto argomentativo del negazionismo. Nel nostro caso in particolare, occorrerà fare attenzione alla regola del “falsum in uno, falsum in toto”, tipica dei legal thriller in tv e ampiamente usata nella storia “faidate”. Un testimone dice una bugia, dunque è screditato e la sua testimonianza va rigettata interamente. (Su questa “parastoria” sono già intervenuto qui, su HL).

    L’assunto storico, invece, è che tutti i testimoni “dicono bugie”, nel senso che raccontano la realtà dal loro punto di vista, e nel senso ancora che, col passare del tempo, cambiano opinione e riformulano la loro esperienza (la storiografia ha ampiamente lavorato su questi punti). Le regole della parastoria sono, a ben vedere, delle scorciatoie per pigri. La bravura dello storico è proprio quella di lavorare con pazienza sulle testimonianze, rispettandole tutte, eliminare “le scorie” e cercare di delineare una ricostruzione della realtà alla quale la fonte fa riferimento, mai facile e lineare, sempre piena di dubbi.

    Posti, dunque, di fronte a questi nuovi documenti, sarà possibile che gli allievi ricorrano a qualcuno degli espedienti conoscitivi parastorici: “allora tutto è falso”, “allora questo testimone è un imbroglione”, “allora non si può sapere cosa accadde”. Il docente sceglie se prevenire le possibili interpretazioni sbagliate con una breve lezione prima del laboratorio, oppure aspettare gli allievi al varco, con le loro interpretazioni spontanee, e discuterne con loro. “Ogni documento è menzogna. Sta allo storico di non fare l’ingenuo”: Jacques Le Goff scrisse questa regola aurea nel 1978. Vale anche per le foto iconiche (potrà essere utile attrezzarsi con la rilettura della voce monumento/documento dell’Enciclopedia Einaudi).

    Nella redazione del testo riassuntivo della discussione, dunque, il fatto in sé non va messo in dubbio. Susan Sontag, la celebre scrittrice e studiosa della fotografia, ci assicura che non c’è alcun motivo per sospettare dell’autenticità di quello che vediamo nella foto che Eddie Adams scattò il primo febbraio del 1968 (S. Sontag, Regarding pain of the Others, Picador, N.Y. 2003, p. 47). Le domande, le incertezze, le ipotesi, le suggestioni contrastanti riguarderanno i motivi di questa azione, le intenzioni dei protagonisti, il suo significato, il contesto e l’impatto che questa ebbe sulla società.

    Ecco i nuovi testi da consegnare agli allievi.

     

    e. La produzione della fonte

    Eddie Adams è solo uno dei 537 addetti stampa che seguono la guerra. L’Associated Press (AP), l’agenzia per la quale Adams lavora, è presente in forze con più di venti fotografi. Ogni giorno di guerra vengono scattate migliaia di foto. Solo poche di queste passano il filtro delle redazioni e vengono comprate dai media. Solo pochissime diventeranno le “foto che tutti guardano”, quelle che ti rendono famoso. Si può immaginare quanto sia spietata la concorrenza fra i reporter. Confessa Horst Faas, rivale acceso di Adams: "Cercavo di apparire sui giornali ogni giorno, per battere la concorrenza con foto migliori" (A. Hamilton, Horst Faas. The Chronicler of Vietnam who captured horror, 2012).

     

    E, per converso, poiché i media erano una macchina enorme che viveva delle loro foto, si può immaginare quale pressione le diverse agenzie fotografiche esercitassero sui fotoreporter, spingendoli a correre rischi a non finire pur di scattare un’istantanea di successo. Non dobbiamo dimenticare che, nel corso di quella guerra, ben 135 di loro persero la vita (T. Bartimus, A homage to the photojournalists lost to decades of war in Vietnam, 29 aprile 2020). 

     

    Adams era supportato da una troupe della NBC, una delle più importanti reti televisive americane, che lo seguiva nella sua caccia. Quella mattina, dunque, quando si seppe che un vietcong era stato catturato, il gruppo di giornalisti si precipitò per strada, seguì il drappello di soldati che scortava il prigioniero e, quando questi fu portato di fronte al generale, si schierò per riprendere ciò che sarebbe accaduto. Questo vuol dire che la foto mostra unicamente alcuni dei partecipanti alla vicenda. Ma il generale Loan non è solo con la sua vittima. Ha di fronte a sé un gruppo di fotoreporter e cameramen, con i loro assistenti, armati di macchine fotografiche, telecamere e microfoni. Sa che, attraverso loro, è osservato da un pubblico mondiale. Loan, quindi, vuol dare una lezione al mondo. “Non avrebbe giustiziato sommariamente il sospetto vietcong se non ci fossero stati dei giornalisti a testimoniarlo”, conclude lapidariamente Susan Sontag (S. Sontag, Regarding pain of the Others, Picador, N.Y. 2003, p. 47).

     

    È versaigon camera oscuraThe Saigon Execution, nella camera oscura, dopo essere stata sviluppata, viene messa ad asciugare.o che, successivamente, Adams ebbe a dolersi di questa foto. Aggiunse, per rincarare la dose, che era una foto sbagliata, fatta male, che non l’avrebbe mai voluta scattare (M. Persivale in “Corriere della Sera”, 24 dic. 2009) . Ma Peter Arnett, uno dei giornalisti americani più famosi e seguiti, racconta di quella notte in cui Adams sviluppò i negativi, aiutato proprio da Horst Faas che li esaminava con la lente di ingrandimento: rivela che quando questi vide la foto “mormorò 'maledetto' e consegnò il film a Eddie che lo guardò e lanciò un ‘whoop’ ". I due fotografi avevano capito a colpo d’occhio che quella foto valeva oro (In guerra con Eddie Adams, “The digital Journalist”, ottobre 2004). Infatti, quando il rollino giunse nella sede dell’AP, i giornalisti esplosero in esclamazioni di giubilo (R. Hamilton, cit., p. 182).

     

    f. L’affidabilità dei testimoni

     

    Non abbiamo testimonianze dirette e al tempo stesso complete della Saigon Execution. I testimoni raccontano i particolari poco per volta, spesso dopo anni. Per esempio: che cosa disse Loan, dopo aver ucciso il vietcong? Adams, in varie occasioni, dichiarò che pronunciò queste parole: "Ha ucciso molti dei miei uomini e molti della tua gente". Questa frase viene riportata concordemente dalla stampa del tempo (R. Hamilton, cit., pp. 175-176). Invece, secondo David D. Perlmutter, studioso di foto iconiche che scrive nel 2004, Lém avrebbe detto: “Molti americani sono stati uccisi in questi ultimi giorni e molti dei miei migliori amici vietnamiti. Ora lo capisci? Buddha lo capirebbe”. Altri, ancora, specificano: “Buddha mi perdonerà”. (C. Bonnet, cit., 2017). Ma noi possiamo pensare, leggendo l’intervista di Oriana Fallaci, che Loan era cristiano (“aveva un crocifisso al collo”). Quanto sono credibili le aggiunte?

     

    Inoltre: come faceva Loan a sapere che Lém aveva ammazzato senza pietà una famiglia intera? La sequenza delle foto, e più ancora il video girato dalla NBC, non sembrano lasciare spazio a un momento in cui il generale viene informato. Il prigioniero arriva e viene immediatamente giustiziato: il tutto in meno di dieci secondi. Nella ricostruzione di Ken Burns, il viet cong arriva, Loan ordina a un soldato di ucciderlo, e quando questo indugia, allontana tutti agitando la pistola, dice “ti giustizio” e lo uccide. (In The Execution of a vietcong, History Channel, 2016, min. 2.20-2.30, con spezzoni di intervista a Adams e alla moglie di Lém).

     

    Le precisazioni si aggiungono e si accavallano col passare del tempo: ha ucciso una famiglia intera, con i nonni e i bambini; no, era la famiglia di un amico di Loan; in più, ha ordinato la fucilazione di oltre trenta civili. Oriana Fallaci chiede a Loan perché non divulgò subito i crimini commessi da Lém. Lui rispose, con uno scatto di orgoglio, che non aveva bisogno di giustificazioni. Potremmo rivolgere la stessa domanda all’Amministrazione Usa, quando si accorse che la foto stava diventando uno strumento della propaganda antiamericana. Perché non dirlo subito, per fermare l’uso ostile di quella foto? Nel 1985, Ted Welch notava una contraddizione in una intervista che Adams aveva appena rilasciato a “Newsweek”. Questi, infatti, aveva affermato che “quell’uomo aveva ucciso il miglior amico di Loan e tutta la sua famiglia”. Welch trovava che questa coincidenza fosse difficile da credere, e si chiedeva perché Loan (o Adams stesso, aggiungiamo noi) non avesse divulgato questa informazione, data l’attenzione pubblica che l’esecuzione aveva richiamato” (R. Hamilton, pp. 181 s.).

     

    Lém, il vietcong, è veramente un assassino spietato? La moglie sostiene che non ha mai fatto nulla di male e che, in realtà, lo si è confuso con un'altra persona. Notizia ripresa dalla versione vietnamita di Wikipedia che mette in dubbio l’identità della vittima.

     

    g. L’impatto sociale della fonte

    Lo ripetono in molti, quasi come un mantra, nei commenti e nei libri che parlano della Saigon Execution: quella foto fu una bomba psicologica che allontanò la maggioranza della popolazione dal sostegno alla guerra e costrinse l’amministrazione americana a iniziare una procedura di sganciamento. È la foto che fece perdere la guerra.

     

    Sostiene questa tesi Peter Braestrup, fotoreporter tra i più impegnati in quella guerra (Big Story: How the American Press and Television reported the Crisis of Tet 1968: vedine la buona recensione di George Herring, 1979). Ma di parere decisamente diverso è Don Oberdorfer, anche lui un giornalista sempre presente sui campi di battaglia.

     

    Potremmo continuare con le citazioni: la discussione fra gli addetti ai lavori è inesauribile. Per trovare qualche punto fermo, dobbiamo uscire da quel dibattito e cercare tracce concrete dell’impatto popolare della foto. Se, dunque, andiamo a vedere i sondaggi, questi ci danno un risultato paradossale: da una parte aumentano coloro che pensano che la guerra verrà perduta; ma dall’altra, ed è questo che ci interessa, i sostenitori della guerra non diminuiscono affatto, anzi aumentano. Infatti, i contrari all’intervento americano, che erano il 52% nel febbraio del 1967, scesero al 42% un anno dopo, a foto già pubblicata (W. M. Hammond, The Tet Offensive and the News Media, in “ Army History”, 70, 2009, pp. 6-16, 9 ). David D. Perlmutter (2004) scrive che “non c’è nessuna prova che questa foto abbia avuto un effetto significativo sulla pubblica opinione americana”. E conclude il suo studio sulle fonti iconiche sostenendo che quello della “foto che fece perdere la guerra” è solo un mito. 

     

    Ciò che va in crisi – continuano a raccontarci le ricerche sul campo -  è la fiducia in Lindon Johnson, il Presidente americano. La gente non crede più che sia la persona adatta a guidare la nazione. Contro di lui si schierano, quindi, sia i pacifisti, che lo accusano di aver aumentato a dismisura l’impegno americano nel Vietnam, sia i "falchi frustrati", i sostenitori della guerra che lo avevano appoggiato fino a quel momento, ma che ora vogliono che venga sostituito da un nuovo condottiero. (P. Hagopian, The “Frustrated Hawks, Tet 1968, and the Transformation of American Politics, in “European Journal of American Studies, 2008, numero speciale sul ’68).

     

    Ma non si tratta di interpretazioni spontanee. Perché l’icona sviluppi le sua forza ha bisogno di persone, di apparati che ne guidino la lettura. Il potere sociale della foto non promana dall’immagine in quanto tale (N. Smith Dahmen et al., The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon).

     

    Quella foto fu usata dall’apparato propagandistico vietnamita e in tutto il mondo diventò il simbolo dell’aggressione americana. Fu autentica benzina per i movimenti contestatori pacifisti, ma – osserva Martin Kemp – “potremmo supporre che venisse usata anche per dire ai Vietcong : “ecco cosa vi può capitare …” (Christ to Coke. How image become ikon, Oxford U.P, 2012, p. 207). Forse fu proprio questa sua duttilità che non dissuase gli americani dal loro appoggio alla guerra e dal desiderio “di fargliela pagare” ai guerriglieri comunisti. D’altra parte, non ci erano riuscite le ben quarantamila immagini prodotte e fatte circolare dal movimento pacifista. Ciò che questa foto ottenne (o rinforzò) fu il giudizio negativo sul modo con il quale l’amministrazione stava conducendo quella guerra, ma non sulla guerra in sé. (D. Kunzle, Killingly Funny: US Posters of the Vietnam Era, in Vietnam lmages: War and Representation, cit., pp. 112-122).

     

    Inoltre, in quel 1968 avvennero altri fatti gravissimi che sconcertarono gli elettori americani e che influirono nell’orientarli politicamente: l’assassinio di Martin Luther King, il leader del movimento per i diritti civili dei neri (15 gennaio); l’assassinio di Bob Kennedy, il fratello di John, che privò del suo principale candidato l’ala progressista del partito Democratico (6 giugno). Il 20 agosto le truppe del patto di Varsavia invasero Praga e – evento probabilmente decisivo – il 26 agosto la Convention del partito Democraticosi spaccò fra i sostenitori della guerra – i falchi frustrati – e i pacifisti, . Questa degenerò in scontri violenti, nei quali intervenne brutalmente la polizia. Ha scritto di recente Louis Menand che da quel momento gli elettori bianchi abbandonarono il partito Democratico, come apparve chiaramente alle elezioni presidenziali del successivo 5 novembre, che consegnarono a Richard Nixon la palma del vincitore (David Culbert discute l’impatto complessivo di questi eventi sull’opinione pubblica americana in Television's Visual Impact on Decision-Making in the USA, 1968: The Tet Offensive and Chicago's  democratic National Convention in “Journal of Contemporary History”, 33, 3, 1998, pp. 419-449).

     

    La foto ebbe certamente il potere di deprimere il Presidente Johnson, al punto da spingerlo a non ripresentarsi per il secondo mandato. Ebbe un grande impatto sulle élites mediatiche, sui giornalisti, la gente di cultura, i politici, i giovani del Sessantotto. Sul resto della popolazione – la maggioranza - non sembra aver avuto lo stesso effetto. Con le parole di Perlmutter: “The Saigon Execution colpì Johnson, ma non la gente, che non si lascia convincere da una sola foto, e per la quale la vittima era comunque un nemico, uno che spara ai nostri ragazzi”. William M. Hammond è ancora più chiaro: “Quello che la maggior parte del pubblico pensava aveva poco a che vedere con quello che presumevano i critici dei media” (The Press in Vietnam as agent of defeat, in “Reviews in American History”, 17, 2,1989, pp. 313-323, 315).

     

    “Il punto cruciale, quindi, è che il contesto più importante - e spesso trascurato - della valutazione di un'immagine iconica sono i pregiudizi del pubblico; come sempre, credere è vedere. Le persone possono guardare qualsiasi immagine e creare ciò che vogliono farne. I commentatori d'élite si inoltrano su un terreno psicologico molto incerto quando affermano che qualsiasi immagine "naturalmente" provoca una certa reazione. Un'immagine può essere "divertente" per una persona e "rivoltante" per un'altra”. (N. Smith Dahmenet al., cit.).

     

    Il punto sul dibattito in classe

    Il dossier appena esaminato dovrebbe permettere alla classe di giungere a nuove conclusioni, con le quali modificare quelle che hanno aperto questa seconda fase.

    Che cosa ci dice della guerra del Vietnam questa foto, se la guardiamo al di fuori del suo contesto? Nulla di più di ciò che si deve dire, normalmente, di qualsiasi guerra. L’orrore della morte. Nelle guerre si uccide e si viene uccisi. La fonte aggiunge a questa informazione una emozione così violenta da indurre un forte senso di ripulsa. È probabile che questa sia la reazione di tutti, ieri come oggi. Ma “ripudiare la guerra in generale”, come abbiamo visto, non equivale al rigetto di quella guerra particolare.  

     

    Ciò che interessa lo storico non sono (soltanto) le reazioni emotive. Sono piuttosto i giudizi e le conseguenze che ne ricava il destinatario di quella foto. Questo laboratorio dovrebbe aver permesso di scoprire che, nel passato, ognuno vi ha ascoltato e visto cose diverse: il vietnamita, il giovane contestatore, il presidente Johnson o il suo successore, Richard Nixon, un esponente della minoranza colta o della maggioranza popolare americana. Ognuno ha visto nella foto qualcosa che confermava suoi convincimenti precedenti.

     

    Questo laboratorio, di conseguenza, ha posto il problema di cosa possiamo vederci noi. Innanzitutto, ci ha indotto a prendere qualche distanza dalla lettura spontanea di una fonte iconica. Forse è proprio questa che favorisce la mitologizzazione dell’immagine. Nell’analisi micro (la scena dell’esecuzione), abbiamo osservato, invece, che quella foto non ci racconta di protagonisti completamente cattivi, né di vittime del tutto innocenti. Per quanto riguarda il contesto generale, abbiamo intravisto una macchina poderosa, quella dei media, che agisce in una situazione politica e militare complessa, che si avvale di questa foto come di un potente strumento di combattimento. Quella foto, dunque, non ci informa sulla guerra (della quale non ci dice molto di più di quello che sappiamo da altre fonti e, oltre tutto, ce lo dice anche con qualche incertezza), ma è essa stessa un’arma di quella guerra. Se la guerra è un orrore, quella foto non va considerata da noi come uno “spiraglio per guardarlo meglio”, ma come uno degli strumenti in qualche modo coinvolto nella sua produzione.

     

    Certo, di molta parte delle testimonianze di guerra si può dire che sono talmente coinvolte nel conflitto da farne parte attiva. Lo specifico della foto iconica è proprio in quella sua potenza evocativa che fa pensare a tutti (anche a molti studiosi) che non ha bisogno di didascalie. No captions needed. Ma, senza parole, l’icona può essere piegata a molte interpretazioni e, quindi, usata da molti soggetti. "Il potere delle immagini iconiche non è una forza unica che copre tutte le eventualità. Piuttosto, un'immagine iconica può avere potenzialità diverse che possono o meno coincidere con l'interpretazione di quell'immagine o il modo in cui tale immagine viene impiegata”. (N. Smith Dahmen et al., cit., The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon).

     

    *questa è la prima parte di un articolo sulla Saigon Execution, a sua volta parte di un corposo intervento di HL sul Sessantotto, composto da due interventi su “Sessantotto. Un anno spartiacque”, scritti da me; da due sitografie sul Sessantotto e una sui movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam, scritte da Antonio Prampolini; una presentazione multimediale interattiva per svolgere il laboratorio con una LIM oppure a distanza, curata da Lucia Boschetti. 

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