Islam

  • Chi ha rotto il naso della sfinge? Una vicenda di artiglieri, fanatici islamici e moderni inventori di storie

    di Antonio Brusa

    La nascita del mito

    Lo abbiamo sentito tante volte, e forse anche studiato, che gli artiglieri di Napoleone adoperarono la Sfinge come tiro al bersaglio, rovinandole la faccia e il naso. Una favola che circola ancora, nonostante le numerose smentite.

    Tom Holmberg, collaboratore di Napoleon Series, un sito americano specializzato nella storia dell’imperatore francese, ha messo in rete il documento più chiaro e completo in proposito. Vi leggiamo che la storia del “naso della sfinge rotto da Napoleone”, è una favola, nata al principio del XX secolo, giusto al tempo della Prima guerra mondiale, quando alcuni viaggiatori occidentali riferirono di quel naso sfigurato, e lanciarono l’ipotesi che il danno fosse stato causato da esplosivi (e che quindi che si trattasse di una vandalizzazione recente), e uno di loro aggiunse la storia che risultò vincente, quella che incolpava Napoleone. Una storia che gli era stata raccontata sul posto, dalle guide arabe.

    Jean-Léon Gérôme, Bonaparte davanti alla SfingeJean-Léon Gérôme, Bonaparte davanti alla Sfinge, 1867-68 (da Shannon Selin)

    I veri vandali

    Al solito, prosegue Holmberg, le fonti ci aprono altri scenari: in particolare, quelli del fanatismo musulmano. Puntano il dito contro il predicatore sufi Mohammed Sa'im al-Dahr, che nel 1378 si dette da fare per sfregiare quel simbolo di una religione pagana. E, dopo di lui, contro altri suoi correligionari, autori di una vandalizzazione continuata, anche con la polvere da sparo, fino a tutto il 1700. E’ quindi curiosamente paradossale questa invenzione, che mette sotto accusa proprio Napoleone, che, come tutti sappiamo, è all’origine degli studi scientifici sull’Egitto, e quindi del recupero della sua memoria.

    Quando il gioco si fa duro

    Questa smentita non è affatto nuova. È riportata da diversi decenni in alcune grandi enciclopedie, ed è al centro di alcune ricerche sul pensiero musulmano, pubblicate a partire dagli anni ’80 del secolo scorso (debitamente citate da Holmberg).

    Nonostante ciò, come è privilegio dei miti, la favola viaggia per i fatti suoi, del tutto insensibile ai rimbrotti della ricerca storica. In America costituisce un argomento ricorrente della polemica interrazziale. È il racconto di un oltraggio che fa parte dell’antologia (anche universitaria) del pensiero afrocentrico. Per esempio, secondo Louis Farrakhan, il leader radicale afro-americano, rivela il disprezzo che, fin da epoche storiche, il suprematismo bianco nutre verso la cultura africana. Per combattere questa credenza, è intervenuta anche Mary Lefkowitz, la grande studiosa del mondo classico, dedicando un articolo all’uso scriteriato che il predicatore americano fa della storia greca e antica in genere (Louis Farrakhan Challenge, in «Chronicle of Higher Education», dic. 1995).

    Nella mischia non poteva mancare il richiamo ai sionisti. E I sionisti che distruggono il naso della sfinge è il titolo di un video che potete trovare qui. Per chiudere questa breve rassegna, a ulteriore prova che questo naso rotto è diventato una questione spinosa interrazziale, arriva la contestazione acidissima, quanto documentata, di un blog antiislamico, intitolato (La fantasia della rete è inesauribile) alla costante di Plank.

    Un mito non vincente?

    Tuttavia, se usciamo dai circuiti dell’utilizzazione politico-religiosa di questa storia, forse la situazione di internet non dovrebbe essere giudicata sconfortante. Holmberg, infatti, scrive che solo il 21% delle occorrenze incolpa Napoleone. Non mi pare un risultato così disastroso – l’80% che racconta la versione corretta – soprattutto se lo confronto con i dati, sui miti medievali, molto meno incoraggianti, come appaiono dalle mie ricerche nella “regione italiana” dell’internet (Internet e la Rete degli stereotipi sul medioevo, in V. Rivera Magos e F. Violante (a cura di), Apprendere ciò che vive. Studi offerti a Raffaele Licinio, Edipuglia 2017, pp. 85-118).

    Ma ho voluto verificare anche questa storia. Clicco “naso e sfinge” e un po’ di varianti, e mi metto a leggere. La situazione sembra promettente. Più rosea, anche, di quella americana: la quasi totalità dei siti denuncia la bufala. Sembra una scoperta collettiva, quella che non fu Napoleone il responsabile dell’oltraggio al naso divino. Un caso notevole di revisione accettata dalla rete. Forse, una delle ragioni di questo successo deriva da un influencer molto potente, «Focus», che appare citato da molti, a volte alla lettera. A ben vedere, «Focus» presenta la vicenda in un modo che, nel contesto ribollente delle contese attorno all’Islam, susciterebbe molte obiezioni. Infatti, attribuisce il misfatto agli “islamici”, in genere. Non so quanto siano statisticamente significative, ma, alla domanda diretta – se i musulmani desiderano conservare i resti del passato egizio – le risposte raccolte da Quora, vedono utenti, egiziani ma anche sauditi, schierarsi compatti contro i fanatici che vogliono distruggere i resti di una storia antica che, lo scrivono con orgoglio, è da considerarsi patrimonio nazionale dell’Egitto.

    La rete come uno “scriptorium”

    A dare man forte a «Focus», c’è anche Wikipedia, che alla voce dedicata fa esplicito riferimento alle idee correnti che vanno smentite. Con queste fonti, chi posta qualcosa sull’argomento non ha molte chance per indugiare sul mito. Nonostante ciò, la tendenza all’invenzione, come vedremo subito, è inarrestabile. L’immagine che ne ricavo è abbastanza familiare, per un medievista. La rete, almeno in questo caso, mi appare come un gigantesco scriptorium, nel quale c’è qualcuno che detta, e tanti che, curvi sulle loro tastiere, scrivono, prendendosi, come pure facevano gli antichi monaci, qualche libertà. Eccone una breve silloge.

    Stefania Brichese, su notizie.it, è precipitata nel dubbio. Racconta che, in realtà, nessuno sa il perché di quel naso. Certo, aggiunge, c’è una leggenda, quella di Napoleone che «è la preferita dagli storici» (sic!), ma probabilmente la causa di quel danno è costituita dalla inclemenza del tempo. E poi chiude col botto, avvertendo i lettori che lo sfregio è recente, perché i viaggiatori del 1700 vedevano la sfinge col suo bel nasino. Ora, se c’è una foto che circola, e che probabilmente ha contribuito a scoraggiare molti a raccontare questa favola (ma non tutti come constatiamo), è proprio un disegno di Frederick Lewis Norden, del 1737, che mostra come doveva essere la situazione ai suoi tempi: la sfinge vi è raffigurata semiinterrata (come d’altra parte erano le piramidi) e col naso rovinato, come appare oggi.

    Sfinge senza naso«Esistono infatti immagini della Sfinge senza naso già a partire dal 1737, realizzate dall’esploratore Frederick Lewis Norden», («Ticino Live», quotidiano della svizzera italiana)

    Quindi, assodato che la colpa non fu degli artiglieri di Napoleone, i responsabili si perdono nelle nebbie e gli autori di internet azzardano: il cattivo fu un guerriero musulmano; no, furono musulmani, ottomani e francesi insieme. Si trattò di un fatto medievale, dell’alto o del basso medioevo non si sa; no, fu un misfatto di età moderna.

    Smitizzare conviene

    Insomma: nemmeno quando la fonte è accettata da tutti, disponibile, e basterebbe copiare, si è capaci di farlo con semplicità. Sotto trovate gli indirizzi dei siti con gli abstract. Qui riferisco solo di Miti e misteri, un sito che affronta la questione col giusto piglio demistificatorio, e se la prende con gli «imbecilli di ogni religione, musulmani e francesi», tutti colpevoli a suo dire di aver attentato al sacro naso. Lo cito perché, in questa battaglia, si avvale del sostegno di Alla ricerca dei Libri di Thot, opera non propriamente accademica, scritta da Daniela Bortoluzzi: una scelta che ci lascia intuire il vero problema e ci suggerisce la domanda cattiva finale. Vuoi vedere che molti hanno lasciato perdere il mito del naso rotto, perché ne hanno un altro più entusiasmante, di cui parlare, quello dell’archeologia alternativa, che si oppone all’archeologia “ufficiale”, e ti racconta di alieni che costruirono il manufatto 10 mila anni fa, di biblioteche sapienziali nascoste nel ventre della Sfinge e di tante altre scoperte, che basterebbe scavare un po’, per metterle a disposizione di tutti, se non fosse per quegli storici così ottusi? Insomma: sbrighiamoci con queste storie del naso, e parliamo di cose serie.

    O, peggio ancora, vuoi vedere che la decostruzione del mito viene usata per accreditarsi come seri difensori della verità scientifica, prima di lanciarsi nelle invenzioni alternative?

    Da questo punto di vista, Wikipedia ha qualche responsabilità. Infatti, dopo aver avvisato il lettore sulle favole da evitare, presenta un testo nel quale sono messi, uno contro l’altro, i risultati della ricerca scientifica e le visioni alternative, quelle prodotte dai ricercatori “indipendenti” e dagli ingegneri della Nasa, che evidentemente a corto di lavoro nell’universo, si stanno dedicando con sempre più passione allo svelamento di enigmi terrestri, che spaziano dalla Sindone alle piramidi. L’idea che ne ricava il lettore comune è quella di un dibattito fra pari, all’interno del quale è un suo diritto, di utente libero, quello di scegliere.

    Il naso rotto e altri miti

    La vicenda della campagna d’Egitto è alla base di molti miti. Alcuni sopravvivono, come quello del naso, appunto. Di altri non abbiamo grandi notizie. È il caso del “Fantasma rosso”, che l’imperatore avrebbe visto nella piramide di Cheope, o della sua scalata sulla piramide o della visita che egli fece compunto alle tombe faraoniche. In tutte queste occasioni, Napoleone preferì che fossero altri a arrampicarsi sui massi e a sudare sotto il sole egizio. E la famosa frase “dall’alto di queste piramidi”, con quel che segue, lui la pronunciò comodamente seduto a qualche chilometro di distanza da Giza. Ma se volete qualche informazione in più su queste altre storie, condite dalla solita ricchezza di documenti, approfittate del lavoro di Shannon Selin.

    Forse converrete con me che si tratta di miti che stanno scolorendo. Purtroppo, cedono il passo all’avanzare dei nuovi miti misterici – mito scaccia mito – non alle armi della storiografia. Ermete Trismegisto, mi pare, ha tutta l’aria di prendersi la sua rivincita su Champollion.

    Per chi voglia approfondire, ecco un regesto dei siti

    Tanti sono poi i racconti sul naso della Sfinge, secondo i quali la sua distruzione avvenne per un colpo sparato da un Mamelucco, o da un Ottomano o da un Francese; in realtà andò perso prima del XV secolo (Meteoweb). E la distinzione fra “archeologia ufficiale” e ricerca indipendente è una credenza. In realtà si tratta di “uno sparo di un soldato napoleonico” (Girandolina).

    Sono tanti i racconti sul naso della Sfinge di Giza, secondo le quali la sua distruzione avvenne o per un colpo sparato da un mamelucco, un ottomano o un francese. In realtà andò perso prima del XV secolo (Egittopercaso). Uguale a meteoweb, di sopra? Certo: il problema è vedere chi ha copiato chi (ai filologi futuri l’arduo compito di riconoscere il manoscritto capostipite).

    Era un vandalo del XIV secolo (Mitiemisteri). Ma l’imbecillità accomunò mamelucchi e francese, perché entrambi si divertirono a mutilare la sfinge: si rifà a di Daniela Bortoluzzi, Alla ricerca dei Libri di Thot, col suo corteggio di archeologi indipendenti e ingegneri della Nasa.

    Studenti.it Il portale della Mondadori saccheggia «Focus», per elencare 10 falsi (i re di roma, Einstein, la mela e, appunto il naso della sfinge).

    Answers.yahoo Qualcuno sa perché la sfinge ha il naso rotto? Risposta: un guerriero mamelucco.

    Pilloledistoria Molti studiosi ritengono che lo sfregio risalga addirittura al Medioevo, più o meno ad un periodo compreso fra l’VIII e il X secolo, quando i musulmani, irritati dall’idolo blasfemo che la Sfinge rappresentava ai loro occhi, le mozzarono il naso.

    Nonenciclopedia Da Mosé per fare un dispetto al Faraone e riderci sopra.

    Quora1 No, ne siamo fieri, rispondono in coro. Non abbiamo mai sentito di musulmani che distruggevano antichi templi (6 risposte, dall’Egitto all’Arabia saudita).

    Quora2 Lunga risposta di Etan Aynes, studente di archeologia, che però si limita a citare i reimpieghi (comuni all’occidente) e non parla delle vandalizzazioni a scopo religioso (anche queste peraltro, comuni nell’Occidente medievale).

  • E per ultimo arrivò Colombo.

    Autore: Antonio Brusa

    Dei musulmani e dei numerosi altri scopritori dell’America

     

    Indice

    •    La storia fra politica e radiologia
    •    Il metodo degli scopritori
    •    Come nasce una storia inventata
    •    Uso politico della “parastoria”
    •    Un obiettivo che fa gola a molti
    •    Una saga ammonitrice

    Erdogan fra i rappresentanti delle comunità musulmane nell’America Latina

     

    La storia, fra politica e radiologia

    Quando igiornali di tutto il mondo ci informarono che Recep Tayyip Erdogan, presidente della Turchia, aveva dichiarato al “Primo summit dei leader dell’Islam in Sudamerica” (15 nov. 2014) che i musulmani erano arrivati in America ben prima di Colombo, sorpreso come molti, ho provato a cercare la fonte di questa scoperta. Il punto di partenza della ricerca era offerto da quegli stessi giornali: un sito dell’As-Sunna Foundation. E’ un sito americano, prevalentemente dedicato a fatti religiosi, ma provvisto anche di una sezione storica, in fondo alla quale si trova una rubrica dedicata ai musulmani americani, il cui primo articolo era appunto quello della Scoperta Islamica, a firma diShaykh Gibril Fouad Haddad As-Sunnah Foundation of America. Un paio di giorni dopo, l’articolo venne rimosso (siete liberi di immaginarne i motivi). Fortunatamente, Luigi Cajani, che mi aiutava in questa ricerca, l’aveva già scaricato. Così, non ci ho messo molto a ritrovarlo, pubblicato sotto un altro nome, quello di Youssef Mroueh, a tutta vista il suo vero autore. E', infatti, lo scritto che questi redasse per la celebrazione del millenario dell’arrivo dei musulmani in America (996-1996). Mi è parso l’autorità indiscutibile in questo campo, il riferimento obbligato dei sostenitori della tesi islamista. Per la “Washington Post”, Mroueh è uno storico. Per altri, meno condiscendenti, è un rispettabile studioso di radiologia.

     

    Il metodo degli scopritori

    Il nostro storico-radiologo si dimostra padrone di quella forma di ragionamento che potremmo nominare “sillogismo alla Giacobbo”, un dispositivo argomentativo che permette di transitare da una dubitativa iniziale (“delle evidenze suggeriscono che”, “sembra plausibile che”, “tutto lascia pensare che”), a una dubitativa secondaria, che consiste nell’insinuare qualche sospetto sul sapere acquisito, per chiudere con una certezza finale, alla quale segue normalmente la postilla sconsolata sulla scienza ufficiale che ostacolerebbe la scoperta della verità.

    La seconda arma a disposizione di questi scopritori di scopritori, consiste nell’uso sfrenato dell’analogia. Ci sono delle statue americane che somigliano a statue africane? Ci sono petroglifi del Great Basin che richiamano caratteri libici? Toponimi americani dalle sonorità arabe? Anfore scoperte in prossimità del Brasile dalla silhouette simile a quelle mediterranee? Parole di nativi americani (algonchine, caraibiche o quecha, fa lo stesso) che sembrano uscite dal Corano? Colline il cui profilo ripete quello di una moschea (questa analogia, peraltro, fu suggerita dallo stesso Colombo)? per non parlare delle piramidi centroamericane che non poterono che essere costruite a imitazione di quelle egizie. Sommate le somiglianze, avrete la prova irrefutabile della frequenza dei traffici che, all’insaputa di tutti, hanno legato per millenni Africa e America.


    Testa colossale olmeca


    Il terzo genere di prove è francamente sorprendente, perché consiste in testimonianze orali, rese da nativi americani che rammenterebbero tradizioni islamiche precolombiane. Se volete cimentarvi con la lettura completa delle prove a supporto della letteratura “before Columbus”, leggetevi illungo testo di Abdullah Hakim Quick, studioso di radici islamiche del mondo caraibico.

    Trovo che questo incipit di Yahia Zeghoudi, Maître de Conférencedel Centre Universitaire de Ghardaia, costituisca un esempio plastico di questa retorica argomentativa. Si comincia dalle ipotesi “pochi studiosi e molti musulmani sospettano”. Si mette in dubbio il sapere consolidato con l’uso delle virgolette, quando si parla della “scoperta” di Colombo e degli “indiani”, che a questo punto sarebbero poco nativi e molto discendenti di genti musulmane. Si inserisce l’analogia fra l’espressione Mandinka, della quale si riporta il significato in caratteri arabi, e il nome caraibico di San Salvador; e, alla fine, giunge la rivelazione che nessuno avrebbe mai potuto sospettare. Colombo fu proprio l’ultimo.

    Few scholars and ordinary Muslim people suspect the arrival of
    Muslims at the Americas a long time before the “discovery” of
    Christopher Columbus of the San Salvador Island in 1492. By the way,
    this island was called by the natives “Indians” Guana Hani, a Mandinka
    word meaning( الإخوانهانئ). Probably, no one could have dreamt of the
    idea of a Muslim presence on the American continent. However, new
    theories based on archaeological findings tend to point in this direction.
    This means that Columbus was the “last” to arrive, and not the
    discoverer.

     

    Come nasce una storia inventata

    I documenti scritti utilizzati in queste argomentazioni sono brani tratti da geografi arabi medievali, come Al-Masudi e vari altri. Alcuni di questi fanno colpo per la loro notorietà: Idrissi e Piri Reis. Ma, non essendo un arabista, e nemmeno un radiologo, non mi azzardo nella loro esegesi, affidandomi agli specialisti che se ne sono occupati.
     

    Piri Reis: particolare dell’Atlante e ritratto, da unsito turco, nel quale ci si chiede se questa non sia la mappa di un tesoro, nascosto a Gallipoli

     

    Fra le innumerevoli contestazioni, mi sembra particolarmente impressionante quella che riguarda Piri Reis. Il suo Atlante, redatto a Istanbul al principio del 1500, è considerato dai modernisti di tutto il mondo una fonte preziosissima per la cultura geografica e per la storia del Mediterraneo. Tale è anche per Abdullah Hakim Quick, che lo definisce:“the most conclusive pieces of hard evidence to show the validity of Muslim exploration in the Western hemisphere”. Lo studioso islamista ricava questa certezza da Ivan van Sertima, che nel 1991 affermò che Piri Reis “mostra senza ombra di dubbio che gli Africani attraversarono l’Atlantico in tempi antichissimi”. A sua volta, van Sertima ottiene la sua convinzione da Charles Hapgood, che nel 1966 scoprì che Piri Reis aveva copiato la sua mappa da un originale, disegnato ben 10 mila anni fa da una civiltà superiore, a Cuiculco, in Messico. Col tempo – aveva spiegato Hapgood - questo esemplare era andato perduto, ma le sue tracce sono ben visibili (diceva sempre Hapgood) nelle culture egizie, mesopotamiche e cinesi. D’altra parte, poteva godere del sostegno di Erich von Daniken, secondo il quale era fuori di dubbio che queste carte erano ricavate da foto aeree scattate da alieni.

    Questa genealogia di argomentazioni l’ho trovata in un saggio di Bernard Ortiz de Montellano, Gabriel Haslip-Viera e Warren Barbour, They where NOT Here before Columbus. Afrocentric Hyperdiffusionism in the 1990 (“Etnohistory”, 44, 2, pp. 1997, pp. 199-234, 207). In questo saggio si racconta una vicenda interpretativa che inizia nel lontano 1862, quando la scoperta di sculture ciclopiche olmeche portò alcuni ad ipotizzare una loro derivazione da sculture africane, a causa di caratteri identificati come “negroidi”. Ha un punto di svolta nel 1922, data di pubblicazione di  Africa and the Discovery of America, di Leo Wiener, professore di filologia slava negli Usa, che in tre volumi eruditissimi (e altrettanto criticati) lanciò la teoria che i primi scopritori dell’America furono africani. E, poiché alcuni di questi erano musulmani (o avrebbero potuto esserlo), su questa tradizione fu agevole, nel clima della decolonizzazione postbellica e della rivendicazione dei diritti civili, innestare la storia della scoperta islamica (Richard Francaviglia, “Far Beyond the Western Sea of the Arabs...”: Reinterpreting Claims about Pre-Columbian Muslims in the Americas, in “Terraeincognitae”, 46, 2, pp. 103-138).

     

    Uso politico della “parastoria”

    Con l’avvento di internet, questa genealogia lineare – di lettori che leggono libri di altri lettori – diventa una nuvola intricatissima di rimandi che più cresce, più si autoconferma. Una sorta di “parastoria”, che adopera sistemi di verifica e di argomentazione simili a quelli della storia: un fenomeno ben conosciuto, in particolare dagli studiosi del negazionismo. Questa parastoria, essendo totalmente autoreferente, risulta inattaccabile a critiche, che oltretutto tende a catalogare come frutto di avversione ideologica, quando non di pregiudizio eurocentrico (per leggere alcune di queste critiche, basta sfogliare la rivista online history news networks.org, e leggere gli interventi di Rebecca Fachner e David Yeagley).

    E’ una nuvola non neutra politicamente. Audrey Shabbas ha curato un libro di oltre cinquecento pagine - Arab World Studies Notebook - per insegnare nelle scuole che i musulmani hanno scoperto l’America e che, perciò, i nativi americani sono loro discendenti (e ovviamente tanto altro soprattutto sul ruolo degli arabi nel mondo contemporaneo). Trovate la notizia del libro sul suo sito, con i moduli per le donazioni (ma il link al libro non si apre). Ho letto, in un intervento di Rebecca Fachner, che l’autrice, sottoposta a un fuoco di fila di critiche – a quanto pare i nativi americani non gradiscono molto l’imposizione di questa ascendenza -  ha declinato l’invito a mostrare le prove a supporto della sua teoria.

    La posta in gioco è altissima. Secondo Richard Francaviglia, direttore del Center for Greater Southwestern Studies presso l’Università del Texas, questo racconto storico ha tre scopi. Il primo è quello di mostrare come l’esplorazione islamica fu più imponente di quella cristiana; il secondo, quello di dipingere l’Islam gentile con i nativi, al contrario dei cristiani; il terzo, quello di definire bigotti tutti coloro che si oppongono a questa tesi. In questo modo, l’Islam viene trasformato in una fede radicata in America e la Umma, la comunità dei credenti, si estende sul pianeta. E’, senza alcun dubbio (continua Francaviglia), un modo per alimentare la guerra fra le culture (Brad Petter).

     

    Un obiettivo che fa gola a molti

    Diventare “scopritore dell’America”, dunque, è diventato qualcosa di più che rivendicare un titolo di nobiltà. E’, nel mondo globalizzato, affermare la propria centralità planetaria.Questo è il senso dell’intervento di Erdogan, studiato con cura per una importante occasione pubblica. E’ un obiettivo quanto mai appetibile e, come mostra lo specchietto che segue, con tanti aspiranti. Ecco, quindi, l’elenco, temo incompleto, di coloro che si sono proposti come scopritori, con le relative evidenze “scientifiche. Se, scorrendolo, resterete delusi della scarsità delle prove a supporto degli scopritori dell’Antica Roma (un’anfora poi rivelatasi del XVII secolo e un falso, scolpito da uno studente), consolatevi con la recente fatica di  Elio Cadelo, giornalista della Rai, che, con dovizia di citazioni di Virgilio, Tito Livio e tanti altri, sostiene che, avendo l’Impero Romano la capacità di scoprire l’America, l’ha fatto sicuramente.

    Una saga ammonitrice

    Barry Fells è un archeologo marino neozelandese molto utilizzato in questo genere di scritti. La sua prima opera America BC(1976) era stata demolita dagli storici senza pietà. Qualche anno dopo, ha ritentato con Saga America (1980), un libro massiccio, dove si trovano le interpretazioni dei petroglifi del Great Basin, alle quali ho accennato sopra. Anche questa opera, dice David Hurst Thomas, recensendola sul “Journal of California and Great Basin Archaeology”, andrebbe screditata con la stessa severità. Ma, continua, si tratta di un’opera elogiata dalla Casa Bianca, che ha trovato un editore di prestigio e che piace al grande pubblico. Questa diffusione, perciò, ci suggerisce qualche riflessione in più: “Chiunque pensi che gli archeologi dovrebbe adottare una politica di “benigna ignoranza” verso questa archeologia un po’ picchiatella, probabilmente scherza. Libri come questo devono essere un barometro per misurare quanto poco siamo riusciti a spiegare l’archeologia al pubblico americano”.

    Possiamo far nostra anche noi, insegnanti di storia europei, questa conclusione.

  • Il fondamentalismo e l’Islam in Europa. Definizione e diffusione del fenomeno, con qualche riflessione didattica.

    Una ricerca sul fondamentalismo europeo

    Ruud Koopmans, ricercatore nel Dipartimento “Migration, Integration, Transnationalization” del Social Science Center di Berlino"  il più grande centro di ricerca sociale europeo non legato a una specifica università (presieduto fino a poco tempo fa dall’eminente storico tedesco Jürgen Kocka), è autore di una ricerca sul fondamentalismo islamico, presentata al XX convegno degli “Europeanists”, tenutosi ad Amsterdam nel 2013. Si tratta di uno studio di qualche anno fa, beninteso, svoltosi nei paesi nordeuropei. Ne riporto ampi stralci, con qualche mia osservazione, perché può essere utile per discutere, anche fra di noi in Italia, di questo fenomeno sulla base di dati e non solo di opinioni. Al termine, propongo alcune mie riflessioni didattiche. L’originaleè Fundamentalism and out-group hostility. Muslim immigrants and Christian natives in Western Europe .

     

      fondam1

    Fig. 1 Nonostante le convinzioni diffuse, il fondamentalismo non è affatto un movimento esclusivamente musulmano, come illustra magnificamente questa vignetta di David Klein 

     


    La definizione dei dizionari

    Originariamente, è un termine che si riferisce a movimenti religiosi protestanti americani del principio del XX secolo. Secondo i dizionari inglesi (Merriam-Webster e Oxford) è un movimento, o una forma di religione, specialmente musulmana o cristiana, che spinge per una interpretazione letterale dei testi sacri. Tuttavia, si tratta di un termine che solo di recente è entrato nell’uso comune, come testimonia la mia edizione Zanichelli, del 1987, che, semplicemente, non ne fa cenno.
    Oggi, però, si può consultare con frutto la voce della Treccani, particolarmente analitica. Essa parte con la descrizione del fondamentalismo cristiano, informandoci che costituì la base religiosa dell’apartheid sudafricano, passa a parlare di quello ebraico, spiegandone i rapporti mutevoli col sionismo (al principio i fondamentalisti erano in forte opposizione al ritorno in Israele; cambiarono decisamente atteggiamento nel secondo dopoguerra). Poi fa la lunga storia del fondamentalismo islamico, collegato alla reazione araba contro l’ascesa occidentale della fine del XVIII secolo, al movimento salafita della seconda metà del XIX secolo, e, infine, ai fatti più recenti e noti.

     

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    Fig. 2 La “nube di parole” di Fundamentalism, nella rielaborazione artistica di Radiantskies 

     

    La definizione scientifica

    Secondo Altemayer e Hunsberger, Fondamentalismo è “credere che esiste un’insieme di insegnamenti religiosi che contengono chiaramente le verità fondamentali, primarie, intrinseche, essenziali, sull’umanità e la divinità; che a queste verità essenziali si oppongono forze del male che devono essere vigorosamente combattute; che devono essere seguite oggigiorno in accordo con le pratiche fondamentali e immodificabili del passato; e che coloro che credono e seguono questi insegnamenti fondamentali hanno uno speciale rapporto con la divinità.” (Religious fundamentalism scale, 1992, p. 92, tradotto qui )
    Il fondamentalismo non va confuso con l’ortodossia. Secondo Bryan Laythe (et al), questa consiste piuttosto in un particolare modo di considerare le credenze religiose, e va specificata religione per religione (Religious Fundamentalismas a Predictor of Prejudice: A Two-Component Model, in “Journal for the Scientific Studies of Religion”, 2002 ).
    Infine, ma conviene ricordarlo soprattutto ai nostri giorni, Koopmans sottolinea che il fondamentalismo non va assolutamente connesso con la legittimazione della violenza, per difendere o diffondere la propria credenza religiosa. Ne consegue che dobbiamo tenere per ferma la distinzione tra fondamentalismo, terrorismo e jihadismo. Infatti, gli studi sui profili dei terroristi, di cui oggi disponiamo, mostrano giovani in origine poco religiosi, che passano attraverso le fasi della radicalizzazione (rifiuto della cultura occidentale) e della conversione, prima di approdare alla decisione della lotta armata (il jihadismo) e del terrorismo suicida: così Francesco Cascini, un magistrato impegnato nel contrasto al terrorismo, disegna il percorso di formazione dei terroristi musulmani (Il fenomeno del proselitismo in carcere con riferimento ai detenuti stranieri di culto islamico,  pp. 24 ss)

     

    Le ricerche sul fondamentalismo


    Koopmans ci spiega che, fino agli anni ’90 del secolo scorso, gli studiosi si sono occupati principalmente del fondamentalismo cristiano. Hanno messo in evidenza come questo fenomeno sia una sorta di risposta alla secolarizzazione e alla modernizzazione, spesso associata con la marginalizzazione socioeconomica dei soggetti. Questo fenomeno, hanno spiegato ancora questi studi, è in forte connessione con l’autoritarismo dei gruppi di destra, e il rifiuto dei “diversi”, come gli omosessuali e i membri di altre religioni.
    In paragone, il fondamentalismo islamico, aggiunge Koopmans, è stato poco studiato. Ci si è concentrati sulla violenza e le organizzazioni musulmane fondamentaliste. Ma non si è affrontato in generale il rapporto fra gli individui, specialmente gli immigrati e questo aspetto religioso. Inoltre, mancano studi empirici che confrontino il fenomeno musulmano con le altre religioni.

     

    La ricerca in Europa


    La ricerca della quale parliamo si è svolta presso immigrati turchi e marocchini in Germania, Francia, Olanda, Belgio, Austria e Svezia, di prima e seconda generazione. I risultati sono stati comparati con le credenze professate dai “nativi cristiani” e anche confrontati con i dati relativi a coloro che vivono in Marocco e in Turchia. Il metodo seguito è stato quello delle interviste telefoniche. Gli intervistati sono stati 9000. Le domande miravano a stabilire il grado di adesione ad alcune convinzioni, considerate rivelatrici di un atteggiamento fondamentalista. Ecco una prima serie di item:


    - Il credente (musulmano o cristiano) vuole tornare alle radici della propria religione
    - Ritiene che esista una sola interpretazione del proprio libro sacro
    - Sostiene che le leggi contenute nel libro sacro siano superiori a quelle in vigore nello stato in cui vive
    Il confronto tra cristiani e musulmani mostra una forte incidenza di tali convinzioni presso questi ultimi. Ad esempio: oltre il 70% dei musulmani è convinto che esista una sola interpretazione della propria fede e oltre il 60% ritiene che le leggi religiose debbano prevalere su quelle civili (presso i cristiani le percentuali sono contenute tra il 20 e il 10%).

     

    L’ostilità fra gruppi

    Un secondo indizio di fondamentalismo è quello dell’ostilità nei confronti dei diversi. Ecco le affermazioni chiave:


    - Non voglio avere un amico omosessuale
    - Non si può avere fiducia negli ebrei
    - I musulmani (o i cristiani) vogliono distruggere la mia religione (cristiana o musulmana)


    Anche in questo caso, le risposte non lasciano dubbi. Oltre il 60% dei musulmani è intollerante verso gli omosessuali, il 45 % pensa che non ci si può fidare degli ebrei e che i cristiani nutrano la ferma determinazione di distruggere l’Islam. Fra i cristiani le percentuali sono del 13% (omosessuali), del 9% (ebrei) e del 23 % (musulmani).

     

    Possibili spiegazioni


    Gli alti livelli di fondamentalismo e di ostilità verso gli altri gruppi, riscontrati presso i credenti islamici in occidente, sono oggetto di diverse spiegazioni. Koopmans le elenca e le valuta così:


    - Marginalizzazione e esclusione sociale? No. L’educazione e il lavoro spiegano qualche variazione tra cristiani e musulmani, ma non la grande differenza riscontrata nella ricerca.

    - Alienazione e stress da acculturazione? No. I livelli di fondamentalismo sono molto simili a quelli riscontrati nelle terre di origine degli immigrati

    - Minori diritti religiosi dei musulmani in Europa occidentale? No. Non vi è una chiara correlazione tra le politiche di inclusione e il fondamentalismo.

    - Caratteristiche insite della religione islamica? No. Molti musulmani sunniti o alauiti hanno idee simili alla religione cristiana e non nutrono ostilità verso altri gruppi. E’ vero, però, che questi non sono considerati dai loro correligionari come “buoni musulmani”.

     

    La discussione


    Come tutte le ricerche, anche questa ha sollevato un dibattito e delle obiezioni. Si è criticato, ad esempio, il metodo delle interviste telefoniche, il concetto di “nativi cristiani”, il fatto che il campione sia limitato agli immigrati marocchini e turchi, laddove il mondo musulmano è molto più vasto e variegato. Si sono citate, infine, altre ricerche (in Spagna e in Germania) dalle quali risulta che i musulmani sono meno “occidentalofobi”, di quanto non appaia dallo studio di Ruud Koopmans .
    Più dettagliate, le critiche di Martjins  riguardano – fra l’altro - il campione selezionato e lo stesso questionario utilizzato. Ma non mettono in dubbio un elemento: quello della vastità del fenomeno presso il mondo musulmano e la sua ostilità diffusa verso “diversi” e “occidentali”. Martjins, però, è un antropologo. Il suo punto di vista si discosta da quello dello “studioso della teologia”, come definisce Koopmans. Egli parte – dice – esattamente da dove il collega termina, per interrogarsi sul modo con il quale le persone mettono in pratica le loro credenze, come le vivono e come le interpretano nella vita quotidiana. Sono persone, dice ancora, che vivono in un ambiente (il nord Europa) che ha conosciuto perfettamente il razzismo e l’odio verso gli altri e che può testimoniare quanto – nonostante gli sforzi di oltre mezzo secolo di “pedagogia pubblica” – sia difficile liberarsene.
    A corroborare questo argomento, si ricorda – sempre nella discussione in rete delle tesi di Koopmans - la grande diffusione, negli Usa, di alcune convinzioni, tipiche del fondamentalismo. Per esempio, la fede nell’interpretazione letterale del testo sacro ha, presso gli americani cristiani, una dimensione pari a quella musulmana americana, e comparabile a quella rilevata in Europa da Koopmans nell’ambiente musulmano.
    Bisogna infine tenere presente, questa è la conclusione di Koopmans, che i musulmani sono una minoranza in Europa, mentre, se considerata nei numeri assoluti, la diffusione di atteggiamenti fondamentalisti presso i nativi europei è impressionante. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, chiude il ricercatore citando una massima apprezzata da entrambe le religioni.

     

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    Fig. 3 Il grafico del Manos (un istituto che studia gli orientamenti dei musulmani in America, collegato con la Stanford University) mostra come la convinzione sulla letteralità della parola divina (uno degli indizi del fondamentalismo) sia abbastanza equamente ripartita fra cristiani e musulmani americani.

     

    Revisione di un’agenda interculturale datata?


    Il quadro mi sembra avere due elementi certi: il fondamentalismo, fenomeno già non marginale nel mondo occidentale, oggi si manifesta in modo imponente nelle minoranze musulmane. All’interno dell’universo fondamentalista operano soggetti politici e culturali - a volte ben strutturati, a volte informali - che, come sperimentiamo quotidianamente, inondano la rete di messaggi, di conoscenze sul passato e sulla contemporaneità, e lavorano attivamente sia nel campo sociale che in quello politico.
    Questi elementi dovrebbero essere sufficienti per ridiscutere una pedagogia interculturale che, elaborata (almeno per quanto riguarda l’Italia) nelle fasi aurorali del movimento migratorio attuale, era centrata principalmente sul problema dell’accoglienza (un tema, evidentemente, che resta comunque all’ordine del giorno). Il nostro compito, lo sintetizza così Brunetto Salvarani, parlando della scuola di fronte all’Islam, è quello di elaborare una pedagogia “mite, accogliente e narrativa” (L’Islam nella scuola, a cura di I. Siggillino, Franco Angeli 1999, p. 18). Le linee di questa pedagogia erano ben tracciate (e in qualche modo consolidate sulla falsariga della più generale “pedagogia dell’incontro”): analisi dei manuali; ricerca di buone pratiche; valorizzazione della cultura musulmana, e così via.
    La manchevolezza di questo approccio può essere visto in quel “riduttivismo culturalista”, secondo il quale, ciascuno di “noi-altri” è definito da una “cultura”. Di qui segue l’idea che il compito della scuola consista nel salvaguardare “le culture” e favorire la loro pacifica coesistenza. Un errore frutto, in buona sostanza, di quell’abuso del concetto di “cultura”, denunciato – per quanto riguarda il nostro paese - da Marco Aime (Eccessi di cultura, Einaudi 2004 ).
    Questo assunto culturalista è riduttivo, perché non tiene conto del fatto che il “fondamentalismo” propone un approccio al mondo (moderno e passato) che non è un “aspetto di una cultura popolare”, ma, al contrario è un prodotto intellettuale sofisticato, elaborato esplicitamente da soggetti di varia appartenenza etnica o religiosa. Non tiene conto del fatto che il compito della scuola è quello di avvicinare i giovani al sapere disciplinare, formarli attraverso il suo apprendimento e di fornire qualche strumento per contrastare, di conseguenza, le tante pseudoscienze circolanti. Non tiene conto del fatto che, al centro della riflessione didattica dovremmo sempre mettere il sapere che circola a scuola - i contenuti, gli obiettivi e le pratiche del suo insegnamento - e chiederci se questo ci mette in condizione di rielaborare i problemi che affrontiamo in classe.

     

    Antidoti storici

     

    L’esaltazione del ritorno alle origini o della interpretazione letterale del testo, per ricavare un esempio dai temi fondamentalisti, tirano in ballo alcune questioni disciplinari centrali nella storia e nelle discipline umanistiche: il mito delle origini, come denunciato da Marc Bloch; oppure l’intero armamentario che la filologia ha approntato, da un paio di secoli a questa parte, relativo ai temi della tradizione e interpretazione dei testi. La “vittimizzazione” è un nervo scoperto nei rapporti fra stati e comunità odierni, non solo un cavallo di battaglia del fondamentalismo. In passato ha fornito la trama narrativa di tutti i racconti nazionali, che, quindi, possono diventare una palestra formidabile nella quale esercitare le proprie capacità critiche.


    Il racconto fondamentalista islamico non chiama in causa solo approcci e modalità di ragionamento. Esso rende sensibili alcuni fatti del passato - dalla conquista islamica, alle crociate, allo schiavismo, alla colonizzazione e alla decolonizzazione - che quindi vanno ripresi e aggiornati, storiograficamente come didatticamente. Uno degli snodi della ricostruzione fondamentalista della storia consiste nello spettacolare declino del mondo islamico, dopo i fasti dell’età medievale. “Colpa dell’Occidente!”, è il mantra islamista. E’ proprio così? la ricerca storica attuale fornisce risposte ben differenti (per queste rimando aLa Méditerranée. Une histoire à partager, a c. di M. Hassani Idrissi, Bayard 2013).
    Infine, il fondamentalismo, essendo un fenomeno esploso negli ultimi decenni, obbligherebbe il docente che voglia aiutare gli allievi a capirne qualcosa, a considerare attentamente il fenomeno della globalizzazione.

     

    Eurocentrismo e storie autocentrate


    Nella vulgata interculturale, uno dei temi più accorsati è quello della critica all’eurocentrismo. Certamente, i manuali e i programmi occidentali non sono esenti da questo vizio scientifico. Ma un buon ragionamento interculturale non può non tenere conto del fatto che la visione “autocentrata” del passato è ormai comune ad ogni stato, e ne pervade, quindi, i discorsi politici e le ricostruzioni storiche. Questo fa sì che non esista un allievo straniero “storicamente ingenuo”, potenziale vittima, perciò, del nostro eurocentrismo. E’, anche lui, più o meno consapevolmente, un portatore di arabo-indo-sino-slavo-afro-centrismo. Osservato da questa angolazione, il fondamentalismo è una ricostruzione ossessivamente autocentrata del mondo.
    Se questa è la situazione generale, la prassi del “mettere a confronto le culture” mostra tutta la sua inutilità. Non si ottiene un buon risultato sommando o smussando visioni che sono in principio sbagliate. Occorre superarle sia attivando un approccio critico nei confronti del proprio sguardo sul mondo, sia proponendo una visione del passato nella quale tutti i soggetti si possano riconoscere come attori, quale che sia la loro origine familiare. Un passato mondiale, dunque. Il “noi”, oggi, è “presente e percepibile alla scala mondiale”, come dichiararono Nicole Lautier e Henri Moniot, due punti di riferimento della ricerca storico didattica internazionale, chiudendo un seminario sull’ “incontro fra le storie”, tenutosi a Rabat al principio di questo secolo (Penser “nous”, penser “les autres”, in Rencontre de l’Histoire et rencontre de l’autre. L’enseignement de l’histoire comme dialogue interculturel, a cura di M. Hassani Idrissi, in « Horizons universitaires », 2007, p. 416).
    In sostanza: nell’officina storico-umanistica ritroviamo una notevole quantità di “antidoti” al modo fondamentalista di conoscere e di raccontare il mondo. Oggi, potremmo dire, è venuto il momento di farli funzionare.

     

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    Fig. 4 I cattivi rapporti tra fondamentalismo e evoluzionismo

     

    L’evoluzione è una spia


    Tuttavia, non tutto si risolve nel dialogo fra allievi e professori, proprio perché non ci troviamo di fronte a “culture”, ma ad organizzazioni sociali. Lo intuiamo osservando la questione dell’evoluzione. Da noi se ne parla in terza elementare e in prima superiore. Occorrerebbe riprenderla alla fine del percorso formativo, dal momento che è diventata un tema sensibile, al confine tra scienza, filosofia, storia e religioni. I fondamentalisti di ogni colore, infatti, fanno della lotta al darwinismo un tratto distintivo. Il fondamentalismo islamico non è da meno. Lo testimoniano i numerosi libri dello scrittore turco Harun Yahya, le cui costosissime traduzioni italiane sono ben sostenute dalle comunità islamiche nazionali. In uno di questi - L’inganno dell’evoluzione. Il fallimento scientifico del darwinismo e del suo bagaglio ideologico, che nella sua bibliografia “scientifica” si rifà interamente a lavori fondamentalisti cristiani, trovo l’affermazione che gli attentatori delle Twin Towers sono dei darwinisti, perché i veri “ebrei, cristiani e musulmani” non possono essere terroristi (p. 15).
    In realtà, questo tema deve essere già stato affrontato nelle classi italiane, tanto è vero che qualche allievo musulmano chiede aiuto in rete. La rispostadel sito islamico mette in luce un risvolto della questione, che la pedagogia tradizionale non avrebbe mai sospettato, e che ci suggerisce ancora una volta di rivedere l’approccio interculturale sotto una luce “non culturalista”: “Personalmente ti consiglierei di evitare di fare lunghe polemiche con i tuoi insegnanti su questo argomento: studiala come una semplice teoria che i kuffar [gli infedeli] hanno inventato per cercare di darsi una spiegazione dell'esistenza della vita e di tutto ciò che esiste intorno a noi, e quando ti interrogano al riguardo riporta semplicemente quella che è la loro teoria; tra qualche anno non ne sentirai più parlare (a scuola, visto che il programma va' avanti; e magari nemmeno altrove)! :-)”

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