memoria

  • “La storia con la memoria”. Appunti sul rapporto fra storia e memoria

    Autore: Antonio Brusa

     

    Indice

    1. Nebraska
    2. Storia con memoria
    3. La dimensione individuale della memoria
    4. La dimensione sociale della memoria
    5. La dimensione storica della memoria
    6. La memoria conflittuale
    7. La memoria selettiva

     

    Interno del Caffè Nebraska, a Madrid

     

    1. Nebraska
    Nebraska è un caffé di Madrid, luogo di ritrovo di un piccolo gruppo di studiosi di didattica, troppo radicali per essere amati dall’accademia pedagogica, troppo impegnati e bravi per non essere conosciuti e letti dagli insegnanti che ci tengono al loro mestiere. In omaggio a quel bar, il gruppo si chiama Nebraska. La loro guida è Raimundo Cuesta.

     

     

     

    L’ho conosciuto venti anni fa, in una summer school di Valencia, organizzata da Rafael Valls, che vi insegna storia contemporanea e didattica della storia. Mi impressionò per la profondità culturale con la quale leggeva le questioni didattiche. Ha scritto un’opera che considero fondamentale, Sociogenesis de una disciplina escolar: la historia,nella quale racconta come si è formata la “disciplina storia”. Usa, come fonti, i programmi, i testi storici e didattici, i libri di testo, ma anche l’aula e il suo arredo (la cattedra, i banchi, la bandiera, la carta geografica e il crocifisso alla parete). Questo gruppo pubblica da quasi venti anni una rivista “Con-ciencia social”,  nella quale affronta le questioni di fondo dell’insegnamento storico e, soprattutto, promuove quella che il gruppo chiama “pedagogia critica”. Qui potete leggere il suo editoriale

     

    Con questo titolo/slogan, quegli studiosi (tutti professori di scuola e, al tempo stesso, ricercatori apprezzati) sostengono che una buona didattica deve studiare gli aspetti pedagogici e psicologici, le questioni storiche e storiografiche, alla luce dell’analisi approfondita del contesto sociale e storico, nel quale si realizza il lavoro scolastico. E, siccome sono radicali, sostengono che la pedagogia o è critica, o è malapedagogia.

     

    Leggo con avidità i loro scritti. Non sempre sono d’accordo, ovvio (mi sembra che a volte si divertano a fare gli estremisti). Ma quello che scrivono mi obbliga a pensare e mi allarga la mente, quasi sempre. Così ho pensato di condividere con i lettori di HL gli appunti che ho preso da un articolo di Raimundo su un tema che tutti consideriamo fondamentale, quello del rapporto fra storia e memoria. Il testo che segue, dunque, è un collage di frasi e di sintesi. Come tale non potrà essere attribuito al collega spagnolo, al quale chiedo scusa per la mia infedeltà, ma nemmeno a me, che in larga parte ricopio, sintetizzo e interpreto. Questo lavoro parte dalla critica con la quale oggi si imposta la questione del rapporto fra storia e memoria. Molti, soprattutto i gestori della politica, puntano sulla memoria a danno della storia. Ce ne siamo accorti noi italiani, che abbiamo visto negli ultimi anni diminuire le ore di storia e incrementarsi le giornate della memoria. Altri, soprattutto fra gli storici (e io mi metto fra questi) mettono in rilievo la differenza che esiste fra storia e memoria, la loro opposizione, e sottolineano, di conseguenza, il dovere dello storico di “criticare la memoria”. Raimundo Cuesta propone una “storia con memoria”. Dice che questa è utilissima nell’apprendimento e che, anzi, la relazione stretta fra storia e memoria è un ingrediente essenziale di una “pedagogia critica”, strumento vitale di una società democratica.

     

    2. Storia con memoria

    Scrive Cuesta che un errore della pedagogia della memoria è quello di presumere che esista una “buona memoria” e una “cattiva memoria”, e immaginare che il compito dell’educatore sia quello di scoprire la prima e sradicare dalla testa degli allievi la seconda. Questa concezione “reificata” della memoria deriva da una mescolanza di dogmatismo storico politico e di ingenuo idealismo pedagogico. Essa promuove la costruzione di una memoria comune e consensuale, una sorta di impiastro benintenzionato dalle virtù taumaturgiche e terapeutiche, capaci di guarire le ferite  che il passato ha inferto al tessuto sociale.

    Queste ferite, però, non sono soltanto la conseguenza di esperienze vissute, ma sono anche il prodotto di situazioni storiche, che, anche quando non sono state vissute, vengono ricordate collettivamente. Esse, trasmesse di generazione in generazione, si incarnano nella vita degli individui.

    La storia, quindi, trova nella memoria una sorta di palestra critica che è importante saper utilizzare in una strategia di formazione alla democrazia. Naturalmente, chi voglia approfondire l’argomento, deve ricorrere al testo originale di Cuesta (citato in fondo). Qui riporto, a uso degli insegnanti, i cinque aspetti strategici nella memoria. Ne riassumo le caratteristiche essenziali e le piste di riflessione pedagogico/didattica che possono aprire.

     

    3. La dimensione individuale della memoria

    Da un certo punto di vista estremo, la memoria è solo individuale. Un’espressione come “memoria storica” è un ossimoro, un’autentica contraddizione in termini. Ora, il soggetto è un sistema risultante di un amplissimo ventaglio di “ego”, costruiti in contesti/ambienti molto vari. Il mio “io attuale” è il frutto di questa lunga e variegata interazione.

    Poste queste premesse, il compito educativo potrebbe essere quello di costruire situazioni di apprendimento a partire dalla elaborazione della propria autobiografia, per passare al confronto fra autobiografie, alla realizzazione di inchieste sulla vita personale degli individui. Questa riflessione – sulla propria memoria e sulla memoria degli altri, potrebbe permettere una straordinaria operazione: “distanziarsi dal soggettivo attraverso la soggettività”. Si comincerebbe, in questo modo, a comprendere quanto le memorie individuali siano debitrici di una “filiazione reificata e ideologica della vita sociale”. Si imparerebbe, attraverso questo lavoro, a svelare la falsa tra speranza dei ricordi. Si imparerebbe a coniugare il piacere estetico di raccontarsi con il vaglio critico, alla ricerca delle relazioni reali fra soggetto e società.


    4. La dimensione sociale della memoria

    In questo campo, il riferimento a Maurice Halbwachs è obbligatorio. Secondo lo storico francese, “la memoria è un ente sociale costruito attraverso le interazioni fra i gruppi sociali, la cui gestazione e manifestazione può essere conosciuta con i metodi delle nuove scienze sociali”. In questa opzione interpretativa, il “politico” entra prepotentemente nella costruzione della memoria sociale, dal momento che questa memoria è uno strumento essenziale per la tenuta della collettività. Osservata da questo punto di vista, la memoria individuale, che prima avevamo considerato nella sua dimensione narrativa e quindi continua, si frammenta in un complesso a volte caotico di rappresentazioni variamente vincolate al genere, alla classe sociale, alla identità etnica, politica religiosa ecc.

    Una didattica critica, in questa dimensione, non può che lavorare a mettere in rilievo il marchio di provenienza dei diversi ricordi.

     

    5. La dimensione storica della memoria

    E’ un aspetto specifico (e interessante) della dimensione sociale. Si riferisce al fatto che la memoria non è mai fissa, ma è un flusso indistinto e mobile, in costante divenire. E’ un enciclopedia di racconti e di rappresentazioni sempre  suscettibile di interpretazioni. Questa dimensione storica della memoria ci avverte che non possiamo limitarci a studiare il passato in quanto tale, ma occorre comprendere le forme in cui questo passato è stato tramandato fino a noi. Una dimensione essenziale per la comprensione del presente, perché il passato non è un oggetto che è presente fra di noi per una sua certa inerzia (perché c’è e basta). Al contrario è qualcosa che costruiamo ogni volta che lo evochiamo nel presente. Perciò, dall’analisi del modo con il quale pensiamo il passato, noi possiamo scoprire la mitogenesi dei valori dominanti nell’attualità.

    Da questo punto di vista, lo studio scolastico di quei momenti che, J. Aròstegui chiama “I momenti matrice della storia di un paese” (come la guerra civile per la Spagna, ma per noi potrebbe essere la Resistenza o Mani Pulite) implica un certo dovere di memoria. Spinge a osservare le interazioni fra la ricostruzione storica e la memoria, e favorisce la nascita di una coscienza storica e di un’educazione alla democrazia dentro lo spazio pubblico scolastico. Al dire di Walter Benjamin, questo studio permette di fondere il passato assente con il presente, per immaginare il futuro.


    6. La memoria conflittuale

    Il ricordo del passato non è univoco. Il ricordo del passato si realizza sempre in un campo di forze. Ancora Benjamin ci aiuta a comprendere la memoria come uno spazio di tensioni contrapposte che riguardano sia il passato, sia il presente, ma soprattutto il futuro: perché è questo essenzialmente che interviene quando problematizziamo il presente e ci rivolgiamo al passato. Questo campo di forze impedisce in modo definitivo la costruzione di una memoria consensuale.

    La finalità educativa dell’insegnamento della storia non è quella di condurre, attraverso il dialogo e la deliberazione habermasiana, a un consenso basato sulla forza dell’argomento più convincente, ma, se seguiamo la posizione critica di Benjamin, l’aspetto pedagogico risiede nella impossibile concertazione delle memorie. Inoltre, la dimensione educativa della storia non risiede nell’insegnare agli allievi una storia che sia la media di tutte le interpretazioni, una “buona memoria” che sia il frutto di una conformità uniforme. Al contrario lo scopo fondamentale è quello di interpretare la memoria come un conflitto, come un problema senza lieto fine. Qui si vede l’apporto principale che l’uso pubblico della storia da nel campo di una didattica critica, in una società che aspira a costruire luoghi e spazi di pratiche democratiche, libere dalle logiche funzionali delle democrazie di mercato. Non dobbiamo aver paura del conflitto fra le interpretazioni del passato. Questo, anzi, è un dato positivo se lo vediamo nella prospettiva della formazione critica degli allievi.


    7. La dimensione selettiva della memoria

    Un atto di memoria individuale implica immediatamente un atto di oblio. Fernando Pessoa diceva che “ricordare è dimenticare”. Lo stesso accade nella vita sociale. E il desiderio di ricordare tutto non può che essere una patologia, come si mostra in Funes el memorioso, il celebre personaggio di Borges che aveva la facoltà/dannazione di non dimenticare nulla.

    Per definizione, la educazione critica contiene una volontà di discernere e di discriminare. Per tanto, essa invita sempre a praticare l’accurata arte di separare, scegliere e selezionare.  Occorre riflettere che questa attività dipende direttamente dal desiderio (è ciò che vogliamo, quindi il nostro futuro, che ci suggerisce cosa selezionare). Ogni ricordo cosciente, dunque, implica una ricerca di qualcosa che previamente abbiamo pre-sentito, intuito o desiderato sapere. Insomma, la didattica critica è selettiva e educa al desiderio attraverso la memoria. Di tale esmeraldo cultivo trata la historia con memoria, ossia il desiderio del futuro e il futuro del desiderio.

    E se a questo punto vi è venuto il desiderio di leggerlo direttamente, ecco l’articolo dal quale ho preso questi appunti: Raimundo Cuesta, La “Storia con Memoria” y la didattica critica, in “Con-ciencia social”, 15, 2011, pp. 15-30.

  • A lezione di Mediterraneo. Didattica della storia e cittadinanza digitale

    Fabio Fiore

     

     A lezione di Mediterraneo. Didattica della storia e cittadinanza digitale con gli EAS

     

    Una lezione di storia del Mediterraneo che propone un cambiamento dei ruoli in classe e rinnova l'approccio ai contenuti, puntando all'acquisizione di competenze di cittadinanza.

     

     

     

    Le domande

     

     Come possiamo noi docenti di storia gestire oggi una disciplina ormai ipertrofica – «la conoscenza storica nella nostra epoca è enorme, è in ogni luogo e spesso mi sono sentita disorientata», tenere il passo di un sapere in continua espansione e di una ricerca sempre più staccata dalla mediazione scolastica? Come mettere in prospettiva storica un’attualità incalzante e appiattita sul presente, dando «senso a questioni disciplinari importanti e attuali»? A quali condizioni il fare storia a scuola può competere con le narrazioni, le mediazioni, gli usi che di essa fanno i media, raggiungere una generazione per cui la storia è «un inutile elenco di date e eventi» e il cellulare il principale veicolo di informazione storica? L’insegnamento della storia può ancora assolvere a una “funzione civile” o deve rassegnarsi alla definitiva marginalità?

     
    Il libro e la proposta

     

     In Fare storia con gli EAS. A lezione di Mediterraneo nella scuola secondaria di II grado  (Morcelliana - Els, Brescia 2016, pp.192), Enrica Bricchetto – storica di formazione, Media Educator di lungo corso e insegnante di storia – risponde a tali domande con inusuale concretezza e determinazione quasi feroce. Il lettore vi troverà innanzitutto il racconto di una crisi professionale e dei molteplici tentativi di uscirne – «Ho scritto questo libro come se fossi io a leggermi, insegnante impegnata in una riflessione continua sui necessari cambiamenti della didattica e della storia. Oppure come se l’avesse scritto chi crede fino in fondo nel suo lavoro e azzarda senza sosta una risposta ai problemi che incontra … Ho sempre desiderato avere davanti agli occhi una mappa che indirizzasse il mio intervento 1». Vi troverà poi e soprattutto una proposta operativa articolata su due piani: da un lato, di un nuovo dispositivo professionale (“Episodi di Apprendimento Situati”, EAS, appunto), elaborato da Pier Cesare Rivoltella e dal suo Centro di ricerca dell’Università Cattolica di Milano (il CREMIT)2, qui applicato all’insegnamento della storia; dall’altro, di un tentativo – per me, lo dico subito, largamente riuscito – di innestare tale dispositivo sul tronco della didattica della storia, da noi essenzialmente legata al lavoro di Antonio Brusa e di Ivo Mattozzi. Sullo sfondo, l’idea forte che la funzione civile della storia debba oggi declinarsi in termini di educazione alla cittadinanza digitale.

     

     

    Eas: un nuovo dispositivo scolastico

     

     Scopo del libro è presentare «un EAS al microscopio», «completo di tutto», «chiavi in mano», realizzabile dall’insegnante «con pochi adattamenti», costruito a partire dall’articolo del medievista David Abulafia, Tremila anni di mare nostrum3.

     

    fig. 1 L'articolo uscito sulla "Domenica" de "Il Sole 24 ore" il 20 marzo 2016

     

    E, insieme, indicarne il valore paradigmatico e la riproducibilità per qualsivoglia tema altrettanto sensibile sotto il profilo storico, mediatico e dell’attualità politica. Nei primi due capitoli il lettore troverà «una descrizione minuziosa» della struttura dell’EAS, tesa a «giustificarne ogni passaggio» 4. Qui posso limitarmi a sottolineare alcune caratteristiche generali, di fondo.

     

     

    La lezione a posteriori

     

     Innanzitutto, nella lezione tradizionale, l’insegnamento coincide con la lezione stessa: l’insegnante eroga l’informazione e delega la sua appropriazione da parte dello studente al lavoro domestico, ai compiti a casa. Nell’EAS, al contrario, l’acquisizione delle informazioni viene anticipata e, sotto la regia dell’insegnante, affidata agli studenti, in classe e/o a casa; la fase dell’appropriazione si svolge rigorosamente in classe, insieme ai compagni e con il sostegno del docente; soltanto a questo punto, preceduta da un momento condiviso di riflessione (il c.d. “debriefing”), la lezione può chiudere il processo. Insomma, l’insegnante parla dopo, alla fine; prima fa e fa fare. Di qui, la particolare struttura dell’EAS in tre fasi distinte (preparatoria, operatoria, postoperatoria). Come si può vedere, si tratta di una messa in forma del principio della “lezione a posteriori” di Freinet 5.

     

     

    fig. 2 - Il format dell'EAS

     

     Laboratorium vs Auditorium

     

     In secondo luogo, se la scuola tradizionale è una sorta di “Auditorium”, in cui esperti di ogni settore dello scibile, senza soluzione di continuità,  si avvicendano ora dopo ora in una serie di “conferenze stampa”, l’EAS prova a trasformarla in un “Laboratorium” di attività diverse ma interconnesse, che coinvolgono non solo gli studenti ma gli stessi docenti. Ad ogni precisa azione dell’uno corrisponde un’azione altrettanto precisa dell’altro. Ad esempio, nella fase preparatoria di questo specifico EAS sul Mediterraneo, il docente dovrà: prevedere qualcosa che anticipi il lavoro in classe (qui il testo di Abulafia); istruire il lavoro futuro con un breve framework concettuale; sollecitare l’immaginazione con uno stimolo ad hoc (qui, un video-stimolo)6.

    Lo studente dovrà a sua volta: a casa, selezionare le informazioni principali del testo e schematizzarle in un’infografica; fissare le date principali e collocarle in una linea del tempo con un’apposita applicazione digitale; guardare e schedare un documentario collegato a quel testo7; in classe: prendere appunti sul framework, esprimere le prime impressioni, gustarsi il video. Solo a questo punto il docente darà la consegna della fase operatoria, anche questa da realizzare in classe8.

    Non meno dettagliato è l’elenco di attività previste per le fasi successive9,  nel quadro di una tempistica precisa (un EAS deve potersi svolgere nell’arco delle due ore). Anche qui vi è una forte discontinuità tra il fare lezione tradizionale o con gli EAS:  se nel primo caso la programmazione è spesso una routine di “copia e incolla” e viene lasciato grande spazio all’improvvisazione del docente più o meno esperto, nel secondo si esige al contrario una “capacità di governo” molto più analitica, precisa e rigorosa, in tutte le tre fasi del processo. Pertanto, il carico di lavoro viene completamente ridistribuito: in classe lavorano soprattutto gli studenti, il docente lavora soprattutto prima e dopo, in sede di progettazione e di “design”10.

     

    Fig. 3  - La classe al lavoro

     

     

    EAS e alfabeti digitali sono isomorfi

     

     In terzo luogo, anche se l’autrice non si stanca di ripetere che, in caso di «zero tecnologia a scuola», possono bastare «lavagna di ardesia e gessetti», non vi è dubbio che il digitale costituisca il punto di forza del dispositivo. Non solo perché le piattaforme disponibili online consentono uno sviluppo organico di quella volontà di condivisione – di materiali, esperienze, punti di vista – che di per sé lo caratterizza («un EAS come quello sul Mediterraneo non può fare a meno di una comunità classe che abbia relazione in presenza e a distanza»). Non solo perché la rete offre una miriade di applicazioni capaci di potenziare enormemente ogni singola attività di ciascuna fase dell’EAS (e il libro dedica pagine minutissime all’illustrazione di ogni sorta di “app” e ai loro possibili usi).

    Ma anche e soprattutto perché presenta caratteristiche isomorfe con quelle degli alfabeti digitali: è in grado di ospitare linguaggi diversi, sistemi diversi di rappresentazione del sapere (è multimediale); di moltiplicare i punti di accesso al sapere consentendo a ognuno lo stile cognitivo e percettivo che gli è congeniale (è multimodale); di passare da un linguaggio a un altro, da un medium a un altro e dunque di connettere insiemi di competenze diversi, di ricomporli, per così dire, in “un intero” (è transmediale).

    E’ precisamente tale plasticità a fare dell’EAS «un ponte effettivo tra quello che lo studente ha studiato e il suo mondo» che, come il nostro, è incessantemente mediato da dispositivi digitali. Su questo aspetto cruciale del libro tornerò tra poco.

     

    Fig. 4 - La schermata di consegna dell'EAS Mediterraneo in Google Classroom (p. 23)

     

     

    Una valutazione incorporata

     

     Va da sé, infine, che l’EAS richieda una valutazione capace di osservare l’allievo «mentre lavora, e in fasi e in momenti diversi», che sia «incorporata nello svolgimento delle attività», e la definizione di indicatori precisi e testati empiricamente; qualcosa di meno generico e monocorde delle griglie a cui noi docenti siamo soliti ricorrere per giustificare un voto.

     

     

    Didattica della storia e educazione alla cittadinanza

     

    «L’EAS Mediterraneo ha dietro di sé una riflessione non solo metodologica, ma anche di didattica della storia». Il suo debito verso la didattica della storia è duplice. Da un lato, il tipo di approccio al passato, il paradigma storiografico: «la storia meticcia» della Connected History come antidoto all’etnocentrismo; una scelta di fondo, che orienta la selezione dei contenuti e la costruzione del curriculum di storia. Dall’altro, un modello forte di «trasposizione16» del sapere esperto in sapere insegnato che muove dalla prospettiva del destinatario, privilegiando «le questioni socialmente vive» (Heimberg17) e «gli studi di caso» (Brusa18); passa per la “essenzializzazione” della disciplina nei suoi «nuclei fondanti», nei «nodi epistemologici»; e punta a concludersi con la diffusione della capacità «di lettura del mondo», di ragionare storicamente, di collegare passato e presente19.

    Detto in modo sbrigativo, per la didattica della storia il bisogno di fare storia a scuola è cognitivo più che identitario: serve a costruire competenze più che a suggerire appartenenze. Ed è precisamente in ciò che consiste la sua “funzione civile”, specie in un’epoca smemorata e “poststorica” come la nostra.

     

     

    Nativi digitali

     

     Ora, nel suo lavoro, Bricchetto incorpora senza riserve tutto questo ma lo spinge in una direzione che la generazione dei didatti della storia poteva tutt’al più presagire ma non certo prevedere, non nei termini odierni: la digitalizzazione integrale del nostro rapporto con la storia e con la memoria20

    In un passo toccante del libro, ci invita a osservare una classe standard dell'I.I.S. di Torino in cui lavora: adolescenti di provenienze geografiche e culturali diverse, che «a scuola portano con sé mondi» integralmente mediati da dispositivi digitali – «collettore di tutto», «protesi», «base di relazioni», «come se li indossassero, anzi: parte del loro corpo». Esattamente come i loro genitori! La sola differenza è che i figli «non hanno conosciuto altri mondi» .

     

     

    Il bisogno di storia nell'epoca digitale

     

      La tesi di fondo del libro è che in questi mondi non venga meno il bisogno di storia, ma si manifesti semmai in forme inedite, più implicite, elusive: il bisogno di un’ermeneutica della rete, ad esempio – «evitare agli studenti generiche ricerche in rete» da cui attingono un’informazione fatalmente parziale e frammentaria, ma fornire al contrario «luoghi precisi», «archivi simulati», criteri di rilevanza e di contestualizzazione22, strumenti per «guardare alla infosfera, all’ecosistema delle informazioni in cui siamo immersi23»; il bisogno di “recuperarla” ovunque si celi  – «dietro a ciascuna forma di narrazione c’è un’idea di passato e una proposta di interpretazione24» – e di comunicarla in formati diversi – «per interessare, per rendere umana la storia»; il bisogno di nuove forme di trasposizione – «la rete moltiplica i contenuti» ma affinché «si trasformino in conoscenza storica sono necessarie competenze sia di interpretazione e disciplinari,  sia delle caratteristiche delle fonti e del mezzo … un film, una fotografia, una lettera raccontano in modi diversi: è questa azione di interpretazione e di ricerca, durante la quale lo studente si pone domande e cerca risposte, a realizzare la trasposizione25»...

     

     

    Un modello di educazione alla cittadinanza digitale

     

     In buona sostanza, è il «bilinguismo»26, la caratteristica di combinare competenze disciplinari e media educative (nel linguaggio della Media Education, di Media and Information Literacy27), a fare dell’EAS uno strumento non solo «in grado di potenziare la didattica disciplinare28», ma anche di trasformarla in «cultura storica». Pertanto, non ci si lasci ingannare dall’eufemismo del titolo: A lezione di Mediterraneo, non è solo la proposta di un’unità didattica per quanto metodologicamente innovativa, ma di un vero modello di educazione alla cittadinanza digitale, in grado di coniugare il sapere esperto (disciplinare) con il sapere insegnato (didattica della storia) e, unitariamente, con la mediazione dei media (Media Education).

     

      fig. 5 - Che Mediterraneo sia ,canale YouTube di Eugenio Bennato (p.49)

      

    Basta farlo

     

     Un’ultima cosa: qua e là sembra affiorare l’esigenza di rassicurare il docente-collega-lettore: «Chi legge potrebbe anche pensare che costruire un EAS richieda molto tempo, o troppo tempo. Un po’ di tempo lo richiede, in effetti, come di solito preparare le lezioni. Tuttavia i docenti hanno a disposizione molti elementi già pronti – provenienti dalla  propria esperienza culturale – da mettere nel cantiere EAS e, contando sulla collaborazione dei colleghi, possono creare un archivio da riutilizzare. Nessuno deve spaventarsi: la confidenza e la pratica con il metodo rendono il docente di giorno in giorno più veloce ed efficace29».

    E’ il solo punto su cui dissento: il principale obiettivo di un EAS è, al contrario, «destabilizzare, mobilitare, rendere un po’ più incerte le sicurezze che il docente si è formato nel tempo e attraverso ciò creare le condizioni affinché possa tornare sulle sue pratiche dal punto di vista riflessivo e predisporsi al cambiamento30». Il che non toglie nulla a questo libro urticante e prezioso, anzi: dimostra in concreto che fare storia in modo diverso è sì necessario e doveroso, ma soprattutto possibile e praticabile, ad un passo. Basta farlo.

     

     

    Note

      

    p.6

     Il lungo lavoro collettivo di gestazione del dispositivo EAS è raccolto in tre volumi di Pier Cesare Rivoltella: Fare didattica con gli EAS. Episodi di Apprendimento Situati, Brescia, La Scuola, 2013; Didattica inclusiva con gli EAS, Brescia, La Scuola, 2015; Che cos'è un EAS? L'idea, il metodo, la didattica, Brescia, La Scuola, 2016.

     pp.11 e sgg.

     4  Il primo capitolo «esplicita per intero la progettazione dell’EAS, con le sue specificità e finalità educative»; il secondo presenta «le tre  fasi del metodo, con le precise azioni da compiere in classe (compresa una parte dedicata all’uso delle app nella prospettiva di un allargamento del ventaglio delle competenze da costruire)».

     5 Cfr. la postfazione di P.C. Rivoltella, La lezione a posteriori, al libro di Bricchetto, pp.129-134.

     6 Il brano di Eugenio Bennato Che Mediterraneo sia,  canale  YouTube di  Eugenio Bennato.

     7Il mare di mezzo , coprodotto da Aspen Institute e da Rai Storia che contiene una lunga intervista a Abulafia  (la "Domenica"  del 20 marzo ne ha dato notizia, a fianco dell'articolo)clicca qui.

     8 «Individuale, disegnare un “corema” del Mediterraneo; a coppie, risolvere un problema; in gruppo, provare a discutere in modalità brainstorming la seguente affermazione: “La storia del Mediterraneo è una storia di tutti”», p. 18.

     9 pp.18-18.

     10 «La figura del docente si configura sempre di più come quella di un intellettuale che ricerca e progetta le sue lezioni, senza perdere la forza con cui condivide la sua passione né il piacere di parlare ai suoi studenti: il docente come Designer, la didattica come progettazione», p. 76.

     11 Dal punto di vista neuro-scientifico, è la tesi di Pier Cesare Rivoltella che sottoscrivo (Neurodidattica. Insegnare al cervello che apprende, Raffaello Cortina, Milano 2012), «in fondo, siamo tutti dei BES».

    12 p.81

     13 pp. 58 e sgg. Sulle griglie di valutazione, pp. 151-152 e P.C. Rivoltella, Che cos’è un EAS?,  pp.103-106.

     14 «Nelle classi multiculturali di oggi, il primo soggetto di lezione non può che essere l’umanità», così scrive  S. Luzzatto in  Riconnettersi con la storia,  "Domenica" - “Il Sole-24-Ore” , 24 gennaio 2016. Luzzatto  recensisce insieme la traduzione italiana di S. Gruzinski, Abbiamo ancora bisogno di storia? e il volume di Bricchetto.

     15 Si veda il cap.3: Punti di vista e contenuti disciplinari, pp. 61-85.

     16 Sul fondamentale concetto di trasposizione didattica si veda pp.82 e sgg.

     17 La vera sfida «non consiste nell’evitare le questioni sensibili in uno slalom del didatticamente corretto; la vera sfida consiste nell’esplorarle», p. 97.

    18 «L’idea di studio di caso risponde a una criticità forte dell’insegnamento della storia e forse anche a una sua contraddizione. Lo studente deve essere informato, contare su contenuti storici, ma questo è sempre (è sempre stato?) più difficile. Gli studenti, anche quelli di liceo, spesso ricordano quantità di date e dati storici sino all’interrogazione, poi nella loro testa scadono. La via tradizionale si è mostrata perdente. Gli studenti, soprattutto italiani, hanno scarsa cultura storica … i casi di studio portano un approfondimento per cui lo studente ha a che fare con una materia che è in grado di capire e di maneggiare e non da ultimo di ricordare», p. 66.  

     19 Si veda il capitolo 4  Il passato e il presente, pp. 86-101.

     20 Sul rapporto tra media e memoria storica, pp. 94 e sgg.

     21 Arrivano a scuola con «un modus vivendi strutturato», «un immaginario ricco e composito», «relazioni consolidate nella vita e in rete», «abitudini e consumi», frequentano i social, guardano video in streaming, su YouTube; vivono in «ambienti familiari iperconnessi», con «genitori che usano i device nella vita e nel lavoro», come loro attivi nei social (Whatsapp, Facebook, Instagram, Snapchat), p. 69.

     22 Sui criteri per analizzare i siti di storia, 162 e sgg; sulle risorse reperibili in rete, pp.171 e sgg.

     23 pp.104 

     24 p.85.

     25 Ibidem.

     26 P.C. Rivoltella, Che cos'è un EAS?, cit.

     27 p.105.

     28 p.78.

     29 p.7.

     ** In questo sito Enrica Bricchetto aveva anticipato quello che è poi diventato il tema del libro clicca qui.

  • Educazione “della” memoria contro educazione “alla” memoria.

    di Antonio Brusa

    01 Non è una questione di preposizioni articolate

    Negli ultimi decenni le scuole di tutto il mondo - investite da uno tzunami di “Giornate della Memoria” e del conseguente compito di promuovere l’educazione “alla” memoria - sono diventate uno dei campi di battaglia delle politiche identitarie degli stati. Noi – insegnanti e ricercatori di storia – dovremmo batterci perché, al contrario, diventino il luogo dell’educazione “della” memoria. Un luogo dove gli allievi apprendano a valutare criticamente le politiche memoriali – nazionali e sovranazionali -, apprendano che il ricordo sociale - la memoria pubblica - è un aspetto fondamentale della vita democratica e che, perciò, la discussione di ciò che conviene ricordare, e degli scopi per i quali occorre ricordare, fa parte dei diritti-doveri di un cittadino.

    La memoria dei fatti del passato, soprattutto di quello vissuto, ossia la capacità di selezionarne alcuni e di fissarli nel ricordo extrascolastico, e la memoria collettiva, ossia la selezione degli eventi attorno ai quali la comunità dei cittadini è convocata, sono gestite principalmente dalla politica e dal dispositivo dei media. Sono questi che decidono i fatti da ricordare e, quindi, sollecitano i cittadini “a” ricordarli. Sono questi, dunque, che concretamente ne plasmano la memoria. La scuola pubblica, istituzione preposta alla formazione dei cittadini, dovrebbe rivendicare il proprio ruolo. Dovrebbe denunciare il fatto che un’educazione intellettuale che ubbidisca a regole esterne al mondo scientifico/didattico contraddice il dettato costituzionale, che affida tale compito alla scuola e all’Università, luoghi garanti della libertà dell’insegnamento/apprendimento. E, per contro, dovrebbe promuovere la formazione di una “memoria educata”.

    Quali sono le condizioni per questa educazione “della” memoria? Ecco quelle che mi sembrano fondamentali: la contestualizzazione, l’inserimento nel curricolo, il rapporto fra storia e memoria e il rapporto con l’educazione civica.

    La contestualizzazione

    Quali che siano le attività e i materiali che vengono preparati per la Giornata della Memoria e la competenza e la passione che li caratterizzano, molti insegnanti si accingono ad affrontarla con l’idea che essa riguardi il rapporto fra i propri ragazzi e un evento estremamente tragico del passato. Questa è solo una parte della storia. A più di due decenni dall’istituzione della prima Giornata della Memoria, oggi constatiamo che questa è un frammento di un universo di iniziative politiche volte a utilizzare il passato come marcatore identitario. I soggetti di queste iniziative non sono soltanto gli stati, ma anche singoli gruppi politici e gruppi sociali emergenti (di genere, etnici, localistici ecc.). Spesso queste memorie rivendicate o imposte sono in conflitto, a volte si elidono vicendevolmente. La conoscenza di questo scontro è la prima condizione per evitare che la scuola ne diventi lo scenario inconsapevole. L’analisi dei motivi che hanno trasformato la memoria del passato in un terreno di azione politica aggiunge agli obiettivi più consolidati dello studio – ad esempio - della Shoah (l’antisemitismo, il genocidio, il nazismo e i perpetratori del genocidio, il rapporto con gli altri), quelli relativi al rapporto “verticale” fra cittadini e stato (perché i governi vogliono agire sulla memoria, individuale e collettiva?) e “orizzontale” fra stati e gruppi sociali (perché il passato viene usato in chiave identitaria?). La maggior parte delle risposte che riusciamo a dare a queste domande ci riportano alla mente un proverbio arabo, ricordato volentieri da Marc Bloch, che “siamo figli più del presente che del passato”, e, quindi, ci conducono, direttamente o indirettamente, alla realtà della globalizzazione. Mettono in evidenza la necessità di contestualizzare l’atto del ricordo. Studiare a scuola la Shoah è un fatto molto diverso, oggi, da ciò che poté essere negli anni ’60 o al tornante del secolo, quando ne venne istituita la Giornata commemorativa. Una conseguenza non secondaria di questo cambiamento è il deperimento delle riflessioni didattiche e dei materiali messi a punto nel corso del tempo, o, quanto meno, la necessità di una loro attenta revisione.

    02 L'inserimento nel curricolo

    La ricchezza degli spunti didattici che offre la Shoah, e la sua complessità, fanno sì che raramente essa venga affrontata in classe in una completezza enciclopedica. Si sceglie, di volta in volta, questo o quell’aspetto che al momento appare al docente più efficace. La necessità di una contestualizzazione, che qui proponiamo, accresce certamente questa complessità. Per di più, questa andrebbe moltiplicata per le giornate memoriali più accorsate che mi sembrano - oltre a quella della Memoria - la Giornata del Ricordo, quella della Legalità e quella delle Vittime del mare (non sono a conoscenza di ricerche sulla loro frequentazione nelle classi italiane. Sulla deprimente corsa alla commemorazione si veda qui).

    Ovvia, quindi, l’urgenza di un’organizzazione curricolare, nella quale le varie esigenze formative trovino il loro posto e si possano accumulare nel tempo. Altrettanto ovvia la necessità di “agganciare” i diversi aspetti, messi in evidenza negli oggetti della commemorazione, a temi che dovrebbero essere sviluppati in un curricolo di storia attento ai problemi che si incontrano studiando i vari periodi storici, più che al dettaglio degli eventi. Ad esempio: la formazione dello stato, il rapporto fra stato e cittadini, le pedagogie dello stato e, andando verso i nostri giorni, l’emergere delle questioni identitarie e la loro rilevanza politica e sociale. Le ricorrenze memoriali, in questo modo, diventerebbero “casi di studio” ben acclimatati nel curricolo, e non eventi eccezionali che vi irrompono dall’esterno. Andrebbero a far parte di quel “laboratorio del tempo presente”, autentico banco di prova delle capacità di ragionamento storico acquisite dagli allievi.

    Alla complessità dell’oggetto va aggiunta la complessità del bagaglio epistemologico e metodologico che occorre possedere per affrontarlo in modo maturo. Jörn Rüsen ce ne fornisce un quadro schematico in tre fasi:
    a. L’insieme delle capacità che permettono all’allievo di analizzare un dato fatto storico (analisi dell’evento, comparazione con altri eventi, classificazione ecc.)
    b. L’insieme delle capacità che gli permettono di confrontare le ricostruzioni storiografiche con quelle del senso comune.
    c. La capacità di osservare in parallelo una doppia evoluzione interpretativa: quella storiografica e quella della memoria pubblica o del senso comune. *

    È chiaro che non si può mettere in pista questo complesso di sapere e di saper fare in una sola giornata. Se ne devono “spalmare” le singole operazioni in un curricolo che parta dalle più semplici (non necessariamente incluse nel punto a) e giunga a quelle più complesse, che non saranno sempre quelle del punto c. Come spesso accade nell’insegnamento, la realizzabilità di un obiettivo in classe dipende anche dalla strategia didattica e dai mediatori adoperati. Giusto per fare un esempio che mostri come anche in una scuola media si può praticare qualcosa del livello medio-alto, si pensi al confronto che si può instaurare fra il risultato di una rapida inchiesta su che cosa pensano i familiari degli allievi a proposito della Shoah e una ricostruzione storiografica.

    Solitamente, la programmazione degli eventi memoriali si limita alla ricerca di “qualcosa che non si è fatto l’anno scorso”, o di “qualcosa che sia adatto a quella certa classe”. E ciò è in armonia con una “educazione alla memoria”, il cui problema principale è interessare gli allievi, coinvolgerli, suscitare le loro emozioni o trovare quegli argomenti talmente efficaci da scolpire quel dato evento nella loro memoria. Strategie sempre utili, ma che sono altra cosa rispetto a quel processo di crescita coerente che dovrebbe portare all’educazione della memoria, cioè alla progressiva autonomia degli allievi nella valutazione e nella scelta degli eventi degni di essere ricordati.

    Il rapporto fra storia e memoria

    È impossibile riassumere in poche battute l’imponente dibattito sul rapporto fra storia e memoria che ha coinvolto negli ultimi decenni parti significative della comunità storiografica mondiale. Per quanto concerne l’educazione della memoria, credo che occorra tenere conto di due aspetti, che riguardano rispettivamente la memoria individuale e quella collettiva.

    Il primo è relativo all’esplosione della “società della conoscenza”, intendendo con questa espressione una società nella quale i media mettono a disposizione delle masse l’intero sapere umano, e, al tempo stesso, costituiscono per queste masse il mezzo per rendere pubblico il “proprio” sapere. Si crea, in questo modo, una platea universale nella quale ciascuno esprime la propria opinione su qualsiasi argomento e, per quello che ci riguarda, sul passato. A differenza dei contadini del Seicento, che probabilmente avevano una visione del mondo, presente e passato, circoscritta al loro ambiente di vita, il cittadino odierno iscrive nella propria memoria fatti che un tempo si sarebbero letti solo nei libri. Il fascismo e il genocidio degli ebrei, le foibe, l’uccisione di Falcone e Borsellino, il naufragio di Lampedusa del 2013, quindi, possono far parte dell’idea di passato del cittadino comune. Con quale criterio e con quali accortezze questi eventi sono stati selezionati, e vengono richiamati e reinterpretati nel discorso comune? Rispondendo a questa domanda, Stefano Pivato ha espresso il suo – e nostro - sconcerto in un aureo libretto dal titolo emblematico Vuoti di memoria (Usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana, Laterza 2007). Potremmo aggiungere che quelle memorie che appaiono allo storico così “vuote”, in realtà sono “selvagge”, essendosi formate in modo spontaneo, senza alcuna assistenza esperta, nel vorticare tumultuoso delle conoscenze.
    Il secondo aspetto è quello - che ho già richiamato - della scoperta del passato da parte della politica. È una sorta di ripresa di politiche culturali, già sperimentate dagli stati europei ottocenteschi e primo novecenteschi. Nel nuovo scenario della globalizzazione, tuttavia, occorre legittimarsi non più al cospetto di pochi stati europei, ma di fronte alla massa enorme di otto miliardi di persone. Il passato cessa di essere (solo) un terreno da studiare, per diventare l’inesauribile repertorio di argomenti, fatti, personaggi da utilizzare a supporto delle proprie richieste di riconoscimento. Si creano così quadri memoriali composti da primati, che magnificano la grandezza del soggetto, e da torti subiti, che ne motivano le pretese di risarcimento. I soggetti (stati, gruppi politici o sociali) premono sulle scuole per riformulare i programmi di storia in chiave nazionalistica, di genere, etnica o localistica, e si agitano nel pubblico per nuove iniziative monumentarie o commemorative (Sul conflitto mondiale della memoria). E, a conti fatti, tutti constatano che l’intervento pubblico è più remunerativo di quello scolastico: dà risultati immediati e apprezzabili dagli elettori, dalle famiglie e dai membri del gruppo, e ottiene riscontri amplissimi nei media. Al contrario, l’apprendimento storico è lento, chiuso nelle aule, se ne vedono (forse) gli effetti dopo anni di studio, e ad ogni sondaggio dà risultati deludenti. Per giunta, più è aggiornato, meno è capito in famiglia. Ecco alcune buone ragioni per un progressivo disinvestimento nell’insegnamento storico, controbilanciato dal parallelo aumento di giornate commemorative.

    In questo quadro, l’educazione della memoria si propone come un lavoro sociale di civilizzazione delle memorie individuali, indispensabile in una società democratica che richieda ai cittadini scelte e orientamenti che tengono conto di fatti e non di “fattoidi”. Al tempo stesso costituisce una buona reazione alla deriva de-disciplinarizzante della formazione, dal momento che richiama e reinterpreta le istanze formative memoriali all’interno del curricolo.

    03 Storia, memoria, educazione civica

    La Legge sull’educazione civica (92/2019) e la più recente proposta di legge sull’introduzione delle competenze non cognitive (A.S. 2372) sono legate dal filo rosso della de-disciplinarizzazione della formazione. Il dibattito parlamentare, che in tempi rapidissimi portò alla reintroduzione dell’educazione civica come materia a sé stante, si è rivelato un sondaggio di opinione fra i parlamentari sul rapporto fra discipline e formazione. Tutti, infatti, senza distinzione politica, hanno approvato entusiasticamente questa nuova materia che finalmente non si sarebbe studiata sui libri e che avrebbe riguardato la vita reale. Una materia utile e non da aula scolastica (le citazioni sono quasi letterali: controllate il resoconto che ho pubblicato su HL). Nel corso del dibattito, si è sollecitata l’introduzione dell’educazione dei sentimenti, degli atteggiamenti e di una quantità di altri buoni comportamenti – rigorosamente non cognitivi - puntualmente ripresi nella proposta di legge sulle competenze non disciplinari. Proposta di legge anch’essa approvata a larghissima maggioranza.

    Sul perché di questa ondata di consensi anti-disciplinari, i commenti si orientano su due interpretazioni: da una parte c’è chi sostiene che siano il frutto del pensiero unico liberal-capitalista; dall’altra, si argomenta intorno alla perdita di interesse verso le discipline umanistiche, a favore delle discipline Stem, quelle che la società apprezza come utili. Almeno per quanto riguarda l’Italia, le fonti parlamentari smentirebbero entrambe le ipotesi, dal momento che fra i cordiali sostenitori di entrambe le leggi troviamo esponenti della sinistra anticapitalista, e le discipline condannate perché “troppo scolastiche” sono tutte, senza distinzioni.

    Credo che l’unica spiegazione consista nel fatto che il mondo politico, non solo quello italiano, richiede un riscontro visibile dell’investimento formativo. Un riscontro visibile alle famiglie, al cittadino comune. Sono questi, in ultima analisi, che negano alla politica il tempo della lunga formazione disciplinare. E le competenze non disciplinari hanno giusto questo vantaggio: il buon rapporto con i compagni, la partecipazione a iniziative ambientali, il sostegno a una campagna umanitaria, la denuncia del bulletto non hanno bisogno dei lunghi allenamenti delle discipline, per produrre un gesto, un comportamento, un qualcosa che tranquillizzerà le famiglie sul buon funzionamento della scuola.

    La legge sull’Educazione civica non fa cenno alle questioni memoriali che, come abbiamo appena visto, sono parte costitutiva di una cittadinanza democratica. Noi ci abbiamo provato, invece. Con l’Istituto Comprensivo n.6 di Modena (all’interno della rete di scuole LabSto21), abbiamo prodotto un curricolo di educazione civica multidisciplinare che contempla, fra le sue attività, anche quella dell’educazione della memoria, nel quale la Giornata della Memoria diventa un segmento normale della programmazione. Avremo modo di parlarne su HL, a sperimentazione terminata. Per il momento, lanciamo la questione: educazione alla memoria, o educazione della memoria?


    * Il testo citato è J. Rüsen, What is Historical Consciousness? A Theoretical Approach to Empirical Evidence, University of British Columbia, Vancouver, 2001.

    * I disegni delle ragazze e dei ragazzi della scuola primaria “Montessori” di Bollate, prodotti in occasione del Giorno della Memoria, pubblicati in Ti prometto che non dimenticherò mai. SHOAH: Il buio e la luce della speranza, edizione Kindle e Il Melograno, 2017, sono ricavati da Gariwo. La foresta dei giusti:
    https://it.gariwo.net/gallerie-fotografiche/altro/progetto-memoria-i-disegni-dei-ragazzi-18631.html

  • La celebrazione e la rimozione. La mostra itinerante per i 100 anni dell’Aeronautica Militare Italiana

    di Antonio De Mario

    01Fig.1: Piloti e specialisti in forza all’Aeronautica Nazionale Repubblicana.Documenti che parlano chiaro

     

     Contro orde barbare pronte compiere ogni orrore quali quelle che avanzano, ritengo non debba essere risparmiata alcuna arma. Chiedo pertanto massima libertà azione per impiego gas asfissianti (…)

     

    Così recita il testo di un telegramma cifrato, il n.375 del 15 dicembre 1935, a firma del generale Rodolfo Graziani, comandante delle armate italiane in Somalia impegnate dell’attacco all’Abissinia, regione dell’Impero di Etiopia. Fra i destinatari, Pietro Badoglio, capo delle operazioni su quel fronte. Ma, come è noto dalla documentazione d’archivio disponibile, quella libertà d’azione venne autorizzata direttamente dal Capo del Governo in persona che, con telegramma 14551 A 1475, datato 12 gennaio 1936, scrisse a Graziani “Sta bene impiego gas nel caso V.E. lo ritenga necessario per supreme ragioni difesa”.

    Poco dopo, lo stesso Graziani avvisò il generale Mario Bernasconi, comandante della Brigata aerea mista in Somalia, che si stava preparando a

     

    ricacciare verso nord l’armata di Ras Destà (…) con azione che dovrà avere esito definitivo e risolutivo. Pertanto, come già verbalmente accennato a vossia, occorre che il concorso dell’aviazione sia portato al massimo della possibilità dei mezzi. Le ultime azioni compiute    hanno dimostrato quanto sia efficace l’impiego dei gas (…).1

     

    La mostra del Centenario

    A cento anni dalla sua fondazione nel 1924, l’Arma aerea d’Italia allestisce una mostra fotografica destinata a essere esposta in diverse città italiane da Roma a Firenze, Bari passando per Milano, Ferrara, Viterbo fino a Lecce, tra marzo e dicembre del 2023, nell’ambito di un ricco programma celebrativo. A Bari la mostra è stata ospitata nelle sale del Palazzo della Provincia, sul lungomare Nazario Sauro

    Alcuni pannelli, con piccoli corredi fotografici e brevi didascalie, schematizzano le tappe principali di una vicenda profondamente legata a un secolo segnato da eventi bellici di immane intensità e tutti tragicamente incistati – a vario titolo - nel nostro immaginario popolare e nazionale. Ma invano cercheremo, tra i documenti d’epoca e i preziosi cimeli esposti, qualche traccia dei documenti appena visti. Cosicché, la celebrazione sembra far rima con rimozione, a spulciare con occhio analitico fra le didascalie, redatte dai curatori della mostra, vagliate e supervisionate dall’Ufficio storico dell’Aeronautica Militare Italiana. Questa struttura, vale la pena notarlo, è quanto mai rilevante in ciascuna delle Armi italiane, corpi e specialità, perché è il vero custode delle tradizioni e dell’identità, della loro corporate reputation. Lo provano le numerose e prestigiose pubblicazioni che da questi enti promanano. Fonti sempre, giustamente, tenute in gran conto dagli storici militari.

     

    02Fig.2: Modello di bomba da lancio caricata a gas Yprite in uso durante la campagna di Etiopia del 1936.L'Etiopia, i bombardamenti, il gas.

    Sulle didascalie che accompagnano il corredo fotostorico della mostra si condensa l’attenzione del visitatore e qui si concentra un forte sapore di rimozione, soprattutto in riferimento a quelle dedicate ad anni cruciali, per l’Italia e per l’evoluzione della Regia Aeronautica.2

    Eccone una.

     

    Etiopia 1936. Quella etiope si dimostra da subito una campagna impegnativa: i reparti della Regia Aeronautica si prodigano in ricognizioni, trasporti, rifornimenti, bombardamenti in uno scenario complesso per le difficoltà ambientali e per la  vastità del territorio. La cooperazione con le truppe di terra viene sviluppata al massimo grado, ma questa lezione non sarà poi tradotta in atto nel secondo conflitto mondiale.

     

     Tutto qui.

     

     

    03Fig.3: Piloti e meccanici in posa con bomba caricata a gas tossico, durante la Campagna d’Etiopia 1936.Ricognizioni, trasporti, cooperazione con le truppe di terra: il freddo e asettico linguaggio militare e neppure il minimo accenno al fatto che fu una guerra di aggressione a una nazione indipendente che vide il ricorso a strumenti bellici espressamente vietati dalle Convenzioni internazionali come i gas asfissianti. Circa 30 tonnellate di aggressivi chimici proibiti furono complessivamente lanciate dagli apparecchi italiani nel corso di tutta la campagna, con effetti atroci non solo sulle bande combattenti ma anche sulle martoriate popolazioni civili. Che altre potenze coloniali nella stessa epoca vi abbiano fatto ricorso, salvo poi celare tutto sotto la coltre del segreto militare, non riduce la gravità dell’azione italiana.3

    Si dirà che non è una mostra celebrativa il luogo per articolate analisi storiografiche. Vero. Ma appare eccessivo ridurre quella feroce invasione a una “campagna impegnativa”. E affidare l’unico accenno critico a una “lezione che non sarà poi tradotta in atto nel secondo conflitto mondiale” pare davvero una scelta fuorviante. Inoltre, quale lezione tattica o strategica si potesse ricavare attaccando una nazione totalmente priva di una propria aviazione o di qualsivoglia difesa antiaerea degna di questo nome è davvero difficile comprendere, pur restando nell’ambito del mero dibattito storico-militare.

     

    La Spagna e gli aviatori che vennero travestiti

     

    Spagna 1936. La Spagna è un importante banco di prova per velivoli ed equipaggi che vengono inizialmente inquadrati nel “Servicio del Aviacion del Tercio”, poi Aviazione Legionaria. Purtroppo non tutte le lezioni apprese saranno adeguatamente sviluppate.4

     

    Anche in questa didascalia nessuno può pretendere l’apertura di una riflessione approfondita di politica militare. Tuttavia, andrebbe notato che in quell’occasione il governo italiano impiegò quote notevoli della forza aerea nazionale, con aviatori travestiti da “volontari” con abiti civili e documenti falsi, spedite a rinforzo del generale Francisco Franco, intento a rovesciare il legittimo governo della Repubblica di Spagna nel 1936. Cosa ci sia stato di così glorioso nell’arrivare a organizzare addirittura un finto atto di vendita di velivoli a un giornalista monarchico iberico, tale Luis Bolìn, e a far arruolare militari italiani nella Legione straniera spagnola, nota come Tercio de extranjeros, è davvero faticoso da comprendere.

    Forse andava fatto notare che, a leggere le cronache del tempo, l’adesione al franchismo fu entusiastica, a partire dal generale Giuseppe Valle, nella doppia veste di Sottosegretario al Ministero della Regia Aeronautica e Capo di Stato Maggiore della medesima, che non esitò a prendere egli stesso i comandi di uno dei primi dodici trimotori S.81, inviati in fretta e furia alle Baleari per trasportare le truppe ribelli franchiste sul suolo iberico.

    Se, dunque, teniamo presenti i fatti ricordati da questi pannelli, il tema, ricorrente nella mostra, delle “lezioni apprese e non adeguatamente sviluppate” suggerirebbe domande imbarazzanti: che cosa non ha ben sviluppato l’Italia? Il modo di fare dei colpi di stato? Come travestire i propri militari o bombardare delle città indifese?

     

    Il topos dell'"unanime ammirazione"

    In un altro pannello si cita lo scrittore Guido Mattioli:

     

    L’opera degli aviatori e dell’Aviazione italiana in Spagna, cioè dell’Aviazione Legionaria, ha già riscosso la unanime ammirazione del mondo e perfino quella dei suoi avversari.

     

    Nel leggerlo pare di udire la voce inconfondibile di Guido Notari, giornalista in forza all’Eiar e all’Istituto Luce. Il Conte Guido Mattioli Belmonte Cima, raccontano le cronache biografiche, fu un provetto pilota, eroe decorato nella Grande Guerra, “il Conte che amava volare”. Negli anni Venti diresse la nota rivista “L’aviazione”. Nel ventennio, poi, fu anche podestà di Rimini, fra il 1933 e il 1939, e durante quel periodo, nel 1938 realizzò e inaugurò l’aeroporto di Miramare.

    Quanto all’unanime ammirazione, davvero non si sa di cosa si parli: per il bombardamento di Guernica? Forse no: l’Italia vi partecipò con tre soli apparecchi Savoia Marchetti S.79. La parte più rilevante di quel modello di bombardamento terroristico di una città priva di difesa nonché di rilevanza militare, fu svolta da diciotto apparecchi Ju.52 che, con 22 tonnellate di bombe, in parte incendiarie, rasero al suolo la cittadina iberica con molte centinaia di vittime civili (1650 secondo alcune fonti). Più probabile allora che il Mattioli volesse riferirsi al bombardamento di Barcellona, compiuto dai regi velivoli il 16-18 marzo 1938, per espresso ordine di Mussolini, con 44 tonnellate di bombe, provocando tra i 600 e i 1300 morti”.5

     

    I due volti di Italo Balbo

    La Regia è, a detta degli analisti storici, il fiore all’occhiello del Regime sin dall’impresa del suo indimenticato fondatore, quell’Italo Balbo che pianificò e condusse la Crociera del Decennale: una imponente e spettacolare trasvolata atlantica condotta con ben 26 idrovolanti S.55, evento che fece epoca ed è oggi considerabile un po’ come il mito fondativo della nostra attuale AMI.

    La Mostra del Centenario gli dedica puntualmente ampio spazio, come è giusto che sia dal punto di vista storico. Ma, anche in questo caso, stonano i termini unicamente encomiastici: Balbo fu certamente un aviatore di notevole livello, capace di fondare e organizzare con moderni criteri l’Arma aerea italiana, ma fu anche uno dei più spregiudicati esponenti della gerarchia fascista, con una fama, un prestigio e un peso politico quasi pari a quello del suo Duce (il quale, peraltro, dopo l’impresa del Decennale, ne fece il governatore della Libia, allontanandolo dalla ribalta dei media internazionali: ma questa è un'altra storia).

     

    La tragedia della scelta

    Proseguendo nel cammino cronologico proposto dalla mostra, si giunge a un altro momento chiave, tra i più controversi della vicenda nazionale legata all’ultimo conflitto mondiale. Siamo ai terribili mesi della crisi finale: la guerra irrimediabilmente persa, la crisi del regime fascista culminata con le dimissioni del 25 luglio, e poi l’armistizio dell’8 settembre. Trauma nazionale, totale, trasversale e delle cui tragiche conseguenze le nostre Forze Armate furono probabilmente le principali vittime. Momenti difficilissimi da ricostruire e raccontare, nella loro complessità e nell’ampiezza delle diverse articolazioni e interpretazioni.

    Il lacerante dramma che travolse gli oltre due milioni di italiani in divisa, in quelle ore fu forte e nella mostra lo si riassume così:

     

    La regia aeronautica segue il Re e il Governo monarchico al Sud per combattere l’invasore tedesco al fianco degli Alleati e sui velivoli i fasci littori lasciano spazio alle coccarde tricolori. Una minoranza di uomini tuttavia rimane al Nord, nella repubblica Sociale Italiana dove, inquadrati nell’Aeronautica Nazionale Repubblicana, combatterono per difendere il territorio italiano martoriato dalle incursioni anglo-americane. Altri aviatori, invece impossibilitati a raggiungere i Reparti costituiti al sud, si uniscono alle formazioni partigiane.

     

    Qui la questione interpretativa si fa delicata. La consecutio degli eventi fornita dalla didascalia è corretta. Tuttavia, è arduo spiegare con la sola registrazione dei fatti il nodo storico della vicenda dell’A.N.R. (Aeronautica Nazionale Repubblicana), ovvero quel simulacro di arma aerea concesso di malavoglia dai vertici militari germanici occupanti alla Repubblica Sociale fondata da Mussolini, e operante dall’ottobre del 1943 all’aprile del 1945 alle dirette dipendenze degli stessi tedeschi.

    Fu una scelta, quella dei piloti e del personale della Regia che preferirono restare fedeli al Fascismo nella sua ultima e più feroce versione, quella di Salò, che non appare affatto risolvibile nella formula “combatterono per difendere il territorio italiano martoriato dalle incursioni anglo-americane”: proprio per il rispetto che si deve a chi si orientò secondo scienza e coscienza in ciò che andava accadendo in Italia in quei mesi, nel calderone della Seconda Guerra Mondiale.

    Forte è il sospetto che questa sia più una motivazione auto-assolutoria elaborata ex post, che l’espressione del sentimento che animò chi scelse di confermare la sua fedeltà al Fascismo e all’alleanza con la Germania nazista. Infatti, fu chiaro da subito, soprattutto ai militari, il vero volto di questa alleanza, dal momento che, con l’Operazione “Achse”, i tedeschi assunsero il pieno controllo delle regioni italiane del centro-nord e della condotta della guerra in Italia.

     

    Tutte le scelte furono giustificabili?

    Ci si domanda qui se sia corretta questa sorta di equiparazione fra chi, tra il personale della Regia, volle e poté obbedire agli ultimi ordini del Governo Badoglio che, in coerenza con le clausole armistiziali firmate a Cassibile il 3 settembre 1943, prevedevano lo spostamento di personale, mezzi e materiali presso le basi del Mezzogiorno occupate dagli Alleati; tra chi, non potendo materialmente eseguire tali ordini, successivamente si unì alle formazioni partigiane operanti al Nord; e chi invece scelse prima di mettersi a disposizione degli occupanti nazisti (diversi piloti italiani furono assorbiti nei reparti di volo della Luftwaffe operanti sul suolo italiano) e successivamente optò per farsi inquadrare nelle formazioni della A.N.R. della Repubblica Sociale Italiana.

    Questione annosa, delicata, che tocca un nervo da sempre scoperto della nostra storia recente quello della “scelta” che molti, moltissimi italiani, in divisa e no, dovettero fare nelle circostanze più drammatiche.6

    Il sentimento imperante che sembra aleggiare oggi, tra gli hangar e sulle piste di volo della nostra AMI - e la didascalia in qualche misura lo rappresenta – è che tutte le scelte furono giustificabili.

    Valgano, per meglio spiegare questo sentimento, le parole di Giulio Lazzati in un bel libro del 1965 dedicato al sacrificio degli aviatori italiani tra il 1940 e il 1945. Parlando della A.N.R. egli scrive: “Tanti morti, proprio come noi giù al Sud, anzi, peggio di noi perché i piloti della “repubblica” hanno dovuto combattere contro forze enormemente superiori e con la certezza che ormai era tutto perduto. Perché lo hanno fatto? Me lo sono chiesto pure io, ma chi di noi può scandagliare l’animo umano e spiegare il perché di certe supreme decisioni? Solo, per me, contano la spontaneità e la dirittura morale, con cui si segue una strada, non il perché della sua scelta”.7

     

    Un'asetticità solo apparente

    Queste didascalie, che inducono il visitatore a focalizzare la sua attenzione sul dramma personale degli aviatori, lo disorientano per quanto riguarda le scelte interpretative odierne dell’aeronautica: un’arma che, oggi, difende una nazione democratica, nata dalla lotta al fascismo e che, di conseguenza, sarebbe obbligata a rivedere criticamente il proprio passato.

    L’asciuttezza e l’asetticità delle didascalie, quindi, non sono un fatto tecnico. Nascondono un’interpretazione univoca del passato, fuorviante e distonica, soprattutto ove si consideri che queste occasioni pubbliche sono rivolte anche agli studenti delle scuole che, in particolare attraverso lo studio e la conoscenza delle vicende più dolorose e laceranti della storia nazionale, dovrebbero costruire la propria capacità di leggere il presente. Può davvero una mostra costruita con questi criteri contribuire a fornire un onesto e limpido bagaglio cognitivo a quanti, giovani e no, vogliano capire e sapere di più e meglio dei momenti cruciali del nostro passato?

     


    Note

    1 Questi documenti sono conservati all’Archivio Centrale dello Stato e ora in Alessandro Cova,Graziani, un generale per il regime, Roma, Newton Compton Editori, 1987.

    Data al 1884 la nascita di un primo Servizio aeronautico a Roma, con l’uso di aerostati da ricognizione. Fino a tutta la Prima guerra mondiale, l’arma aerea operò come branca del Regio Esercito. Fu poi elevata ad Arma autonoma con Regio Decreto del 28 marzo 1923, mentre il 30 agosto 1925 venne costituito il Ministero dell’Aeronautica. Dopo l’8 settembre, la Regia Aeronautica continuò a operare sotto il controllo degli Alleati in alcuni aeroporti pugliesi nella fase della cosiddetta co-belligeranza. Al centro-nord, una volta costituitasi la Repubblica Sociale Italiana, a partire dal 27 ottobre 1943 venne costituita l’Aviazione Repubblicana, dal giugno 1944 Aviazione Nazionale Repubblicana (ANR). L’attuale denominazione Aeronautica Italiana risale invece al 1946, poco dopo la nascita della Repubblica italiana.

    Fra gli storici che si sono occupati delle guerre coloniali italiane, segnalo Nicola Labanca, Oltremare storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2007; Franco Bandini, Gli italiani in Africa, Longanesi Milano, 1971; Angelo Del Boca, I gas di Mussolini, il fascismo e la guerra d’Etiopia, Editori Riuniti 2021. Il colonialismo nei nostri libri di testo: Cajani L., Colonialism and Decolonization in History Textbooks for Italian Upper Secondary School, in The Colonial Past in History Textbooks. Historical and Social Psychological Perspectives, (a cura di K.V. Nieuwenhuyse e J.P. Valentim), IAP, Charlotte NC, 2018; A. Desio, La decolonizzazione nei manuali di storia italiani per le scuole secondarie di secondo grado: 1990-2020, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 1/2021, pp. 159-182.

    4Cfr.http://www.icsm.it/articoli/ri/civispagnola2.html Alberto Rosselli, Breve Storia dell’aviazione legionaria in Spagna 1936-1939: “Per cercare di non urtare la suscettibilità dei governi europei favorevoli alla Repubblica, i 12 aerei, ai quali vennero cancellate tutte le insegne nazionali e i distintivi di reparto, vennero venduti, tramite un finto atto, al giornalista spagnolo Luis Bolìn. A scopo prudenziale tutti gli equipaggi italiani vennero inoltre forniti di abiti civili e documenti falsi”. Sull’apporto dell’Italia alla Guerra civile spagnola: cita qualche testo o riferimenti online.

    5Giorgio Rochat, Le guerre degli italiani, Torino, Einaudi, 2006, pp. 113-114.

    Su questo aspetto la letteratura storica è autorevole e ha dato luogo a un dibattito pubblico molto partecipato. Fa specie che non se ne trovi nemmeno l’eco in questa mostra: Claudio Pavone, Una guerra civile, Bollati Boringhieri, Torino, 1991; Angelo Del Boca, La scelta, Neri Pozza Venezia, 2006. Come esempio di “letteratura dei vinti”, gli esempi sono assai precoci: Giose Rimanelli, Tiro al piccione, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1953.

    Giulio Lazzati,I soliti quattro gatti, Milano, Mursia, 1965, p. 295. Per una ricostruzione aggiornata delle vicende A.N.R. vedi Guido Garello,L’Aeronautica Nazionale Repubblicana, in “Rivisita di Storia Militare”, 20 – 21, Luglio-settembre 2015.

     

  • La didattica della Shoah

    Criteri, materiali e percorsi didattici secondo lo Yad Vashem


    Autore: Maria Angela Binetti

     

    Introduzione

    La giornata della memoria e quella del ricordo sono passate e, come ogni anno, sono state accompagnate dalle solite polemiche. Per fortuna, sempre meno astiose. Trattare argomenti così scottanti, richiede più che mai all’insegnante una riflessione preliminare a freddo, che eviti facili, e spesso controproducenti, approcci emotivi e si fondi su una rigorosa analisi storiografica. La politica nazista di deportazione e sterminio fu un fenomeno complesso, che colpì non solo gli ebrei, ma anche altre categorie, come i malati mentali, i sinti e i rom, e i prigionieri di guerra sovietici (di cui circa 3.300.000 vennero lasciati morire di fame, stenti e malattie nei campi in cui erano stati rinchiusi). E’ dunque importante ricostruire nel loro insieme le motivazioni e le dinamiche di questa politica anche per comprendere lo sterminio degli ebrei. Qui presentiamo un contributo dello YadVashem, istituzione celebre nel mondo, che si segnala – per noi italiani – per i corsi di formazione che organizza ogni anno. Lo YadVashem circoscrive il suo interesse alla sola questione ebraica, e propone un approccio didattico che vuole far cogliere l’umanità e la personalità delle vittime, di ogni vittima..Ecco il materiale del corso 2012, organizzato in modo che possa essere facilmente consultato dal lettore italiano.


     

    Indice

    • La didattica della Shoah
    • Le conoscenze di base
    • I laboratori didattici
    • Le testimonianze
    • I materiali audiovisivi
    • I luoghi di memoria
    • Il seminario


    La didattica della Shoah

     

    La storia della Shoah è soprattutto una storia umana, parla di individui. Non è solo il racconto dello sterminio di massa; essa implica lo sforzo di comprendere l’animo umano e le modalità con le quali l’uomo ha affrontato le situazioni e i difficili dilemmi etici di quei terribili anni.

    L’approccio didattico dell’ISHS (International School for Holocaust Studies) alla Shoah si articola in sei punti:

    • la vittima ebrea (the jewishvictim);
    • l’indifferente (the bystander);
    • l’esecutore (the perpetretor);
    • l’approccio appropriato alle diverse fasce d’età;
    • l’interdisciplinarità:
    • il ruolo dell’educatore.

     

    Partiamo dalla vittima.

    Raccontare la storia di 6 milioni di vittime è una “sfida” che non sempre si può vincere. La missione dello Yad Vashem è di ricostruire l’identità delle vittime (anche in pochissime righe) a partire dalle foto (familiari, parenti, vacanze) che sono state  rinvenute illo tempore nelle loro tasche. Con questo sistema sono state censite 4,1 milioni ca. di vittime. I dati scritti dietro le foto sono stati inseriti in un database (The Central Database of Shoah Victims’ Names) consultabile anche on-line.
     
     

     

    Come raccontare la storia della Shoah ai nostri studenti, coinvolgendoli senza traumatizzarli?

    Bisogna partire dalla vita quotidiana degli ebrei del tempo, evidenziando che queste persone vivevano e amavano esattamente come noi, che erano prese dalle loro attività routinarie (lavoro, studio, tempo libero: musica, arte, letteratura, calcio…) e che a una certa data questa routine è stata bruscamente interrotta. Com’è cambiata la loro vita nella realtà disumana dell’Olocausto? Che ne è stato della dignità, della speranza, della fede, dell’identità di queste persone?

     

    L’approccio più corretto per insegnare la Shoah è quello di porre agli studenti dei «dilemmi morali»:

    • Sopravvivere significa affrontare e convivere con dei dilemmi morali.
    • La realtà della Shoah è una “scelta senza scelta”, ovvero quello che i tedeschi hanno scelto per gli ebrei, cioè la morte. Qualsiasi scelta fatta dagli ebrei è stata superata da quella che i tedeschi hanno compiuto al loro posto.
    • Non abbiamo il diritto di giudicare le persone e le loro decisioni.
    • Il roleplay è vivamente sconsigliato, sia per l’impossibilità da parte degli studenti di identificarsi nelle vittime ebree (e noi aggiungiamo: per loro fortuna!), sia perché il transfert emotivo è un approccio didattico scorretto.

    La storia della Shoah è spesso ridotta al “durante”, quasi dimenticando che esiste anche un “prima” e un “dopo”. Quali questioni pone il “dopo”, cioè il ritorno alla vita? I sopravvissuti all’Olocausto sono riusciti a tornare alla vita “normale” dopo la terrificante esperienza d’internamento nei campi? Si può parlare di liberazione, o è più corretto parlare di “rieducazione” (fisica e psicologica) alla vita? Sovente, tornati a casa, i sopravvissuti si sono messi alla ricerca dei loro cari, scoprendo che familiari, parenti, amici non c’erano più, e che per giunta qualcuno si era impadronito della loro casa e dei loro beni. Scoprono così di essere soli al mondo. Molti di essi trovano accoglienza nei campi profughi creati dalle autorità alleate e dall’Agenzia delle Nazioni Unite per l'Assistenza e la Riabilitazione (UNRRA), attivi in Germania, Austria e Italia, dal1945 al 1952. Un’euforia matrimoniale travolge i sopravvissuti, assillati dalla paura di restare soli, mentre il vertiginoso baby boom che si registra in seno alle nuove coppie è la risposta alla politica di sterminio nazista. Molti sono quelli che decidono di lasciare l’Europa e di emigrare negli USA, oppure alla volta di Israele. E la vendetta? Nessun desiderio di vendetta anima i sopravvissuti, bensì una certezza: quella di essere vivi e di procreare, laddove il persecutore (Hitler) è morto.

     

    Chi sono ibystanders, gli indifferenti?

    Osservatori o spettatori? Netta la risposta: gente che è stata incapace di assumersi la propria responsabilità. Durante la Shoah, milioni di europei non ebrei si sono trovati di fronte a tre opzioni in merito alla posizione da assumere nei confronti dei loro vicini di casa ebrei:

    • aiutare i persecutori;
    • aiutare gli ebrei;
    • far finta di niente e non fare nulla.

    Nel corso della guerra più di 10 milioni di europei sono stati sottoposti a una di queste scelte. Quando si è chiamati a scegliere bisogna essere informati sul “cosa”. E cosa la gente comune sapeva? Ammesso pure che non circolassero informazioni precise sul destino degli ebrei, chiunque, guardandosi attorno, avrebbe potuto cogliere le sofferenze che gli ebrei stavano patendo.  Gli indifferenti avrebbero potuto fare qualcosa, ma non l’hanno voluta fare: solo apparentemente essi non hanno responsabilità nello sterminio.


    Che cosa rende un uomo esecutore?

    Com’è stato umanamente possibile uccidere sei milioni di ebrei? Si può uccidere per adesione totale all’ideologia; perché si è esecutori degli ordini altrui (in questo modo ci si deresponsabilizza); per la pressione esercitata dal gruppo (si aderisce al gruppo per non restare emarginati, e una volta dentro, si compiono azioni scellerate, fino all’omicidio,  anche se non ci si trova in situazioni di pericolo).

     

    Come insegnare il dramma dell’Olocausto senza traumatizzare i discenti, specie se bambini?  

    Si può parlare della Shoah a qualsiasi età, anche ai più piccini, l’importante è farlo con il giusto approccio, ovvero con gli strumenti più adatti alla loro età, quelli che realmente servono a far comprendere e a educare. Non va dimenticato che, ancora oggi, a 70 anni dalla tragedia, l’Olocausto è parte integrante della narrazione collettiva quotidiana degli israeliani. Ma cosa raccontare, e come? Gli israeliani educano i loro figli alla Shoah mediante un’esposizione lenta e graduale. Quando si racconta la Shoah bisogna fornire all’uditore un’ancora di sicurezza, per evitare l’insorgenza di traumi (ad es., risparmiare ai piccini la descrizione dell’orrore, oppure presentargli solo storie a lieto fine, di persone sopravvissute allo sterminio) o le facili banalizzazioni. La storia dell’Olocausto va raccontata secondo un modello a spirale: storia dell’individuo -> storia della famiglia ristretta/allargata -> storia della comunità di appartenenza -> narrazione storica.

     

    Un approccio interdisciplinare

    Quando si racconta la Shoah non ci si deve affidare solo alle parole della Storia, ma si può e si deve fare ricorso anche alla poesia, alla letteratura, all’arte (disegni, quadri), ai film, perché tutto concorre alla ricostruzione e alla narrazione delle storie individuali e della Storia collettiva.


    Quali temi proporre?

    1. Il mondo ebraico pre-Olocausto, in modo da far conoscere chi era il popolo ebraico prima della tragedia: questo serve a restituire un volto reale ai sei milioni di vittime.
    2. Come l’individuo si è confrontato con la realtà contingente: da attore o da spettatore?
    3. Com’è stato umanamente possibile? (questo tema è più adatto agli studenti delle superiori);
    4. Il ritorno alla vita, dopo il 1945.

    Quali sono gli obiettivi di un educatore quando si appresta a insegnare la Shoah?

    Innanzitutto, va rimarcato che l’Olocausto non è stato un avvenimento unico nella Storia, bensì un avvenimento senza precedenti. È un qualcosa che va ben oltre il calpestamento della dignità e dei diritti umani. Comunicare tutto questo è difficile, e molteplici sono le sfide che si pongono all’educatore:

    • la complessità della Storia e degli eventi
    • la definizione dell’Olocausto
    • le emozioni da consapevolizzare
    • la problematicità
    • la “fatica” dell’Olocausto
    • l’indifferenza
    • la comparazione con gli altri genocidi
    • il negazionismo
    • l’antisemitismo
    • il conflitto in Medioriente.


    La tecnica di insegnamento raccomandata per vincere queste sfide è creare situazioni di apprendimento stimolanti, attraverso una pedagogia attiva e un approccio incentrato sugli studenti, escludendo il role play.

    [per saperne di più, cfr.  http://www1.yadvashem.org/yv/en/education/languages/italian/educational_materials/how_teach.asp].

    Una precisazione lessicale doverosa. Gli storici e gli educatori dello Yad Vashem utilizzano indistintamente i termini Shoah e Olocausto (Holocaust) quando si riferiscono all’uccisione delle 6 milioni di vittime ebree, perché l’idea di “sacrificio”, che secondo taluni storici è insita nel termine Holocaust, è estranea alla mentalità ebraica.

     

    Le conoscenze di base

     

    Gli otto precetti del giudaismo

    1. l’obbligo di studiare la Torah per l’intero corso della vita (quella giudaica è una comunità di apprendimento permanente);
    2. il rispetto della vita, il più importante dei precetti: “mai più il popolo ebraico  sarà vittima”;
    3. l’alimentazione: i cibi kosher (carni e pesce; mai mischiare latte e carne; divieto assoluto di mangiare cibi contaminati dal sangue);
    4. l’abbigliamento, all’insegna della modestia e con obbligo di copricapo per le donne sposate, con obbligo di indossare la kippa e lo tzittzit (lo scialle rituale con le frange) per gli uomini; 
    5. gli affari: dedicarvisi  con onestà, aiutare i poveri, donare soldi per le cause giuste;
    6. matrimonio e sessualità: i rapporti prematrimoniali sono proibiti, i rapporti sessuali sono vietati durante il ciclo mestruale; i rapporti sessuali sono concepiti nell’ottica della procreazione; è consentito divorziare;
    7. spiritualità: l’ebreo loda sempre Dio e prega in gruppo tre volte al giorno, ovunque si trovi (per le donne è sufficiente pregare una volta al giorno, perché sono considerate esseri più spirituali);
    8. il calendario: l’obbligo di osservare lo Shabbat, che va dal tramonto del venerdì al tramonto del sabato; le varie festività, suddivise in agricole, storiche, spirituali.  Quella dell’ebreo religioso, insomma, è una vita vissuta all’insegna delle obbligazioni. Dati statistici alla mano, il rabbino ci informa che la società ebraica in Israele è molto più religiosa che in Europa.

    (Rabbi Yeshaya BALOG , dello Yad Vashem)

     

     

    Ebrei in Italia, dall’antichità al fascismo

    La storia ebraica nella penisola italiana inizia nel I sec. d.C., epoca in cui è attestata la presenza  di una piccola comunità ebraica a Roma, destinata a ingrandirsi rapidamente nei secoli a venire, fino alle soglie del Medioevo, quando conosce una battuta d’arresto anche in conseguenza delle epidemie e delle invasioni barbariche che si abbattono sui resti di un Impero romano ormai in frantumi. Questa storia è scandita da importanti oscillazioni demografiche, costituite da tre fasi di espansione: l’antichità romana, il Rinascimento (in questi due periodi si registra il picco massimo di presenza ebraica in Italia) e il Risorgimento (lo Statuto albertino del 1848 concede pieni diritti civili agli ebrei), e da altrettante fasi di decrescita: il tardoantico/Medioevo, l’età della Controriforma (l’espulsione e la reclusione nei ghetti, unitamente alle precarie condizioni igienico-sanitarie e alimentari tipiche dell’Ancien Régime di certo non giovarono alle comunità ebraiche italiane), il fascismo con la vergogna delle leggi razziali (1938).  È interessante notare come le tre fasi di crescita abbiano coinciso con il diffondersi di un pluralismo culturale (il sincretismo religioso dei Romani, la fioritura rinascimentale delle arti e delle lettere) e con un certo benessere economico; di contro, le fasi di decrescita corrispondono a periodi di decadenza economica, di assenza di pluralismo culturale e di imposizione di una visione monolitica del mondo.

     

    La distribuzione geografica degli ebrei in Italia segue nei secoli un preciso itinerario, che si snoda lungo la penisola da sud a nord: nell’antichità le zone di massima concentrazione sono le regioni del Sud (Puglia, Calabria Campania); dal 1450 al 1550, la diffusione è uniforme tanto a sud quanto a nord; dal 1550 al 1848, i principali ghetti sono concentrati nelle regioni centro-settentrionali (Roma, Toscana, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte); nel XX secolo la presenza ebraica più consistente è concentrata a Roma, in Piemonte e in Emilia.

     

    Lungo questa storia si diffondono dei luoghi comuni, ancora oggi presenti nella discussione pubblica. Già nel I sec. d.C., Tacito, oltre a bollare come disgustosi i loro costumi, rimarcava alcuni tratti caratterizzanti gli ebrei: la ricchezza, la disonestà, l’autosegregazione, il disprezzo per gli altri. All’inizio del XIV sec., Dante, nel V canto del Paradiso, distingue nettamente il “noi”/i “cristiani”, da “loro”/gli “ebrei” (“Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:/ … /Se mala cupidigia altro vi grida, / uomini siate, e non pecore matte, / sì che ‘l giudeo di voi tra voi non rida!”). Più in generale, tra Medioevo e Rinascimento, l’ebreo è visto come un elemento inquinante della società cristiana, da espellere, emarginare, mal tollerare, ma, allo stesso tempo, come un  motore fondamentale del commercio e dell’economia, e dunque da attirare, preservare e difendere.  

    (Sergio DELLA PERGOLA, docente presso la “Hebrew University of Jerusalem”)

     

    Gli ebrei e il fascismo

    Nell’arco del ventennio la posizione del regime fascista verso i cittadini ebrei italiani è stata tutt’altro che uniforme, giacché è stata costantemente sottoposta a una lenta ma inesorabile mutazione di segno in negativo. Per questo è indispensabile individuare delle periodizzazioni interne che chiariscano la complessità di questo rapporto.

     

    Il primo periodo va dal 1922 al 1935/36. Sono gli anni della cosiddetta «luna di miele» tra il regime fascista e gli ebrei italiani. Si stima che 7.500 ca. cittadini ebrei italiani, su un totale di 40.000, fossero iscritti al PNF: non è dunque vero che gli ebrei del tempo fossero tutti antifascisti o afascisti. Neppure il delitto Matteotti del 1924 ne incrina l’adesione, giacché molti di loro sono politicamente allineati con la posizione della borghesia urbana italiana. Non solo, negli anni in cui Hitler comincia a manifestare apertamente il suo antisemitismo, Mussolini si presenta come il “salvatore” degli ebrei, ricevendone in cambio benevolenza. Il suo filosemitismo, però, è di facciata ed è funzionale alla propaganda politica. Dietro le quinte, infatti, il duce non manca di pubblicare anonimi articoli antisemiti (come documentato dalla corrispondenza interna interministeriale), dai quali si evince che egli crede alle voci dell’esistenza di un complotto ebraico internazionale. In questa fase il suo motto è “se non li puoi combattere, unisciti a loro”. Mussolini reputa gli ebrei soggetti “pericolosi”, perché colti, intelligenti, ricchi, astuti.

     

    Nel 1935/36 il quadro politico internazionale muta: sono gli anni della conquista dell’Etiopia e della nascita dell’Impero dell’Africa Orientale Italiana; gli anni dell’avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista. Questo però non basta a giustificare la svolta che il duce sta preparando. È tipica dei regimi totalitari l’individuazione del nemico interno da abbattere, nel nostro caso l’ebreo. Mussolini ricerca un movente pretestuoso per accusare di tradimento gli ebrei, additandoli poi all’opinione pubblica come nemici. L’occasione gli viene offerta dal fallimento di una missione diplomatica in Inghilterra che il duce affida a due ebrei, Dante Lattes e Angelo Orvieto, i quali avrebbero dovuto convincere il movimento sionista  internazionale a sostenere la causa imperialistica fascista, schierandosi contro le sanzioni economiche stabilite dalla Società delle Nazioni.

     

    Il secondo periodo va dal 1936 al 1938. Gli anni della preparazione della svolta antisemita. Ha inizio un capillare battage pubblicistico antisemita che lascia interdetta l’Unione comunità israeliane italiane (l’UCII, riconosciuta da un Regio Decreto del 1931), la quale, interpellato il Ministero degli Interni per chiedere ragione del nuovo stato delle cose, viene rassicurata che nulla è mutato nel rapporto tra gli ebrei italiani e lo Stato fascista. Dunque, ufficialmente non esiste alcun problema ebraico; addirittura, Mussolini inaugura a Civitavecchia una scuola per marinai, il cui nucleo è costituito da allievi ebrei. Intanto il regime avvia il censimento della popolazione ebraica italiana: quanti sono, in quali aree del paese sono concentrati, quali posizioni sociali occupano.

     

    Terzo periodo: 1938 - 1943. L’Europa è colpita dal ciclone delle legislazioni antisemite e l’Italia non fa eccezione. Tuttavia, la presenza della Chiesa cattolica è di ostacolo all’attuazione di un approccio al problema ebraico simile a quello nazista.  In Italia, infatti, la Chiesa cattolica vieta il divorzio (le coppie miste non possono essere sciolte dal vincolo matrimoniale), così come costituiscono un problema i numerosi i bambini nati da matrimoni misti che hanno ricevuto il battesimo (come considerarli, ebrei o ariani?).

     

    La prima reazione dell’opinione pubblica italiana alle leggi razziali è che esse siano state dettate da circostanze esterne. Circola la giustificazione confezionata a bella posta dai gerarchi fascisti. Quale invece la reazione degli ebrei? Per un meccanismo di difesa che scatta nell’uomo nei momenti di pericolo e che si traduce nell’allontanamento dei contenuti minacciosi, sembra che lì per lì gli ebrei le abbiano rimosse. È come se per essi la privazione dei diritti politici e civili non fosse classificabile come “sofferenza”.

     

    La sofferenza, quella vera, sarebbe cominciata solo nel 1943. È vero che dal 1938 al 1943 essi vivono in uno stato di privazione, ma la loro vita non è ancora a repentaglio; e poi, molti sono gli italiani che nei territori occupati dai nazifascisti (Iugoslavia, Grecia, Albania) accordano protezione agli ebrei. Addirittura, nel 1940, quando il paese entra in guerra, molti giovani ebrei fascisti scrivono al duce, supplicandolo di potersi arruolare per andare a combattere e a morire per la patria! Da non dimenticare che, nel luglio del 1939, con la legge. n. 1024, il Gran Consiglio del fascismo ammette la figura dell'ebreo "discriminato", ovvero dell'ebreo che per particolari meriti fascisti (partecipazione alla marcia su Roma, iscrizione al PNF), o patriottici (decorati della Grande Guerra) può essere trattato con maggiore clemenza. Agli ebrei “discriminati” (sono ca. 2000), infatti, le leggi razziali vengono applicate con alcune deroghe e limitazioni: ad es., è loro concesso di mantenere il conto in banca, di preservare il diritto di proprietà, di tenere in casa la servitù.

     

    Nel 1942, in accordo con le disposizione del regime, 15.000 ebrei vengono destinati al lavoro coatto; di questi soltanto 4.000 saranno effettivamente inviati; la restante parte ne sarà risparmiata, soprattutto per problemi di carattere organizzativo: la scarsità di macchinari rende difficoltosa la divisione nelle fabbriche tra ariani ed ebrei, e poi, molti ebrei sono inadatti a svolgere lavori di manovalanza operaia.

     

    Nel maggio 1943 il regime progetta i campi di lavoro. Ma non avrà il tempo di realizzarli, a causa del precipitare degli eventi (luglio 1943, caduta del fascismo). Tra gli ebrei italiani esplode un’euforia collettiva, poiché si pensa che la caduta del regime porrà finalmente termine alle discriminazioni razziali. Così non è. Il paese si spacca in due: a Sud gli Alleati; a Nord l’occupazione nazista, che rende vivo e reale, come mai prima d’ora, il pericolo. Nella RSI, infatti, centinaia di ebrei vengono arrestati dai fascisti. Secondo alcune interpretazioni, i repubblichini avrebbero arrestato gli ebrei per “proteggerli” dai rastrellamenti nazisti. La tesi non regge, perché una volta arrestati, gli ebrei sono stati consegnati ai nazisti, che li hanno deportati nei campi di sterminio. Non solo, la spoliazione dei beni degli ebrei è stata condotta da entrambi, fascisti e nazisti.

     

    Le delazioni anonime. Un capitolo doloroso. Chi erano i delatori? Perché lo facevano? Le ragioni potevano essere personali (odio verso una persona, rivalità professionale) o ideologiche (adesione al fascismo). Malgrado ciò, la maggior parte degli ebrei italiani si è salvata, e solo 8.000 sono stati deportati nei campi. Nonostante questo bilancio “positivo”, quello della comunità ebraica italiana è l’unico caso di deportazione “fuori tempo massimo”, ossia quando gli Alleati sono già nel paese, e questo va ricordato per comprendere l’eccezionalità dello “sterminio” italiano.

     

    Molti ebrei (dai 1200 ai 2000 ca.) hanno preso parte alla Resistenza, perché per essi la resistenza rappresentava un’ancora di salvezza per il processo di reintegrazione, per il recupero della loro identità italiana. La Resistenza ha significato per loro non solo liberazione dal fascismo, ma anche ritorno alla vita e alla speranza di un’Italia vera. Di contro, per i giovani ebrei questo processo è stato faticoso: essi, infatti, hanno recuperato più facilmente la dimensione comunitaria ebraica che quella italiana.

    (Iael ORVIETO, responsabile dello Yad Vashem Publishing House)


    Gli ebrei nel Nord Africa

    La questione dell’ebraismo nordafricano è relativamente recente; è solo dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso che essa si è imposta all’attenzione non soltanto della storiografia, ma anche dell’establishment ebraico israeliano. Il merito di questa emersione spetta a un volume (Enciclopedia delle comunità ebraiche: Libia  Tunisia, 1997) grazie al quale, per la prima volta, la narrazione dell’Olocausto è stata estesa anche agli ebrei nordafricani, i quali hanno poi ricevuto dallo Stato di Israele un indennizzo per le persecuzioni e le sofferenze patite.
        
    Chi sono gli ebrei nordafricani? Essi discendono da due diverse comunità: gli ebrei che vivevano da secoli tra le popolazioni locali musulmane (le prime attestazioni di ebrei in Nord Africa risalgono addirittura al I sec. d.C.) e i cosiddetti “Grana”, ovvero i discendenti di quei marrani spagnoli giunti in Italia nei secc. XV-XVI, da dove, riconvertitisi al giudaismo, partirono alla volta del Nord Africa.


    Dalla metà del XIX secolo fino agli anni del secondo conflitto mondiale, le comunità ebraiche nordafricane furono sottoposte al duplice controllo dei governi locali musulmani e delle autorità coloniali europee, nello specifico Francia (Marocco, Tunisia e Algeria) e Italia (Libia), due nazioni implicate a diverso titolo col regime nazista.

     

    Anche questi ebrei furono compresi nella Soluzione Finale, progettata da Hitler. Il piano della loro eliminazione è riscontrabile in tre documenti: iProtocolli della Conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942 (agli ebrei sefarditi è riservato l’identico destino di morte degli ebrei ashkenaziti);  ilDiario del Gran Mufti di Gerusalemme Hajj Aminel-Hussein (questi è responsabile del pogrom antiebraico durante il protettorato inglese, è un filonazista convinto e quando chiede a Hitler qual è la sorte riservata agli ebrei nordafricani, il Fuhrer gli risponde: «quando le gloriose armate tedesche conquisteranno il Caucaso, allora suonerà la riscossa del mondo arabo»);  il volantino delle forze di occupazione tedesche in Tunisia, datato 23 dicembre 1942 («gli ebrei  tunisini sono parte integrante del complotto ebraico internazionale che ha dato avvio alla guerra, e per questo pagheranno il prezzo»).
     


    La realizzazione dei piani tedeschi fa leva sulla politica razziale perseguita dalla Francia di Vichy (estensione dello “Statuto di Ebrei” nei territori coloniali sottoposti alla sua sfera d’influenza) e dall’Italia fascista (estensione delle leggi razziali in Libia); sui campi di lavoro forzato per i dissidenti in Marocco e Algeria; sulla presenza di corpi di polizia tedesca nei due paesi occupati dalle armate naziste: Libia e Tunisia.  Durante i sei mesi di occupazione nazista della Tunisia (novembre 1942-maggio 1943) le vittime ebree tunisine sono complessivamente 226. È solo una questione di tempo se il numero delle vittime si mantiene così basso.  Ma la salvezza delle comunità ebraiche fu dovuta alla scarsità le truppe di occupazione nazista in Tunisia; all’intervento degli italiani per salvare i “Grana”; alla scarsa partecipazione della popolazione araba tunisina (i nazionalisti arabi di Habib Bourghiba avevano scarso interesse a organizzare i pogrom antiebraici).

     

    Diverso il destino degli ebrei di Libia. Qui l’estensione delle leggi razziali italiane è postdatata dal 1938 al 1940 per intercessione dell’Alto Commissario Italo Balbo (si dice che non fosse antisemita), il quale fa notare a Mussolini il grosso danno che ne verrebbe per l’economia locale, e quindi per quella italiana, dall’applicazione delle leggi razziali. Alla morte di Balbo, gli ebrei libici, che fino a quel momento si sono comportati da cittadini leali, tradiscono l’Italia, passando dalla parte degli inglesi (va precisato che, nel corso della guerra, la regione della Cirenaica è alternativamente controllata da Italia e Gran Bretagna). Mussolini decide quindi di punire in maniera esemplare la loro slealtà, deportando 2.600 ebrei libici nel campo di Jiada (sud di Tripoli, alla frontiera col deserto del Sahara), dove ben 580 di essi periranno.

    (Irit ABRAMSKI, ricercatrice presso lo YadVashem)

     

    Il nuovo antisemitismo

    Quella che al termine della Seconda guerra mondiale era opinione diffusa, e cioè che la Shoah fosse stata un’esperienza talmente drammatica che mai più l’antisemitismo avrebbe abitato tra gli uomini, è stata sconfessata dall’insorgenza di nuove forme di antisemitismo.  Si tratta di un fenomeno che interessa molti paesi nel mondo e gruppi politicamente e religiosamente diversi. In comune, questo nuovo antisemitismo ha le “tre D”: Demonize, Delegitimize, Double Standards.

     

    Di recente, in alcuni paesi europei si è registrata la rinascita e/o l’ascesa di correnti antisemite di estrema destra: da Forza Nuova in Italia, a “Golden Dawn” in Grecia, a “Magyargarda” in Ungheria. La crisi economica che a vari livelli questi paesi stanno vivendo contribuisce senza dubbio a far guadagnare consensi ai movimenti di estrema destra (soprattutto nel caso della Grecia), non tanto per aderenza ideologica delle masse quanto per protesta.

     

    Nei paesi ex-comunisti è abbastanza generalizzato il fenomeno della ricerca nella storia passata di figure di eroi che siano possibilmente anticomunisti e nazionalisti. In Ucraina, ad esempio, nel 2010, il presidente uscente Viktor Iushenko decise di assegnare il titolo di “eroe” nazionale a Stepan Bandera, un leader nazionalista vicino alla Germania nazista, che aveva combattuto per l’indipendenza del proprio paese contro la Polonia e l’URSS e che aveva perseguitato gli ebrei russi e polacchi. In Ungheria stiamo assistendo al ritorno del culto dell’ammiraglio Horthy, dimenticando che quest’uomo, alleato dei nazisti, ha contribuito alla deportazione nei campi del 60% degli ebrei ungheresi. Come si spiega dunque questa idealizzazione? La risposta è semplice: la gente non conosce la storia o non vuole confrontarsi con essa.

     

    L’antisemitismo è una malattia che, storicamente, ha colpito non soltanto la Destra, ma anche la Sinistra. Stalin, ad esempio, è stato l’autore del cosiddetto «complotto dei medici», uno strumento di propaganda messo a punto dal dittatore per dimostrare l'esistenza di un piano ebraico nazionale e successivamente internazionale per la conquista del mondo. L’occasione per dispiegare il suo piano gli fu offerta, nel gennaio 1953, dall’avvelenamento per motivi di potere di due alti funzionari di partito. Dell’assassinio furono incriminati nove medici della cerchia del Cremlino, dei quali ben sei erano ebrei. Ebbe così inizio la persecuzione e l’uccisione di intellettuali e medici ebrei. Solo la morte del dittatore, sopraggiunta nel marzo dello stesso anno, pose fine alla persecuzione.
     
    Nell’Europa dell’Est, dove spesso le posizioni ufficiali hanno screditato l'Olocausto, l'antisemitismo è da sempre una realtà latente, pronta a venire allo scoperto alla prima occasione. Nel 1968, in Polonia si è registrata un’ondata di antisemitismo che ha provocato l’esodo di una parte consistente di ebrei sopravvissuti, alcuni dei quali erano per giunta comunisti intransigenti.
     
    Il conflitto israelo-palestinese è un detonatore di antisemitismo. I difensori dei palestinesi sventolano vecchi stereotipi antisemiti a sostegno della loro causa. Ad esempio, in alcune sure del Corano gli ebrei sono presentati come discendenti di certi insetti e animali come le api, i maiali, le scimmie. Oggi i musulmani fondamentalisti si riferiscono abitualmente agli ebrei come scimmie e maiali (cfr. il sito web antisemita islamico MEMRI). Non molto tempo fa, un chierico musulmano è arrivato ad affermare che gli ebrei infettano il cibo con il cancro per poi inviarlo ai paesi musulmani! In Egitto, nell’ultima campagna elettorale, l’accusa peggiore che i candidati avversari si sono lanciati l’un l’altro è stata quella di essere ebrei o filosemiti.
     
    Accanto a queste rappresentazioni si aggiungono quelle prese in prestito dall'Olocausto, ma invertite di segno. Israele è spesso tacciato di essere un paese nazista, così come Sharon viene spesso presentato come un nuovo Hitler; il massacro di Jenin del 2002, nel corso del quale morirono più di 500 palestinesi, viene ricorrentemente presentato come un genocidio. Ovviamente queste immagini sono assai potenti ed hanno l’effetto di alimentare l’odio esistente verso gli ebrei. Il fatto è che nulla di quello che fino ad oggi è occorso tra Israele e Palestina è lontanamente paragonabile a ciò che è avvenuto nell’Europa nazista.

     

    Parlare di Shoah nel mondo arabo-musulmano sovente dà vita a posizioni contrastanti:  da un lato, il negazionismo; dall’altro, la rappresentazione della tragedia palestinese come un nuovo Olocausto. È opinione diffusa che la creazione dello Stato di Israele sia successiva all’Olocausto e che sia stata appoggiata dall’Occidente per lavarsi la coscienza dall’orrore della Shoah. I palestinesi starebbero pagando per le “colpe” commesse dagli europei. Questa tesi è erronea, perché la migrazione ebraica in Palestina è cominciata ben prima delle persecuzioni naziste. Sul piano politico, dunque, la negazione dell’Olocausto è funzionale al non riconoscimento dello Stato di Israele, alla sua delegittimazione.

     

    Uno dei principali gruppi negazionisti americani è quello che si raduna attorno all’Institute for Historical Review, il cui obiettivo è trivializzare l’Olocausto, sostenendo che esso non ha alcun valore reale; ridimensionarlo, conferendogli un posto secondario rispetto a quello accordatogli dalla Storia; giustificare lo sterminio, presentandolo come un genocidio perpetrato per il bene del mondo.

     

    Antisemitismo fa spesso rima con antiamericanismo (il cosiddetto Anti-Anti), ma non solo. Un tratto peculiare del nuovo antisemitismo è che esso unisce trasversalmente gruppi ideologicamente distanti tra di loro. Neonazisti, estrema sinistra, antiamericani, no global, fondamentalisti islamici sono accomunati da uno stesso scopo: attaccare gli ebrei; attacchi che, come si è avuto modo di constatare nel corso di questo 2012 in Francia, non si limitano agli assalti verbali.

     

    (Rob ROZETT,  direttore di Biblioteca dello Yad Vashem)

     

    I laboratori didattici

     

    Quattro scatole, quattro storie. Ricordi di una scatola.

    Unità didattica per la scuola primaria che consta di quattro storie di altrettanti bambini (di cui una sola è ancora in vita) e focalizza l’attenzione su quegli aspetti più vicini all’esperienza individuale dei giovani studenti. Un’altra attività didattica adatta agli alunni sia delle ultime classi della scuola elementare, sia della scuola media è il libro “Volevo volare come una farfalla”, scaricabile nella versione italiana al seguente URL: http://www1.yadvashem.org/yv/en/education/languages/italian/lesson_plans/butterfly.asp

     

    Through Our Eyes

    Unità didattica per la scuola media che propone lo studio della Shoah attraverso la lettura di estratti di diari, testimonianze, poesie e fotografie di bambini e adolescenti originari di diversi paesi europei.  Il libro racconta in una prospettiva cronologica (dall’inizio degli anni Trenta fino al 1945) la percezione che i bambini avevano della Shoah, rivelando i pensieri e le emozioni più profonde nate dal confronto quotidiano con la morte e la distruzione. L’empatia tra il giovane studente e la storia del bambino ebreo è assicurata.

     

    The Auschwitz Album

    Unità didattica multidisciplinare (di Yael EAGLSTEIN) che combina album fotografici, testimonianze e lettere, destinata agli studenti delle superiori. The Auschwitz Album segue l’arrivo degli ebrei della comunità di Bilke (Ungheria) nei campi di Auschwitz-Birkenau, nell’estate del 1944, e offre un resoconto illustrato dell’intero processo d’internamento: la realtà concentrazionaria dei campi, il processo di disumanizzazione cui i detenuti erano sottoposti. L’esame di alcuni dettagli fotografici offre la possibilità di restituire agli ebrei un po’ di quella dignità umana brutalmente violata dai tedeschi.  L’unità didattica comprende un documento eccezionale, unico nel suo genere: l’album fotografico della famiglia di Lili Jacob, una sopravvissuta. Le foto sono state scattate da due fotografi nazisti che lavoravano ad Auschwitz per la propaganda. La problematica che l’utilizzo di queste foto pone sul piano storiografico e didattico è di carattere interpretativo. L’utilizzo delle fotografie come fonte storica, infatti, richiede molte attenzioni e precauzioni, perché è sempre il punto di vista del fotografo che tende a prevalere. Nella fattispecie, le foto documentano il punto di vista dell’aguzzino, non certo quello della vittima, quindi ciò che i nazisti volevano rappresentare. E allora, come completare la narrazione? Come dare voce alle immagini? Risposta: ricorrendo ai diari, alle memorie, alle lettere dei deportati.

     

    La vita quotidiana nel ghetto di Varsavia.

    Unità didattica di Yftach ASHKENAZY. Nell’autunno 1940 gli ebrei di Varsavia vengono rinchiusi nel ghetto. In 13 km di perimetro sono concentrati poco meno di 400.000 ebrei. Nel giro di pochi mesi la situazione sanitaria e alimentare precipita drammaticamente: donne e bambini coperti di stracci e con i volti emaciati dal freddo e dalla fame; mendicanti di tutte le età appostati lungo le strade; teste chine dei passanti che devono togliersi il cappello quando passa un tedesco; bambini che attraverso i varchi aperti nei muri (ma anche attraverso le fogne) praticano il contrabbando. Questa realtà drammatica e inumana è documentata dalle foto scattate dalla propaganda nazista. Ancora una volta si pone il problema della parzialità dell’informazione e della sua interpretazione, giacché la realtà che queste foto ci restituiscono è quella filtrata dall’obiettivo tedesco, che indugia sulla sofferenza, sull’umiliazione, sull’offesa all’umanità e alla dignità degli ebrei. Per una corretta fruizione di queste foto sul piano storico e didattico, esse sono state integrate e riequilibrate dalla parola, cioè il racconto per immagini  è affiancato dal racconto a parole, con testimonianze, diari, lettere delle vittime.

     

    Come è stato umanamente possibile

    Modulo didattico creato dall’ISHS sui carnefici e gli indifferenti durante l’Olocausto. Viene messa a confronto la testimonianza di una deportata, Hilde Sherman, con il rapporto che Salitter, un agente di polizia locale, redige per le SS in occasione del trasporto degli ebrei da Düsseldorf a Riga (11-17 dicembre 1941). La prima comparazione è di carattere formale: la scrittura del rapporto è impersonale, tecnica (compaiono molte cifre: quelle degli orari dei treni, delle piattaforme e dei vagoni, del numero di deportati), priva di qualsivoglia implicazione emotiva, esattamente come un rapporto dev’essere; sul piano linguistico, si segnala la presenza di termini che esprimono  il processo di disumanizzazione cui gli ebrei sono stati sottoposti, non solo nei fatti, ma anche nelle parole. Di contro, la testimonianza di Hilde è in prima persona, è emotivamente partecipata, da essa traspare non solo lo sgomento per quanto sta accadendo, ma anche una certa attenzione al dettaglio, espressione di un acuto spirito di osservazione.

     

    Lo scopo dell’unità didattica è di riflettere sulle responsabilità personali di quegli individui coinvolti, ciascuno al proprio livello, nell’organizzazione e nell’implementazione dei convogli che servivano a trasportare gli ebrei nei campi di sterminio dell’Europa dell’Est. Questi individui comprendevano il personale ferroviario, senza il quale nessun trasporto avrebbe potuto avere luogo, la polizia locale preposta al controllo dei trasporti, gli ufficiali delle SS che pianificavano e coordinavano le deportazioni, last but not least, il gruppo più consistente, quello dei bystanders, tutti quelli che videro i treni partire verso Est e che rimasero indifferenti al destino degli ebrei.

     

    Insegnare la Shoah attraverso la letteratura e la  poesia

    Attraversa un affascinante percorso letterario – da Pavel Friedman a Dan Pagis, da Lily Brett a Primo Levi a William Auden  (JackieMETZGER, ricercatore dello YadVashem). Al centro della lezione il Blues del profugo, un componimento poetico di W.H. Auden, uno dei più importanti poeti inglesi del XX secolo, che si confronta col problema dei profughi ebrei. In maniera preveggente (la poesia è stata scritta sei mesi prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale), Auden vi evoca lo spettro dell’ebreo tedesco profugo.  La poesia di Auden,  (la versione in italiano è scaricabile al seguente URLhttp://www1.yadvashem.org/yv/en/education/languages/italian/lesson_plans/holocaust_poetry.asp#6), è messa a confronto sia con una fotografia storica di ebrei che fanno la fila davanti a un’agenzia di viaggi di Berlino, poco prima della Notte dei Cristalli (1938), sia con un dipinto di Felix Nussbaum, Il profugo (1939), dove un enorme mappamondo troneggia in primo piano, mentre in secondo piano vediamo un profugo disperato con il suo fagotto.

     

    Primo Levi, scrittore più che poeta, ha composto due poesie: «Shemà», in apertura diSe questo è un uomo, e «Alzarsi», in coda allaTregua.  Quale il significato di queste poesie? LoShemà Israel è la preghiera più importate degli ebrei, recitata tre volte al giorno: mattina, pomeriggio, sera. Come sappiamo, Levi non era un uomo religioso, tuttavia, in questo componimento egli fa il verso alla preghiera per via della sua potenza: nella poesia «Shemà», infatti, vi è un’esortazione continua ed estenuante a ricordare e a raccontare l’ineffabile, altrimenti cose terribili si augurano all’uomo immemore. In «Alzarsi», invece, l’impossibilità dei sopravvissuti a dimenticare l’orrore è sintetizzata dall’espressione di comando “Wstawac” che risuona perpetuamente nelle loro orecchie.  

     

    «In questo vagone» di Dan Pagis è una delle più potenti poesie sulla Shoah che siano mai state composte, poiché stabilisce una linea diretta tra il fratricidio di Caino e Abele e la tragedia dell’Olocausto.

     

    Usare l’arte nella didattica della Shoah.

    Laboratorio condotto da Orit MARGALIOT è interamente basato sull’analisi di documenti iconografici, per lo più i quadri esposti nella Galleria d’Arte dello Yad Vashem più alcuni fumetti per bambini (delizioso ilMickey au champ de Gurs di Horst Rosenthal, nel quale l’autore fa dell’autoironia, rappresentandosi nelle vesti di un topo, Mickey Mouse, appunto). L’arte prodotta durante la Shoah è uno strumento che si presta bene allo studio della stessa, purché nel suo utilizzo si rispettino alcuni parametri: la categoria di appartenenza dell’opera (cfr.ultra); la storia dell’artista; il contesto storico.
     

     

    Le testimonianze

     

    Susanna CASSUTO-EVRON. UN’EBREA ITALIANA

    È un’ebrea italiana di 76 anni scampata alla deportazione e alla realtà concentrazionaria; attualmente vive in Israele, in un Kibbutz posto di fronte alla striscia di Gaza. Nel 1943, quando l’Italia è occupata dai nazisti, Susanna ha sette anni e vive a Firenze con la sua famiglia (papà, mamma, due fratelli più una sorellina in arrivo). La testimonianza di Susanna è una testimonianza paradigmatica sotto molteplici punti di vista: è la classica figlia di una famiglia ebrea ortodossa benestante (il papà Nathan è medico oculista, e quando le leggi razziali gli impediranno di esercitare la professione, diverrà rabbino capo di Firenze); è una di quei figli di Israele  accolti nei conventi cattolici, o in casa di amici, o presso famiglie partigiane, da dove, trasmigrando di luogo in luogo, è poi riuscita a sfuggire alle persecuzioni e ai rastrellamenti; durante il periodo di permanenza nell’orfanotrofio gestito dalle suore, vive in maniera profonda e drammatica il disagio culturale derivante dall’imposizione di pratiche religiose e alimentari cattoliche (la piccola Susanna percepisce tutto ciò come perdita della propria identità e prega Yahweh con tutte le sue forze perché la faccia scappare di lì…). Alla fine della guerra, Susanna ritrova parte del suo nucleo familiare: due fratelli (Daniel e David, mentre la piccola Eva è morta di polmonite), la madre (sopravvissuta ai campi), alcuni zii e i cugini (il padre e i nonni invece hanno perso la vita ad Auschwitz); si trasferisce quindi in Israele, dove si arruola nell’esercito, si sposa e si riproduce, donando al mondo figli, nipoti e pronipoti. È questa la risposta di Susanna Cassuto-Evron al piano di sterminio nazista: la moltiplicazione dei figli di Israele nella Terra Promessa. Qualche anno fa, Susanna ha raccontato la storia della sua famiglia in un libro intitolato I piccoli non fanno domande. Suo padre Nathan è stato riconosciuto “Martire dell’Olocausto” e “Medaglia d’Argento al Valore”  della Presidenza della Repubblica.

     

    Ehud LOEB E IL COMITATO DEI GIUSTI

    Nato nel 1934 a Buehl, un paesino della Germania, nell’ottobre del 1940, Ehud e i suoi genitori vengono deportati insieme ad altri 6000 ebrei nel campo di concentramento di Gurs, nel sud-ovest della Francia, da dove poi, nel 1942, la stragrande maggioranza (compresi i genitori del piccolo Ehud) sarà trasferita ad Auschwitz, per non farvi mai più ritorno. Nel 1941 l’OSE, un’organizzazione umanitaria ebrea-francese, riesce a portare fuori dal campo di Gurs 14 bambini, con il consenso dei genitori, nascondendoli presso le chiese o le famiglie cristiane, e quindi salvando loro la vita. Ehud è uno di questi. Ha così inizio un lungo periodo di nascondiglio presso le famiglie cristiane, che per un bambino ebreo significa fare i conti con la propria identità. Ehud, infatti, è costretto ad assumere una nuova identità, il che comporta l’apprendimento veloce e senza inflessione straniera della lingua locale (il francese), per evitare di essere scoperto dalla polizia tedesca; apprendere il catechismo e le preghiere, per confondersi all’interno della comunità cattolica (Ehud serve addirittura la messa come chierichetto); diventare un bambino modello, buono e ubbidiente, per non rischiare di essere cacciato dalla famiglia di accoglienza (egli ha trovato rifugio in un piccolo villaggio francese, prima presso una vedova che vive in una fattoria, poi presso la famiglia di un macellaio). Invitato a trascorrere un breve periodo di vacanza presso alcuni parenti in Svizzera, Ehud non farà più ritorno in Francia, giacché sarà accolto e adottato da costoro. Nel nuovo paese il piccolo reimparerà la lingua materna (l’ebraico) e riprenderà a frequentare regolarmente la scuola. In Svizzera Ehud vi resta fino al 1958, anno in cui decide di trasferirsi in Israele, dove entra a far parte di un’organizzazione che si occupa del supporto ai sopravvissuti della Shoah. Molti di questi, fino a quel momento, non avevano condiviso la propria esperienza con nessuno (chi per precisa volontà, chi per incapacità o impossibilità).  Cominciano a farlo proprio ora, con Ehud, cui aprono i cuori e le menti, incontro dopo incontro, raccontandogli storie inaudite e inenarrabili. Per otto anni Ehud presta assistenza ai sopravvissuti; poi decide di smettere: il portato di atrocità e sofferenza insito in queste storie è divenuto troppo gravoso per poter essere sostenuto ancora a lungo. Da questa esperienza così intensa e dolorosa Ehud ha imparato una grande verità: che non bisogna mai perdere di vista l’individualità insita nella tragedia dell’Olocausto. Ciascuno degli ebrei sopravvissuti alla Shoah è portatore di una storia individuale, di una vicenda fatta di stermini familiari e di persecuzioni sulla propria pelle, e che questo vissuto personale non può stemperarsi in un dato statistico, quandanche immenso come quello di sei milioni di vittime.

     

    È così che Ehud ha iniziato a collaborare con lo Yad Vashem e, dal 2004, è divenuto membro del Comitato per la designazione dei Giusti tra le Nazioni (istituito nel 1963), occupandosi della preparazione dei  dossier per la Francia. Il titolo di Giusto fra le Nazioni è riservato a quegli individui che hanno rischiato la propria vita per salvare quella degli ebrei. La gran parte degli individui cha hanno ottenuto il riconoscimento è di condizione sociale umile (come dimostra la storia personale di Ehud), spesso si tratta di persone molto religiose, sensibili ai valori umani, a prescindere dal credo che professano. Il procedimento che porta al conferimento del titolo è assai lungo e meticoloso e richiede che il dossier sia costruito con grande cura, raccogliendo testimonianze attendibili e assai circostanziate presso i sopravvissuti o i propri figli. Questi i criteri cui bisogna ottemperare: 1) è necessario che il non ebreo sia stato implicato personalmente nel salvataggio dell’ebreo perseguitato; 2) deve aver rischiato di perdere la vita o la libertà o la posizione sociale; 3) non si aspettava alcuna ricompensa economica (o onorificenza), né nell’immediato, né in futuro; 4) non era spinto da moventi di proselitismo religioso (conversione) o di adozione: 5) non deve aver salvato parenti prossimi (matrimoni misti) ebrei convertitisi al cristianesimo durante la guerra; 6) non deve essere stato un membro della resistenza ebraica; 7)  non deve avere un passato criminale. Ad oggi sono stati riconosciuti 24.000 Giusti fra le Nazioni.

     

    Materiali audiovisivi

     

    Come utilizzare le testimonianze filmiche in classe? Abbiamo due possibilità: 1) mostrare uno spezzone del filmato, quello che riteniamo più significativo al raggiungimento dei nostri obiettivi; 2)  mostrare l’intero filmato e osservare il personaggio agire, muoversi e raccontarsi in spazi e tempi diversi, prima e dopo l’Olocausto. L’uso della testimonianza del sopravvissuto consente di lavorare con l’empatia, che è cosa diversa dall’identificazione (il role play), ed è un ottimo strumento per combattere gli stereotipi. La storia di Ovadia Baruch, ad esempio, insegna che nei campi di sterminio sono stati deportati anche gli ebrei non polacchi; che esisteva un’importante comunità ebraica mediterranea, con un suo portato di tradizioni culturali; che non tutti gli ebrei erano ricchi e colti.

     

    Witness and Education

    Testimonianze filmiche a cura di Yad Vashem, nelle quali i sopravvissuti raccontano la storia della loro vita nei luoghi in cui gli eventi si sono consumati. I sopravvissuti sono accompagnati nel loro viaggio da esperti dell’ISHS che pongono loro domande orientate in senso didattico, in modo che la storia individuale del superstite scorra parallelamente alla Storia generale.

     

    Possa il tuo ricordo essere amore. La storia di Ovadia Baruch

    Ovadia Baruch ha 20 anni quando, nel marzo 1943, viene deportato con tutta la sua famiglia dalla Grecia ad Auschwitz-Birkenau. L’intera famiglia sarà presto mandata a morte nelle camere a gas, mentre Ovadia riuscirà a sopravvivere fino alla liberazione del campo di Mauthausen, nel maggio 1945. Durante la permanenza ad Auschwitz, Ovadia incontra Aliza Tzarfati, una giovane ebrea originaria della sua città natale. I due si innamorano, a dispetto delle condizioni inumane in cui vivono.  Il film documenta la loro storia d’amore e di sopravvivenza nel campo di Auschwitz, il loro miracoloso incontro dopo l’Olocausto e la famiglia che hanno creato in Israele.  

     

    Ritorno alla vita.

    La questione del “dopo” Shoah, ovvero del ritorno alla vita. È possibile tornare alla vita “normale” quando scopri di essere solo al mondo, senza più una casa, una famiglia e un lavoro; quando necessiti di rieducazione fisica e psicologica perché devi reimparare a mangiare e a camminare, e, soprattutto, devi superare lo shock del recente passato; quando le uniche strutture che possono offrirti accoglienza sono ancora una volta dei campi, ma questa volta di profughi; quando ti capita di dover ancora subire delle persecuzioni (alcuni ebrei polacchi, nel 1946, sono vittime di pogrom con l’atavica accusa di praticare il sacrificio rituale dei bambini cristiani); quando l’unico mezzo di trasporto che ti consente di spostarti da un luogo all’altro è ancora una volta un treno merci, con la differenza che stavolta però ci sali di tua sponte;  quando scopri che a nulla è valsa la guerra se il tuo paese è ancora sottoposto a un regime, anche se di colore diverso (molti sono gli ebrei che abbandonano l’Europa comunista per trasferirsi in Italia, Francia, Germania federale, oppure in Palestina, Usa, Australia); quando, se sei donna,  restare incinta ti sembra un autentico miracolo (le donne recluse nei campi soffrivano di amenorrea); quando, se sei un bambino dei campi profughi, una delle prime cose che fai con la paghetta che ricevi è di correre dal fotografo per farti ritrarre, perché la fotografia ti restituisce identità e dignità, ed è la prova tangibile che sei vivo; quando, se sei giovane e solo al mondo, entri a far parte del movimento sionista?

     

    Il luoghi di memoria

     

    Il dispositivo memoriale della Shoàh è complesso e vario, composto da un intreccio di luoghi di memoria. Vi è ilViale dei Giusti fra le Nazioni, dove oltre 2.000 alberi sono piantati in onore dei gentili che durante la Shoah hanno rischiato la propria vita per salvare la vita degli ebrei; il suggestivoMemoriale dei Bambini, dove, in una sala immersa nel buio e appena rischiarata da 5 piccole lampade la cui luce è rifratta mediante un gioco di specchi, una voce ripete in un incessante e dolorosoloop i nomi, la data di nascita e la provenienza del milione e mezzo di bambini ebrei sterminati dai nazisti; laSala del Memoriale, dove una fiamma perpetua arde accanto a un’urna contenente le ceneri delle vittime portate in Israele dai campi di sterminio;  laSala dei Nomi, un archivio circolare sormontato da una cupola a forma di cono ricoperta di 600 fotografie, in cui sono custoditi i nomi e le storie personali di ben tre milioni di vittime dell’Olocausto (l’archivio è consultabile dai visitatori anche on-line ed è in continua implementazione); laValle delle comunità perdute, un labirinto la cui sagoma ricorda la morfologia del Vecchio Continente, al cui interno è facile smarrirsi nel dedalo delle nazioni europee un tempo abitate dalle 5.000 comunità ebraiche decimate dai nazisti, di cui non è rimasto pressoché nulla se non il nome inciso sulle 107 pareti roccia viva di questo mausoleo a cielo aperto.
     

     

    Al Museo storico la vicenda della Shoah è raccontata da una prospettiva ebraica, lungo un percorso che si snoda attraverso 9 gallerie. La narrazione tematica e cronologica è punteggiata da finestre che si aprono sulle comunità ebraiche europee vissute e perite sotto il Nazismo e i regimi collaborazionisti, ed è condotta attraverso filmati, fotografie, documenti, lettere, diari, articoli, lavori artistici.
    LaGalleria d’arte raccoglie 10.000 opere, realizzate per lo più durante il periodo della Shoah nei ghetti, nei campi, nei covi e in altri posti dove l’impegno artistico era pressoché impossibile, a causa dello stato di totale deprivazione materiale e di collasso fisico e mentale in cui vivevano gli artisti. Malgrado ciò, i quadri sono stati realizzati e, in molti casi, sono sopravvissuti ai loro autori. Essi dunque esprimono lo spirito dei sopravvissuti e delle vittime.

     

    Il seminario

     

    Il materiale e le relazioni di questo articolo sono tratte dal seminario svoltosi a Gerusalemme dal 31 agosto al 9 settembre 2012, organizzato dal M.I.U.R. e dall’International School for Holocaust Studies dello Yad Vashem (The Holocaust Martyrs’ and Heroes’ Remembrance Authority), nell’ambito del ICHEIC Program for Holocaust  Education in Europe. Gli insegnanti che vi hanno preso parte, 18 in tutto,  rappresentavano gli Uffici Scolastici Regionali che hanno aderito all’iniziativa.  Quest’ultima è stata resa possibile grazie al prezioso lavoro di Anna Piperno dell’ IT for Cooperation on Holocaust Education, Remembrance and Research del M.I.U.R., e del suo efficiente staff (Lina Grimaldi e Giuliana di Scala).

     

    I seminari dell’International School for Holocaust Studies (ISHS) sono partiti negli anni Ottanta del secolo scorso in maniera saltuaria; solo successivamente, quando a livello internazionale si è avviata la lotta contro il negazionismo, l’ISHS ha deciso di dare il suo contributo per combattere l’antisemitismo e il negazionismo. Il Desk Italia ha lo scopo di promuovere progetti educativi per l’Italia. E’ nato nel marzo del 2005, in contemporanea con la  creazione del Dipartimento Europeo presso l’ISHS.

  • La memoria della preistoria e quella di oggi

    Pavia, 28 maggio


    Se avete tempo, guardatevi questa breve lezione di Rossella Duches, tenuta al Muse di Trento. Vi troverete una bella introduzione all'archeologia e al lavoro dello storico, di quelle che spesso inutilmente si fanno al principio di anno. Duches spiega come, attraverso la rielaborazione delle informazioni che ricaviamo dai documenti, lo storico riesce a trasformare una situazione statica (uno scavo) in una realtà dinamica (i fenomeni culturali del passato).

    Fa l'esempio dell'invenzione dell'arco, a partire da ritrovamenti del nord Europa, e soprattutto del riparo Dalmeri, vicino Trento (bellissimo il sito). Mostra come, rielaborando le informazioni sulle punte di frecce e su altri reperti di quelle società mesolitiche di cacciatori/raccoglitori, gli storici abbiano intuito non solo le modalità di caccia, ma anche i riti propiziatori di quelle società.

    Quei gruppi umani, conclude Duches, vivevano di memoria, della necessità, cioé, di tramandare tecniche di caccia, la cultura della caccia, e l'insieme dei riti collegati a questa.

    Chi avrà modo di guardare questo video, giunto alla fine, capirà la pertinenza della citazione di Hobsbawm, che l'archeologa premette al suo discorso, nella quale lo storico inglese rimarca che uno dei problemi più gravi della nostra società è la nostra tendenza a vivere immersi in un "presente permanente, privo di un raccordo organico coi fenomeni del passato". Duches si chiede se uno dei fattori che aggravano il momento di crisi che viviamo non sia anche il fatto che non ricordiamo come le abbiamo affrontate in passato, quali fenomeni le abbiano causate e quali furono i loro esiti.

    (se volete proseguire questo discorso, vedetevi gli articoli sulle crisi su HL, oppure il dossier sulle Crisi del Novecento, su www.novecento.org)

    Chi ha detto che la preistoria serve solo per far divertire i bambini?

     

  • La storia in tribunale

    di Daniele Boschi

    EngelkingBarbara Engelking e Jan Grabowski, i due storici della Shoah condannati per diffamazione da un tribunale di Varsavia il 9 febbraio 2021 Immagine1 Immagine2Finora erano stati soprattutto alcuni studiosi accusati di negazionismo a finire in tribunale e ad essere condannati per quanto avevano scritto in merito all’Olocausto (tra i casi più noti vi sono quelli di Robert Faurisson, di Roger Garaudy e di David Irving). Ma ora le parti sembrano essersi invertite. Martedì 9 febbraio un tribunale di Varsavia ha giudicato colpevoli di diffamazione due importanti studiosi della Shoah, per alcune affermazioni fatte in un libro in cui raccontano le persecuzioni subìte dagli ebrei in Polonia durante la Seconda guerra mondiale. 

    Ma procediamo con ordine. Barbara Engelking (direttrice del Polish Center for Holocaust Research) e Jan Grabowski (dell’Università di Ottawa) hanno curato la pubblicazione di un libro di circa 1600 pagine, diviso in due volumi, dal titolo Notte senza fine. Il destino degli ebrei in alcune contee della Polonia occupata (ho tradotto il titolo dall’inglese, il libro è uscito nel 2018 in lingua polacca). È il risultato di una ricerca vastissima, che ha messo in evidenza, da un lato, la determinazione e il coraggio con cui gli ebrei lottarono per sfuggire allo sterminio, e dall’altro lato la complicità di alcuni segmenti della società polacca con i nazisti.

    Tra le tante vicende ricostruite nei due ponderosi volumi c’è quella di Edward Malinowski, sindaco del villaggio di Malinowo, nella Polonia nordorientale, negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. Stando a quel che si legge nel libro, Malinoswski avrebbe dapprima aiutato una donna ebrea, Estera Siemiatycka, a sfuggire ai nazisti rifugiandosi in Germania, ma successivamente avrebbe consegnato ai tedeschi decine di ebrei che si erano nascosti nei boschi nelle vicinanze del villaggio.

    Nel libro questa storia ha un ruolo assolutamente marginale. Ma la nipote del sindaco Malinowski (oramai defunto), Filomena Leszczyńska, ha intentato una causa per diffamazione nei confronti di Engelking e Grabowski, accusandoli di avere ignorato il fatto che nel 1949-50 suo zio fu processato e assolto dall’accusa di complicità con i nazisti. Barbara Engelking ha replicato a questa accusa affermando che l’esito di quel processo fu falsato dalle intimidazioni subìte da alcuni testimoni, e che un’altra testimone – la donna ebrea che il sindaco di Malinowo aveva aiutato a scappare - dichiarò espressamente, molti anni dopo (nel 1996), di aver mentito per salvare Malinowski. Ciononostante, il tribunale distrettuale di Varsavia ha condannato Engelking e Grabowski a scusarsi con la Leszczyńska, sia in privato che in pubblico, e a correggere il loro libro in eventuali future edizioni. I giudici hanno però respinto la richiesta della ricorrente di far pagare una multa di 22mila euro ai due storici. Questi ultimi hanno comunque rifiutato di dar seguito alla sentenza, annunciando che ricorreranno in appello.

     

    Ghetto di VarsaviaIl bambino di Varsavia, scattata da un soldato tedesco ignoto durante l'evacuazione del ghetto: immagine simbolo della persecuzione degli ebrei in Polonia durante la Seconda guerra mondiale Fonte

     

    Riporto qui di seguito il breve testo incriminato (la traduzione dall’inglese è mia):

    “Dopo aver perso la sua famiglia, Estera Drogicka (cognome di nascita Siemiatycka), avendo comprato dei documenti da una donna bielorussa, decise di andare a lavorare in Prussia. Edward Malinowski, sindaco di Malinowo, la aiutò (derubandola allo stesso tempo) e nel dicembre del 1942 lei si recò a Rastenburg (Kętrzyn), dove lavorò come domestica presso una famiglia tedesca di nome Fittkau. Non soltanto incontrò lì il suo secondo marito (un polacco che era anche lui un lavoratore), ma avviò anche un piccolo commercio, inviando a Malinowski dei pacchi con vari oggetti da vendere. Inoltre si recava a visitarlo quando tornava ‘a casa’ in licenza. Si rese conto che lui era stato complice nell’uccisione di diverse dozzine di ebrei, che si erano nascosti nei boschi ed erano stati consegnati ai tedeschi, tuttavia testimoniò falsamente in sua difesa nel processo a suo carico dopo la fine della guerra.”

    Una nota a piè di pagina riporta le esatte parole pronunciate dalla Siemiatycka nella deposizione resa durante il processo del 1949-50; e aggiunge che Malinowski fu assolto. La nota non fa riferimento però alla decisiva testimonianza resa dalla Siemiatycka alla Shoah Foundation della University of Southern California nel 1996. A quanto sembra, la storica polacca ha indicato quest’ultima fonte soltanto nella lunga memoria difensiva, che abbiamo più volte citato, scritta quando il processo era già in corso.

    Non è facile dare un giudizio su questa controversia senza aver consultato gli atti del processo. La messa in discussione di una sentenza assolutoria passata in giudicato (com’è quella del 1950) pone delicati problemi di ordine giuridico, in quanto il diritto all’onore e alla reputazione personale entra in conflitto col diritto di critica del giornalista o dello storico1.

    In questo caso, tuttavia, molti commentatori hanno visto nel processo contro i due studiosi un grave attacco alla libertà della ricerca storica. Hanno preso posizione in tal senso numerose istituzioni e centri di ricerca che si dedicano alla memoria della Shoah, dallo Yad Vashem alla International Holocaust Remembrance Alliance, dalla World Jewish Restitution Organization alla Fondation pour la Mémoire de la Shoah. A queste voci si sono aggiunte anche quelle della Associazione degli storici e delle storiche della Germania e della Società storica polacca. In Italia l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri ha espresso profonda preoccupazione per la condanna e ha dichiarato che “in uno Stato democratico il tribunale non può essere il luogo per risolvere controversie relative ai risultati della ricerca, nonché ai metodi di selezione delle fonti e all'interpretazione della documentazione storica”.

    A nessun osservatore indipendente è sfuggito il particolare contesto politico in cui si colloca il processo contro i due storici polacchi. Il partito al governo in Polonia, Diritto e giustizia, espressione della destra nazionalista, non ha fatto mistero di non gradire che si parli di complicità polacche nell’Olocausto. Nel 2018 è stata approvata una legge che vieta di attribuire falsamente alla nazione polacca una parte di responsabilità nello sterminio degli ebrei. Inizialmente erano previsti fino a tre anni di carcere per i trasgressori, ma in seguito un emendamento ha abolito questa pena.

    A quanto sembra, nel processo contro Engelking e Grabowski non si è fatto ricorso alla legge del 2018. Tuttavia la causa della Leszczynska contro i due storici è stata sostenuta da una organizzazione denominata “Lega polacca contro la diffamazione”, che ha come scopo la difesa del “buon nome” della Polonia e ha ricevuto finanziamenti dal governo. Inoltre, il processo è stato accompagnato da una violenta campagna mediatica tesa a screditare i due studiosi, come ha sottolineato Wojciech Czuchnowski sulle pagine della “Gazeta Wyborcza” (22/01/2021).

    Infine, a giudizio di molti, non è soltanto la libertà della ricerca storica ad essere minacciata in Polonia, ma la stessa libertà di espressione, oltre che l’indipendenza del potere giudiziario. Mercoledì 10 febbraio i media liberi polacchi hanno scioperato contro il governo. “In Polonia la democrazia sta diventando una facciata, una finzione”, ha detto in un’intervista a “Repubblica” (11/02/2021) Adam Michnik, storico leader dell’opposizione contro il regime comunista polacco e fondatore del quotidiano “Gazeta Wyborcza”.
    Nella Polonia post-comunista la libertà della ricerca e la libertà di pensiero e di parola appaiono dunque strettamente legate, come del resto la storia del mondo occidentale ci ha già tante volte mostrato.

     

    1 In Italia il diritto alla critica storica può ‘scriminare’ la diffamazione (cioè può rendere legittimo un discorso critico che altrimenti si configurerebbe come un atto di diffamazione), ma solo a determinante condizioni, come si evince, ad esempio, da questa sentenza della Corte di Cassazione, nella quale, richiamando una precedente sentenza della stessa Corte, si afferma che “secondo la giurisprudenza di legittimità, al fine di ritenere scriminata una condotta astrattamente diffamatoria ‘l’esercizio del diritto di critica storica postula l’uso del metodo scientifico che implica l’esaustiva ricerca del materiale utilizzabile, lo studio delle fonti di provenienza e il ricorso ad un linguaggio corretto e scevro da polemiche personali. Ne deriva che il giudice al fine di stabilire il carattere storico dell’opera, oggetto di contestazione, deve accertare l’esistenza - quanto meno sotto forma di indizi certi, precisi e concordanti - delle fonti indicate ed utilizzate dall’autore per esprimere i propri giudizi…’ (Cass., Sez. V, n. 34821 dell’11/05/2005, Lehner, Rv 232562)”.

     

    Bibliografia/Sitografia

    - Altares, Guillermo, Polonia, processo alla Storia e alla memoria della Shoah, “La Repubblica”, 14/02/2021.

    - Comunicato sulla condanna di Barbara Engelking e Jan Grabowski, “Istituto Nazionale Ferruccio Parri”, 11/02/2021.

    - Czuchnowski, Wojciech, The plan to destroy Holocaust scholars. Polish Anti-Defamation League goes after the authors of the book "Night Without End", “Gazeta Wyborcza”, 23/01/2021.

    - Davies, Christian, Poland makes partial U-turn on Holocaust law after Israel row, “The Guardian. International edition”, 27/06/2018.

    - Déclaration à propos des poursuites judiciaires contre des historiens polonaise, “Fondation pour la Mémoire de la Shoah”, 01/02/2021.

    - Engelking, Barbara, On Estera Siemiatycka, sołtys Edward Malinowski, and lawsuits, “Polish Center for Holocaust Research”, 26/01/2021.

    - Fears rise that Polish libel trial could threaten future Holocaust research, “The Guardian. International edition”, 03/02/2021.

    - Goldkorn, Wlodek, Processo alla Storia: in Polonia va alla sbarra la memoria della Shoah, “La Repubblica”, 05/02/2021.

    - Henley, Jon, Poland provokes Israeli anger with Holocaust speech law, “The Guardian. International edition”, 01/02/2018.

    - Henley, Jon, Fears for Polish Holocaust research as historians ordered to apologise, “The Guardian. International edition”, 09/02/2021.

    - Higgins, Andrew, Polish Court Orders Scholars to Apologize Over Holocaust Study, “The New York Times”, 09/02/2021.

    - IHRA Chair's Statement on the suing of Holocaust historians in Poland, “International Holocaust Remembrance Alliance”, 01/02/2021.

    - La critica storica può scriminare la diffamazione, “Altalex”, 15/11/2016.

    - NIGHT without an END. Fate of Jews in selected counties of occupied Poland, pagina del sito web “Polish Center for Holocaust Research” (consultata l’ultima volta il 19/02/2021).

    - Polish court tells two Holocaust historians to apologise, “BBC News”, 09/02/2021.

    - Stanowisko Prezydium Zarządu Głównego PTH z dnia 5 lutego 2021 roku, “Polskie Towarzystwo Historyczne”, 08/02/2021.

    - Statement by prof. Barbara Engelking and prof. Jan Grabowski, “Polish Center for Holocaust Research”, 10/02/2021.

    - Tarquini, Andrea, Michnik: “Il governo polacco odia la stampa libera. Ecco perché scioperiamo”, “La Repubblica”, 11/02/2021, p. 15.

    - Waszak, Stanislaw, Holocaust historians face verdict in Poland defamation trial, “The Times of Israel”, 07/02/2021.

    - VHD verurteilt das Gerichtsverfahren gegen Barbara Engelking und Jan Grabowski, “Verband der Historiker und Historikerinnen Deutschlands”, 08/02/2021.

    - WJRO and the Claims Conference respond to verdict in defamation trial of internationally known scholars in Poland, “World Jewish Restitution Organization”, 09/02/2021.

    - Yad Vashem Expresses Concern Over the Legal Procedures Against Polish Scholars of the Holocaust, “Yad Vashem. The World Holocaust Remembrance Center”, 31/01/2021.

  • Le foibe: i fatti, la costruzione della memoria, la ricerca storica.

    Autore: Antonio Brusa

     

    Le foibe: i fatti, la costruzione della memoria, la ricerca storica.
    Strumenti per la didattica1

     

    Sommario

    a. Introduzione
    b. I fatti, cronologia e carte
    c. Una storia tra politica e scuola
    d. La didattica. Qualche avvertenza

     

    A. Introduzione

    Digito “foibe” sul motore di ricerca. Un milione e duecentosettantamila pagine (al 10 febbraio 2013). Si aprono con l’immancabile Wikipedia, poi è un susseguirsi di voci contrastanti: ora un giornale di destra, ora il sito Anpi, ora il circolo anarchico e poi quello neofascista. Dopo un centinaio di titoli, finalmente, compare qualche storico: è la manchette del libro di Raoul Pupo e Roberto Spazzali.

    Un testo di riferimento, preceduto però da un cupo avvertimento. Attenti: secondo la sinistra va a finire che gli italiani si sono meritati di finire ammazzati. Mi accorgo, da storico non specialista del problema, che mi oriento con grande difficoltà in questo frastuono di documenti, foto, invettive, svelamenti di silenzi e disvelamenti di svelamenti. Mi chiedo: cosa farà uno studente, al quale l’improvvido prof abbia dato la consegna di onorare la Giornata del Ricordo con una bella e esaustiva ricerca su internet? E, al contrario, il docente prudente si dovrà limitare ai manuali? Farà ricorso dalla documentazione prodotta dal ministero? Oppure si darà alle fotocopie da libri e da ricerche? O, ancora, visto che gli editori aprono siti, in cui travasano paginate di materiali, darà ordine di scaricarle, magari sui tablet nuovi di zecca, in omaggio alla modernizzazione impartita dal Miur?


    Naturalmente HL non pretende di risolvere questo problema. Sa bene che questa sarà solo l’ultramilionesima pagina. Vuole però offrire uno strumento rapido di consultazione, nel quale ci siano le conoscenze essenziali che aiutino il prof a costruire un percorso didattico e gli forniscano gli strumenti critici fondamentali.  Luigi Cajani, che insegna storia moderna e didattica della storia alla Sapienza di Roma,  ha condotto un’accurata ricerca su come i manuali hanno trattato questo tema che, parzialmente pubblicata in Germania, verrà finalmente edita a breve in Italia.  Dal suo lavoro abbiamo ricavato questo strumento.

     

    In una recente intervista, il cantante  Simone Cristicchi mette insieme, in un unico calderone, Auschwitz, la risiera di san Sabba e le foibe e ritiene che, ancora oggi, la sinistra tenti di occultare quei tragici fatti. Dice, ancora, che non ha mai studiato questo argomento storico, e che tali convinzioni sono solo il frutto delle sue considerazioni personali. E’ la prova, credo, della diffusione ormai endemica di luoghi comuni e di stereotipi, sedimentati nella nostra società nei sessant’anni che ci separano ormai da quegli avvenimenti. E, se ce ne fosse bisogno, un incentivo in più per trattarli correttamente in classe.

     


    B. I fatti

     

    Da un dossier, ormai storico, pubblicato dalla rivista “I Viaggi di Erodoto” nel 1998, a cura di Franco Cecotti e Raoul Pupo2, ricavo le notizie essenziali e la cartina, relative alla storia delle foibe. Si deve partire dal quadro del popolamento della regione (dalla Venezia Giulia fino a comprendere tutta l’Istria). Si tratta di un territorio abitato da genti che parlano lingue diverse e di diversa composizione etnica. Difficile dare numeri certi, dal momento che i censimenti (ci spiegano gli studiosi) non erano sempre affidabili, perché erano, spesso “guidati” dai censitori, interessati a modificare le proporzioni etniche a proprio vantaggio. Le città erano prevalentemente abitate da italiani. Ma non mancavano gli slavi, che, ad esempio a Trieste raggiunsero le 50 mila unità. Allo stesso modo, la predominanza slava nelle campagne non era assoluta. Sia perché vi erano contadini e imprenditori italiani; sia perché abbondavano rumeni, ungheresi, ebrei; sia perché la stessa componente slava era a sua volta frazionata in popolazioni spesso in contrasto fra di loro. Nel corso del XIX secolo, si era sviluppato un doppio irredentismo. Quello degli italiani, che reclamavano l’unificazione con il neonato Regno, e quello slavo, tutto teso a costruire un’identità nazionale, spesso marcata fortemente dalla religione. Al tempo stesso, la regione era attraversata dai conflitti che interessavano tutta l’Europa: fra città e campagna; fra possidenti e agricoltori; fra ceti operai e contadini; fra borghesie (italiana e slava) in competizione fra di loro.

     

    In questo quadro di lungo periodo, i momenti fondamentali, fissati dalla cartina, sono i seguenti:

     

    Primo periodo: dal Trattato di Rapallo (1920), poi modificato dal Trattato di Roma del 1924, fino al 1941. Durante questo periodo, il confine del 1918 viene spostato fino a comprendere gran parte dell’Istria.

     

    Secondo Periodo: Dal 1941 fino al 1943. A seguito dell’invasione della Jugoslavia, il confine italiano viene spostato fino a comprendere buona parte della Slovenia, con la capitale Lubiana, che diventa una provincia italiana.

     

    Terzo Periodo: Dal 1943 al 1945. Dopo l’8 settembre, la Germania assume il controllo diretto dell’intera regione Venezia Giulia-Istria-Slovenia, che, con il nome di Adriatisches Küstenland viene governata dalle truppe tedesche, con l’aiuto di collaborazionisti locali. La tragedia delle foibe si articola in due fasi, al principio e alla fine di questo periodo.


    L’intera regione “Adriatisches Küstenland”, o “Regione del Litorale Adriatico”, con i confini successivi dopo la prima guerra mondiale, dopo l’impresa di Fiume e dopo l’invasione jugoslava

     

    Cronologia essenziale

     

    1941


    6 aprile: inizia l’invasione della Jugoslavia. Debole resistenza locale

     

    17 aprile: spartizione della Jugoslavia fra Germania, Bulgaria, Italia e Ungheria. All’Italia tocca il Montenegro, una parte del Kosovo e della Macedonia, parte della Dalmazia e la Slovenia. La Croazia da vita al regime guidato da Ante Pavelić, che viene diviso a sua volta in due zone di influenza, italiana e tedesca.

     

    3 maggio. Il nuovo commissario italiano, Grazioli, promuove una politica di fascistizzazione e di italianizzazione della regione.

     

    http://casarrubea.files.wordpress.com/2010/02/campi-di-concentramento-transit0001.jpg (con interventi che “antologizzano” bene il dibattito pubblico in Italia)


    Estate: scoppia la rivolta in Montenegro. Movimenti di resistenza in Slovenia. Feroce repressione italiana.

     

    1942/1943

     

    Il Fronte di Liberazione slavo unisce comunisti, cristiano-sociali e liberali. L’Italia promuove lo stato di “guerra totale”. Il generale Mario Roatta, al comando della II armata, assume il controllo politico della regione. Centinaia di processi sommari, con decine di condanne a morte e migliaia di condannati all’ergastolo o a pene di 30 anni. E’ molto difficile un censimento preciso. Tone Ferenc, storico sloveno, ha registrato 1569 esecuzioni capitali; 1376 decessi nei campi di concentramento italiani, dove furono deportate 25 mila persone, pari grosso modo all’8% della popolazione slovena (336 mila abitanti), ma a questo dato minimo va aggiunto un gran numero, nell’ordine delle molte migliaia, di vittime della guerra antipartigiana3.

    Il campo di concentramento di Gonars.

     

    Carta dei campi di concentramento.

     

    1943.

     

    8 settembre. L’esercito italiano è allo sbando. La Slovenia vive un periodo di interregno, durante il quale si scatenano sommosse prima a carattere contadino (jacqueries), poi a carattere nazionalistico anti-italiano. Processi sommari, a seguito dei quali 5-700 italiani vengono uccisi e gettati nelle foibe.

     

    1944

     

    Entra in azione l’Ozra, la polizia politica partigiana. Il suo compito, al principio, è quello di scovare i fascisti. Rapidamente diventa quello di annientare i “reazionari”, categoria nella quale si comprendono italiani, avversari del regime comunista e vittime di vendette occasionali.

     

    1945

     

    Maggio-inizi giugno. E’ la seconda fase delle foibe, diretta, questa volta, politicamente “dall’alto”. Impossibile il conto preciso delle vittime, peraltro non tutte gettate nelle foibe, ma in gran parte fucilate nei campi di concentramento: le stime oscillano fra i 5 e i 10 mila morti.

    Mappa delle principali foibe

     

    1945-1956

     

    L’esodo. Circa 300 mila italiani abbandonano la regione. La maggior parte di loro si insedia nel territorio nazionale.

     


    C. Una storia tra politica e scuola

     

    Il lungo silenzio del dopoguerra

    La vicenda del confine orientale ha visto alternativamente italiani e jugoslavi (in particolare sloveni e croati) nel ruolo di oppressori e oppressi, di vittime e carnefici. Per lungo tempo ha ricevuto scarsa attenzione da parte della dalla storiografia italiana e di conseguenza nessuna dalla scuola, come scrivevano i curatori del dossier della rivista “I Viaggi di Erodoto”. Le cause di questo lungo silenzio erano molte. In generale, per quanto riguarda l’insieme di queste vicende, va rilevato che le fonti d’archivio italiane e jugoslave rimasero in massima parte inaccessibili per decenni, sia per i normali tempi di segretezza che per l’imbarazzo che queste vicende suscitavano, per motivi diversi, in entrambi i governi. Per quanto riguarda il ruolo degli italiani come oppressori e carnefici, erano mancati quei processi, che consentono di raccogliere informazioni e danno loro risonanza presso l’opinione pubblica. La Jugoslavia aveva compilato una lista di militari italiani accusati di aver commesso crimini di guerra, in primo luogo  generali che avevano comandato le forze d’occupazione, ma non ne aveva ottenuto l’estradizione.

     

    La Banda Guidi-Colotti agiva sull’altopiano del Carso triestino, con il compito di reprimere il movimento insurrezionale sloveno. Dall’intervista a Alessandra Kersevan, nella quale se ne descrivono le gesta

     

    I governi italiani infatti poterono rifiutarsi di concederla, grazie all’appoggio degli Alleati, nel complesso gioco diplomatico che aveva come sfondo l’incipiente guerra fredda4. Per quanto riguarda invece gli italiani come vittime di massacri e del massiccio esodo nel dopoguerra, i maggiori partiti politici mostrarono un chiaro interesse a non sollevare la questione.


    I partiti italiani e la questione delle foibe

    La Democrazia Cristiana, il partito costantemente al governo dal dopoguerra, perseguì, nel contesto internazionale della guerra fredda, una politica di accomodamento con la Jugoslavia, che sfociò nel trattato di Osimo del 1975, con cui venne fissato in maniera definitiva il confine fra i due Stati. Il Partito Comunista Italiano, la seconda maggiore forza politica, costantemente all’opposizione, aveva pure esso steso volentieri un velo di silenzio, perché corresponsabile di quanto avevano subito gli italiani, dal momento che fra il 1943 e il 1945 aveva appoggiato in vario modo la politica annessionistica jugoslava. Un esponente di quel partito, Gianni Cervetti, ha così ricostruito autocriticamente, nel 2007, quella scelta:

     

    Fu un errore gravissimo, ma preferimmo rimuovere. … Il tema delle foibe diventò una parte della questione dei rapporti al confine orientale, cioè dei rapporti con la Jugoslavia». Il «Partito» ne discusse, negli anni Cinquanta e Sessanta, ma ne discusse … «soprattutto a Trieste e in modo molto acceso. Ma poi si fece un gran lavoro per stabilire rapporti di buon vicinato sul confine» con lo stato titino. E così ideologia e diplomazia si fusero e «queste due cause portarono a un errore gravissimo che fu quello di rimuovere il dramma delle foibe, di stendere non un velo ma una vera e propria coperta, per nascondere quello che non si voleva vedere. E non se ne parlò più5.

     

    Solo il Movimento Sociale Italiano, partito erede del fascismo e della Repubblica Sociale Italiana e che era ai margini della vita politica italiana, faceva sua la causa degli esuli giuliani e dalmati. Nell’opinione pubblica, dunque, memoria e rimozione delle sofferenze degli italiani erano politicamente divise.

     

    La rimozione sociale

    Per quanto riguarda le violenze commesse dagli italiani, regnava una diffusa inconsapevolezza, che va vista nel più generale contesto di una rimozione di lunga durata di tutti i crimini di guerra italiani, compiuti sia durante la Seconda guerra mondiale che, in precedenza, il Etiopia e in Libia. Un’inconsapevolezza alimentata dalle memorie autoassolutorie pubblicate immediatamente dopo la fine della guerra dal generale Mario Roatta6, comandante della II Armata in Slovenia dal gennaio 1942 e dal suo ufficiale di Stato Maggiore Giacomo Zanussi7, nonché dalla prima ricostruzione fatta nel 1978 da Salvatore Loi8 per conto della Stato Maggiore dell’Esercito Italiano.

     

    Le prime ricerche storiche

    Un primo quadro della durezza dell’occupazione italiana in Slovenia emerse da un breve saggio di Teodoro Sala del 19669, che si basava sugli studi di storici jugoslavi, in particolare Ivo Juvančič e Tone Ferenc, e citava alcuni importanti documenti italiani conservati nell’archivio dell’Institut za zgodovino delavskega gibanja di Lubiana, fra cui i bandi emanati nel 1941 dall’Alto commissario Emilio Grazioli e da Mussolini, la Circolare n. 3 C emanata nel 1942 dal generale Mario Roatta, comandante della II Armata dal gennaio 1942, dove si davano dure indicazioni sulla lotta antipartigiana, e il fonogramma del generale Mario Robotti che conteneva una frase divenuta famosa: “si ammazza troppo poco!”.

    Teodoro Sala, a lungo presidente della Commissione didattica dell’Insmli, la rete degli Istituti per lo studio dei movimenti di Liberazione, si è prodigato per sensibilizzare storici e insegnanti sulla vicenda delle foibe e del confine orientale.

     


    Sala accennava però appena al fenomeno della deportazione degli sloveni nei campi di concentramento. Più in generale sulla Jugoslavia, uscirono negli anni ’70 le memorie del cappellano militare Pietro Brignoli10 e le ricerche dello scrittore Giacomo Scotti11. Si trattava complessivamente di pochissimi scritti, talora di nicchia, e di scarsissimo impatto sull’opinione pubblica. Maggiore era stata l’attenzione sull’Africa, soprattutto grazie allo storico Angelo Del Boca, che aveva scritto sull’Etiopia12 e sulla Libia13, e su quest’ultima era uscito nel 1977 anche un libro del giornalista Eric Salerno14.

     

    Il ruolo dei media

    L’Etiopia salì comunque alla ribalta soprattutto con il documentario televisivo L’Impero, un’avventura africana, scritto e diretto dal regista Massimo Sani con la consulenza di Del Boca, trasmesso in seconda serata dalla prima rete della RAI il 3 ottobre 1985, in occasione del cinquantenario dello scoppio della guerra15. In particolare, vennero presentate molte prove dell’uso dei gas asfissianti.

     

    Durante questo seminario, organizzato dall’istituto Storico della Resistenza friulano vennero proiettati il film di Ken Kirby, Fascist Legacy, di Lordan Zafranović, La caduta dell’Italia (1981) e Occupazione in 26 immagini (1978), oltre ai documentari di Massimo Sani, Quell’Italia del ’43 (1993) e di Alessandra Kersevan e Stefano Raspa, The Gonars Memorial 1941-1943: il simbolo della memoria italiana perduta (2005).


    Pochi anni dopo il documentario di Sani un altro documentario televisivo, questa volta non italiano, venne ad affrontare l’intera questione dei crimini di guerra italiani, non solo in Etiopia ma anche in Libia e nei Balcani. Si trattò di Fascist Legacy, messo in onda il 1 e l’8 novembre 1989 dalla BBC con la regia di Ken Kirby e con la consulenza del giornalista americano Michael Palumbo, il quale per primo aveva lavorato sui fondi della United Nations War Crimes Commission. Per quanto riguarda la Libia, il documentario dava conto della durissima repressione fra gli anni ’20 e ’30, e per l’Etiopia parlava non solo dell’uso di gas asfissianti, ma anche del bombardamento di ospedali della Croce rossa durante la guerra e, successivamente, della sanguinosa rappresaglia seguita al fallito attentato contro il governatore Rodolfo Graziani. Per quanto riguarda la Jugoslavia, il documentario trattava in particolare del campo di concentramento nell’isola di Arbe (Rab in croato), dove si ebbe un alto tasso di mortalità, e si spiegavano le ragioni della mancata consegna dei criminali di guerra italiani alla Jugoslavia. Il documentario suscitò reazioni negative da parte italiana, forse proprio per le questioni legate alla Seconda guerra mondiale. L’ambasciata italiana a Londra protestò immediatamente con la BBC, denunciando una denigrazione dell l’Italia. La RAI acquistò il documentario nel 1991, ma non lo trasmise mai. Pertanto esso circolò soltanto in circoli antifascisti italiani, e solo nel 2004 venne diffuso dall’emittente privata La7.


    Le nuove ricerche storiche

    Intanto, nel corso degli anni ’80, le ricerche storiche sui rapporti italo-jugoslavi presero un nuovo e deciso impulso, soprattutto a causa  del mutare della situazione politica della Jugoslavia, dove dopo la morte di Tito nel 1980 si aprì una crisi politica che portò nel 1991 alla sua dissoluzione. La fine del regime comunista portò con sé una revisione critica della sua storia e mise in moto nuove ricerche e l’accesso a nuove fonti d’archivio16, fra cui il libro Fašisti brez krinke: Dokumenti 1941-1942, di Tone Ferenc, del 1987, tradotto nel 1994 in italiano17. Anche in Italia vennero avviate nuove ricerche d’archivio: l’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito affidò a Marco Cuzzi una ricerca sull’occupazione della Slovenia, pubblicata nel 199818, dalla quale emersero molti dettagli sulle violenze a danno dei civili esercitate dagli italiani nelle azioni di repressione e rappresaglia. E’ così iniziato un filone di ricerche sulla guerra italiana nei Balcani, che non si è ancora esaurito19.

     

    Soldati italiani guardano vittime slovene


    Un importante segno di questo cambiamento dei tempi fu la mozione approvata all’unanimità dal consiglio comunale di Trieste nel 1990 in cui si auspicava la costituzione di una commissione storica italo-jugoslava che prendesse in esame la storia del rapporto fra i due Stati. Subito dopo la Jugoslavia si dissolse, e la proposta venne concretizzata nel 1993, per iniziativa dei rispettivi ministeri degli Esteri, con la costituzione di due commissioni, una italo-croata e l’altra italo-slovena.

     

    La commissione italo-slovena

    La prima commissione si arenò quasi subito20, mentre la seconda21 riuscì a produrre nel 2000 un rapporto22 che ricostruiva in maniera sostanzialmente equilibrata la storia comune fra il 1880 e il 1956. Dopo aver ricordato la politica di “distruzione integrale dell'identità nazionale slovena e croata” portata avanti dall’Italia nel periodo fra le due guerre, e le violenze a danno degli sloveni durante la Seconda guerra mondiale, dall’internamento in campi di concentramento, all’incendio di villaggi, alla fucilazione di ostaggi, gli autori passano a parlare delle violenze subite dagli italiani ad opera degli jugoslavi subito dopo l’armistizio del 1943 e dopo la fine della guerra, nel 1945, chiarendo il duplice significato di queste violenze, come conseguenza dell’occupazione italiana ma anche come strumento di un piano politico volto all’annessione di quelle zone alla Jugoslavia:

     

    Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo23.

     

    Esumazione di salme da una foiba. Immagine di apertura Rai 1, del 10 febbraio 2012

     

    Nelle scuole italiane si comincia a studiare meglio il Novecento

    Altri elementi sopraggiunsero in quegli anni ad animare il dibattito sulla storia recente dell’Italia. In primo luogo la decisione del ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer, che nel 1996 stabilì che il programma di storia dell’ultimo anno della scuola medie e della scuola secondaria superiore venisse dedicato al solo Novecento, mentre fino ad allora si studiava anche l’Ottocento24. Questo notevole ampliamento dello studio della storia contemporanea riaccese l’annosa polemica sull’opportunità di insegnare la storia contemporanea, una polemica tutta italiana, che aveva avuto origine nell’immediato dopoguerra, quando, nel corso della defascistizzazione della scuola, condotta dalla Sotto-commissione per l’educazione della Commissione Alleata di Controllo, venne sospeso l’insegnamento della storia successiva alla fine della Prima guerra mondiale, che nei manuali era la parte più intrisa di ideologia fascista25. Questa decisione doveva essere una misura d’emergenza in attesa di nuovi manuali ispirati a principi democratici, ma venne mantenuta fino al 1960, creando una situazione del tutto inedita, e paradossale, nella scuola italiana. Il fatto era che il fascismo e la Resistenza erano temi scottanti, su cui la Democrazia Cristiana, dopo aver estromesso i socialisti e i comunisti dal governo dal 1947, preferiva stendere un velo di silenzio, in un’ottica moderata. La sinistra, che stava all’opposizione, ne reclamava invece lo studio, anche per combattere nostalgie fasciste. Solo con il mutare del clima politico e la prima apertura a sinistra lo studio degli anni più recenti venne reintrodotto nei programmi, ma la divisione fra destra e sinistra sull’opportunità di insegnare la storia contemporanea non svanì mai, e appunto riemerse vivacemente in occasione in occasione del decreto di Berlinguer. Fra i fautori, a sinistra, Vittorio Foa affermava l’importanza di uno studio attento del Novecento nella formazione dei giovani: “Gli studenti devono studiare questo secolo per capire il rapporto fra il ricordo del passato e il futuro della loro vita”26. Fra gli oppositori, a destra, Indro Montanelli scriveva invece: “Esistono dei testi scolastici di Storia contemporanea dei quali ci si possa fidare come equilibrio e imparzialità? Non ne conosco27”.

    La polemica divenne particolarmente rovente a causa della profonda crisi politica che l’Italia stava attraversando in quegli anni, con la fine o la profonda trasformazione di partiti storici come la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano e il Partito Comunista Italiano, e la nascita di nuovi partiti come la Lega Nord e Forza Italia. Il Movimento Sociale Italiano si trasformò in Alleanza Nazionale e grazie all’alleanza con Forza Italia arrivò per la prima volta della sua storia al governo. In questa nuova fase politica, questo partito cercò naturalmente anche una legittimazione del proprio passato, attraverso l’attacco al paradigma antifascista28, che permeava l’insegnamento della storia, indipendentemente dall’orientamento marxista, liberale o cattolico degli autori dei manuali. In particolare vennero denunciati, anche con libri di grande diffusione come quelli del giornalista Giampaolo Pansa29, i crimini commessi dai partigiani, in particolare subito dopo la fine del conflitto, e si rivendicò dignità anche per i combattenti della Repubblica Sociale Italiana, nella quale qualcuno dei membri più anziani di Alleanza Nazionale aveva militato, con l’argomento che anche loro si erano battuti per la Patria. In tal modo si voleva eliminare uno storico conflitto, da cui era nata la Repubblica, e promuovere una pacificazione nazionale.

     

    La battaglia sui libri di testo

    Uno dei momenti più aspri della polemica, che investì direttamente l’insegnamento della storia, fu l’autunno del 2000, quando, il 9 novembre, il Consiglio della regione Lazio, di cui era presidente Francesco Storace, di Alleanza Nazionale, approvò una mozione in cui accusava i manuali di storia per la scuola superiore di mistificare la storia italiana, con una faziosità mirante a alimentare “uno scontro generazionale” e a impedire “la ricostruzione di un'identità nazionale comune a tutti i cittadini italiani e l'affermarsi di un sentimento di autentica pacificazione nazionale”. La mozione lamentava poi la mancanza in Italia di un’autorità di controllo sui libri di testo, e per ovviare almeno parzialmente a questa carenza impegnava il presidente a istituire una commissione di esperti che svolgesse un'analisi attenta dei testi scolastici evidenziandone carenze o ricostruzioni arbitrarie, nonché a promuovere la scrittura di nuovi libri di testo da diffondere nelle scuole della regione.

    Nella mozione si faceva riferimento ad un opuscolo di poche pagine30 diffuso poco tempo prima dai militanti di Azione Studentesca, un’organizzazione di Alleanza Nazionale, nel quale, con argomentazioni molto elementari si denunciavano alcuni fra i più diffusi manuali di storia per le scuole secondarie superiori come inquinati dall’ideologia di sinistra, che portava la maggior parte di loro a tacere dei massacri delle foibe e, nei rari casi in cui ne parlavano, a negare a questi massacri il carattere di pulizia etnica antitaliana. In particolare quest’accusa veniva rivolta al Camera-Fabietti31, insieme a quella di rifiutare esplicitamente di mettere sullo stesso piano etico-politico partigiani e repubblichini. Oltre che a queste vicende, gli autori davano ancor maggiore attenzione agli eventi più recenti della storia italiana, dagli anni del terrorismo al governo Berlusconi, accusando molti manuali di fare solo propaganda elettorale.

    Immediatamente altri consigli regionali governati dalla destra votarono iniziative analoghe, scatenando un’immediata valanga di furibonde reazioni negative non solo da parte di esponenti politici di sinistra, ma anche più in generale fra gli storici e nel mondo della scuola. In effetti, non era solo l’attacco al paradigma antifascista a suscitare indignazione, ma anche l’idea di un controllo sui libri di testo, che era stato abolito dopo la fine del fascismo. In proposito il Presidente del Consiglio Giuliano Amato affermò con chiarezza, nel corso del dibattito alla Camera dei Deputati, che si tenne il 15 novembre, che nessun organismo pubblico deve interferire in materia di testi scolastici, e che la commissione prevista nella mozione rappresentava “una forma di censura dissuasiva invece che proibitiva” che può avere “un effetto omologante pericolosissimo su quella che deve rimanere una dialettica tra libertà, tra autori, tra insegnanti e autori e tra insegnanti e studenti”32. Di fronte a questa levata di scudi, Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, al momento all’opposizione, che pur aveva salutato la mozione della regione Lazio rallegrandosi del fatto che “i nostri figli non dovranno … più studiare su testi di storia con deviazioni marxiste”, preferì fare marcia indietro, affermando che bisognava stare attenti a non passare dalla parte del torto “offrendo pretesti di critica” agli avversari33, preoccupato evidentemente di un riflesso negativo di queste proteste sulla prossima campagna elettorale. E tutta l’iniziativa finì nel dimenticatoio.

     

    Un caso esemplare: Il manuale di Camera e Fabietti

    Ormai, sotto la spinta di nuove ricerche storiche e polemiche politiche e culturali, anche il mondo della scuola cominciava ad occuparsi delle vicende del confine orientale. Il confronto fra i manuali per le scuole secondarie superiori fino alla metà degli anni ’90 e quelli successivi è eloquente. Ad esempio, il Camera-Fabietti, nella terza edizione del 1987, presentava solo una cartina con una breve didascalia che sottolineava come dopo la Seconda guerra mondiale l’Italia avesse perso quasi tutte le acquisizioni fatte dopo la Prima guerra mondiale, con l’eccezione di Trieste, Gorizia e Monfalcone34. Nella successiva edizione di questo manuale, del 1999, si trova una nuova scheda (firmata da Camera) dal titolo Foibe e Risiera di San Sabba, lunga ben 5 pagine35, a riprova della nuova attenzione a quegli eventi, ma senza la completezza e l’equilibro dell’informazione, che caratterizzava invece il dossier della rivista I viaggi di Erodoto. Camera si sofferma in primo luogo sulla politica di italianizzazione forzata delle popolazioni slave nei territori annessi dopo la Prima guerra. Passando però alla Seconda guerra mondiale, egli presenta le violenze italiane in maniera del tutto minimizzatrice e fuorviante, addirittura eufemistica:

     

    al presidio delle terre balcaniche occupate e alla lotta contro i partigiani slavi parteciparono più di trenta divisioni italiane, che nell’adempimento di questa sciagurata funzione certo non ci attirarono le simpatie dei popoli assoggettati36.

     

    A questa carente informazione ne segue una più precisa sulla Risiera di San Sabba, un campo di concentramento ed eliminazione presso Trieste, dove furono sterminati a migliaia non solo ebrei, ma anche e soprattutto oppositori politici, resistenti e partigiani sloveni e croati,  che fu installato dai tedeschi quando, dopo l’armistizio italiano, assunsero il controllo della regione, ma di cui anche le autorità repubblichine furono corresponsabili. Con queste due informazioni, di peso molto ineguale, Camera spiega il risentimento degli sloveni nei confronti degli italiani. E passa poi a descrivere le violenze subite da questi ultimi, distinguendo due fasi: la prima immediatamente successiva all’armistizio dell’8 settembre 1943, nei pochi giorni di vuoto di potere prima che i tedeschi prendessero il controllo della zona, e durante i quali furono uccise fra le 500 e le 700 persone. L’autore spiega questi eventi come una conseguenza di uno “sfogo dell’ira popolare sloveno-croata contro gli italo-fascisti”, senza quel disegno politico preordinato che invece caratterizzò la violenze della seconda fase, nel maggio-giugno del 1945. Camera analizza qui con inusuale dovizia di documenti le intenzioni di Tito di annettere alla Jugoslavia tutta la Venezia Giulia, e quindi la decisione di combattere non solo contro gli italiani fascisti e responsabili di crimini di guerra, ma anche contro gli italiani antifascisti, come i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) di Trieste, che volevano che quelle zone rimanessero all’Italia, e che in quanto tali erano automaticamente nemici dell’armata liberatrice jugoslava. Chiara e documentata è anche la denuncia delle responsabilità del Comitato cittadino del partito comunista di Trieste, il quale nel 1944 uscì dal CLN per appoggiare la politica di Tito. Si noti, a margine, quanto sia grossolana e infondata l’accusa mossa all’autore dall’opuscolo di Azione studentesca di negare la dimensione etnica delle violenze antitaliane. Sul numero delle vittime di questa seconda fase l’autore non si pronuncia, rilevando l’incertezza dei dati, e denunciando la strumentalizzazione politica fattane dalla destra italiana, ma anche la negazione della gravità di quegli eventi da parte di chi, nella sinistra italiana, diceva che in quelle terre si era solo fatta giustizia. Insomma, una posizione che prendeva nettamente le distanze da entrambe le parti.


    I manuali italiani degli ultimi venti anni

    I manuali italiani, dunque, cominciano a parlare di foibe nel corso degli anni ’90 (per quanto prima della querelle sui libri di testo che abbiamo appena ricordato). Difficile darne conto completamente, dato il loro altissimo numero e, soprattutto, considerando il fatto che gli editori ne presentano versioni nuove a ripetizione. Esaminandone alcuni, si scopre che, in realtà, la vera storia occultata non è quella delle foibe, quanto piuttosto quella del comportamento degli italiani in Slovenia. A volte, si cita solo “la brutale dominazione nazifascista”, senza ulteriori dettagli. Si parla di «programma di distruzione delle identità», e di “eliminazione delle istituzioni nazionali  slovene e croate”. Si spiega che il solo sentimento di vendetta non basta a spiegare questa tragedia e si fa riferimento a un non meglio precisato intreccio complesso di fattori. Si ricorda il sentimento anti-italiano, diffuso nel mondo slavo ben prima della seconda guerra mondiale. Si denuncia l’opera di “fascistizzazione anche violenta”. Ma le descrizioni più dettagliate sono riservate al comportamento slavo:  

     

    I partigiani comunisti jugoslavi … facevano ben poche distinzioni fra fascisti e italiani; … essi consideravano l’intera popolazione italiana come nemica e procedettero a massacri contro i civili, che gettavano, già uccisi o ancora vivi, con mani e piedi legati, nelle foibe, le profonde cavità carsiche del terreno. Il loro intento era non solo di ripulire il territorio dai  fascisti, ma di costringere l’intera popolazione di lingua italiana all’esodo. Anni dopo la fine della guerra si procedette al parziale recupero dei resti degli “infoibati”, sicuramente diverse migliaia. Gli esuli dalla Venezia Giulia furono 300.00037

     

    Fra i rari esempi di trattazione equilibrata, citerei il recente manuale di Alberto Mario Banti. Questi, infatti, oltre a parlare delle foibe, descrive, anche se sommariamente e senza citare singoli episodi, la politica repressiva italiana sia in Grecia che in Jugoslavia, fatta di rastrellamenti, esecuzioni di civili sospetti di appoggiare i partigiani, distruzione di villaggi e deportazioni, e cita anche in generale Roatta38. Banti inserisce la repressione italiana nel più generale contesto della “guerra contro i civili”, che caratterizzò in vario modo il comportamento delle truppe tedesche e italiane, e delle cui vittime egli dà un sommario bilancio nei vari teatri di guerra, soffermandosi peraltro sugli episodi di cui furono responsabili i tedeschi.

     

    Lettera censurata di un internato croato nel campo di Gonars.

     

    La Giornata del Ricordo

    Il quadro distorto e manchevole, che la manualistica mette in evidenza, rischia di essere aggravato dall’intervento della politica sulla storia e sul suo insegnamento. Infatti il Parlamento italiano ha istituito nel 2004 la celebrazione di una “Giornata del Ricordo” per commemorare le foibe e l’esodo degli Italiani dall’Istria e dalla Dalmazia39, e fra queste celebrazioni la legge prevede “iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado”. Il dibattito parlamentare su questa legge, che è stata votata non solo dalla maggioranza di centro-destra al governo, che l’ha proposta, ma anche da buon parte dell’opposizione di sinistra, con l’eccezione dei partiti della Rifondazione Comunista e dei Comunisti Italiani, si è concentrato sulle violenze subite dagli italiani, e solo pochi sono stati i riferimenti al contesto generale e alle violenze subite in precedenza dagli jugoslavi, riferimenti peraltro viziati da quella imprecisione e genericità già lamentata a proposito di vari manuali di storia. Nel corso del dibattito alla Camera dei Deputati, tenuto il 10 febbraio 2004, Pietro Fassino, segretario dei Democratici di Sinistra, si limitò a parlare di “misfatti” e “angherie” commessi durante l’occupazione italiana, precisando che comunque a suo avviso non potevano giustificare le successive violenze commesse contro gli italiani40. Il giorno scelto per questa celebrazione è stato il 10 febbraio, anniversario della firma del Trattato di Parigi che nel 1947 assegnò l’Istria alla Jugoslavia.

    Questa scelta della politica italiana è in continuità con la decisione presa dal ministero degli Esteri di non pubblicare il rapporto della commissione italo-slovena41, nonostante la raccomandazione dei due copresidenti, raccomandazione che venne invece accolta dall’omologo ministero sloveno. Con la legge sulla “giornata del ricordo” la politica italiana ha così vanificato il senso del lavoro degli storici: superare le memorie contrapposte con un discorso storico comune. E così facendo ha smentito proprio le sue buone intenzioni iniziali. La Slovenia, peraltro, ha finito per seguire la stessa strada dell’Italia, cadendo nella provocazione e decidendo di contrapporle una sua celebrazione.

     

    La comunità slava triestina era corposa, oltre 50 mila abitanti. Aveva teatri, centri culturali, bar e scuole. Qui è il Narodni Dom, incendiato dai fascisti nel 1920

     

    Si proposero dapprima date che ricordavano le violenze italiane, come l’anniversario dell’incendio del Narodni Dom di Trieste, la Casa del Popolo slava, compiuto nel 1920 da nazionalisti italiani, o la fucilazione di cinque sloveni condannati nel 1930 dal Tribunale Speciale42, ma alla fine si scelse una data che commemorava una vittoria slovena, il 15 settembre del 1947, quando entrò in vigore quello stesso Trattato di Parigi che assegnava alla Jugoslavia il Primorska, cioè il litorale adriatico43. Così, lo stesso trattato viene celebrato in Italia e in Slovenia, ma in date diverse e con segno opposto.

     

    La scuola e la Giornata del Ricordo

    Importante, a questo punto, è vedere come reagisce la scuola italiana all’imposizione di celebrare il 10 febbraio. Si è visto come i manuali di storia tendano per lo più ad una rappresentazione squilibrata dell’intera vicenda, e questa tendenza può essere facilmente aggravata dalla legge del 2004. Un volume pubblicato nel 2010 dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca44, che presenta un quadro di iniziative prese nelle scuole, conferma che nei vari interventi didattici ci si è concentrati solo sulle violenze subite dagli italiani. E simile impostazione ha il materiale didattico prodotto dall’Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea45. In senso opposto va peraltro l’iniziativa congiunta presa nel 2007 dalla giunta provinciale di Roma (allora di centro-sinistra) e dal Liceo scientifico statale “P. Paleocapa” di Rovigo, con due convegni, i cui atti sono stati poi pubblicati in un unico volume46. L‘iniziativa è stata posta esplicitamente in continuità con i lavori della commissione italo-slovena, ed ha riunito storici italiani, sloveni e croati, che hanno composto un quadro a più voci su tutti gli aspetti principali di quelle vicende a partire dalla metà dell’Ottocento.

    Il problema di un insegnamento equilibrato delle vicende del confine orientale dell’Italia è dunque ancora lontano dalla soluzione, e va notato che anche la manualistica slovena mostra uno squilibrio, di segno opposto a quello della manualistica italiana,  portando l’attenzione sull’occupazione italiana e ignorando le violenze antitaliane, come si rileva ad esempio in uno dei manuali più diffusi, quello di Božo Repe47. La ricerca storica congiunta ha compiuto passi molto importanti, ma la politica, dopo iniziali aperture, è tornata a contrapposizioni strumentali, che probabilmente hanno una maggiore efficacia là dove, come in Slovenia, i manuali scolastici sono sottoposti al controllo delle autorità ministeriali.

     

    D. La didattica. Qualche avvertenza

     

    Per avviare un buon approfondimento sul tema  è opportuno, al principio, sincerarsi che gli allievi padroneggino alcuni concetti, utili sempre per la correttezza del ragionamento storico, ma indispensabili in temi caldi, come questo48. Ad esempio: i ragazzi (come molti adulti) tendono a ragionare in termini di “colpevoli”. Gli storici, invece, parlano di cause, individuano responsabilità a diversi gradi. E’ opportuna la distinzione, dal momento che occorre aiutare gli allievi a separare il piano giuridico (e politico) da quello storico. Inoltre, questo argomento richiama con insistenza parole/concetti quali “identità”, “memoria collettiva”, “memoria condivisa”, “etnia”, “confini” e così via. Si faccia attenzione, in questi casi, al fatto che questi termini designano dei processi di costruzione politica: non indicano dati “naturali” o “essenziali” di una popolazione, come spesso si crede. La vicenda delle foibe, in particolare, è anche un momento di costruzione identitaria, sia pure con tempi e modalità diversi, da entrambi i fronti; ed è stata un argomento per tracciare e rendere definitivi dei confini. Questo vuol dire che una buona trattazione di questo tema implica una programmazione accurata precedente, dal momento che è impossibile avviare l’apprendimento di questo complesso di termini in una sola unità didattica. In mancanza di questi prerequisiti, il docente deve mettere nel conto il fatto che gli allievi tenderanno a usare questi concetti nella forma stereotipata, consueta nella società, e rafforzata purtroppo dal dibattito pubblico.

     

    Recupero di resti umani dalla foiba di Vines, località Faraguni, presso Albonad’Istria negli ultimi mesi del 1943, Dahttp://www.dismappa.it/giorno-del-ricordo-2013/, che riporta le iniziative ufficiali del comune di Verona in occasione della giornata della memoria del 2013. Vi si riporta una ricca documentazione, che si sforza di essere equilibrata fra le tesi della Kersevan, definita “negazionista” e la testimonianza, molto contestata da parte storica, di Graziano Udovisi, testimone “infoibato”.

     

     Per comprendere storicamente il fatto “foibe”, occorre contestualizzarlo. I processi cognitivi sono fondamentalmente due. Il primo “verticale”, inserisce la strage in una retta cronologica. Questa attività serve a ricostruire una catena, sicuramente non lineare ma complessa, di relazioni, che aiuta a mettere in prospettiva questa tragedia. Un primo strumento (oltre alle conoscenze eventualmente riportate nel manuale) possono essere la cronologia riportata sopra e i dati sul popolamento e sulla complessità della storia regionale. Il secondo modo per contestualizzare un fatto è “orizzontale”. Occorre disporre “le foibe” sul tavolo dei fenomeni simili. In questo caso,  quelli che caratterizzano l’immediato dopo-guerra, con le vendette, le espulsioni e gli eccidi di massa, a danno sia dei fascisti e dei nazisti, ma soprattutto delle popolazioni civili. A seguito di questo processo drammatico, oltre dieci milioni di civili furono cacciati dalle loro terre. Tedeschi dalla Polonia e dalla Cechia, ungheresi e rumeni dalla Jugoslavia, italiani dall’Istria. Si contarono oltre due milioni di vittime. La contestualizzazione è fondamentale sia per capire il fatto delle foibe, sia per discuterne in classe, evitando gli equivoci del dibattito pubblico, che tende a inserire nella stessa categoria di “massacro”, eccidi storicamente diversi, quali quelli perpetrati dal nazismo durante la guerra e quelli a danno delle popolazioni sconfitte, dopo la guerra. Alcuni storici, di recente, dilatano i tempi, includendo in questi processi di migrazione forzata una cronologia che risale a metà ottocento49.

     

    L’istituto Storico della Resistenza di Trieste pubblica fra l’altro un dvd con una ricca documentazione, ben equilibrata, sulle violenze italiane e slave

     

    Tuttavia, il “fatto” foibe è ormai inseparabile dal processo di rimozione/rimemorizazione, attraverso il quale è giunto fino a noi. Il complesso delle notizie (film, documentari, denunce, memoriali e diari, interviste, biografie, articoli di giornale e, infine, l’intero circuito mediatico-digitale) è lo strumento fondamentale attraverso il quale questo processo si è attivato. Questa consapevolezza è vitale, per il docente che voglia avviare gli allievi alla sua comprensione. Infatti, le cosiddette “fonti”, alle quali gli studenti rischiano di abbeverarsi sono le stesse protagoniste del processo di rielaborazione dell’evento. Queste attivano un complicato gioco di rimandi all’interno del quale ci si perde facilmente. Un gioco che non si basa più sugli eventi del passato, così come riusciamo a ricostruirli, ma sulla reinterpretazione di quei fatti. O meglio, su dei “fatti interpretati”. Su dei “fattoidi”, come qualche volta si dice, quando si parla di media. Quindi, l’eccidio diventa – di volta in volta: “pulizia etnica”, “massacro comunista” e così via. Pensiamo di analizzare una tragedia della seconda guerra mondiale, e ci troviamo, senza saperlo, a discutere – invece – dell’opinione di questo giornalista o di quell’uomo politico.

     

    Tenere, dunque, le strade separate quanto più possibile (per quanto esse si intreccino inevitabilmente, come abbiamo visto nella ricostruzione di Luigi Cajani). Da una parte la strada della rielaborazione politico/sociale; dall’altra quella della ricostruzione storica. Sono diverse fra di loro non per la passione politica che le attraversa. Anche gli storici hanno le loro appartenenze. Sono diverse per tanti motivi. Quello che qui sottolineo è dato dagli scopi: lo storico vuole ricostruire un fatto. Può fare questo lavoro bene o male. Ma il suo obiettivo, quale che sia la sua appartenenza, è conoscitivo. Il politico o l’operatore dei media vogliono altro: convincere, interessare, stupire, scandalizzare, rassicurare. Obiettivi legittimi, che qui non contesto. Sottolineo solo che sono altri, rispetto all’obiettivo fondamentale e assoluto della conoscenza.

     

    Due mestieri diversi. E conseguentemente, opere diverse e procedimenti diversi per costruirle.

     

    Come fare a tenerli separati? Certamente, pretendere di riuscirvi con una sola unità didattica, e per giunta su un tema scottante come questo, è chiedere troppo. Si tratta di obiettivi di lungo periodo, che vanno accuratamente preparati nel corso del curricolo, soprattutto attraverso qualche attività di laboratorio, che insegni agli allievi (concretamente) che cosa vuol dire lavorare con dei documenti, cimentarsi nell’attività di ricostruzione di un fatto.

     

    Tuttavia, nella prassi didattica internazionale, si è trovato che un buon sistema per affrontare questi temi caldi è quello della didattica controversiale: insegnare a discutere, o meglio insegnare le regole della discussione storica. Una o più tesi da sostenere50. Degli argomenti e dei documenti come prove da citare nelle proprie argomentazioni. Il prof svolge il ruolo di regolatore della controversia. Al termine del lavoro non è importante osservare chi vince e chi perde, quanto ritornare sulla discussione stessa per valutarne la regolarità e per osservare la differenza fra questa e il talk show, nel quale gli argomenti si sovrappongono e i giudizi si confondono con i fatti.

     

    A differenza del talk show, infine, nel quale non vale nessun principio di auctoritas, se non la capacità di realizzare una performance (in fin dei conti si tratta di uno spettacolo), il dibattito storico ruota intorno al riconoscimento scientifico dello storico. Alle sue capacità e alla considerazione che le sue tesi riscuotono presso i colleghi. Per questo, gli storici (che troverete citati in abbondanza nel testo di Cajani) sono i punti di riferimento di chiunque voglia accedere al processo di ricostruzione del passato. Quindi, la conclusione più idonea di una unità controversiale è la lettura diretta di un brano storiografico appropriato. Lo si apprezzerà più a fondo, dopo aver sperimentato il fuoco di un dibattito.

     

    Per quanto riguarda questa “cassetta di strumenti”, penso che la chiusura migliore siano le parole con le quali Filippo Focardi finisce il suo libro sul “cattivo tedesco e il bravo italiano”:

     

    “Nel luglio 2010 ha avuto grande significato politico e simbolico l’incontro a Trieste fra il presidente Giorgio Napolitano, il presidente sloveno Danilo Türk e quello croato Ivo Josipović in occasione del concerto diretto dal maestro Riccardo Muti eseguito in piazza unità d’Italia da un’orchestra di musicisti dei tre paesi. Prima del concerto, come atto di reciproca riconciliazione i tre presidenti hanno deposto una corona di fronte alla lapide che ricorda l’incendio del Narodni Dom la Casa del Popolo slovena data alle fiamme nel 1920 dai nazionalisti italiani (poco dopo confluiti nel fascismo), recandosi poi insieme a rendere omaggio al monumento che ricorda l’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia (…) Nell’occasione, i due presidenti (italiano e croato) hanno ricordato sia “la tragedia delle vittime del fascismo italiano” sia le vittime “della folle vendetta delle autorità postbelliche dell’ex-Jugoslavia” (…)

     

    Un internato nel campo di Arbe.

     

    Ma insieme ai gesti simbolici, e prima ancora di essi, servirebbe una ben maggiore diffusione della conoscenza della nostra storia, a partire dalle scuole. E’ doveroso che gli studenti conoscano Sant’Anna di Stazzema e Monte Sole, come Auschwitz e le foibe, ma dovrebbero sapere anche che cosa hanno rappresentato Domenikon (in Grecia) e Raab (Arbe), per non dire di Debrà Libanos in Etiopia. Allo stesso modo può avere un valore formativo che venga loro additato l’esempio di un Giorgio Perlasca, ma non dovrebbero essere taciute le colpe di un Rodolfo Graziani o di un Mario Roatta. Anche così si costruisce una memoria europea fondata sull’etica della responsabilità e aperta alla dimensione globale e multietnica delle società in cui viviamo, al di là di una memoria nazionale finora centrata su se stessa, vittimistica e autocelebrativa”51



     

    Il sacrario di Basovizza Il memoriale di Gonar

     

    Note

    1. Il testo è ricavato in gran parte da un contributo di Luigi Cajani, che io ho ridotto e organizzato: Luigi Cajani, Die Ostgrenze Italiens im 20. Jahrhundert. Eine Geschichte zwischen Politik und Schule, in Patrick Ostermann, Claudia Müller, Karl-Siegbert Rehberg (Hg.), Der Grenzraum als Erinnerungsort. Über den Wandel zu einer postnationalen Erinnerungskultur in Europa, Bielefeld, transcript Verlag, 2012, pp. 153-170. Le immagini sono ricavate da internet e si intendono controllate al 10 febbraio 2013.
    2. Franco Cecotti, Raoul Pupo, Il confine orientale. Una Storia rimossa, in “I viaggi di Erodoto”, 12, 34, 1998, pp. 88-150 (con la riproduzione del contributo fondamentale di Carlo Schiffrer, Sguardo storico sui rapporti fra italiani e slavi nella Venezia Giulia, pp. 127-150).
    3. Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, Bari 2013, p. 132.
    4. Cfr. Filippo Focardi, La questione della punizione dei criminali di guerra in Italia dopo la fine del secondo conflitto mondiale, in “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, 80 (2000), pp. 543-624.
    5. Gianna Fregonara, Cervetti: così noi del Pci arrivammo al negazionismo, in “Corriere della Sera”, 12.2.2007.
    6. Mario Roatta, Otto milioni di baionette, L'esercito italiano in guerra dal 1940 al 1944,  Milano, A. Mondadori, 1946.
    7. Giacomo Zanussi, Guerra e catastrofe d’Italia. 1: giugno 1940-giugno 1943, Roma, Corso [1945].
    8. Salvatore Loi, Le operazioni delle unità italiane in Jugoslavia (1941-1943), Roma, Ufficio storico SME 1978
    9. Teodoro Sala, Occupazione militare e amministrazione civile nella «provincia» di Lubiana (1941-1943), in Enzo Collotti, Teodoro Sala, Giorgio Vaccarino, L’Italia nell’Europa danubiana durante la seconda guerra mondiale, Milano, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, 1967, pp. 73-93.
    10. Pietro Brignoli, Santa Messa per i miei fucilati, Milano, Longanesi, 1973.
    11. Giacomo Scotti, “Bono taliano” Gli italiani in Jugoslavia (1941-43), Milano, La Pietra, 1977.
    12. In particolare i quattro volumi dell’opera Gli italiani in Africa orientale, pubblicati dall’editore Latera fra il 1976 e il 1987.
    13. Gli Italiani in Libia, due volumi pubblicati da Mondadori nel 1997.
    14. Eric Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell'avventura coloniale (1911-1931), Milano, SugarCo, 1979.
    15. Giuseppe Mayda, Cinquant’anni fa, in Abissinia, in “La Stampa”, 13.7. 1985; Ugo Buzzolan, Com’era buio quel posto al sole, in “La Stampa”, 3.10.1985; Arminio Savioli, Guerra d’Etiopia Vietnam italiano, in “l’Unità”, 3.10.1985; Beniamino Placido, 19 salve di cannone. E Craxi ringraziò: Africa, ciao, in “la Repubblica” 6/7.10.1985.
    16. Cfr. Nevenka Troha, La questione delle “foibe” negli archivi sloveni e Italiani, in Jože Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Torino, Giulio Einaudi editore, 2009, pp. 245-294, qui pp. 245 s.
    17. Tone Ferenc, La provincia “italiana” di Lubiana. Documenti 1941-1942, Udine, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, 1994.
    18. Marco Cuzzi, L’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943), Roma, Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio storico, 1998.
    19. Si vedano: L’Italia fascista potenza occupante: lo scacchiere balcanico, dossier monografico a cura di Brunello Mantelli in “Quale storia”, XXX, n. 1, giugno 2002; Davide Rodogno, Il Nuovo Ordine Mediterraneo. Le politiche di occupazione dell'Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino, Bollati Boringhieri, 2003; Costantino di Sante (a cura di), Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Verona, ombre corte, 2005; Davide Conti, L'occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della "brava gente" (1940-1943), Roma, Odradek, 2008; Elena Aga Rossi, Maria Teresa Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani, Bologna, Società editrice il Mulino, 2011; Amedeo Osti Guerrazzi, L’Esercito italiano in Slovenia 1941-1943. Strategie di repressione antipartigiana, Roma, Viella, 2011.
    20. Va peraltro segnalato il successo di una contemporanea iniziativa congiunta della Società di Studi Fiumani di Roma e dello Hrvatski Institut za Povijest di Zagabria, sulle vittime italiane a Fiume, che rivestiva anche un carattere di ufficialità politica, avendo avuto l’alto patronato del Presidente della Repubblica italiana Oscar Luigi Scalfaro e l’approvazione del Presidente della Repubblica di Croazia Franjo Tudman. Ne è scaturito un volume bilingue: Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski (a cura di), Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-47) - Žrtve talijanske nacionalnosti u Rijeci i okolici (1939-1947), Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per gli Archivi, 2002.
    21. All’inizio la Commissione comprendeva per la parte italiana Sergio Bartole (copresidente), Fulvio Tomizza, Lucio Toth, Fulvio Salimbeni, Elio Apih, Paola Pagnini e Angelo Ara. Per diversi motivi si sono avute le dimissioni del copresidente, sostituito da Giorgio Conetti, e di Fulvio Tomizza e Elio Apih, sostituiti con Marina Cataruzza e Raoul Pupo. Per la parte slovena furono nominati Milica Kacin Wohinz (copresidente), France Dolinar, Boris Gombac, Branko Marušic, Boris Mlakar, Nevenka Troha e Andrej Vovko. Boris Mlakar si dimise dapprima e fu sostituito da Aleksander Vuga, ma rientrò successivamente in seguito alle dimissioni di Boris Gombac.
    22. Relazione della Commissione italo-slovena sui rapporti fra i due Paesi fra il 1880 e il 1956, in “Storia contemporanea in Friuli”, XXX (2000), n. 31, pp. 9 – 35, qui p. 28. Il testo sloveno in Slovensko-italijanski odnosi 1880-1956. Porocilo slovensko - italijanske zgodovinsko - kulturne komisije (Koper - Capodistria, 25. julij 2000), Ljubljana, Nova revija, 2001.
    23. Relazione della Commissione italo-slovena …, cit., p. 28
    24. Ministero della Pubblica Istruzione, Decreto n 682 del 4.11.1996: Modifiche delle disposizioni relative alla suddivisione annuale del programma di Storia.
    25. Cfr. Sotto-commissione dell’Educazione della Commissione Alleata in Italia, La politica e la legislazione scolastica in Italia dal 1922 al 1943, con cenni introduttivi sui periodi precedenti e una parte conclusiva sul periodo post-fascista…, Garzanti, 1947, p. 389.
    26. M. Ajello, Cari ragazzi, finalmente scoprirete un secolo. Il vostro, in “Il Messaggero”, 1 ottobre 1996.
    27. Il progetto Berlinguer? Che brividi! (La stanza di Montanelli), in “Corriere della Sera”, 5 ottobre 1996.
    28. Per una ricostruzione generale si veda Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Torino, Giulio Einaudi editore, 2004.
    29. Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, Milano, Sperling & Kupfer, 2003.
    30. Quando la storia diventa una favola... sinistra!, s.n.t.
    31. L’edizione qui presa in esame è Augusto Camera, Renato Fabietti, Elementi di storia. XX secolo, quarta edizione, Bologna, Zanichelli, 1999.
    32. Camera dei Deputati- XIII Legislatura, Resoconto stenografico dell'Assemblea, Seduta n. 811 del 15.11.2000.
    33. Wanda Valli, Berlusconi sulla scuola “No ai testi marxisti” ,in “la Repubblica”, 13.11.2000.
    34. Augusto Camera, Renato Fabietti, L’età contemporanea, Bologna, Zanichelli, 1987, p. 1373.
    35. Augusto Camera, Renato Fabietti, Elementi di storia. XX secolo, Bologna, Zanichelli, 1999, pp. 1564-1568.
    36. Ivi, p. 1565.
    37. Questo brano, da considerarsi solo esemplare, è tratto da Adriano Prosperi, Paolo Viola, Corso di storia. Il secolo XX, Milano, Einaudi scuola, 2000, pp. 224 e 231. Gli altri manuali presi in considerazione sono: Alberto De Bernardi, Scipione Guarracino, La conoscenza storica. Manuale. 3. Il Novecento, Milano, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 2000; A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Storia, documenti. storiografia. Il mondo contemporaneo, Roma – Bari, Editori Laterza, 19941, p. 951; Luca Baldissara,  Stefano Battilossi, Corso di storia e percorsi di approfondimento, nuove edizione, con temi di educazione civica e lezioni di metodo. Volume 3, il Novecento, Firenze, Sansoni per la Scuola, 2003; Massimo Cattaneo, Claudio Canonici, Albertina Vittoria, Manuale di storia. Il Novecento e il nuovo millennio, Bologna, Zanichelli, 2009, pp. 375 s; Pietro Cataldi, Ennio Abate, Sara Luperini, Lidia Marchiani, Cinzia Spingola, Di fronte alla storia. Eventi, persone, luoghi fra passato e presente. 3. Il Novecento e oltre (dal 1914 a oggi), Palermo, G. B. Palumbo editore, 2009, p. 238
    38. Alberto Mario Banti, Il senso del tempo. Manuale di storia. 1870-oggi, Roma-Bari, Editori Laterza, 2008, pp. 455 s.
    39. Legge 30 marzo 2004, n. 92: Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati, in “Gazzetta Ufficiale” n. 86, 13.4.2004.
    40. Camera dei Deputati, Atti parlamentari, XIV Legislatura — Discussioni — Seduta dell’11 febbraio 2004 — N. 422, p. 28.
    41. Peraltro neppure un governo di centrosinistra ha ritenuto di intervenire in tal senso. Ad una interrogazione in proposito presentata l’8 febbraio 2007, dalla deputata Anna Maria Cardano, di Rifondazione comunista, il Ministero degli Esteri rispose infatti che “tenuto quindi conto anche del lungo tempo trascorso, non appare opportuna una nuova pubblicazione ufficiale della relazione, mentre potrebbe essere utile una sua diffusione nel mondo della cultura e della scuola” (Atto Camera, Risposta scritta pubblicata mercoledì 30 maggio 2007 nell'allegato B della seduta n. 161 all'interrogazione 4-02510 presentata da Cardano).
    42. Bojan Brezigar, Globlji pomen “dneva kasneje”, in “Primorski dnevnik”, 1.9.2005.
    43. Zakon o praznikih in dela prostih dnevih v Republiki Sloveniji uradno precišceno besedilo, in  “Uradni list Republike Slovenije”, n. 112 / 15 dicembre  2005, pp. 12019 s.
    44. Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e per l’Autonomia Scolastica (a cura della), Le vicende del confine orientale ed il mondo della scuola, in “Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istruzione”, 133/2010.
    45. Giovanni Codovini,  Dino Renato Nardelli, Le Foibe. Una storia dai confini mobili. Archivio simulato per la scuola secondaria di secondo grado, Perugia, Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea, 2005.
    46. Pierluigi Pallante (a cura di), Il giorno del ricordo. La tragedia delle foibe, presentazione di Oscar Luigi Scalfaro, Introduzione di Nicola Zingaretti, Editori Riuniti, Roma 2010.
    47. Božo Repe, Sobodna zgodovina. Zgodovina za 4. Letnik gimnazij, Ljubjiana, Modrijan, 2008, pp. 188ss, 213 ss.
    48. Franco Ceccotti – professore e storico di frontiera -  ha scritto una pagina molto sentita sulla difficoltà di insegnare questo tema, e al tempo stesso sulla passione di insegnarlo. Insegnare in una regione di frontiera, in http://www.irsml.eu/didattica/materiali-scuola/156-f-cecotti-insegnare-in-una-regione-di-frontiera
    49. Antonio Ferrara, Niccolò Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa: 1953, Il mulino, Bologna 2012
    50. Mary Wolley, T.E.A.C.H. Teaching Emotive And Controversial History: vedine la recensione in “Mundus, 1, 2006, pp. 222 s.
    51. Filippo Focardi, Il cattivo tedesco, cit., pp. 191-193

     

  • Le parole calde della giornata della memoria. Strumenti per studiare la storia e non per commemorarla

    di Antonio Brusa

    Sommario: La contestualizzazione dei fenomeni è un’attività specifica dello storico, utilissima, in occasione della giornata della memoria, per evitare la ritualità della commemorazione e rientrare nella buona pratica scolastica. Contestualizzare un fatto di memoria è un compito particolarmente difficile. Se ne presenta un dizionario essenziale, ricavato dal convegno L’invenzione del nemico (1998)

    In occasione del sessantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali si svolse presso la Camera dei Deputati un convegno, organizzato anche dall’Ismli, al quale parteciparono Laurana Lajolo, che allora dirigeva la Commissione Didattica della rete degli istituti storici della Resistenza, Tristano Matta e Enzo Collotti. (L’invenzione del Nemico, palazzo san Macuto, 3 dicembre 1998). I testi del convegno si trovano in “Novecento”, una rivista online, che al momento “tace”, ma che si spera possa riprendere nella sua funzione di raccolta e riproposizione di strumenti per l’insegnamento del secolo scorso. Da quegli articoli ricavo questo dizionarietto, di “parole calde” che riguardano gli antecedenti dello Sterminio e i suoi rapporti col presente. Mi auguro che possa risultare utile per contestualizzare il “fatto Shoah”: un’operazione fondamentale per la comprensione storica di questa tragedia. Lo studio del fenomeno – lo ribadiscono le recenti indicazioni programmatiche per la scuola di base – e non la sua commemorazione è l’obiettivo specifico del lavoro scolastico. Anche nella giornata della memoria.

    Chi, incuriosito da questo dizionario, vorrà leggere gli originali, può andare nel sito dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, dove troverà gli articoli di Matta, Collotti e Lajolo, qui siglati rispettivamente con TM , EC e LL

     

     

    Abuso di memoria

    È necessario riflettere sui rischi che oggi corriamo di una rielaborazione, e vera e propria manipolazione, della memoria diffusa della storia di questo secolo, rischi derivanti dall’uso commerciale che il mercato dei mezzi di comunicazione di massa fa di quella memoria – e che in fondo sarebbe un aspetto più aggiornato, una variante, di quella invenzione della tradizione che Hobsbawn e Ranger hanno tanto efficacemente individuato come uno dei momenti non secondari nel processo di elaborazione dell’immaginario delle identità nazionali e culturali. Rischi che sono sotto gli occhi di qualsiasi osservatore solo avveduto, e che vanno ben al di là dell’episodio in fondo innocente che ho precedentemente richiamato. TM

    Accelerazione totalitaria

    La strumentalizzazione della lotta contro gli ebrei, al di là del generico connotato razzistico, assume grande rilevanza sia nel tentativo di rivitalizzare dall'interno il costume di vita fascista, sia nella sua proiezione verso l'esterno come creazione di un mito collettivo destinato ad assolvere primaria importanza nella preparazione psicologica della guerra. Null'altro che una anticipazione dell'immagine dell'ebreo come longa manus dello straniero e del nemico, che sarà diffusa alla vigilia e nel corso della guerra. In questo senso la questione del razzismo antiebraico si configura come una delle componenti di quel processo di accelerazione totalitaria (l'espressione è di Emilio Gentile) che la politica del regime avvia dopo il 1936. EC

    Antisemitismo, colonialismo, nazionalismo

    La campagna contro gli ebrei e la legislazione contro di essi non furono introdotte dal fascismo per imposizione della Germania. Esse furono iniziativa e prodotto autonomo del regime fascista, in un contesto europeo e internazionale, in cui, soprattutto dopo il 1933, l'esigenza di adeguarsi ai lineamenti politici che si stavano sviluppando in Germania rispondeva a una scelta di campo fondamentale, contro la democrazia e per la modifica ad ogni costo, anche a costo della guerra, dell'ordinamento di pace che aveva fatto seguito alla conclusione del primo conflitto mondiale. E tuttavia la spinta a una politica della razza nel fascismo italiano fu connaturata allo stesso retaggio nazionalista, che esaltava la superiorità della stirpe come fatto biologico e non solo culturale; che esaltava l'espansionismo italiano attraverso la concezione tardo-coloniale delle colonie come colonie di popolamento, ossia sede di trasferimento e di nuovo insediamento dell'eccedenza demografica dell'Italia e simbolo di superiorità della civiltà e della razza italiane. Per questo la guerra d'aggressione contro l'Abissinia nel 1935-36 non fu l'inizio ma l'occasione per mettere a fuoco una politica razzista dell'Italia fascista, che poteva portare a un momento di sintesi e di unificazione di esperienze diverse, che il fascismo come regime stava ormai realizzando in settori particolari, dal razzismo nei confronti delle minoranze nazionali entrate sotto la sovranità dello stato italiano dopo la prima guerra mondiale (con particolare riferimento alle minoranze slave della Venezia Giulia, ma non solo ad esse), al razzismo praticato nei territori coloniali. Qui dopo la conquista dell'Etiopia, peraltro mai interamente conquistata per il sopravvivere di tenaci isole di resistenza e di guerriglia che mineranno profondamente il dominio dell'Italia ancor prima dei rovesci militari che nel 1941-42 dovevano decretare la definitiva sconfitta dell'impero, fu instaurato un vero e proprio regime di separazione razziale, un vero e proprio prototipo di apartheid, come tutti gli studi più recenti consentono di caratterizzarlo. EC

    Antisemitismo e politica identitaria

    L'antisemitismo fascista si colloca così al crocevia tra l'inserimento, con la lotta ai "diversi", in un motivo tipico del pensiero antidemocratico e antiegualitario della destra fascista e filofascista e la ricerca di una identità forte dell' "italiano nuovo"tipica della fase di costruzione dell'impero. La costruzione dell'italiano nuovo comportava l'omogeneizzazione di una mentalità collettiva; la collettivizzazione di un modello fascista applicato agli individui e alla società, e l'irrigidimento di questo comportamento in un modello razzista. L'appello al razzismo coloniale non sembrò sufficiente per realizzare la mobilitazione razzista di cui il regime aveva bisogno per rilanciare la spinta volontarista e rafforzare il consenso intorno a sé. La possibilità di utilizzare direttamente la mobilitazione all'interno della stessa società italiana offerta dal fatto di additare l'ebreo come "il nemico fra noi", fu la ragione ultima della riesumazione e addirittura dell'invenzione di un pericolo ebraico. EC

    Appaesamento

    Nel saggio didattico Educa il luogo che è inserito tra gli apparati di Un percorso della memoria, Cova e Baiesi contemplano anche l’ipotesi dell’abbandono tra le forme possibili del rapporto con i luoghi della memoria, accanto a quelle della monumentalizzazione e della restituzione, ma contrappongono ad esse la loro proposta di appaesamento, cioé di inserimento "costituzionale" in un continuum con i luoghi della vita sociale e civile, sola premessa perché quei luoghi possano quotidianamente essere vissuti come autentico messaggio di pace. In ogni caso si tratta di una scelta politica, di politica della memoria nell’ultimo caso, di politica dell’oblio nel primo. TM

    Didattica laboratoriale

    I laboratori di didattica della storia sono luoghi di discussione e di elaborazione per realizzare una ricerca didattica a partire da un contesto circoscritto e quindi delineabile in tutte le sue configurazioni, sperimentando una pratica che superi l’impostazione tradizionale della lezione e preveda, invece, il coinvolgimento attivo di chi insegna e di chi apprende, nel percorso di studio e nelle forme di comunicazione e di socializzazione.
    Con questa metodologia, gli studenti possono imparare non solo a ricostruire, attraverso i documenti, un fatto storico, ma anche cominciare a pensare storicamente il passato, così da poter interpretare il presente e progettare il futuro. LL

     

    Luogo di memoria


    Il concetto classico di "luogo della memoria" è notoriamente quello definito già negli anni Ottanta in Francia da Pierre Nora ed ormai ripreso dai grandi dizionari. Il Robert lo definisce come "un’unità significativa, di natura materiale o ideale, che la volontà degli uomini o il lavoro del tempo ha trasformato in elemento simbolico di una comunità". Nora colloca l’origine dei luoghi della memoria nella deritualizzazione che caratterizza la nostra epoca: sono dei resti, dei frammenti del passato, che diventano i riti di una civiltà ormai priva appunto di ritualità. In questa accezione due agenti decisivi giocano un ruolo essenziale: la volontà degli uomini di definire uno spazio per installarvi, sacralizzandolo, un frammento del proprio passato, il trascorrere del tempo che da una parte minaccia e mette a rischio la sopravvivenza del ricordo di quel passato e dall’altra seleziona quei frammenti di passato la cui salvezza, attraverso la monumentalizzazione e la sacralizzazione risulta essenziale all’identità di una comunità. Un’accezione più ristretta è stata di recente coniata — lo osserva in un suo recente utilissimo saggio Ersilia Alessandrone Perona — sempre in Francia per definire quei luoghi del ricordo che non sono ancora entrati nella grande memoria collettiva della seconda guerra mondiale. Si tratta dei luoghi nati per mantenere il ricordo delle tante memorie divise in cui nel dopoguerra si è frammentata, sia nello spazio che nei contenuti, la memoria della partecipazione dei francesi alla guerra, per effetto della stessa complessità di questa partecipazione. Sono dunque luoghi "del ricordo" che possono anche divenire, in seguito, "della memoria" nel senso definito da P. Nora — e questo potrebbe essere il caso, secondo gli autori della definizione, proprio dei memorial della deportazione —, ma non è detto che questo avvenga necessariamente. Perché ciò avvenga, aggiungerei io, devono ancora operare i due agenti individuati dalla definizione del Robert, il tempo e soprattutto la volontà degli uomini. TM

    Monumenti italiani

    Per restare nel campo dei luoghi italiani della deportazione e della discriminazione, ad esempio, a Carpi, comune di cui Fossoli è frazione, opera una Fondazione culturale ed un Museo Monumento al deportato particolarmente attivo sul fronte dell’aggiornamento degli insegnanti e nell’organizzazione di viaggi di studio.

     




    A Trieste è stata realizzata, negli anni Settanta, la monumentalizzazione diretta del sito della Risiera, al cui interno tuttavia è stato inserito un Museo storico che è luogo attivo di diffusione culturale tra i visitatori e soprattutto per le scuole, attraverso uno sperimentato servizio didattico gestito dal Comune.
    A Ferramonti (Cs) opera, tra le mille difficoltà derivanti dalla ancora irrisolta sistemazione dei resti del sito, una vivace ed ormai autorevole "Fondazione internazionale "Ferramonti di Tarsia" per l’Amicizia tra i Popoli.
    Il modello è comunque in espansione: l’ultima realizzazione in ordine di tempo è la "Casa della Resistenza" sorta nell’area monumentale di Fondotoce di Verbania. TM



    Politica della monumentalizzazione

    Il destino dei luoghi della memoria dipende comunque da una scelta politica, di politica culturale. Desidero chiarire meglio questo punto. Nel sottolineare l’importanza di una politica della memoria, da contrapporre alla scelta dell’oblio, sia chiaro sono ben lontano dall’auspicare l’imposizione dall’alto, ad opera del potere politico, di una memoria storica unificante, di cui credo una società democraticamente matura non abbia bisogno per definire la propria identità. Intendo rifarmi piuttosto al concetto di ricostruzione di una memoria, così come è stato elaborato da Maurice Halbwachs, che guardava al modo in cui certe tracce del passato possono essere riattivate nel presente, nella società, attraverso la loro strutturazione in un sistema rappresentativo legittimo e coerente per essere correttamente ri-proposte alla rielaborazione da parte delle nuove generazioni. In questo senso, una prassi coerente ed attiva di tutela dei luoghi fisici delle memorie italiane della discriminazione e dello sterminio, mi sembra dovrebbe essere considerata un prerequisito, un dato scontato, ma purtroppo così non è. L’ancoraggio al luogo fisico autentico, in qualsiasi delle sue forme sia oggi a noi pervenuto — della monumentalizzazione, della restituzione o dell’abbandono — è comunque a mio giudizio un fondamentale, direi quasi necessario, complemento alla testimonianza dei superstiti nella trasmissione della memoria della persecuzione e della deportazione. Lo ha capito molto bene Claude Lanzmann, il quale nel suo capolavoro Shoah, il più importante film-documento sullo sterminio degli ebrei d’Europa (documento in sé, non documentario, perché di documenti storici in esso non ne compaiono), ha scelto di collocare la maggior parte delle interviste ai superstiti nei luoghi, spogli ed essenziali, così come essi ci appaiono. Consapevole del fatto che ancora oggi, nonostante l’erosione materiale e temporale, essi — i luoghi — parlano al visitatore che vuole intendere. Di qui la funzione specifica ed il potenziale straordinario di quelle diverse forme di conservazione attiva e trasmissione della memoria, che hanno potuto sorgere proprio sui luoghi fisici, sui siti stessi in cui gli eventi che esse ricordano si sono svolti. TM

    Revisionismo storico

    Il revisionismo storico tende a minimizzare i provvedimenti e le procedure, a non individuare responsabilità storiche precise, indicando piuttosto nel clima di un’epoca totalitaria la ragione di tanto orrore. Questo orientamento interpretativo ha influenzato il pensare comune anche di molti docenti e studenti. Il rinvio alla documentazione esistente e a quella che ancora si può far emergere con ricerche intelligenti comporta, invece, la "revisione" del revisionismo e del negazionismo, che vuole dimostrare addirittura che i lager non erano luoghi di sterminio.
    L’analisi dei documenti produce una conoscenza della realtà e dello sviluppo delle leggi razziali, che non possono essere storicamente sottovalutati o minimizzati, esistono le leggi e le circolari applicative, i censimenti nominativi degli ebrei in ogni città, i campi di internamento degli ebrei stranieri, i nomi delle persone "allontanate", gli elenchi dei deportati e dei morti nei Lager. Si possono leggere o ascoltare testimonianze, memorie, narrazioni di fatti incontrovertibili. Si può vedere con i nostri occhi ciò che resta, come monumento permanente della memoria, di lager italiani e stranieri. Il profondo impatto emotivo si accompagna alla conoscenza storica e ci fa diventare, a nostra volta, testimoni: i campi di sterminio sono esistiti e hanno funzionato per disumanizzare uomini e donne, sfruttandoli con il lavoro coatto, e per produrre morte con diligenza burocratica e con ferocia ideologica. LL

    Valori

    Non intendiamo, con la nostra impostazione critica sulla storia del Novecento, diventare "trasmettitori" di valori, creduti ormai superati, ma vogliamo, attraverso il nesso fecondo memoria-storia, "riscrivere i valori" insieme alle nuove generazioni, non dimenticare né dal punto di vista storico né da quello emotivo che i razzismi sono un problema aperto e che la strada per il rispetto delle minoranze etniche, culturali e religiose e la convivenza civile va percorsa ogni giorno con tenacia e consapevolezza. Intendiamo anche offrire occasioni di riflessione sulle responsabilità istituzionali, collettive e individuali per smontare gli alibi di chi "non sapeva quello che stava succedendo" e per rispondere alle domande originarie e tremendamente attuali: "come è potuto succedere?" e "potrà accadere ancora?", considerando che le violazioni dei diritti umani continuano a verificarsi anche nella storia recente (basti pensare, a titolo d’esempio, ai desaparecidos di Pinochet, all’apartheid, alla pulizia etnica nella ex-Jugoslavia, ma non solo) e potranno trovare nuove forme di legittimazione o di acquiescenza. LL

  • San Sabba. Il ricordo come arte o come storia.

    Autore: Antonio Brusa


    La Risiera di san Sabba era un grande complesso industriale, per pilare e stoccare il riso importato nello scalo di Trieste. Fu costruita nel 1913, quando la città faceva parte dell’impero austroungarico. Passò quindi all’Italia, ma – trent’anni dopo – tornò ad un governo d’oltralpe, dal momento che dopo l’8 settembre la regione giuliano-dalmata venne annessa al terzo Reich. Poco dopo, nel 1944, la Risiera venne riconvertita in un campo di sterminio, dove vennero imprigionati e uccisi migliaia di partigiani e oppositori politici (si ipotizzano dalle 3 alle 5 mila vittime) e dove venivano concentrati gli ebrei della regione, per essere poi inviati ad Auschwitz. Alla fine dell’aprile del ‘45, prima di fuggire, le truppe naziste fecero saltare il forno crematorio e, quando giunsero gli alleati, quel complesso (sorte che toccò a molte strutture analoghe) continuò ad albergare uomini e donne sofferenti, questa volta profughi che provenivano dall’Istria. Fu abbandonato, cadde in rovina e, finalmente, negli anni ’70, si diede il via alla sua monumentalizzazione, realizzata su progetto dell’architetto Romano Boico, a seguito di un percorso realizzativo, reso accidentato dalla burocrazia e dalla incerta volontà politica.

    Devo ricordare queste brevi note storiche, mentre visito la Risiera insieme a Fabio Todero, ricercatore dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste (Irsml), perché il monumento di Boico, icona ormai celebre della ferocia nazista in Italia, ha completamente occultato l’evoluzione e, perciò, snaturato la storia tragica di questo luogo: prima officina dove uomini e donne hanno lavorato per guadagnarsi da vivere; trasformata dai nazisti in fabbrica di morte; utilizzata poi come transito di disperati istriani e, infine, cruda testimonianza dell’accidia civile e politica italiana.   
    E’ vero. Le due alte e strette pareti di cemento impongono, come dicono tutte le guide che ho consultato su internet, un senso di angoscia, quando le si attraversano per entrare nel sito. Ma si ergono al posto del cortile di ingresso, quello destinato ai “salvati”. Chi avesse varcato il basso portale in fondo (l’attuale ingresso al sito), sarebbe precipitato nello spazio dei “sommersi”. Questa distinzione, come sappiamo fondamentale nella vicenda dello sterminio, si è persa per sempre e la perdo anch’io, mentre attraverso quel passaggio fra i muri.
    Appena entrati, sulla sinistra vi è la “stanza della morte”. Severa e cupa, con le sue travi a vista nere. Era questo il suo aspetto quando vi furono rinchiusi quelli che erano destinati all’uccisione immediata, oppure è la loro angoscia come la immaginò Boico? La finestra era forse murata. So che i graffiti tracciati sui muri furono cancellati (qui come altrove) dalle occupazioni successive. Per il resto, devo arrangiarmi con le ipotesi, e cercare qualche risposta, senza che la sistemazione museale mi aiuti.
    Entro nel cortile. Mi sembra lo scenario del film di Benigni (un’impressione errata: ma il film forse era corretto, perché venne proprio girato in una fabbrica dismessa). Quando era una risiera, infatti, vi erano ballatoi e balconate, penso ancora presenti durante il nazismo. Tutto abraso dal restauro, che ha giudicato più confacente la parete liscia, bucata dalle finestre. A sinistra si apre il locale con la fila di cellette. Piccole, senso di soffocamento. Alcune hanno un’apertura in alto. Accoglievano sei prigionieri per volta. Dovevano stare in piedi, stretti in fila, uno appoggiato all’altro. Ogni cella è fornita, alla sua sinistra, di un giaciglio di legno a due piani. Mi chiedo: sono gli originali? Sono stati tolti e poi rimessi? Il locale venne chiuso, durante la riutilizzazione postbellica del sito? Se no, quelle celle vennero occupate? Da chi? Con quali sentimenti riuscì ad abitarle? Cerco di dialogare mentalmente con ciò che vedo, ma non trovo nessun aiuto, perché, in realtà, non so che cosa vedo.
    Segue la “Sala delle Croci”. Era originariamente articolata in quattro piani, prima di lavoro e poi destinati al deposito dei vestiti e delle “prede” sottratte ai prigionieri. Certamente, il fuoco e l’incuria hanno fatto la loro parte. Mi sforzo di ricostruire il significato che ha voluto conferire l’architetto a questo ambiente, quando ha eliminato i piani e ha lasciato a vista l’armatura di legno dell’interno, dipinta di nero. E’ lui, infatti, che ha ottenuto le immense croci, che si inseguono nello spazio svuotato.
    Uscendo nel cortile, sulla destra vi era l’essiccatoio, trasformato con analogia ripugnante in forno crematorio. I nazisti lo distrussero. La sistemazione scelta, questa volta, riesce a parlarmi: vedo il pavimento, ricoperto da lastre di metallo, e la traccia sul muro del vecchio edificio, un canale su un lato segna il percorso dei fumi, incanalati verso l’altissima ciminiera della Risiera (40 metri), al cui posto si eleva una struttura di ferro (una sorta di Pietà). Nel retro del forno è lo spazio museale (ospita una mostra molto vecchia) e, attraverso un corridoio a sinistra, si accede al memoriale. Mi dice Fabio che qui vi erano dei macchinari. Leggo sulla mappa del campo che fu poi adibito ad abitazioni di aguzzini e a deposito. Anche questo è stato svuotato completamente, fino alle capriate del tetto, che ora ricoprono un ambiente vasto, in fondo al quale un bancone di cemento richiama irresistibilmente un altare. E’ l’interno di una chiesa.

    Nella Trieste della metà degli anni ’70, dunque, questa sembrò la sistemazione museale ideale. Un po’, mi dice Todero, erano i tempi. Si pensava così, allora. Qui, però, c’è una volontà ideologica che mi sembra sovrapporsi alla storia del luogo e alle persone che vi soffrirono, alle loro convinzioni, ai motivi per i quali lottarono e vennero uccisi. C’è una forzatura strana, in questo sito – non voglio usare la parola “violenza”- , quella di chi, volendone salvare la memoria, l’ha piegata al suo modo di rielaborare il passato. La tragedia dello sterminio è come trasformata nel fondale, sul quale si mostra il dolore di gente a noi contemporanea. Un dolore degno e rispettabile; ma ingiusto, se pretende di dialogare con noi al posto delle vittime.
    Non sono un architetto e, perciò, sono certo che questi appunti siano un po’ ingiusti. Tuttavia, nascono dalla convinzione che il punto di vista dello storico non possa essere trascurato, quando si elabora la monumentalizzazione del passato. Perciò, penso che se riuscissimo a restituire al cittadino odierno la complessità storica di una realtà che non esiste più, gli daremmo una possibilità di dialogare con questa. E se riuscissimo a farlo con discrezione, faremmo quello che ci è obbligatorio, particolarmente di fronte alla tragedia immane della seconda guerra. Evitare di metterci in prima fila.
    Una classe mi precede, mentre visito la Risiera. Come faccio sempre, nei musei e negli scavi, la seguo a distanza. Vizio professionale di chi studia didattica. Quindi, cerco di carpire gli sguardi dei ragazzi, il loro comportamento e faccio attenzione alle parole della guida. Sono seduti in due file, nei due lunghissimi banconi sistemati nel museo. Il loro professore, in piedi di fronte a loro, racconta il sito. Lo ha fatto varie volte, mi pare di cogliere. Ho già sentito quello che dice, sono le parole di Levi. Gli allievi non fanno chiasso, sono intimiditi dal luogo, ma si distraggono lo stesso, e il professore se ne è accorto. Calca la mano sul cibo scarso, di pessima qualità, sulle botte. Cerca, con le atrocità raccontate, di catturare la loro attenzione. Nemmeno questa mi sembra una buona strategia memoriale.

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