nuove indicazioni

  • La storia a scuola e le nuove indicazioni nazionali

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  • Le “indicazioni” e la storia-propaganda

    Mentre attendiamo ancora la versione definitiva delle Nuove Indicazioni, vi invito a leggere le riflessioni di Giuseppe Sergi, pubblicate su “L’Indice dei libri del mese” di giugno. E, nel frattempo, sarebbe bene cominciare a interrogarci sulla qualità di manuali che dovranno essere pronti a gennaio, per la promozione.

     

    di Giuseppe Sergi

    Grafiche per sommario IDL.psd Come si è già dato conto su queste pagine il mese scorso (cfr. “L’indice” 2025, n. 4), la commissione ministeriale coordinata da Loredana Perla (pedagogista) e in particolare la sezione impegnata sulla storia, presieduta da Ernesto Galli della Loggia (giornalista e storico), hanno prodotto una bozza di Nuove Indicazioni per l’insegnamento nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado. È un documento di oltre 150 pagine che è stato subito sottoposto a discussione in varie sedi, suscitando commenti positivi per alcune materie (ad esempio geografia e matematica), ma ha sollevato un coro pressoché unanime di dissenso per la storia (dissenso rispetto al quale la commissione ha reagito con sordità e incomprensione).

    Colpisce, soprattutto, una constatazione fondamentale: tali indicazioni mostrano di non credere minimamente nella storia come disciplina con un suo statuto scientifico. Nonostante sia stata definita “scienza degli uomini nel tempo”, risulta, addirittura con trasparenza, che la storia nelle scuole non può che essere propaganda, non deve comunicare, se pur in modo didatticamente semplificato, i risultati della ricerca storica professionale. Deve invece essere “utile”, e “servire” per definire l’identità italiana all’interno di una più ampia e generica identità europea: dopo anni di positiva impermeabilità a questa tendenza politico-propagandistica – già ben radicata nei programmi dell’est europeo – ora ci si allinea alla tendenza verso una storia identitaria. Sembra si sia deciso scientemente di muoversi come se non fossero mai esistiti i fondamentali L’invenzione della tradizione di Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger e L’ossessione identitaria di Francesco Remotti: senza quindi tener conto che da opere come queste (e molte altre) non derivano soltanto indirizzi metodologici per gli storici, ma soprattutto messe in guardia per la storia insegnata.

    La commissione è in più o meno esplicita polemica con le indicazioni del 2007 e del 2012 (riviste nel 2018), ritenute o frutto del lassismo postsessantottino o velleitarie nelle loro aperture alla storia mondiale. Su questo secondo aspetto è opportuno ricordare che – per affrontare l’impossibilità di una storia mondiale con trattazioni paritetiche di mondi troppo lontani – in varie sedi e in alcuni manuali gli storici hanno fornito precisazioni che dovevano essere comprese appieno. in passi che mi sembrano molto chiari si invitavano lettori e docenti a puntare l’obiettivo su un “centro” corrispondente alla sede di chi insegna e di chi impara, sfocando poi ma non ignorando la visione, per cerchi concentrici, sulle civiltà che si sono sviluppate all’esterno di quel centro. Privile- giando notazioni, pur concise, sulle sincronie: che cosa avveniva, con o senza interferenze, in altre parti del mondo rispetto ai medesimi anni dei territori su cui la messa a fuoco deve giustamente essere più dettagliata?

    Negli anni sessanta e settanta del Novecento la didattica della storia manifestava maggiore rispetto verso la storiografia professionale, forse grazie al successo dell’innovazione tematica proposta dalla rivista francese “Annales”. In quegli anni si discutevaIn quegli anni si discuteva
    dell’“insegnamento della storia secondo il metodo delle linee di sviluppo” (metodo suggerito da Montagu tagu V. C. Jeffreys che allora ebbe un certo seguito) e della ancor più fortunata “ricerca d’ambiente”. Erano due vie per combattere il paventato – ma poi in realtà mai del tutto sviluppato – disinteresse per la storia da parte degli studenti. entrambe si ponevano nella prospettiva di fornire “stimoli” del presente per poi espandere l’attenzione alla storia generale. Nel primo caso lo stimolo era attinto da argomenti della quotidianità (l’alimentazione, l’abbigliamento, ec-cetera) per poi costruire sviluppi diacronici che percorressero le diverse età del passato e ne illuminassero le strutture sociali. Nel secondo caso si attirava l’attenzione degli studenti sulle realtà tangibili intorno a loro (un edificio, un monumento, un bosco eccetera) per incuriosire sugli aspetti più ampi dei periodi storici che li avevano prodotti o contenuti.

    I due espedienti didattici avevano limiti indubbi: gli storici si impegnarono a usarli correggendoli. Le linee di sviluppo rischiavano di suggerire una prospettiva finalistica e un’idea di progresso per- manente e, per evitare questa deriva, si proponevano “correttivi orizzontali” che per ogni fase storica informassero sui funzionamenti – anche slegati dal tema affrontato per primo – delle società che avevano espresso quegli usi. La ricerca d’ambiente rischiava di produrre un interesse quasi esclusivo per la storia locale, chiudendo la formazione storica in una gabbia che impediva la comprensione di processi generali: l’apertura a questi processi doveva essere imposta come un obbligo imprescindibile perché la storia non fosse soltanto memoria.

    Oggi non c’è storico che non combatta l’infelice ed errato sintagma "memoria storica", di cui già diffidava Marc Bloch, che ha insegnato la distinzione necessaria fra storia e memoria. Ma le indicazioni ministeriali si accontentano di ricorrere a una riflessione generale di Bloch per sentenziare che “solo l’Occidente conosce la storia”. il fondo di verità di questa constatazione è quello che si ritrova nelle pagine scritte negli anni ottanta del Novecento da Yerushalmi, attento alla componente religiosa: nell’ebraismo e in altri culti orientali ricostruire il passato era considerato tempo gratuito, non dedicato a elevare lo spirito. Ma perché nella scuola l’insegnamento deve avere “al centro la dimensione nazionale italiana”? È scorretto, sulla base dell’esito presente, scegliere nel passato personaggi e momenti che si ritiene conducano a quell’esito (da Muzio Scevola al Risorgimento e a Mani pulite). È certamente giusto salvare, delle soluzioni didattiche del passato, la “linea del tempo”, utile per combattere lo spaesamento cronologico: ma è necessario che la linea non sia punteggiata da personaggi ed episodi che risultano in rilievo nella cultura corrente, frutto del nozionismo novecentesco, di manualistica obsoleta e di divulgazione discutibile.

    Gli estensori della bozza sembrano essersi attenuti ai propri ricordi scolastici più che al Bloch evocato nell’incipit della parte storica. se invece si fossero aggiornati non avrebbero meritato la matita blu del documento della società italiana per la storia medievale. Mi limito a segnalare gli errori denunciati in quel documento, sono sufficienti a dimostrare che non si è tenuto conto della storiografia dell’ultimo mezzo secolo. L’aggettivo “germanico” non si usa più (meglio “barbarico”) perché suggerisce un’identità etnica che non c’era. il feudalesimo collocato dopo Carlo Magno suggerisce un’idea superata da cinquant’anni, e cioè che i poteri locali si fossero sviluppati per investitura e per delega. Di “repubbliche marinare” i medievisti non parlano più da decenni. Il commercio non è una specificità della storia italiana (e le Fiandre? e la lega anseatica?). Gli importanti mutamenti economici delle campagne sono ignorati. i Longobardi non unificarono mai l’italia sotto il loro dominio (anche se c’è chi, nel periodico sovranista “il primato nazionale”, ha sostenuto la tesi ridicola secondo cui sarebbero stati protagonisti del “primo Risorgimento italiano”). Il tardo medioevo presentato come “l’inizio della dominazione straniera in italia” è un anacronismo concettuale e fattuale, condizionato dall’impianto generale, finalistico e identitario, delle indicazioni.

    Non si tratta di aspetti di poco conto, come è evidente, e non sono soltanto i medievisti a essere severi, se anche il documento congiunto delle diverse società professionali degli storici denuncia “l’evocazione emotiva di determinati momenti della storia nazionale” e se altre associazioni giudicano il documento “inemendabile”. Non si può pretendere che gli autori di una simile bozza siano al corrente del dibattito sulle singole fasi storiche, ma è doveroso ricordare che per ognuna di esse esistono agili sintesi aggiornate, spesso conosciute dai destinatari e – ciò che è grave – non dagli estensori delle indicazioni. L’impianto ideologico è più che discutibile, l’ignoranza è imperdonabile.

  • Tre errori delle nuove Indicazioni di Storia

    di Walter Panciera

     

    valditara guarda bloch definitivo Intervengo nel dibattito che si è acceso intorno alla bozza delle Indicazioni di storia, per offrire un contributo come docente universitario che da oltre vent’anni si è occupato dell’insegnamento della Storia nella scuola primaria e secondaria con docenze, incarichi e pubblicazioni. Faccio notare che nessuno dei sette membri della commissione specifica che ha contribuito a predisporre il documento può stranamente vantare un impegno e pubblicazioni specifiche in relazione a quella che tecnicamente si chiama Didattica della Storia.

    Sarà forse per questo che i pur valenti colleghi hanno commesso tre madornali errori, che a mio avviso inficiano l’intero impianto delle nuove Indicazioni di Storia. Questi errori rendono involontariamente regressiva la proposta; regressiva nel senso che va in direzione contraria agli sviluppi scientifici, epistemologici e metodologica della disciplina.

     

    Il primo errore: la storia non problematica

    Il primo errore è la negazione del carattere problematico, interpretativo e multidisciplinare che la Storia ha assunto almeno a partire dalla prima metà del ‘900. «La storia è l’insieme degli eventi [...] costituisce una tappa del percorso», recita il testo: quali eventi? quale percorso?

    Questa concezione meramente fattuale e ‘progressiva’ delle vicende umane appartiene alla scienza storica del XIX secolo ed è stata ampiamente smentita dalle vicende della prima metà del XX. Risulta in questo modo chiara, anche se implicita, la pericolosa confusione, dettata dal senso comune, tra quella che è la Storia come disciplina (anche da insegnare ovviamente) e la Storia come tutto ciò che è passato. La Storia come disciplina è in continuo divenire, non esiste alcuna gerarchia precostituita degli ‘eventi’ né alcun finalismo, se non nei limiti di quanto la comunità scientifica che se ne occupa ritiene di avallare. Tutto quello che è passato nei vari percorsi delle civiltà umane (al plurale) è invece semplicemente un caos, che la disciplina storica si occupa di cercare di capire e di ordinare, individuando quelle ‘linee di forza’ di cui parlava Fernand Braudel.

     

    Il secondo errore: la storia non è un giudizio sul passato

    Il secondo errore riguarda il profilo epistemologico: il ricorso ai termini «giudicare, giudizio, tribunale» rinvia a una finalità antica, rigettata sempre con forza dall’intera storiografia contemporanea. L’idea che la conoscenza storica serva a emettere sentenze contro o a favore è semplicemente anacronistica. Voglio scomodare anch’io il grande Marc Bloch, ma anche Federico Chabod, Raul Hilberg e Carlo Ginzburg, per dire assieme a loro che la sua finalità è la comprensione dei fenomeni, non il «giudizio sul passato», come si legge nel testo ministeriale. Inoltre, per quanto riguarda il suo rapporto con la politica, è vero che la Storia o meglio qualche sua parte piegata a fini simbolici è stata utilizzata (sfruttata) da tutte le correnti ideologiche dei due secoli ormai trascorsi. Ma i risultati ottenuti non sono stati proprio eccellenti e si chiamano: razzismo, colonialismo, autoritarismo, sciovinismo, nazionalismo e infine totalitarismo.

     

    Il terzo errore: apprendere la storia non è memorizzare i fatti

    Il terzo punto riguarda gli aspetti metodologici. Gli estensori del documento sembrano ignorare del tutto che, in generale, la conoscenza non costituisce in sé una competenza. Quest’ultima è infatti ‘una qualità, abilità, capacità o talento che è stata sviluppata da uno studente e che gli appartiene’, coinvolgendo tutta la sua persona, come recita una guida della Comunità europea del 2010 e che, naturalmente, ingloba in sé la conoscenza stessa. Nel documento ministeriale di cui stiamo parlando il termine ‘conoscenza’ (= trasmissione di contenuti) viene ripetuto ben quattro volte tra la lista delle competenze attese (= saper fare, riconoscere, utilizzare, ecc.). Inoltre, alle «conoscenze», suddivise tra scuola primaria e secondaria, viene dedicata la parte più consistente del documento, ovvero la consueta lista di contenuti da trasmettere uno dopo l’altro.

    Naturalmente, questo tipo di conoscenza viene vista come una sequenza di puri fatti, con buona pace delle dimensioni di lungo periodo, comparativa, settoriale e incrociata su cui tanto hanno lavorato e stanno lavorando gli storici negli ultimi decenni. Se l’insegnamento della Storia si riduce a memorizzare una serie di eventi da parte degli alunni, sappiamo già come va a finire, vista la volatilità della memoria legata alle acquisizioni di età infantile e adolescenziale, nonché la conclamata ignoranza riguardo al divenire storico dei cittadini italiani.

    L’articolazione concreta, ovvero la scansione annuale dell’educazione storica dei nostri bambini e ragazzi che ne deriva, è in conclusione la logica conseguenza di questi clamorosi errori. Infatti, inserire «La piccola vedetta lombarda» (racconto un tempo famoso di Edmondo De Amicis) tra i contenuti da trasmettere in seconda elementare significa avviare i giovani a NON saper distinguere tra storia e mito, tra realtà e fiction, tra letteratura e storiografia. E inserire al secondo anno delle medie «Il Risorgimento italiano: cospirazioni mazziniane e diplomazia cavouriana» significa dare un giudizio di valore precostituito. In altre parole: fornire dei contenuti ideologici anziché degli strumenti per la comprensione del passato ossia delle competenze per saper leggere liberamente in profondità il proprio essere nel mondo.

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