di Walter Panciera
Intervengo nel dibattito che si è acceso intorno alla bozza delle Indicazioni di storia, per offrire un contributo come docente universitario che da oltre vent’anni si è occupato dell’insegnamento della Storia nella scuola primaria e secondaria con docenze, incarichi e pubblicazioni. Faccio notare che nessuno dei sette membri della commissione specifica che ha contribuito a predisporre il documento può stranamente vantare un impegno e pubblicazioni specifiche in relazione a quella che tecnicamente si chiama Didattica della Storia.
Sarà forse per questo che i pur valenti colleghi hanno commesso tre madornali errori, che a mio avviso inficiano l’intero impianto delle nuove Indicazioni di Storia. Questi errori rendono involontariamente regressiva la proposta; regressiva nel senso che va in direzione contraria agli sviluppi scientifici, epistemologici e metodologica della disciplina.
Il primo errore: la storia non problematica
Il primo errore è la negazione del carattere problematico, interpretativo e multidisciplinare che la Storia ha assunto almeno a partire dalla prima metà del ‘900. «La storia è l’insieme degli eventi [...] costituisce una tappa del percorso», recita il testo: quali eventi? quale percorso?
Questa concezione meramente fattuale e ‘progressiva’ delle vicende umane appartiene alla scienza storica del XIX secolo ed è stata ampiamente smentita dalle vicende della prima metà del XX. Risulta in questo modo chiara, anche se implicita, la pericolosa confusione, dettata dal senso comune, tra quella che è la Storia come disciplina (anche da insegnare ovviamente) e la Storia come tutto ciò che è passato. La Storia come disciplina è in continuo divenire, non esiste alcuna gerarchia precostituita degli ‘eventi’ né alcun finalismo, se non nei limiti di quanto la comunità scientifica che se ne occupa ritiene di avallare. Tutto quello che è passato nei vari percorsi delle civiltà umane (al plurale) è invece semplicemente un caos, che la disciplina storica si occupa di cercare di capire e di ordinare, individuando quelle ‘linee di forza’ di cui parlava Fernand Braudel.
Il secondo errore: la storia non è un giudizio sul passato
Il secondo errore riguarda il profilo epistemologico: il ricorso ai termini «giudicare, giudizio, tribunale» rinvia a una finalità antica, rigettata sempre con forza dall’intera storiografia contemporanea. L’idea che la conoscenza storica serva a emettere sentenze contro o a favore è semplicemente anacronistica. Voglio scomodare anch’io il grande Marc Bloch, ma anche Federico Chabod, Raul Hilberg e Carlo Ginzburg, per dire assieme a loro che la sua finalità è la comprensione dei fenomeni, non il «giudizio sul passato», come si legge nel testo ministeriale. Inoltre, per quanto riguarda il suo rapporto con la politica, è vero che la Storia o meglio qualche sua parte piegata a fini simbolici è stata utilizzata (sfruttata) da tutte le correnti ideologiche dei due secoli ormai trascorsi. Ma i risultati ottenuti non sono stati proprio eccellenti e si chiamano: razzismo, colonialismo, autoritarismo, sciovinismo, nazionalismo e infine totalitarismo.
Il terzo errore: apprendere la storia non è memorizzare i fatti
Il terzo punto riguarda gli aspetti metodologici. Gli estensori del documento sembrano ignorare del tutto che, in generale, la conoscenza non costituisce in sé una competenza. Quest’ultima è infatti ‘una qualità, abilità, capacità o talento che è stata sviluppata da uno studente e che gli appartiene’, coinvolgendo tutta la sua persona, come recita una guida della Comunità europea del 2010 e che, naturalmente, ingloba in sé la conoscenza stessa. Nel documento ministeriale di cui stiamo parlando il termine ‘conoscenza’ (= trasmissione di contenuti) viene ripetuto ben quattro volte tra la lista delle competenze attese (= saper fare, riconoscere, utilizzare, ecc.). Inoltre, alle «conoscenze», suddivise tra scuola primaria e secondaria, viene dedicata la parte più consistente del documento, ovvero la consueta lista di contenuti da trasmettere uno dopo l’altro.
Naturalmente, questo tipo di conoscenza viene vista come una sequenza di puri fatti, con buona pace delle dimensioni di lungo periodo, comparativa, settoriale e incrociata su cui tanto hanno lavorato e stanno lavorando gli storici negli ultimi decenni. Se l’insegnamento della Storia si riduce a memorizzare una serie di eventi da parte degli alunni, sappiamo già come va a finire, vista la volatilità della memoria legata alle acquisizioni di età infantile e adolescenziale, nonché la conclamata ignoranza riguardo al divenire storico dei cittadini italiani.
L’articolazione concreta, ovvero la scansione annuale dell’educazione storica dei nostri bambini e ragazzi che ne deriva, è in conclusione la logica conseguenza di questi clamorosi errori. Infatti, inserire «La piccola vedetta lombarda» (racconto un tempo famoso di Edmondo De Amicis) tra i contenuti da trasmettere in seconda elementare significa avviare i giovani a NON saper distinguere tra storia e mito, tra realtà e fiction, tra letteratura e storiografia. E inserire al secondo anno delle medie «Il Risorgimento italiano: cospirazioni mazziniane e diplomazia cavouriana» significa dare un giudizio di valore precostituito. In altre parole: fornire dei contenuti ideologici anziché degli strumenti per la comprensione del passato ossia delle competenze per saper leggere liberamente in profondità il proprio essere nel mondo.