Valditara

  • Che fate il 12 luglio?

    di Antonio Brusa

    2Seminario SiDidaSt 12 luglio Se non siete ancora partiti per le vacanze, segnatevi la data e leggete la locandina sotto. Il tema del quale parleremo non è troppo dibattuto nelle sale dei professori. Purtroppo, perché è uno di quelli vitali per il nostro mestiere. Cambia il programma di storia. Per fare che? Valditara dice perché dobbiamo dare agli allievi un’identità italiana. E cosa c’è di meglio della storia (e un po’ anche della geografia e della letteratura) per raggiungere questo scopo? Non è il solo in Europa. Lo hanno già fatto tutti i paesi dell’Europa orientale e molti di quella occidentale. Tutti, in questo scorcio di XXI secolo, sembra che vogliano rinchiudersi nella comfort-zone della tradizione e della patria. La SiDidaSt ha progettato questo seminario per fare chiarezza, per conoscere bene la questione e capire qual è la posta in gioco. Abbiamo chiesto a studiosi di didattica, a storici e ai rappresentanti delle associazioni generaliste di storia di aiutarci a vederci chiaro. Li ascolteremo, e poi, nel pomeriggio, avremo un ampio spazio per discutere.
    Per partecipare sarà facilissimo: basta aprire la locandina e cliccare o inquadrare il qrcode e si entra. Chi vuole assistere “dal di fuori”, lo potrà fare attraverso la diretta su facebook.

     

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  • Comunicato congiunto sulle Nuove Indicazioni Nazionali

    comunicato NIN Società storiche 31 marzo 2025 Pagina 1

    comunicato NIN Società storiche 31 marzo 2025 Pagina 2

     

    Scarica il comunicato QUI.

  • Insegneremo storia o “italianità”?

    di Massimo Baldacci e Antonio Brusa

     

    Immagine WhatsApp 2025 01 20 ore 17.34.13 a4a9b213 Dopo aver letto l’intervista che l’on. Valditara ha rilasciato al “Giornale”, abbiamo deciso di scrivere il documento che alleghiamo. Lo abbiamo sottoposto a tanti colleghi universitari e di altre istituzioni culturali e moltissimi (in 147) lo hanno firmato con convinzione: storici, geografi, filosofi, pedagogisti e di altre discipline. Ora lo proponiamo agli insegnanti e ai cittadini sensibili alle questioni scolastiche. Non chiediamo a nessuno giudizi prematuri sulla riforma, né tantomeno di esprimere un rifiuto di principio al lavoro della Commissione. Chiediamo di riflettere sulla questione centrale di questa riforma, e cioè la sua dichiarata finalità identitaria. La storia serve per tramandare a ragazzi e ragazze “l’italianità”, o per insegnare loro a conoscere il mondo nel quale vivranno? Qui non c’entrano né partiti, né ideologie personali, né il favore o meno che si può concedere a questo governo. C’entrano il senso del nostro lavoro di insegnanti e la salvaguardia del carattere scientifico della nostra disciplina. Se condividete questa preoccupazione, vi prego di inviare la vostra adesione a questo link, gestito da Proteo: https://forms.gle/hLjhanPgSghzRvru8.

    Lo sappiamo tutti: più siamo, più la nostra voce sarà forte.

     

    Il documento

    Il ministro dell’istruzione e del merito on. Valditara, il 15 gennaio, ha rilasciato al Giornale un’intervista in cui anticipa alcuni elementi delle nuove Indicazioni curricolari nazionali, formulate da una commissione presieduta da Loredana Perla (e di cui fa parte anche Ernesto Galli della Loggia, autore con lei del volume Insegnare l’Italia, 2023).

    Ovviamente, le anticipazioni contenute in questa intervista non sono sufficienti per formulare un giudizio organico e circostanziato sulle nuove Indicazioni. Per questo sarà necessario attendere il documento elaborato dalla commissione. Tuttavia, il senso dell’intervista è quello di aprire la discussione e cercare di influenzarla ancor prima dell’uscita del documento. Infatti, il dibattito che si è acceso, sui social – specie fra insegnanti – e sui media fra storici, scrittori e giornalisti, si è rapidamente articolato in tante sottoquestioni, fra le quali primeggiano lo studio della Bibbia e del latino e la ricorrente nostalgia della buona scuola di una volta, rischiando di mettere in secondo piano quello che questa riforma propone come tema fondamentale. Tale tema è se un intero programma di studi possa essere finalizzato a uno scopo politico, quale quello della costruzione (o della salvaguardia) di un’identità collettiva, e se a questo debba essere subordinato l’apprendimento di discipline scientifiche, quali in particolare la storia e la geografia (ma non dimentichiamo la riduzione della letteratura a contenitore di valori identitari). A questo proposito, appare emblematico il passaggio dell’intervista circa l’insegnamento della storia: “L’idea è quella di sviluppare questa disciplina come una grande narrazione, senza caricarla di sovrastrutture ideologiche, privilegiando inoltre la storia d’Italia, dell’Europa, dell’Occidente”. Appare evidente la coerenza con l’idea di una scuola il cui primo compito è quello di formare un’identità collettiva, e in particolare un’identità nazionale italiana, che rappresenta il leitmotiv del libro di Galli della Loggia e Perla. Questa sembra la questione fondamentale che sta alla base di tutta l’operazione. Si tratterebbe, a dispetto delle parole del ministro, di una scelta ideologica, che andrebbe a scapito del profilo scientifico del curricolo, e quindi del suo autentico valore formativo.

    Certamente, vogliamo sperare che queste perplessità siano dissipate dal documento elaborato dalla commissione, del quale una breve intervista non può dare un resoconto esauriente. Nel frattempo, sollecitiamo gli insegnanti, gli studiosi e le associazioni professionali a prendere consapevolezza della posta in gioco e a discuterla. È una scelta strategica per la scuola italiana, che non può passare nel silenzio della scuola e della politica.

    Massimo Baldacci (presidente nazionale di Proteo) e Antonio Brusa (presidente della Società Italiana di Didattica della storia)

     

    Hanno sottoscritto il documento (in ordine alfabetico)

    Pietro Adamo, unito
    Salvo Adorno, unict
    Ilaria Agostini, unibo
    Gabriella Agrusti, Lumsa
    Roberto Alciati, unifi
    Emiliano Alessandroni, uniurb
    Margherita Angelini, unikore
    Stefano Azzarà, uniurb
    Duccio Balestracci, unisi
    Giuseppe Barone, unict
    Claudio Bazzocchi, Crs
    Anna Emilia Berti, unipd
    Carmen Betti, unifi
    Piero Bevilacqua, Sapienza
    Fabio Bocci, uniromatre
    Antonio Bonatesta, uniba
    Beatrice Borghi, unibo
    Francesca Borruso, uniromatre
    Alessandra Bulgarelli, unina Federico II
    Roberto Buttini Gattai, unifi
    Franco Cambi, unifi
    Mimmo Cangiano, unive
    Luigi Cajani, Sapienza
    Stefano Calonici, unisi
    Paolo Cammarosano, units
    Glauco Maria Cantarella, unibo
    Antonio Cantaro, uniurb
    Vittorio Caporrella, unibo
    Guido Carpi, unina Orientale
    Annastella Carrino, uniba
    Simone Casini, unipg
    Alessandro Cavalli, Accademia nazionale dei Lincei
    Francesca Chiarotto, uniupo
    Salvatore Cingari, unipg per stranieri
    Livio Ciappetta, unicusano
    Piero Colla, Osservatorio europeo sull'insegnamento della storia
    Mino Conte, unipd
    Pasquale Cordasco, uniba
    Elisabetta Corsi, Sapienza
    Cristiano Corsini, uniromatre
    Rita Cosma, Sapienza
    Giuseppe Cospito, unipv
    Carmela Covato, uniromatre
    Marco Cuaz, univda
    Stefano D’Atri, unisa
    Costanza D’Elia, unicas
    Giuliano De Felice, uniba
    Valeria Deplano, unicag
    Tommaso Detti, unisi
    Angelo d’Orsi, unito
    Liliana Dozza, unibz
    Tiziana Drago, uniba
    Lea Durante, uniba
    Maurizio Fabbri, unibo
    Pasquale Favia, unifg
    Alessandra Ferraresi, unipv
    Vincenzo Ferrone, unito
    Silvia Fioretti, uniurb
    Paolo Fioretti, uniba
    Roberto Fineschi, unisi
    Francesco Fistetti, uniba
    Marcello Flores, unisi
    Filippo Focardi, unipd
    Gianni Francioni, unipv
    Fabio Frosini, uniurb
    Filippo Galletti, unibo
    Alessandra Giannelli, uniba
    Carlo Greppi, storico
    Alexander Hobel, unina Federico II
    Lutz Klinkhammer, Istituto storico germanico Roma
    Alessandro Lagioia, uniba
    Rosanna Lamboglia, unibas
    Cristina Lavinio, unicag
    Tiziana Lazzari, unibo
    Guido Liguori, International Gramsci Society
    Isabella Loiodice, unifg
    Pietrangelo Lombardi, unipv
    Gennaro Lopez, uniromatre
    Giancarlo Macchi Janica, unisi
    Elena Madrussan, unito
    Rosario Mangiameli, unict
    Brunello Mantelli, unical
    Roberto Maragliano, uniromatre
    Carla Marcellini, ISM
    Berta Martini, uniurb
    Chiara Massari, Iveser
    Alfio Mastropaolo, unito
    Ivo Mattozzi, unibz
    Andrea Micciché, unikore
    Maria Elisa Micheli, Accademia nazionale dei Lincei
    Maria Chiara Michelini, uniurb
    Gian Giacomo Migone, unito
    Giuseppe Monsagrati, Sapienza
    Massimo Montanari, unibo
    Domenico Mugnolo, uniba
    Marcello Mustè, Sapienza
    Giovanni Muto, unina Federico II
    Melania Nucifora, unict
    Elisabetta Nigris, unimibicocca
    Nadia Olivieri, Ivrr
    Enrico Pagano Istorbive
    Daniele Palermo, unipa
    Salvatore Palifds, unige
    Walter Panciera, unipd
    Matteo Pasetti, unibo
    Manoela Patti, unipa
    Rossano Pazzagli, unimol
    Irene Piazzoni, unimi
    Pietro Pinna, unito
    Tiziana Pironi, unibo
    Stefano Pivato, uniurb
    Adriano Prosperi, Accademia nazionale dei Lincei
    Chiara Pulvirenti, Sapienza
    Giulia Quaggio, Università Complutense di Madrid
    Giuseppe Raciti, unict
    Alice Raviola Blythe, unimi
    Francesco Remotti, unito
    Renzo Repetti, unige
    Mario Ricciardi, unibo
    Maria Grazia Riva, unimibicocca
    Laura Ronchi, Sapienza
    Francesca Roversi Monaco, unibo
    Saverio Russo, unifg
    Biagio Salvemini, uniba
    Salvatore Santuccio, unirc
    Andrea Savio, unipd
    Daniele Serapiglia, Università Complutense di Madrid
    Giuseppe Sergi, unito
    Elisa Signori, unipv
    Maria Sternini, unisi
    Maura Striano, unina Federico II
    Pietro Themelly, Sapienza
    Elisabetta Todisco, uniba
    Marica Tolomelli, unibo
    Maria Tomarchio, unict
    Raffaele Tumino, unimc
    Ira Vannini, unibo
    Pietro Vereni, uniromadue
    Marcello Verga, unifi
    Carlo Verri, unipa
    Elisabetta Vezzosi, units
    Giacomo Vignodelli, unibo
    Claudia Villani, uniba
    Francesco Violante, uniba
    Andrea Zagli, unisi
    Alberto Ziparo, unifi

  • Le riforme a costo zero, ovverosia la gabbia di matti

    di Antonio Brusa

    Immagine WhatsApp 2025 02 13 ore 06.44.55 7cdbe178 Avete mai letto una novella, di quelle fra il comico e l’angosciato, dove il padrone di casa cambia continuamente idea sulla disposizione dei mobili? Lo fa per nobili ragioni: ora vuole una casa accogliente, ora severa e raccolta, ora vuole mettere a proprio agio i bambini, poi dice no, prima gli anziani. Cambia sempre idea, ma non ha soldi o, per qualche sua ragione, non ne vuole spendere per comprare mobili nuovi, ridipingere le pareti o, magari, per prendere una casa più adatta. Quindi, fa spostare i mobili. Sempre gli stessi. E più gli inquilini li trascinano di qua e di là, più lui si intestardisce, più ci si incavola e più lo stress aumenta. “Una gabbia di matti”, commentano increduli i vicini e scrollano le spalle.

    Non l’avete letta? Mi dite che non esiste? Allora, datevi uno sguardo al decreto con il quale si lancia l’attuazione della riforma dell’istruzione tecnica e professionale, stabilita nel decreto-legge 144/2022.

    Se supererete i ben 45 commi iniziali - “visto quello e quell’altro” – sarete premiati. Senza nessuna ironia. Perché è importante che il ministro dichiari che devono essere rafforzate le competenze linguistiche, storiche, matematiche (ecc.), che devono essere attuate attività specifiche formative a vantaggio dei prof e, fra le tantissime altre belle cose, che si realizzi l’internazionalizzazione dei nostri istituti tecnici (art.1).

    Nel secondo articolo, poi, il nostro consenso aumenta, perché si prevede che l’insegnante usi metodologie diverse (e quindi non solo la lezione: ma lo avranno letto, questo decreto, nella Commissione di Storia?) e perfino unità di lavoro integrate fra varie discipline. Già immagino di realizzare un progetto integrato fra storia e discipline tecnico-scientifiche. E’ un sogno che coltivo da tempo. Due ore di storia + due ore di tecnologia. Un bel laboratorio in compresenza, come dice la legge, finalmente. Finalmente: perché basta con questa interdisciplinarità farlocca, fatta di carte sulle quali tutti scrivono le stesse competenze e poi ognuno fa il pezzo suo per i fatti suoi. Certo, la compresenza richiede qualche ora di lavoro aggiuntiva, perché se dobbiamo stare insieme per quattro ore, ciascuno di noi starà in classe due ore in più. Più ore, più soldi? Non faccio in tempo a chiedermelo, che lo sguardo cade sul comma 4: “le misure di cui al presente articolo sono adottate nell’ambito delle risorse umane, strumentali e disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Non capisco. Il governo chiede ai suoi insegnanti di lavorare gratis, o di continuare con la finta inter/multi/trans disciplinarità?

    Il concetto è ribadito nell’articolo 5, dove, a scanso di equivoci, si dice che tutto ciò che è stato stabilito negli articoli precedenti, deve essere inteso senza oneri aggiuntivi.

    Poi si passa ai rapporti col mondo del lavoro. Nell’articolo 7 si dice che i docenti delle materie tecniche possono andare nelle aziende relative alle loro materie per aggiornarsi. Vanno in missione, dunque: attività che, anche se poco, dovrebbe essere pagata. No: anche qui, proprio nello stesso comma, si ripete che niente soldi. Si va gratis e l’azienda ti formerà altrettanto gratuitamente. Vogliamo proseguire? Anche l’articolo 8 su partenariato, patti educativi e altre meraviglie da realizzarsi col territorio è chiuso dalla stessa clausola di garanzia (comma 4). Nell’articolo 10 si affronta la questione dei processi di internazionalizzazione. Necessari come non mai nel mondo del lavoro (e anche qui, il pensiero corre ai membri della commissione di storia chini sul loro programma nazionale). Il ministro fa bene a dedicarci un articolo molto dettagliato. Solo che, sarà l’abitudine dell’estensore, anche l’internazionalizzazione termina con la garanzia che non costerà nulla.

    Infine, per essere proprio certi e non lasciare dubbi a chicchessia, l’articolo 12 ripete per l’ennesima volta che “dal presente decreto non derivano nuovi e maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.

    Un tempo avrei scritto che le riforme a parole lasciano il tempo che trovano. Oggi la penso diversamente. Obbligano docenti, dirigenti e personale ata a mobilitarsi, a riassegnare ore e persone, a elaborare orari fantascientifici. Lo hanno già fatto per l’educazione civica e per l’orientamento. Perciò, con questa riforma a parole, si aggiungeranno tante altre carte, nelle quali certificare di competenze raggiunte, di accordi stipulati, di piani di lavoro stellari. Perciò, penso che questo decreto renderà la scuola più simile alla famiglia della mia novella. Non so con quanto frutto (la scuola italiana ci sorprende a volte, riuscendo anche nell’impossibile), ma certamente con un grande incremento collettivo di stress. Con una differenza: che nella mia novella i vicini commentano increduli; nella realtà, i cittadini italiani sembrano assistere con noncuranza.

  • Ma il programma di storia è una fake news?

    di Antonio Brusa

     

    01   02 Era di grande interesse il seminario su “vero, falso, manipolazione a fini politici: un falso problema?”, organizzato dalla fondazione Feltrinelli e online il 14 gennaio. Vi hanno partecipato come relatori Marina Gazzini, Serge Noiret, Francesco Filippi e tanti altri, tutti intervenuti con grande competenza. Si è parlato di stereotipi, false conoscenze, conoscenze approssimate: la quantità di falsità che circola nell’etere è tale che ci obbliga, quasi di corsa, a rivedere il vocabolario, per classificare, distinguere e quindi valutare (basti vedere la voce che la Crusca dedica a “disconoscere, misconoscere, sconoscere”, per accorgersi dell’affanno con il quale stiamo inseguendo il problema). Come ha ricordato un relatore, riprendendo certamente una vecchia battuta di Eco, prima le panzane si sparavano in osteria, poi uno tornava a casa e pensava a quanto fossero cretine. Ora la rete è diventata un’osteria invasiva, ci vivi dentro e non sai più da che parte voltarti.

    Donald Sassoon, concludendo il dibattito, ha spostato il suo focus in una direzione che interessa da vicino i docenti di storia. Ha detto: è vero, i falsi girano a più non posso e ce ne sono di vario genere. Ma ce ne è uno che è più pericoloso, e deriva dall’abitudine a prelevare dal passato solo alcuni elementi, tralasciando tanti altri, per scopi personali, anche politici. E ha fatto proprio l’esempio di programmi di storia che prendono solo fatti relativi all’Occidente e tacciono su ciò che è accaduto nel resto del mondo. I singoli fatti magari sono indiscutibilmente accertati, ma il racconto complessivo (la “narrazione”) è falsa. Uno dei falsi più dannosi, ha commentato lo storico, e mi sembra di aver capito che volesse intendere: “peccato che se ne parli poco”.

    Certamente dovremmo parlarne dopo aver letto l’intervista di Valditara nella quale il ministro proclama che basta con l’insegnamento della storia mondiale e che la “narrazione” che i ragazzi italiani devono apprendere riguarderà solo la nostra penisola e, semmai, l’Occidente. Come se ciò non fosse già la realtà delle nostre scuole. A rigor di logica, stando alla sua dichiarazione, non è che si rivolterà una scuola, già di per sé refrattaria ad accogliere quel po’ di storia mondiale suggerita dai programmi del 2012. La realtà di una storia autocentrata resta. La novità è che Valditara ne esplicita a chiare lettere lo scopo politico: deve essere tale, perché dobbiamo salvaguardare la tradizione occidentale, la nostra identità, il senso della patria (e così via). La storia, secondo lui, è una selezione di fatti passati, operata per scopi politici. Proprio quella tipologia di falso individuata da Sassoon.

    E non sarebbe il caso di parlarne? Magari, qualche docente ora si renderà conto che la storia che ha sempre insegnato, così apparentemente anodina e “non ideologica” (come sottolinea Valditara), ha un chiaro scopo politico: e vuoi vedere che, finalmente, qualcuno comincerà a infastidirsi per questo uso politico della storia?

    Passatempo, 15 gennaio 2025

  • Tre errori delle nuove Indicazioni di Storia

    di Walter Panciera

     

    valditara guarda bloch definitivo Intervengo nel dibattito che si è acceso intorno alla bozza delle Indicazioni di storia, per offrire un contributo come docente universitario che da oltre vent’anni si è occupato dell’insegnamento della Storia nella scuola primaria e secondaria con docenze, incarichi e pubblicazioni. Faccio notare che nessuno dei sette membri della commissione specifica che ha contribuito a predisporre il documento può stranamente vantare un impegno e pubblicazioni specifiche in relazione a quella che tecnicamente si chiama Didattica della Storia.

    Sarà forse per questo che i pur valenti colleghi hanno commesso tre madornali errori, che a mio avviso inficiano l’intero impianto delle nuove Indicazioni di Storia. Questi errori rendono involontariamente regressiva la proposta; regressiva nel senso che va in direzione contraria agli sviluppi scientifici, epistemologici e metodologica della disciplina.

     

    Il primo errore: la storia non problematica

    Il primo errore è la negazione del carattere problematico, interpretativo e multidisciplinare che la Storia ha assunto almeno a partire dalla prima metà del ‘900. «La storia è l’insieme degli eventi [...] costituisce una tappa del percorso», recita il testo: quali eventi? quale percorso?

    Questa concezione meramente fattuale e ‘progressiva’ delle vicende umane appartiene alla scienza storica del XIX secolo ed è stata ampiamente smentita dalle vicende della prima metà del XX. Risulta in questo modo chiara, anche se implicita, la pericolosa confusione, dettata dal senso comune, tra quella che è la Storia come disciplina (anche da insegnare ovviamente) e la Storia come tutto ciò che è passato. La Storia come disciplina è in continuo divenire, non esiste alcuna gerarchia precostituita degli ‘eventi’ né alcun finalismo, se non nei limiti di quanto la comunità scientifica che se ne occupa ritiene di avallare. Tutto quello che è passato nei vari percorsi delle civiltà umane (al plurale) è invece semplicemente un caos, che la disciplina storica si occupa di cercare di capire e di ordinare, individuando quelle ‘linee di forza’ di cui parlava Fernand Braudel.

     

    Il secondo errore: la storia non è un giudizio sul passato

    Il secondo errore riguarda il profilo epistemologico: il ricorso ai termini «giudicare, giudizio, tribunale» rinvia a una finalità antica, rigettata sempre con forza dall’intera storiografia contemporanea. L’idea che la conoscenza storica serva a emettere sentenze contro o a favore è semplicemente anacronistica. Voglio scomodare anch’io il grande Marc Bloch, ma anche Federico Chabod, Raul Hilberg e Carlo Ginzburg, per dire assieme a loro che la sua finalità è la comprensione dei fenomeni, non il «giudizio sul passato», come si legge nel testo ministeriale. Inoltre, per quanto riguarda il suo rapporto con la politica, è vero che la Storia o meglio qualche sua parte piegata a fini simbolici è stata utilizzata (sfruttata) da tutte le correnti ideologiche dei due secoli ormai trascorsi. Ma i risultati ottenuti non sono stati proprio eccellenti e si chiamano: razzismo, colonialismo, autoritarismo, sciovinismo, nazionalismo e infine totalitarismo.

     

    Il terzo errore: apprendere la storia non è memorizzare i fatti

    Il terzo punto riguarda gli aspetti metodologici. Gli estensori del documento sembrano ignorare del tutto che, in generale, la conoscenza non costituisce in sé una competenza. Quest’ultima è infatti ‘una qualità, abilità, capacità o talento che è stata sviluppata da uno studente e che gli appartiene’, coinvolgendo tutta la sua persona, come recita una guida della Comunità europea del 2010 e che, naturalmente, ingloba in sé la conoscenza stessa. Nel documento ministeriale di cui stiamo parlando il termine ‘conoscenza’ (= trasmissione di contenuti) viene ripetuto ben quattro volte tra la lista delle competenze attese (= saper fare, riconoscere, utilizzare, ecc.). Inoltre, alle «conoscenze», suddivise tra scuola primaria e secondaria, viene dedicata la parte più consistente del documento, ovvero la consueta lista di contenuti da trasmettere uno dopo l’altro.

    Naturalmente, questo tipo di conoscenza viene vista come una sequenza di puri fatti, con buona pace delle dimensioni di lungo periodo, comparativa, settoriale e incrociata su cui tanto hanno lavorato e stanno lavorando gli storici negli ultimi decenni. Se l’insegnamento della Storia si riduce a memorizzare una serie di eventi da parte degli alunni, sappiamo già come va a finire, vista la volatilità della memoria legata alle acquisizioni di età infantile e adolescenziale, nonché la conclamata ignoranza riguardo al divenire storico dei cittadini italiani.

    L’articolazione concreta, ovvero la scansione annuale dell’educazione storica dei nostri bambini e ragazzi che ne deriva, è in conclusione la logica conseguenza di questi clamorosi errori. Infatti, inserire «La piccola vedetta lombarda» (racconto un tempo famoso di Edmondo De Amicis) tra i contenuti da trasmettere in seconda elementare significa avviare i giovani a NON saper distinguere tra storia e mito, tra realtà e fiction, tra letteratura e storiografia. E inserire al secondo anno delle medie «Il Risorgimento italiano: cospirazioni mazziniane e diplomazia cavouriana» significa dare un giudizio di valore precostituito. In altre parole: fornire dei contenuti ideologici anziché degli strumenti per la comprensione del passato ossia delle competenze per saper leggere liberamente in profondità il proprio essere nel mondo.

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