public history

  • Dopo le discussioni sulla prova di storia. In attesa della tempesta perfetta?

    di Antonio Brusa

    “Non rubiamo il passato ai ragazzi”

    Se le proteste per reintrodurre la prova di storia (la vecchia tipologia C della prima prova) avessero un qualche riscontro, politico o anche solo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, sarebbe una bella vittoria per una disciplina che sta patendo un processo di marginalizzazione disastroso, ormai di livello mondiale.

    È, dunque, una buona battaglia quella lanciata da “Repubblica”, forte dell’appello della senatrice Liliana Segre, al quale hanno aderito storici, scrittori, artisti, giornalisti e tanti cittadini. I molti giovani che hanno risposto al questionario sulla reintroduzione della prova, e i moltissimi che hanno aggiunto considerazioni sull’utilità dello studio della storia, col loro numero incoraggiano tutti quelli che amano questa disciplina e ne ritengono indispensabile il portato formativo.

    Come si ricorderà, il dibattito è stato avviato dall’allarme lanciato dal Coordinamento della Giunta centrale per gli studi storici e delle Società degli storici (Cusgr, Sis, Sisem, Sisi, Sismed, Sissco), a seguito delle modifiche della prova di esame di stato (Circolare MIUR n. 3050 del 4 ottobre 2018). Su «Historia Ludens» abbiamo dato ampiamente conto dei numerosi interventi.

    Storia sotto attacco. Gran BretagnaStoria sotto attacco. Gran Bretagna

    A quella mobilitazione il ministro Marco Bussetti ha riposto con dei fatti. Aveva promesso che la storia non sarebbe scomparsa, e ha mantenuto la parola. La storia è stata presente direttamente in una delle tracce proposte, quella sul brano di Claudio Pavone, e, indirettamente, sia nella traccia su Pascoli (Patria), sia in quella sui diritti civili e soprattutto su La Storia di Elsa Morante. Dunque: la storia come disciplina importante e, per questo, trasversale, come il ministro non ha mai smesso di dichiarare. In aggiunta, Bussetti ha sottolineato che, con questo sistema, la storia è uscita dal dimenticatoio studentesco, registrando un numero di scelte superiore al passato, dal momento che gli studenti “non si sono polarizzati su una prova”. Pensando allo 0,6%, registrato dal tema sulle Foibe, assegnato al tempo della Gelmini, gli si dovrebbe dar ragione, per quanto l’instant poll di Skuola.net ci faccia temere che, comunque, la traccia di “storia-storia” sia l’ultima delle sette in lizza.

    Un dibattito acceso e una certa varietà di opinioni

    Questi “fatti” del ministro non hanno accontentato Andrea Giardina e con lui molti altri, storici e no, che li hanno considerati insufficienti a ridare alla storia quel ruolo centrale nell’impianto formativo, del quale la prova di storia era, per così dire, il sigillo.

    Tuttavia, occorre notare che il fronte delle opinioni è molto diversificato. Uno specchio di questa varietà è dato dalla rapida indagine presso i dirigenti scolastici, svolta da “AdnKronos”, nella quale, accanto a chi attribuisce la scelta del ministro al deprecabile e ulteriore allontanamento della scuola dalla visione gentiliana (!), vi è chi, come Tina Gesmundo, preside di uno dei più attivi licei di Bari, afferma che "l'eliminazione della traccia di storia fa parte di un grande disegno che va a picconare i fondamentali della nostra cultura umanistica ", al contrario di Chiara Alpestre, preside dello storico “D’Azeglio” di Torino, per la quale si tratta di "una falsa polemica”, dal momento che, se “è vero che il tema storico non viene più esplicitato” e che la Storia viene “diluita all'interno di altre tipologie”, non si può negare che “l'attenzione per tutte le dimensioni di competenza dell'allievo sia rimasta".

    La contesa potrebbe continuare: sarà vero che la trovata del ministro è “ideologica” come accusa Giardina? e che, più che eliminare una traccia poco accorsata, si sarebbe dovuto intervenire per renderla più appetibile? Si potrebbe aggiungere, per rinfocolare la polemica, che il ministro è stato abbastanza astuto, scegliendo tracce ampie, che potevano essere svolte anche conoscendo poca storia ma sapendone ben parlare, e che ha, altrettanto saggiamente, evitato il nodo degli ultimi settant’anni, quel buco nero della conoscenza storica nelle nostre scuole, messo in luce agli esami di questi ultimi due decenni (su questo vedi ancora «Historia Ludens»). Si potrebbe, anche, rinfacciare al ministro una perdita di dignità della storia, ridotta a disputare una prova di esame alle altre discipline, come lamenta il documento della SISLav, la società degli storici del lavoro.

    Quale che sia il giudizio che diamo di questo dibattito, e quali che ne siano gli esiti ultimi, tutti dovremmo riflettere sul fatto che i problemi che questo dibattito ha fatto emergere resteranno, e sono talmente gravi che dovrebbero accomunare i contendenti in uno sforzo comune. Sarebbe l’ennesima beffa, ammonisce Marco Campione, se, spentisi i fuochi della polemica, la storia tornasse nel dimenticatoio pubblico, in attesa della diatriba successiva, sull’educazione civica, o il bullismo o una qualsiasi altra disfunzione. (L’articolo, pubblicato da «Italia Oggi» può essere letto qui, in una versione leggermente diversa).

    È il caso, quindi, di tornare sulle questioni messe in luce dal dibattito, di analizzarle nella loro complessità e nei soggetti coinvolti. Occorre che tutti capiscano che ruolo vi hanno giocato, e, ciascuno per la propria parte, prendano le decisioni opportune, nella speranza che “la sveglia non sia suonata troppo tardi”, come teme Jacopo Frey, ripercorrendo la vicenda di una degradazione della disciplina, che negli ultimi venti anni è apparsa inarrestabile.

    La diminuzione delle ore di storia

    Che la ministra Gelmini abbia operato un “pesante taglio delle ore di insegnamento” è notizia ormai da Wikipedia. Nascoste nelle pieghe di una delle tante leggi per la semplificazione e il risparmio (burocraticamente: Legge 133/2008) vi erano le norme per la semplificazione scolastica, con le quali la ministra, “con il pretesto di creare uno zoccolo duro di apprendimenti”, sfalciava gli orari, con un particolare riguardo per la storia. A 10 anni di distanza, Mariangela Caprara a buon diritto segnala quella, come la data d’inizio del naufragio.

    Storia sotto attacco. Stati UnitiStoria sotto attacco. Stati Uniti

    Tuttavia, a sfogliare le agenzie del tempo, ci sorprende la flebilità delle proteste (confrontate, per dirne una, a quelle attuali). Una scuola più “leggera” fa risparmiare e questo – a molti della maggioranza come dell’opposizione – non dovette apparire un danno irreparabile; e una scuola “più semplificata” forse non dispiacque a tanti storici, per i quali le complicazioni didattiche sono volentieri il sintomo di un qualche sconfinamento pedagogico. Si levarono lamenti per la sparizione della geografia; parecchi gridarono alla cancellazione della storia dell’arte (un’accusa alla Gelmini che si rivelò non del tutto fondata.). Ma gli allarmi reali, quelli che avrebbero dovuto risuonare al cospetto della frana della storia, tacquero. Né ebbero una minima eco le denunce lanciate da «Mundus», la rivista di didattica della storia che l’editore Palumbo ha pubblicato per qualche anno (n. 5-6, 2007, Editoriale).

    Passati sotto silenzio allora, è indispensabile ricordare quei tagli oggi, per apprezzarne correttamente la gravità. Può aiutare questo prospetto orario, calcolato sui due cicli dei programmi attuali (con l’avvertenza che il conto è necessariamente approssimato, dal momento che è molto difficile valutare l’incidenza dell’autonomia negli orari effettivi adottati dai singoli istituti).

     

      Prima della GelminiDopo la Gelmini
    Primaria L’insegnante dell’area geo-storico-sociale disponeva di 9 ore settimanali.
    La pratica di fare “molta storia” era abbastanza diffusa
    Dalle 3 alle 7 ore settimanali
    Nell’ultimo biennio, quindi, da 268 ore in su.
    2 ore/1 ora
    Nell’ultimo biennio fra le 132 e le 66 ore
    Secondaria di primo grado L’insegnante disponeva di 2 ore di storia e altrettante di geografia. In terza aggiungeva 30 ore di educazione civica. Gelmini abolisce queste ultime e introduce geo-storia con 3 ore settimanali 68 ore annuali. 234, totali nel triennio, comprese quelle di educazione civica. 51 ore annuali
    153 ore nel triennio
    Secondaria di secondo grado Ad eccezione liceo classico, che propone 3 ore settimanali, tutti gli altri istituti hanno la storia a due ore, che diventano 4 con geografia. Geostoria riduce di un quarto queste ore. 340 ore nel quinquennio 265 ore
    Tutto il curricolo di storia L’autonomia fa sì che i totali varino da istituto a istituto 840 (e oltre)
    (da aumentare, a seconda delle scelte degli insegnanti della primaria)
    550 (spesso anche meno)
    (calcolando un programma di 132 ore nella primaria)
    Perdita approssimativa nell’intero curricolo: almeno 289 ore

     

    Quanto incide l’autonomia sulle ore di storia?

    Molto, dovremmo dire, per quanto sia estremamente complicato acquisire dati certi per tutto il territorio nazionale. Una frequentazione piuttosto assidua delle scuole mi ha fatto conoscere una vasta tipologia di comportamenti. Vi sono primarie nelle quali, giocando con orari e spostamenti di personale, si è riusciti a mantenere un assetto comparabile a quello dell’ “età d’oro” della Falcucci; altre, invece, nelle quali le tre ore delle scienze geo-storico-sociali sono state divise equamente fra Storia, Geografia e Cittadinanza e Costituzione. Lo stesso ventaglio trovo nelle secondarie di primo grado: qui, accanto al decadimento delle discipline geo-storico-sociali a materie da un’ora la settimana, sappiamo di calendari alternanti (una settimana alla storia, l’altra alla geografia); mentre non mancano istituti virtuosi, dove, recuperando “l’ora di approfondimento”, si ripristina il monte ore pre-Gelmini.

    A questa varietà di comportamenti corrisponde un'organizzazione lavorativa altrettanto diversificata: mi è capitato di conoscere insegnanti, prossimi apparentemente al suicidio, la cui cattedra era composta da 9 ore di lavoro in un corso, e da altrettante da spendere in nove classi diverse. Immagino che una ricognizione capillare ci riserverebbe altre sorprese.

    Il disastro delle professionali. Un caso di studio della marginalizzazione della storia

    Nel loro documento di protesta, gli storici citano, a riprova della volontà politica di marginalizzazione della storia, la questione del biennio delle professionali, dove la storia è diventata materia da un’ora la settimana. A mio modo di vedere, si tratta un perfetto caso di studio nel quale analizzare la complessità del problema e le diverse responsabilità dei soggetti coinvolti.

    Storia sotto attacco. ItaliaStoria sotto attacco. Italia <br> (Targa esposta nei negozi Feltrinelli)

    Cominciamo dal Miur. Nell’aprile del 2017 la ministra Valeria Fedeli varò il decreto di riordino degli istituti professionali. Nei quadri orari (riportati nell’Allegato 3) leggiamo che all’ “asse storico-sociale” del biennio sono assegnate 264 ore, esattamente quante vengono assegnate all’italiano e all’asse scientifico. L’asse storico-sociale è, di fatto, uno dei tre pilastri della formazione di base. Questa, nel suo complesso, gode di 1188 ore, un gruzzolo orario ben superiore a quello destinato al comparto professionalizzante (di 914 ore). L’accusa che la politica culturale del Miur è antiumanista e, in particolare, tesa alla svalorizzazione della storia non coglie nel segno: almeno fino a questo momento, e per quanto riguarda le professionali.

    Come si arriva al dimezzamento della storia

    Tradizionalmente, di quel monte ore ne venivano assegnate due alla storia e due a economia e diritto. Quindi la storia nelle professionali aveva 66 ore annue, quante nelle altre secondarie superiori (con l’eccezione del Classico, ovviamente). Mancava la geografia, che, finalmente nel 2018/19, ha cominciato a vedere i frutti delle sue lunghe battaglie per entrare nei curricoli. Lo annuncia trionfalmente Paola Pepe, dalle colonne della rivista online dell’Aiig (Associazione degli insegnanti di geografia), avvisando gli iscritti che la loro disciplina potrà avvalersi di un’ora, se non due, la settimana («l’insegnamento di geografia non deve necessariamente essere di un’ora settimanale, potrebbe essere anche di due ore o più»). Il punto è: dove si prendono queste ore? Come Pepe ricorda in quello stesso articolo, l’introduzione della geografia è una tipica riforma “senza oneri aggiuntivi”. Il monte ore resta quello. Per farsi spazio, la nuova deve cannibalizzare (mi si passi il termine) le discipline che c’erano prima.

    Se queste 264 ore vengono ripartite al modo di Salomone, generano quattro materie da un’ora la settimana. Come sanno bene gli insegnanti, e in particolare quelli delle professionali, per gli allievi diventano quattro materie di importanza trascurabile; ai professori prospettano un lavoro per nulla entusiasmante. Che programma di studi si può realizzare con sole 33 ore l’anno?

    264 ore. La politica italiana (precedente al governo in carica) ha fatto un investimento culturale notevole negli istituti professionali. Un investimento che stiamo sprecando, dobbiamo concludere con tristezza.

    Un disastro non necessario

    Ma è ineluttabile questo modello di ripartizione oraria? Niente affatto. Certo, bisogna farsi largo fra i rovi del buropedagoghese ministeriale per capire come. Ma, con un po’ di pazienza, si scopre che nelle intenzioni del legislatore le quattro discipline sono da vedere quanto più possibile legate fra di loro. Sono “aggregate”, si dice più volte (artt. 2 e 5), mentre si sottolinea che vanno privilegiati i progetti e i momenti interdisciplinari (art. 5, commi b, c).

    Non compare in nessuna parte del testo la norma che il monte ore vada suddiviso in parti uguali. La parola che ricorre spesso è “flessibilità”. Se ne danno anche dei parametri: ogni disciplina può “perdere fino al 20%” del tempo assegnato (che è poi una stranezza, visto che questo tempo non è mai definito); si dice, ancora, che si può modificare fino al 40% dell’orario. Vi è, ancora, una riserva di 264 ore da destinare a progetti individualizzanti, che nessuno vieta che vengano utilizzate a supporto di questo o quell’apprendimento. Per non parlare, infine, di quella marea di progetti (PON e altri) che, invece di disperdere l’attenzione degli allievi in mille rivoli, potrebbe essere finalizzata a una meritoria integrazione disciplinare.

    Si potrebbe fare qualcosa nelle scuole?

    I mezzi, almeno per limitare dei danni, ci sarebbero. Vista la gravità della situazione, ci attenderemmo che venissero attivati (nelle scuole e nel Miur, che potrebbe riservare a questo tema qualcuna delle sue incessanti direttive). Si può lavorare con le compresenze, col personale di potenziamento; si potrebbero discutere scelte anche dolorose, per salvare una disciplina e non perderle tutte e quattro. E, poi, perché non creare, come prescrive la norma, momenti integrati di lavoro storico-geografico o di storia e diritto, e perché non provare a mettere economia con storia o con geografia?

    Storia sotto attacco. AustraliaStoria sotto attacco. Australia

    Indubbiamente questa ri-organizzazione del lavoro crea problemi: orari magari non facili per i docenti, e non solo di quelli dell’asse storico-sociale; spostamenti di personale; fastidiose revisioni di abitudini; questioni sindacali; una progettazione didattica laboriosa; richieste di aggiornamento specifiche; un’azione pressante negli organi collegiali per sensibilizzare colleghi e dirigenti. Il tutto aggravato – probabilmente - da una certa inconsapevolezza delle opportunità che l’autonomia offre. È una miriade di ostacoli, della struttura e delle persone, per superare i quali occorrerebbe che la comunità scolastica condividesse un po’ di quella passione per la storia e per la sua utilità civile, che gli intervenuti al dibattito dichiarano sui media. Forse questa vicenda ci sta raccontando che questa condivisione non è molto diffusa, nelle nostre scuole.

    Disastri prossimi venturi

    Un tempo la geografia economica regnava nelle scuole tecniche e professionali. Fatta fuori da sciagurate riforme passate, è giusto che i colleghi di geografia le provino tutte per cercare di reintrodurla. Ma, come abbiamo visto, la combinazione fra la non volontà di spendere (“senza oneri aggiuntivi”) e l’incapacità delle scuole di rimodulare gli insegnamenti, porta a risultati spiacevoli per tutti, geografi compresi.

    Storia sotto attacco. Nuova ZelandaStoria sotto attacco. Nuova Zelanda

    Non saranno gli ultimi. Forti del successo nei bienni e dell’endorsement di Bussetti, i colleghi di geografia si dicono sicuri di entrare nei trienni delle professionali, dove non ci sono gli assi, ma c’è solo storia; chiedono con insistenza che il voto di “geostoria” sia disgiunto in tutti i bienni: il che potrebbe voler dire suddividere le tre ore attuali e riassegnarle in parti uguali, magari con insegnanti diversi.

    Dietro l’angolo c’è l’Educazione civica. Vantando un sorprendente sostegno trasversale, che va dall’Anci alla Lega (la proposta di legge è dei deputati brianzoli Capitanio e Centemero), accenderà di sicuro una nuova discussione mediatica sulla scuola, il cyberbullismo, i consumi giovanili di droghe e, come annunciò Salvini, sui professori che non vengono più rispettati. Nella proposta di legge, i dati che ci devono preoccupare ci sono tutti. La materia sarà di 33 ore, insegnata dai professori di storia e geografia nella scuola di base e da quelli di diritto e economia nella scuola superiore, con voto separato e prova d’esame, e, dulcis in fundo, con la clausola di “invarianza finanziaria”: senza oneri aggiuntivi e con il personale attualmente in servizio (art.4).

    Aspettiamo l’esito delle proteste per l’introduzione di Storia dell’Arte, e siamo curiosi di capire come e con quante ore verrà introdotta la Storia regionale, promessa per il momento da Bussetti al solo Zaia, governatore della Regione Veneto.

    Non discuto, qui, le intenzioni dei proponenti. Sottolineo il fatto che, se la scuola non riuscirà a sfruttare le opportunità dell’autonomia, il palazzo di via Trastevere continuerà a essere la borsa degli stakeholder della didattica, e le discipline universitarie continueranno a pensare che, trasformandosi in lobbies, risolveranno i loro problemi didattici, è certo che il peggio deve ancora venire.

    Quando, e di quanto, si scenderà ovunque sotto l’ora di storia settimanale?

    Poche ore, molta didattica

    “Più diminuiscono le ore, più la didattica della storia è necessaria”. Con queste parole Alessandro Cavalli sintetizza i lavori dell’ultima assemblea (2017) degli studiosi di didattica della storia tedeschi. Infatti, se in Italia si piange, in Germania non si ride: qui la storia è già, in diverse situazioni, materia da un’ora la settimana. Non c’è spazio per errori e perdite di tempo, quando l’orario è così ridotto all’osso. Tutto deve essere ben studiato: la formazione dei prof, la scelta degli argomenti, le modalità di studio, il rapporto fra sapere esperto e materia di insegnamento. Questo compito impegna ben 320 specialisti, tanti risultano dai dati della loro associazione. La loro competenza è considerata necessaria per la conduzione della macchina della formazione storica nazionale.

    È indispensabile, poi, anche per i dibattiti che scoppiano periodicamente a proposito della storia. Infatti, queste discussioni pubbliche, prive come sono di riferimenti solidi, poggiati su corpose ricerche universitarie, diventano facilmente l’arena dove si scontrano opinioni, anche autorevoli, ma con scarsi fondamenti professionali. Inoltre, se guardiamo la cosa dal punto di vista della politica, è di vitale importanza che i decisori usufruiscano di quadri costruiti su dati di ricerca, che non siano solo il frutto di predilezioni e di esperienze personali.

    Così pensano in Germania: la situazione italiana è sotto i nostri occhi.

    320 a 0. Questo potrebbe essere l’esito del confronto fra Italia e Germania, dal momento gli storici italiani che si occupano di didattica si contano sulle dita di una mano, mentre non ci sono (in servizio) studiosi specializzati in questa disciplina. Luigi Cajani ci spiega in che modo, e perché, la storiografia italiana sia giunta a questi risultati, in una relazione presentata al convegno sulle prospettive della didattica della storia in Italia, organizzato da Walter Panciera, il coordinatore della sezione didattica della Sisem (Le vicende della didattica della storia in Italia, in E. Valseriati (a cura di), Prospettive per la didattica della storia in Italia e in Europa, Palermo, 2019, pp. 121-130).

    Storia sotto attacco. GiapponeStoria sotto attacco. Giappone

    La conclusione che ricaviamo è inesorabile. La comunità degli storici non è in grado di intervenire in questo dibattito se non con delle opinioni. Qualificate per quanto si voglia, ma sempre opinioni.

    Per giunta, la mancanza di una seria ricerca storico-didattica non consente ai colleghi storici di collaborare professionalmente alla soluzione di quei problemi che la discussione sull’esame ha messo in evidenza, e che sono stati ripresi in una vasta gamma di interventi, da Gianni Oliva, storico e preside, fino a «Wired» rivista di innovazione digitale, ma preoccupata, in questa occasione, delle sorti della conoscenza storica: come riconfigurare il programma di studi, in modo da permettere al docente di affrontare gli ultimi settant’anni? Quali sono le letture storiche di questo periodo didatticamente più efficaci? In che modo far sì che la disciplina storica diventi un po’ più attraente? Quali sono gli approcci più sicuri per affrontare l’integrazione fra storia le altre discipline sociali e geografiche? In che modo includere nella trattazione storica quegli elementi che consentono di svolgere anche temi di educazione alla cittadinanza?

    Di fronte a queste richieste, l’accademia italiana non è in grado di offrire una solida ricerca didattica. L’insegnante deve continuare a sbrigarsela da solo. Le case editrici hanno mano libera per produrre proposte di dubbia consistenza (è palmare nel caso della geostoria). E, nella prospettiva della revisione dei programmi (anche questa una minaccia dietro l’angolo), il Miur non avrà nessun progetto, discusso e validato dagli storici, con il quale confrontarsi.

    La “Questione didattica”

    In realtà, negli ultimi due anni le Società degli Storici sembravano essersi rese conto della gravità della situazione e avevano cominciato a mettere a fuoco il fatto che esiste una “questione didattica” italiana. Avevano organizzato un buon numero di convegni, messo in cantiere qualche master di didattica della storia (che mi auguro vengano effettivamente attivati), ma – soprattutto – lanciato al Miur l’idea di un centro nazionale per lo studio della didattica storica.

    Il nuovo governo non appare molto interessato a questa prospettiva e le stesse associazioni degli storici sembrano aver abbandonato questa idea, forse attratte dalle scintillanti promesse didattiche della Public History. Questa prospettiva, suggerita da Andrea Giardina a ridosso delle dichiarazioni ministeriali, è stata successivamente ripresa da David Bidussa.

    La Public History, si sostiene, vanta modalità di comunicazione efficaci e attraenti: film, documentari, fiction seriali, tridimensionalità, spettacolarizzazione, gamification, reenactement. È ciò che serve per modificare la percezione di una disciplina noiosa e per disincagliarla dalle secche della sua marginalizzazione.

    Ma è una semplificazione inaccettabile quella «che porta a identificare la Public History come la soluzione alla marginalizzazione della storia» (Agostino Bistarelli). Non si tiene presente, argomentando in questo modo, che la Public History, come qualsiasi altra branca della storiografia dalla quale si vogliano prendere materiali da portare in classe, deve diventare essa stessa un oggetto della didattica storica (lo ricorda Luigi Cajani sulle pagine di Public History Weekly), se vogliamo che venga trattata con maestria professionale. È questa, che mette in grado il docente di fornire, «attraverso un lavoro pluriennale, competenze storiche che permettano di destreggiarsi tra le narrazioni del passato che l’odierna società globale ci propone». Così si esprime Salvo Adorno, coordinatore della sezione didattica della Sissco.

    La Public History non sostituisce la didattica, ma ne acuisce, se mai ce ne fosse bisogno, il problema della mancanza

    La tempesta perfetta

    È tipico dei dibattiti sulla scuola l’individuazione della politica come l’unico nemico da battere. A questa regola non ha fatto eccezione la querelle sulla prova di storia. La pur rapida analisi, che qui ho proposto, spero abbia messo in evidenza come molti siano i padri delle disfunzioni lamentate.

    C’è l’Università che, incapace di produrre una proposta culturale che costringa il Miur a confrontarsi, si sfrangia in lobbies, ciascuna delle quali attiva sue strategie di vittoria; c’è la comunità degli storici, che non ha mai preso in considerazione l’indispensabilità di una solida didattica disciplinare; c’è la scuola che, incapace di usare al meglio gli strumenti dell’autonomia, ottiene spesso il risultato di peggiorare direttive, già nate male di suo. C’è il Miur, che interpreta la sua azione di governo della formazione dei cittadini unicamente come mediazione dei diversi interessi (didattici e no). Ci sono i media, che rinunciano all’analisi per ridursi a eco delle rimostranze. C’è un pubblico, infine, propenso a premiare chi, fra tutti questi, si lamenta più credibilmente.

    Gli ingredienti di una tempesta perfetta ci sono tutti. Non se ne esce, temo, se ciascuno dei suoi protagonisti non comincia a rendersi conto delle sue responsabilità, e della parte di problema che gli tocca affrontare.

     

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  • La “cultura storica”. Come mettere insieme Public History, memoria storica e storia insegnata

    di Daniele Boschi

    Che cos’è la “cultura storica”

    Se per “cultura” intendiamo l’insieme delle modalità mediante le quali una società interpreta e trasforma la realtà in generale, possiamo allora definire la “cultura storica” come l’insieme delle rappresentazioni e delle pratiche per mezzo delle quali quella società si rapporta al proprio passato. Si tratta quindi di un concetto molto ampio, che comprende non soltanto la storiografia accademica e la storia insegnata a livello scolastico, ma anche, più in generale, le memorie e i racconti del passato tramandati all’interno di una collettività, i musei, le mostre e i luoghi di interesse storico, le pratiche e i rituali commemorativi, l’attività politica nella misura in cui essa si interessa al passato.

    La cultura storica si riferisce quindi a un campo più esteso rispetto a quello della public history, della quale si è molto dibattuto, in Italia e non solo, negli ultimi anni. “Public History Weekly” è una rivista dedicata a questo particolare approccio storiografico, molto interessata anche alla didattica. In Italia si è creata da poco l’associazione dei “public historians”.

    Sebbene la riflessione teorica sul concetto di cultura storica si sia sviluppata a partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso con i lavori di studiosi come Jörn Rüsen, Bernd Schönemann e Maria Grever, è soltanto negli ultimi anni che tale concetto è stato posto al centro di un rilevante e crescente numero di iniziative, pubblicazioni, programmi di ricerca e corsi di studio universitari (qui una bibliografia esauriente).

    Cultura storica e didattica della storia

    Lo studio della cultura storica ha grande importanza anche per la didattica della storia. È evidente infatti che gli studenti del XXI secolo assumono gran parte delle loro rappresentazioni e atteggiamenti riguardanti il passato al di fuori del contesto scolastico, a causa del ruolo sempre più significativo che hanno la rete, i dispositivi elettronici e i mezzi di comunicazione di massa. L’insegnamento della storia non può non tener conto di questa situazione sociale e non può non farsi carico della necessità di fornire alle nuove generazioni gli strumenti per relazionarsi in modo critico con le rappresentazioni del passato provenienti da agenzie e attori sociali esterni alla scuola e al mondo universitario.

    Ma qual è attualmente il rapporto tra l’educazione storica formale e la cultura storica? E quali sono le nuove sfide, sul piano teorico e sul piano pratico, che la storiografia e la didattica della storia devono affrontare? Queste sfide possono essere comprese anche in un contesto transnazionale e globale, oltre che in ambito nazionale?

    Un convegno per rispondere a queste domande

    Per provare a rispondere a queste domande, una cinquantina di ricercatori e studiosi provenienti da vari paesi europei si riuniranno ad Atene nel prossimo mese di giugno in occasione della conferenza internazionale dedicata al tema Historical culture in and out of history education.

    Erodoto e TucidideErodoto e Tucidide <br> (Museo Archeologico Nazionale di Napoli)

    La conferenza è stata organizzata dalla International Research Association for History and Social Sciences Education (IRAHSSE), un’associazione nata nel 2009 con lo scopo di promuovere la riflessione e il confronto su tutti i temi relativi alla didattica della storia e delle scienze sociali.

    Come si legge all’art. 2 del suo statuto, l’Associazione si occupa dell’insegnamento scolastico e degli usi pubblici della storia e delle scienze sociali e intende favorire il dibattito fra i diversi approcci a questi temi. L’IRAHSSE pubblica una propria rivista, il primo numero della quale è consultabile sul sito dell’associazione, dove si trovano anche molte notizie relative alle conferenze internazionali tenute finora e ad altre iniziative e pubblicazioni su temi attinenti all’insegnamento della storia e delle scienze sociali.

    All’organizzazione del convegno ha collaborato la rivista online “Historein”, che si occupa di storia della storiografia, ma anche di public history. Rinviamo anche in questo caso al sito della rivista, dove si possono leggere gli articoli che essa ha pubblicato, dal primo numero edito nel 1999 fino ad oggi .

  • Liutprando di Cremona, "Il trono di spade" e il potere politico della letteratura

    di Paolo Chiesa

    Il tradimento motore del mondo

    George R. R. Martin, il romanziere americano che ha fornito la materia narrativa a The games of Thrones1 (in italiano Il trono di spade), uno dei serial più fortunati degli ultimi anni, avrà letto l’Antapodosis di Liutprando di Cremona2, scrittore italiano del X secolo? È molto improbabile, ma la domanda non è così peregrina. La somiglianza fra il mondo rappresentato da Liutprando e quello de Il trono di spade è sconcertante.

    Immagine1Fig.1: Il logo dell’edizione italiana de «Il trono di spade». Nel seguito dell’articolo sono proposti singoli fotogrammi tratti dal serialUna società fondata su rapporti di fedeltà e su accordi personali, dove il tradimento è motore del mondo, l’ambizione è primo movente, l’ipocrisia è regola di vita, la religione è potere, la stirpe è bene supremo, il diritto è fragile e incerto, la vita non è più valore; dove si parla la lingua delle armi, dove la vendetta si sostituisce alla legge, dove la morale sprofonda nella crudeltà e nella libidine. Una terra dove sorgono sfarzosi palazzi, circolano immense ricchezze, si preparano sontuosi banchetti e si indossano vestiti raffinati; una terra costellata da rudi fortezze, spaventose prigioni e orridi patiboli; una terra di feroci tiranni, popoli asserviti, spietati razziatori; una terra dove abili donne e astuti dignitari controllano deboli sovrani, con le arti del sesso, della religione, della magia; una terra dove titanici eserciti si scontrano in insensate battaglie, lasciando sul campo montagne di cadaveri. Una società che si crede civile, ma che è minacciata da popoli selvaggi: li ha relegati oltre una poderosa muraglia, ma essi attendono l’occasione di distruggerla.

    Immagine2Fig.2: Scena di battaglia (i Maccabei) ms. Leiden, Bibliotheek der Universiteit, Periz. F.17, f. 9rSecondo le categorie di oggi, l’Antapodosis di Liutprando non è propriamente un’opera storiografica, nonostante historiographus si definisca l’autore3: l’oggetto di cui tratta sono «i fatti di imperatri e re» e «le azioni degli uomini illustri»4, un oggetto che la colloca fra l’historia e la comoedia5. La narrazione procede per aneddoti, accuratamente scelti per delectare il pubblico, secondo una visione molto laica e classica della letteratura, che nell’alto medioevo è piuttosto minoritaria6. Un piccolo repertorio di questi aneddoti può dare un’idea dell’insieme.

     

    La storia per cortometraggi

    Per iniziare: il baldanzoso Igor, principe dei Variaghi, attacca per mare Costantinopoli, ma i difensori della città scagliano contro le sue navi il fuoco greco, che non si può spegnere con l’acqua, e le distruggono7. Nella sanguinosa battaglia per il trono d’Italia fra Rodolfo di Borgogna e Berengario del Friuli cade un’intera generazione di guerrieri, di cui si sentirà la mancanza ancora dopo decenni8. La matrona romana Teodora fa eleggere papa un vescovo di cui è amante; la figlia di Teodora, Marozia, lo fa presto uccidere per mettere al suo posto il proprio figlio, avuto dalla relazione con un papa precedente9. L’invincibile imperatore Arnolfo di Carinzia, sceso in armi in Italia, beve una pozione avvelenata, propinatagli dalla moglie del suo avversario Guido di Spoleto, resta menomato ed è costretto a una penosa ritirata10.

    Immagine3Fig.3E poi: il re d’Italia Ugo di Provenza fa del suo palazzo un bordello, e ha figli illegittimi da numerose prostitute, da lui chiamate con nomi esotici e fantasiosi11. Ancora Ugo schiaffeggia in pubblico il figliastro Alberico, colpevole di avergli sbadatamente rovesciato addosso del vino; Alberico gli scatena contro una sommossa che affossa per sempre le ambizioni imperiali di Ugo12. Guilla, marchesa di Ivrea, braccata da Ugo che la vuole uccidere per eliminare il bambino che porta in grembo, fugge in Germania attraversando le Alpi nel cuore dell’inverno, fra inimmaginabili stenti13.

    Il principe bulgaro Bojan, grande mago, può trasformarsi in lupo e in altri animali14. L’ufficiale bizantino Romano uccide un leone a mani nude, e la fama che si guadagna in questo modo gli apre la scalata al trono15. I due figli di Romano cacciano il padre per impossessarsi del regno, e meditano di uccidere il fratellastro Costantino, che ha più diritti di loro; ma Costantino ha soldati fedeli, che arrestano i due con un’azione a sorpresa durante una festa16.

    Immagine4Fig.4Ma anche: Amedeo, emissario di Berengario d’Ivrea che è esiliato in Germania, scende in Italia travestito da mendicante, per suscitare la rivolta contro re Ugo; è talmente audace da chiedere l’elemosina al sovrano stesso, che gliela darà senza riconoscerlo17. Bosone, conte di Arles, mette in giro la voce che il fratellastro Lamberto, marchese di Toscana, non è figlio legittimo e non ha diritto al titolo; si organizza un duello per accertare la verità; Lamberto esce vincitore, ma subito viene imprigionato a tradimento, spodestato e fatto accecare dal rivale18. Ottone di Sassonia, in guerra con il fratello per il trono di Germania, vince grazie con il sostegno di una lancia sacra, nella quale sono incastonati i chiodi della Croce19. Rodolfo di Borgogna conquista il trono d’Italia grazie all’aiuto di Ermengarda, marchesa di Ivrea, che gli ha offerto il suo letto impegnandolo a un giuramento di fedeltà20.

    Immagine5Fig.5E infine: i selvaggi Ungari, rinchiusi dagli uomini civili dietro un’invalicabile barriera, riescono a uscirne grazie alle discordie dei sovrani occidentali; dopo aver cautamente esplorato il terreno, lanciano il loro attacco devastatore21.

    Sotto le mura di Milano, Burcardo, duca di Svevia, spiega in tedesco ai suoi uomini il piano per conquistare a tradimento la città; ma un mendicante che passa per caso conosce la lingua e svela la trama, si scatena la rivolta e Burcardo finirà ucciso22.

    Lasciamo ai lettori appassionati de Il trono di spade il gioco di indovinare quanti di questi episodi, come tanti piccoli cortometraggi ognuno in sé compito, corrispondano ad altri che si vedono nel serial; ma avvertiamo che si tratta di un gioco difficile, perché, se non tutti ci sono, tutti potrebbero esserci. Nell’Antapodosis mancano solo i draghi e i morti viventi; ma quelli sono personaggi di fantasia, e Liutprando parla del mondo reale.

     

    Immagine6Fig.6Spiazzare per divertire

    Di affinità, fra il serial e l’Antapodosis, se ne trovano altre, anche su piani più raffinati. Uno dei meccanismi narrativi più efficaci de Il trono di spade è quello per cui lo spettatore non ha mai una consolatoria certezza del futuro. Gli eroi positivi – o per lo meno non troppo negativi –, quelli su cui lo spettatore scommette per una possibile redenzione del mondo, escono talvolta improvvisamente di scena, vanificando le speranze.

    Ned Stark, che ci è presentato all’inizio come grande e nobile signore e guerriero, sia pure con qualche umana ombra, muore decapitato dopo breve tempo, in un momento e in un modo che lo spettatore non si aspetta; suo figlio Robb, che sembra destinato a ereditarne le qualità, non dura molto più a lungo, ucciso a tradimento durante un banchetto.

    Chi ha scritto la trama ha voluto così; e lo stesso avviene nell’Antapodosis, ma qui chi l’ha voluto è stata la Storia. Lamberto di Spoleto, re d’Italia, era probo, onesto, pio, autorevole, potente (dice Liutprando); era l’uomo «in grado di dominare tutto il mondo, primo dai tempi dei Romani»23, se il suo scudiero non l’avesse ucciso a tradimento, a vent’anni, durante una battuta di caccia nella foresta24.

     

    Immagine7Fig.7Spiazzamenti geografici

    Ma, fra gli espedienti narrativi, analoga è anche la sincronizzazione geografica, con il conseguente riposizionamento cui Il trono di spade, come l’Antapodosis, costringono il pubblico. I singoli personaggi vengono seguiti nelle loro vicende per un ampio tratto – lunghe scene, lunghi capitoli –, poi sono improvvisamente abbandonati, e di loro nulla più si sa per molto tempo – intere puntate, interi libri –, finché non ricompaiono all’improvviso quando la telecamera o il narratore li riprende dove li aveva lasciati.

    L’immagine visiva del serial rende in modo più facile e diretto il cambio di ambientazione, dall’uno all’altro dei Sette Regni e dei territori circonvicini; ma anche Liutprando, con minor ricchezza di mezzi ma non minore sapienza creativa, sa spiazzare il lettore saltando improvvisamente dall’uno all’altro dei suoi Due Regni (la Germania, l’Italia) e dei territori circumvicini (Costantinopoli, Roma).

     

    La fiction non sa essere ironica. Liutprando sì

    A dispetto della povertà di mezzi, l’Antapodosis può definirsi un capolavoro, mentre Il trono di spade non lo è; bisogna dirlo per recuperare le distanze, per distinguere fra ciò che è letteratura e ciò che è prodotto di cassetta. Lo si vede nella capacità che Liutprando ha nel manipolare il linguaggio: nel continuo mutare di registri, nell’inserire versi per innalzare il livello, nelle scelte lessicali a sorpresa, nelle citazioni nascoste, nello straniamento degli esotismi (parole greche nel testo latino, altro che il valyriano!). Soprattutto, lo si vede nella disincantata ironia della narrazione: Liutprando racconta con leggerezza, gioca col pubblico, e il pubblico ride, spesso con crudeltà, si diverte, si ricorda, e magari anche impara25.

    Solo qualche volta indulge al patetico, a una retorica in cui, si nota subito, è piuttosto a disagio. Lo fa quando parla del suo signore, Ottone re di Germania, perché con lui non era il caso di scherzare: anche Liutprando apparteneva alla società che così bene ci rappresenta, e ci teneva alla propria carriera e alla propria testa. A ridere del re si poteva finire malissimo, e questo era vero nel X secolo come è vero ne Il trono di spade.

    Nel serial, invece, l’ironia è confinata nel profilo di alcuni personaggi e appare nei dialoghi che li hanno per protagonisti, ma rimane occasionale e non diventa mai cifra narrativa. Tutto qui è drammatico, anche se nulla mai è tragico: i sentimenti sono sempre violenti e obbliganti, anche se possono essere rinnegati il giorno dopo in nome di sentimenti ancor più violenti e obbliganti; i personaggi sopravvivono alle peggiori disgrazie, alla perdita degli affetti più cari, alle più barbare violenze e alle più disastrose menomazioni, e subito si rimettono in sella e ripartono per nuove avventure.

     

    Archetipi antropologici, archetipi narrativi

    Come si diceva, è molto improbabile che George R. R. Martin abbia letto Liutprando; ma ha ben studiato il medioevo, per sua stessa ammissione, e l’ha rappresentato in una forma radicale che assomiglia molto a quella del X secolo: una società primitiva che, come quella di Westeros, si riteneva una raffinata civiltà, e della quale Liutprando era, fra tutti i suoi rappresentanti, uno dei meno primitivi, cioè uno dei più consapevoli del circostante. Ma, se Il trono di spade non copia l’Antapodosis e l’Antapodosis non può aver copiato Il trono di spade, le affinità devono spiegarsi in altro modo.

    Si potrebbero invocare comuni archetipi narrativi – per quanti degli episodi cui abbiamo accennato si troverebbero paralleli nella letteratura di qualsiasi epoca e cultura, a partire da Omero? –, ma è forse più utile parlare di un pubblico storicamente diverso ma psicologicamente uguale, che vuol soddisfare gli stessi bisogni: acquiescenza e trasgressione davanti al bene e al male, sentimento della giustizia e dell’ingiustizia, consolazione per la propria sorte guardando chi ne ha una peggiore, esorcismo di ciò che è mostruoso e diverso, attrazione e repulsione per ciò che è morboso, espressione in effigie (nella storia di altri) di sentimenti che non si potrebbero manifestare in società. E via dicendo.

     

    Spettatori medievali e moderni

    Gli spettatori che hanno guardato per un decennio Il trono di spade erano perciò incatenati allo schermo da meccanismi di attrazione profondi non dissimili da quelli che solleticava Liutprando quando scriveva l’Antapodosis. Non lo possiamo dimostrare, ma siamo convinti che il nostro scrittore, pur non disponendo di una loro definizione scientifica, fosse perfettamente cosciente di questi meccanismi, che usò anche in altre sue opere; così come ne erano coscienti gli autori del serial, che invece di una tale definizione disponevano e ne avranno fatto tesoro. A prima vista, c’è però un’enorme differenza di scala: gli spettatori de Il trono di spade si contano in centinaia di milioni, in ogni continente del mondo, i manoscritti conservati dell’Antapodosis sono a dir tanto una ventina, tutti lì fra Lotaringia e Baviera. Uno strepitoso successo di pubblico per il serial, un miserabile fallimento per un romanziere medievale con velleità di manipolatore?

    Immagine8Fig.8: L’edizione completa di A song of Ice and Fire di George R. R. MartinAl contrario, Liutprando è riuscito perfettamente nel suo intento, e gli effetti di quanto ha scritto, proprio per il modo in cui l’ha scritto, sono stati vastissimi e potentissimi. L’intento di Liutprando non era quello di piacere a un pubblico per meglio vendere un prodotto: il suo obiettivo era essenzialmente politico, a differenza (speriamo) di quello degli autori de Il trono di spade; questo obiettivo si è pienamente realizzato, e con inusuale permanenza nel tempo. L’immagine che Liutprando fornisce della società del X secolo, e in particolare i giudizi da lui formulati su alcuni personaggi e istituzioni di tale società, immagine e giudizi costruiti in funzione di obiettivi del proprio partito e della propria persona, sono stati accettati per secoli; ai venti manoscritti dell’opera fanno da contraltare le decine di cronache bassomedievali che hanno recepito quelle storie, le centinaia di opere storiografiche a stampa che, fino all’Ottocento, hanno raccontato quei fatti, e le migliaia di studiosi che fino a tempi recenti vi hanno dato credito.

     

    Immagine9Fig.9: Frontespizio dell’edizione delle opere di Liutprando (a cura di Josef Becker) nella serie in usum scholarum dei Monumenta Germaniae Historica, 1915Liutprando, un cortigiano in carriera

    La storia personale di Liutprando è la storia, comune nel medioevo e probabilmente in qualsiasi epoca, di un uomo che vive vicino al potere, e costruisce la sua vita in modo da assaporarlo sempre di più26. Proveniva da un’agiata famiglia di mercanti; era nato (ca. 920) e aveva passato la giovinezza a Pavia, sede del trono d’Italia; alla corte del re, Ugo di Provenza, era stato ammesso fin da giovanissimo, in qualità di cantore; dopo la rinuncia al trono di Ugo (945) era divenuto segretario particolare di Berengario, marchese di Ivrea e vero padrone del regno, che di lì a poco avrebbe ricevuto anche formalmente la corona; aveva nel frattempo ricevuto l’ordine diaconale.

    Un precoce percorso da medio dignitario di corte; ma questa promettente carriera si interruppe quando, per motivi a noi oscuri e in un momento imprecisato fra il 949 e il 955, Liutprando entrò in contrasto con Berengario. Passò allora al servizio di Ottone di Sassonia, re di Germania, che con Berengario era in conflitto poco o tanto latente; non possiamo sapere se questa soluzione fosse il disperato ripiego di un leccapiedi che stava perdendo tutto, oppure l’oculata scelta di un machiavelli che prevedeva giusto sul futuro dell’Italia. Alla corte di Ottone – una corte a suo modo intellettuale, nonostante il sovrano fosse illitteratus – Liutprando venne apprezzato forse per la sua cultura (a quanto pare pronunciò davanti al sovrano un’omelia da lui stesso composta in occasione di una Pasqua27) e certamente per le sue competenze linguistiche e diplomatiche: nel suo curriculum poteva vantare un’ambasceria a Costantinopoli, su mandato di Berengario, durante la quale aveva conosciuto l’imperatore bizantino in persona e aveva imparato un po’ di greco, che sommandosi al suo ‘latino’ di origine e al tedesco che si parlava a corte faceva di lui un poliglotta.

    Immagine10Fig.10: Berengario si sottomette a Ottone (ms. Milano, Biblioteca Ambrosiana, F 129 Sup, f. 88r)Probabilmente per queste capacità ed esperienze poté entrare in contatto con un altro ambasciatore, il vescovo spagnolo Recemondo, inviato a Ottone dal califfo di Cordova, cui dedicò l’Antapodosis28. Del resto Liutprando poteva servire al re di Germania anche per la conoscenza che aveva degli ecclesiastici e dei cortigiani italiani, conoscenza che sarà diventata molto utile quando il conflitto con Berengario scoppiò apertamente. Ottone scese in armi in Italia (961) e costrinse alla fuga Berengario e il figlio Adalberto, che era stato associato al trono; a Liutprando fu assegnato in questa occasione il vescovato di Cremona, certo come riconoscimento per i servigi prestati e come impegno per altri futuri.

     

    Il consigliere di Ottone

    Negli anni successivi Liutprando fu un consigliere fidato di Ottone, che nel 962 era stato incoronato imperatore; forse il consigliere più ascoltato per le faccende italiane. Per lui condusse un’ambasceria a Roma (primavera 963), per convincere papa Giovanni XII ad assecondare le posizioni imperiali; partecipò da protagonista, come portavoce e interprete di fiducia del sovrano, al sinodo lateranense convocato da Ottone nell’autunno di quell’anno, che si concluse con la deposizione del papa; nel 965 fu nuovamente inviato a Roma come rappresentante imperiale, per condurre le trattative che portarono all’elezione a papa di Giovanni XIII. Nel 966 seguì Ottone a Roma e poi in Puglia, dove gli diede – se dobbiamo credere a quanto ci dice29– importanti consigli strategici. Nel 968 fu inviato infine a Costantinopoli per combinare il matrimonio fra una principessa bizantina di sangue reale e il figlio ed erede di Ottone, che aveva lo stesso nome del padre; il fallimento di questa ambasciata avrà indebolito la sua stella politica, e successivamente egli compare sulla scena solo per compiti di routine. Morì prima del 28 marzo 973, quando a Cremona risulta ormai insediato un altro vescovo.

     

    Immagine11Fig.11: Prima pagina del manoscritto principale dell’Antapodosis di Liutprando, probabilmente manoscritto d’autore (München, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 6388, f. 8v)I tre libri di Liutprando

    Abbiamo presentato in modo abbastanza dettagliato la biografia di Liutprando, o almeno quello che della sua biografia ci è noto, perché quanto scrisse si può comprendere soltanto alla luce della sua vicinanza al potere. Tutto si concentra nello spazio di una dozzina d’anni, all’incirca fra il 957 e il 969. Fu in questo lasso di tempo che Liutprando scrisse le sue tre opere legate all’attualità politica: l’Antapodosis, che copre il periodo fra la fine del ramo diretto dei sovrani carolingi, con la deposizione di Carlo il Grosso nell’888, fino al 94930; la cosiddetta Historia Ottonis, cioè un libello apologetico a sostegno della legittimità dell’operato del sovrano nella deposizione di papa Giovanni XII31; la Legatio (o più correttamente Relatio de legatione Constantinopolitana), in cui si racconta la propria ambasceria a Costantinopoli del 968, nell’intento di attribuire alla corte bizantina la causa del fallimento32. Gli argomenti delle tre opere sono perciò diversi; ma, in fatto di lingua, di stile, di meccanismi narrativi, quanto abbiamo detto per l’Antapodosis, che è un’opera ampia e ha una molteplicità di situazioni e di personaggi, può dirsi anche per le altre due, che pure riguardano singole situazioni e hanno pochi protagonisti.

     

    Scrivere per vendicarsi

    Il titolo che Liutprando attribuì alla sua opera maggiore è Antapodosis: un titolo greco, in omaggio a uno snobismo dell’epoca e ancor di più a un proprio snobismo personale. Il significato del termine è ‘ricompensa’, ‘retribuzione’, ‘contraccambio’, anche con la sfumatura negativa di ‘ritorsione’, ‘rappresaglia’, ‘vendetta’. Con questo titolo Liutprando si autoconferisce una funzione di giustizia e di verità, secondo la massima biblica «non c’è nulla di nascosto che non verrà rivelato», che è fra le sue preferite33: lo spiega all’inizio del terzo libro, in un anomalo prologo interno, che aggiorna, precisa e un po’ contraddice quello canonico del primo libro.

    Il titolo di questo libro, padre santissimo, suscita in te grande stupore, ne sono certo. Dirai forse: “Visto che l’opera parla delle imprese di grandi personaggi, come mai è intitolata Ανταπόδοσης, Antapodosis?” Rispondo che lo scopo di quest'opera è quello di indicare, svelare e denunciare le nefandezze di codesto Berengario, che di questi tempi in Italia non dirò regna, ma tiranneggia, e di sua moglie Willa, che più propriamente è chiamata Iezabel per la sua sconfinata tirannide e Lamia per le sue razzie insaziabili.
    Tali e tanti sono stati infatti gli attacchi calunniosi, i saccheggi ladreschi, le empie macchinazioni che costoro hanno perpetrato senza ragione contro di me, la mia casa e la mia famiglia, che né la lingua può esporli, né la penna scriverli. Siano dunque per loro questi fogli un’antapodosis, una pariglia, in quanto smaschererò την ασεβεῖαν, la loro infamia, alle generazioni presenti e future, in contraccambio delle sciagure che mi hanno procurato. Non di meno, un'antapodosis sarà anche per gli uomini santi e fortunati, in contraccambio dei benefici che essi mi hanno procurato; perché, fra tutti i personaggi che ho fin qui citato o che saranno citati in seguito, quelli che non hanno concesso a me o alla mia famiglia dei benefici di cui rallegrarci sono pochissimi o forse nessuno; fatta eccezione per costui, per il maledetto Berengario34.

     

    Un uomo non buono che sembrava buono

    Antapodosis non è necessariamente un termine negativo, dice Liutprando, anzi non lo è quasi mai: lo è soltanto nei confronti dei suoi nemici, Berengario e sua moglie Guilla, che hanno fatto a lui e ai suoi tanto male da meritarsi un compenso molto duro. Su questa malvagità della coppia Berengario-Guilla Liutprando tornerà altrove nell’opera35, e anche nell’Historia Ottonis e nella Legatio36. Lui è un subdolo tiranno, che commette il più grave dei crimini contemplati dalla società feudale, tradendo il suo benefattore (cioè Ottone) e insieme i suoi fedeli (come è Liutprando); e in più è succube di lei, la più avida e immorale delle donne e la vera padrona del regno. La colpa di Berengario – o, possiamo pensare, di Guilla che manovra i fili di Berengario – è un fatto personale, oltre che un crimine politico, e Liutprando lo dice apertis verbis. Ecco quello che avviene quando Berengario dà l’assalto al trono, ostentando molte grandi virtù, e il commento che dà lo scrittore.

    I miei parenti, convinti dalla fama di umanità e della generosità di Berengario, mi mandano a servizio da lui, e ottengono per me, in cambio di immensi regali, l'incarico di segretario e cancelliere. L'ho servito fedelmente per lungo tempo; e lui – ahimé! – mi ha ripagato nel modo che a suo tempo racconterò. Qui dirò solo che la ricompensa fu così amara che mi avrebbe spinto quasi alla disperazione, se egli non mi avesse procurato molti compagni di similare sventura. A costui si può bene applicare ciò che è scritto: «Le penne dello struzzo sono simili alle penne dello sparviero e dell'airone. Ma quando verrà il momento, solleverà in alto le ali e si farà beffe del cavallo e di chi lo monta». Berengario, infatti, struzzo grande e vorace, finché erano vivi Ugo e Lotario si mostrava buono, anche se non lo era; ma quando essi morirono e lui venne unanimemente elevato al trono, quanto abbia sollevato le ali e quanto si sia fatto beffe di tutti, lo posso narrare non tanto con parole, quanto con lamenti e gemiti37.

    Immagine12Fig.12Con gli occhi di oggi, si potrebbe osservare che i parentes di Liutprando, nel momento in cui comprano per lui una posizione compensando lautamente l’astro nascente Berengario, stanno di fatto tradendo il re uscente e loro precedente signore, quell’Ugo di Provenza che ancora non era sconfitto e alla cui corte il giovane era stato allevato; ma questo, nella società del X secolo (e in quella de Il trono di spade) è un comportamento normale. Più interessante è il fatto che Liutprando in questo brano lega il suo destino a quello dell’intero regno: di Berengario, quell’uomo «non buono, ma che sembrava buono» sarà sua premura raccontare «quanto abbia alzato le ali e quanto ci abbia preso tutti in giro», dove i beffati sono i maggiorenti che gli hanno spianato la strada. E davvero intrigante è la promessa di raccontare a tempo opportuno il soldo con cui il padrone ha ripagato la sua «fedeltà nel servire». 

     

    Anche le vendette finiscono

    Una promessa – sia quella esplicita sul maltrattamento personale, sia quella implicita sul malgoverno generale – che però non verrà rispettata. Dopo il testo che abbiamo letto, l’Antapodosis procede ancora per poche pagine, poi rimane interrotta: in quel momento della narrazione, Berengario non ha ancora la corona e non può quindi comportarsi troppo male, e Liutprando si trova ancora speranzosamente al suo servizio. L’opera verrà brevemente riaperta anni dopo, con l’aggiunta di un episodio costantinopolitano cronologicamente consono, e dunque sempre precedente all’incoronazione di Berengario: Liutprando non perderà l’occasione per parlar male di lui, ma siamo sempre ai preliminari38. Il lettore aspetta con morbosa curiosità – come in una puntata del serial – di conoscere i crimini, quelli veri e imperdonabili, di cui si è macchiato il nuovo sovrano verso lo scrittore e verso il resto del mondo, ma non li verrà mai a sapere.

    Sui motivi dell’interruzione dell’opera, che possiamo ritenere frutto di incompiutezza e non di incidenti di trasmissione39, possiamo solo avanzare delle ipotesi, ma le ragioni più probabili sono da collegare a un cambio nella situazione politica generale e nella situazione personale di Liutprando. Nel 961 Ottone aveva cacciato dal trono Berengario e Guilla, e alla fine del 963 li aveva definitivamente sconfitti, imprigionati e deportati in Germania. Dal canto suo, lo scrittore aveva coronato la sua carriera: era diventato vescovo, apparteneva alla stretta cerchia dei consiglieri imperiali, gli erano affidati i più delicati e prestigiosi incarichi diplomatici. Una volta che tutti gli obiettivi erano stati raggiunti, perché continuare a scrivere un’opera sulle «azioni degli uomini illustri» che, al di là delle dichiarazioni di genere, era un testo essenzialmente militante?

     

    Immagine13Fig.13: Monogramma di Ottone IOttone, voilà!

    La storiografia degli ultimi trent’anni ha sottolineato il fatto che l’Antapodosis, con la sua storia per gossip, era molto più funzionale al progetto di governo ottoniano di quanto a prima vista sembrerebbe. Certo, Liutprando scrive anche per divertire e divertirsi, perché ha il gusto di raccontare e perché ha un pubblico – di corte, di alti ecclesiastici, forse di nobildonne – che sa apprezzare quello che dice40; ma alcuni indizi sparsi all’interno dell’opera permettono anche una lettura più sottile.

    L’Antapodosis ha inizio quando finisce l’impero di Carlo il Grosso, ossia al momento dell’interruzione della discendenza patrilineare legittima carolingia41; ma dopo Carlo altri cinque signori – Guido di Spoleto, suo figlio Lamberto, Arnolfo di Carinzia, Ludovico di Provenza, Berengario del Friuli – avevano assunto il titolo imperiale, ognuno con incoronazione dalle mani del papa. Di tutti costoro Liutprando racconta diffusamente le vicende, ma di nessuno dice mai che fu imperatore. L’immagine che si riceve è di una vacanza dell’impero dopo i Carolingi diretti: lo rifonderà Ottone, un sovrano di diversa estrazione, la cui forza non deriva dal sangue, ma da Dio e dalla virtù. Perché, a ben vedere, secondo un possibile criterio dinastico chi aveva le carte migliori era Adalberto, il figlio di Berengario e di Guilla, che vantava quarti di carolingità molto più consistenti, sia per parte di padre che per parte di madre, rispetto al parvenu sassone42.

     

    La santa Germania e l'Italia peccatrice

    Ancora, funzionale a questo progetto è la polarizzazione geografica: fra una santa e casta Germania, dove le regole sociali e morali sono rispettate, dove integerrimi re proteggono la cristianità da nemici infernali, dove pie sovrane rinunciano al secolo per ritirarsi in convento; e un’Italia empia e perversa, dove governa la corruzione e il tradimento, dove si assoldano infedeli per combattere cristiani, dove laide puttane tengono al guinzaglio papi e re.

    In Germania Enrico di Sassonia si leva dal suo letto di malattia per affrontare in battaglia e sbaragliare gli infedeli Ungari43; quegli stessi Ungari che distruggeranno l’esercito dei baroni italici, impegnati a farsi le scarpe a vicenda44, e a cui poi Berengario d’Ivrea verserà le decime delle chiese per tenerseli buoni45. Mentre in Germania Enrico mette al bando la simonia46 e suo figlio Ottone rifiuta sdegnato di cedere beni ecclesiastici a un vassallo che lo ricatta47, in Italia Lamperto compra l’arcivescovato di Milano da re Berengario, che gli presenta il conto preciso di quanto pagare a ciascuno dei suoi uomini48. In Germania la regina Matilde, madre di Ottone, celebra continue messe in suffragio del marito defunto, dimostrando la sua eterna e incrollabile fedeltà49; in Italia Ugo di Provenza lascia in bianco la moglie e si riempie di amanti, e il disordine è tale che non si capisce più chi sia figlio di chi, «visto che il re non era il solo ad andare a letto con loro»50.

     

    L'Italia è un paese governato da donne

    In Italia, e a Roma ancor più che altrove, governano le donne, «cosa che è un’infamia anche solo a dirla». È un oltraggio estremo all’ordine sociale, un’onta non più sostenibile che chiama un intervento purificatore. Fin qui arriva l’Antapodosis, lasciando il lettore ad attendere le colpe, e con il facile presagio delle punizioni, che del resto i lettori di Liutprando ben conoscevano per averle vedute. Ma a Roma il discorso riprende, in termini ancor più schiettamente politici, con l’opera seguente, la cosiddetta Historia Ottonis.

    Immagine14Fig.14: Danza macabra di Guyot Marchant, incisione del 1485Nonostante l’accenno iniziale alla tyrannis della casa d’Ivrea, che si collega idealmente all’Antapodosis51, il nemico non è più Berengario, che quando il testo vien steso è ormai sconfitto e prigioniero: il nemico stavolta è il papa, Giovanni XII, che pure aveva incoronato Ottone, ma poi gli era stato ribelle, e non importa che ormai anche Giovanni fosse morto, perché il conflitto ha più alte implicazioni istituzionali.

    Lo scopo dell’opera è dimostrare che la clamorosa deposizione del papa imposta dall’imperatore, un’azione difficile da giustificare dal punto di vista del diritto canonico, fosse non soltanto legittima, ma addirittura doverosa, stanti i crimini di cui il pontefice si era reso responsabile: simonia, spergiuro, malversazione dei beni ecclesiastici, tradimento del patto feudale, violenza privata, stupro, incesto, assassinio, blasfemia, sacrilegio. «Una ferita inaudita va bruciata con un cauterio inaudito!»52, come dice il sinodo romano asservito a Ottone nel pronunciare la sentenza. Tutto inconfutabilmente provato da autorevoli testimonianze; tutto puntualmente giudicato in un regolare processo; tutto definitivamente certificato dall’intervento divino, che fa stramazzare morto Giovanni, una volta deposto, in flagranza di adulterio.

    I crimini di Giovanni XII, la sua deposizione e la sua morte infamante sono il punto finale di una più ampia immagine che Liutprando ha creato del papato del X secolo, quello che una fortunata e morbosa definizione storiografica ha bollato come ‘pornocrazia romana’53. La sede di Pietro è precipitata in un baratro di abiezione; i Romani, per causa o conseguenza, hanno internazionale nomea di popolo di infami, pronti a vendersi a chi più paga54: al loro nome si associa, per antonomasia, «tutto ciò che è ignobile, vigliacco, avido, laido, falso, insomma tutto ciò che è vizio»55. L’ultimo papa religiosissimus, Formoso – ben inteso, quel voltagabbana che aveva consacrato imperatori, l’uno contro l’altro, prima Lamberto di Spoleto e poi Arnolfo di Carinzia, ma questo Liutprando non lo dice –, subisce il macabro oltraggio di avere il cadavere riesumato, sottoposto a processo, condannato e gettato nel Tevere56.

     

    Immagine15Fig.15Il governo delle prostitute

    Teodora, scortum impudens, impone sul soglio pontificio il proprio amante, Giovanni X, dopo avergli propiziato una brillante carriera ecclesiastica a Ravenna, e lo fa ai fini di una copulazione più frequente57. Una volta uscita di scena Teodora, la figlia di questa, Marozia, scortum impudens satis, fa imprigionare e poi uccidere Giovanni X, per imporre sul soglio pontificio il proprio figlio, Giovanni XI, concepito da un papa precedente, quel Sergio III che era stato responsabile del processo al cadavere di Formoso58. E sempre Marozia consegna Roma al suo terzo marito, il re Ugo di Provenza, che ha sposato al solo scopo di diventare regina e possibilmente imperatrice; ma Ugo non è simpatico a un altro figlio di Marozia, Alberico, che caccerà ignominiosamente il patrigno e getterà in prigione la madre, impadronendosi della città59. Giovanni XII, il papa deposto da Ottone per la ragione dichiarata che violentava pellegrine e brindava in onore del diavolo, è appunto figlio di questo Alberico, in una sorta di diadoché della perversione che qualcuno doveva pur spezzare. Il santo imperatore tedesco, appunto, che si erge così a custode e protettore di Roma, allora e per sempre.

     

    Il potere delle parole

    Liutprando è dunque maestro nel creare dei miti negativi: Berengario, Guilla, Teodora, Marozia, Giovanni XII, i Romani tutti; ma anche, qualche anno dopo, l’imperatore bizantino Niceforo Foca, quello che l’aveva maltrattato a Costantinopoli e che il nostro scrittore ricambiò descrivendolo come un mostruoso buffone60. Crea questi miti a servizio di sé stesso, per compiere le proprie vendette personali – l’antapodosis che si sente chiamato ad assegnare su questa terra, come un giusto retributore, prima che intervenga il giudizio confirmatorio di Dio – o a servizio dei suoi signori politici; ma possiamo credere che, anche in questo secondo caso, l’idea sia stata sua, e non derivi da un mandante politico che doveva avere meno fantasia.

    Nell’uno e nell’altro caso, il potere delle sue parole è stato straordinario, per efficacia e per durata. Sulla scorta di Liutprando, per secoli Berengario d’Ivrea è stato reputato un feroce tiranno, molto più feroce di quanti lo precedettero e seguirono; la Roma del X secolo è stata reputata un infame bordello, molto più depravata e perversa di ogni altra città conosciuta; Giovanni XII è stato reputato il peggior pontefice della storia, imbarazzante per la Chiesa cattolica che non riuscì a decidere se legittimare l’illegittima deposizione operata da Ottone o difendere l’indifendibile papa che l’aveva subita. Nemmeno il positivismo ottocentesco è riuscito a liberarsi del tutto dalle ammalianti suggestioni di Liutprando; ci sono riusciti gli storici degli ultimi decenni, smontando il mito e ridando il giusto contesto alle cose narrate. «Non c’è nulla di nascosto che non verrà rivelato». Ciò non vuol dire che Giovanni sia stato un santo papa, o Berengario un illuminato sovrano; ma che il giudizio su di loro va misurato attraverso la critica della fonte.

     

    Immagine16Fig.16: Corona ferrea (Monza, Tesoro del Duomo)Miti che diventano fiction

    La durata di questi miti negativi è una bella dimostrazione del potere politico della letteratura: un potere che la letteratura ha sempre avuto, anche perché spesso, in ogni epoca e paese, chi era nelle condizioni di scrivere si trovava anche a essere potente, o vicino ai potenti. I miti creati da Liutprando hanno goduto di una sorte particolarmente fortunata, favoriti anche dal fatto di avere deboli contraltari. La storia la scrivono i vincitori, e lui stava dalla parte dei vincitori; poco è rimasto che esprima la posizione della parte sconfitta, e quel poco ebbe ben scarsa circolazione, forse perché scientemente emarginato61.

    Nel caso di Berengario e Guilla la sorte – non possiamo credere che sia stata intenzione – ha fatto anche di più: i loro crimini appaiono ingigantiti dall’incompiutezza dell’Antapodosis, che lascia spazio a qualsiasi fantasia. Nessuno, per quanto sappiamo, ha chiuso a posteriori l’opera di Liutprando, raccontando quello che lui aveva soltanto promesso; non sono arrivati, in questo caso, degli sceneggiatori televisivi a completare, per la verità piuttosto male, la trama che George R. R. Martin non aveva (ancora) finito di scrivere. Anche stavolta il risultato è tutto a favore di Liutprando.

     


    Note

    1 Il ciclo originario di romanzi si intitola A Song of Ice and Fire; il primo di essi è stato pubblicato nel 1996.

    2 Il testo dell’Antapodosis sarà citato da: Liutprando, Antapodosis, a cura di P. Chiesa, con una introduzione di G. Arnaldi, Roma-Milano, Fondazione Lorenzo Valla - Mondadori 2015. L’edizione critica di riferimento, per tutte le opere dello scrittore, è: Liudprandi Cremonensis Opera omnia, ed. P. Chiesa, Turnhout, Brepols, 1998 (CCCM 156); un ottimo commento è quello di François Bougard (Liudprand de Crémone, Oeuvres, Paris, CNRS, 2015).

    3 Nel prologo del VI libro dell’opera, scritto come si dirà a distanza di tempo dai precedenti, che ne costituiscono il corpo principale. Sul genere letterario dell’Antapodosis cfr. Staubach, Historia oder satira?Zur literarischen Stellung der Antapodosis Liudprands von Cremona, in Lateinische Kultur im X. Jahrhundert [= «Mittellateinisches Jahrbuch», 24-25 (1989-90)] pp. 461-87.

    Ant. I 1; III 1.

    5 Mens... utili comoediarum risu aut heroum delectabili historia refocilatur, dice lo scrittore, indicando uno degli scopi dell’opera)Ant. I 1. 

    6 In proposito cfr. ora P. Chiesa, Dalla Storia alle storie. Procedure stilistiche e destinatari nell’Antapodosis di Liutprando, in Fleur de clergie. Mélanges en l’honneur de Jean-Yves Tilliette, Genève, Droz, 2019, pp. 219-38.

    7 Ant. V 15.

    Ant. II 65.

    9 Ant. II 47-48; III 43.

    10 Ant. I 32.

    11 Ant. IV 14.

    12 Ant. III 45.

    13 Ant. V 10-11.

    14 Ant. III 29.

    15 Ant. III 45.

    16 Ant. V 22.

    17 Ant. V 18.

    18 Ant. III 47.

    19 Ant. IV 24-25.

    20 Ant. III 7-11.

    21 Ant. II 6-16.

    22 Ant. III 13-15.

    23 Ant. I 44.

    24 Ant. I 42.

    25 Sul comico e l’ironia in Liutprando restano fondamentali le pagine riservate a Liutprando da G. Vinay, Alto medioevo latino. Conversazioni e no, Napoli, Guida, 1978, [2a ed. Napoli, Liguori, 2003], pp. 391-432; sul valore didattico del riso, presentato esplicitamente nel prologo dell’Antapodosis, cfr. Staubach, Historia oder satira, cit., p. 468; C. Villa, Antecedenti mediolatini. Liutprando e il riso della corte ottoniana, in Passare il tempo. La letteratura di gioco e dell’intrattenimento dal XII al XVI secolo, Roma, Salerno Editrice, 1993, I, pp. 51-66.

    26 Sulla biografia di Liutprando cfr. N. J. Sutherland, Liudprand of Cremona, Bishop, Diplomat, Historian. Studies of the Man and his Age, Spoleto, CISAM, 1988; P. Chiesa, Liutprando di Cremona, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. LXV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2005, pp. 298-303; G. Arnaldi, Introduzione, in Liutprando Antapodosis cit., pp. XI-XL.

    27 Il testo, scoperto e pubblicato da Bernhard Bischoff, si può leggere in Liudprandi Cremonensis Opera omnia, cit., pp. 153-65. Un possibile ulteriore sermone di Liutprando è ora segnalato da B. Valtorta, Riflessioni agostiniane sulla Pentecoste: un nuovo frammento di Liutprando di Cremona?, «Filologia mediolatina», 24 (2017), pp. 289-304.

    28 Una dedica che possiamo intendere come formale: in realtà, dato il contenuto dell’opera, di cui diremo più avanti, il pubblico effettivo cui essa si rivolgeva erano gli intellettuali che si riferivano alla corte ottoniana.

    29 Legatio 7 e 57. È difficile che Liutprando millanti, perché l’opuscolo in cui si trovano queste notizie è indirizzato proprio a Ottone, che poteva facilmente sbugiardarlo.

    30 A differenza delle altre opere, di breve estensione e legate a una situazione contingente, l’Antapodosis sembra avere avuto una gestazione più lunga: i primi quattro libri e i primi 32 capitoli del quinto, che trattano fatti entro il 947, sono stati scritti prima dell’incoronazione imperiale di Ottone del 962, e probabilmente mentre l’imperatore bizantino Costantino VII, morto il 9 novembre 959, era ancora in vita; la parte che possediamo del sesto libro (che racconta un fatto del 949 e che fu probabilmente l’unica che venne scritta) è invece successiva all’incoronazione di Ottone, e a quest’epoca sarà da riferire anche l’ultimo capitolo del quinto libro, che racconta un fatto non esattamente databile, ma che nel manoscritto principale fa corpo con il sesto libro. Queste sezioni più recenti potrebbero essere stati composte al ritorno dall’ambasceria costantinopolitana del 968 (cfr. Arnaldi, Introduzione, cit., pp. XXXVII-XXXIX). 

    31 L’opera sarà citata da Liutprando da Cremona, De Iohanne papa et Ottone imperatore. Crimini, deposizione e morte di un pontefice maledetto, a cura di P. Chiesa, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2018.

    32 Il testo si può leggere in Liudprandi Cremonensis Opera omnia, cit., pp. 187-218.

    33 Ant. I 42; V 33.

    34 Ant. III 1. la forma del testo che abbiamo presentato è quello della redazione finale dell’opera; ma in una fase precedente Liutprando aveva utilizzato in modo più massiccio il greco, aumentando lo smalto satirico: i nomi Lamia e Iezabel erano perciò scritti in lettere greche, al posto di tyranízat, atque uxoris eius Willae, quae si leggeva τυρανιζει και της γυναικος αθτου της Υουιλλας η, e al posto di hoc uno Berengario scilicet impio si leggeva τουτου του ασεβους.

    35 Ant. II 33; IV 8.11; V 10-11.27.29-30.32-33.

    36 In particolare nello straordinario incipit a sorpresa dell’Hist. Ott. (par. 1), dove Liutprando stravolge la consueta formula di datazione per bollare Berengario (e suo figlio Adalberto) di tirannia: Regnantibus immo saevientibus in Italia et ut verius fateamus tyrannidem exercentibus Berengario atque Adalberto... Ma cfr. anche Leg. 5, dove si dice che Berengario e Adalberto suggerente diabolo perfide violarunt il patto vassallatico con cui si erano legati a Ottone.

    37 Ant. V 30.

    38 Ant. VI, 2.6. 

    39 Sull’epoca e le probabili motivazioni della stesura del libro VI cfr. sopra, nota 30.

    40 Cfr. P. Chiesa, Leggere l’Antapodosis, in Liutprando, Antapodosis, cit., pp. XLIII-LXV, alle pp. LVI-LVIII; Id., Dalla Storia alle storie, cit.

    41 Uno degli imperatori successivi, Arnolfo di Carinzia, era ancora discendente di Carlo Magno in via patrilineare, essendo figlio di Carlomanno, figlio di Ludovico il Germanico e dunque nipote del fondatore; ma era figlio illegittimo.

    42 Il padre di Adalberto, Berengario di Ivrea, era figlio di Gisla, figlia di Berengario del Friuli, a sua volta figlio di Gisla, figlia dell’imperatore Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno. La madre di Adalberto, Guilla, era figlia di Bosone di Arles, figlio di Berta di Lotaringia, figlia di Lotario II di Lotaringia, figlio di Lotario imperatore, a sua volta figlio di Ludovico il Pio. In Adalberto si ricongiungevano perciò, in linea matrilineare, due rami dei nipoti diretti di Carlo Magno. Devo l’interpretazione dinastica, che spingerebbe i pubblicisti di Ottone a sminuire la casa dei marchesi d’Ivrea, a Giacomo Vignodelli, che sul tema ha pubblicato il paper Imperial Blood: Liutprand of Cremona and the Carlongian Descent of King Adalbert of Italy.

    43 Ant. II 25.

    44 Ant. II 15.

    45 Ant. V 32.

    46 Ant. V 27.

    47 Ant. IV 28.

    48 Ant. II 62.

    49 Ant. IV 15.

    50 Ant. IV 14.

    51 Ant. IV 8 (Berengarius iste, cuius tyrannide tota nunc luget Italia), da collegare all’incipit dell’Historia Ottonis che abbiamo citato alla nota 36.

    52 Hist. Ott. 15.

    53 Cfr. G. Arnaldi, Mito e realtà del secolo X romano e papale, in Il secolo di ferro. Mito e realtà del secolo X, Spoleto, CISAM, 1999, pp. 27-53.

    54 Hist. Ott. 17.

    55 Relatio 12; cfr. G. Arnaldi, Liutprando e l’idea di Roma nel medioevo, «Archivio della Società Romana di Storia Patria» 79 (1956), pp. 23-34; Id. Liutprando di Cremona: un detrattore di Roma e dei Romani?, «Studi Romani» 52 (2005), pp. 12-50.

    56 Ant. I 28-31.

    57 Ant. II 48: ne amasii sui ducentorum miliorum interpositione, quibus Ravenna sequestratur Roma, rarissimo concubitu potiretur.

    58 Ant. III 42-43.

    59 Ant. 45.

    60 Relatio 3.

    61 Fra queste poche fonti si possono annoverare un’opera di storiografia naïf, il Chronicon di Benedetto di Sant’Andrea al Soratte, che racconta le vicende romane da un osservatorio monastico non schierato (Il Chronicon diBenedetto monaco di S.Andrea al Soratte e il Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma, ed. G. Zucchetti, Roma, Tipografia del Senato, 1920 [Fonti per la storia d’Italia 55]); un’opera oscura fino all’incomprensibile, ilPolipticum di Attone, arcivescovo di Vercelli, interpretato oggi come anti-ottoniana (cfr. G. Vignodelli, Il filo a piombo.Il Perpendiculum di Attone di Vercelli e la storia politica del regno italico, Spoleto, CISAM, 2011); gliAtti del sinodo romano del febbraio 964, riunito da Giovanni XII, una volta rientrato a Roma dopo la sua deposizione (cfr. Liutprando di Cremona,De Iohanne papa, cit. pp. 100-8). Tutti documenti con una trasmissione minimale, che non ebbero mai efficacia storica e politica.

  • Scrivere la storia per finta, ma non troppo. La scrittura empatica come esercizio di storia e di italiano

    di Marco Cecalupo

    Abstract. A volte, la spettacolarizzazione della storia produce una forte sensazione di shock. Ma essere catapultati nel passato – e magari riviverlo – senza conoscerne le coordinate interpretative fa leva soltanto su empatia e immedesimazione superficiali, senza produrre un aumento di conoscenza. La descrizione di alcuni casi concreti, relativi alla Giornata della Memoria, offre elementi di critica a questo modello che possiamo definire sensazionalistico. Le esperienze didattiche di scrittura empatica tratte dal blog “I libri di Leo” dell'IC Leonardo da Vinci di Reggio Emilia – realizzate a margine di laboratori e giochi di HL – si propongono, invece, come modello cognitivo.

    1. Un presepe della shoah?

    La shoah tra i banchi del mercato, Venaria Reale (Torino)1. La shoah tra i banchi del mercato, Venaria Reale (Torino), Giornata della Memoria 2018. Fonte: la Repubblica (online)

    Qualche tempo fa, in occasione della Giornata della Memoria 2018, il Comitato Giorno della Memoria1 del Comune di Venaria Reale (Torino) organizzò e finanziò una iniziativa pubblica, presentata nell'edizione locale di Torino sul sito del quotidiano la Repubblica il 28 gennaio 2018 con le seguenti parole: «Soldati in divisa nazista dalle smorfie dure, un gruppo di donne terrorizzate con la stella gialla imposta agli ebrei che portano con sé le poche cose che sono riuscite a prendere in casa durante il rastrellamento, il cupo suono di una sirena, ordini abbaiati seccamente. È la rievocazione storica organizzata dal Comune di Venaria, alle porte di Torino, nel Giorno della Memoria: una marcia dolorosa in centro, e tra i banchi del mercato, che ha provocato grande commozione tra i passanti che si sono trovati all'improvviso a tu per tu con l'orrore della deportazione. Sul suo sito il Comune spiega di avere deciso l'iniziativa per sensibilizzare i cittadini sui temi dell'Olocausto e della discriminazione».

    Sul sito del Comune, in realtà, non siamo riusciti a leggere nulla più. Per esempio, nulla si diceva sulla consulenza storica dell'evento, e si poteva legittimamente nutrire qualche dubbio su un rastrellamento accompagnato da musica di violini in pieno giorno, oppure sulla completa assenza dalla scena di fascisti collaborazionisti italiani2. Non si trattò di una novità assoluta, un'iniziativa molto simile, che ha coinvolto anche giovanissimi studenti, è stata organizzata in occasione della Giornata della Memoria nel 2013 a San Marco in Lamis (Foggia)3.

    La simulazione della shoah a San Marco in Lamis (Foggia), 20132. La simulazione della shoah a San Marco in Lamis (Foggia), 2013. Fonte: www.foggiatoday.it

    Ne discussi con Antonio Brusa, ci ponemmo la questione dell'empatia nell'insegnamento della storia. Avevo definito quella discutibile iniziativa una sorta di “presepe vivente della shoah”, ed entrambi l'avevamo considerato un rito dannoso. Ma la nostra critica non fu di ordine storico, cioè in merito all'accuratezza documentale, ma piuttosto rivolta allo scarto interpretativo tra ciò che l'iniziativa si proponeva e il suo esito finale.

    Come si può definire la modalità utilizzata a Venaria Reale? Per alcuni aspetti, tra cui l'esposizione alle telecamere e la drammatizzazione caratteriale messa in scena dagli attori mediante i costumi, la mimica, la prossemica, l'espressione facciale e la recitazione, essa può essere paragonata ad un set cinematografico. Per altri versi, tra cui l'ambientazione in un luogo pubblico non interdetto ai passanti e l'apparente improvvisazione, si può caratterizzare come un flash-mob4. Ancora, la modalità potrebbe definirsi “teatro di strada”, ma non ci è dato sapere se i protagonisti fossero semplici figuranti dilettanti o attori professionisti. Più semplicemente, appare come una “rievocazione in costume”, anche in assenza di una chiara esplicitazione nei confronti dell'ignaro pubblico.

    Dal punto di vista della pedagogia e della didattica, in tutti i casi, non può definirsi una simulazione e non ha il carattere dell' “esperimento sociale” o del “candid-camera”, poiché è mancato l'aspetto della necessaria osservazione sperimentale delle reazioni degli astanti.

    Spostando l'attenzione dal significante al significato, ci chiedemmo: cosa ha rappresentato la scena per le persone che vi hanno assistito? Si trattava chiaramente di una questione a cui è interessata – oltre che la didattica – anche la public history, ma non fu facile rispondere a questa domanda poiché, come si è detto, nessuno (né gli organizzatori, né i giornalisti che hanno riferito la notizia sui media) si premurò di raccogliere in forma visiva o testuale le impressioni e le considerazioni del pubblico. Il giornalista de la Repubblica ha scritto di una «grande commozione», ma non sappiamo sulla base di quali informazioni ha tratto questo giudizio. Indirettamente, si potevano analizzare le riprese video5, che però non mostravano alcuna reazione evidente da parte dei presenti. Il pubblico suo malgrado si divideva equamente in due parti: coloro che si fermavano a guardare e gli altri che continuavano a camminare o a svolgere le proprie azioni ordinarie come se nulla stesse accadendo. Non si poteva dunque parlare di coinvolgimento o interazione del pubblico, se non in riferimento ai processi di identificazione propri del cinema, della TV e del teatro. Se qualcuno pensò qualcosa, la modalità non prevedeva, né è realmente avvenuto, che prendesse la parola o interferisse con la scena in atto, come ad esempio accade nei L.A.R.P. di ambientazione storica6. Il pubblico fu meramente spettatore dell'evento. Come, appunto, in una sorta di presepe vivente della shoah.

    A nostro avviso, l'interesse didattico era pressoché nullo. Nessuno penserebbe mai di convertire al cattolicesimo o di spiegarlo mediante un'osservazione attenta della rappresentazione vivente della Natività. D'altro canto, nella società dello spettacolo, nessuno si è mai sognato di interrompere una messa in scena, o quanto meno mai con l'intenzione di cambiarne la sceneggiatura7. Per riprendere la metafora religiosa, nessuno ha mai interrotto una via crucis per salvare Cristo dalla condanna a morte.

    2. Emozionare vs studiare?

    Eravamo quindi nel campo della Pop shoah8 descritto da Francesca R. Recchia Luciani e Claudio Vercelli, che nel loro recente volume ci ricordano come la spettacolarizzazione e «la sovraesposizione mediatica di un così dirompente evento storico, […] ricondotta ad una sorta di breviario dei buoni sentimenti, rischia di depauperarne proprio l'intrinseco valore civile»9.

    Dunque lo sterminio nazifascista e antisemita non prevede la possibilità di essere rappresentato o simulato con finalità didattiche? Possiamo citare diversi tentativi più riusciti in questo senso, ma innanzitutto occorre mettere in guardia tutti da questa banalizzazione della memoria dello sterminio. Alcune riflessioni critiche sono state scritte su «Historia Ludens» da Antonio Brusa a commento del film Austerlitz (del regista ucraino Sergei Loznitsa) e del progetto Yolocaust del fotografo israeliano Shahak Shapira10.

    Locandina del film Die Welle (L'Onda), di Dennis Gansel, 20083. Locandina del film Die Welle (L'Onda), di Dennis Gansel, 2008

    Sul piano letterario, il romanzo The Wave (L'onda), pubblicato dallo scrittore statunitense di letteratura per ragazzi Todd Strasser nel 1981, è basato proprio su un esperimento sociale (chiamato The Third Wave) svoltosi in una scuola della California nel 1969, in cui il docente di storia Ron Jones ha simulato l'instaurazione di un modello sociale gerarchico totalitario nella sua classe alla Cubberley High School di Palo Alto.

    Nei casi del libro (e del film11), si è trattato di un investimento intellettuale ed economico rilevante, ma ci sono state anche soluzioni a costo zero, come quelle condotte in un Liceo Artistico di Firenze nel 2011, in una scuola media di Vercelli nel 2017 e più di recente in tante altre scuole italiane.

    Nel Liceo Artistico di Porta Romana (Firenze) la professoressa Marzia Gentilini è entrata in classe il Giorno della Memoria dicendo: «È arrivata una circolare che un po’ mi preoccupa: entro il 15 di febbraio ciascuno di voi deve portare il certificato di nascita e di residenza. Non so se sia per il federalismo o cosa, ma pare che il ministero non paghi più la scuola se non siete nati a Firenze e se non sono prevalentemente nati a Firenze anche i vostri genitori e i vostri nonni. Ci faranno finire l’anno e poi ciascuno di voi deve tornare nei Paesi di provenienza della famiglia». Sull'edizione di Firenze online de «La Repubblica» si possono leggere anche le reazioni commosse e oppositive degli studenti. Rosa Maria De Giorgi, l’assessore all’istruzione, si complimentò con la docente e commentò pubblicamente: «La giornata della Memoria non deve essere un appuntamento rituale che si ferma a una pagina di un libro. La professoressa del liceo ha trovato la strada migliore per bucare lo schermo e attirare l’attenzione dei ragazzi, ha fatto indossare loro la follia di quel momento storico»12.

    Lezione shock al Liceo Artistico di Porta Romana (Firenze), Giornata della Memoria 20114. Lezione shock al Liceo Artistico di Porta Romana (Firenze), Giornata della Memoria 2011. Fonte: la Repubblica (online).

    In occasione della Giornata dei Giusti del 6 marzo 2017, nella scuola secondaria di primo grado “Pertini” di Vercelli, le professoresse Patrizia Pomati e Carolina Vergerio hanno diramato nelle cinque classi terze una finta circolare che imponeva ai ragazzi con almeno un genitore straniero (tutti informati dell'esperimento prima che venisse realizzato) che smettessero immediatamente di seguire le lezioni con i loro compagni e poi a giugno facessero due esami in più, uno per dimostrare “la conoscenza della lingua” e l'altro “la cultura italiana”. Anche in questo caso, gli studenti hanno reagito opponendosi con decisione all'allontanamento dei propri compagni di classe. La dirigente dell'Istituto Comprensivo commentò: «L'esperimento è andato benissimo. Ci aspettavamo ovviamente una reazione, ma non della portata di quella che c'è stata. Forse se ci fosse stata una reazione così forte anche allora le cose sarebbero andate diversamente»13.

    Mentre ne L'Onda la struttura gerarchica chiusa o la cultura e la pratica discriminatoria e violenta, tipiche del NSDAP, vengono semplicemente replicate dalla storia passata nel presente, gli esperimenti delle due scuole italiane hanno l'ambizione di attualizzare l'impianto giuridico-culturale delle istituzioni totalitarie e delle leggi razziali del 1938, spostando i termini del discorso in una dinamica socio-culturale del tempo presente: quella della migrazione e delle politiche migratorie. Entrambe le modalità, pur nella loro diversità, colgono l'aspetto centrale di una simulazione: il rapporto empatico tra il soggetto rappresentato e l'attore della rappresentazione. In altri termini, quegli studenti hanno sperimentato la vertigine, che secondo Roger Caillois è una delle componenti fondamentali e imprescindibili del gioco di simulazione14. In questi casi, si potrebbe dire tecnicamente che la simulazione non ha un pubblico che assiste, ma solo partecipanti attivi, chiamati a decidere, scegliere, prendere la parola e agire in conseguenza della situazione nuova che si è creata, con la possibilità (non solo teorica) di modificarla e in sostanza di determinarne l'esito.

    Se consideriamo le esperienze delle due scuole, la domanda ha rappresentato uno stimolo a pensare al rapporto tra sé e il mondo. Ci si è chiesti: cosa accadrebbe se le politiche migratorie prendessero una piega “eliminazionista”? È evidente che non si tratta solo del tentativo di una speculativa storia contro-fattuale o di una distopia fantascientifica, ma di un'apertura alla riflessione sulla realtà attuale. Si nasconde dunque una domanda ancor più stringente: qual è il nostro giudizio storico (comparato, potremmo dire) sulle attuali politiche migratorie in Italia, in Europa e nel resto del mondo?

    Secondo Antonio Brusa, in generale queste iniziative pongono il problema del rapporto fra empatia/sentimento e storia. Le due manifestazioni (quella di Venaria e quella nelle scuole), seppur diverse nelle modalità, sembrano mostrare una dinamica analoga: si presenta una situazione scioccante, si sollecitano sentimenti, e (nel secondo caso) si discute insieme. È pero difficile confrontare le due performance senza averle viste o senza averne una descrizione analitica: ciò impedisce di formulare un giudizio complessivo.

    Ma il modello che abbiamo sempre messo in cantiere come Historia Ludens è: situazione scioccante + analisi e lavoro storico = condizioni per esprimere un giudizio o uno stato d'animo. Questa fase, dunque, è concepita come un momento di sintesi dopo la fase analitica15. In questo modo, noi pensiamo che l'educazione storica "blocchi" il circuito lucrosissimo delle emozioni, e si ponga anche in un modo assai critico contro l'attuale emotional turn, che ha preso tutti, dai politici ai pedagogisti, ai dirigenti scolastici.

    3. Per un'empatia consapevole

    Qualche giorno dopo, durante la presentazione del Viaggio della Memoria 2018 a cura di Istoreco presso l'Università di Reggio Emilia, posi la stessa questione allo storico Piotr M. A. Cywiński16, direttore del memoriale e del museo di Auschwitz dal 2006. La sua risposta fu sostanzialmente simile: la spettacolarizzazione della storia è una modalità pericolosa perché, facendo leva sui sentimenti, distoglie dalla reale comprensione degli eventi, e rende inutile l'approccio cognitivo proprio delle ricerche storiche, l'unico che rende giustizia alla complessità del fenomeno shoah. Egli sperava che almeno le professoresse avessero preso spunto dalla simulazione per avviare lo studio della storia.

    E allora? Non si tratta di rinunciare ai sentimenti, all'empatia, alle forme di drammatizzazione, ma di invertire l'ordine dei fattori per ottenere un “prodotto” didattico fondato sulla consapevolezza. In breve, si può essere empatici con gli “altri” (nel tempo e nello spazio) solo dopo averli conosciuti e studiati, dopo aver contestualizzato il loro agire all'interno di un quadro storico-culturale che ci apparirà – per qualche verso, in aspetti marginali o in larga misura – diverso dal nostro.

    Nella mia pratica didattica quotidiana nell'IC Leonardo da Vinci di Reggio Emilia, ho provato più volte a sollecitare l'intelligenza degli studenti attraverso il decentramento cognitivo, soprattutto proponendo loro attività di scrittura empatica dopo aver svolto delle attività di studio di documenti, di gioco-laboratorio o di analisi dei contesti storici. I tre casi presentati in allegato di seguito – pubblicati sul blog del bookcrossing scolastico “I libri di Leo”17 – forniscono il risultato di questi tentativi, che sottopongo alla valutazione degli attenti lettori di questo sito.

    Il blog “I libri di Leo” è nato nel 2018, dopo due anni di attività di bookcrossing all'interno della scuola secondaria di secondo grado. Nel giugno 2019, conta in elenco più di 400 libri, più di 160 articoli suddivisi nelle sezioni: recensioni, eventi, scritture, regole, nuovi arrivi. Con trecento visitatori unici ogni mese, gestito da una trentina di studenti che scrivono e amministrano le pagine web, il blog rappresenta una modalità inclusiva e non valutativa di approccio alla lettura. Scrive Shalon (uno studente della classe 2E): «Tutti noi ci siamo iscritti perché crediamo che scrivere su questo sito non sia solo interessante, ma è anche un modo per appassionarci di più nei confronti della scrittura e della lettura, e può servire anche per conoscere le nostre attività. Abbiamo intervistato gli esperti che sono stati invitati a scuola, abbiamo scritto tante recensioni e pareri sui libri letti. Non importa che il giudizio sia sempre positivo, basta partecipare e scrivere il proprio pensiero».

     

    Allegati

    Allegato 1 – San Francesco. Immagini che raccontano storie
    Allegato 2 – Groenlandesi: The End
    Allegato 3 – Giustizia è fatta!

     

    Note

    1. Nel sito si possono leggere i principi generali del Comitato: «La Città di Venaria Reale, di concerto col Comitato promuove e sostiene attività dirette a diffondere e valorizzare il patrimonio storico, culturale e politico della Resistenza antifascista, contribuisce a far vivere ed affermare i principi della Costituzione Repubblicana, a ricordare gli orrori di quel periodo storico e ad assumere comportamenti [grassetto mio] affinché quello che è accaduto non possa più ripetersi».

    2. Sulla rimozione delle colpe in Italia, vedi: Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza 2013, e Massimo Castoldi (a c. di), 1943-1945: I «bravi» e i «cattivi». Italiani e tedeschi tra memoria, responsabilità e stereotipi, Donzelli 2016.

    3. Vedi la galleria fotografica sul sito di FoggiaToday.

    4. Termine di derivazione inglese che significa letteralmente “evento improvviso tra la folla”.

    5. Sono riportate in un filmato di oltre 30 minuti sul sito del quotidiano la Repubblica. È visibile anche una galleria fotografica dell'evento.

    6. LARP è l'acronimo di Live Action Role-Playing, in lingua italiana gioco di ruolo dal vivo (anche abbreviato in GRV). Sui LARP di ambientazione storica vedi Aladino Amantini, I Larp storici, in Chiara Asti (a c. di), Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica, Unicopli 2019.

    7. In occasione della rievocazione storica del 75° anniversario dello sbarco di Anzio, a Nettuno (Roma), un'anziana signora non è riuscita a resistere alla vista delle divise dei soldati tedeschi e «ha iniziato così a inveire contro i figuranti, colpendone anche uno con la borsetta», la Repubblica online, 21 gennaio 2019.

    8. Francesca R. Recchia Luciani, Claudio Vercelli (a c. di), Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico, il melangolo 2016. Il libro raccoglie gli Atti del convegno tenutosi all'Università di Bari il 16 e 17 ottobre 2015.

    9. Su «historialudens.it» si possono leggere la recensione del volume, di Raffaele Pellegrino; e l'articolo sul convegno, di Claudio Monopoli.

    10. Antonio Brusa, Lo scandalo del selfie (2017), su «historialudens.it».

    11. La trasposizione sul grande schermo del romanzo è stata operata dal regista tedesco Dennis Gansel con il film omonimo (Die Welle), nel 2008.

    12. Riportando la notizia dell'iniziativa sul suo blog, il maestro e pedagogista Marco Moschini cita un commento di Rosario Mazzeo, tratto dalla rivista «L'Educatore»: «È importante “sorprendere” perché ci sia un risveglio emotivo. “Stupore” è la prima flessione (reazione) della mente colpita in modo da essere attratta. Infatti il termine “stupore” (da steup, che in sanscrito vuol dire pungere, colpire), richiama l’emozione dell’essere colpito, e quindi del tenere sgranati gli occhi per poter meglio vedere. Più alto è il livello di sorpresa, più acquista importanza la proposta dell’insegnante, perché più alto è il risveglio emotivo».

    13. Si può leggere la notizia completa sulle edizioni locali online de La Stampa e de la Repubblica. Gli studenti, al termine della simulazione, hanno scritto le loro considerazioni finali, tra le quali leggiamo: «Mi sono sentito uno schifo perché non mi ritengo superiore ai miei compagni»; «So che se succedesse veramente i miei compagni si ribellerebbero e mi aiuterebbero»; «Abbiamo reagito così perché erano nostri amici, ma se una cosa è ingiusta, è ingiusta per tutti»; «Anche io ho la possibilità di cambiare le cose».

    14. Roger Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani 1981 (ed. orig. 1958).

    15. Nei giochi di simulazione di HL, il lavoro di analisi è precipuo nella fase di debriefing. Vedi una rassegna recente di giochi in Marco Cecalupo, E Cesare disse: “Si lanci il dado!”, in Chiara Asti (a c. di), Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica, Unicopli 2019.

    16. Piotr M. A. Cywiński, Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz, Bollati Boringhieri 2017 (ed. orig. 2012). Su HL puoi leggere: Enrica Bricchetto, Non c’è una fine. Camminare a Auschwitz con Piotr Cywiṅski, 2017. Su questi temi, vedi anche Enrica Bricchetto, Raccontare la storia? Non è soltanto questione di comunicazione, 2016.

    17. Nella sezione Scritture, oltre a quelli presentati qui, si possono leggere altre esperienze di scrittura empatica di studenti con i titoli evocativi: Grazie capo, Racchiuso in un sacco di emozioni, Secondo i nazisti, Il racconto di Esther, Memorie sotterrate, Una storia, Solo una madre, Il ricordo del passato, A cena con il nemico, Una lettera dall'Afganistan, Da quando sono entrata qui (inoltre, sono in corso di pubblicazione lettere simulate di operai inglesi del XVIII e XIX secolo). Sul diario di Anne Frank, vedi anche: Sono dalla tua parte, Anna!, e, su questo sito, l'articolo Marco Cecalupo, La tua Kitty, risultato di un laboratorio per la Giornata della Memoria 2014.

     

    Bibliografia dei laboratori

    1) Il laboratorio sull'iconografia e l'iconologia di san Francesco d'Assisi è pubblicato in:
    • Marco Cecalupo, San Francesco. Immagini che raccontano storie, in Quaderni, n. 7, Edizioni Istituto Alcide Cervi (Atti della 2° Summerschool Emilio Sereni “Il paesaggio agrario italiano medievale”, 24-29 agosto 2010), pp. 377-386.

    Il lavoro è basato su:
    • Chiara Frugoni, Francesco e l'invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto, Einaudi 1993 (in particolare il capitolo sesto, Francesco e la natura, la predica agli uccelli, pp. 233-268).
    • Chiara Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d'Assisi, Einaudi 1995.
    • Maurizio Chelli, Manuale dei simboli nell'arte. Il Medioevo, Edup 2002.
    • Erwin Panofsky, Il significato delle arti visive, Einaudi 1962 (ed. or. 1955).

    Sull'uso delle immagini nella ricerca storica:
    • Peter Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Carocci 2002 (ed.or. 2001).
    • Francis Haskell, Le immagini della storia. L'arte e l'interpretazione del passato, Einaudi 1997 (ed.or. 1993).
    • Carlo Ginzburg, Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Einaudi 2000.

    Sul laboratorio didattico con documenti iconografici:
    • Antonio Brusa, L'atlante delle storie, 2 voll., Palumbo 2010.
    • Elena Musci, Il laboratorio con le fonti iconografiche, in Paolo Bernardi (a c. di), Insegnare storia. Guida alla didattica del laboratorio storico, Utet 2006.
    • Franz Impellizzeri, Marco Cecalupo, Le immagini delle crociate, in Antonio Brusa (et al.), L'officina della storia, Laboratorio, vol. 1, Ed. Scol. Bruno Mondadori 2008.

     

    2) Il materiale del gioco-laboratorio sui groenlandesi è pubblicato in:
    • Elena Musci, Le colonizzazioni vichinghe, in Antonio Brusa, L'atlante delle storie. La sintassi della storia, vol. 2, Palumbo Editore 2010.
    Il laboratorio è basato sulle ricerche pubblicate in:
    • Jared Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi 2005 (ed. Orig. 2005).
    Una rassegna di giochi di storia a cura di Historia Ludens in:
    • Marco Cecalupo, E Cesare disse: “Si lanci il dado!”, in Chiara Asti (a c. di), Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica, Unicopli 2019.

     

    3) La traccia didattica del laboratorio su Walerjan Wròbel è ricavata da:
    • Antonio Brusa, Scipione Guarracino, Alberto De Bernardi, L'Officina della storia, Laboratorio 3, Ediz. Scol. Bruno Mondadori 2008 (a cura di Francesco Impellizzeri).
    Il riferimento storiografico da cui sono tratti i materiali del laboratorio è:
    • Christoph Ulrich Schminck-Gustavus, Mal di casa. Un ragazzo davanti ai giudici 1941-1942, Bollati Boringhieri 1994 (ed. or. 1986).

  • Una dieta di bufale. La storia pubblica dell’alimentazione preistorica.

    Autore: Antonio Brusa

    Mandrie di bufale digitali

     

     
    Fig.1Butac.it(Bufale Un Tanto Al Chilo) offre una ricca sezione sulle bufale alimentari


    Può bastare un articolo spiritoso, informato, affidabile e comprensibilissimo, a mettere fuori causa delle pseudo conoscenze circolanti in rete? No. Nemmeno se si tratta del testo sull’alimentazione preistorica, che Joan Santacana Mestre ha dato a noi, di Historia Ludens, e che Susy Cavone ha tradotto. Le bufale, come sappiamo ormai da una buona messe di indagini, di “articoli-che-spiegano-tutto-sulle-bufale”, e perfino da un’edizione speciale (per quanto apocrifa: ma siamo in tema) del Manuale delle Giovani Marmotte, sono prede sfuggenti. Se ne vanno per strade digitali che le smentite non battono, e galoppano per praterie che l’informazione scientifica non riuscirà mai a controllare. Quindi, non ho alcun dubbio che la grande maggioranza degli internauti continuerà a leggere e a rimettere in circolazione le sciocchezze sulla carne cruda che i nostri antenati strappavano a morsi, o sulla vita spartana che conducevano. E allora, perché pubblicare in rete queste smentite? E per quanto riguarda i miei studi (e di tanti miei colleghi): perché dannarsi l’anima per smontare gli stereotipi sul medioevo e, più in genere, nell’insegnamento della storia? (per gli stereotipi sulla preistoria, si può vedere comunque il mio Davide e il Neandertal).

    Un motivo c’è. Non riguarda tanto i problemi dell’affidabilità della rete, ma è certamente interessante per chi insegna: quello di creare o segnalare circuiti di sicurezza, nei quali trovare notizie affidabili. E, dentro questi, aprire degli spiragli per la loro corretta utilizzazione a scuola (nella speranza di un mitico web 3.0, paradiso della buona conoscenza online). Da questo punto di vista, l’articolo di Joan è funzionale. Chiaro e ben illustrato. Può essere letto direttamente dagli allievi. Va inserito, credo, in una efficace cornice di significato, per essere pienamente valorizzato. E questa cornice può essere quella della comunicazione storica diffusa, o della storia pubblica, come dobbiamo imparare a dire. Quindi, non lo vedrei soltanto come uno strumento per far bene un argomento specifico, riguardante oltretutto un periodo storico che sempre di meno si studia a scuola, ma come un momento laboratoriale, nel quale si mettono a confronto conoscenze scientifiche e conoscenze pubbliche sul passato.

    Insomma, se non possiamo educare la rete, possiamo insegnare a qualche ragazzo a muoversi criticamente dentro di essa.

     

    Qualche certezza sull’alimentazione preistorica
    Ho l’impressione che l’articolo di Santacana aumenterebbe, per così dire, la sua forza dimostrativa se lo facessimo seguire da un rapido sondaggio in rete. Un conto è discutere le sciocchezze, un altro allenarsi a scovarle. Insomma, cacciare le bufale può essere divertente e utile, una volta muniti delle armi adeguate. E, come spero di dimostrare alla fine, può diventare l’occasione per discutere di aspetti profondi della nostra società.

     

     
    Fig. 2. La cucina preistorica secondo John Xien (da Santacana Mestre)

     

    Prima di partire per la nostra caccia, fissiamo tre concetti dal lavoro di Santacana:


    -    I preistorici cucinavano. Quindi, non solo NON mangiavano la carne cruda, ma nemmeno si limitavano a “cuocerla” o a arrostirla allo spiedo. Ergaster usava il fuoco da almeno 500 mila anni. Avevano una conoscenza di vegetali commestibili che oggi nemmeno un erborista professionale. Recuperava carni di ogni tipo, frutti, semi e insetti. Non vuoi che qualcuno non abbia cominciato a mescolare mettere insieme questo e quello: e, quindi, a “cucinare”?

    -    I preistorici erano onnivori. Come noi, d’altra parte. Questo lo sappiamo, è scritto nei libri di scuola ormai da molto tempo. Però poi prende il sopravvento l’immagine del bruto che azzanna, e ci attestiamo sul concetto che divoravano carne, e carne cruda.

    -    La preistoria non è sempre uguale. E’ lunga, lunghissima, e non è una, ma tante a seconda delle regioni. E’ legittimo presumere che in alcuni momenti e in alcuni luoghi le cose andassero bene e in altri malissimo. Santacana si sofferma su un periodo del paleolitico finale della penisola iberica, nel quale una popolazione umana piuttosto rada ha potuto usufruire di selvaggina abbondante, catturata con tecniche di caccia evolute. Un periodo di alcune migliaia di anni. Più duraturo, ricordiamolo, dell’intera storia manualistica messa insieme. Ma le cose non andarono sempre in questo modo. La preistoria, dobbiamo immaginarla come un enorme contenitore di periodi lunghissimi, nei quali le diete si alternarono, con prevalenza ora di questo ora di quel complesso di alimenti, a seconda delle variazioni climatiche e degli ambienti diversi nei quali gli umani si insediarono.

     

    Alimentazione preistorica in rete
    Una piacevole scoperta è che la voce “alimentazione preistorica” seleziona siti in genere interessanti. Il nostro cacciatore di bufale ne resterebbe alquanto deluso. Alcuni siti sono apprezzabili, come Incisioni rupestri, dove Maurilio Grassi, del centro Camuno di Studi Preistorici, descrive metodi e risultati della ricerca preistorica, non solo limitati all’ambiente alpino. Altri articoli sono accettabili: perfino quello firmato dal “Gran cazzaro”, pubblicato su The corner, è abbastanza corretto, per quanto si lasci scappare (forse a giustificazione del nickname) che l’incarico di sezionare la carne delle carogne, presso gli Australopitechi, era attribuito alle femmine.

    Un invito a guardarsi dalle diete vegane e, soprattutto, il sito di Michel Montignac, inventore del metodo alimentare omonimo, ci introducono nella vasta schiera di quelli che mettono in rete notizie per uno scopo commerciale. Nel nostro caso, per propagandare una dieta. Montignac propone una sintesi storica, che dichiara di far riferimento all’opera collettiva curata da Jean Louis Flandrin e Massimo Montanari (Histoire de l’alimentation, Fayard, Parigi 1996). E’ abbastanza precisa, con alcune notazioni amene, come il fatto che il legionario romano, essendo male alimentato, tendeva alla pinguedine, ma la sua “pesantezza” era una qualità che gli serviva per “resistere ai colpi dei nemici”, mentre, se l’impero voleva guerrieri agili, si rivolgeva ai germani.ù

     

     
    Fig. 3 Quintilius Goldenslumbus, il centurione di Goscinny e Uderzo, esemplificherebbe bene le conseguenze della dieta romana secondo Montignac.

     

    Apre la galleria dei video quello molto divertente, realizzato per un’istallazione al palazzo reale di Monza, in occasione di Expo 2015, nel quale,disposti su un grande tavolo rettangolare, fanno bella mostra di sé i cibi connotativi delle varie epoche storiche, impiattati come da chef stellati; ma subito dopo,  Anna Martellato, tracciando la storia dell’alimentazione in un video peraltro gradevolissimo, inizia col piede sbagliato, dichiarando che i più antichi uomini della preistoria si cibavano di bacche, frutta, uova e piccoli animali, i quali ultimi,però – sfortunatamente per l’autrice - sono un’acquisizione più recente della dieta umana, come ci ha spiegato Guido Chelazzi, nella sua Impronta originale (Einaudi 2013).Quindi, la galleria dei video si trasforma in una degli orrori, a partire da quelli che si affannano a propagandare in rete il miracoloso metodo nutrizionale “Kousmine”, in curiosa contraddizione con la ripetuta raccomandazione di “tenerlo nascosto alle case farmaceutiche”.

     

    La dieta preistorica è tutta un’altra cosa
    In buona sostanza, tuttavia,la voce “alimentazione preistorica” seleziona siti più o meno dignitosi, almeno dal punto di vista della correttezza scientifica. Il quadro cambia totalmente se digitiamo un’altra voce. “Dieta preistorica” squaderna un panorama totalmente diverso. Tra le prime venti ricorrenze, appena un paio sono di tipo informativo, e anche la relativa voce di Wikipedia, caso insolito nelle mie ricerche in rete, occupa a stento il ventesimo posto. Tutte le altre ricorrenze sono un inno alla “dieta preistorica”.

    In che cosa consiste questa dieta? Lo ricavo da un’intervista di qualche anno fa (2011) di Adelaide Pierucci, pubblicata da “Lettera43.it”, che si propone come imparziale, dal momento che le dichiarazioni di una dottoressa bolognese, grande sostenitrice di questa dieta, sono bilanciate dall’intervento di un suo collega fermamente contrario. La dottoressa centra il cuore del problema. Spiega, infatti, che questa disciplina alimentare – che lei ha ribattezzato con poca perspicuità storica “la dieta dei cavernicoli” - è basata sulla storia. Afferma: “Il dettame, infatti, è tutto là: basta pensare ai nostri avi, anzi risalire agli inizi della specie. Per circa due milioni di anni (fino alla scoperta dell'agricoltura), l'uomo non ha tritato grano e munto vacche. Ma si è cibato solo di cacciagione, bacche, bulbi e radici: era quella la sua alimentazione”. In una “dieta del cavernicolo tipo”, dunque, “la carne è meglio mangiarla cruda, perché dà energia” – è sempre la nostra dottoressa che parla - e quindi, al massimo si può concedere “una bistecca al sangue insaporita con un fungo cotto, pollo e radicchio, carne ai ferri con una noce”.

    La dottoressa ci sta spiegando che la storia è la base scientifica della sua dieta. Praticamente, demanda agli storici il compito di validare le sue teorie alimentari. Ed è quello che facciamo volentieri.

    Per la verità, a dare il primo colpo alla sua ricostruzione del passato, interviene, già in quell’articolo, il suo collega, quando fa notare come la carne che troviamo oggi in macelleria non sia la medesima che centomila anni fa i nostri antenati rosolavano allo spiedo: “Gli acidi grassi essenziali degli animali preistorici non esistono più. E il pesce ora viene per lo più coltivato e imbottito di antibiotici. Senza contare che il cacciatore non mangiava tutti i giorni. Non è vero, poi, che l'alimentazione di un tempo non prevedeva carboidrati: si faceva vasta incetta di semi germogliati”.

    Da storici, non possiamo che confermare. L’animale domesticato è diverso da quello selvaggio. Le pecore, le mucche, le capre e i maiali che allietano il nostro desco sono stati “creati” dall’uomo. Ottomila anni fa non esistevano. E, per quanto riguarda i volatili da cortile (dalle galline al tacchino), che sono spesso consigliati come carni esemplari per le diete, la loro domesticazione è ancora più recente (probabilmente a partire da 3/4 mila anni fa). Se i sostenitori della paleodieta affermano che i cereali fanno male, perché il nostro organismo non si è ancora abituato al loro consumo, a maggior ragione dovrebbero metterci in guardia dalla carne degli animali domestici, dal momento che “esistono” da molto meno tempo.

    D’altra parte, è vero che i cereali e i legumi sono diversi dai loro confratelli selvatici. Ma questo vale per tutti i vegetali domesticati: siano essi frutti (il fico fu probabilmente il primo ad essere domesticato 15 mila anni fa, e a seguire vennero gli altri, domesticati a volte ben dopo i cereali) o i bulbi, come le cipolle e l’aglio, e le verdure.

    «Giusta, perché dettata dalla natura», afferma la dietologa. A rigore, allora, non dovremmo mangiare quasi niente, perché quasi tutto ciò che vediamo sulla nostra tavola è frutto di un lavoro di domesticazione, iniziato migliaia di anni fa (e che continua, con i metodi e le conoscenze che abbiamo nel frattempo elaborato).

    La paleodieta storicamente accertata contemplava, in una scelta piuttosto ricca e varia, anche i semi. E fra questi, vi erano i cereali selvatici. I semi sono nutrienti magnifici e, per giunta, possono essere più facilmente conservati della carne e della frutta. Perché non pensare che sapiens li raccogliesse, magari per servirsene nei periodi di magra? E perché non pensare che li tostasse, per vedere se, cotti, diventavano buoni esattamente come la carne? O li consumasse macerati o in qualche combinazione con altri alimenti? Proprio per questo, i gruppi umani preferivano insediarsi presso i campi spontanei di queste piante preziosissime. E questo già da millenni prima che a qualcuno venisse in testa di seminarli, di macinarli, di impastarne la farina e trasformarla in pane.

     

    Darwin o Mitridate?
    Alla stramba idea della“dieta dei cavernicoli” è associata un’altrettanto strana concezione dell’adattamento. Un’autentica misconoscenza. Perché, infatti, la dottoressa sostiene che l’uomo non “ha fatto in tempo” a adattarsi ai cereali, e invece “ha fatto in tempo” a adattarsi alla carne? E’ evidente che confonde adattamento con assuefazione: poco per volta, anno dopo anno, un cibo che prima ti faceva male, poi lo riesci a digerire in modo efficace. Ci sta raccontando, la dottoressa, che, qualche migliaio di anni prima di Mitridate - quel re diffidentissimo, che tentò di abituarsi al veleno assumendolo a piccole dosi - i preistorici si adattarono ai cibi dannosi, piluccandoli con precauzione. Un adattamento per mitridatizzazione, dovremmo concludere sorridendo, per non chiamare in causa i residui di un lamarckismo ingenuo. E lasciando aperta la domanda delle cento pistole, alla quale, immagino, solo i paleodietologi più arditi oseranno rispondere: “quanto tempo ci vuole perché l’organismo umano si adatti a un certo alimento?”

    Ma in rete abbondano i coraggiosi. Eccone un esponente che dottoreggia: “Secondo questi principi di medicina evolutiva, il corredo genetico dell'uomo moderno sarebbe oggi perfettamente adattato alla dieta del Paleolitico, utilizzata durante oltre 2 milioni di anni, mentre si troverebbe ancora agli albori, dopo soli 10.000 anni, del mutamento genetico necessario per il consumo dei prodotti agricoli. In conseguenza, pur senza ripudiare aprioristicamente il consumo dei prodotti agricoli, la dieta ideale per il mantenimento della salute sarebbe quella che più si avvicina a quella ancestrale”.

    Due milioni è sufficiente, 10 mila è poco? La public history alimentare ci sorprende col suo nuovo “evoluzionismo a spanne”. Tuttavia, non è solo questione di misure date alla buona. Il fatto è che le mutazioni non avvengono “poco per volta” e perciò non esiste un "tempo giusto" per l'adattamento. Per esempio, la nostra colonna vertebrale, così come molte articolazioni, non si sono ben adattate all'andamento bipede. Ricordano ancora, per così dire, il tempo della quadrupedia, di oltre due milioni di anni fa, Per contro, Il caso del latte e della lattasi ci mostra che mutazioni decisive avvennero appena 10 mila anni or sono. Ce lo racconta  Dario Bressanini, un collaboratore di “Le Scienze”. Circa diecimila anni fa, scrive lo studioso, gli uomini cominciarono a nutrirsi di derivati del latte, come lo yoghurt (questo sembra certo, prima di berlo direttamente). Questa nuova possibilità alimentare venne data da una mutazione casuale, un enzima presente in alcuni individui. Non siamo sicuri dei motivi per i quali questa avvenne. Però,accadde allora, e da quel momento alcuni gruppi umani poterono nutrirsi di latte e latticini, e altri no.

    Oggi la mappa della diffusione dell’enzima mostra regioni abitate da popolazioni geneticamente diverse. Ne dobbiamo dedurre che in Europa esistono uomini “artificiali”, o che nella Cina meridionale esiste un’umanità più “naturale”?


     
    Fig. 3. Mappa della diffusione dell’enzima che consente la digestione di latte e latticini

     

    E’ l’evoluzione, dunque, o meglio la coevoluzione fra umani, animali e vegetali, questa grande sconosciuta ai paleodietologi, che andrebbe studiata bene a scuola, per mettere gli allievi in grado di far fronte a questa, come ad altre misconoscenze alimentari che inondano la rete. E le cui scoperte recenti, come  conclude Bressanini, avrebbero addirittura “deliziato” Darwin, che “chissà, forse avrebbe brindato con un bicchiere di latte”.

     

     
    Fig.4.  Un video delProject Invictusaiuta a passare dalle conoscenze approssimative di fruttariani, vegani e paleodietisti alla conoscenza dell’evoluzione, con il consiglio finale di leggere qualche buon libro sull’argomento.

     

    A caccia di bufale!
    Partiamo da un mesto esperimento televisivo, diffuso da Melanzane al cioccolato, durante il quale a tre povere donne, colpevoli di eccesso di colesterolo, hanno fatto ingurgitare chili e chili di frutta e verdura cruda “(carote, meloni, zucche, broccoli, mango, ecc.), cioè quello che mangiavano i nostri antenati”, con l’unica concessione di assaggiare “un’oliva in salamoia”, che, insieme col mango, è una nota delizia del paleolitico. Felici come siamo per aver appreso, dallo stesso sito, della riuscita dell’esperimento, tuttavia non possiamo non far rilevare come la dietologia preistorica sia in realtà lacerata da due scuole di pensiero.

     

    Una carnivora e una di ispirazione sicuramente vegana.


    Alessandra Mallarino sembra incaricarsi del tentativo di conciliarle, dalle pagine di Amando.it, un sito online autorevole, dal momento che dichiara oltre 10 milioni di lettori unici l’anno. Nel suo Dieta preistorica e evoluzione spiega che gli ominidi dapprima furono prevalentemente vegetariani, poi, con la scoperta del fuoco, privilegiarono l’alimentazione proteinica, e dunque le carni. L’autrice scende nel dettaglio. “Nei “piatti” degli ominidi la carne derivava anche da animali molto grossi e spesso molto aggressivi, tra i più temibili i coccodrilli, ma anche ippopotami, che tanto mansueti in realtà non sono, fino alle rumorose scimmie, e ancora a diversi tipi di rettili che oggi non esistono più ma di cui sono rimasti fossili o ossa” (non oso pensare a quali rettili si possa riferire).

    Poi, si lancia anche lei in una teorizzazione evoluzionista ad uso degli ignari. Scrive, infatti, che questa alimentazione “contribuì fortemente all’aumento volumetrico e del numero totale delle cellule del cervello”. Una frase che, pur nel suo incerto italiano, ci vorrebbe far intendere che il cervello, irrobustito dall’alimentazione carnea, costrinse la scatola cranica ad allargarsi. Nel corso dei millenni, naturalmente, millimetro dopo millimetro.

     

     
    Fig. 5. Le vere ragazze mangiano carne di dinosauro, secondo la Gender paleodietology

     

    Dai principi alle ricette. Un vantaggio indubbio della paleodieta consiste nell’eliminazione delle fastidiosissime tabelle caloriche. Basta seguire i saggi consigli che ci vengono dalla preistoria. E, dunque, ecco un paleomenu, dove avete libertà di caccia alle bufale: “A colazione mangia un frutto – magari un’arancia – del salmone affumicato e qualche noce. A pranzo consuma della fesa di tacchino condita con mandorle e lamponi. Sempre a pranzo, non far mai mancare un’insalatona mista con olio d’oliva e succo di limone. A cena opta per scaloppine di vitello con verdura a scelta – anche cotta – melone bianco e semi di girasole. Non sono previsti spuntini, ma se hai fame puoi mangiare delle piccole porzioni di proteine a metà pomeriggio – per esempio due fettine di prosciutto crudo. Sono tutte ricette semplici da realizzare, ispirate alla dieta dei nostri antenati che non avevano grandi mezzi per cucinare!”

     

    Sani, forse belli, ma soprattutto primitivi
    “Marie Claire”lo proclama a gran voce alle sue lettrici. L’uomo preistorico era “atletico, forte e muscoloso”. Tutti? Forse no, se ricordiamo certe raffigurazioni del tempo, come le cosiddette “veneri paleolitiche”. Il dubbio deve essere venuto a qualche adepto e se ne deve essere discusso in rete, se su questo argomento è sceso in campo persino il guru della paleodieta, Loren Cordain. Nel suo blog (dove risponde personalmente alle domande dei seguaci) ammette che queste veneri non “sono affatto un buon esempio di correttezza degli indici di massa grassa”.  E’ uno studioso, però, e ha buon gioco nel richiamare la funzione cultuale e simbolica di quelle statuette.

    E’ vero. Ma questo non toglie che quegli uomini ebbero degli esempi reali ai quali riferirsi, per scolpire seni, natiche e ventri prominenti. Insomma: se non è lecito dedurre dalla Venere di Willendorf che le donne preistoriche fossero tutte in sovrappeso, allo stesso modo non è consentito sostenere che erano tutte slanciate e magre, come la meravigliosa Raquel Welch di Un milione di anni fa.


    Diversa nei tempi e negli spazi, la preistoria fu diversa anche negli individui.

     

     
    Fig. 6 Atletico e muscoloso, l’uomo preistorico non doveva eccedere in bellezza, secondo“Marie Claire”

     

    A compensare una bellezza dubbia, intervengono le qualità morali, che, sempre secondo la rivista online, distanziano l’uomo preistorico da quello odierno. “La differenza rispetto ad oggi è che quegli uomini dovevano faticare per avere ciò di cui sfamarsi e non prendevano mai più di quello di cui avevano necessità”. E’ dopo, quindi, con la vita facile del mondo civile, quello nato “dopo l’agricoltura”, che l’uomo è diventato avido, grasso, pigro e soggetto, per di più, agli attacchi cardiaci. In quel “dopo” c’è tutto. C’è il disagio della nostra società e la ricerca della fuga salvifica in un passato mitico. Non è solo ipocalorica, la dieta preistorica, leggiamo nell’esergo dell’articolo, ma è anche “ecosostenibile”. Qual è la rispondenza con la realtà di queste affermazioni? Le società post-neolitiche furono società facili e dell’abbondanza? Una dieta interamente carnea è anche ecosostenibile?

    Le più che ovvie risposte negative ci fanno sicuri di un fatto: il successo di questa dieta non dipende dalla sua aderenza, più o meno fantasiosa, alla realtà storica, ma da un bisogno di semplicità sempre più diffuso e insopprimibile, in una società troppo complessa, come la nostra. Non è solo questione di rete. Questi sono miti, per quanto fabbricati con materiali scientifici. Con loro, temo che la filologia abbia le armi spuntate. Ben prima del web, fin dai tempi di Socrate.

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