razzismo

  • “A. Gramsci - N. Pende”. Una strana coppia, nell’anniversario delle Leggi razziali

    di Antonio Brusa

    Targa

    Se vi capita di passare da Noicattaro, piccolo centro in provincia di Bari, celebre per le sue uve, potrete ammirare la targa dell’Istituto Comprensivo “A. Gramsci - N. Pende”. Noicattaro è la città natale di Nicola Pende; a pochi chilometri di distanza c’è Turi, con il carcere dove, fra il 1927 e il 1934, venne rinchiuso Antonio Gramsci. Il primo fu uno scienziato che Mussolini celebrò; il secondo un comunista che lo stesso mise in galera.

    Non è il sorprendente omaggio alla nuova moda rossobruna, illustrata da intellettuali ben abbronzati, per la quale Gramsci, essendo un filosofo amato dalla destra, starebbe bene insieme a Pende, scienziato coccolato dal fascismo. Ad accomunare questi due personaggi, antitetici nella storia italiana come nella cultura mondiale, è una burocrazia ottusa, incapace di considerare il senso e il valore delle persone. Quelle morte, alle quali sono intitolati i due plessi scolastici, ora accorpati in un comprensivo; quelle vive, e in particolare gli allievi, alle quali un giorno occorrerà spiegare per bene chi era l’uno e chi era l’altro.

    Nicola Pende, medico ed endocrinologo, fu, infatti, autore di libri fondamentali per la costruzione di un’ideologia razzista italiana. Sostenne l’unicità della razza italiana e la necessità di evitare che si mescolasse con altre razze. Una precauzione necessaria, soprattutto dopo la conquista dell’Etiopia. Ecco cosa scriveva: [occorre evitare] “che i suoi coloni e soldati, incoscientemente, creino in Africa un mondo di meticci, che la razza più equilibrata e più bella che sia germogliata sotto il sole si fonda con razze seminegre o negre, primitive e fondamentalmente lontane per caratteri biopsicologici quali sono le razze etiopiche». (la Repubblica 14-09-2006)

    Antonio Gramsci è la dimostrazione che, anche in un periodo nel quale il razzismo era un’ideologia corrente, si poteva essere decisamente antirazzisti. E Gramsci lo fu per vari motivi, come ci spiega Enrico Mordenti: sia perché sentiva sulla sua pelle di sardo la violenza dell’ideologia razzista, sia perché conosceva bene il razzismo antimeridionalista che covava da decenni nell’Italia centro-settentrionale, sia per la sua ostinata avversione a quegli studiosi positivisti che, fra Ottocento e primo Novecento, costruirono le basi scientifiche del razzismo. In un suo scambio di lettere con la cognata Tania Schucht, che aveva manifestato seri propositi antisemiti, dichiarò:

    «Io stesso non ho nessuna razza: mio padre è di origine albanese recente (la famiglia scappò dall'Epiro dopo o durante le guerre del 1821 e si italianizzò rapidamente); mia nonna era una Gonzalez e discendeva da qualche famiglia italo-spagnola dell'Italia meridionale (come ne rimasero molte dopo la cessazione del dominio spagnolo); mia madre è sarda per il padre e per la madre e la Sardegna fu unita al Piemonte solo nel 1847 dopo essere stata un feudo personale e un patrimonio dei principi piemontesi, che la ebbero in cambio della Sicilia che era troppo lontana e meno difendibile».

    Un nome imbarazzante

    Anni fa, nel 2006, venni contattato da alcune professoresse della scuola “N. Pende” (allora indipendente). Mi raccontarono la loro difficoltà nel giustificare, presso i bambini, il nome della loro scuola. Mi dissero che i tentativi di cambiarlo erano falliti tutti. Nicola Pende è una gloria locale, a Noicattaro. È il concittadino degno del Nobel, ingiustamente accusato di antisemitismo; un luminare che, nel dopoguerra, non evitò di curare gratuitamente i poveri.

    Targa2

    Proposi di organizzare un convegno, nel quale avremmo fatto venire i più grandi specialisti della questione, per spiegare alla cittadinanza chi era Nicola Pende, il suo ruolo centrale nella elaborazione italiana del razzismo e nella sua propaganda, ma anche il suo reale valore come scienziato. Avremmo certamente dato alla cittadinanza materia per riflettere, e magari accettare il cambiamento di quel nome. La proposta piacque alla preside. Ne parlò col sindaco, che si dichiarò pronto a finanziare l’iniziativa. La call fu elettrizzante. Una decina di studiosi, da tutto il mondo, accolsero l’invito, entusiasti di raccontare come stavano le cose direttamente ai concittadini di Pende. Quando conoscemmo il testo della delibera comunale, che finanziava il nostro convegno, dichiarando che avrebbe avuto lo scopo di “rilanciare la figura del nostro illustre concittadino”, tutti si tirarono indietro. Il convegno non si fece e la cosa, per me, finì lì.

    Non fu lo stesso per il sindaco di Noicattaro, nel corso della polemica contro Pende, suscitata da I dieci, il libro di Franco Cuomo, uscito l’anno precedente, per i tipi di Baldini Castoldi Dalai, nel quale si denunciavano gli scienziati che avevano aderito al Manifesto della Razza, fra i quali appunto il nostro. La città di Bari, in quella occasione, aveva deciso di cancellare il nome di Pende dallo stradario cittadino: ad essa il sindaco di Noicattaro rispondeva annunciando un convegno internazionale che avrebbe rimesso a posto le cose. Purtroppo, era proprio quello che avevamo annullato, a seguito della sua delibera. (La Gazzetta del Mezzogiorno 01-02-2006)

    Convegni se ne svolsero, successivamente, sia pure più limitati. Uno di questi, nel 2012, fu organizzato dalla stessa scuola. Le foto su internet ne mostrano l’auditorio pieno. Sono corredate da un resoconto dove leggiamo che Pende fu un modello di etica medica; certo, fu fascista come tutti, ma ne pagò le conseguenze, perdendo, proprio per questo motivo, il premio Nobel.

    Perché parlare ancora di questi fatti

    Sono tornato su queste vicende preparando la Summer School sulla Tolleranza (Trani 3-5 settembre), nell’anniversario della promulgazione delle Leggi Razziali del 1938. La sera del 4 settembre, infatti, terremo un “Processo a Nicola Pende”. Verranno studiosi, giuristi, politici e giornalisti. Pro e contro, come d’obbligo in un processo. Ma non si tratterà né di una celebrazione, né di un tentativo di condannare o assolvere nessuno. Il “processo” si svolge all’interno della scuola di didattica della storia. Dunque: scienza e didattica. La mise en scène serve a coinvolgere il pubblico, sollecitare il dibattito, ma non deve trarre in inganno. Gli storici non emettono sentenze. Descrivono fatti, aprono problemi. E, per la verità, sotto la lente di questi giudici particolari, non ci sarà il solo razzismo di Nicola Pende, oggetto ben conosciuto in ambito storico, e che non ha affatto bisogno della nostra Scuola, per essere indagato.

    Tolleranza

    Sotto inchiesta sarà il nostro rapporto con quei fatti di ottant’anni fa. Dobbiamo dimenticare, perdonare, limitarci a comprendere, dichiarare la nostra distanza, soprassedere, far finta di niente, continuare nelle complicità o cercare vendette postume? Non sono semplici curiosità storiche. La limpidità del nostro presente dipende, anche, dall’onestà con la quale riusciamo a proporci queste domande e a formulare delle nostre risposte. E queste, dipendono – a loro volta – dalla conoscenza precisa di quegli eventi.

    La confusione, e il conseguente non capirci più nulla, che denunciamo quotidianamente quando ci guardiamo attorno, hanno, perciò, qualcosa a che vedere con il rapporto superficiale e approssimativo che il nostro paese intrattiene col proprio passato. E, da questo punto di vista, la “strana coppia”, incisa su quella targa, oltre a denunciare una burocrazia plumbea, è la testimone perfetta di un paese dalla memoria sciatta.

    Informazioni sulla Summer School, organizzata dall’Istituto Nazionale per lo studio dell’età contemporanea e della Resistenza, “F.Parri”, e dal comune di Trani.

    Su Antonio Gramsci, “Novecento.org” ha pubblicato un dossier storico-filosofico-didattico, curato da Lea Durante e Claudia Villani.

  • Liberatori da ogni razzismo

    di Antonio Brusa

    ImmagineFig.1: Totem Thunderbird Fonte I media sottolineano la puntualità di Liberator, la nuova serie di Netflix, che esce proprio l’11 novembre, il Veteran day americano. Io preferisco sottolineare la tempestività che ha mosso i responsabili di Netflix a produrre questa fiction proprio in un momento di scontri razziali. Liberator, infatti, racconta le imprese della divisione Thunderbird, dallo sbarco in Sicilia fino alla liberazione del campo di concentramento di Dachau.
    Thunderbird, “uccello del tuono”, è un mito/favola comune a popolazioni indigene americane ed europee. Il nome azzeccato per una divisione nella quale latinos e nativi americani militavano insieme a soldati statunitensi. Uno straordinario esempio di integrazione, oltre che di abnegazione e di incredibile valore militare. Non vi furono cittadini di serie B, in quella divisione. Solo soldati, motivati dall’unico scopo di combattere il nazismo.
    Giusto chiedersi: perché magnificare quegli uomini, trasfigurati in una perfetta animazione digitale, in un film che si annuncia avvincente (ne ho appena visto la prima puntata)? Possiamo pensare che si voglia fornire un modello a una società che sembra disgregarsi in cento guerre civili e in un violento riapparire di razzismi di ogni genere; oppure che la si voglia invitare a riflettere sulle speranze, suscitate da quella guerra, e tradite dagli eventi successivi; oppure, come si impara dal libro di Alex Kershaw (The Liberator, Crown 2013), dal quale è tratta la serie, che “la guerra è un inferno, non una marcia verso la liberazione” (Tom Hungtinton su “History.net”).
    Su “Smithsonian Magazin”, per gli interessati, la storia di quegli eroi. La risposta ai quesiti, una volta vista la serie.

  • Passato e presente negli attacchi ai monumenti sull'onda del Black Lives Matter

    di Daniele Boschi

    La statua di Albert Pike in Washington D.C. ancora in piedi sul suo piedistallo di granito, dal quale è stata rovesciata lo scorso 19 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Albert_Pike_Statue,_Washington_DC_.jpgLa statua di Albert Pike in Washington D.C. ancora in piedi sul suo piedistallo di granito, dal quale è stata rovesciata lo scorso 19 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Albert_Pike_Statue,_Washington_DC_.jpg

    Nella Judiciary Square in Washington D.C., a circa mezzo miglio dal Campidoglio, una statua di bronzo alta più di tre metri raffigurava Albert Pike, poeta, giurista, massone e ufficiale dell’esercito degli Stati Confederati durante la guerra civile americana (1861-65). Lo scorso 19 giugno un gruppo di dimostranti ha abbattuto questa statua e le ha dato fuoco, cantando “No justice, no peace, no racist police”. Negli Stati Uniti il 19 giugno, Juneteenth, è una giornata dedicata alla celebrazione dell’emancipazione dalla schiavitù e quest’anno è stata un’occasione per rinnovare le proteste contro il razzismo, divampate a seguito dell’uccisione dell’afro-americano George Floyd, avvenuta a Minneapolis lo scorso 25 maggio.   

    Quella di Albert Pike è soltanto una delle numerose statue abbattute o rimosse nelle ultime settimane sull’onda del movimento Black Lives Matter, che dagli Usa si è propagato anche al di qua dell’Atlantico. Un po’ dappertutto gli attivisti del movimento hanno preso di mira statue e monumenti che celebrano o rievocano personaggi e fatti in qualche modo collegati alla storia della schiavitù, del razzismo e del colonialismo.

    In questo articolo racconto alcuni episodi e le reazioni che hanno suscitato. In un prossimo articolo analizzerò i commenti apparsi sui quotidiani e sul web, anche alla luce delle riflessioni che da diversi anni gli storici e gli esperti di public history hanno sviluppato riguardo all’uso degli spazi pubblici per commemorare personaggi ed eventi del passato, e alle controversie che quest’uso può generare. Antonio Prampolini sta preparando una sitografia completa su questo argomento, in attesa della quale si può consultare questo elenco provvisorio.

    L’attacco alle statue dei Confederati

    Oltre alla statua di Albert Pike, molti altri monumenti che rievocano la lotta dei Confederati contro gli stati dell’Unione durante la guerra civile americana sono stati attaccati o rimossi negli USA nelle ultime settimane.

    Ad esempio, il 1° giugno una statua del generale Robert E. Lee è stata buttata giù davanti alla High School di Montgomery (Alabama) a lui intitolata. Poche ore prima, Steven Reed, primo sindaco nero della città, aveva parlato a una folla eccitata davanti alla scuola elementare dedicata a E. D. Nixon, uno dei principali organizzatori del famoso Montgomery Bus Boycott (1955-56), durante il quale gli afroamericani avevano rifiutato di usare i bus urbani. Reed aveva detto di condividere la rabbia e il desiderio di cambiamento dei propri concittadini, ma li aveva invitati alla calma. Non tutti però hanno seguito il suo consiglio e quattro persone sono state arrestate dopo l’abbattimento della statua.

    Il 10 giugno a Richmond in Virginia una folla di dimostranti ha abbattuto la statua di Jefferson Davis, presidente della Confederazione. Il giorno seguente il sindaco Levar Stoney ha commentato questo evento in un tweetcon le seguenti parole: "Jefferson Davis era un razzista e un traditore che fuggì dalla nostra città mentre le sue truppe eseguivano l’ordine di incendiarla e raderla al suolo. Non ha mai meritato di stare sopra quel piedistallo” [1].  E ha preannunciato la rimozione di altri simili monumenti.

    In molti casi sono stati, in effetti, i sindaci o altre autorità locali a ordinare lo smantellamento dei monumenti. Lo hanno fatto per manifestare la propria adesione alla protesta antirazzista, oppure per prevenire disordini o incidenti (o per entrambe le ragioni). Ad esempio, Greg Fischer, sindaco di Louisville nel Kentucky, ha fatto rimuovere la statua a cavallo di John B. Castleman, un personaggio controverso, poiché dapprima combatté nell’esercito dei Confederati, dove raggiunse il grado di maggiore, ma poi espresse ammirazione per Abramo Lincoln e si schierò contro l’esclusione degli afro-americani dai parchi cittadini. Fischer aveva tentato già l’anno scorso di arrivare alla rimozione della statua, ma senza successo; il suo operato è stato contestato da diverse associazioni locali e una controversia legale è tuttora in atto.

    L'offensiva si allarga

    Rimanendo per ora negli Stati Uniti, occorre aggiungere che l’attacco alle statue e ai monumenti si è allargato in queste ultime settimane fino a toccare anche personaggi storici di ben altro rilievo rispetto ai più o meno celebri generali e ufficiali dell’esercito confederato.

    A Portland, nell’Oregon, sono state abbattute le statue di Thomas Jefferson e di George Washington, entrambi proprietari di schiavi, come è ben noto.

    Nel Golden Gate Park di San Francisco è stata rovesciata la statua di Ulysses S. Grant, comandante dell’esercito che sconfisse i Confederati nel 1865 e poi presidente degli Stati Uniti. Grant è ritenuto colpevole di aver sposato una donna proveniente da una famiglia di proprietari di schiavi e di aver diretto personalmente il lavoro di questi schiavi in una piantagione nel Missouri. Egli stesso inoltre fu proprietario di uno schiavo, che liberò nel 1859.

    Sempre nel Golden Gate Park, insieme alla statua di Grant, è stata buttata giù anche quella di Francis Scott Key (1779-1843), l’autore dell’inno nazionale statunitense, “The Star-Spangled Banner”. L’accusa nei suoi confronti non è solo quella di aver posseduto schiavi, ma anche di aver utilizzato il suo ruolo di procuratore di distretto in Washington D.C. per ridurre al silenzio i fautori della causa abolizionista.

    Infine, il Museo di Storia Naturale di New York ha deciso di rimuovere la statua di Theodore Roosevelt, che finora troneggiava davanti all’ingresso del Museo. La statua mostra il 26° presidente degli Stati Uniti a cavallo e accanto a lui, a piedi, un nativo americano e un africano. Lo stesso pronipote del Presidente, Theodore Roosevelt IV, si è detto d’accordo con la decisione: «Il mondo non ha bisogno di statue, relitti di un’altra era, che non riflettono né le virtù della persona che intendono onorare, né i valori di uguaglianza e giustizia. Questa composizione equestre non riflette l’eredità di Theodore Roosevelt. È tempo di rimuoverla e andare avanti». Ma il presidente Donald Trump ha twittato: «Ridicolo, non fatelo!».

    "Colombo rappresenta il genocidio"

    Se l’attacco ai monumenti di personaggi più o meno illustri della storia degli USA potrebbe lasciarci abbastanza indifferenti qui in Italia, le cose stanno forse in modo un po’ diverso quando ad esser sotto tiro sono le statue dedicate al nostro Cristoforo Colombo, accusato di essere stato un colonizzatore e uno sterminatore dei nativi americani. Anche con lui se la sono presa gli attivisti del movimento Black Lives Matter nelle ultime settimane.

    Il primo episodio, riportato anche dai quotidiani italiani[2], è avvenuto a Richmond in Virginia, dove il 9 giugno, in un parco cittadino, la statua alta due metri e mezzo del navigatore genovese è stata abbattuta, bruciata e trascinata fino a un vicino laghetto, dove è stata gettata. Il piedistallo è stato imbrattato con le scritte "questa terra è dei Powhatan", il nome della popolazione nativa della Virginia, e "Colombo rappresenta il genocidio".

    Immagine 2 ColomboLa statua di Cristoforo Colombo che si ergeva presso il Minnesota State Capitol, buttata giù dai dimostranti lo scorso 10 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Christopher_Columbus_Statue_Torn_Down_at_Minnesota_State_Capitol_on_June_10,_2020.jpgStatue di Colombo sono state sfregiate, abbattute o rimosse anche a Saint Paul nel Minnesota, a Boston , a Camden nel New Jersey, a Houston nel Texas, a San Francisco e in diverse altre città. Un caso particolare è quello del Congresso della California, che ha deciso di rimuovere dalla propria sede le statue di Cristoforo Colombo e della regina Isabella di Castiglia.

    Anche se queste iniziative sono state prese sull’onda delle proteste del Black Lives Matter, in molti casi esse sono anche il risultato delle lotte portate avanti da molti anni dalle associazioni dei nativi americani. Anzi, a Saint Paul nel Minnesota è stato l’ “American Indian Movement” ad organizzare l’attacco alla statua di Colombo, dopo anni di inutili trattative con le autorità locali.

    Su un altro fronte, questi eventi hanno suscitato la reazione del “Movimento Associativo degli Italiani all’Estero” (MAIE), il cui presidente, Ricardo Merlo, è attualmente sottosegretario agli Esteri nel governo Conte. Merlo ha dichiarato che “gli attacchi alle statue di Cristoforo Colombo sono atti vili e scellerati” ed ha aggiunto che “pensare oggi di rivedere la storia è anacronistico, inutile, sbagliato”.

    Abbattimenti e rimozioni di statue in Gran Bretagna

    Come è noto, le proteste del Black Lives Matter si sono propagate dagli USA all’Europa. E anche da questa parte dell’Atlantico alcune statue, considerate come simboli del razzismo e del colonialismo, sono state abbattute o rimosse.

    Il piedistallo vuoto della statua di Edward Colston a Bristol, abbattuta lo scorso 7 giugno durante le proteste del “Black Live Matters”. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Edward_Colston_-_empty_pedestal.jpgIl piedistallo vuoto della statua di Edward Colston a Bristol, abbattuta lo scorso 7 giugno durante le proteste del “Black Live Matters”. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Edward_Colston_-_empty_pedestal.jpg

    Cominciamo dall’Inghilterra. Lo scorso 7 giugno a Bristol, nel corso di una manifestazione antirazzista, la statua di Edward Colston (1636-1721), membro della Royal African Company e mercante di schiavi, è stata abbattuta, trascinata per le strade della città e gettata nelle acque del porto. Il giorno seguente, l’evento è stato stigmatizzato dal portavoce del Primo ministro Boris Johnson, che ha dichiarato: “I cittadini possono fare campagne per la rimozione di una statua, ma quello che è accaduto ieri è un’azione criminale … Il Primo ministro comprende appieno l’intensità dei sentimenti, ma in questo paese risolviamo le controversie in modo democratico e se si vuole la rimozione della statua ci sono procedure democratiche che si possono seguire”.

    Invece il sindaco di Bristol Marvin Rees, primo sindaco nero del Regno Unito[3], ha mostrato comprensione per i dimostranti e ha dichiarato: “Penso che la situazione era arrivata a un punto critico e la gente sentiva che la statua doveva essere buttata giù … Non posso fingere e non fingerò che la statua di un mercante di schiavi nella città in cui sono nato e cresciuto non fosse un oltraggio per me e per le persone come me”.

    Le “procedure democratiche” sono state invece rispettate a Oxford, dove sulla scia del Black Lives Matter è ripresa la campagna per la rimozione della statua di Cecil Rhodes dalla facciata dell’Oriel College. Il movimento Rhodes Must Fall è nato nelle università del Sudafrica nel 2015 e da lì si è esteso alla Gran Bretagna. Nel 2016 l’Oriel College, pur accettando il dialogo con gli studenti, rifiutò di rimuovere la statua[4]. Ora sembra che le cose siano cambiate, dato che lo scorso 17 giugno l’organo direttivo del College ha votato a favore della rimozione della statua e per l’istituzione di una commissione che si occuperà del tema dell’eredità di Rhodes e del modo di migliorare la condizione degli studenti e dei dipendenti del College appartenenti alle minoranze etniche. 

    Un’altra statua presa di mira è stata quella del mercante di schiavi Robert Milligan (1746-1809) nella East London. Oltre tremila persone hanno firmato una petizione per la sua rimozione e lunedì 8 giugno la statua è stata ricoperta con cartelli recanti la scritta “Black Lives Matter”. Il giorno successivo la statua è stata rimossa per decisione delle autorità locali.

    Ancora più significativo è il fatto che il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha annunciato l’istituzione di una commissione che riesaminerà tutti i “landmarks” della capitale del Regno Unito. A questo proposito Kahn ha dichiarato che “le differenze all’interno della nostra capitale sono la nostra forza più grande, eppure le nostre statue, i nomi delle strade e gli spazi pubblici riflettono un’era passata. E’ una verità scomoda che la nostra nazione e la nostra città debbano una larga parte della loro ricchezza al ruolo che hanno avuto nel commercio degli schiavi e mentre questo è ben riflesso nella nostra sfera pubblica, il contributo di molte nostre comunità alla vita della capitale è stato volontariamente ignorato. Questo non può continuare”. 

    Tuttavia, come è accaduto negli Stati Uniti, anche in Inghilterra l’attacco alle statue non ha preso come bersaglio soltanto i simboli più ovvi del passato coloniale e razzista del paese. Come è stato riportato da tutti i principali media, il 7 giugno a Londra, in margine alle manifestazioni del Black Lives Matter, qualcuno ha imbrattato la statua di Winston Churchillin Parliament Square, scrivendoci sopra le parole “era un razzista”. La sera stessa, un giovane dal volto coperto avrebbe detto a un reporter della BBC di esser stato lui l’autore di quella scritta, motivando così il suo gesto: “Ho etichettato così la statua di Churchill perché lui era un razzista incallito. Ha combattuto i nazisti per proteggere il Commonwealth dall’invasione – non lo ha fatto per i neri, né per la gente di colore, né per alcun altro popolo. Lo ha fatto soltanto per il colonialismo. La gente si arrabbierà – ma io sono arrabbiato per il fatto che per tanti anni noi siamo stati oppressi”.

    Il caso del Belgio e del re Leopoldo II

    In Belgio, all’inizio di giugno, diverse statue del re Leopoldo II (1835-1909) sono state deturpate; ad Anversa una statua del monarca è stata prima vandalizzata e poi rimossa.

    La statua del re Leopoldo II del Belgio in Place du Trône a Bruxelles. Una petizione ne ha chiesto la rimozione. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Leopold_II_Statue_at_Place_du_Tr%C3%B4ne_-_panoramio.jpgLa statua del re Leopoldo II del Belgio in Place du Trône a Bruxelles. Una petizione ne ha chiesto la rimozione. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Leopold_II_Statue_at_Place_du_Tr%C3%B4ne_-_panoramio.jpg

    Parallelamente il movimento Reparons l’Histoire ha rivolto al comune di Bruxelles una petizione per chiedere la rimozione di tutte le statue di Leopoldo II dal territorio cittadino, a cominciare da quella sulla place du Trône.

    Come è noto, Leopoldo II ricevette nel 1885 dal Congresso di Berlino la sovranità sullo “Stato libero del Congo”, che governò e sfruttò come un suo possedimento privato fino al 1908. Nella petizione si legge questa descrizione del monarca:

    “Riconosciuto come un ‘re costruttore’ e non come un ‘re sterminatore’. Un eroe per alcuni ma anche un carnefice per un grande popolo. Nell’arco di 23 anni quest’uomo ha ucciso più di dieci milioni di congolesi, senza aver messo mai piede in Congo. Per 23 anni utilizzò il popolo congolese come un mero strumento per la produzione della gomma, un prodotto altamente richiesto a quell’epoca. Le persone che vivevano nelle regioni dove si produceva la gomma erano oppresse da un enorme carico di lavoro, a volte persino disumano”.

    La petizione, che alla data del 1° luglio era stata firmata da oltre ottantamila persone, indicava come termine ultimo per la rimozione delle statue il 30 giugno 2020, giorno in cui è caduto il sessantesimo anniversario dell’indipendenza della Repubblica Democratica del Congo. Un’altra petizione, che chiede al contrario di mantenere in piedi le statue, ha raggiunto alla stessa data oltre ventimila firme.

    Per il momento, le statue di Leopoldo II non sono state rimosse. Ma il 30 giugno, per la prima volta, il re del Belgio Filippo ha espresso il proprio rincrescimento per gli atti di violenza e le sofferenze inflitte dai belgi ai congolesi durante il periodo coloniale. Lo ha fatto con una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi, nella quale ha anche riconosciuto che il dolore per queste ferite del passato è ravvivato dalle discriminazioni ancora oggi troppo presenti nella società belga.

    "La Francia non abbatterà alcuna statua"

    Per quanto riguarda la Francia, occorre anzitutto ricordare un episodio avvenuto poco prima che si scatenasse il movimento Black Lives Matter. Il 22 maggio scorso a Fort-de-France e a Schœlcher, nel dipartimento francese d’oltremare della Martinica, alcuni manifestanti hanno abbattuto due statue di Victor Schœlcher, l’uomo che scrisse il decreto col quale il governo francese abolì la schiavitù in tutte le sue colonie il 27 aprile 1848. A quanto pare, l’accusa contro Schœlcher è di aver indennizzato lautamente gli schiavisti e di aver oscurato con la sua fama i protagonisti locali della lotta contro la schiavitù.

    Successivamente, dopo l’esplosione delle proteste antirazziste a Parigi e in altre città, il Presidente della Repubblica Emmanuel Macron, in un discorso pronunciato domenica 14 giugno, ha messo in guardia contro il rischio che la “nobile battaglia” contro il razzismo degeneri in “comunitarismo” e ha preso una posizione molto ferma contro gli attacchi ai monumenti. Ha dichiarato infatti che la Francia “non cancellerà alcuna traccia o nome della sua storia, non abbatterà nessuna statua”.

    Ma questo intervento non ha impedito che diversi monumenti venissero presi di mira nei giorni seguenti. Giovedì 18 giugno, a Parigi, alcuni militanti antirazzisti hanno posto un drappo nero sulla statua del generale Joseph-Simon Gallieni, eroe della prima guerra mondiale, ma anche ispiratore della dura repressione della resistenza della popolazione del Madagascar al dominio coloniale francese (quando fu governatore dell’isola dal 1896 al 1905).

    Qualche giorno dopo, le statue del filosofo illuminista Voltaire – che trasse profitti dal commercio degli schiavi – e del generale e amministratore coloniale Hubert Lyautey (1854-1934) sono state imbrattate con vernice rossa.

    Infine, sempre a Parigi, la statua di Jean-Baptiste Colbert, che si trova davanti all’Assemblea nazionale, è stata cosparsa di vernice rossa e sul suo piedistallo è apparsa la scritta “negrofobia di stato”. Come tutti sanno, Colbert fu ministro di Luigi XIV, ed ebbe un ruolo fondamentale nella riorganizzazione amministrativa, giudiziaria e soprattutto finanziaria dello Stato francese, realizzata negli anni del “Re Sole”; meno noto è il fatto che Colbert fu anche l’ispiratore del «Code Noir», un decreto emanato nel 1685 (due anni dopo la sua morte), che regolamentava la condizione degli schiavi nell’impero coloniale francese.

    James Cook "simbolo del colonialismo e del genocidio" degli aborigeni australiani

    All’altro capo del mondo, in Australia, è stato naturalmente il grande navigatore inglese James Cook (1728-1779) a divenire bersaglio di polemiche.

    Due statue di Cook sono state deturpate a Sidney e una petizione che chiede la rimozione della statua dell’esploratore inglese a Cairns ha raccolto oltre dodicimila firme.

    La petizione si apre con queste parole: “Dal 1972 la statua di James Cook in Sheridan Street si erge come simbolo del colonialismo e del genocidio. E’ uno schiaffo in faccia a tutti i nativi. Per noi rappresenta le spoliazioni, le migrazioni forzate, la schiavitù, il genocidio, il furto delle nostre terre, e la perdita della nostra cultura – insieme a molte altre cose”.

    Il Primo ministro australiano, Scott Morrison, ha difeso Cook e l’eredità del colonialismo, dicendo che l’Australia era un tempo un paese “alquanto brutale”, ma non c’era la schiavitù. Questa affermazione ha scatenato un coro di critiche: in molti hanno ricordato che la schiavitù, o quantomeno il lavoro forzato, furono praticati anche in Australia e nelle isole del Pacifico. E il Primo ministro si è visto costretto a fare marcia indietro:ha chiesto scusa e ha ammesso che i nativi australiani furono spesso trattati in modo crudele.

    Milano chiama Roma: dalla statua di Montanelli alla via dell'Amba Aradam

    Infine, echi del Black Lives Matter sono arrivati anche in Italia, e pure da noi non è mancato qualche episodio di contestazione relativo a statue e nomi di strade.

    A Milano i “Sentinelli”[4] hanno chiesto di cambiare l’intitolazione dei giardini dedicati a Indro Montanelli  e di rimuovere la statua del giornalista che si trova nello stesso parco. Con la seguente motivazione: ‘Montanelli ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale’. Qualche giorno dopo la statua è stata imbrattata  di vernice rossa e sul suo basamento sono comparse le scritte “razzista, stupratore”. Il gesto è stato rivendicato dal gruppo “Rete Studenti Milano” e dal “LuMe” (Laboratorio universitario Metropolitano). Vale la pena ricordare che la statua di Montanelli era già stata imbrattata l’8 marzo del 2019, quella volta con vernice rosa lavabile, per mano di attiviste del movimento femminista “Non Una Di Meno”.

    Il monumento a Indro Montanelli nei Giardini Pubblici a lui dedicati vicino Porta Venezia a Milano. Lo scorso 13 giugno la statua è stata imbrattata con vernice rossa. https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Monumento_a_Indro_Montanelli_Giardini_Pubblici_P.ta_Venezia.jpgIl monumento a Indro Montanelli nei Giardini Pubblici a lui dedicati vicino Porta Venezia a Milano. Lo scorso 13 giugno la statua è stata imbrattata con vernice rossa. https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Monumento_a_Indro_Montanelli_Giardini_Pubblici_P.ta_Venezia.jpg

    L’atto di accusa dei detrattori di Montanelli si riferisce a fatti ben noti perché raccontati più volte da lui stesso. Quando arrivò in Africa nel 1935 come comandante di compagnia del XX Battaglione Eritreo, formato da ascari, Montanelli, che aveva allora 26 anni, prese come compagna un’adolescente abissina, secondo la tradizione locale. La ragazzina si chiamava Destà. «Per tutta la guerra, come tutte le mogli dei miei ascari, riuscì ogni quindici o venti giorni a raggiungermi ovunque mi trovassi, in quella terra senza strade né carte topografiche»[5].

    Alla medesima volontà di “decolonizzare” gli spazi pubblici si ricollegano due episodi avvenuti a Roma. Nella notte tra il 18 e il 19 giugno alcuni attivisti della “Rete Restiamo umani” hanno affisso cartelli con i nomi di George Floyd e Bilal Ben Messaud[6] sulle targhe toponomastiche di via dell'Amba Aradam, nome di un massiccio montuoso a nord di Addis Abeba, dove nel 1936 le truppe del maresciallo Badoglio sconfissero l'esercito etiope in una cruenta battaglia, nella quale gli italiani fecero uso anche di gas asfissianti. La stessa notte al Pincio è stata imbrattata la statua del generale Antonio Baldissera, che fu a capo delle truppe italiane in Eritrea dal 1887 al 1889[7]. Anche questa seconda azione è stata rivendicata dalla “Rete Restiamo umani”, che ha spiegato le proprie ragioni in un lungo messaggio su Facebook, che si apre con queste parole:

    “Black Lives Matter: Dagli Stati Uniti alle sponde del Mediterraneo non si fermerà la protesta. In fermo sostegno alle e ai manifestanti che a partire da Minneapolis hanno riempito le piazze di decine di città del mondo per manifestare contro il razzismo strutturale e hanno deposto simboli di un passato coloniale sempre rimosso, iniziamo ora a smantellare i simboli del colonialismo nella Capitale”.

    Conclusione

    Gli attacchi alle statue e ai monumenti di personaggi storici assunti come simboli dello schiavismo, del razzismo e del colonialismo non sono una cosa nuova. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna gli abbattimenti e le rimozioni di queste ultime settimane appaiono spesso come l’esito di campagne avviate da molti anni. Il fatto nuovo è che, sfruttando l’onda delle grandi manifestazioni di protesta suscitate dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis, molte statue sono state effettivamente abbattute o rimosse, a volte col plauso delle autorità locali. Inoltre il movimento ha assunto in alcuni casi un’ampiezza tale da invocare – a torto o a ragione - un profondo ripensamento del modo in cui la storia della moderna società occidentale è stata scritta e raccontata finora. Anche per questo motivo gli attacchi alle statue delle ultime settimane sono stati oggetto di molte riflessioni e commenti da parte di opinionisti, editorialisti, e anche di storici, sui quali mi soffermerò in un prossimo articolo, nel quale illustrerò anche le ragioni per cui questo argomento ha un interesse didattico: da un lato, infatti, l’insegnamento della storia non può ignorare i diversi modi in cui questa viene vissuta e raccontata nel presente; dall’altro lato, le controversie intorno ai monumenti dei grandi personaggi del passato sono un’occasione per sviluppare ricerche e dibattiti e per stimolare un approccio critico da parte degli studenti.    

    [1]Le citazioni tratte da articoli in inglese o in francese sono state tradotte in italiano da me.

    [2]Vedi ad esempio
    https://www.repubblica.it/esteri/2020/06/10/news/usa_statue_colombo_abbattute_e_vandalizzate-258873826/?ref=search

    [3]Così lo definisce il "Guardian" nell'articolo citato, precisando che Rees è il primo sindaco nero del Regno Unito eletto direttamente dai suoi concittadini.

    [4]Vedi il mio articolo del 15 luglio 2019 su “Historia ludens”.

    [5]I “Sentinelli” di Milano si autodefiniscono nel loro sito web come “un movimento informale nato tra il serio e il faceto nell’autunno del 2014 che si contrappone a tutti i soprusi, discriminazioni e violenze che colpiscono la vita di molti: dagli omosessuali ai migranti, dalle vittime di stalking alle vittime di razzismo, dalle donne ai malati desiderosi di un fine vita dignitoso”.

    [6]Informazioni e citazione tratte da
    https://www.corriere.it/esteri/20_giugno_11/proteste-statue-nessuno-tolga-montanelli-suoi-giardini-f35060ec-ab4f-11ea-ab2d-35b3b77b559f.shtml.

    [7]Migrante tunisino morto a Porto Empedocle il 20 maggio scorso mentre cercava di raggiungere terra.

    [8]Baldissera fu anche governatore della colonia Eritrea per un breve periodo nel 1896. Su di lui vedi 
    http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-baldissera_(Dizionario-Biografico)/.

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