riforma dei programmi

  • Cambiare i programmi? Le buone proposte che possono diventare cattive

    di Antonio Brusa

    1. Una buona idea: aumentiamo le ore di storia.

    Insegnare è difficileInsegnare è difficile

    Delle tre proposte di riforma dell’insegnamento storico, che Mariangela Caprara formula su “il Mulino” di settembre, la seconda è quella da sottoscrivere senza esitazione. Questa: «L’incremento delle ore settimanali di storia, distinta dalla geografia (sul cui insegnamento sarebbe auspicabile una seria riflessione a parte), sempre fino alla conclusione dell’obbligo scolastico, è il secondo passo indispensabile. Un numero di ore adeguato è necessario non già per trasmettere una grande quantità di informazioni/nozioni, ma per consentire lo svolgimento della didattica anche in forma laboratoriale e collegata con le realtà territoriali (musei, biblioteche, archeoclub, associazioni)».

     

    Quante ore in più? Mi accontenterei di tornare agli assetti pre-riforma Moratti: con gli insegnanti di area storico-geografica delle elementari che potevano gestire 9 ore settimanali; gli insegnanti delle medie che usufruivano di quattro ore la settimana, con un “bonus” di 30 ore per quelli di terza, per insegnare Educazione Civica, e con il reintegro degli orari specifici delle superiori. Certamente: ricordo molto bene le lamentele dei colleghi degli anni ’80-’90 (che il tempo non bastava, che il programma era troppo vasto ecc.). Ma i tagli che a quegli orari sono stati operati dal duo Moratti-Gelmini (la prima li ha pensati, la seconda realizzati), sono talmente disastrosi che sarei soddisfatto se tornassimo alle dotazioni di venti anni fa. Si è perso da un terzo a oltre la metà del vecchio curricolo di studi, col trucchetto della geostoria, l’abolizione dei moduli nelle elementari e l’introduzione di un’Educazione alla Cittadinanza che, in qualche istituto, porta la Storia, la Geografia e l’Educazione Civica a materie da un’ora la settimana.

    Scrissi allora che Gelmini, volendo introdurre una nuova disciplina, ne stava eliminando tre. È quello che sta, purtroppo, accadendo.

    Credo che qualsiasi discorso sullo stato della conoscenza storica nelle nostre scuole non possa che transitare da queste forche caudine: avete diminuito le ore. Come potete pensare che l’insegnamento non tenda a peggiorare?

    2. Può andar peggio? Sì

    In realtà, il fondo non è stato raggiunto e possiamo ancora peggiorare. E un potente incentivo a farlo viene involontariamente, proprio dai buoni propositi di alcuni colleghi. Ne è un esempio la prima, delle proposte di Mariangela Caprara. Eccola:

    «Che fare? Innanzitutto, va ripristinato il sistema “a spirale” dell’apprendimento dei contenuti, con la ripetizione di tutto il percorso cronologico dalla preistoria all’età contemporanea in 5 (scuola primaria) + 5 (medie + biennio = assolvimento dell’obbligo scolastico) + 3 anni, tenendo conto del limite attuale dell’obbligo scolastico, ossia i 16 anni».

    Attenzione: non conviene invertire i tempi. PRIMA occorre la certezza della restituzione delle ore; DOPO si può pensare ad una diversa distribuzione della materia. Prendiamo il caso della primaria. Attualmente, la storia generale inizia in quarta (e non in terza, come scrive Caprara) e si completa con la secondaria di primo grado. Se, come si suggerisce, si tornasse al vecchio programma SENZA l’incremento di ore corrispondente, gli insegnanti di primaria dovrebbero svolgere l’intera storia generale, avendo a disposizione una o due ore la settimana (si varia a seconda degli istituti). Se già al tempo della ministra Falcucci (metà degli anni ’80), l’insegnante elementare, pur disponendo di un numero di ore molto maggiore, si lamentava del fatto che non riusciva a “terminare il programma”, in quali condizioni lo metterebbe il compito di lavorare su tutta la storia, con il risicato monte ore di cui dispone oggi?

    3. Il male minore, purtroppo.

    Quindi: INNANZITUTTO, restituite a storia/geografia le ore perse. Poi battaglieremo su che storia insegnare e come insegnarla. Altrimenti, la soluzione che a suo tempo fu elaborata da Moratti, cioè quella di “spalmare” il vecchio programma triennale della media in cinque anni, resta la via d’uscita meno dolorosa. Non conviene invertire i tempi nemmeno per quanto riguarda gli assetti strutturali. Oggi, il grande problema del primo ciclo è la difficoltà di saldare il lavoro dei maestri con quello dei professori. È denunciato da molti, ma si fa poco per suggerire proposte (e realizzarle). Eppure, nella maggior parte dei casi, entrambi lavorano nel medesimo istituto comprensivo. Nella proposta di Caprara, di un ciclo composto da medie+biennio (perdonatemi le vecchie definizioni, ma sono enormemente più veloci), si pensa che il collegamento fra i due gradi, corrispondenti a istituti che spesso non hanno nulla in comune, sia più facile?

    Probabilmente, la collega Caprara, pur insegnando in un Liceo Classico, non ha presente la realtà degli insegnanti del biennio, che si trovano una classe composta da allievi che provengono da istituti i più disparati. Come faranno, quei docenti, ad “agganciarsi” all’insegnamento precedente, se non a partire da una “comprensivizzazione” (passatemi il termine) di media e biennio? E quando questa venisse prospettata, quale sarebbe il destino del liceo classico?

    È il caso di ricordare che il timore di mettere mano all’assetto quinquennale della secondaria superiore è di quelli che immediatamente fanno scattare proteste corali, guidate spesso proprio dai sostenitori del Liceo Classico.

    4. La terza proposta di Caprara

    «Il terzo passo è il più difficile, perché è il più rivoluzionario: affidare l’insegnamento della storia esclusivamente a laureati in storia, chiudendo così la stagione, non proprio felice, della storia insegnata insieme all’italiano e alla filosofia da laureati in discipline non storiche, sia alle medie sia alle superiori».

    Si tratta di una delle richieste più antiche dei colleghi storici, e la questione di apparentamenti disciplinari che penalizzano la Storia è un topos di quasi tutti gli interventi didattici del dopoguerra.

    Confesso che, quando facevo parte della Commissione De Mauro, e vi si ragionava di un’area geo-storico-sociale, pensai realmente che fossimo vicini alla soluzione di questo annoso problema. Forse sognavo: due ore di storia, due di geografia e una di scienze sociali/educazione civica. Cinque ore la settimana lungo tutto il curricolo. Ne viene una cattedra che sta su tre/quattro classi. Gestibile dal docente, che si avvantaggia di una “presenza” in aula significativa e rispettata dall’allievo.

    Erano tempi nei quali si poteva pensare anche ad una formazione coerente tra i vari gradi di scolarità. Infatti, ne parlai con i colleghi della mia Facoltà e in poco tempo varammo un corso di laurea in Storia e Scienze Sociali. In tante altre Facoltà non si pensò diversamente. Certamente, non si trattava del professore di “sola storia”. Ma la compagnia delle scienze sociali e della geografia è indubbiamente più consona al nostro mestiere di quella, pur rispettabile, dei letterati e dei filosofi.

    StoriaStoria

    Finì come sapete. O forse no. Forse tutti conoscono le traversie universitarie, il crollo dei corsi di laurea. Ma non è altrettanto noto che ci sono istituti scolastici nei quali un insegnante combina nella sua cattedra nove ore di geografia, o nove di educazione alla cittadinanza in nove classi diverse. 270 allievi: di che qualità dell’insegnamento possiamo parlare?

    Né è più appagante la cattedra di chi entra in classe per due ore la settimana. Il fatto è che, con l’autonomia, di insegnanti di “sola storia” ce ne sono già in giro, e non sembrano gli insegnanti più felici del mondo. Chi insegna, sa quanto “vale” agli occhi del discente un insegnante da un’ora/due la settimana, per quanto questi possa essere uno “specialista della disciplina”.

    Conti della serva, conti penosi. È vero. Ma se non li teniamo presenti, rischiamo di produrre degli specialisti condannati a essere professori ben oltre l’orlo della crisi di nervi.

    5. Tempi di riforma

    Si avvicinano i tempi della riforma dei programmi. Non so se questo è stato il motivo che ha sollecitato «Il Mulino» a pubblicare l’articolo di Caprara (che peraltro interviene frequentemente sia questa rivista, sia sul blog Le parole e le cose, molto attento alle questioni scolastiche). Ma sono abbastanza sicuro che, non appena si cominceranno a conoscere i risultati dei lavori delle Commissioni, che credo già all’opera, a questo articolo (e a qualcun altro che nel frattempo è già apparso) ne seguiranno degli altri.

    Spero che la discussione pubblica non perda di vista il contesto nel quale le riforme si debbono realizzare, e lasci perdere principi astratti, per nulla supportati da riscontri scientifici (come la pretesa superiorità dell’insegnamento ciclico a spirale). Per quanto mi riguarda, non ho nulla contro l’idea di fare del blocco media+biennio il cuore del curricolo verticale di storia, che credo di essere stato il primo a formulare in Italia alla fine degli anni ’90 (quando ne scrissi, i burocrati del Ministero inventarono, per descriverla, il termine “scavalco”, fortunatamente andato in disuso).

    Ma perché questa riforma sia fattibile, occorrono altre condizioni. Allora, con il primo governo Prodi, pensammo che si potessero ottenere. Ci eravamo sbagliati. Ma possiamo ritenere da quegli errori la consapevolezza che mettere in atto un dispositivo formativo verticale, senza avere la garanzia di precisi collegamenti fra i gradi scolastici che lo debbono mettere in pratica, non sia un’operazione saggia.

    Se si volesse andare indietro negli anni, e cercare che cosa non ha funzionato, alcuni elementi balzano agli occhi con evidenza tale, da non poter essere trascurati. Il primo è la mancanza di aggiornamento sui programmi della scuola di base, pur essendosi questi auto-presentati come innovativi. Il fondo che ha finanziato, per esempio, l’aggiornamento del programma Profumo è stato così irrisorio da giustificare la diffusa ignoranza del dettato legislativo. Ne è una prova autorevole la stessa Caprara che non sa che la storia generale inizia in quarta, che non sa che NON è per nulla suggerito di studiare i dinosauri in terza (come aveva invece prescritto la Moratti) e che le attività propedeutiche del primo triennio elementare devono avere precisi caratteri storici (quindi vi si può proporre lo studio della storia, anche contemporanea). Ma la prova più evidente di questa disattenzione generale è che i manuali sono costruiti in omaggio a un senso comune diffusissimo nelle scuole, che è appunto quello di una terza elementare concepita come un kindergarten della preistoria.

    Il secondo è che i programmi che attualmente sono in vigore nella secondaria superiore, a differenza della scuola di base, si presentano come restaurativi. Riprendono, a volte quasi alla lettera come per la parte Medievale, le indicazioni dei programmi del 1960. Programmi allora innovativi, oggi nati vecchi di mezzo secolo.

    Questi fatti (insisto: fatti) presentano al legislatore due problemi. Il primo è quello di armonizzare un curricolo discontinuo. Deve decidere, e deve affrontare su una base chiara il confronto con la scuola. Il secondo è che (vuoi per la mancanza di aggiornamento disciplinare nella scuola di base, vuoi per la volontà politica nelle superiori), lo zoccolo duro dell’insegnamento storico italiano è ancora quello tradizionale. Se si vuole cambiare per migliorare le cose, è lì che bisogna agire.

     

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  • Insegneremo storia o “italianità”?

    di Massimo Baldacci e Antonio Brusa

     

    Immagine WhatsApp 2025 01 20 ore 17.34.13 a4a9b213 Dopo aver letto l’intervista che l’on. Valditara ha rilasciato al “Giornale”, abbiamo deciso di scrivere il documento che alleghiamo. Lo abbiamo sottoposto a tanti colleghi universitari e di altre istituzioni culturali e moltissimi (in 147) lo hanno firmato con convinzione: storici, geografi, filosofi, pedagogisti e di altre discipline. Ora lo proponiamo agli insegnanti e ai cittadini sensibili alle questioni scolastiche. Non chiediamo a nessuno giudizi prematuri sulla riforma, né tantomeno di esprimere un rifiuto di principio al lavoro della Commissione. Chiediamo di riflettere sulla questione centrale di questa riforma, e cioè la sua dichiarata finalità identitaria. La storia serve per tramandare a ragazzi e ragazze “l’italianità”, o per insegnare loro a conoscere il mondo nel quale vivranno? Qui non c’entrano né partiti, né ideologie personali, né il favore o meno che si può concedere a questo governo. C’entrano il senso del nostro lavoro di insegnanti e la salvaguardia del carattere scientifico della nostra disciplina. Se condividete questa preoccupazione, vi prego di inviare la vostra adesione a questo link, gestito da Proteo: https://forms.gle/hLjhanPgSghzRvru8.

    Lo sappiamo tutti: più siamo, più la nostra voce sarà forte.

     

    Il documento

    Il ministro dell’istruzione e del merito on. Valditara, il 15 gennaio, ha rilasciato al Giornale un’intervista in cui anticipa alcuni elementi delle nuove Indicazioni curricolari nazionali, formulate da una commissione presieduta da Loredana Perla (e di cui fa parte anche Ernesto Galli della Loggia, autore con lei del volume Insegnare l’Italia, 2023).

    Ovviamente, le anticipazioni contenute in questa intervista non sono sufficienti per formulare un giudizio organico e circostanziato sulle nuove Indicazioni. Per questo sarà necessario attendere il documento elaborato dalla commissione. Tuttavia, il senso dell’intervista è quello di aprire la discussione e cercare di influenzarla ancor prima dell’uscita del documento. Infatti, il dibattito che si è acceso, sui social – specie fra insegnanti – e sui media fra storici, scrittori e giornalisti, si è rapidamente articolato in tante sottoquestioni, fra le quali primeggiano lo studio della Bibbia e del latino e la ricorrente nostalgia della buona scuola di una volta, rischiando di mettere in secondo piano quello che questa riforma propone come tema fondamentale. Tale tema è se un intero programma di studi possa essere finalizzato a uno scopo politico, quale quello della costruzione (o della salvaguardia) di un’identità collettiva, e se a questo debba essere subordinato l’apprendimento di discipline scientifiche, quali in particolare la storia e la geografia (ma non dimentichiamo la riduzione della letteratura a contenitore di valori identitari). A questo proposito, appare emblematico il passaggio dell’intervista circa l’insegnamento della storia: “L’idea è quella di sviluppare questa disciplina come una grande narrazione, senza caricarla di sovrastrutture ideologiche, privilegiando inoltre la storia d’Italia, dell’Europa, dell’Occidente”. Appare evidente la coerenza con l’idea di una scuola il cui primo compito è quello di formare un’identità collettiva, e in particolare un’identità nazionale italiana, che rappresenta il leitmotiv del libro di Galli della Loggia e Perla. Questa sembra la questione fondamentale che sta alla base di tutta l’operazione. Si tratterebbe, a dispetto delle parole del ministro, di una scelta ideologica, che andrebbe a scapito del profilo scientifico del curricolo, e quindi del suo autentico valore formativo.

    Certamente, vogliamo sperare che queste perplessità siano dissipate dal documento elaborato dalla commissione, del quale una breve intervista non può dare un resoconto esauriente. Nel frattempo, sollecitiamo gli insegnanti, gli studiosi e le associazioni professionali a prendere consapevolezza della posta in gioco e a discuterla. È una scelta strategica per la scuola italiana, che non può passare nel silenzio della scuola e della politica.

    Massimo Baldacci (presidente nazionale di Proteo) e Antonio Brusa (presidente della Società Italiana di Didattica della storia)

     

    Hanno sottoscritto il documento (in ordine alfabetico)

    Pietro Adamo, unito
    Salvo Adorno, unict
    Ilaria Agostini, unibo
    Gabriella Agrusti, Lumsa
    Roberto Alciati, unifi
    Emiliano Alessandroni, uniurb
    Margherita Angelini, unikore
    Stefano Azzarà, uniurb
    Duccio Balestracci, unisi
    Giuseppe Barone, unict
    Claudio Bazzocchi, Crs
    Anna Emilia Berti, unipd
    Carmen Betti, unifi
    Piero Bevilacqua, Sapienza
    Fabio Bocci, uniromatre
    Antonio Bonatesta, uniba
    Beatrice Borghi, unibo
    Francesca Borruso, uniromatre
    Alessandra Bulgarelli, unina Federico II
    Roberto Buttini Gattai, unifi
    Franco Cambi, unifi
    Mimmo Cangiano, unive
    Luigi Cajani, Sapienza
    Stefano Calonici, unisi
    Paolo Cammarosano, units
    Glauco Maria Cantarella, unibo
    Antonio Cantaro, uniurb
    Vittorio Caporrella, unibo
    Guido Carpi, unina Orientale
    Annastella Carrino, uniba
    Simone Casini, unipg
    Alessandro Cavalli, Accademia nazionale dei Lincei
    Francesca Chiarotto, uniupo
    Salvatore Cingari, unipg per stranieri
    Livio Ciappetta, unicusano
    Piero Colla, Osservatorio europeo sull'insegnamento della storia
    Mino Conte, unipd
    Pasquale Cordasco, uniba
    Elisabetta Corsi, Sapienza
    Cristiano Corsini, uniromatre
    Rita Cosma, Sapienza
    Giuseppe Cospito, unipv
    Carmela Covato, uniromatre
    Marco Cuaz, univda
    Stefano D’Atri, unisa
    Costanza D’Elia, unicas
    Giuliano De Felice, uniba
    Valeria Deplano, unicag
    Tommaso Detti, unisi
    Angelo d’Orsi, unito
    Liliana Dozza, unibz
    Tiziana Drago, uniba
    Lea Durante, uniba
    Maurizio Fabbri, unibo
    Pasquale Favia, unifg
    Alessandra Ferraresi, unipv
    Vincenzo Ferrone, unito
    Silvia Fioretti, uniurb
    Paolo Fioretti, uniba
    Roberto Fineschi, unisi
    Francesco Fistetti, uniba
    Marcello Flores, unisi
    Filippo Focardi, unipd
    Gianni Francioni, unipv
    Fabio Frosini, uniurb
    Filippo Galletti, unibo
    Alessandra Giannelli, uniba
    Carlo Greppi, storico
    Alexander Hobel, unina Federico II
    Lutz Klinkhammer, Istituto storico germanico Roma
    Alessandro Lagioia, uniba
    Rosanna Lamboglia, unibas
    Cristina Lavinio, unicag
    Tiziana Lazzari, unibo
    Guido Liguori, International Gramsci Society
    Isabella Loiodice, unifg
    Pietrangelo Lombardi, unipv
    Gennaro Lopez, uniromatre
    Giancarlo Macchi Janica, unisi
    Elena Madrussan, unito
    Rosario Mangiameli, unict
    Brunello Mantelli, unical
    Roberto Maragliano, uniromatre
    Carla Marcellini, ISM
    Berta Martini, uniurb
    Chiara Massari, Iveser
    Alfio Mastropaolo, unito
    Ivo Mattozzi, unibz
    Andrea Micciché, unikore
    Maria Elisa Micheli, Accademia nazionale dei Lincei
    Maria Chiara Michelini, uniurb
    Gian Giacomo Migone, unito
    Giuseppe Monsagrati, Sapienza
    Massimo Montanari, unibo
    Domenico Mugnolo, uniba
    Marcello Mustè, Sapienza
    Giovanni Muto, unina Federico II
    Melania Nucifora, unict
    Elisabetta Nigris, unimibicocca
    Nadia Olivieri, Ivrr
    Enrico Pagano Istorbive
    Daniele Palermo, unipa
    Salvatore Palifds, unige
    Walter Panciera, unipd
    Matteo Pasetti, unibo
    Manoela Patti, unipa
    Rossano Pazzagli, unimol
    Irene Piazzoni, unimi
    Pietro Pinna, unito
    Tiziana Pironi, unibo
    Stefano Pivato, uniurb
    Adriano Prosperi, Accademia nazionale dei Lincei
    Chiara Pulvirenti, Sapienza
    Giulia Quaggio, Università Complutense di Madrid
    Giuseppe Raciti, unict
    Alice Raviola Blythe, unimi
    Francesco Remotti, unito
    Renzo Repetti, unige
    Mario Ricciardi, unibo
    Maria Grazia Riva, unimibicocca
    Laura Ronchi, Sapienza
    Francesca Roversi Monaco, unibo
    Saverio Russo, unifg
    Biagio Salvemini, uniba
    Salvatore Santuccio, unirc
    Andrea Savio, unipd
    Daniele Serapiglia, Università Complutense di Madrid
    Giuseppe Sergi, unito
    Elisa Signori, unipv
    Maria Sternini, unisi
    Maura Striano, unina Federico II
    Pietro Themelly, Sapienza
    Elisabetta Todisco, uniba
    Marica Tolomelli, unibo
    Maria Tomarchio, unict
    Raffaele Tumino, unimc
    Ira Vannini, unibo
    Pietro Vereni, uniromadue
    Marcello Verga, unifi
    Carlo Verri, unipa
    Elisabetta Vezzosi, units
    Giacomo Vignodelli, unibo
    Claudia Villani, uniba
    Francesco Violante, uniba
    Andrea Zagli, unisi
    Alberto Ziparo, unifi

  • Mobile qual piuma al vento. L’identità collettiva e i programmi di storia.

    di Antonio Brusa 

    2024 07 23 12 59 06 Lega Pontida cambia pelle e diventa anti Islam si farà nellanniversario della La notizia che vedete riportata in foto (“Repubblica”, 22/07, 2024) non è solo la testimonianza dell’ennesima giravolta identitaria del più antico partito italiano, ma è la prova che, talvolta e miracolosamente, la storia giunge in soccorso della scuola, proprio come le galeazze di Venezia a Lepanto o, se vogliamo dirla tutta, come i cavalieri alati polacchi all’assedio di Vienna.

    Qual è il rischio che la scuola sta correndo? Ne abbiamo già parlato tanto su HL, che basterà accennare ai dinosauri  che impedirebbero ai ragazzi di dotarsi di una salda identità italiana, e al libro Insegnare l’Italia, che potremmo considerare la summa ideologica della Commissione Galli Della Loggia/Perla per la riforma dei programmi. Ora, non pretendiamo affatto di convincere il decisore politico a suon di Remotti, Amselle, Rivera, Gallissot, Amartia Sen (e decine e decine di altri studiosi), che l’identità collettiva è un costrutto politico, potenzialmente dannoso, che non ha nessuna possibilità di riferirsi alle caratteristiche essenziali di una collettività, posto che se ne possa trovare una lista che metta d’accordo i membri della stessa. Finalmente, è uno stesso partito della maggioranza, presumibilmente dalla stessa parte del Ministro, che ci offre l’opportunità di suggerirgli di lasciar perdere con l’identità e di concentrarsi sulla storia.

    Vogliamo mettere per iscritto i fatti elementari? Al principio degli anni ’80, la Lega aveva come simbolo identitario Alberto da Giussano. Hai voglia a scrivere saggi per avvisarli di non fare brutte figure, perché si trattava di un personaggio inventato. Loro no, hanno sguainato lo stesso gli spadoni e sono andati a Pontida, a proclamare la loro identità padana e antiromana: chissà poi perché, dal momento che l’antica Lega Lombarda, quella originale, era sostenuta dal papa de Roma. Poi si sono scocciati delle armature medievali, si sono innamorati dei celti, e sono riandati a Pontida con le corna e i treccioloni biondi. Poverini, del tutto ignari che la più bella tomba celtica italiana si trova a Canosa e che, chissà, Lino Banfi ne potrebbe incarnare l’avatar moderno con maggiore credibilità. Ma loro no. I celti sono del Nord contro il Sud, e noi siamo celti, hanno ribadito convinti. E oggi, saltando dalla Protostoria all’Età moderna, si immedesimano in quei guerrieri/marinai che fermarono il pericolo turco a Lepanto, nel 1571. Forse si ritroveranno con qualche nostalgico ungherese, col dente ancora avvelenato per la batosta di Mohacs, certamente con dei viennesi fieri del loro cornetto anti-islamico, ma credo che Marine Le Pen si sfilerà, come fecero i suoi antenati, che ai tempi di Lepanto erano talmente filoturchi che sarebbero stati espulsi con ignominia dal Rassemblement National.

    Quindi, caro Ministro, lasci l’identità a quella variopinta schiera di cosplayer della storia. Non trasformi l’aula di storia in quel prato divertente che è diventato Pontida. Pensi a una disciplina seria, amata da tanti insegnanti che vorrebbero farla imparare per bene. E se vuole proprio ottenere la gratitudine di tutti, a qualsiasi identità facciano riferimento, restituisca le ore che la Gelmini tolse, permetta alle professionali di studiare storia tranquillamente, assegni all’educazione civica e all’orientamento ore proprie e non rubate ad altre discipline. E per quanto riguarda l’identità, ci lasci liberi di costruircela come vogliamo, con le trecce bionde e senza.

  • Valditara, i dinosauri e l’ossessione identitaria

    di Antonio Brusa

    Immagine1  È diventata virale la dichiarazione del ministro Giuseppe Valditara sui dinosauri e sul fatto che questi – e le altre eccessive conoscenze previste nei programmi attuali - impediscono di concentraci sull’essenziale e, perciò, impongono l’urgente progettazione di nuovi programmi, più snelli e più adatti a capire il mondo contemporaneo. E così, i dinosauri sono diventati l’argomento principale di discussione in rete, forse anche nelle scuole, e ci accingiamo ad assistere a non so quanti talk show dove si discetterà sull’alternativa spinosa “dinosauri sì/dinosauri no”. Ora, fermo restando che sono totalmente d’accordo con quanto scrive Enrico Bucci, ricercatore presso la Federico II, su “Il Foglio”, e cioè che i dinosauri, se studiati bene, ci possono insegnare molte cose, alquanto utili anche per i nostri tempi, direi che, se vogliamo proprio parlarne, occorre farlo sulla base dei documenti.

    Veramente i programmi vigenti prescrivono lo studio dei dinosauri e sono ingolfati da una massa ingestibile di argomenti? Ecco il testo incriminato:

    “… il curricolo sarà articolato intorno ad alcuni snodi periodizzanti della vicenda umana quali: il processo di ominazione, la rivoluzione neolitica, la rivoluzione industriale e i processi di globalizzazione e di mondializzazione” (Indicazioni 2012).

    Dunque, i contenuti fondamentali del quinquennio che va dalla quarta primaria alla fine della secondaria di primo grado sono quattro/cinque. Mi sembra che l’essenziale quei programmi lo indichino con precisione. A questo nucleo obbligatorio segue un invito ad “aggiornare” gli altri argomenti soliti di una programmazione (e quindi a rivedere i manuali, cosa ahimè che non accade di frequente, vedi il caso della piramide feudale), ma che spetta al docente inserire in un progetto la cui stesura, stando ad un dettato costituzionale che nessun decreto ministeriale può intaccare, è di sua stretta competenza.

    Dunque: le Indicazioni del 2012 segnalano un nucleo solido, fatto di pochi argomenti, intorno al quale il docente può articolare il suo curricolo. E questa storia inizia col processo d’ominazione, ben sessanta milioni di anni dopo la scomparsa dell’ultimo dinosauro. Se il Ministro voleva un programma essenzializzato e senza dinosauri, ce l’ha già. Basterebbe farlo funzionare.
    Già, perché la pratica, come sovente accade nelle scuole, non ha molto a che vedere con la norma. E’ vero, perciò, che in molte scuole si disegnano dinosauri a più non posso (con grande soddisfazione dei bambini, riconosciamolo) e, soprattutto, che gli insegnanti si affannano, per esempio in quarta, a spiegare tutti i popoli del Vicino Oriente, facendosi un problema se hanno saltato gli Ittiti o non ce la fanno a spiegare i Micenei. Quindi, la domanda lecita è: da dove nascono queste abitudini, con le conseguenti angosce didattiche?

    I documenti ci danno una risposta precisa. Queste angosce vengono dalle Indicazioni programmatiche del 2004, promulgate dalla Ministra Letizia Moratti. Sono queste che annullano i “vecchi” programmi della Ministra Franca Falcucci (di tutt’altra pasta: e occorrerà parlarne), e introducono nel secondo biennio della primaria (dunque nelle classi seconda e terza) l’argomento “La terra prima degli uomini”, spalancando la porta ai dinosauri. E poi, se si ha la pazienza di leggere tutti gli allegati di quel lunghissimo testo, e contare gli argomenti di studio obbligatori, si vedrà che superano largamente il centinaio, bloccando in definitiva l’autonomia progettuale del docente.

    Quei programmi, almeno da questo punto di vista, piacquero tanto che – nonostante le correzioni dei due programmi successivi (Fioroni e Profumo) - i sussidiari hanno continuato a mettere la preistoria in terza (cosa non prevista dai programmi 2012) e a infarcirli degli argomenti soliti, dando al docente l’impressione che, in fondo, nulla era cambiato, nemmeno per i dinosauri.

    Se, perciò, il ministro vuole un programma essenzializzato senza dinosauri, può tenersi tranquillamente quello del 2012, e magari darsi da fare per eliminare le scorie lasciata dalla sua predecessora Moratti. 

     

    Immagine2  Dietro i dinosauri, la politica identitaria

    A meno che l’obiettivo sia un altro: quello di riprendere il lato “politico” di quei programmi. E, cioè, il fatto che erano programmi identitari, che ambivano a trasformare la scuola in una fabbrica di ragazzi dall’identità “giudaico-cristiana” (letterale). Un aspetto di quei programmi che le scuole avevano saggiamente messo da parte, e che ora Valditara vorrebbe imporre. I dinosauri (mi dispiace tanto per loro) sono solo un paravento. Dietro c’è l’obiettivo politico serio. Trasformare la storia da disciplina di studio a strumento identitario, come si apprende nel libro che Loredana Perla, presidente della Commissione di studio che dovrà redigere i nuovi programmi, ha scritto insieme a Galli della Loggia, e del quale si può leggere la recensione di Luigi Cajani su HL). Con le parole di Francesco Remotti, potremmo dire che è l’identità, e non i dinosauri, a ossessionare il Ministro. Ma anche su questo punto, i programmi del 2012 dicono qualcosa che è bene leggere ancora, per capire che il vero contraddittorio sarà fra un curricolo identitario di storia, orientato alla costruzione di una collettività di cittadini che si sentono italiani, quale che sia la loro origine, e un curricolo cognitivo/scientifico, nel quale la storia è uno strumento di comprensione della società che va “dato in dotazione” a tutti i cittadini, quale che sia la loro origine, se vogliamo che partecipino responsabilmente alla vita di una società democratica. Sono due obiettivi che nel discorso politico sono accettabili, per quanto rigorosamente opposti: ma non lo sono dal punto di vista scientifico. E questo è bene sottolinearlo. Nel primo modello di curricolo, infatti, la storia è asservita a uno scopo esterno alla disciplina; nel secondo, non può che essere utilizzata nella sua corretta natura di scienza sociale. Come scrisse Roger Cousinet, uno studioso di didattica storica molto noto nelle elementari di un tempo, “tutte le volte che insegnate la storia in nome di qualcosa di diverso, insegnate qualcosa di diverso”. Non la storia. Ma ecco il testo:

    Identità, memoria e cultura storica.

    Nei tempi più recenti, il passato, e, in particolare i temi della memoria, dell’identità e delle radici hanno fortemente caratterizzato il discorso pubblico e dei media sulla storia. Un insegnamento che promuova la padronanza degli strumenti critici permette di evitare che la storia sia usata strumentalmente, in modo improprio.

    Inoltre la formazione di una società multietnica e multiculturale porta con sé la tendenza a trasformare la storia da disciplina di studio a strumento di rappresentanza delle diverse identità, con il rischio di comprometterne il carattere scientifico e, conseguentemente, di diminuire l’efficacia formativa del curricolo.

    È opportuno sottolineare come la ricerca storica e il ragionamento critico sui fatti essenziali relativi alla storia italiana ed europea offrano una base per riflettere in modo articolato ed argomentato sulle diversità dei gruppi umani che hanno popolato il pianeta, a partire dall’unità del genere umano. Ricerca storica e ragionamento critico rafforzano altresì la possibilità di confronto e dialogo intorno alla complessità del passato e del presente fra le diverse componenti di una società multiculturale e multietnica. Per questo motivo, il curricolo sarà articolato intorno ad alcuni snodi periodizzanti della vicenda umana, quali: il processo di ominazione, la rivoluzione neolitica, la rivoluzione industriale e i processi di mondializzazione e di globalizzazione. 

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