storia identitaria

  • Del pasticcio dell’Educazione civica e dei suoi legami ambigui con la storia

    di Antonio Brusa

    A. L’educazione civica

    Una materia senza identità

    Che sia un pasticcio se ne sono accorti quei dipartimenti di storia che già si sono dati da fare per organizzare l’insegnamento dell’educazione civica, la cui introduzione - dal settembre successivo all’entrata in vigore della legge - è stata votata dalla Camera il 2 maggio di questo anno 2019. Che sia “un pasticcio” lo ha dichiarato in Parlamento uno dei tre astenuti, l’on. Gabriele Toccafondi (Gruppo Misto), ex sottosegretario al Miur nel governo Gentiloni. Una dichiarazione fatta in buona compagnia, nonostante la legge sia stata approvata – tra la soddisfazione generale - con una maggioranza che in altri tempi si sarebbe definita bulgara. Infatti, scorrendo il resoconto stenografico delle dichiarazioni di voto si constata che, sia pure con accenti diversi e pur votando a favore, quasi tutti i gruppi parlamentari ribadiscono le obiezioni di Toccafondi: la nuova materia non ha un insegnante dedicato, sarà difficile conciliare i contenuti disparati che prevede, mentre la quadratura del cerchio viene demandata alla bravura di un coordinatore che dovrebbe tirare le fila di lezioni e interventi didattici che potrebbero anche essere distribuiti fra tutte le discipline (e ricavarne un voto unico in pagella). Infine, dulcis in fundo, non vengono stanziati fondi sufficienti per formare queste nuove figure, o ricompensare adeguatamente un lavoro di coordinamento che - al dire dell’on Patrizia Prestipino (Pd), che da professoressa di lettere lo conosce bene - è massacrante.

    Certamente, si dovranno attendere le circolari applicative, per capire come se ne viene fuori. Ma alcune manifestazioni di malcontento, immediatamente apparse in rete, ci lasciano intuire che la soluzione di questo pasticcio sarà alquanto complicata, dal momento che dovrà tenere conto non solo di risvolti didattici, amministrativi e – come vedremo – teorici e culturali, ma anche di una non trascurabile questione di organico.

    L’educazione civica senza volto. Immagine scelta dall’Apidge per criticare la proposta di LeggeFig. 1. L’educazione civica senza volto. Immagine scelta dall’Apidge per criticare la proposta di Legge

    Le “gravi perplessità”, espresse a stretto giro di posta dal coordinamento degli insegnanti dell’area A046 (gli insegnanti di area giuridica), infatti, rivelano che a premere per la nuova disciplina c’è una legione di 18 mila insegnanti di diritto, che, stanchi di essere assegnati all’organico di potenziamento o al sostegno, aspirano a una propria cattedra, non solo nelle superiori, ma anche nella scuola di base. Lo auspica, nella sua dichiarazione di voto per conto del M5S, l’on. Elisabetta Maria Barbuto - lei stessa insegnante di materie giuridiche in una secondaria superiore di Pisticci e membro del coordinamento nazionale della sua disciplina – forse cercando di placare le rimostranze dei colleghi delusi. “Non è l’educazione civica che volevamo”, “è una farsa”, “siamo arrabbiatissimi” – infatti - aveva protestato senza mezzi termini, l’Apidge (Associazione dei docenti di economia e diritto) alla vigilia della discussione parlamentare «Un miscuglio della specie peggiore», ha rincarato la dose, dopo l’approvazione della legge.

    Un’educazione civica alla Mary Poppins

    Ascoltando l’on. Virginia Villani (M5S) che presenta in aula la proposta di legge Luciano Corradini confessa la sua commozione. L’onorevole – che è una dirigente scolastica - lo chiama “maestro” e ne cita ripetutamente il pensiero. Con qualche ragione, dal momento che Corradini ha lavorato ostinatamente, per oltre vent’anni, con ministri di ogni partito (da Lombardi, a Galloni, a Dini, a Fioroni, a Gelmini) per raggiungere l’obiettivo di introdurre questa materia. Ci era quasi riuscito con Mariastella Gelmini, ma la cosa finì nel nulla e lui, che pure era stato osannato dalla ministra, fu rapidamente messo da parte (qui c’è la cronistoria analitica di quella vicenda). L’occasione della rivincita, dunque, è giunta?

    Certo, scrive Corradini, meglio di niente. Ma aggiunge subito che non c’è nulla da celebrare, a meno di non attendersi dei miracoli da quel docente coordinatore che, “come Mary Poppins, dovrà volare da una disciplina all’altra”, nella disperata impresa di armonizzare “tutto quel ben di dio contenuto nei dodici articoli della legge”. Una buona legge sull’educazione civica – aveva proclamato Virginia Villani, facendo proprie le raccomandazioni che Corradini stesso aveva ricordato pochi giorni prima del dibattito - deve rispettare due regole: non deve essere troppo povera di cultura educativa e non si deve caricare di ogni genere di problema. Ebbene, ribatte il pedagogista, sono appunto queste le regole che la nuova legge infrange.

    Un’educazione a costo zero

    Da settembre una riforma che costa zero. Torna l’educazione civica come materia sui banchi di scuola”. In questa dichiarazione trionfale, fatta dall’on. Matteo Salvini (Lega-Salvini premier) a Firenze, un mese prima della discussione parlamentare, il vicepresidente del Consiglio trasforma in motivo di vanto proprio quell’assenza di finanziamenti, causa non secondaria del pasticcio che stiamo analizzando. Che dovesse essere una riforma a costo zero era deciso fin dal principio di questa vicenda, dal momento che la proposta originale della Lega, del giugno del 2018, si chiudeva con la medesima clausola di salvaguardia finanziaria che sigilla la legge attuale.

    Questo particolare avrebbe meritato di essere portato a conoscenza di tutti e discusso con maggiore insistenza. L’on. Anna Ascani(pd), intervistata da Radio Radicale, lo annovera tra i “piccoli difetti della legge”. Ma nella dichiarazione di voto era stata più tranchant: “Dobbiamo essere onesti perché va detta la verità ai cittadini: questa proposta di legge non introduce un'ora in più di educazione civica al di fuori dell'orario che c'era e chi oggi dice il contrario dice semplicemente una bugia, dà un pessimo esempio e non fa educazione civica”.

    Il ministro Bussetti correda i suoi post su fb con disegni inviati al Miur dai bambiniFig. 2. Il ministro Bussetti correda i suoi post su fb con disegni inviati al Miur dai bambini

    Per quanto abbia scandagliato la rete, non ho trovato una gran voglia di spiegare questo aspetto della questione. Nei suoi numerosi post, Matteo Salvini – che del ritorno dell’educazione civica ha fatto un motivo ricorrente della sua comunicazione - si appella al buon senso, al rispetto che bisogna portare ai docenti, al grembiule da ripristinare, fino ai ceffoni che i genitori dovrebbero dare ai propri figli. Nel video, messo in rete dall’aereo che lo porta in Ungheria “a costruire la nuova Europa”, annuncia di aver reintrodotto l’educazione civica come materia obbligatoria, col pollice levato esclama “promessa mantenuta”, e chiude lì la questione.

    Eppure, agli staff che ormai presiedono alla comunicazione di chi governa, non dovrebbero essere sfuggiti i numerosi commenti che sottolineano la faccenda dell’organico e, conseguentemente, i risvolti finanziari e contrattuali della legge. Fra le risposte al post nel quale il ministro Bussetti annuncia il voto positivo alla Camera, leggo quest’accusa - “Avete appioppato una disciplina, perché di questo si tratta, a tutti i docenti” - lanciata da una professoressa siciliana, seguita da altri colleghi che lamentano – apparentemente inascoltati - la vaga trasversalità della nuova disciplina, chiedono a quali materie verranno tolte le ore, fanno osservare che, più che un mancato investimento, si tratta di un autentico taglio di risorse.

    Unanimità nella diversità

    Una seconda causa del pasticcio è interamente politica. In tutte le presentazioni della legge si sottolinea come questa sia il frutto della convergenza di 16 proposte diverse e di una legge di iniziativa popolare, corroborata da una petizione dell’Anci che ha raccolto 100 mila firme (per la precisione, le proposte 682-734-916-988-1166-1182-1425-1464-1465-1480-1485-1499-1536-1555-1576-1696-1709-A). Un successo politico, dal momento che questa unanimità è del tutto inusuale nel nostro Parlamento, ma che ha un suo costo. L’accordo ha fatto gonfiare la legge originaria, portandola da 4 a 12 articoli. “Ogni forza politica ha voluto metterci del suo”, rivela Anna Ansani nell’intervista citata sopra. Gli effetti di questa coralità si apprezzano negli artt. 3 e 5.

    Il quadro degli obiettivi dell’Agenda 2030Fig. 3. Il quadro degli obiettivi dell’Agenda 2030

    Lo studio della Costituzione italiana, già richiamato con forza nel primo articolo della legge, è anche in cima agli obiettivi dell’articolo 3. È senza dubbio l’elemento condiviso da tutte le forze politiche. Queste, poi, si sono date da fare per imbandire di ogni “ben di dio”, continuando a citare Corradini, una tavola dove le eccellenze agroalimentari stanno accanto all’inno e alla bandiera nazionali, accompagnate da un plotone di educazioni (ambientale, allo sviluppo sostenibile, alla legalità, al patrimonio, all’identità, ai beni comuni, stradale, della salute e al volontariato) e dai ben diciassette obiettivi dell’Agenda 2030. A tutti questi occorrerà aggiungere l’educazione all’antimafia, richiesta nel corso del dibattito e subito accettata dal governo, mentre non possiamo che registrare il disappunto dell’on. Laura Boldrini (LeU) che non ha visto accogliere la proposta di introdurre l’educazione sentimentale.

    Nell’articolo 5 si sviluppa una delle competenze citate nel 3, quella digitale. Vi leggiamo la capacità di valutare l’affidabilità delle fonti, comunicare con gli altri con tutta la varietà delle risorse digitali, di informarsi attraverso la rete e utilizzarla per dibattere pubblicamente, ovviamente conoscendo le norme comportamentali dovute, di proteggere la propria identità digitale e di salvaguardarsi dai rischi che si corrono navigando in rete o usando troppo il computer.

    Se quattrocento ore vi sembran poche

    Trentatré ore l’anno, dalla primaria alle superiori, sono oltre 400 ore. Un’enormità, se le confrontiamo, ad esempio, con un corso universitario di Diritto Costituzionale: questa fu l’obiezione letale con la quale Ernesto Galli della Loggia stoppò il progetto Gelmini. Eppure – spalmate lungo tutto il curricolo e distribuite a spaglio fra il corpo docente - è illusorio pensare che bastino per realizzare un piano formativo adeguato alle richieste di questa legge. O, per converso, che ci sia una figura professionale capace di sobbarcarsi un simile impegno, o anche solo di fornire continuità alla miriade di interventi nella quale questa disciplina si sfrangerebbe: tanto che appare realmente audace l’autoproposizione dei docenti di diritto che, in una petizione online a Matteo Salvini, affermano che “con la loro esperienza e la loro preparazione hanno, senza dover essere formati, (sottolineatura mia) le competenze necessarie per poter insegnare questa materia”.

    Quattrocento ore, inoltre, diventano pochissime, se erogate, come si dice negli interventi alla Camera, “un’ora la settimana”. È una questione che qui, su HL, abbiamo già visto a proposito della storia e della geografia anch’esse, ormai in molti istituti, materie da un’ora, e come tali destinate alla sottovalutazione degli allievi (come sanno bene gli insegnanti).

    Chi lavorerà alle direttive applicative dovrà sudare per ricavare da questo lungo elenco di desiderata parlamentari un progetto “concreto e di buon senso”, come promesso dall’on. Massimiliano Capitanio (Lega-Salvini premier), promotore della proposta originaria. Per il momento, questa legge non fa altro che prelevare quattrocento ore da discipline, dove avevano un impiego comunque ragionato, per accatastarle disordinatamente in un contenitore chiamato “educazione civica”, tutto sommato di scarso rilievo nelle gerarchie di importanza degli allievi.

    Una parola baule

    Un po’ come nelle “parole baule” che lo Stregatto spiegava ad Alice, in questa educazione civica ci sono cose discordanti, che ogni relatore riconduce a un suo punto di vista. Secondo alcuni, la nuova materia sarà l’occasione per aprirsi al mondo, vivere civilmente con tutti, fare volontariato, includere i bisognosi e battersi per l’integrazione; secondo altri, invece, diventerà il santuario delle regole, dei doveri, dell’ordine e della legalità, del rispetto dei docenti. Fabrizio Foschi, che ha curato a lungo la sezione didattica di Comunione e Liberazione, sostiene che in questo testo si riconoscono due anime: di quelli che vorrebbero una cittadinanza progressiva, e di quelli che, al contrario, la vorrebbero protettiva. Lungi, però, dall’essere equidistante, il dettato legislativo pende per la versione “protettiva”. Lo prova, continua Foschi, il dato politico fondamentale dell’abrogazione di Cittadinanza e Costituzione (art. 2), la versione chiaramente “progressiva” contenuta nella Legge 107/2015.

    Forse con più evidenza lo prova il dibattito alla Camera, vista l’assenza degli accenni, sintomatici dei sostenitori della “cittadinanza progressiva”, alle cittadinanze mondiale e europea; visti i frequenti richiami ad alcune questioni tratte di peso dalle pagine di cronaca nera e alle quali – nelle attese che si scorgono dietro le dichiarazioni di principio - questa legge dovrebbe concretamente provvedere. Lo si nota particolarmente nel caso della educazione digitale. I propositi di introdurla sono lodevoli, in un’ “epoca della democrazia cognitiva, in cui si è cittadini pienamente soltanto se si conosce come le informazioni vengono formate e come le si può utilizzare” (Ascani). Ma, nei più, la paura prende il sopravvento: cyberbullismo, il sexting e il revenge porno, lo stalking e ogni genere di cyber crime sono citati come i mali sociali da contrastare (Gelmini). Internet è ottima cosa, ma al tempo stesso “fonte di molteplici insidie da cui stare alla larga”, avverte Elisabetta Barbuto. “Di fronte a questi fatti gravi – ammonisce l’on. Paola Frassinetti (FdI) - tutti diciamo “ah se avessero avuto un’ora in più di educazione a scuola questo non sarebbe accaduto”. “Se l’avessimo fatto prima – incalza Massimiliano Capitanio - forse non ci sarebbero stati suicidi da cyberbullismo”.

    In realtà, i governi precedenti si erano già fatti carico a più riprese di queste preoccupazioni e, al contrario di questo, con investimenti cospicui: basti pensare al Piano Scuola Digitale, finanziato con ben 185 milioni di euro, o al progetto Generazioni connesse o a quello significativamente intitolato “Basta bufale” ), promosso a suo tempo dalla ministra Valeria Fedeli e da Laura Boldrini, allora presidente della Camera. Ma ciò che importa non è sfruttare le risorse che lo stesso Miur ha accumulato, o valutarne gli effetti in modo da evitare la reiterazione di decreti inefficaci, quanto piuttosto intestarsi un messaggio di rassicurazione da inviare agli elettori.

    D’altra parte, a questa preoccupazione securitaria non è insensibile nemmeno l’opposizione: la stessa Laura Boldrini quando rimprovera i colleghi di non aver accolto l’educazione sentimentale, argomenta che questa sarebbe stata un ottimo strumento “per riuscire a contrastare il fenomeno della violenza sulle donne”.

    Dove tutti sono d’accordo

    Come abbiamo già notato, la promozione dello studio della Costituzione è un elemento che accomuna i gruppi parlamentari. Vi sono altre convergenze. La prima è il fatto che ci si attende, da questa materia, il raggiungimento di una coesione sociale, della quale evidentemente si lamenta la mancanza nella società italiana. La nuova educazione civica deve inculcare negli allievi il senso di appartenenza alla comunità. Lo dichiara l’on. Antonio Tasso (Gruppo misto), il primo a intervenire. Lo seguono Paola Frassinetti, che unisce “senso civico e appartenenza” ed Elisabetta Barbuto, la quale vorrebbe che, studiando questa materia, gli allievi italiani si sentissero parte integrante della società.

    Dei diversi temi di questa legge, questo sembra riscuotere un largo consenso fuori dall’aula. Fra i tanti, Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci, pur auspicando un radicale intervento migliorativo del Senato (va sottolineato che i sindaci chiedevano un’ora in più da aggiungere al curricolo), apprezza il senso dell’appartenenza che questa legge sollecita. Giorgio Chiosso, pedagogista e storico dell’educazione, elogia il fatto che l’educazione civica possa spingere gli allievi a “sentirsi comunità”. Carlo Troilo, giornalista, intervenendo già alle prime avvisaglie della legge, ne sostiene la necessità, motivandola col fatto che non è importante solo conoscere i valori della Repubblica, ma è necessario metterli in pratica per poter vivere insieme.

    Questo insistere sulla funzione sociale e pragmatica della legge ci invita a guardare sotto una nuova luce il secondo punto di convergenza: l’esaltazione unanime del portato formativo della Costituzione. Certo, ci sono gli aspetti cognitivi. Diversi sottolineano il fatto che bisogna conoscere, per poter mettere in pratica. Ma sembrano fare scuola le parole di Mariastella Gelmini: “non vogliamo che gli allievi studino a memoria la Costituzione, ma che la pratichino, giorno per giorno, nella vita quotidiana”. La Costituzione, dunque, il testo che definisce l’impianto e le regole della Repubblica, viene reinterpretata come un breviario morale, che deve istillare negli allievi dei comportamenti virtuosi (un “catechismo”, scrisse a suo tempo Galli della Loggia).

    Nulla di nuovo e di particolarmente insolito, per questa disciplina che, fin dai tempi della sua prima proposta, di Aldo Moro, nel 1958, era vista come un’attività di formazione al confine fra “la scuola e la vita”. Per questo motivo non poteva essere oggetto di sole lezioni (si legge in quel testo) ma doveva essere anche vissuta nell’organizzazione scolastica. L’educazione civica, quindi, era una disciplina composita, da insegnarsi a vari livelli: quello diffuso, presente in tutte le discipline; quello pratico, della concreta vita dell’istituzione scolastica; quello specifico, infine, dato dalla storia. Su questa natura ancipite dell’educazione civica si sono esercitati molti studiosi (da Alessandro Cavalli a Bruno Losito fino allo stesso Corradini, per citare solo gli italiani), e molti e diversi sono i “bilanciamenti” fra i vari livelli, che osserviamo nelle tante leggi, italiane e estere (Ho affrontato questo tema insieme con Fabio Fiore in Educazione civica e storia, in Lorenzo Luatti, Educare alla cittadinanza attiva. Luoghi, metodi, discipline, Carocci, Roma, 2009, pp. 198-209).

    Lo strano e l’insolito di questa legge è la semplificazione brutale dei livelli, quasi a decretare la fine di questa tradizionale polivalenza, a tutto vantaggio della sola funzione pratico-sociale-morale. Non può non sorprendere il fatto che nessun relatore faccia qualche accenno a come una data materia - scientifica o umanistica - potrebbe concorrere a questa formazione, né che indicazioni di questo genere siano riportate nelle Linee guida (il confronto con la profusione di suggerimenti del testo di Moro sarebbe illuminante, a questo proposito). E, all’interno di questo contesto, ha un significato preciso il fatto che la storia non venga mai citata nel suo tradizionale rapporto privilegiato con l’educazione civica (con una sola eccezione, che vedremo a momenti).

    L’educazione civica come “antidisciplina”

    Il fatto nuovo è che questa materia sembra per i deputati italiani una sorta di “antidisciplina”. La sequenza delle citazioni non può che impressionare. Esordisce Antonio Tasso, mettendo in opposizione lo studio delle tabelline e dei verbi (che si fa, secondo lui) con quello della Costituzione (che non si fa); seguono Gabriele Toccafondi, per il quale la scuola non è un insieme di discussioni e la “vita non si impara sui libri”. Gli fa eco un “basta al nozionismo” di Elisabetta Barbuto, mentre Paola Frassinetti sottolinea che “educazione non significa mero apprendimento”. Anna Ascanio accenna a una periodizzazione della storia della scuola, nella quale, a un primo periodo dedicato all’apprendimento, che – secondo lei – si è ormai concluso con successo, ne dovrebbe seguire un altro nel quale troverebbe spazio la nuova materia, e si interroga: “la scuola serve per trasmettere nozioni o qualcos’altro”?

    Sembra di respirare, ascoltando questi interventi, un’aria familiare e antica. È come se nell’aula parlamentare si allestisse un reenactement dei dibattiti ai tempi della fondazione del sistema scolastico italiano, quando i difensori dell’educazione lottavano a spada tratta contro i sostenitori dell’istruzione. Solo che, oggi, questi ultimi si sono dileguati, mentre l’aula parlamentare, apparentemente all’unisono, si ritrova nella perorazione finale di Elisabetta Barbuto, per la quale la nuova legge deve condurre a “una società vera, a misura d'uomo e dei suoi autentici valori, i valori insegnati a scuola, i valori che vogliamo lasciare ai nostri figli”.

     

    B. Educazione civica e storia

    Un esemplare cattivo uso della storia (e di Tucidide)

    Paola Frassinetti prova a teorizzare: “È un concetto – dice - quello dell'educazione, che pare essere diventato un po' desueto, forse perché depauperizzato dal suo valore sostanziale, invece tutto si fonda sull'educazione. Educazione è diverso da formazione, è diverso da competenze, si rifà alla vecchia paidéia”. Poi, sull’onda del richiamo al mondo classico, chiude il suo intervento augurandosi che venga scolpita nella mente dei ragazzi questa frase: “Sapere cosa fare, saperlo spiegare agli altri, amare la propria patria, essere incorruttibili”, che attribuisce a Tucidide, ma che lo storico greco non si sognò mai di scrivere. Infatti, si tratta di un assemblaggio di espressioni scollegate, tratte dalla Guerra del Peloponneso (II, 60) e adattate alla bell’e meglio. È un pastiche che circola in rete e che, per ironia della sorte, è ricavato da un discorso di Pericle che significa proprio il contrario di quello che vorrebbe la deputata.

    Ce lo spiega Luciano Canfora, informandoci che, in quel discorso, Pericle non esaltava le virtù del cittadino ateniese, ma le proprie. Era un momento brutto per lui. Lo volevano far fuori e lui si difese magnificando la propria intelligenza politica (capire in anticipo le cose e spiegarle agli altri) e una incorruttibilità, alla quale ormai in pochi credevano ad Atene, visto che era già andato a processo per appropriazione indebita.

    Pericle parla agli AteniesiFig. 4. Pericle parla agli Ateniesi

    Un piccolo infortunio per chi sta promuovendo l’educazione civica come antidoto alle bufale in rete. Ma un cattivo uso della storia, se guardiamo questo riferimento al mondo classico dal punto di vista sostanziale. Franco de Anna utilizza anche lui Tucidide, ma ne ricava una conclusione che fa a pezzi l’impianto ideologico di questa legge (Educazione alla cittadinanza e raccolta differenziata). Secondo lo storico greco - scrive riferendosi questa volta al primo discorso di Pericle agli Ateniesi (II, 41) - è la città che “nel suo insieme è una impresa educativa”. Era, naturalmente, la città dei tempi antichi. Se quelle dei giorni nostri non ci riescono più, sarebbe logico concludere che la scuola difficilmente potrà sostituirle, soprattutto se presumerà di realizzare questa impresa con un’ora la settimana e senza soldi.

    In realtà, ora continuiamo ad ascoltare Canfora, non fu la città, in quanto comunità, a farsi formatrice. Il vero educatore fu lui, Pericle, tiranno e maestro efficace, che indusse i cittadini ateniesi ad assumere quei comportamenti e quei valori, senza i quali la democrazia non avrebbe potuto reggersi. Ci riuscì attraverso una politica, culturale e sociale, intelligente e dispendiosissima, e aprendo ai concittadini un futuro dal fascino irresistibile. Dall’accostamento storico, sollecitato dall’on. Frassinetti, dovremmo trarre una conclusione che alla deputata non farebbe piacere: e che, cioè, attraverso questa legge, il mondo politico odierno scarica sulla scuola un’incombenza alla quale non riesce più ad attendere.

    Un buon antidoto contro l’uso improprio della storia ateniese, frequente nelle scuole quando si affrontano temi di educazione civica e, come stiamo vedendo, anche nel Parlamento italiano, potrebbe essere questo articolo dell’on. Gavino Manca (Pd).

    Moro, l’educazione civica e la storia

    Nelle Linee guida, come in molti interventi, il richiamo ad Aldo Moro sembra voler nobilitare le origini di questa legge. Il grande statista, infatti, non solo richiamò l’importanza dell’educazione civica all’Assemblea costituente, ma fu il primo a introdurre questa disciplina nell’ordinamento scolastico della Repubblica, quando divenne ministro della Pubblica Istruzione.

    Purtroppo per la buona volontà dei relatori, questa filiazione non è credibile. Il testo di Moro non condivide quasi nulla con quello di Bussetti. La diversità riguarda, da una parte, il concetto di educazione civica, e, dall’altra, il suo rapporto con la storia.

    Se si supera la barriera del linguaggio enfatico della pedagogia del tempo, infatti, e ci si inoltra nella lettura delle due paginette di Aldo Moro, si scopre una proposta che oggi definiremmo curricolare, perché spiega che cosa insegnare nella scuola elementare, cosa nel settore intermedio (allora diviso fra media e avviamento: ma, si sottolinea, l’educazione civica non poteva che essere uguale per tutti); cosa infine studiare nel tratto finale: “una storia comparativa del potere, nelle sue forme istituzionali e nel servizio”. Vi si parla di diverse discipline, come diritto e economia, ma – si precisa - è con la storia che l’educazione civica “ha dialogo più naturale, e perciò più diretto, essendo a questa concentrica”.

    Questo “dialogo” diventa più chiaro cinque anni dopo, nel 1963, quando vengono emanati i programmi della nuova scuola media. Ecco il testo di quella legge: “I profondi nessi esistenti fra storia ed educazione civica postulano che i due insegnamenti, affidati al medesimo docente, vengano condotti e sviluppati in un quadro di intima correlazione anche se è compito di tutti gli insegnanti far risaltare gli aspetti educativi, relativi al dettato costituzionale, in tutti i momenti utili del loro lavoro. I collegamenti con l’educazione civica sono suggeriti fin dalla prima media ma solo nella classe terza sarà possibile – sia per l’età e l’esperienza raggiunta dagli allievi, sia per la più intima connessione con il programma di storia – uno studio più organico di nozioni costituzionali e una maggiore precisazione di forme e caratteri delle nostre istituzioni civili” (“Gazzetta Ufficiale”, supplemento al n. 124, 11 maggio 1963, ora in G. Di Pietro, Da strumento ideologico a disciplina formativa. I programmi di storia nell’Italia contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 1991, pp. 406-7).

    In questa raccomandazione vediamo che la funzione educativa generale è demandata all’insieme delle discipline. Tutti i professori sono chiamati a rammentare ai propri allievi quel rapporto fra la “vita” e i principi della Costituzione, auspicato da Moro. Ma il compito essenziale viene affidato al docente di terza media. Per sostanziare questo mandato, gli vengono consegnate quelle due ore mensili, che nel testo di Moro andavano a costituire il monte ore di Educazione Civica. Nell’anno finale della nuova scuola dell’obbligo, dunque, il docente aveva 98 ore a disposizione (68 di storia e 30 di Ed.Civ.) per realizzare il suo piano di lavoro annuale, come allora si chiamava il progetto formativo. E tali restarono, fino a che la ministra Gelmini, col pretesto di introdurre la nuova materia “Cittadinanza e Costituzione”, non eliminò quelle trenta ore in più.

    Si comprende meglio questa focalizzazione sulla storia contemporanea, se pensiamo che proprio al principio degli anni ‘60, con la riforma del ministro Giacinto Bosco, cade l’embargo sulla parte finale del programma (dalla Prima Guerra mondiale in poi), stabilito nel dopoguerra (Per queste notizie mi servo del bel libro di Monica Galfré, Tutti a scuola!, Carocci 2017). Il disegno pedagogico è inequivocabile: se vogliamo educare i nuovi cittadini, questi devono conoscere il mondo nel quale vivono. Quelle riforme precisavano che la “concentricità” della quale parlava la legge di Aldo Moro si ritrovava in particolar modo nella storia dell’oggi, e indicava che non si poteva essere cittadini italiani senza conoscere la storia del fascismo, della seconda guerra mondiale e delle vicende della ricostruzione post-bellica (allora, eventi naturalmente vicinissimi), fino alla storia “dei giorni nostri”. Stabiliva, conseguentemente, che la Costituzione stessa doveva essere compresa nel contesto storico nella quale era stata elaborata e nel quale la nazione aveva cominciato a viverla.

    Il rapporto tra educazione civica e storia è il misuratore più efficace del baratro che separa il testo di Moro da quello di Bussetti. Lì, la relazione era quasi esclusiva e, addirittura, centrale nel nuovo ordinamento. “L’unione fra storia e educazione civica era considerata l’anima della nuova scuola media” (Galfré, p. 206). Qui, la storia è confusa nell’insieme delle discipline, e tutte insieme annegano nel mare delle educazioni. Da quel rapporto stretto con il sapere disciplinare emergeva un profilo “cognitivo” di cittadino, che diventa tale quando conosce il mondo nel quale vive. Al contrario, dalla legge attuale è perfino difficile estrarre un profilo del cittadino, tali e tanti, e così contraddittori, sono i contenuti e le finalità che si assegnano a una materia, che per giunta si qualifica per le sue istanze anti-cognitive.

    Quella direttiva era onesta con gli insegnanti: introduceva una nuova disciplina e ne aggiungeva le ore relative, per non parlare dell’incredibile investimento di denaro che accompagnò quella stagione di riforme. Questa sottrae ore e risorse, e, di conseguenza, ne scarica la realizzazione sulle spalle dei docenti e sugli artifici organizzativi delle scuole.

    L’educazione civica e la storia, fra identità e conoscenza.

    In effetti, il programma di storia della nuova scuola media stava provando a rompere la lunga tradizione che – fin dall’Ottocento – aveva stretto insieme educazione civica, identità nazionale, genealogia della nazione e storia. Era un programma che faceva intravvedere un nuovo statuto disciplinare, nel quale non ha spazio l’idea di passato come origine della nazione, strumento per la difesa della patria e dell’identità culturale (concetti significativamente assenti in quel testo). Attraverso la storia, vien detto proprio nell’esordio, gli allievi “impareranno a conoscere gli aspetti caratteristici della vita dei vari popoli”. Il passato non viene chiamato in causa come fondamento della collettività, ma è strumento per “meglio intendere i problemi dei tempi nei quali gli allievi vivono”. Questa frase, tratta dal decreto che, quasi in contemporanea, sostituiva i vecchi programmi dei tecnici, è accompagnata dalla raccomandazione agli insegnanti di “governare con attenta economia lo svolgimento del programma”, in modo da arrivare alla trattazione “dei giorni nostri”, e superare “l’inconveniente, largamente diffuso, di tralasciare tutti o quasi i decenni trascorsi del nostro secolo” (D.P.R. 1222/1961, in Di Pietro, p. 403). Una raccomandazione – dobbiamo ammetterlo - che conserva ancora oggi tutta la sua validità.

    “Identità” o “conoscenza”. Questa alternativa rappresenta icasticamente l’opposizione fra il modo di concepire le due discipline (e il loro rapporto) nella tradizione otto-novecentesca – da una parte - e nell’Italia della grande trasformazione da nazione agricola a potenza industriale, dall’altra. Nella prima accezione - identitaria - le due discipline sono lo strumento che direttamente costruisce la collettività nazionale; nella seconda – cognitiva - vanno a irrobustire la dotazione critica necessaria ai cittadini che vogliono consapevolmente partecipare alla vita democratica della nazione. Fu, dunque, una rivoluzione non di poco conto, quella che i legislatori del tempo proposero: e non a caso, dietro quella riforma e i suoi programmi agiva un formidabile think tank di studiosi di varia estrazione culturale e di ogni partito. Si trattò di “qualcosa di molto simile a un miracolo”, come scrisse Silvio Lanaro nella sua Storia dell’età repubblicana (Galfrè 187 e ss.).

    Nei settant’anni seguenti, queste due maniere di intendere la formazione storica e civile si sono variamente intrecciate e scontrate. Questa contrapposizione si è fatta, man mano, sempre più esplicita e accesa. Basti pensare alle riforme di questo inizio secolo, che hanno visto i governi di Centro-destra emanare programmi identitari (in particolare i programmi della scuola di base della ministra Moratti, del 2003); mentre i due programmi del Centro-sinistra (2008 e 2012) sono chiaramente cognitivi. Ma non si tratta di una contrapposizione solo politica, dal momento che si interseca con l’altra, fra tradizione e innovazione scolastica, inaugurata appunto dai programmi del 1963. Lo dimostra il caso del programma che la Commissione De Mauro elaborò nel 2001, dichiaratamente cognitivo, nel quale l’educazione civica era compresa nell’asse geo-storico-sociale, contro il quale si “pronunciò” (così si espresse Rosario Villari) il Manifesto dei trentatré storici, molti dei quali esponenti di spicco della sinistra, scritto in nome di una visione identitaria della storia insegnata (per questa vicenda il testo di riferimento è: Luigi Cajani, I recenti programmi di storia per la scuola italiana).

    Questa premessa è necessaria per valutare l’intervento dell’on. Vittorio Sgarbi (Gruppo misto), l’unico che abbia ricordato il rapporto privilegiato fra storia e educazione civica. “Non esiste educazione civica senza conoscenza della storia” aveva esordito, richiamando, fra applausi forse riparatori, il Manifesto Il passato è un bene comune, in difesa dello studio della storia, di Andrea Giardina, Liliana Segre e Andrea Camilleri. La storia a cui pensa Sgarbi, tuttavia, appare diversa da quella evocata dal testo di Moro. Lo si intuisce dal fatto che il deputato cita le parole del ministro Bussetti, che, in visita alla mostra su Leonardo, aveva dichiarato: “noi siamo quello che siamo stati”; e poi rinforza questo concetto, richiamandosi a un’Italia profonda, che esisterebbe “prima” della formazione dello stato italiano.

    E così, l’unica volta che la storia viene citata in Parlamento, è per legare la cittadinanza alla genealogia dell’Italia. Il pendolo oscilla verso l’identitarismo, e una storia che insegna l’appartenenza alla nazione è in buona sintonia con questa educazione civica, che ne vorrebbe plasmare a scuola i cittadini modello.

    L’Italia, l’Europa e le mani sulla cittadinanza

    Sarebbe profondamente sbagliato pensare a questi fatti come al frutto esclusivo delle controversie interne al nostro paese. Se allarghiamo lo sguardo all’Europa, ci accorgiamo che essi hanno a che vedere con processi di trasformazione che hanno scosso i sistemi formativi dell’intero continente. Tre di questi mi paiono fondamentali per il nostro discorso. Li rammento brevemente.

    Il primo è il passaggio da “educazione civica” a “educazione alla cittadinanza”. E’ perfettamente leggibile nel confronto fra il testo di Moro e questo. Quello era centrato sulla politica, vista come il piano privilegiato, lungo il quale l’individuo si rapporta alla collettività. Questo stesso piano, nel testo di Bussetti, si sfarina in tante dimensioni: sociali, economiche, culturali, mediatiche, alimentari, psicologiche, ambientali. Nel rapporto Eurydice sull’Educazione alla cittadinanza (2017), ciò viene spiegato col motivo che la relazione fra l’individuo e il mondo ha cominciato a mutare in profondità nella seconda parte del Novecento e ha fatto esplodere la complessità del concetto di cittadinanza. È questo stravolgimento – e non un mero desiderio di novità pedagogica - che impone ai governi di rivedere le modalità e i contenuti della formazione del cittadino.

    Il secondo processo trae origine dall’avvento del nuovo, grande soggetto politico degli ultimi decenni, l’Europa. Un soggetto politico sovranazionale che, fra accelerazioni e pause, si è velocemente costruito in pochi decenni, e che ha bisogno di creare “i suoi cittadini”. Il Consiglio d’Europa, infatti, ha cominciato a muoversi da subito nel campo della formazione, con convegni, raccomandazioni ai governi e con iniziative di ricerca e sensibilizzazione. La strada era, più o meno, quella già percorsa dagli stati otto-novecenteschi, ma con una novità decisiva. Il bagno di sangue della seconda guerra mondiale e lo sterminio nazista sono i “traumi terribili” (scrive Alois Ecker) che hanno obbligato a rimodulare il profilo tradizionale del cittadino, difensore della patria e della identità. Il nuovo profilo è disegnato nel trattato di Lisbona del 2009. Esso promuove un individuo aperto, empatico, capace di comunicare con gli altri e che, perciò, aggiunge alla padronanza della propria lingua quella delle lingue straniere; adopera in modo saggio i mezzi di comunicazione; ha spirito di iniziativa; sa come partecipare alla vita pubblica ed è ferrato in matematica e scienze. Questo testo è la risposta politica che l’Europa dà alla “complessità del concetto di cittadinanza”: e come tale andrebbe letto, in luogo di cercarvi una sequenza velleitaria di competenze. (Per queste notizie mi servo della ricerca internazionale coordinata da Alois Ecker, docente di didattica della storia all’Università di Graz: Civic and History Teachers’ Education in Europe, Consiglio d’Europa, Brusselles 2013, del quale si legge in rete questo primo rapporto).

    Il terzo processo viene dall’Europa orientale. Dopo la caduta del muro, quei paesi hanno immediatamente riformato i sistemi scolastici e, in particolare, gli insegnamenti di storia e di educazione civica. Ma: in luogo di ispirarsi agli assetti che, in contemporanea, l’Europa occidentale si stava dando, hanno preso a modello programmi e finalità dell’insegnamento storico-civile dalla tradizione ottocentesca. Quindi, nessun trauma di guerra, nell’Europa ex comunista. Anzi, vista dalla Russia come il glorioso momento della fondazione nazionale, e dagli ex-stati satelliti come il martirio che ne santifica l’indipendenza, quella carneficina diventa il terreno su cui edificare un profilo di cittadinanza identitario e difensivo. E, in molti casi, come accade in Ucraina, fortemente caratterizzato da aspetti di aggressività (per l’insegnamento della storia in Ucraina si possono leggere i miei due articoli apparsi su “Historia Magistra”, nn. 23 e 24, 2017). Questo “vento dell’est” soffia potentemente verso occidente, e (insieme con altri fenomeni endogeni, fra i quali la reazione identitaria all’immigrazione) contribuisce a riportare in vita un nazionalismo muscolare, che sta investendo la cultura storica diffusa e, con questa, i modelli di cittadinanza degli stati occidentali.

    L’educazione alla cittadinanza e l’attacco alla storia

    Così la storia, che faticosamente cercava di liberarsi dalle pastoie della cittadinanza tradizionale, e si proponeva sempre più come “strumento per orientarsi, analizzare società complesse e gli sviluppi politici odierni” (Ecker, p. 38), viene oggi investita da più fronti. Dalla parte della “nuova cittadinanza” proviene una valanga di “educazioni” che la sommerge, tende a ridurne il peso e spinge i governi a riconfigurare il lavoro formativo in direzione di “competenze” concretamente apprezzabili dalla società e dalle famiglie. Dal versante europeo, l’UE ne ripropone la funzione antica di costruzione di appartenenze, e però, al tempo stesso, ne conferma il ridimensionamento (non è affatto un caso che la storia non sia fra le discipline citate esplicitamente nel dettato lisbonense). Dal fronte orientale, il “vento dell’est” aggiunge a questi obiettivi identitari toni di esclusività nazionalistica.

    Questi fenomeni sono l’espressione di cambiamenti profondi che andrebbero esplicitati, studiati e discussi, se si vuol aggiornare la questione della formazione dei cittadini. Al momento, essi evidenziano tristemente la fatuità dei richiami al buon senso, al grembiulino, al bullismo e agli schiaffoni paterni, con i quali il Parlamento italiano vorrebbe far loro fronte. Se una disciplina, come l’educazione alla cittadinanza, si sfrangia in cento progetti, occorrerebbe una proposta in grado di costruire una sintassi e di trasformare in un discorso razionale l’accavallarsi delle “emergenze”. Altrimenti, diventa inutile perfino discuterne del senso e della possibile efficacia. E, conseguenza non trascurabile, si finirà per accollare alla scuola il compito titanico di immaginare in che modo questa sommatoria di raccomandazioni potrebbe invogliare centinaia di migliaia di ragazzi a farsi membri attivi di una comunità.

    In coda, ecco un’osservazione, solo apparentemente marginale, ma che storici e insegnanti di storia farebbero bene ad annotare: la nostra disciplina è scomparsa dall’orizzonte della formazione del cittadino, senza che qualche deputato abbia sentito il bisogno di motivare questa scelta, e che qualcuno si sia opposto. Eppure, si tratta di una novità così radicale, nei curricola scolastici repubblicani, che ci aspetteremmo di leggere resoconti di schermaglie altrettanto vivaci di quelle sul cyberbullismo. Il silenzio unanime che ha accompagnato il commiato dell’educazione civica dalla storia ci lascia col sospetto che il Parlamento italiano non si sia reso conto della natura del processo al quale ha posto mano.

    Ma anche l’assenza di reazioni da parte degli storici è motivo di riflessione. Da qualche anno, infatti, le Associazioni di categoria sembrano aver preso consapevolezza della questione didattica. Con il Manifesto hanno raccolto un incoraggiante numero di adesioni, fra studiosi e cittadini comuni. Perché, dunque, questo silenzio? Temo ciò che dipenda dal fatto che non si è percepito il legame fra la vicenda dell’educazione civica e quell’ “attacco alla storia” che si tenta di contrastare. Forse non è chiaro che in entrambi i casi è in gioco il medesimo “contratto formativo”, a suo tempo stilato fra Stati e “produttori di storia”. Credo che da questa inconsapevolezza derivino sia la mancanza di prese di posizione sulla questione dell’educazione civica, sia una certa confusione nell’individuare le alternative verso le quali muoversi. Ne leggiamo qualche traccia nel Manifesto e negli interventi che questo ha sollecitato.

    Cosa vogliamo, noi storici, quando chiediamo un recupero di considerazione? Rimettere in vigore quel contratto antico, per quanto ripulito dalle coloriture violente del passato? Per ottenere il riconoscimento, politico e sociale, dobbiamo tornare a parlare di identità nazionali o culturali (“smarrire noi stessi e la nostra nazione”, leggo nel Manifesto). O, ancora, dobbiamo di nuovo farci promotori di identità politiche, conseguenza inevitabile di quel ruolo di custode delle “memorie che non possono essere dimenticate”, che molti assegnano alla storia? (Intorno a questo concetto ruota l’intervista a Camilleri, pubblicata da “Repubblica” a corredo del Manifesto).

    Oppure, al contrario, la storia è lo strumento per scardinare gli “spazi fittizi” che imprigionano il cittadino, in modo che la sua coscienza si apra agli “spazi sconfinati” della conoscenza del mondo (sono ancora parole del Manifesto)? È quel sapere “critico, non uniforme, non omogeneo, che rifiuta il conformismo” – è questo il suo orgoglioso incipit – che molti di noi vorremmo caratteristica fondante della cittadinanza democratica, ma che non appare certo una priorità impellente di molti governi?

    Perché se, come credo, è la seconda alternativa quella da praticare, allora non è più tempo di manifesti e di convegni. Occorrono ricerca specializzata, argomenti, dati e nuova formazione universitaria dei docenti, per convincere decisori sempre più riottosi della utilità della conoscenza storica nel profilo moderno di un cittadino.

    La battaglia nella scuola

    Dum Romae consulitur, è il caso di ripetere, la Sagunto scolastica viene man mano espugnata. Le tre richieste che chiudono il Manifesto sintetizzano un disastro che si è già compiuto - la diminuzione delle ore di storia e il disinvestimento nella ricerca storica – del quale l’abolizione della terza prova nell’Esame di stato è un simbolo potente, come ha voluto sottolineare Andrea Giardina nella sua ultima lezione alla Normale di Pisa. Attendiamo ulteriori diminuzioni, dovute alla reintegrazione di geografia, che avverrà con grande probabilità a danno della storia (come già sanno i colleghi delle professionali), mentre, lo abbiamo ricordato all’inizio, le circolari applicative ci diranno di quanto la nuova educazione civica inciderà sui curricoli delle diverse materie, e, quindi, della storia.

    Nel frattempo, la perdita di fiducia delle istituzioni nelle potenzialità formative della storia si manifesta nella sua scomparsa dall’aggiornamento delle reti d’ambito (denunciata in una lettera alla ministra Fedeli da me, allora direttore di “Novecento.org” e da Giuseppe Bagni, segretario del Cidi nazionale); nel fatto che un qualsiasi progetto di formazione storica – che si voglia far approvare dal Miur, come dall’UE, come da un assessorato alla cultura o alla scuola locali - debba essere contrabbandato sotto le voci di una qualsivoglia educazione (alla Cittadinanza, al Patrimonio o allo Sviluppo sostenibile); nel fatto, già notato, che la storia non venga quasi mai citata nelle liste di competenze desiderabili, che il Consiglio di Europa non cessa di inviare ai vari governi.

    Apparentemente, la scuola si sta lasciando scorrere addosso questi processi senza fiatare e, forse, senza nemmeno conoscerli. Tuttavia, in molti istituti, se si vanno a guardare i progetti e le attività, e si leggono le programmazioni, si nota un fermento che lascia intuire spazi di disaccordo, o di disagio. Ma prima di formulare la domanda fatidica “che fare?”, concediamoci un brevissimo excursus transfrontaliero, nel Canton Ticino.

    Che cosa possiamo imparare dal Canton Ticino

    La vicenda della nuova legge sull’educazione civica in Canton Ticino, infatti, ha delle analogie inaspettate con il caso italiano, che, insieme con qualche importante differenza, ci aiuta a problematizzare la nostra situazione. Ecco i fatti.

    Il Canton Ticino aveva una legge sull’educazione civica fin dagli anni ’90, alquanto simile a quella italiana prima della riforma Gelmini. L’educazione civica, vi si diceva, è compito di tutti, ma in special modo degli storici, la cui materia era appunto denominata “storia e educazione civica” (un rapido resoconto della situazione ticinese si trova qui). A differenza dell’Italia, il governo cantonale, però, aveva promosso un libro di testo specifico, scritto da studiosi di didattica della storia, che – in otto capitoli – “trasforma in materia insegnabile” la questione dei diritti e dei doveri, proponendo un percorso rigoroso che va dalla famiglia, allo stato, al mondo (Conoscere la civica, diventare cittadino).

    Questo assetto non piacque a Alberto Siccardi: imprenditore valtellinese emigrato a Mendrisiotto, dove aveva impiantato con successo una fabbrica di protesi e da dove svolgeva anche un’intensa attività politica. “Prima gli svizzeri”, è uno dei suoi slogan preferiti. Sua è stata l’idea di modificare la legge degli anni ’90, separando l’educazione civica dalla storia, e facendone un insegnamento di due ore mensili da sottrarre in parte a storia. separando l’educazione civica dalla storia, e facendone un insegnamento di due ore mensili da sottrarre in parte a storia.

    La sua proposta incontra la ferma opposizione dell’Atis, l’associazione che riunisce gli insegnanti di storia ticinesi con l’appoggio dell’Associazione degli storici svizzeri, l’adesione dei comitati dei genitori, delle associazioni dei dirigenti scolastici e il sostegno dei partiti di sinistra.

    Gli insegnanti argomentano che questa riforma riduce un monte ore già risicato; obiettano che è quasi impossibile creare un sistema di valutazione per una materia di mezz’ora la settimana. Sostengono che l’educazione civica deve essere collegata alla storia, perché solo in questo modo “i diritti e i doveri” vengono contestualizzati, se ne fornisce una conoscenza critica e si evita che si riducano a nozioni astratte; protestano che, in fin dei conti, loro già fanno tutto quello che vorrebbe la nuova legge. Gli storici aggiungono la preoccupazione che “una modifica di tale portata sia il risultato non di un riesame generale dei piani di studio promosso dall’autorità competente con il concorso degli esperti dettato da ragioni scientifiche, didattiche e pedagogiche, ma di un’iniziativa popolare legislativa generica, politicamente profilata.” (qui la rassegna completa degli interventi).

    Di parere contrario, ovviamente, i partiti che appoggiano Siccardi - la Lega ticinese e il partito populista svizzero (Udc) - che ribattono accusando gli insegnanti di trascurare questa materia e minacciano commissioni esterne di controllo. Un argomento vincente, per Siccardi, è che, in fondo, si tratta di una riforma a costo zero. Non si leggono tanti altri ragionamenti nella rassegna degli interventi a sostegno della legge. Il loro pezzo forte è l’appello agli elettori, che si concretizza con una petizione popolare e con un referendum. Nella consultazione popolare non c’è partita. Il documento degli insegnanti di storia ottiene 983 voti; i sostenitori della legge vincono con un sonoro 63%, il 24 settembre 2017.

    La scuola accetta il verdetto e si mette in moto. Si rifanno i piani di studio, scorporando dal programma di storia le parti di educazione civica, si organizzano nuovi orari, ma nelle classi si fa molta attenzione a riannodare queste parti alla storia, com’è necessario per la loro comprensione (lo si apprende da un puntuale servizio radio sull’applicazione della legge). In pratica, la nuova legge sembra non aver fatto altro che complicare ciò che gli insegnanti già facevano. D’altra parte, non occorreva essere raffinati pedagogisti per prevedere che, con mezz’ora la settimana, staccata da tutto il resto, non si va molto lontano.

    Facili le analogie con l’Italia: dalla riforma a costo zero, alla medesima origine dei proponenti (la Lombardia settentrionale, dalla quale provengono sia Siccardi che Capitanio). A entrambi non importa molto il succo della proposta (in Italia tutto andava bene, mentre i promotori svizzeri non ne hanno proprio parlato), perché si confida in un sottotesto della legge (identità, appartenenza, sicurezza) a prova di bomba con l’elettorato attuale. In entrambi i casi, quindi, ma lo denunciano solo gli storici svizzeri, la proposta non scaturisce da ricerche storico-pedagogico-didattiche, quanto da una scelta politica. Comune, ancora, è il fatto che il proposito di cambiare il mondo - con 30 o 60 minuti a settimana, non cambia molto - si traduce in un rompicapo, che docenti e dirigenti devono sbrogliare.

    Non meno istruttive, per noi, sono le differenze. Non ci occuperemo qui di quelle politiche (è evidente che in Canton Ticino i partiti di sinistra sono stati capaci di leggere l’intento politico dei promotori della legge, e si sono comportarti di conseguenza). Qui ci interessano le considerazioni professionali: in Ticino c’è un soggetto che rappresenta gli insegnanti di storia; c’è un’associazione di storici attenta ai fatti della scuola e in grado di intervenire con precisione; c’è un gruppo strutturato di ricercatori di didattica della storia, che si occupa della formazione e del lavoro dei docenti. Di conseguenza - in Ticino, a differenza che in Italia - gli insegnanti sono stati resi consapevoli della posta in gioco, hanno potuto far sentire la loro voce nella battaglia, e, pur avendo perso, ora hanno dei supporti (corsi, proposte di lavoro, materiali) che non li lasciano soli di fronte al rebus didattico da sciogliere.

    Torniamo in Italia. Che fare?

    Conosco la situazione ticinese per essere stato coinvolto in alcuni seminari di formazione, nei quali i docenti hanno affrontato i temi di questa legge. Dal primo, nel 2017, sui rapporti fra Educazione alla cittadinanza e storia, al secondo sul populismo, mentre nel terzo, che si svolgerà nel 2020, si parlerà della questione giovanile. Le strade proposte per affrontare la questione sono fondamentalmente due (di questa vicenda parlerà ampiamente Daniele Bollini – che fa parte dello staff dei ricercatori didattici - in un suo articolo di prossima pubblicazione in Italia):

    – cercare nell’ambito del curricolo dei momenti storici che possono adeguatamente contestualizzare qualche aspetto dell’educazione civile (il primo seminario)
    – puntare sulla storia “molto” contemporanea (il secondo e il terzo seminario).

    Sono strade note anche in Italia.

    Per la prima su HL si trova già un abbozzo di curricolo, che dall’antichità fino ai giorni nostri, individua dei momenti “caldi”: si va dalla fondazione stessa della città, fino a Roma e al suo particolare concetto di cittadinanza; si centra l’attenzione sul Trattato di Westfalia, e cioè sulla nascita del concetto moderno di cittadinanza; se ne ricordano le variazioni ottocentesche (con l’aggregazione a questo concetto dei temi dell’identità nazionale) e, finalmente, si presentano i problemi relativi al concetto di cittadinanza attuale, legato alla rivoluzione del Welfare.

    Logo del Laboratorio del Tempo PresenteFig. 5. Logo del Laboratorio del Tempo Presente, rete di scuole per la revisione del curricolo di storia e lo studio del mondo attuale.

    Ma in rete c’è anche il bel lavoro di Carla Marcellini, che, partendo dalle urgenze dell’esame di stato, individua alcuni temi forti (come il concetto di Stato o la Costituzione) che, peraltro, sono già trattati da molti insegnanti e che, con altri argomenti, suggerisce l’idea di una “valigetta di strumenti storici” per la formazione del cittadino. Sempre su HL, infine, Marco Cecalupo ha proposto diversi lavori, che cercano di integrare storia, educazione civile e geografia e che, in forma più strutturata, presenta in La strada delle competenze (Loescher 2016).

    Per la seconda, l’analisi del presente, si è costituita una rete di scopo “Il Laboratorio del tempo presente”, che mira a raccogliere suggerimenti e strumenti didattici, utili per analizzare i temi caldi e i periodi più vicini a noi. Qui su HL si troveranno altri articoli su questo tema. Scorrendo gli indici di “Novecento.org”, si leggono decine e decine di laboratori e di proposte didattiche, raccolti in sei anni di lavoro della rivista. Entrambe le strade sono consentite dalla legislazione attuale: la legge sull’Educazione alla cittadinanza attualmente in vigore (quella appunto che la nuova legge abolisce); le Indicazioni ministeriali relative ai programmi della scuola di base; il nuovo assetto degli esami, previsti dalla recentissima direttiva n. 205; per non parlare del concorso su Cittadinanza e Costituzione, con prove articolate lungo il curricolo verticale.

    In conclusione, si continua a lavorare …

    Ci si muove ancora oggi, è appena il caso di farlo notare, nel solco tracciato da Aldo Moro: c’è una formatività generale, attribuita alla scuola nel suo complesso (e che andrebbe presa in carico particolarmente nel “curricolo informale”), mentre nella storia si vanno a cercare i momenti topici del rapporto fra potere e società. Le criticità, che abbiamo riscontrato nel corso di questi settant’anni, forse non dipendono soltanto dall’assenza di una materia indipendente con un voto separato (come sostengono i promotori della legge). Probabilmente, incidono di più fatti noti e denunciati, come la diminuzione delle ore di storia/geografia, o l’incapacità generale dei docenti italiani di programmare l’apprendimento quinquennale, in modo da riservare ai tempi attuali un tempo congruo (tema, questo, venuto alla ribalta in occasione della polemica sulla prova di storia). E, causa, infine, più generale, la difficoltà con la quale la comunità scolastica riesce a socializzare “buone pratiche”, come quelle che migliaia di docenti hanno realizzato dagli anni ’60 ad oggi, anche nel campo del rapporto fra educazione civica e storia. Problemi che restano, quale che sia la legge che verrà approvata.

    In questa, come in altre occasioni, chi decide di percorrere queste strade, lo fa da solo o con altri volontari come lui: è questa la grande differenza fra Italia e altri stati (come forse qualcuno avrà sospettato, quello del Ticino è solo un esempio).

    Ecco ciò che potremmo fare noi, come storici e insegnanti di storia. Spero che altri (dai geografi ai docenti di diritto e economia ecc.) facciano le loro proposte e – dal basso – si riesca a creare una sorta di progetto un po’ più credibile di quello che troviamo nella Legge Capitanio. Mentre scrivo, la legge è in votazione al Senato. Già leggo su internet le pressioni di questo o quel gruppo, per aggiungere qualcosa di suo gradimento. Temo che il – “fritto misto” – (termine usato dallo stesso Capitanio, sia pure per difendersi) ne verrà ulteriormente arricchito.

    Occorrerebbe, invece, che qualche senatore riuscisse a dare una scossa ai suoi colleghi: perché, quei profondi rivolgimenti che abbiamo appena ricordato sono così seri, da imporre una legge seria sull’Educazione alla Cittadinanza. Ma di questa discussione daremo conto in un altro contributo.

  • L’Identità colpisce ancora. Un libro sul curricolo scolastico di Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla

    di Luigi Cajani

     

    Insegnamento identitario e insegnamento scientifico della storia

    Una delle questioni fondamentali dell’insegnamento della storia è quella delle sue finalità, fra obiettivi identitari e obiettivi scientifici, due approcci contrastanti che si concretizzano in due modelli di curricolo. Nel primo modello la selezione e la presentazione dei contenuti è finalizzata alla formazione di una identità collettiva nazionale, compito questo che la storia ha avuto quando a metà dell’Ottocento venne inserita stabilmente nel canone scolastico negli Stati europei, e poi ovunque nel mondo; nel secondo modello, invece, che ha cominciato a diffondersi dopo la Seconda guerra mondiale partendo dall’ideale antinazionalistico e pacifista promosso fra gli altri dall’UNESCO, l’obiettivo è la formazione del pensiero critico, basato sull’epistemologia della storia, sull’approccio multiprospettico e sulle più recenti acquisizioni della ricerca, lasciando lo sviluppo dell’identità alla sua dimensione individuale. Uno sguardo alla situazione mondiale attuale mostra una prevalenza del modello nazionale identitario, soprattutto perché è considerato un instrumentum regni per mettere in atto politiche di controllo sociale.

     

    copertinaFig.1: Ernesto Galli della Loggia, Loredana Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Brescia, Morcelliana Scholé, 2023, pp. 117, 14 euro. La battaglia dei curricoli

    Tale questione ha attraversato negli anni scorsi la stesura dei vari programmi di storia italiani, influenzati sia dallo stato della storiografia italiana, poco impegnata nella ricerca in storia mondiale, sia da scelte ideologiche che hanno caratterizzato le alterne vicende politiche. La Commissione De Mauro stilò nel 2001 un curricolo integrato di storia, geografia e scienze sociali per la scuola di base (cioè, l’insieme delle precedenti scuola elementare e media), che superava i limiti del tradizionale orizzonte eurocentrico ampliandolo alla dimensione mondiale, orizzonte ormai consolidato nella ricerca internazionale. La motivazione degli autori di quel curricolo era appunto puramente scientifica, ma la loro scelta fu oggetto di forti critiche, sia politiche che accademiche, queste ultime trasversali alla destra e alla sinistra, da parte di chi riteneva che insegnando anche la storia mondiale si sarebbe pregiudicata la valorizzazione dell’identità culturale italiana ed europea1.

    La riforma generale della scuola, di cui quel curricolo faceva parte, non fece in tempo ad entrare in vigore, perché venne subito cancellata dal governo Berlusconi, costituito dopo la vittoria della coalizione di centro-destra nelle elezioni politiche di quello stesso anno. Il nuovo curricolo per lo stesso ordine scolastico, promulgato dal ministro Moratti nel 2003, abbandonava la dimensione mondiale e si ispirava dichiaratamente a una visione dell’identità spirituale e materiale dell’Italia e dell’Europa basata sulla tradizione classica e su quella giudaico-cristiana.

    Nel 2006 fu la coalizione di centro-sinistra a vincere le elezioni politiche, e il ministro Fioroni abolì il curricolo Moratti per sostituirlo con uno dall’impostazione del tutto diversa, che riprendeva le motivazioni scientifiche del curricolo De Mauro ma affrontava anche la realtà del contesto multiculturale italiano e dei conflitti identitari ad esso collegati. Il nuovo curricolo affermava infatti che non era più il tempo di dare alla scuola il compito di formare cittadini nazionali con una cultura omogenea, ma che bisognava invece fornire agli studenti gli strumenti della scienza storica per valorizzare le diversità di ognuno, e contrastare in tal modo le rivendicazioni identitarie. La dimensione italiana ed europea era centrale, ma veniva di nuovo inserita nel contesto mondiale.

    Nel 2008 la coalizione di centro-destra vinse le elezioni. Il ministro Gelmini si occupò dei nuovi curricoli per le scuole superiori, cui diede un taglio nettamente eurocentrico, mentre non toccò quello per il primo ciclo, che passò al ministro Profumo, membro di un governo tecnico insediatosi nel 2011. Questi revisionò il curricolo Fioroni, mantenendone l’impianto ma aggiungendovi una nota identitaria in una premessa che esaltava il patrimonio culturale italiano e il significato particolare che la sua ricchezza dà all’insegnamento della storia in Italia. E questo è il curricolo attualmente in vigore2.

     

    Identità e appartenenza per formare nuovi italiani

    Il volumetto scritto da Ernesto Galli della Loggia e da Loredana Perla si inserisce nel dibattito sul senso dell’insegnamento della storia, schierandosi, come annuncia il titolo, su posizioni identitarie. I primi due capitoli sono opera di Galli della Loggia, il quale, dopo aver fatto un’ampia discussione del concetto di identità, presenta il testo di un vero e proprio curriculo di storia e geografia per la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado. Con esso l’autore riprende e porta a compimento quanto aveva iniziato alcuni anni fa, nel 2019, col volume L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la scuola (Venezia, Marsilio), nel quale aveva attaccato aspramente il curricolo Profumo, accusandolo di imporre “un’enciclopedica visione mondiale intrisa di multiculturalismo, espressamente mutilata di qualsiasi funzione identitaria”.

    In questo nuovo testo Galli della Loggia difende il concetto di identità collettiva dai suoi detrattori, che la considerano un concetto reazionario, e afferma invece che essa è il frutto in divenire di una storia e insieme di una geografia che portano al sedimentarsi della tradizione e allo sviluppo di caratteristiche uniche di una certa comunità. Questa identità – a suo avviso – traccia una linea di distinzione, ma non di esclusione, rispetto all’alterità. La scuola ha il compito primario di sviluppare questo senso di appartenenza e di identità, il che significa in particolare, in una fase storica caratterizzata dall’immigrazione, creare i nuovi italiani.

    Galli della Loggia si trova qui di fronte a una spinosa contraddizione: “Non bisogna nascondersi – egli scrive infatti – … un problema: e cioè se sia lecita l’acculturazione forzata all’«italianità» che in qualche modo verrebbe così imposta a giovani provenienti da culture diverse, anzi per lo più diversissime, da quella italiana. […] Noi oggi … siamo convinti che ogni persona abbia una sorta di diritto naturale a mantenere integri la propria identità antropologica, la propria storia, i propri costumi, la propria religione, e ci sembra che ogni aspetto della nostra civiltà il quale tenda a mettere in discussione queste cose costituisca un’insopportabile manifestazione di arroganza eurocentrica” (pp. 42-43). A queste considerazioni Galli della Loggia risponde però con la seguente obiezione: “se la scuola deve perseguire l’obiettivo dell’inclusione, in che cosa mai dovranno essere inclusi i giovani immigrati o figli di immigrati se non in un ambiente italiano e per ciò stesso necessariamente in buona misura italocentrico?” (pp. 44).

     

    La critica al curricolo attuale

    Qual è allora la via che indica Galli della Loggia per la creazione di un’identità collettiva che faccia i conti con un’immigrazione multiculturale? Non certo la scelta di “spogliarsi volontariamente di un ovvio nesso forte con la specificità del proprio Paese per abbracciare il mondo” (p. 44), come fa il curricolo attuale. A cui Galli della Loggia rimprovera anche un’errata impostazione didattica, perché obbliga bambini di sei-sette anni, che hanno ancora una confusa nozione del tempo, ad affrontare “il processo di ominazione” (che però, contrariamente a quanto lui pensa, si studia non in prima ma in terza elementare, cioè a otto-nove anni), e passa poi ai Sumeri, agli Assiri, ai Micenei e così via, sicché i bambini conoscono popoli lontanissimi nel tempo e nello spazio, ma non l’Italia. Egualmente critico è Galli della Loggia nei confronti dei “quadri di civiltà” e dei “temi che riguardano l’insieme dei problemi della vita umana sul pianeta” (p. 47), perché con essi il curricolo cerca di far entrare in testa a dei bambini nozioni e concetti del tutto astratti, mentre bisogna partire da ciò che è loro più vicino nel tempo e nello spazio, e quindi più comprensibile. Il metodo didattico, insiste poi Galli della Loggia, deve essere quello narrativo. L’insegnamento della storia, infatti, non deve ridursi a un’insieme di informazioni tratte dall’economia e dalle scienze sociali, ma deve basarsi sulla narrazione, perché essa è il tratto “originale e originario” (p. 49) della storia. Inoltre, la narrazione “permette a chi insegna di stabilire un contatto vitale e fecondo con chi apprende e quindi fargli accogliere con una disposizione favorevole ciò che ascolta” (p. 50): parole in cui risuona l’eco della visione gentiliana dell’insegnamento quale rapporto diretto fra docente e discente, arte e non tecnica.

     

    Epica classica, romanzi risorgimentali e il Canto degli Italiani per avviare un curricolo alternativo

    Vediamo adesso come queste idee si concretizzano nel curricolo di storia e geografia, che rappresenta la parte centrale e caratterizzante di questo volumetto (pp. 52-54).

    Nella prima classe per quanto riguarda la storia è previsto il “racconto a mo’ di favola dell’Iliade, dell’Odissea e dell’Eneide, con lettura di brevi passi e una generica contestualizzazione”, mentre per la geografia si parte dal luogo dove si trova la scuola. In seconda si passa dalla mitologia classica alla storia: “Come l’Italia è diventata un solo Paese. Storia romanzata ma non troppo del Risorgimento italiano”, attraverso letture della memorialistica sulle Cinque Giornate di Milano, sulla Repubblica Romana e sulla Spedizione dei Mille, nonché l’apprendimento a memoria dell’Inno di Mameli, ovviamente accompagnato dalla storia e dalla spiegazione del testo. Per la geografia è prevista l’illustrazione da parte degli alunni della loro esperienza dell’Italia, in particolare attraverso i viaggi, e un primo approccio all’educazione civica, con il concetto di elezione e di “chi comanda nel mio Comune”.

     

    RinaudoFig.2: il testo di Costanzo Rinaudo sugli eroi e i grandi uomini della storia italiana Ritorno all'Ottocento

    Ecco così fissati nei primi due anni gli elementi fondamentali dell’identità italiana: l’epica classica e il Risorgimento, che è posto all’inizio dell’esperienza che gli alunni fanno della storia. Una scelta simile, al di fuori del criterio cronologico, la troviamo nei programmi delle elementari del 1888 e in quelli del 1894, quando peraltro il Risorgimento veniva studiato non in seconda ma in terza elementare. La scelta di questa collocazione era legata al fatto che con il superamento dell’esame di terza elementare si accedeva al diritto di voto (naturalmente allora molto limitato), sicché era logico che si facesse studiare prima di tutto la recente vicenda politica dell’Italia, sostanzialmente come forma di educazione civica. Lo studio in terza elementare della storia italiana dal 1848 a quelli che erano di volta in volta i “giorni nostri” venne mantenuto nei successivi programmi fino a quelli del 1934, e venne abbandonato solo dopo la fine del Fascismo coi programmi del 1945, quando in terza elementare venne introdotto l’approccio cronologico a partire dall’antichità, approccio che è stato mantenuto fino ad oggi. Questo ritorno al passato proposto da Galli della Loggia serve dunque a enfatizzare il valore identitario del Risorgimento.

     

    Un normale curricolo cronologico

    Il curricolo di storia vero e proprio inizia in terza elementare e prosegue seguendo il normale ordine cronologico. Si va così dalle “civiltà mediterranee dell’antichità” alla Grecia fino alla conquista dell’Italia da parte di Roma, mentre per la geografia si parla della forma dell’Italia e di informazioni sull’Europa. Il quarto e il quinto anno sono interamente dedicati alla storia romana e alla nascita del Cristianesimo: questi temi hanno così uno spazio molto maggiore di quello che hanno nella pratica didattica, e dunque nella visione di Galli della Loggia assumono un ruolo centrale nella costruzione identitaria.

    Accanto ai vari temi di taglio storiografico, ad esempio “come a Roma si decideva e chi comandava”, o “come si viveva e si combatteva”, uno è esplicitamente identitario: “che cosa ci hanno lasciato i Romani”. Ci sono poi “letture guidate” di opere di Cesare e Catullo, e del rescritto di Adriano (quello che poneva dei limiti garantisti alla repressione dei cristiani). Fra i temi della geografia compaiono proprio i succitati “processi di ominazione” (evidentemente per Galli della Loggia in questo momento l’età è quella giusta) e i problemi legati alla “sopravvivenza dell’uomo, delle specie animali e dell’ambiente naturale”.

    Nei successivi tre anni, quelli della Scuola secondaria di primo grado, il curricolo di storia proposto da Galli della Loggia procede sostanzialmente con la stessa scansione cronologica attuale, lungo un elenco che inizia con il “Medio Evo europeo tra Chiesa e Impero”, passa attraverso varie tappe della storia moderna, fra cui la Riforma protestante, l’Assolutismo e la Rivoluzione francese, e della storia contemporanea, fra cui “le due guerre mondiali” e la “dislocazione del potere mondiale verso l’Asia”, per concludersi con la storia italiana: “l’esperienza politica dell’Italia dal fascismo alla Repubblica fino all’inchiesta di Mani Pulite”. Si tratta dunque di un normale curricolo eurocentrico, senza il chiaro carattere identitario che ci si aspetterebbe, date le premesse. Anche il curricolo di geografia segue uno schema consolidato, passando di anno in anno dall’Italia all’Europa e infine al mondo.

     

    Identità contro globalismo e multiculturalismo

    I due capitoli seguenti sono opera di Loredana Perla. Anche lei si confronta con le sfide poste dalla trasformazione multiculturale della società italiana, e attacca la politica ministeriale, che, rinunciando all’identità italiana “in omaggio alle letture globaliste e multiculturali, ha creato un vulnus psicopedagogico nella formazione delle nuove generazioni” (p. 59). E anche lei critica sul piano didattico le attuali Indicazioni nazionali ministeriali per il curricolo, perché impongono un orizzonte astratto e obiettivi irrealizzabili: “collocare il punto di vista dei bambini in una prospettiva mondiale pensando che questa li aiuti a costruire relazioni col «locale» è, didatticamente, un controsenso” (p. 65).

     

    EcoFig.3: L’Elogio di Franti nella raccolta di saggi Diario Minimo, di Umberto EcoCuore e Pinocchio: due libri per l’educazione nazionale odierna

    Come si insegna, dunque, l’identità italiana? L’autrice suggerisce una serie di esempi: raccogliendo documenti e testimonianze della propria famiglia (ma che fare se questa non è di origine italiana?); studiando le strade consolari romane (di nuovo la centralità di Roma); osservando il paesaggio, la fauna e la flora; e coltivando il patriottismo costituzionale.

    Ma il centro, e la specificità, della proposta di Perla è rappresentato dall’inserimento nell’insegnamento di due libri un tempo famosi, Cuore di Edmondo de Amicis e Pinocchio di Carlo Collodi, sui quali lei si sofferma per molte pagine. Cuore è oggi dimenticato, stroncato dai sessantottini e in particolare da Umberto Eco con il suo Elogio di Franti, i quali in tal modo - secondo Perla - hanno contribuito al crollo del rango sociale della scuola e degli insegnanti. Lo specifico valore educativo di Cuore – sostiene Perla – sta nel fatto che “crollate tutte le ideologie i suoi contenuti possono aiutare a riscoprire i valori essenziali di cittadinanza (lealtà, generosità, responsabilità) e testimoniarli con buoni esempi agli occhi di chi nasce oggi” (p. 98). Inoltre, Cuore è un “modello di educazione nazionale di rara chiarezza” (p. 100), sia per la sua attenzione al patrimonio, sia per il suo valore etico e civico, perché ribalta l’immagine dell’italiano come “geneticamente polemico, lagnoso e pusillanime” (p. 101).

    Pinocchio è agli occhi dell’autrice “il libro per antonomasia dell’identità italiana” (p. 103), metafora della crescita civile dell’Italia unita, che iniziava quando il libro fu scritto e che oggi non si è conclusa positivamente: “Oggi l’Italia è un paese ‘vecchio’ – afferma Perla – cresciuto male, bisognoso di riscoprire le ragioni della sua storia” (pp. 103-104). Ai giovani di oggi, che hanno “bisogno di autorità e di eccellenza” (p. 109), Pinocchio propone il recupero del rapporto intergenerazionale, oggi in crisi: “Non si diventa adulti «uccidendo i padri» ma «salvandoli», salvando cioè il rapporto intergenerazionale, il passato, la storia, la tradizione” (p. 107). Ma – aggiunge l’autrice avviandosi alla conclusione – rileggere Pinocchio non serve solo ai giovani, bensì anche ai loro genitori e agli insegnanti, per “avviare quel percorso urgente di revisione di alcuni principi ereditati da una certa ideologia degli anni ’60 le cui ricadute in campo educativo … hanno fortemente contribuito a logorare il nesso che nella storia dell’educazione ha sintonizzato il «principio del piacere» col «principio di realtà», sortendo quello straordinario effetto di rottura fra istanze un tempo dialettiche: fra dovere e gioco, fra libertà e autorità, fra regola e spontaneità, fra estetica ed etica” (pp. 111-112). Il suo obiettivo non sono qui tanto gli immigrati, quanto gli italiani da varie generazioni.

    Perla completa così con una proposta letteraria quella fatta da Galli della Loggia, convergendo sullo stesso obiettivo civico ed etico: l’identità italiana si deve basare sulla conoscenza di alcuni eventi e personaggi storici, dell’ambiente e del patrimonio, e insieme su un rinnovato rapporto fra giovani e adulti basato sul rispetto dell’autorità.

     

    Grossi MercantiFig.4: Il Risorgimento narrato ai fanciulli Sull'originalità e su alcune carenze

    Questa proposta di Galli della Loggia e Perla mostra una serie di carenze e un aspetto originale.

    Le carenze riguardano il curricolo di storia e geografia. Solo nella scuola primaria la storia ha un chiaro carattere identitario, con l’epica classica e i racconti risorgimentali dei primi due anni e soprattutto con la grande presenza di Roma e della nascita del cristianesimo nei tre anni successivi. Ma poi il curricolo perde questo carattere, presentandosi come un elenco di nozioni niente affatto originale e privo di indicazioni su come valorizzare eventi e personaggi, nonché elementi del territorio e del patrimonio, in modo da costruire l’inconfondibile discorso dell’identità italiana, distinguendola fra l’altro da quella di altri Stati europei. Un curricolo di insegnamento, infatti, non è fatto solo di elenchi di nozioni, ma anche di irrinunciabili indicazioni metodologiche e culturali che ne definiscono il senso e la pratica. E per tornare alla questione attuale, quella della nazionalizzazione dei nuovi italiani, sarebbe stato necessario che Galli della Loggia chiarisse in che modo l’auspicata inclusione può essere diversa dall’ormai inaccettabile acculturazione, e su questo chiarimento formulare una proposta didattica concreta. Questa contraddizione invece rimane qui irrisolta.

    L’aspetto originale è rappresentato dal ritorno a Cuore e a Pinocchio, proposto da Perla. Ma l’ampia argomentazione con cui lei sostiene questa sua proposta non spiega la cosa essenziale, e cioè in che modo la lettura di questi due classici possa realizzare il vasto programma di contrastare gli esiti della cultura sessantottina che, a giudizio dell’autrice, dominano fra giovani e adulti, e tornare così al buon tempo antico.

    Il dibattito sugli obiettivi dell’insegnamento della storia è sempre più attuale e vivace, e si sta ripresentando con forza anche in Europa occidentale, stimolato in particolare dalle sfide poste dall’immigrazione extraeuropea, dando luogo a proposte complesse e approfondite su entrambi i fronti. Con tutti i suoi limiti, quest’opera dà comunque un’idea di alcune delle proposte che circolano in Italia sul fronte identitario, che possono essere messe a confronto con le proposte che vengono da chi sostiene invece un approccio scientifico all’insegnamento della storia, senza torsioni politiche e identitarie3.

     


    Note

    Luigi Cajani, La storia mondiale e la scuola italiana. Cronaca della Commissione De Mauro, in Antonio Brusa, Luigi Cajani (a cura di), La storia è di tutti, Roma, Carocci, 2008, pp. 248-285 https://www.carocci.it/prodotto/la-storia-e-di-tutti.

    2 Luigi Cajani, I recenti programmi di storia per la scuola italiana, in “Laboratorio dell’ISPF”, XI, 2014, pp. 2-25 http://www.ispf-lab.cnr.it/2014_205.pdf.

    3 Segnalo solo, fra i molti testi, due opere di Lando Landi: Insegnare la storia ai bambini, Roma, Carocci, 2006, e (a cura di) Di chi è questa storia? Proposte didattiche per le classi multiculturali, Roma, Carocci Faber, 2010.

  • Storia comune, nazione e educazione identitaria. Una discussione a proposito di "Insegnare l’Italia".

    di Piero S. Colla

     

    1. Il revival della semantica dell’“identità”: tra discorso politico e istituzionalizzazione

    Con poche eccezioni, il percorso verso il voto europeo del 6-9 giugno 2024 delinea una tendenza generale, sottesa alle campagne elettorali dei paesi membri. Istanze e proposte organizzate attorno alle minacce che insidierebbero l’identità, etnoculturale o nazionale, dei popoli chiamati al voto, permeano il dibattito pubblico e polarizzano il confronto tra i programmi. Il richiamo delle retoriche dell’appartenenza sembra disarmare il ragionamento, confermando un trend di lungo periodo: la storia politica degli ultimi anni ci conferma che rappresentazioni contrapposte dell’alterità – spauracchio della “sostituzione” etnica, sfide dell’integrazione dei migranti, velleità protezionistiche o autarchiche, dall’alimentazione al costume… – orientano strategie e narrazioni in modo talmente organico ed esclusivo che l’oggetto stesso dell’appuntamento elettorale – il futuro della costruzione europea, delle politiche e delle istituzioni che dovrebbero sostenerla – fatica ad aprirsi un varco.

     

    Dalla Francia alla Svezia: rinasce il culto delle radici?

    È bene fare chiarezza sulla dinamica che ha portato il tema dei confini immaginari della comunità civile ad insinuarsi nel vocabolario politico-istituzionale. Dall’indomani della sua elezione, il presidente francese Nicolas Sarkozy annunciava la creazione di un “Ministero dell’Identità nazionale”1, subito denunciato in un testo dello storico Gérard Noiriel2. Più di recente, Emmanuel Macron – presentando il suo progetto di legge rivolto contro il “separatismo” islamico3 – rilanciava il tema convenzionale dell’assimilazione repubblicana, di un’identità civica presentata in forma volontaristica, pedagogica, assegnando compiti precisi al settore educativo4. Nella stessa direzione puntò, nel 2022, una riforma dell’educazione civica (Éducation morale et civique) dal forte accento valoriale.

    Con accenti diversi, molti nodi cruciali dell’agenda politica degli ultimi anni sono scanditi dalla medesima percezione esasperata del ruolo aggregante della fedeltà alle radici: il recupero (anche educativo) dell’identità imperiale britannica, culminato nella Brexit, ne è un buon esempio. Radici nazionali, certo, ma non sempre sovrapponibili a uno stato-nazione: in paesi costruiti su un equilibrio precario tra diverse tradizioni, dalla Spagna al Belgio, l’invenzione o la reinvenzione di una cultura, nazionale o sub-nazionale, sono da decenni elementi polarizzanti del confronto politico – con riflessi immediati sulle diatribe scolastiche5. La loro forza magnetica travalica culture politiche e schieramenti: il caso di C. Puidgemont, il leader nazional-conservatore catalano accusato di secessione, attualmente riparato a Waterloo, a cui il socialista P. Sanchez ha offerto l’amnistia dai gravi capi d’imputazione che pesano su lui in cambio del sostegno al proprio governo, sta a testimoniarlo.

     

    La paura di perdersi

    La convergenza delle ansie di intellettuali francesi, britannici o est-europei attorno al tema del declino ci segnala un altro dato: la prevalenza di una preoccupazione di tipo reattivo, auto-protettivo, nell’attrazione che il tema dell’identità esercita sulla classe politica. La paura di perdersi, di vedere il collante della propria comunità (una storia, un habitus) trasformato in bersaglio. Una proposta dirompente, avanzata poche settimane orsono dal governo in carica a Stoccolma – introdurre “il razzismo anti-svedese” (degli stranieri, evidentemente) come una nuova fattispecie di crimine6 – è emblematica di questa nuova figura dell’allarme sociale. Un senso del “noi”, ripiegato a riccio, le cui ripercussioni sul messaggio della scuola non si faranno presumibilmente attendere.

     

    2. Identità nazionale, educazione e “canone”

    Proprio da questo punto di vista, con riferimento alle politiche del curricolo e dell’insegnamento della storia, un trend si è profilato in Europa con una certa chiarezza a partire dagli anni 2000. Temi e proposte che lo animano hanno spiazzato ampi settori degli specialisti di didattica della storia, obbligati a constatare che miti, simboli, nuclei tematici che si erano abituati a considerare come oggetto di decostruzione critica e presa di distanze si stanno riaccreditando, nel dibattito civile, come alternative positive alla crisi della disciplina: la panacea per un presunto disagio identitario. Mi riferisco, per esempio, alla designazione di antenati nobili, indiscutibili, di una comunità nazionale.

     

    AsterixFig.1: L'histoire de France en BD ("La storia di Francia a fumetti") FonteGli antenati Galli al servizio dell’integrazione?

    Dal momento che diventate francesi, sentenziò il 19 settembre 2016 l’ex-presidente Sarkozy, rivolto ai migranti accolti come cittadini, “i vostri antenati sono i Galli”. Tra i leader in carica, Viktor Orbán ha intrapreso lo stesso percorso, imbastendo un ardito percorso di recupero – funzionale alle esigenze geostrategiche del momento – delle radici turche (e ottomane ) degli ungheresi7. La tendenza va però ben al di là di dichiarazioni propagandistiche, estemporanee o meditate che siano. In Francia dove (per citare lo storico Antoine Prost) “l’insegnamento della storia è un affare di Stato”, la paventata crisi del “romanzo” (roman) o del “racconto” (récit) nazionale a scuola è stata – per quanto la cosa possa stupire – al centro del confronto, nelle ultime tre tornate elettorali8. La riabilitazione del “canone” storico, ossia di un’armatura genealogica dei concetti cardinali dell’unità nazionale, è stato un cardine delle riforme curricolari realizzate in Danimarca e in Olanda negli ultimi vent’anni9. Nella regione belga delle Fiandre, la rivendicazione di un “canone” separato è un elemento strategico del programma del governo in carica, come arma contro l’universalismo binazionale del regno belga10.

     

    L’Italia, tra identitarismo e storia mondiale

    Anche il saggio di recente pubblicazione di E. Galli della Loggia e di L. Perla11 può essere annoverato in questo ambito, come un documento programmatico, argomentato e per certi versi estremo. È lecito dubitare però, sulla base di quanto detto sopra, che si tratti di una proposta inedita, per quanto il contesto, anche politico, in cui viene rilanciata ne amplifichi l’impatto e le possibili implicazioni normative. Come ha ricordato opportunamente Luigi Cajani commentando il saggio su questo sito, il tema catalizzò l’interesse dei commentatori e la comunità degli storici, in Italia, poco meno di un quarto di secolo fa, quando un canone secolare fu insidiato da ipotesi alternative, formulate nel contesto della riforma dei cicli abbozzata dalla Commissione De Mauro. L’alternativa storia mondiale/storia nazionale, in quanto elemento cardinale di un curricolo verticale, divenne per la prima volta un tema di confronto acceso, al di fuori dalla ristretta cerchia degli specialisti del curricolo.

    Le diverse versioni delle Indicazioni nazionali per la scuola dell’obbligo, varate dopo l’abbandono di quella ipotesi radicale di riforma dell’impianto cronologico e tematico del corso, hanno dato vita, in questo senso, a diverse variazioni sul tema del posto della nazione nel curriculum di storia della scuola dell’obbligo: per giungere fino alla versione del 2012 – con cui Insegnare l’Italia dialoga polemicamente a distanza. Indicazioni caratterizzate da una pluralità di posizioni, dove il riferimento all’identità culturale in quanto obiettivo formativo è sfumato, ma non assente. Così, le stesse finalità inserite nella sezione introduttiva relative alla storia insistono tanto sul significato etico e “patrimoniale” (quindi sociale e civico) dello studio della materia, quanto sull’educazione ad una “coscienza storica” formulata in chiave individualistica, come competenza universale. Per quanto riguarda la scansione proposta dei temi di studio e degli obiettivi di apprendimento, l’area culturale di riferimento è certo l’Italia, ma anche l’Europa e l’orizzonte mondiale – mentre fissare l’esatta gerarchia, o l’articolazione tra questi piani rientra, verosimilmente, tra i compiti dell’insegnante.

    È lecito parlare di una costante esitazione del legislatore, tra un governo e l’altro, nel confrontarsi con la dimensione “nazionale” della missione educativa dell’insegnante di storia12, che spiega, in qualche misura, il riacutizzarsi della diatriba in un contesto, come quello attuale, di incertezza culturale e di conflitti tra memorie.

     

    3. La nazione e il curricolo: restaurare o innovare?

    Se le controversie (ravvivate recentissimamente dagli interventi del ministro Valditara13) possono essere considerate come l’eco di un conflitto soggiacente e mai sedato, rispetto al quale il contesto italiano non fa eccezione, la pubblicazione di un libro che si schiera risolutamente su uno dei fronti – come Insegnare l’Italia – costituisce una provocazione stimolante: l’occasione per affiancare al giudizio su un intervento dai toni provocatori qualche interrogativo di portata più generale. Come si strutturano i campi ideologici attorno al posto dell’“italianità” nell’insegnamento della storia – e soprattutto: quale posta in gioco vi si collega, sul piano delle politiche scolastiche e del curricolo? Vorrei tentare di rispondere alla domanda sulla scorta della lettura in parallelo del libro in questione e dell’analisi critica svolta da Cajani, ma anche della maniera in cui lo stesso dibattito si configura, contemporaneamente, in altri territori d’Europa.

     

    Galli della Loggia: l’identità fonda la nazione, non la esalta

    In apertura della prima sezione del saggio, curata da Galli della Loggia, troviamo una dichiarazione d’intenti di tipo rifondativo. L’autore si sforza di liberare il campo dalle riserve ideologiche che la rivendicazione di un’educazione consapevole all’identità italiana potrebbe suscitare, confutando il luogo comune secondo cui coltivare, attraverso la scuola, un senso di appartenenza esclusivo, radicato nella tradizione e nel patrimonio culturale, sarebbe sinonimo di una posizione politica intransigente, escludente, velatamente razzista. Il progetto che Galli Della Loggia mette al centro della sua proposta non è, in effetti, la pura celebrazione dei fasti della patria, o di un nucleo di valori fondativi elevati su un piede di superiorità, sulla falsariga della narrazione etnocentrica che paesi come Francia, Gran Bretagna o Stati Uniti conobbero in vari momenti della loro storia. Non si tratta semplicemente di resuscitare un catechismo civico-patriottico con venature fideiste, per quanto le allusioni degli autori al culto delle reliquie o all’apprendimento dell’Inno di Mameli a memoria tendano in questa direzione. L’aspetto più originale sta nel declinare un obiettivo politico – ripristinare in un pubblico disincantato, distratto ed etnicamente plurale, il senso della solidarietà sociale e della partecipazione democratica (finalità intorno alla quale tutti convergono) attraverso il rafforzamento dello status della cultura storica relativa alla nazione, nel curricolo dei primi anni d’insegnamento.

    La proposta va compresa, e si pone dichiaratamente, come l’antitesi di una tendenza per nulla confinata all’Italia: la generalizzazione di un prototipo di educazione alla cittadinanza intesa (sul modello del Quadro di riferimento delle competenze per una cultura della democrazia, del Consiglio d’Europa14) come l’acquisizione guidata di competenze e disposizioni psicosociali, in riferimento a valori, diritti e doveri formulati in termini universali. Principi immanenti, de-storicizzati. Ai quali gli autori contrappongono una riqualificazione civica, nazionale, del corpus di tutte le discipline.

     

    Una pedagogia carismatica e gerarchica che parli al cuore e all’intelletto

    Portare l’educazione storica – come Galli della Loggia propone – “al centro del processo didattico” sarebbe al tempo stesso la risposta alla crisi del legame sociale, in una società frammentata, e a una sfida didattica: accompagnare i più giovani verso la comprensione di un mondo sociale forgiato dalla storia, e incomprensibile al di fuori di essa. Come un filo rosso, scorre attraverso il saggio l’elogio del dettaglio percepito “qui e ora”, rispetto all’astrazione e all’universalità dei concetti: familiarizzare l’alunno con un genius loci saturo di significati, da esplorare sotto l’autorità del maestro. Questa pedagogia di tipo carismatico (e gerarchico) farebbe leva tanto sul registro della cognizione quanto su quelli del carisma e dell’emotività: tra le virtù dell’educazione storica, Galli Della Loggia annovera infatti da una parte lo stimolo ad un atteggiamento relativistico (“scoprire che le idee e i costumi …mutano…”), dall’altra la possibilità di promuovere, attraverso l’esempio e l’identificazione, una dinamica sociale contrapposta, centripeta. La formazione di una comunità culturale coesa.

    Un approccio genetico all’identità collettiva racchiude, secondo l’autore, la chiave di due virtù: la consapevolezza individuale (aderire a un “punto di vista”, e non più a slogan ripetuti a macchinetta) e la tutela delle specificità di ogni cultura, ogni alterità. Il concetto è familiare alla tradizione dell’antropologia culturale, e richiama alla mente l’apologia di Claude Levi-Strauss in favore di “una certa chiusura culturale” – nel nome, appunto, della preservazione di una diversità minacciata – pronunciata davanti all’UNESCO nel 197115.

     

    4. Identità storica, coscienza storica e curriculo

    Coerentemente con quanto abbiamo detto sopra in riferimento alla storia, gli autori del volume (in particolare attraverso il ragionamento svolto nei due capitoli a cura di Loredana Perla) sembrano attribuire sostanziali virtù pedagogiche a uno spostamento di baricentro, che ricentri il curricolo, fin dai primi anni di scuola, attorno alle tracce e ai brandelli familiari che ne veicola l’esperienza del mondo: la lingua, un paesaggio rappresentato in forma poetica (“i campi”…) e la memoria storica in cui siamo immersi, attraverso il dibattito pubblico, per esempio. Anche quando dividono le coscienze, il 25 aprile o il Giorno del Ricordo sono emblemi del legame tra comunità civile e storia come “eredità”. Dig where you stand – il motto dei pionieri dell’archeologia industriale nordica, negli anni ’70 – potrebbe prestarsi a questo progetto. Al centro del nuovo schema si trova pertanto l’esperienza privata dell’italianità e dei suoi simboli, e il valore del mondo classico, rappresentato attraverso idealtipi e personalità carismatiche, in parte interpretato in retrospettiva (“che cosa ci hanno lasciato i Romani”).

     

    Le paure del presente ispirano il ritorno alla narrazione risorgimentale

    A prima vista, la proposta sembrerà familiare alla generazione dei 40/60enni, ed è su questo elemento che potrà contare, presumibilmente, il consenso che raccoglierà. Ma a guardar bene, l’inversione della progressione cronologica propugnato da Galli della Loggia per i programmi della scuola primaria – che porterebbe a introdurre lo studio degli eroi del Risorgimento nel secondo anno delle primarie – rappresenta, più che un ritorno al passato, un ritorno a modelli pre-novecenteschi, dei primi decenni dall’Unità. Un ritorno innestato su un clima sociale opposto a quelle che aveva accompagnato, e favorito, la genesi di quel canone: non l’ottimismo evoluzionista di fine Ottocento, che portava a coniugare fiducia nel progresso, nazionalismo e imperialismo, ma l’horror vacui della società globalizzata, senza padri, votata alla frammentazione e al declino.

    Il salto verso una prospettiva di storia mondiale, prospettato dalla Commissione De Mauro nel 2001, resta evidentemente alieno rispetto a questa prospettiva.

     

    5. Storia identitaria e storia critica: ipotesi alternative o idealtipi?

    Prima di osservarne le conseguenze sul piano didattico, mi sembra urgente discutere la pertinenza dell’obiettivo stabilito dagli autori sul piano politico-ideologico. Ciò aiuterebbe non tanto a decostruire la loro posizione, ma a collocare noi stessi, ed eventuali contro-proposte, rispetto a una diatriba che sembra cristallizzarsi attorno a due petizioni di principio.

    Impostando la sua recensione sull’opposizione generale tra fautori di una storia “identitaria” e di una storia critico-scientifica, Luigi Cajani assegna evidentemente Insegnare l’Italia, alla prima categoria, ricordando (a giusto titolo) che si tratta a grandi linee di una tendenza dominante nel mondo, e sottolineando che le Indicazioni per la scuola dell’obbligo, in vigore in Italia, hanno, nelle vicissitudini delle diverse riforme, seguito un’altra strada. Davanti a un conflitto che – come è facile prevedere – conoscerà altri momenti accesi, mi sembra utile che la critica non si concentri, in modo esclusivo, sull’(in)opportunità di collocare acriticamente l’“identità italiana” come finalità del processo educativo: un partito preso facile da decostruire, rispetto alle esigenze di un mondo multipolare, dalle frontiere divenute porose.

     

    Occorre approfondire le ragioni delle posizioni identitarie

    Sarebbe invece utile che lo sforzo critico si spingesse a sondare anche la tesi opposta, che cioè la costruzione dell’identità di gruppo, e quindi anche nazionale, non rappresenti in nessun caso un obiettivo strutturante, e che l’architettura del curriculum possa prescindere dall’urgenza con cui i temi dell’integrazione culturale, della memoria politica, della tutela del patrimonio – che declinano in vario modo la relazione tra costruzione dell’io e storia - vengono agitati sulla scena sociale.

    Dove si annidano i pericoli di un uso identitario della storia? Ogni riferimento a una filiazione culturale, nella didattica, è pericoloso per natura? La distorsione identitaria riguarda la scelta degli oggetti d’insegnamento, la loro disposizione nel curricolo, o la finalità che viene loro assegnata?

    La polemica (che la didattica della storia ha promosso, nei vari contesti in cui forze nazionalpopuliste hanno promosso, di volta in volta, il ritorno a un “racconto” rassicurante – e gli esempi, dalla Polonia alla Gran Bretagna, non difettano) è spesso articolata in termini politici piuttosto unidimensionali: insistere sul radicamento che la storia deve coltivare sarebbe di per sé sinonimo di autoritarismo, negazione della diversità, e della libera indagine. Il romanzo nazionale votato dalla destra francese non è altro (sulla scorta delle opere di Suzanne Citron) che un “mito nazionale” da sconfessare16. Gli esempi sui quali gli autori di Insegnare l’Italia fanno leva per suffragare la loro proposta – il libro Cuore, o Pinocchio, in quanto iniziazioni efficaci e pertinenti all’introiezione del senso della Patria – non possono che accreditare questo sospetto.

     

    Le identità collettive hanno un fondamento storico?

    A complicare il quadro, la critica dell’uso tradizionale della storia a sostegno dei processi di nation building ha fatto leva nel tempo su un certo numero di assiomi, non sempre rigorosi e coerenti. Una delle tesi consiste nel negare qualsiasi materialità all’esistenza di identità collettive radicate nel passato e nella cultura comune, quindi alla materia stessa del contendere. All’inizio degli anni 2000 (per fare soltanto un esempio, rilevante sul piano dei principi più che delle pratiche), la diatriba si generalizzò all’intero continente, attraverso il dibattito sull’inserimento o meno di un riferimento alle sue “radici ebraico-cristiane” nel progetto di Costituzione europea. Come è noto, il dibattito si saldò con l’omissione di quel riferimento “identitario”, a cui seguì – fatto ben più importante – la bocciatura dell’intero progetto costituzionale. Alcuni osservatori, come lo storico israeliano Elie Barnavi, consigliere scientifico del Museo di storia dell’Europa di Bruxelles (inaugurato nel 2017), ritennero che la richiesta – portata soprattutto dal Partito popolare europeo – di legare la costruzione europea ad un’“eredità”, fosse giustificata, sul piano intellettuale e strategico.

    Il conflitto attorno al fondamento storico-culturale delle identità nazionali – e per riflesso di una possibile narrazione continua della sua genesi (anche se i due concetti non sono sovrapponibili: proporre, sulle tracce dei Lieux de mémoire di Pierre Nora, una storia critica dell’identità francese non significa aderirvi in toto, in modo mistico) – è antico, e inficiato a mio avviso da un certo nominalismo. A Parigi, a Roma come a Stoccolma, questo conflitto vede contrapposti chi dichiara che la comunità nazionale è sempre stata il prodotto di ibridazioni e contatti, e che un comune denominatore non esiste – e chi per reazione vanta il significato e la persistenza di simboli passati. Con una curiosa inversione, è proprio l’editoria scolastica e la letteratura edificante (che di quella memoria comune è stata il pilastro) a rappresentare, adesso, il principale oggetto di investimento emotivo. Non la storia di Francia, ma il Petit Lavisse o il Malet Isaac, manuali adottati per decenni e considerati da Nora luoghi di memoria per antonomasia. Non l’irredentismo come progetto, ma il libro Cuore. In un contesto in cui un ex-candidato alle elezioni presidenziali francesi, Eric Zemmour, si dedica alla scrittura di 600 pagine di un’Histoire de France nostalgica (puntualmente demistificata da una schiera di rappresentanti della storiografia scientifica ), contrapponendosi alla riscrittura in chiave cosmopolita e anti-identitaria della storia francese da parte di Patrick Boucheron18, l’impressione è di un muro contro muro, in cui l’agitatore politico ruba il mestiere allo storico, e viceversa.

     

    La lunga storia dell’insegnamento identitario

    A partire da questa rappresentazione binaria e intellettualmente ambigua, da cui gli stessi autori di Insegnare l’Italia non sembrano astrarsi, pochi sono disposti ad ammettere che l’insegnamento scolastico della storia è sempre stato solidamente ancorato su un presupposto “identitario”, ma anche ambivalente, articolato, in dialogo con la storia scientifica, e non sempre trascrivibile in termini politico-strumentali.

    Nell’Italia fascista, il mito scolastico di Roma “apparteneva” a Mussolini (ma anche all’antifascista Momigliano) …o si esercitava su entrambi? Se mi si lascia passare un riferimento personale, la scuola della mia infanzia (fine degli anni ’70), aveva intrapreso – sul piano delle prassi – un approccio desacralizzatore rispetto all’identità nazionale, che permetteva di organizzare davanti a tutta la scuola un film come Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno mai raccontato (Florestano Vancini, 1971). Ma la stessa scuola articolava miti romani, ricordo delle libertà comunali, e retorica corale della Resistenza, fatto a cui devo, sul fronte della cultura storica, una relativa familiarità con le vicende della Liberazione e, sul piano della cultura politica, qualche riflesso che mi differenzia dai miei coetanei estoni, o ungheresi. Mentre l’uso scolastico delle identità nazionale si andava appannando, prosperavano (in quell’Italia solcata dagli anni di piombo) identità politiche non meno intransigenti e violente, mescolate a quelle locali, celtiche, di cui si intravedeva il rifiorire. Tanto da trasmettere a me bolognese un messaggio letteralmente identico a quello che Sarkozy avrebbe voluto impartire (a prescindere dalle origini di ciascuno) agli scolari di oggi: “i tuoi antenati, furono i Galli”.

     

    L’identità si nasconde anche nelle storie “alternative”

    Dove si fissano allora i paletti? E che cosa si può tentare di diverso? Il primo passo consiste forse nel domandarsi a quali condizioni si sfugge all’uso identitario della storia, quando l’alternativa è difficile persino da “pensare”. Con scrupolo filologico, L. Cajani ha ricordato l’impegno versato dell’UNESCO, dal dopoguerra, in favore di un approccio (auto)critico dell’educazione storico come contrappunto dell’uso identitario della storia. È facile notare che anche nel paradigma multiprospettico – elaborato e teorizzato in un’epoca assai più recente, in seno del Consiglio d’Europa, prima come teoria, poi come comune denominatore di una volontà politica sottoscritta dai governi – operano, spesso in modo esplicito, sottintesi identitari.

    La rivincita delle “identità minoritarie”, anche da parte delle istituzioni transnazionali, è stato uno dei frutti più palesi della rottura dei canoni centralisti. E nelle riforme che si sono succedute a partire dagli anni ’70 e ’80 – in Alto Adige/Süd Tirol come nelle province autonome spagnole, in Scozia come in Francia – la critica delle narrazioni nazionaliste si è innestata sull’esaltazione di modelli identitari alternativi e rivendicati (addirittura, nel caso del Süd Tirol, sul concetto di Heimat) che rivendicavano, in alternativa a un’identità formale, civile – delle appartenenze “calde”, sentimentali, conculcate19.

    Nel rivendicare un’identità indigena – dal Canada alla Scandinavia – le ideologie sprezzantemente etichettate come woke nel dibattito pubblico sono, a loro volte, intrise di implicazioni identitarie: una visione della storia intesa a rifondare appartenenze conculcate, e pensate come “naturali”. Di converso, la stessa idea di valorizzare un’identità particolare porta a enfatizzare l’esistenza di un’identità “maggioritaria”, sia pure come fattore d’identificazione negativa: se il passato della minoranza la definisce e la qualifica, anche la maggioranza si ritrova ancorata ad una rappresentazione narrativa, stilizzata. La rivincita dell’ethnos (l’identità come natura) sull’ethos – l’identità come patto civile, sul quale il discorso della scuola conosce può esprimersi in modo più articolato.

     

    68779612 hugeFig.2 : "Sametinget", il parlamento della minoranza "Sami" in Norvegia (immagina libera da diritti Fonte )Combattere l’identità in nome dell’identità?

    In Svezia ad esempio, dopo il loro riconoscimento ufficiale, nel 2000, come “minoranze nazionali”, gruppi come i Rom, i Sami o gli ebrei sono stati integrati nel curricolo ufficiale (da un governo progressista) non solo come fonti di conoscenza, ma nell’intento preciso di guidare i membri verso un’identificazione positiva con la “loro” identità. Al carattere fortemente etico e integrativo dell’uso della disciplina, proprio alla Svezia, viene così ad aggiungersi, in complemento, l’idea di un’identità parziale, come fonte di autostima. Il risultato, come mostrano gli studi in proposito, apre quesiti angosciosi, di difficile soluzione, per il corpo insegnante: che significa, per l’insegnante di storia, promuovere la fierezza “etnica” di alunni diversi, dentro la stessa classe? Insegnare un’anti-storia, contrapposta a quella mainstream? Una storia della quale l’insegnante di storia, peraltro, non conosce nulla?20

    L’identità nazionale è insomma contestata più spesso in nome dell’identità che contro di essa: il culto delle radici caratterizza, in modo a volte ossessivo, gli avversari del canone tradizionale – che lo accusano di razzismo e di esclusivismo. E il dialogo tra pedagogia e scrittura dei curricula continua ad offrire il destro a una retorica che tiene assieme individualismo, critica e identità. Al di là delle quérelle nazionali, le istituzioni europee e transnazionali sono impegnate da vent’anni nella promozione di un’ideologia delle competenze multiculturali, e di una “memoria comune” europea, che insiste su capisaldi dello stesso tipo: rivendicazione di valori comuni, valorizzazione di determinati snodi, e persino la scelta di miti dell’origine e di eroi21.

     

    paty 960Fig.3: Annuncio della commemorazione in memoria del prof. Samuel Paty nelle scuole francesiLa Francia: immigrazioni e identità nazionale

    La ricerca di tessere, con gli strumenti della storia, un’identità europea transnazionale, la riabilitazione delle memorie regionali e autonomistiche, e il riaffiorare di nostalgie nazionaliste seguono da decenni un percorso parallelo; ma scandiscono entrambe il dibattito sulle possibilità del “vivere assieme”, in comunità sempre più minacciate da tensioni centrifughe. Secondo i contesti, alla scuola viene richiesto ora di incapsulare queste tensioni con una parola suadente, ma a-storica (rafforzando l’educazione ai valori democratici, l’ABC del vivere in società) oppure di non sottrarsi al confronto sulla storicità dell’incontro tra memoria e esercizio della cittadinanza, portandovi una voce razionale, e abilitando l’alunno a posizionarsi in modo autonomo. La Francia sembra aver percorso la prima strada: le riforme messe in cantiere, in riferimento all’insegnamento della storia, dal socialista Hollande e da Macron (entrambi accusati dalla destra di svendere l’identità nazionale) confermano che il quadro di riferimento è dato ampiamente per scontato, e resta risolutamente nazionale, ma non necessariamente “nazionalista”. I programmi della scuola dell’obbligo francesi appaiono più espressamente etnocentrici dello stesso progetto che Galli della Loggia abbozza, in modo un po’ sommario, per la scuola primaria. È sufficiente, per verificarlo, osservare la suddivisione in temi proposta per le classi CM1 e CM2 (età: 9-10 anni), e introdotta nel 2015:

    Storia - Classe di CM1

    • TEMA 1: …e prima della Francia?
    • TEMA 2: L’epoca dei re
    • TEMA 3: L’epoca della Rivoluzione e dell’impero

    Storia - Classe di CM2

    • TEMA 1: L’epoca della République
    • TEMA 2: L'età industriale – in Francia
    • TEMA 3: La Francia, dalle guerre mondiali all’Unione europea.

    Il quadro di riferimento si espande, ma solo in parte, a livello di scuola secondaria. Al liceo, una forte caratterizzazione tematica e problematizzante dello studio della storia non impedisce che i temi proposti per i primi due anni del corso siano, in misura di 3 su 8, incentrati sulla modernità in Francia.

     

    Quando quella del professore di storia è una situazione a rischio

    Non è forse un caso se dalla critica delle narrazioni auto-centrate, narcisistiche, la Francia, paese che per primo, grazie Emile Durkheim, arrivò a concettualizzare la funzione centrale della scuola come fabbrica della coesione sociale trascenda subito nella ricerca elaborata di nuove forme di comunità. La spinta dei movimenti migratori ha servito indubbiamente da sprone. Quando il curricolo e i programmi d’esame, per esempio, hanno introdotto il tema della colonizzazione e della decolonizzazione, è anche per sottolineare (con una legge varata sotto la presidenza Chirac) il “ruolo positivo” delle conquiste francesi, o per problematizzare (come nei programmi del 2019, in vigore per l’ultima classe del liceo) le ferite ancora aperte: “la guerra d’Algeria e le sue memorie”22. Il confronto con una narrazione comune, con un’identificazione che si biforca, è dunque sempre al centro.

    PatyFig. 4: Samuel Paty (1973-2020) FonteIl ruolo strutturante del passato e della sua elaborazione ha insomma il suo posto tanto nel vecchio approccio come nel nuovo: come dato, e come progetto. E soprattutto come oggetto di preoccupazione, in un paese dove essere professore di storia è un mestiere a rischio. Essersi fatti carico del proprio ruolo di mediatore dei valori di tolleranza del 1789, è valso a due colleghi – negli ultimi quattro anni – una condanna a morte, ad opera di gruppi che concepiscono l’“identità” (religiosa e non solo) come un’entità non negoziabile, su cui la scuola non deve avere la minima presa23. Anche per questo la ricerca di una via d’uscita, anche tra gli storici di professione, è percepita come una necessità vitale.

     

    La comprensione critica è una chiave per un approccio comune alla storia

    Generalmente, sono proprio gli specialisti dell’alterità in seno ai curricula e ai canoni d’insegnamento – tra i quali lo scrivente si annovera – a porsi il problema della fabbricazione sociale di una narrazione comune, attraverso la narrazione storica. Il racconto di “ciò che ci è comune” è il titolo di un’inchiesta, realizzata nel 2016 sotto la guida della sociologa Françoise Lantheaume, mettendo a confronto la Francia con la Svizzera, la Germania e il Canada24. La scelta di questo tema dialoga polemicamente con la lettura declinista dello stato della scuola. Già nel 2002 un libro controverso, I Territori perduti della Repubblica25 aveva tracciato un quadro allarmante dell’incapacità della scuola di frenare l’esplosione di razzismo, confermando l’impressione che in molte aree peri-urbane, dominate dall’influenza delle reti islamiste, la trasmissione dell’ABC civico repubblicano fosse messa a repentaglio. In un’antologia di testimonianze di operatori della scuola, raccolte all’indomani degli attentati del 2015, gli risponde Benoît Falaize con un titolo che fa il verso al precedente: I territori vivi della Repubblica26. Nell’introduzione, il libro contiene un’osservazione incoraggiante: un insegnamento fattuale, incentrato sulla comprensione critica, può anche essere la chiave dell’incontro tra le memorie. La ricetta per un’identità ricomposta.

     

    Nessuno avrà da ridire se “comprendere” e “conoscere” possono anche significare, per effetto indotto, la possibilità di “ri-conoscere”.

     

    Per quanto le diagnosi sembrino divergere radicalmente, dunque, un interrogativo attorno alla costruzione del senso comune per mezzo della storia sottende la controversia, sui due fronti. Sul piano empirico, due punti fermi emergono dall’analisi delle risposte degli alunni: da un lato, al di là della pretesa disgregazione della scuola repubblicana, i punti di riferimento storici (date, personaggi, episodi fondatori…) tendono a perpetuarsi a prescindere dalla prudenza con cui la scuola vi si avvicina, dall’altro, la ricerca identitaria, mediata dalla storia, resta diffusa tanto a sinistra quanto a destra dello spettro politico. Il primo dato ci conferma anche che una prospettiva narrativa e genetica è ancora una modalità prevalente a partire da cui la storia viene assimilata; il secondo, che le società atomizzate che ci circondano non scoraggiano, ma esasperano la ricerca di “radici” storiche.

     

    6. Una quérelle non solo “scolastica”: identità e memorie nella storia pubblica

    Cercherò, per concludere, di riassumere le domande che questa ricostruzione solleva. Invitando il lettore a sospendere – in omaggio a una buona prassi scientifica – il giudizio di valore (“l’identità – come l’intendiamo – è buona o cattiva”?), per chiedersi invece: fino a che punto riconoscersi in un’identità (storica) è un “bisogno” per il singolo? Quanto lo è per la collettività?

    Mi pare indispensabile rilevare a questo proposito un altro aspetto a complemento della cronologia dei curricula tracciata da Cajani: dopo i correttivi apportati alla riforma Moratti, gli obiettivi identitari del curriculum non sono stati tanto accantonati, quanto trasferiti in misura crescente verso altri oggetti d’identificazione, extracurricolari. Il dato non è solo italiano: l’esplosione delle diverse forme di sensibilizzazione alla memoria di traumi collettivi, drammi o genocidi ha conosciuto un boom, nel quale l’intenzione di inculcare durevolmente un senso di identificazione – ma anche emozioni, sensazioni comuni – si esprime senza filtri. Il passato è portatore (secondo le Linee guida nazionali “per una didattica della Shoah a scuola”, del 2019) di una “lezione”; la sua conoscenza non deve (cito dallo stesso documento) “restare fine a se stessa”.

    Un punto di vista edificante, echeggiato anche nell’ampia produzione di raccomandazioni, europee o italiane, relative alla “cittadinanza attiva”, multiculturale e post-nazionale, ove lo studio della storia è la premessa di una presa di coscienza etica, di un senso di “responsabilità”27.

    Senza pronunciarmi sulla fondatezza di simili approcci, devo constatare che il modello integratore, la ricerca di forgiare il cittadino di domani, non si è mai inclinato a una prospettiva avalutativa, neutrale: l’ingegneria dell’identità si è spostata verso altri nuclei narrativi, investendoli di attese. La novità è piuttosto la difficoltà generale che la costruzione di una narrazione post-nazionale incontra, a fronte delle intransigenze della memoria sociale. È sintomatico che – mentre le porte della scuola si aprivano, attraverso l’inflazione di giornate “della memoria di…” – alle pratiche commemorative, si è rivelato sempre più arduo, nello spazio sociale, fare riferimento agli elementi fondatori della comunità. Riconoscersi in una storia, in un’anamnesi, reale e non affabulata.

    Dal 25 aprile, all’Unità d’Italia, al 1° maggio, le rare occasioni in cui al corpo politico è data l’occasione (nel deserto delle culture politiche d’antan) di riconoscere la propria legittimità, stanno diventando occasione di contrapposizioni rituali, non di rado violente, in cui la storia viene negata, manipolata o agitata come una clava. Anche Insegnare l’Italia – nel proporre un uso etico e edificante, per non dire “presentista” dell’epopea di Roma, della civiltà comunale o del Risorgimento – cade in questa trappola.

    Restano allora due domande: a) quale funzione può esercitare l’insegnamento della storia nella gestione di queste tensioni? b) è utile negare il problema, come se la storia che insegniamo o che riassumiamo nei curricula o nei libri di testo non avesse nessun rapporto con le memorie che operano di fronte a noi, e dentro di noi?

    Contrapporre categoricamente l’identità collettiva ad una storia più vera o “pura”, non è – a mio avviso – una risposta adeguata alla sfida lanciata da Insegnare l’Italia. Si tratta di ricordare – con Maurice Halbwachs28 – che le comunità, tutte, sono fatte di ricordi condivisi. La parola della scuola dovrebbe essere attenta, scientifica, emancipatrice – ma anche consapevole del suo impatto, e delle sue responsabilità.

     


    Note

    Il nome esatto del ministero, istituito nel 2007 e soppresso tre anni più tardi, era Ministère de l'Immigration, de l'Intégration, de l'Identité nationale et du Développement solidaire.

    G. Noiriel, À quoi sert “ l'identité nationale ”?, Marseille, Agone, 2007.

    Loi n°2021-1109 confortant le respect des principes de la République (“loi-séparatisme”), del 2021.

    Tra le innovazioni della legge si nota la riduzione drastica delle deroghe che autorizzano l’istruzione familiare (homeschooling).

    Un contributo recente su questo tema, pubblicato in Francia, è Histoires nationales et narrations minoritaires: vers de nouveaux paradigmes scolaires ? : XXe-XXIe siècles (a c. di P. S. Colla, B. Girault e S. Ledoux), Lilles, Septentrion, 2024.

    Svenskfientlighet. Dichiarazioni rese, tra aprile e maggio 2024, dalla ministra delle Pari opportunità, Paulina Brandberg, liberale.

    7 https://balkaninsight.com/2021/11/08/the-two-faces-of-orbans-hungary-christian-and-neo-ottoman/

    Persino un presidente come Macron, che aveva fatto dell’integrazione europea un tema caratterizzante del suo primo mandato, ha compiuto incursioni in questo campo, invocando il ritorno alla “cronologia” nella didattica della storia. 

    M. Grever, S. Stuurman (a c. di), Beyond the Canon: History for the Twenty-First Century, Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2007.

    10 Su questo, vedi il contributo di K. Van Nieuwenhuyse, L’enseignement de l’histoire dans un Etat-nation en déclin. Le cas belge depuis le XIXe siecle in Histoires nationales et narrations minoritaires, cit. Cfr. anche il volume curato da E. Tartakowski, School Historical Knowledge in Europe. Transnational circulations and debates, Arcidosso, Effigi 2023, che comprende altri casi recenti di “rinazionalizzazione” dell’insegnamento della storia, come il caso della Polonia.

    11 Insegnare l’Italia – Una proposta per la scuola dell’obbligo, Brescia, Scholé 2023.

    12 “La dimensione nazionale si presta in modo privilegiato ad educare alla memoria” ribadisce ancora il documento Indicazioni nazionali e nuovi scenari (CSN per le Indicazioni nazionali, 2018).

    13 Su questo tema, cfr. l’intervento di A. Brusa.

    14 https://www.coe.int/en/web/reference-framework-of-competences-for-democratic-culture/

    15 “Razza e Cultura” in C. Levi-Strauss, Razza e storia. Razza e cultura, Torino, Einaudi, 2002 [1971].

    16 S. Citron, Le mythe national, Paris, Editions ouvrières, 1987.

    17 A. Aglan e al., Zemmour contre l'histoire, Collection “ Tracts ”, 34, Parigi, Gallimard, 2022.

    18 Histoire mondiale de la France, Parigi, Éditions du Seuil, 2017.

    19 Andrea Di Michele, The Teaching of History in Schools in South Tyrol, from 1945 to the Present Day: From Promoting Identity to Building a Common History, in Piero S. Colla, Andrea Di Michele (a c. di) History Education at the Edge of the Nation. Political Autonomy, Educational Reforms, and Memory-shaping in European Periphery. Cham, Palgrave, 2023.

    20 Cfr. C. Svonni e L. Spjut, Swedish School Curricula and Sámi Self-Identification: The Syllabus from 1960s to 2011 in Colla, Di Michele, History Education at the Edge, cit.

    21 Dalla proclamazione del 23 agosto come Giornata europea della memoria, alla Risoluzione del 19.9.2019 sull’“Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, all’inaugurazione della Casa della Storia d’Europa, il calendario politico dell’istituzione democraticamente più “legittima” dell’UE testimonia di questa ricerca. Cfr. A. Sierp, Le politiche della memoria dell’Unione europea in “ Qualestoria ”, 2, 2021.

    22 L. Wirth, L’histoire du fait colonial dans l’enseignement secondaire. “ Hommes & Migrations ” 1, 2012. 

    23 Il 16 ottobre 2020 Samuel Paty, professore di storia e geografia in una scuola media della periferia di Parigi, fu decapitato con un’ascia per avere mostrato immagini giudicate blasfeme durante un corso di educazione civica. La denuncia di genitore di un’alunna fu all’origine dei fatti. Un altro attacco terroristico, con un morto e tre feriti, si verificò il 13 ottobre 2023, ad Arras, nel nord della Francia: i testimoni hanno riferito che l’aggressore si era lanciato all’assalto dei docenti gridando : “sei un professore di storia ? Sei un professore di storia” ? 

    24 F. Lantheaume e J. Létourneau (a c. di), Le récit du commun: l’histoire nationale racontée par les élèves, Lyon, Presses universitaires de Lyon, 2016.

    25 Emmanuel Brenner (a c. di), Les Territoires perdus de la République. Antisémitisme, racisme et sexisme en milieu scolaire, Paris, Mille et une nuits, 2002.

    26 B. Falaize, Territoires vivants de la République, Paris, La Découverte, 2018.

    27 Indicazioni nazionali e nuovi scenari, cit.

    28 La memoria collettiva, ‎ Milano, Unicopli, 2007 [1950].

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