storia medievale

  • Studio di caso: il mondo della curtis*

    Autore: Cesare Grazioli

     * elaborato secondo le indicazioni contenute in Gli studi di caso. Insegnare storia in modo partecipato e facile di Antonio Brusa (per la Summer School dell’Insmli a Venezia nell’agosto 2014), ora in Novecento.org

     

    tempo previsto di lavoro in aula: 2 ore

     Il polittico di Irminone 

     

    Indice

    1.    Testo per gli studenti
    2.    I documenti
    3.    Attività didattiche
    4.    Esempi

     

    1.    Testo per gli studenti

    La curtis e il suo paesaggio agro-silvo-pastorale

    Una creazione duratura dei franchi, che si diffuse in tutto l’impero carolingio, fu la corte (curtis, detta anche villa), una forma di organizzazione del latifondo agrario che diventò la base del potere della nuova aristocrazia, laica ed ecclesiastica: una forma di potere sulle terre, e sui contadini che le lavoravano, poi definita dagli storici signoria fondiaria.  

    Per capire il funzionamento della corte, dobbiamo immaginare il paesaggio dell’Europa nei secoli prima del Mille, dominato dall’incolto e con una popolazione molto scarsa. Dall’Atlantico al Danubio (oltre il quale si estendeva l’immensa steppa euroasiatica) correva un manto compatto di boschi e foreste, “bucato” da radure di spazi disboscati, abitati e adibiti alle coltivazioni. In un certo senso, era l’opposto (come il negativo di una pellicola fotografica) del paesaggio tipico dell’altra sponda del Mediterraneo, unificata dall’Islam: là le oasi, isole alberate in un mare di sabbia, il deserto; qua, campi e prati come oasi nel mare alberato di boschi foreste e paludi.

    I villaggi agricoli – rari erano gli insediamenti in case sparse – erano raccolti al centro di queste “oasi senz’alberi”. A ridosso delle case, in legno coi tetti di paglia, vi erano gli orti e i frutteti, che richiedevano un lavoro più accurato. Attorno vi era l’anello degli arativi (cioè i campi arati e coltivati a cereali) e delle vigne; poi si estendeva quello dei prati spontanei, destinati all’allevamento di ovini, equini e bovini. Tutt’attorno era il bosco, ma anch’esso integrato nell’economia di villaggio. Le ghiande delle querce nutrivano i maiali allevati allo stato brado, la principale fonte di carne (poi salata ed essiccata) e di grassi (lardo e strutto). Il bosco forniva molto altro: legno, il solo combustibile e quasi l’unico materiale per costruire abitazioni e oggetti d’uso quotidiano;  miele selvatico, il principale dolcificante conosciuto;  frutti selvatici, pesci dagli stagni, selvaggina.

    I campi davano magri raccolti: il rendimento dei cereali (= il rapporto tra chicchi raccolti e seminati), oscillava  tra 2:1 e 3:1 (per avere un raffronto: oggi, per il grano il rapporto arriva a 20:1), ovvero si mieteva poco più di ciò che si era seminato, e che si doveva riseminare, se si voleva mangiare anche l’anno dopo. Però le risorse dei boschi e dei pascoli compensavano le basse rese agricole con un’alimentazione ricca di carne e di grassi animali, di frutta e di ortaggi. Si trattava dunque di un paesaggio e di un’economia agro-silvo-pastorali.

     

    La curtis, base della signoria fondiaria   

    Ogni corte comprendeva uno o più villaggi ed era divisa in:

    1) una pars dominica (o dominico), la parte che il signore (il dominus) faceva gestire a un suo amministratore; 2) una pars massaricia divisa in mansi (oggi diremmo poderi), affittati a famiglie di massari.   

    Sia i mansi sia il dominico, però, non erano costituiti di porzioni compatte di terra, ma disposti “a pelle di leopardo”: ogni manso, che equivaleva alla quantità di terra coltivabile dalla singola famiglia contadina, era formato da più porzioni disperse, anche lontane, inframezzate a porzioni di mansi di altre famiglie di massari, a piccole proprietà indipendenti (i cosiddetti allodi), e anche a mansi dipendenti da altre corti (cioè da altri signori); così era anche il dominico, formato da campi, prati spontanei, boschi e foreste.  

    Ciò che distingueva la pars dominica dalla pars massaricia  erano i modi con cui il signore si appropriava delle eccedenze (= quanto eccedeva il necessario per la sussistenza dei contadini), e anche la condizione giuridica dei contadini. Dal dominico, l’eccedenza dei raccolti andava nei magazzini del signore, detratta la quota che serviva a nutrire i contadini; questi erano di condizione servile e chiamati servi prebendari (perché retribuiti in natura con la “prebenda”: il cibo e l’alloggio). I massari, invece, erano affittuari che dovevano versare censi (o canoni: oggi diremmo affitti) in denaro o più spesso in natura, consegnando una parte (di solito un terzo o un quarto) dei prodotti del loro manso. Tra i massari molti erano coloni (cioè contadini liberi con contratti, non scritti, a lunghissima scadenza, trasmessi di padre in figlio), ma altri avevano gradi diversi di libertà, servitù, semi-libertà.  

    Oltre ai censi monetari o in natura, gli oneri dei massari comprendevano le corvées, giornate di lavoro gratuito sul dominico, in quantità molto variabili secondo le consuetudini locali: da alcune decine di giornate all’anno fino a tre giorni la settimana. Il signore ricavava poi altre entrate dai mulini ad acqua (o anche forni e birrerie) di sua proprietà, dei quali i contadini erano obbligati a servirsi, ovviamente pagando in denaro o in natura tale servizio: queste forme di monopolio erano chiamate bannalità, o diritti di banno. La signoria fondiaria non era dunque solo un rapporto economico, ma un sistema di potere dei signori sui contadini delle loro corti.


    Corvées e coltivazioni collettive   

    Su quell’intreccio così aggrovigliato, sia nella ripartizione delle porzioni di terra sia nei rapporti giuridici tra contadini e signori, si sovrapponeva un sistema comunitario di coltivazione, legato all’usanza della rotazione biennale: per ricostituire la fertilità del terreno se ne lasciava ogni anno metà a riposo, “a maggese”, per cui tutte le famiglie contadine coltivavano insieme la restante metà, a prescindere da dove fossero localizzate le loro porzioni di manso. Il frazionamento dei mansi in porzioni lontane evitava che tutta la terra di una famiglia fosse situata per un anno su due nel maggese, la terra non coltivata. C’erano poi alcune terre comuni destinate a usi collettivi, come il pascolo degli animali e la raccolta di legna.

    Considerando che in agricoltura c’è una forte stagionalità, ovvero serve poco lavoro in inverno e molto nelle fasi più intense dell’annata agricola (l’aratura e il raccolto), con quel sistema il signore poteva lasciare sul  dominico poche famiglie di servi prebendari, perché a loro si aggiungevano, nelle fasi più intense del lavoro, i massari con i loro turni di corvées; e le famiglie dei massari riuscivano comunque a lavorare i propri mansi anche durante i giorni di corvées di un loro membro. Le corvées servivano inoltre alle più disparate attività (trasporto di legna o di letame, scavo di fossi, costruzione o riparazione di edifici e di altre strutture), e consentivano al proprietario della corte di ricavare qualcosa (come la falciatura dell’erba, che diventava fieno, cioè foraggio per i bovini) anche dai mansi non affittati e rimasti vuoti: cosa non rara, data la scarsità di popolazione. L’azienda curtense  rappresentava dunque per i grandi proprietari un modo flessibile ed efficiente di gestire i fattori produttivi dell’Europa di quel tempo: terra sovrabbondante e poche braccia da lavoro.

    [Chiedo alla classe di leggere rapidamente il testo (senza sottolinearlo), poi fornisco i due documenti seguenti].

     

    2.    I documenti

     

    GLI INVENTARI DELLE CURTES

    In Francia, in Germania e nell’Italia padana si sono conservati numerosi inventari di corti dei secoli IX-X, quasi tutte di proprietà di monasteri (più ordinati dei signori laici nel registrare e conservare in archivio i propri documenti). Erano scritti su pergamene, cucite e ripiegate a soffietto. Perciò si chiamano “polittici” (dal greco polu-ptychè = molte pieghe). In apparenza aridi elenchi contabili, quegli inventari si sono rivelati fonti preziose su diversi aspetti del mondo della curtis alto-medievale.

     

    Doc. 1  Dall’inventario del monastero di Santa Giulia (Brescia): la corte di Griliano (secolo X)
    Ndr (=Nota del redattore):  i puntini di sospensione … corrispondono a deterioramento della pergamena su cui era scritto il documento originale

     

    Nella corte di Griliano ci sono 2 case con camino in muratura, 5 capanne, terra arativa per seminare 300 moggi [Ndr: 1 moggio = circa 50 litri], vigna che produce 30 anfore di vino, di prato…, e una foresta incolta. I servi che abitano nella corte sono 36: 11 maschi adulti, 11 femmine, 14 bambini; ci sono anche 20 porci, 9 capre, 8 oche, 20 polli; nel granaio 90 moggi di frumento, 30 moggi di segale, …di orzo, 10 moggi di legumi; un mulino, che rende 15 moggi l’anno.     
    Gli affittuari sono 28, i mansi disabitati 17: tutti insieme pagano 14 soldi, 22 moggi di grano, 13 pecore, 12 formaggi, 20 vomeri, 3 scuri, 1 mannaia, 2 forconi di ferro, e altre 100 libbre [Ndr: 1 libbra=quasi 0,5 kg] di ferro, 10 panni rustici, 5 staia di legumi, 11 polli, 55 uova; e i suddetti affittuari prestano ogni anno 2850 giornate di lavoro.

     

    da: G. Pasquali, Inventari altomedievali di terre, coloni e redditi, in Fonti per la Storia d’Italia, Ist. Storico Italiano per il Medioevo,1979


    Doc.2  Dall’inventario del monastero di San Tommaso di Reggio Emilia: la corte di Enzola (secolo X)

    Inventario del monastero di San Tommaso apostolo, che dipende dalla santa Chiesa di Reggio. Nella corte di Enzola [Ndr: oggi frazione di Poviglio, nella bassa pianura in provincia di Reggio Emilia] abbiamo seminato sul dominico 15 moggi di cereali e ne abbiamo raccolti 50; abbiamo ricavato anche 5 anfore di vino e 10 carri di fieno; in questo luogo abbiamo 3 buoi, con 2 gioghi, 2 vomeri, 2 carri, 4 zappe, 2 scuri, una mannaia, 4 falci per mietere, 12 maiali, un recipiente per il vino, 7 recipienti per il grano, 4 oche; tra servi e ancelle, maggiorenni e minorenni, ne abbiamo 13.
    La corte è dotata di 5 poderi [Ndr: = mansi], sui quali risiedono 25 coloni dipendenti; da essi abbiamo ricavato 140 moggi di cereali, 14 anfore di vino, 84 denari di buon argento, 51 polli, 255 uova, 114 opere [Ndr: =giornate di corvées], metà coi buoi e metà con le mani.
    [Ndr:  seguono le descrizioni di altre 4 corti simili ad Enzola, situate nelle campagne tra Parma e Reggio]

     

    da: B. Andreolli, M. Montanari, L’azienda curtense in Italia, Cleub, Bologna 1983, pp. 153-156

     

     
    3.    Attività didattiche

     

    3.1    Mettere in relazione testo e documenti

    Faccio notare alla classe che anche gli storici si sono serviti di questo tipo di fonti, gli inventari, per descrivere il funzionamento della curtis.

    Divido la classe in coppie, e chiedo a ogni coppia di sottolineare nel testo le parti che potrebbero essere state ricavate da questi due inventari: uno studente sottolinea con un colore le parti del testo che possono essere state tratte dal doc.1 (corte di Griliano), l’altro della coppia sottolinea con un colore diverso (o con un diverso tratto di matita) le parti che possono essere tratte dal doc.2 (corte di Enzola); poi entrambi integrano le proprie sottolineature con quelle fatte dal compagno.

    Dopo questa attività (circa 15 minuti), la classe fa un rapido confronto tra i risultati del lavoro delle coppie, per controllare che si sia giunti alle stesse conclusioni, e discute le eventuali differenze (circa 10-15 minuti).


    3.2    Lavorare sui documenti

    [Ora la classe si divide in gruppi di 4 studenti, ciascuno dei quali a sua volta diviso in due coppie, che confronteranno i due inventari (cioè ne faranno un’analisi comparata) secondo le due seguenti prospettive di indagine (a, b), con le rispettive domande da porre ai documenti (circa 30-40 minuti)]

     a.    Storia dell’economia agraria: produzione e produttività

    1. Che cosa si produceva e che animali si allevavano nelle corti?    
    2. E’ possibile ricavare i rendimenti (cioè il rapporto tra raccolto e semina) dei cereali?    
    3. Com’era il paesaggio rurale della corte (cioè, quale spazio avevano gli arativi, gli orti, i prati, la foresta)?
    4. Le due corti qui esaminate erano più o meno della stessa dimensione, o di ampiezza anche molto diversa?
    5. Tenendo conto dei diversi aspetti visti finora, si è in grado di capire quale delle due corti era più produttiva?

    b.    Storia sociale: i rapporti tra proprietari e contadini:

    1. Di quale condizione giuridica (liberi o servi) erano i contadini delle due corti?
    2. Quali erano gli oneri dei contadini (distinguendo quelli in denaro, in prodotti, in lavoro, e oneri bannali)?
    3. E’ possibile capire se vi era scarsità o abbondanza di popolazione sul territorio?
    4. Tenendo conto di tutto questo, si può capire in quale corte le condizioni dei contadini erano migliori?

    [Se rimane tempo, alla fine di questa analisi comparata dei due inventari, se ne confrontano i risultati: questa attività viene svolta nella prima parte dell’ora successiva.]

     

    3.3    Integrare il testo con notizie tratte dai documenti
    Nella restante parte della seconda ora di lavoro, ogni gruppo integra il testo con le informazioni aggiuntive emerse dall’analisi comparata dei due inventari, ovvero ne costruisce una specie di apparato critico: in corrispondenza delle parti del testo per il quale dalle fonti sono emerse informazioni aggiuntive o esplicative, indica i numeri che stanno per le note al testo (1, 2, 3, ecc.), e in un foglio a parte (che corrisponde allo spazio per l’apparato critico posto a fine capitolo), riporta i numeri e scrive brevi testi, appunto le note, corredate dal riferimento (ad es:  1. ………testo, di un massimo di 2-3 righe……, cfr. inventario di Enzola, riga 7-8).
    I gruppi che non fanno in tempo a finire, concluderanno a casa il lavoro di integrazione del testo.


    4. Esempi

    A seguire, un paio di esempi già svolti su come i gruppi dovrebbero costruire tale apparato critico.

    Gli esempi qui proposti non devono in alcun modo essere considerato l’unica soluzione possibile; al contrario, ce ne possono essere diverse plausibili. E’ ad esempio legittimo che un gruppo inserisca molte note (non più di una ogni due-tre righe, però), e un altro poche ma più ampie: l’importante è che siano pertinenti e sensate.


    Formule di apertura che potrebbe essere utile consigliare, per iniziare il testo della nota a piè di pagina, sono:
    “Ad esempio in alcuni casi, come a Griliano, accadeva che…”; “C’erano differenze anche notevoli tra corti diverse: talora, come a Griliano, la situazione era…., mentre in altre corti, come in quella di Enzola, ….”.

     

    Primo esempio, riferito all’inizio del secondo capoverso del primo paragrafo:
    «Per capire il funzionamento della corte, dobbiamo immaginare il paesaggio dell’Europa nei secoli prima del Mille, dominato dall’incolto e con una popolazione molto scarsa» (1)

    A questa nota, corrisponde a fondo pagina un testo come il seguente:

     1)    Che la popolazione fosse molto scarsa, lo si ricava dal fatto che in diverse corti c’erano molti mansi disabitati: ad esempio a Griliano, una corte dipendente dal monastero di Santa Giulia di Brescia, ben 17 mansi erano vuoti, rispetto ai 28 affidati a famiglie contadine. In altri casi, però, come a Enzola nella bassa pianura reggiana, tutti i mansi erano occupati, per cui il popolamento doveva essere piuttosto disomogeneo.

    Secondo esempio, riferito all’inizio dell’ultimo capoverso dello stesso paragrafo:
    «I campi davano magri raccolti: il rendimento dei cereali (= il rapporto …e seminati), oscillava  tra 2:1 e 3:1»(2)

    A questa nota, corrisponde a fondo pagina un testo come il seguente (o anche molto più breve di questo):

     2)    Non sempre gli inventari indicavano il rapporto tra raccolto e semina, perciò non sempre è possibile ricavare il rendimento dei cereali, ad esempio a Griliano. In alcuni casi, invece, si indica espressamente tale rapporto, ad esempio ad Enzola, dove era di 50 moggi di grano su 15 seminati, perciò con un rendimento di 3,3 : 1, che rispetto alle medie del tempo si può giudicare abbastanza alto [la parte seguente non è alla portata degli studenti: forse a causa della posizione favorevole di questa corte, nella bassa pianura, più fertile delle zone collinari o montagnose].

    E’ opportuno che un esempio già svolto (uno di questi due, o altri) venga fornito alla classe come modello da seguire.

  • Via Francigena. Uso pubblico e realtà storica *

    Autore: Giuseppe Sergi


     
    Di quello che si de’ astenere il pellegrino e quello che de’ prendere
    Giovanni Sercambi, Cronache delle cose di Lucca, dal 1164 al 1424, A.S.L., Biblioteca Manoscritti, n. 107, c. 352r

     

    "Viae Francigenae" al plurale

    Secondo Abelardo -   lo ha ricordato Umberto Eco negli anni Ottanta del Novecento  -  le parole non si limitano a rispecchiare la realtà, ma danno anche corpo sia alle cose scomparse sia a quelle inesistenti (Postille a Il nome della rosa, in "Alfabeta", 49,giugno 1983, p. 19). La definizione di "via Francigena" si riferisce di sicuro a una cosa oggi scomparsa. Possiamo domandarci: c'è anche il rischio che si riferisca a una cosa inesistente?

    No, il rischio non è così alto: ma certo il Consiglio d'Europa con il suo progetto di itinerario europeo, gli assessorati delle regioni italiane con i loro materiali, le numerose associazioni nate per valorizzare culturalmente o turisticamente la “Via Francigena”, tutti rischiano davvero di dare una consistenza troppo precisa a questa parola, quasi che indichi una grande identificabile e ben tracciata autostrada che percorreva in diagonale l'Europa medievale.

    Non era così: le vie "Francigenae" erano molte, o addirittura moltissime, e non si può neppure parlare di varianti di un percorso principale perché per lo più si trattava di percorsi di pari dignità e pari anche per intensità di transiti. L'esempio lo offre proprio il Piemonte che ha due grandi valichi "Francigeni" alla pari (il Gran S. Bernardo e il Moncenisio) di cui sarebbe assurdo tentare di stabilire quale sia il più 'vero' o il più importante. Non solo, ma molte attestazioni documentarie designano strade di cui noi non riusciamo a tener conto, perché se lo facessimo ci avvieremmo a cartografare gran parte del reticolo viario europeo: valle per valle, zona per zona. Sono le strade di cui le popolazioni locali volevano semplicemente dire che arrivavano dalle Alpi o verso le Alpi si dirigevano.


    Calarsi nella mentalità medievale

    Allora il medievista non deve discutere di via Francigena come se si trovasse sempre di fronte a una carta dell'Europa o comportandosi da uomo attuale che ha istintivamente una mentalità da carta europea: deve, invece, calarsi nella mentalità e nella concezione proprie degli anni in cui la "via" o meglio le "viae Francigenae" erano usate e non erano una lodevole ma artificiale ricostruzione culturale.

    Lo storico ha gli strumenti per valutare tutti quei percorsi alla luce di una completa carta d'Europa (ciò che ben pochi nel medioevo si avvicinavano a poter fare) e, al tempo stesso, per non cadere negli anacronismi un po' frettolosi in cui  cadono facilmente gli enti turistici di oggi. Può essere utile, in questa sede, accennare al potenziale perenne rapporto dialettico fra Ministero dei Beni culturali e del Turismo e le singole Pro Loco: il primo ha l'istinto di cercare il vero percorso di una grande strada medievale (perché sia più semplice da cartografare e da proporre al turismo internazionale); le seconde sono pronte ad applaudire se quell'unico percorso individuato passa sul  territorio  dei  loro  comuni  e  a  mandare  telegrammi  indignati  se  ciò  non avviene.

    Avrebbero torto l'uno e le altre, sia il Ministero sia le Pro Loco: è come se pensassero davanti a carte di scala molto diversa.

    Per fortuna la via Francigena non è Cristoforo Colombo: perché Cristoforo Colombo è uno solo, da qualche parte sarà pur nato, ed è difficile sottrarsi a quella  vera  (in  questo  caso  non  immaginaria)  guerra  di  Pro  Loco  che  si contendono i natali dello scopritore dell'America. Di "viae Francigenae" invece ne possono esistere varie, e se aggiungiamo anche le attestazioni di "Romea", "pellerina" e, in qualche caso, "regia", ne esistono in numero ancora maggiore.

    Il linguaggio della sentenza iniziale di Abelardo, dunque, il linguaggio che parla di cose che non ci sono più, riflette anche il lungo travaglio che avevano avuto quelle stesse cose mentre c'erano ancora. Rivela che ci sono state culture locali e regionali (gli orgogli municipalistici, le tradizioni, ciò che corrisponde, nel passato più lontano, alle Pro Loco di oggi) che si sono comportante in modi diversi.


    Locale,  non localistico

    Attenzione, non sto suggerendo una lettura tutta localista. Non sto dicendo che l'uomo del medioevo aveva solo orizzonti spaziali circoscritti. Non voglio proporre mille piccoli paesaggi mentali al posto dell'unica grande carta d'Europa dell'uomo  contemporaneo.  Sto  dicendo  che  allora  c'erano,  e  convivevano, concezioni dello spazio molte diverse e che ognuna di queste concezioni determinò diverse sedimentazioni documentarie del termine "via Francigena".

    Per gli abitanti di Alessandria, la via Francigena era quella che passava vicino alla loro città. Non si ponevano il problema che ne esistessero altre; così per gli abitanti della valle di Susa, del Torinese o addirittura del Novarese. E' proprio un problema di toponomastica locale, come il nostro dare nome alle vie: nella toponomastica locale la "via Francisca" o "Francigena" era quella che suggeriva il percorso transalpino; non creava alcun disturbo che altre zone avessero pure la loro, diversissima e diversamente direzionata, via Francigena.

    Certo i poteri di dimensione regionale, come i Savoia, sapevano che la loro regione conteneva una pluralità di percorsi, ma non si preoccupavano di gerarchizzarli, né potevano sensatamente tentare (non avrebbero avuto alcun successo) di cambiare a favore di un percorso unico gli usi toponomastici locali.

    I grandi poteri poi, nel medioevo, non erano in grado di costruire grandi percorsi sovraregionali come le strade romane, imponendo nomi appositi del tipo di "via Aurelia" o "via Aemilia". Non potevano farlo, non tentavano neppure, e neanche tentavano di denominare in modo unitario percorsi già esistenti. Ecco, noi in un certo senso siamo deformati dall'idea delle grandi vie romane: perché la nostra odierna concezione - dello spazio ma anche dello stato - è in realtà vicina più a quella romana che a quella medievale. Quindi rischiamo di cercare sulla carta la via Francigena   un po' come si cerca la via Aurelia: e, se lo facciamo, sbagliamo.


     
    Tabula peutingeriana, I-IV secolo, edizione Konrad Miller, 1887-1888 (segmento VII)

    La tabula peutingeriana è una lunga striscia di pergamena, divisa in 11 segmenti, che riporta la mappa del mondo conosciuto e conquistato da Roma. La mappa è conservata presso la Biblioteca Nazionale di Vienna (Codex Vindobonensis). Essa fu rinvenuta nel 1507 in una biblioteca di Worms da Konrad Celtes, bibliotecario dell’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, che la fece pervenire all’umanista Konrad Peutinger. Nel documento giunto sino a noi manca la parte estrema  occidentale dell'impero, ovvero parte della Britannia e della Penisola Iberica

     

     

    Leggere storicamente le fonti

    Dobbiamo invece tener conto del pensiero degli uomini e storicizzarlo: il pensiero diverso, come abbiamo visto, di chi intraprendeva un viaggio, di chi dalla sua reggia considerava i suoi domìni dall'alto  -  in modo statico ma senza i mezzi per modificare troppo il paesaggio  - e infine il pensiero di chi (il contadino, ma soprattutto il notaio che redigeva i documenti) nei luoghi ci abitava. Per gran parte del medioevo coloro che principalmente incidono sulla toponomastica locale sono questi ultimi, cioè gli abitanti locali.

    Gli  storici  hanno,  in  passato,  lavorato  sui  grandi  itinerari  (quelli  degli eserciti, raccontati dai cronisti) ma anche quelli dei pellegrini colti che, come Sigerico, ce li raccontano in prima persona. Ma ora  - se cercano in ogni regione dove nei documenti notarili locali è rimasta traccia di un nome di strada che di quella strada vuole sottolineare l'internazionalità  - essi si imbattono quasi esclusivamente nella concezione locale dello spazio. Quindi si imbattono in varie e diverse "viae Francigenae", o scoprono che lo stesso percorso che al quinto chilometro si chiama "via Francigena", al ventesimo chilometro si chiama "via regia", oppure "via Romea".  In Piemonte non c'è dubbio che la "strata pellegrina" o "pellerina" (presso Torino) è un percorso di quella che un po' più a nord e un po' più a sud si chiama "Franca" o "Francorum" o "Francisca" o "Francigena", ma che, procedendo verso Vercelli, può anche chiamarsi "strata Lombarda". In Valle d'Aosta la strada percorsa da Sigerico non si chiama via Francigena, bensì "via publica domini comitis": ma avremmo il coraggio di dire che si trattava di una strada diversa? Evidentemente no.


    Lo spazio dei viaggiatori

    A quella locale e a quella regionale possiamo aggiungere almeno altre due concezioni dello spazio: quella dei grandi viaggiatori (mercanti, pellegrini, intellettuali, militari) e quella dei grandi poteri centrali (i re, i papi).

    I grandi viaggiatori, all'inizio del loro viaggio (un mercante astigiano verso le fiere della Champagne, il monaco  che da S. Giusto di Susa si accinge a fare un viaggio religioso-culturale attraverso i principali monasteri europei, il pellegrino diretto a Roma, il principe che avvia una spedizione militare verso la pianura padana) progettavano - insisto, "progettavano" - il loro percorso volta per volta, a seconda di mete e obiettivi e, qualunque fosse la loro scelta (sapevano benissimo di non avere una sola scelta possibile), dovunque transitassero, avevano   buone possibilità di essere percepiti come "viandanti della via Francigena" dagli abitanti delle zone in cui passavano, perché in ogni singola zona non usavano se non raramente percorsi secondari, ma usavano la strada che, per la cultura locale, era quella pubblica, internazionale e dei grandi viaggiatori.

    Il fatto che, sempre nella zona di Torino, sia documentata la "strata publica peregrinorum et mercatorum", elimina poi ogni dubbio sulla possibilità che vi fossero percorsi preferenziali diversi per i pellegrini o per i mercanti: non erano diversi. Le modalità dei viaggi potevano essere differenziate non solo dalle mete, ma anche dalle soste intermedie: monasteri e luoghi di culto nel caso dei pellegrini, mercati e città nel caso dei mercanti, ma senza escludere, perché c'erano, i viaggi misti, con intreccio di motivazioni religiose e commerciali.

    Ciò  che  ho  appena  detto  segna  una  differenza  importante  della  via Francigena rispetto al percorso per Santiago di Compostella: quest'ultimo era infatti un percorso specializzato di pellegrinaggio, all'interno di singoli tratti del quale si innestava poi ogni altro tipo di uso, ma che rimaneva molto caratterizzato. Questa specializzazione d'uso determina anche una maggiore precisabilità del suo percorso, perché ogni tappa aveva acquisito un valore rituale che, per la sua stessa natura, tollerava meno le deviazioni.

     
    Teodomiro davanti alla tomba di San Giacomo, la data dell’invenzione è fatta tradizionalmente risalire all’anno 829.
    Archivo della Cattedrale di Santiago de Compostela, Ms. Tumbo A (1129-1255), c 1v

     

    A fronte di un comune medievale di Torino che poteva imporre ai viaggiatori di sostare almeno una notte in città, ed essenzialmente a questo badava, ci sono stati i numerosi  comuni toscani che, nell'insieme,  hanno  preferito già nel medioevo l'aggettivo "Francigena" rispetto ad altri aggettivi e hanno anche propagandisticamente determinato la maggiore notorietà di un percorso rispetto ad altri, come dichiarò candidamente un assessore regionale al Turismo (in "Su & Giù per la Val di Susa e la Val Sangone", 19 (ottobre 1994, p. 11).

    Da quel nome e da quella notorietà deriva un atteggiamento d'indagine (l'individuazione del "vero" percorso medievale, la distinzione d'uso fra diversi percorsi) che ha forse per la Toscana maggiore giustificazione. Ma per le altre regioni non dobbiamo compiere noi, oggi, le operazioni che il medioevo non aveva compiute. La riapertura e la pubblicizzazione in valle di Susa, qualche anno fa, del "sentiero dei Franchi", deve essere salutata come la lodevole valorizzazione turistico-culturale di uno degli interessanti percorsi medievali - sopravvissuti solo nella memoria popolare e non nell'uso - ma non si devono, come purtroppo è stato fatto, accogliere anche le deformazioni di quella memoria popolare: ad esempio la convinzione che fosse il percorso compiuto da Carlo Magno per sconfiggere i Longobardi, oppure che fosse una strada tutta speciale con cui i pellegrini toccavano i principali monasteri della valle.


    Tanti nomi per tante vie

    Perché il nome "Francigena"? Alcuni studiosi, rispetto a una certa  spiegazione  spontanea  (Francigena  come  strada  "generata,  proveniente" dalla Francia), preferiscono un'altra spiegazione, che considera via Francigena equivalente dell'altrettanto documentato "via Francigenarum" (cioè via percorsa da coloro che sono nati in Francia). Forse entrambe sono spiegazioni accettabili: l'importante è aver chiaro che la "regione di Franchi" nel medioevo non coincideva con l'attuale Francia. Il regno dei Franchi occidentali era diverso dal "regno dei Burgundi" - la grande Borgogna di allora - e ciò spiega perché anche in Savoia e nella Borgogna attuale, pur di là dalle Alpi, si trovano attestazioni di "via Francigena".

    Di tutti i nomi possibili della via (abbiamo visto Francorum, Franca, Francisca, Francexia, Pellerina, Romea e altre varianti più generiche), questo è quello che suona più originale ed esotico sia alle orecchie medievali sia alle nostre: ciò che è più esotico è anche più connotante. Di qui la fortuna storica sull'Appennino tosco-emiliano e nelle aree più vicine a Roma (dove "Romea" rischiava di essere troppo normale). Di qui, anche, la fortuna odierna.

     

    Le strade, le chiese, la Chiesa, il Giubileo

    Chiesa e poteri: un singolare inesatto e un plurale da spiegare. Su questi argomenti il medioevo è una storia di singolari e di plurali da definire. Vediamo perché e incominciamo dalla chiesa. Fino agli anni di passaggio fra i secoli XI e XII, fino a Gregorio VII, a Canossa, al notissimo concordato di Worms, sarebbe anacronistico e sbagliato attribuire alla sede papale la funzione che i secoli successivi ci hanno abituato a riconoscerle.
    Fin oltre l'anno Mille il vescovo di Roma aveva solo un generico primato d'onore, aveva forza dirimente in questioni teologiche, ma non decisionalità centralizzata, superiorità gerarchica rispetto alle sedi arcivescovili e vescovili. Per grandi ambiti regionali avevano più peso le decisioni dei concili dei vescovi di quella certa regione: era così ad esempio per le notissime paci di Dio, che erano appunto decise da assemblee di vescovi e non da Roma.

    Non a caso il primo anno santo - con connessa indulgenza plenaria per chi si recasse a Roma in pellegrinaggio alle quattro basiliche di S. Pietro, S. Giovanni in Laterano, S. Maria Maggiore e S. Paolo - fu soltanto del 1300 a opera di papa Bonifacio VIII: iniziativa di una chiesa ormai davvero, a quel punto, centralizzata e monarchica.

    L'anno santo, inizialmente ogni 100 anni, fu reso più frequente da papi successivi: ogni 50 da Clemente VI, ogni 33 da Urbano VI, ogni 25 da Paolo II, alla fine del secolo XV.  All'indulgenza, e poi all'insieme nell'anno in cui si poteva conseguire, fu applicata la definizione giubileo (dal corno di montone, chiamato jovèl, con il cui suono i sacerdoti ebraici annunciavano l'anno sabbatico).

     
    Come fu lo perdono di Roma
    Giovanni Sercambi,Cronache delle cose di Lucca, dal 1164 al 1424, A.S.L., Biblioteca Manoscritti, n. 107, c. 351r

     

    Senza dubbio l'anno 1300 registrò un gran numero di transiti dall'Europa settentrionale verso Roma. Ma dobbiamo prendere atto che dei dieci-undici secoli che corrispondono alla durata convenzionalmente attribuita al medioevo, solo gli ultimi due secoli medievali ci mostrano un pellegrinaggio romeo deciso dal centro della chiesa occidentale e con questo livello di formalizzazione. La chiesa di Roma raccolse e ufficializzò tendenze spontanee dei secoli precedenti della cristianità, in particolare dei movimenti penitenziali di ispirazione gioachimita del secolo XIII.

    Il pellegrinaggio di gran parte del medioevo deve dunque essere interpretato in chiave policentrica, differenziando le mete terminali e quelle intermedie, i promotori, gli impulsi spontanei. Sul medesimo asse viario coincidevano pellegrinaggi lunghi e pellegrinaggi brevi, legati a culti locali. Su gran parte del percorso potevano incontrarsi i romei (pellegrini diretti a Roma), quelli diretti al Santo Sepolcro a Gerusalemme, quelli che coprivano in pellegrinaggio la distanza fra i due grandi centri di culto dedicati a S. Michele (Mont-Saint-Michel in Normandia e S. Michele del Gargano).

    Tre tipi di pellegrini che percorrevano la stessa strada, ma ne facevano un uso diverso a seconda dei loro scopi: è sicuro, ad esempio, che il pellegrino devoto al culto di S. Michele non rinunciava mai a una sosta rituale al monastero di S. Michele della Chiusa - presso Torino - mentre quello diretto a Gerusalemme poteva fare altre scelte. Senza escludere che il devoto di S. Michele si desse una duplice meta italiana, sia Roma sia S. Michele del Gargano.

    Pellegrini cristiani entrano al Santo Sepolcro, Riccoldo da Montecroce, Liber peregrinationis, Bibliothèque Nationale, Paris, ms. fr 2810, c.274r

     

    Pellegrinaggi in linea e pellegrinaggi concentrici

    Uno storico e antropologo francese, Alain Guerreau, ha distinto concettualmente  i  grandi  pellegrinaggi  "in  linea"     dai  più  locali  e  brevi pellegrinaggi concentrici.  La grande linea della via Francigena incontra nel suo percorso i molti cerchi ideali disegnati da quelli che potremmo definire "imbuti di devozione" dei pellegrinaggi più locali. Fra gli esempi: S. Michele e S. Giovanni Vincenzo (europeo l'uno, valsusino l'altro; con salita a S. Michele l'uno, con meta al sepolcro di S. Giovanni nella località di S. Ambrogio, ai piedi del monte Pirchiriano su cui sorgeva la grande abbazia, l'altro).  I pellegrinaggi concentrici potevano  non  avere  alcuna  influenza  sui  grandi  pellegrinaggi  in  linea,  ma potevano anche determinare interferenze, sovrapposizioni, piccole deviazioni: un culto locale poteva essere promosso a una dimensione sovraregionale proprio per il fatto di avere un punto di focalizzazione collocato sull'asse di un grande pellegrinaggio.

    L'esempio di S. Michele, appena fatto, continua a invitarci a spostarci dal singolare "chiesa", troppo moderno o almeno bassomedievale, al plurale di chiese, monasteri, centri canonicali, ospizi retti da religiosi. Questi, grazie alla loro collocazione nell'area della via Francigena, prosperavano e garantivano servizi. Per molti di questi centri - che siano centri di preghiera, di cura d'anime o d'assistenza - la via Francigena fu addirittura la ragione principale della loro fondazione: e non solo nel caso degli ospizi, antichissimi, del Moncenisio e del Gran  S.  Bernardo,  ma  anche  nel  caso  di  monasteri  come  Novalesa  in  val Cenischia e S. Giacomo di Stura alle porte di Torino, di collegi canonicali come S. Lorenzo d'Oulx e S. Antonio di Ranverso.


    La concorrenza fra i monasteri

    Fra le moltissime osservazioni che occorrerebbe fare sulla presenza stradale di questi enti, segnalo le tre meno ovvie.

    La prima: fra i secoli XII e XIII si ebbe il passaggio, graduale e diversamente datato a seconda delle zone, dalle presenze religiose miste  - in cui i monasteri si assumevano sia funzioni di preghiera sia funzioni di assistenza  - alle presenze religiose specializzate. Queste ebbero maggior fortuna (anche sotto il rispetto delle donazioni ricevute dalle popolazioni  locali e dell'appoggio garantito  dall'aristocrazia)  dei centri assistenziali e ospedalieri, adatti a una  società medievale più  matura che avvertiva in minor misura i problemi antichi della cristianizzazione e sviluppava invece la dimensione sociale dell'esperienza religiosa.

     
    L'ospitalità dei pellegrini e dei poveri come opera di misericordia  Affresco del refettorio della cattedrale di Santa Maria de la Seu Vella, Lleida, Spagna - XIII sec


    La seconda: questi enti religiosi erano punti di riferimento per i livelli alti della società, e reclutavano i propri membri fra l'aristocrazia e, in qualche caso, fra i borghesi. Ma quelli collocati lungo la via Francigena erano nelle condizioni di differenziarsi nettamente per i loro àmbiti di reclutamento dei monaci, che potevano essere cittadini o regionali nonostante la collocazione stradale. Potevano essere addirittura estranei alla dimensione locale, legati alle origini privilegiate del pellegrinaggio (è il caso di S. Michele della Chiusa, che per molto tempo ebbe monaci prevalentemente alverniati e aquitani, e scarsi coinvolgimenti con la realtà locale della valle di Susa).

    La terza: fra questi centri c'era un'accentuata competizione, la "concorrenza monastica" ben definita  da Bernard Bligny in ricerche di oltre trent'anni fa. E' un'altra conferma che la coscienza della comune appartenenza alla societas Christiana non li induceva a comportamenti unitari, concordati e complementari: perché era naturale contendersi i favori della religiosità popolare; contendersi le soste dei pellegrini più nobili, più ricchi e più generosi; costruire dentro e a margine dei tracciati della strada signorie fondiarie e politiche, coltivate da rustici e attrezzate con castelli: e  i confini di queste signorie erano ovviamente oggetto di frequenti controversie.


    Il potere “generatore” della via Francigena

    Siamo già dunque passati, se pur attraverso gli sviluppi signorili degli enti religiosi, al tema dei poteri. E dobbiamo prendere atto che la via Francigena, a seconda che si snodasse in aree più o meno vicine   ai grandi valichi alpini, determinava interventi diversi del potere. Presso i valichi più obbligati delle Alpi Cozie e Graie  si aveva la massima concentrazione di un intervento umano di alto livello, che possiamo definire politico-concorrenziale: su questi percorsi i diversi poteri medievali potevano solo  realizzare o sottrarre ad altri il controllo di strade poco modificabili e occuparsi della loro manutenzione e attrezzatura.

    Nelle ramificazioni verso la pianura - quindi sulla via Francigena più a valle - si aveva invece un intervento umano più concretamente operante, che possiamo definire politico-progettuale,  perché i poteri qui incidevano non su percorsi obbligati, ma su aree di strada con diverse opzioni possibili.  Sono constatazioni che si possono fare sia per il livello massimo del potere, il potere dei re -  che dall'età carolingia in poi si erano sempre occupati più della transitabilità alpina che della rete stradale  nel  suo  complesso - sia  per poteri  intermedi  come  i  principati territoriali, sia per i poteri signorili più locali.

    La  via  Francigena,  come  le  altre  grandi  strade  del  medioevo,  era  un importante "generatore". Generatore di concorrenze e di conflitti, che a volte determinarono tensioni   inimmaginabili per ospedali rurali piccoli e marginali. Le dispute confinarie fra diocesi di Torino e di St. Jean-de-Maurienne furono accesissime intorno al valico del Moncenisio e sulla striscia stradale corrispondente alla val Cenischia.

    Ma la strada fu anche generatore di strutture politiche. La strada non generava soltanto formazioni politiche ampie ma anche nuclei signorili. Spesso le  famiglie valorizzavano il controllo di un transito o per aumentare la loro forza contrattuale rispetto a poteri superiori o per sfruttare a fondo la loro collocazione attraverso la riscossione di pedaggi. Nei tratti alpini la via Francigena fu sfruttata soprattutto da un’aristocrazia intermedia che, al seguito dei Savoia, individuò nella strada il modo per trovare nuovi ambiti d’affermazione. Famiglie come i “de Aprili”  e i "de Toveto" seguirono i Savoia di qua dal Moncenisio, operarono assiduamente al loro seguito, accettarono incarichi di vario prestigio, soprattutto espressero personaggi adatti per diventare “castellani”, cioè ufficiali preposti alle nuove circoscrizioni.

    Tuttavia, è indispensabile (per quanto difficile) muoversi con grande prudenza, nell'usare questa categoria concettuale della strada-generatore,: perché in passato l’erudizione ha fatto della strada la molla obbligata di ogni processo storico, non solo con spiegazioni monocausali che oggi sarebbero inaccettabili, ma anche presupponendo quelle fissità e inevitabilità dei percorsi che mi sono impegnato a smentire nella prima parte della relazione.


    La strada come “acceleratore”  e “regolatore” di processi

    Più nuova e meno densa di insidie è, sul piano politico, la categoria della strada come "acceleratore" di processi storici. All'interno delle Alpi distinguiamo le zone  marginali  da  quelle  di  grande  transito. Constatiamo  che  nelle  valli  più ‘stradali’  non solo le novità avevano tempi uguali rispetto a quelli (di solito veloci) della pianura, ma realizzavano con un’alta concentrazione (dato il territorio relativamente limitato interessato dai transiti) una sintesi spesso originale fra culture, schemi politici e modelli sociali diversi. La dinastia dei marchesi di Torino nel secolo XI realizzò in valle di Susa, prima che altrove, la  trasformazione del  proprio  ufficio  pubblico  in  potere  dinastico-signorile;  il  modello  delle franchigie per comunità rurali fu adottato nelle valli di Susa e di Aosta prima che altrove.

    Ma la via Francigena era anche un "regolatore". La strada-generatore aveva fatto nascere con facilità lungo il proprio asse la vera novità istituzionale successiva al Mille, cioè la signoria "di banno": la signoria di castello di famiglie ricche di terra e di intraprendenza militare. La strada-acceleratore poteva determinare un precoce  sviluppo di questi nuclei di potere, che per altro erano un modello politico comune alla generalità delle campagne medievali. Tutto questo è vero, ma lungo una via come la Francigena i poteri di grandi dimensioni, i re e i principi territoriali,  si affrettavano a  regolare i loro rapporti con le autonomie signorili, riservando a sé l’alta giustizia, accettando autonomie locali solo in quanto formalmente subordinate, sforzandosi di inquadrarle in ordinamenti di tipo precocemente statale. Lungo la via Francigena le novità signorili nascevano prima ma, poiché non passavano inosservate, dovevano regolare la loro coesistenza con i grandi poteri regionali e sovraregionali.

     
    Affreschi di Llida (citato sopra). Pellegrini che si ristorano

     

    I comuni e le città

    Un fugace cenno precedente ci ha introdotti a un ultimo protagonista politico dell'area di strada, i comuni. Sia per comuni di un certo livello (Asti, Chieri, Torino, Ivrea), sia per comuni medi (come Susa o Aosta), sia per le numerose comunità rurali, la grande strada si poneva come alternativa concreta e preziosa all'agricoltura, alla pastorizia, all'esercizio di diritti locali. Questa alternativa consisteva nello sfruttamento dei transiti, nei suggerimenti commerciali che provenivano dalla collocazione delle comunità e nelle agevolazioni connesse.

    Anche le comunità più piccole che occupavano luoghi cruciali lungo la via Francigena avevano  buona forza contrattuale nei rapporti con il potere.

    Tra Moncenisio e Chambéry la strada era, contemporaneamente, elemento di stabilizzazione e di mobilità. Di stabilizzazione perché costituiva la discriminante intorno a cui si organizzavano le gerarchie politiche, si regolava la coesistenza fra conti, vescovi e signori, si definiva l’identità politica delle comunità. Di mobilità perché non solo innescava la circolazione di modelli istituzionali - notarili, cancellereschi, giuridici -,  non solo suggeriva l’impegno nei commerci di nuovi ceti emergenti, ma stimolava anche la proiezione verso l’Italia e verso sud-est di un’aristocrazia intermedia alla ricerca di nuovi campi d’affermazione.

    Di qua dalle Alpi la strada agiva invece in modo più frastagliato. Suggeriva direzioni  d’espansione  ai  Savoia ma dava anche forza  ai  suoi  concorrenti; garantiva da molti anni l’autonomia e il prestigio di enti religiosi impegnati a costruire dominazioni signorili ma li spingeva anche verso il coordinamento; stimolava da un lato nei Torinesi uno sfruttamento in certo senso ‘passivo’ della strada (controllo di pedaggi, “custodie” di castelli loro affidate dalla signoria vescovile) ma sviluppava d'altra parte nei Chieresi una delle più interessanti vocazioni imprenditoriali e mercantili della regione. E in questa situazione l’aristocrazia  militare  maggiore, invece di rassegnarsi come in Borgogna a un inevitabile superiore coordinamento, poteva giocare con una pluralità di alleanze per tutelare i propri spazi di autonomia.

    In conclusione: se in tema ecclesiastico la via Francigena ci fa assistere a un disseminatissimo plurale (le chiese) che diventa singolare (la chiesa di Roma come promotrice massima dei grandi pellegrinaggi), in tema politico il plurale dei numerosi poteri continua a imporsi, e di singolare troviamo soltanto la costrizione al coordinamento che una grande strada europea imponeva a chi voleva sfruttarne i vantaggi.

     

    *Adattamento da La via Francigena. Chiesa e poteri, in La via Francigena. Itinerario culturale del Consiglio d’Europa, Atti del Seminario di Torino, 20 ottobre 1994, pp. 12-23
    Ricerca iconografica di ARVO (Archivio del volto santo) a cura di Ilaria Sabbatini

     

    Nota bibliografica

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  • Young Historians Festival, il festival dei giovani storici a Lucca

    di Ilaria Sabbatini

    &nbsp

    Young Historians Festival è il primo festival italiano di storia rivolto ai ragazzi in età scolare, dalle elementari alla scuola superiore: un festival di storia per ragazzi fatto dai ragazzi. Quella che viene proposta per il 2018 è un'edizione zero. Abbiamo l'intenzione di farlo diventare un appuntamento fisso che qualifichi la città di Lucca nel senso dell'attenzione alla storia, alla formazione e alla didattica.

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