paesaggio

  • A scuola di futuri paesaggi

    Ci sono gli effetti speciali, per chiudere il ciclo delle Summer School sul Paesaggio Storico, che si tengono a Gattatico, presso Reggio Emilia, ormai da cinque anni. Siamo partiti con la preistoria e, quest’anno, giungiamo agli ultimi decenni. Di qui ci proietteremo verso il futuro. Gli effetti speciali? Eccoli: l’ultimo giorno di questa Summer, Bibo Cecchini (dell’Università di Alghero), con il suo staff e la collaborazione di colleghi della Bicocca, prepara un programma di simulazione. I partecipanti al seminario immagineranno i cambiamenti che, secondo loro, sono idonei ad affrontare i nostri problemi e magari a superarli. Il programma ce ne farà vedere gli effetti nel futuro.

     

    Sotto elezioni, uno direbbe, ne avremmo proprio bisogno di un “laboratorio creativo” di questo genere. Ma per il momento, ne potrà godere solo chi verrà alla Summer. Per chi ne avesse già voglia, il programma, in sintesi, è questo. Si inizia con una ripresa del passato. Una rapida scorsa dalla preistoria a oggi, giusto per fissare le basi del discorso più approfondito (organizzato da Rossano Pazzagli) sulla realtà del paesaggio agrario di oggi: le nuove tecniche, i nuovi mercati, l’abbandono delle campagne e la distruzione dei suoli, la loro rigenerazione. Una giornata di lavoro, al termine della quale ci si comincerà a orientarsi verso il domani. Lo faremo in modo non del tutto convenzionale. Ci penserà, infatti, Luigi Cajani a introdurci all’immaginazione del futuro, parlandoci della “terra formazione”, quella branca di romanzi di fantascienza nella quale si ipotizza che gli uomini colonizzano un esopianeta e lo trasformano in modo che assomigli alla Terra. Un viaggio nella fantasia – ma non troppo: siamo sempre storici  e insegnanti – rafforzato dalla visione di Avatar. Quindi ci sarà un’escursione sul territorio: una località di montagna, per chiedersi che ne è dei nostri boschi; e una di pianura, in visita in una realtà agricola d’avanguardia. Il sabato, in chiusura, gli effetti speciali di cui sopra.

     

    Questo ricco programma è inaugurato  e chiuso da due presenze eccezionali. In apertura, Simone Neri Serneri, dell’Università di Siena, disegnerà il quadro complessivo, entro il quale si articoleranno le relazioni e i lavori della Summer. In chiusura Sergio Rizzo, autore con Gian Antonio Stella di Vandali. L’assalto alle bellezze d’Italia, ci permetterà di collegare i temi scientifici e didattici, affrontati nella scuola con quelli necessari della cittadinanza e della politica.

     

    La Summer School “Emilio Sereni”, si svolgerà fra il 28 e il 31 agosto. La Biblioteca “Emilio Sereni” si trova presso l’istituto Cervi. E’ un luogo straordinario, per il richiamo ideale, per il paesaggio, le capacità organizzative dei suoi dirigenti e degli operatori, per l’incredibile biblioteca di Emilio Sereni e – non ultimo – per la bravura della sua cuoca calabro-emiliana. Quindi: non appena esce il bando sul sito, andate a vedere il programma in dettaglio e arrivederci a Gattatico!

  • Didattica del paesaggio. Il master per insegnanti.

    Antonio Brusa

     Ultimi giorni per iscriversi allo short master

     

    Il 15 aprile scadono i termini per la preiscrizione. Se raggiungeremo il numero minimo, partiamo. Occorre iscriversi ora, anche se il master inizierà a settembre.

    Abbiamo preparato materiali e proposte. Imparerete a usare laboratori, fare escursioni di esplorazione o di gioco; usare delle smart maps e degli short video (e tanto altro), come fare dello storytelling uno strumento didattico. Di ogni proposta, vi verrà mostrato un esempio immediatamente adoperabile e le tecniche per costruirlo. Avrete la possibilità di elaborare un vostro prodotto, con l’aiuto dei nostri esperti.

    Abbiamo concentrato questo short master in quattro fine-settimane (venerdi e sabato pomeriggio; uscita domenica mattina), in modo da favorire la partecipazione dei professori (oltre che degli interessati a questa materia). Il calendario sarà, in linea di massima, il seguente:

     I modulo: 23,24,25 settembre
    I fondamenti (didattica, storia e pedagogia);
    Uscita: riconoscere i segni del territorio

    II modulo: 7,8,9 ottobre
    Il paesaggio pugliese fra preistoria e altomedioevo. Storia e proposte didattiche
    Uscita: una lama neolitica

    III modulo: 28,29,30 ottobre
    Il paesaggio pugliese fra medioevo e età moderna. Storia e proposte didattiche
    Uscita: Il medioevo intorno a Bari

    IV modulo: 18,19,20 novembre
    Il paesaggio pugliese: oggi e le prospettive. Storia e proposte didattiche
    Uscita: la Murgia tra guerra e guerra fredda

    Noi abbiamo lavorato. Ora tocca a voi. Il master si farà solo se sarete in numero sufficiente.

  • Himera

    Termini Imerese, 23 febbraio

    La battaglia si svolse nella pianura sotto l’acropoli di Himera. La coalizione di himeresi, agrigentini e siracusani, una volta tanto uniti, aveva di fronte i punici, che venivano da Solunto, Palermo e Cartagine ed erano condotti dal generale Amilcare. Vinsero i greci. Era lo stesso anno di Maratona. Una coincidenza troppo ghiotta per non approfittarne, come fece Pindaro, con un peana alla potenza dei greci, che battevano tutti, nel Mediterraneo occidentale come in quello orientale. E gli ateniesi, che ci sapevano fare in questo genere di cose, perfezionarono la coincidenza, cambiando anche la data, in modo che le due vittorie accadessero proprio nella stessa giornata.

    Fig. 1 Panorama dall’acropoli. Le strade, la ferrovia, la foce del fiume, i cantieri, e il tempio della Vittoria

     

    Guardo il panorama dall’acropoli. La pianura è attraversata dalla statale, dall’autostrada e da due ferrovie, quella dismessa e quella nuova. Sopra il campo di battaglia si elevano i resti dell’insediamento industriale Fiat. Poi, oltre il fiume Torto, vedo le ciminiere della centrale e poi ancora Termini Imerese. Verso est, l’Himera, il Fiume Grande, ridotto a un canale di cemento, sfocia nel Tirreno tra lingue di sabbia, dove le barche pescano la neonata. Le sue sponde sono ingombre di capannoni, cantieri, campi coltivati e no. Devo fare uno sforzo. Cancellare tutto e immaginare la città, e i due eserciti che si azzuffarono, sotto gli occhi delle donne e dei vecchi assiepati sulle mura, proprio come si legge nell’Iliade.

    Fig.2 Un orientale si prostra in onore di qualcuno. Perché questa statuetta a Himera? Forse è un segno di sfottò verso fenici o siriani, con i quali i greci non si pigliavano molto?

     

    Questo è paesaggio storico. Ne abbiamo parlato ieri, con gli insegnanti di Palermo. Nell’accezione comune, esso è costituito dai resti visibili del passato. Più ce ne sono – si dice - più storico è il paesaggio. E invece no. Il paesaggio storico non si vede, perché il passato non esiste più. E’ solo una coordinata, quella del tempo, che io aggiungo allo spazio che scorre sotto i miei occhi. Perciò, abbiamo concluso con quelle brave docenti, il paesaggio storico dipende da quello che uno sa. E io, che ne so quasi niente, dipendo dall’archeologo che mi sta spiegando tutto, col suo bell’accento siciliano.

    I resti visibili, qui nella piana di Himera, sono pochi. Giusto il tempio della Vittoria, il cui rettangolo, con le basi delle colonne, si disegna in basso, proprio di fronte a me. Gli himeresi lo pretesero dai punici come pagamento della sconfitta. Stupidi, commenta l’archeologo. Lui è di Himera, ha tenuto a dirci subito. E si vede. Per lui i punici sono ancora là, cattivi, delinquenti e nemici. Li dovevano spazzare via. Non lo fecero, e quelli si vendicarono dopo settant’anni. Dal mare giunse una flotta imponente con centomila soldati, come ci informano le fonti (greche). Li comandava Annibale (certo, ‘sti cartaginesi non erano molto originali con i nomi). Che potevano fare gli himeresi? Fu un massacro. I punici entrarono in città e la distrussero. Era il 409. Da allora il luogo fu abbandonato. I greci non tornarono più, i romani ci costruirono un paio di ville, e nel medioevo vi si stabilì qualche villaggio. Himera, la colonia mista di gente di Zancle (Messina) e della Calcide, chiuse in questo modo la sua storia ricca e gloriosa, durata due secoli e mezzo.

    Fig. 3 Una piacevole sorpresa nel museo. Scilla sugli scogli, con una coda di pesce crestata

     

    I resti di Himera, come quelli di Pompei, fotografano l’evento tragico della sua morte. I cadaveri furono lasciati per strada. Un uomo, col suo mulo e il cane, fu ucciso sulla soglia di casa, e là fu ritrovato duemila e quattrocento anni dopo. Le necropoli ci raccontano le due battaglie. Quella del 480 è composta da una decina di fosse comuni (quelle scoperte fino ad ora). I soldati sono deposti in ordine. Hanno i segni dei colpi che li uccisero. Della disfatta del 409 resta solo una fossa comune. Quella che si fece in tempo a scavare. Gli altri soldati vennero abbandonati dove morirono.


    La battaglia di Himera; documentario tratto dal programma di Alberto Angela "Ulisse, il piacere della scoperta"

    Voltiamo le spalle alla pianura. Ora guardiamo la cima del colle. E’ un pianoro vasto che lascia intuire la popolosità dell’insediamento. Comprendeva un’area sacra e le strade, ai lati delle quali si aprivano, ben ordinate, le abitazioni degli himeresi. Non affiora quasi nulla della vecchia città. Ancora una volta, devo lavorare di immaginazione. Il tempio grande, i templi più piccoli. Le strade e le case.

    L’erba ha coperto tutto. Mancano i soldi, ci dice l’archeologo. Ogni tanto vengono dei colleghi di Berna a scavare. In futuro ci saranno solo archeologi svizzeri e svedesi, commenta. Noi, italiani, per contro, compensiamo con l’incessante lavoro dei tombaroli, le cui tracce sono ben visibili in questa distesa verde. Probabilmente, come tanti altri abitanti della zona, non sanno nulla di Pindaro e di Annibale. Quindi, non vedono il paesaggio storico. Ne conoscono bene quello che per loro è essenziale: che sottoterra puoi trovare qualcosa che ti farà svoltare la vita.

    Mi dico che, per compassione, la natura siciliana fa il possibile per ingentilire l’ambiente, con distese di fiori gialli e di gigliacee dalle infiorescenze delicate, bianche e lilla.


    Fig. 4 Vegetazione spontanea sul sito dell’Acropoli


    L’antiquario
    Siamo arrivati qui da Palermo percorrendo la vecchia statale, l’antica via Valeria. Ci siamo orientati un po’ a fiuto, perché non ci sono cartelli. A un certo punto, abbiamo visto un bar “Himera”. Sarà qui. Tornando indietro e cercando con attenzione, ecco un piccolo cartello, ben protetto dalle fronde. Ci inerpichiamo sul viottolo e, improvvisamente, sulla destra, l’Antiquario, o il Museo (come col tempo è diventato). Contrafforti di cemento, sovrastati da mura tipo bugnato. Sembra un rifugio bellico, è la nostra prima impressione.  Dentro è freddo (siamo d’inverno, ma ci hanno assicurato che d’estate è bollente). Freddo anche nell’architettura. Teche, metallo e vetro. Didascalie lunghe e illeggibili. In bella vista, la celebre Fiala: un piatto d’oro, finemente cesellato, di quasi un chilo. Rubata e poi riportata indietro. Poi una panoplia di monete e, le teche, una dopo l’altra. Qui i vasi, qui le statuette, qui gli acroteri, qui gli oggetti bronzei.


    Figg. 5, 6, 7 Il museo/antiquario. Interni ed esterno

     

    Aggirandomi nell’antiquario, non avevo fatto caso a una scultura frammentaria di terracotta. Questo è un capolavoro eccezionale, spiega la guida. E’ appena tornato dall’America. Sapeste quanto ci hanno costruito addosso. Era la star dell’esposizione, esclama. Tutto finito, penso. Ora è stata rimessa al suo posto, dove nessuno la nota. Torna a tacere.

    Per restare più di dieci minuti in questo museo devi essere appassionato. La nostra guida lo è, e racconta, racconta. Noi, che siamo professori, e siamo appassionati, ascoltiamo, ascoltiamo. Mi chiedo quale sia la reazione di una scolaresca o del visitatore comune. Anzi, glielo chiedo: quanti visitatori avete? Mi risponde che un paio di anni fa, ebbero un picco, con più di diecimila visitatori. Normalmente sono la metà. Perché questa differenza? mi incuriosisco. Mi dice che allora fecero un sacco di attività. Sapete, chiedevamo le sedie al bar di sotto (noi annuiamo, è quello che abbiamo visto venendo qui) e allestivamo un piccolo uditorio di fortuna. Ma poi sono finiti i soldi, i volontari si sono stancati. Noto mentalmente che in tutta la mattinata sono entrati solo due visitatori. Pensiero maligno: vuoi vedere che i cinquemila visitatori sono come i centomila soldati punici delle fonti greche?

    Chiedo se c’è un’aula didattica. No. Un catalogo. No. Quelli finiscono e bisogna rifarli. Ma c’è un progetto magnifico, si accende la nostra guida: prevede la valorizzazione di tutto il paesaggio. La stazione dismessa, la vecchia ferrovia, gli scavi e un museo dove, finalmente, possano trovare il loro giusto spazio le decine di migliaia di reperti, frutto degli scavi degli ultimi decenni, che ora sono chiusi a chiave in container all’aperto. Gelidi d’inverno e torridi d’estate, i reperti diventano così fragili che si rompono a toccarli. Un progetto magnifico, porterà sicuramente migliaia di visitatori. Ci sono i fondi europei. Certo, si spegne la guida, sappiamo come finiscono queste cose. Il rifugio bellico ci misero una quindicina di anni a farlo (fu inaugurato nel 1984). Per il museo nuovo, quanto ci vorrà? E lo faranno veramente?

    Insomma, una triste fine, questa di Himera. Distrutta due volte. La prima dai cartaginesi, la seconda dalla nostra incuria e dalla nostra incapacità. Per questo, mi dico - ottimista fino alla morte -, è un esperienza toccante esplorare il paesaggio storico italiano. Da noi puoi vedere l’insieme delle vicissitudini che nel corso dei secoli hanno lentamente disgregato i resti del passato. Le vedi scorrere tutte e rapidamente, come in un time laps. Un’occasione didattica unica.

    La visita ha preso tutta la mattinata. Ora di pranzo. Una piccola trattoria, vicino alla piccola stazione. Verdure di ogni genere, cotte come solo i siciliani sanno fare. E poi un pranzo che altrove sarebbe da matrimonio. Tutto ben fatto, tutto solo per noi, e con un prezzo onestissimo. Quando vogliamo, le cose le sappiamo curare.
    https://www.facebook.com/pages/Parco-Archeologico-di-Himera/192136660918244
    http://www.arkeomania.com/himera.html

  • Il paesaggio, palestra per una cittadinanza attiva.

    Suggerimenti e esperienze per un’escursione efficace nel territorio.[1]

    Autori: Marco Cecalupo e Giuseppe Febbraro (insegnanti di Scuola Secondaria di Primo e Secondo Grado, Reggio Emilia)

     

    Introduzione:
    Si può fare scuola fuori dall'aula. Gli insegnanti lo sanno, ma spesso lasciano al mercato dell'educational anche la gestione didattica delle uscite, con risultati mediamente piuttosto deludenti.

    Come suscitare, invece, l'interesse di tutti (docenti e studenti) nei confronti di un'escursione nel paesaggio? Innanzitutto trasformando quest'ultimo in un oggetto vivo, problematico, stratificato, denso di significati spesso discordanti, patrimonio di tutti, nessuno escluso. Se l'uscita è dotata di determinate qualità, la sua efficacia è indiscussa: mobilita tutte le intelligenze e coinvolge tutte le discipline, “educazioni” incluse.

    Dalla nostra modesta esperienza sul campo, abbiamo ricavato una “panoplia” di idee e pratiche che ci sembrano al passo coi tempi, per passeggiare insieme agli studenti per boschi, tratturi, musei e vie antiche e recenti.
     

    Abstract:
    Le disposizioni normative che hanno modificato i programmi di ogni ordine di scuola negli ultimi anni fanno tutte riferimento al rapporto con il territorio, l'ambiente, il paesaggio. Ma nelle scuole la pratica delle escursioni - le “uscite didattiche” - appare decisamente in crisi, per varie ragioni.

    Tuttavia, persistono buoni motivi per sperimentare e rinnovare le forme di apprendimento en plain air: le potenzialità didattiche insite nella simulazione e nella modellizzazione dello spazio, la possibilità di praticare la democrazia e la cittadinanza attiva, la diffusione di una visione non essenzialista del paesaggio e del patrimonio.

    La  progettazione di un'escursione nel paesaggio che voglia perseguire tali obiettivi deve dotarsi di caratteristiche precise e riconoscibili: l'interdisciplinarità, la mobilitazione di diverse intelligenze, la stratificazione storica, la dialettica locale/globale, la costruzione di reti, ecc.

    Infine, l'articolo propone un rapido sguardo, parziale e suscettibile di integrazioni, su esperienze e modelli di escursione nel paesaggio praticati in Italia, dedicati agli studenti.

     

    Non è strano quanto cambi questo castello non appena uno pensa che Amleto è vissuto qui?[2]

     

    A. La scuola en plein air

     

    Che cosa dicono le Indicazioni

     

    Territorio, ambiente, paesaggio: non c’è legge, programma, modulo didattico – tra quanto prodotto negli ultimi venti anni dalla scuola italiana – che non faccia prima o poi riferimento a questi argomenti e a metodologie per il loro apprendimento. Essi afferiscono infatti a temi radicati nelle agende politiche e nel dibattito pubblico dei nostri tempi; l’approccio scolastico, tuttavia, resta prevalentemente centrato su una conoscenza statica dell’oggetto rispetto a un più auspicabile criterio dinamico. Lo strumento dell’escursione, dell’uscita, della lezione en plein air e l’obiettivo cognitivo del paesaggio possono essere – ad esempio – ripensati in tal senso. Vediamo come.

    L'attenzione al paesaggio nei contenuti geo/storici è richiamata, più o meno esplicitamente, da tutte le leggi, decreti e circolari con le quali negli ultimi anni il ministero dell’Istruzione ha riformato i programmi scolastici. Ad esempio, nelle Indicazioni per il Curricolo emanate nel 2007, relative alla scuola primaria (la cui riscrittura è di questi giorni), se ne rinviene traccia soprattutto nei passaggi relativi al secondo biennio della Primaria (ex classi quarta e quinta elementare), in cui si parla di “influenze dell’ambiente fisico sulla vita dell'uomo e trasformazioni del territorio determinate dalle attività umane” o di “elementi fisici di ciascun paesaggio geografico italiano” tra le conoscenze acquisibili in campo geografico, e di “esplicitare il nesso tra l’ambiente e le sue risorse e le condizioni di vita dell’uomo” nonché di “proteggere, conservare e valorizzare il patrimonio ambientale e culturale” tra gli obiettivi didattici dello studente-cittadino in formazione[3]. Ma già nell'introduzione di quel documento, riferendosi non certo al solo patrimonio architettonico-paesaggistico ma all'insieme delle conoscenze, si avverte che “consegnare il patrimonio culturale che ci viene dal passato perché non vada disperso e possa essere messo a frutto” è una delle funzioni essenziali dell'educare e si pone il problema della responsabilità del cittadino nella sua cura, con il richiamo dovuto alla Costituzione.

     

    Questo della cittadinanza come profilo-traguardo è del resto tutt’altro che un particolare: si tratta invece della direzione privilegiata del dibattito più recente sulla scuola e sulle sue stesse motivazioni “postmoderne”; così che i medesimi principi relativi ad ambiente, territorio e paesaggio - ormai considerati terreno di alfabetizzazione del cittadino, non solo dal punto di vista della “tutela” -  vengono ribaditi anche nella Scuola Secondaria di II grado, ove afferiscono ai principi della convivenza civile o, più direttamente, alla materia denominata Cittadinanza e Costituzione.

    Poiché si tratta, in definitiva, di osservare, conoscere, analizzare, comprendere l’impronta dell’uomo sul territorio, e dunque la storicità di questo, lo strumento dell’escursione – opportunamente aggiornato – si presterebbe bene all’obiettivo; essa, invece, rappresenta uno dei molti strumenti in crisi nella scuola odierna, per una pluralità di motivi (eccessiva burocrazia, problema di orari e sostituzioni, demotivazione e scarsa incentivazione dei docenti, poca conoscenza delle molteplici opportunità offerte dalla metodologia, e da ultimo la sospensione della retribuzione economica).

     

    Va sottolineato che esistono differenze significative tra i diversi approcci: da un lato, i governi di centro-destra hanno puntato sull'aspetto identitario del territorio e del paesaggio, volto alla ricerca di segni che confermino la dibattuta identità giudaico-cristiana[4]; dall'altro lato, le riforme promosse dal centro-sinistra (come il già citato documento sulla Scuola del Primo Ciclo e le nuove indicazioni per la Primaria) hanno posto l'accento sul patrimonio come banco di prova della responsabilità civile (di cittadinanza) degli italiani; nella secondaria superiore, resta un mero oggetto di studio.

     

    Alcuni buoni motivi per realizzare un’escursione

     

    All’interno di questo quadro normativo, riteniamo che l'escursione sia un'idea da difendere e rilanciare. Accanto alle motivazioni pedagogiche consolidate, nuove potenzialità, connesse con le trasformazioni della società e delle culture che la attraversano, ci spingono a sostenere la tesi secondo cui le escursioni vanno considerate nel novero delle buone pratiche a scuola.

    Nelle escursioni ci sono parecchie buone idee. C'è l'idea di scuola come “palestra di democrazia”: frequentare luoghi pubblici o aperti al pubblico e usarli, cioè dotarli di una funzione conoscitiva collettiva, educa alla partecipazione democratica, e allena alla democrazia partecipativa[5]. L'esperienza dell'uscita didattica facilita inoltre l’approccio alla fumosa “educazione alla cittadinanza” cui si accennava, destinata altrimenti a rimanere spesso mera enunciazione di diritti/doveri astratti.

    C'è l'idea di “curiosità intellettuale”, l'attitudine ad avvicinarsi a qualcosa di ignoto ponendosi domande all’inizio elementari, poi via via sempre più complesse. Misurarsi con domande potenti, cioè storicamente rilevanti e soggettivamente interessanti, accresce la componente motivazionale, si configura per gli studenti come una sfida alla propria intelligenza difficile da rifiutare[6].

    C'è l'idea di “simulazione”: la modellizzazione dello spazio è uno degli ambiti cognitivi di apprendimento connessi ad una visita/escursione, nel senso più ampio che il termine ha assunto nelle scienze geografiche. Non si tratta solo della rappresentazione cartografica, ma soprattutto dell'individuazione di attori e luoghi soggetti a regole, che producono reti di relazioni complesse, processi di trasformazione e conflitti[7].

    C'è l'idea concreta di “patrimonio culturale” come bene comune dell'umanità[8] nel lasciare che milioni di studenti calpestino strade romane, scorrazzino in siti neolitici, invadano piazze e vicoli medievali, disturbino la quiete di riserve naturali o musei e mausolei ai deportati. E' un rischio accettabile solo se attraverso quei luoghi gli studenti costruiscono percorsi conoscitivi, affettivi, partecipativi.

    C'è infine l'idea del “camminare”, un'esperienza multisensoriale che sta al cuore della nostra appartenenza alla specie Homo Sapiens[9], e che permette di osservare e riflettere con una velocità propria.

     

    Alla luce delle nuove tendenze del mercato dell'educational, va tenuta in seria considerazione l'ambiguità del richiamo all'esperienza come metodo d'apprendimento intuitivo, empatico o addirittura naturale, alternativo allo studio[10]. Sul piano didattico, l'apprendimento esperienziale ha senso solo se presuppone e rinforza l'astrazione, la padronanza di tecnologie linguistiche, la concettualizzazione, la rappresentazione e la trasmissione delle conoscenze, ponendosi come un territorio aperto alla negoziazione di significato tra insegnanti e studenti, una vera e propria zona di sviluppo prossimale. I professionisti delle visite d'istruzione sempre più frequentemente propongono alle scuole pacchetti in cui abbinano alla visita guidata un laboratorio pratico, come se tale semplice accostamento, spesso privo di coerenza[11], potesse di per sé risolvere la questione.

     


    B. Otto consigli per una efficace escursione nel paesaggio

     

    Un modello di escursione nel paesaggio che possa essere considerato una buona pratica educativa, a nostro avviso deve essere caratterizzato dal maggior numero possibile di questi aspetti:

     

    1. Interdisciplinarità; Questa parola, magica e tuttavia ancora poco praticata nelle scuole, va intesa non come semplice accumulo di informazioni connesse all'escursione (che può correre il rischio di diventare ridondante), ma come lavoro preparatorio e successiva realizzazione dell’esperienza da parte del team di insegnanti che ne ha individuato la finalità didattica. Tutte le scienze e gli studi, come avviene nella realtà dei fenomeni complessi, collaborano alla risoluzione di un problema.
    2. Attenzione alla stratificazione storica del luogo visitato; per evitare il noto fenomeno dello schiacciamento sul presente del tempo storico[12] esistono due possibilità: centrare l’escursione, il suo oggetto o la sua dinamica, proprio sulla lettura dei cambiamenti avvenuti nel corso dei secoli o dei millenni, oppure isolare un ambito cronologico – laddove le condizioni lo ritengono possibile, e con i limiti che ciò comporta – e mettere gli studenti in condizione di leggere soltanto una porzione della stratificazione[13].
    3. La coesistenza dei metodi induttivo e deduttivo; in altre parole, a partire dalla padronanza di alcune informazioni e delle tecnologie per elaborarle, è l’esperienza che deve condurre alla conoscenza del luogo, e non il contrario, come più spesso avviene. Per esempio, è auspicabile che si parta da una carta in qualche modo muta, parziale, che diventerà parlante[14] solo al termine, e il cui completamento è vissuto come scoperta da parte degli studenti. L'escursione deve porsi come obiettivo l'acquisizione di conoscenze complesse e di relazioni che altrimenti non si sarebbe potuto apprendere.
    4. Tutti noi siamo dotati, come sostiene Howard Gardner, di diversi tipi di intelligenza. A parte quella linguistica e quella logica, fondamentali nel processo di alfabetizzazione, se ne possono contare in totale otto, tra le quali possiamo distinguerne anche una spaziale, che consiste nell’abilità di valutare sia gli ampi spazi che quelli locali attraverso processi di lettura, comprensione, tattica di intervento sui luoghi.[15] In tal senso, se il soggetto in questione è l’alunno, nell’ambito di una iniziativa di conoscenza del territorio (e del paesaggio che ne è struttura), egli dovrà mobilitare tutte le forme di interazione con la realtà per una sua più completa intelligibilità.
    5. Interazione con i soggetti pubblici e privati sia a livello locale che globale e costruzione di reti (tra scuole e musei, aree archeologiche, parchi ambientali, associazioni culturali, enti locali, sovrintendenze, istituti storici, ecc.) per la progettazione e la realizzazione dell'escursione. In Italia, paese fortemente identitario sul piano locale, da anni sono attive moltissime realtà di questo tipo, al punto che non esiste contesto territoriale-amministrativo che se ne possa dire privo; più impegnativo ma necessario è stabilire un rapporto critico fra tali realtà e la scuola, che non deve trasformarsi in una sorta di appendice delle pro loco o, viceversa, di clientela sicura per alberghi ed enti turismo, ma deve invece sfruttare queste risorse per costruire nuove reti di saperi.
    6. Mantenere sempre un'attenzione viva alla dialettica locale/globale: un territorio è sempre o l’esempio di un modello generale su scala più ampia o quello di una sua eccezione in controtendenza. Dunque non bisogna mai dare per scontato che l’escursione che si va ad effettuare sia volta a confermare un  dato generale o generalizzabile: essa può esserne invece la smentita e questo va, di volta in volta, fatto verificare in itinere agli studenti nel corso dell’esperienza.
    7. L’escursione come parte strutturale della programmazione, delle singole discipline e della classe, va quindi inserita in modo funzionale in moduli didattici e collegata a contenuti e competenze specifiche; troppo spesso diventa invece un diversivo al programma, che gli studenti meritano in premio o, al contrario, non meritano (in tal caso rappresenterebbe uno strano tipo di punizione, come se si dicesse loro: quest'anno la prima guerra mondiale non ve la faccio studiare!).
    8. Le Indicazioni Moratti-Bertagna, del cui impianto generale identitario si è già parlato, contenevano tuttavia un aspetto decisivo della questione territoriale laddove richiamavano, tra gli obiettivi didattici al termine del primo ciclo di istruzione (ossia per uno studente di quattordici anni), la “capacità di trasformare la realtà prossima nel banco di prova quotidiano su cui esercitare le proprie modalità di rappresentanza, di delega, di rispetto degli impegni assunti”[16]. Formula invero un poco ridondante per dire, comunque, che la coscienza di un territorio ha senso solo se si accompagna all’idea di cambiamento che vi si può operare. Ovvero, se si è consapevoli che esso è un work in progress, il risultato di forze ambientali e sociali, economiche, culturali che compiono scelte in base a obiettivi divergenti, cioè agiscono in un contesto dinamico e soggetto a mutamenti. In tal senso, l’esperienza dell’escursione può essere (anche in modo virtuale) finalizzata all’idea dell’intervento attivo sul paesaggio che si sta visitando, attraverso un'attività di simulazione ludica o di laboratorio.

     

     

    C. Buone esperienze consolidate

     

    Riportiamo un elenco parziale di soggetti o metodologie che nel corso degli ultimi anni hanno innovato il panorama nel campo delle visite/escursioni rivolte alle scuole, pur mantenendo un serio e costruttivo rapporto con la ricerca scientifica. Teniamo a sottolineare che si tratta di un elenco non basato su uno studio sistematico, bensì esclusivamente sull'esperienza diretta degli autori.

     

    • L’ecomuseo[17] è una modalità di conservazione del patrimonio ambientale e storico-culturale praticata in Italia fin dai primi anni Settanta, attraverso la quale una porzione più o meno vasta del territorio (anche discontinua), che contiene elementi naturali e antropici, è destinata a rappresentarne la realtà e la storia. Non esistendo ancora una formulazione istituzionale uniforme, si tratta di un insieme non del tutto codificato di luoghi, riconosciuti o meno da leggi regionali. Sono musei in senso lato, istituzioni pensate soprattutto come strumento di recupero dell’identità locale all’interno della dialettica comunità globale/comunità locale; si configurano insomma come territori “dinamici”, nei quali una comunità condivide obiettivi di fruizione, conservazione, recupero ma anche trasformazione attiva e gestione partecipata del territorio e delle sue strutture (tra cui il paesaggio). Esistono Reti regionali o provinciali degli ecomusei, come in Piemonte, in Friuli, in Alto Adige – tra le prime realtà locali ad avere intrapreso questa strada – e ancora in Puglia ed Emilia Romagna[18], che propongono attività di escursione ricche e significative.

     

     

    • La Rete di Coordinamento dei Paesaggi di Memoria è un'istituzione giovane (2010), nata dalla volontà di mettere in relazione tra loro quelle realtà museali che tengono insieme storia, territorio, paesaggio, costruzione della memoria; il perno è quello dei luoghi storici della seconda guerra mondiale e la finalità principale quella dell’educazione alla cittadinanza attiva, nella costruzione di una “geografia della memoria”.[19] Lo scambio di esperienze e la creazione di standard qualitativi minimi di gestione e delle attività didattiche, alle quali viene attribuita particolare attenzione, sta producendo un dibattito vivace e diverse interessanti prospettive di innovazione, anche rispetto allo strumento specifico dell’escursione.
    • L'Associazione Culturale Historia Ludens, promossa dal prof. Antonio Brusa nel 1995 come costola operativa del Laboratorio di Didattica della Storia dell'Univ. di Bari, ha ideato e sviluppato un modello di gioco di simulazione/escursione basato sullo svolgimento di storie parallele - ma intrecciate tra loro - da parte di giocatori/personaggi, che adottano diversi punti di vista per compiere scelte e operare strategie di risoluzione di problemi[20]. L'esperienza svela ai visitatori sorprese inattese e incide sulla decostruzione di stereotipi e luoghi comuni. Il modello è stato impiegato per giocare/visitare i siti di Egnathia, Veleia, Bari medievale (città vecchia), Monte Saturo, Monte Sannace, Castel del Monte, i tratturi del molisano, Palermo punica.
    • L'eco-orienteering, ideato da Gianmario Missaglia[21], che fu presidente della UISP, è una rielaborazione dell'orienteering che mette in relazione sport, scuola, beni culturali e ambientali. Non è concepito come una corsa nell'ambiente, ma come un viaggio, che aggiunge al gioco di orientamento e esplorazione la conoscenza di tipo naturalistico, ecologico e storico. Dotato di regole semplici (una carta muta, una bussola, indizi ed enigmi da risolvere) e di una forte adattabilità del modello a qualunque contesto geografico, il gioco è stato realizzato in alcuni centri storici di grandi e piccole città (Palermo, Gradara, Rimini[22], Udine[23]), ma offre enormi potenzialità anche per la fruizione di riserve naturali, boschi, parchi, siti archeologici.

     

     

    • L'archeologia sperimentale, che indaga la storia materiale dell'uomo attraverso il metodo scientifico[24], gode di un relativo successo nel mercato dell'educational, poiché propone laboratori e attività suggestive (industria litica, metallurgia, tessitura, ecc.) e ha allestito archeopark di forte impatto emotivo.
      La disciplina non va confusa con semplici “ricostruzioni storiche” che tendono a mostrare il “com'era” di un oggetto o di un luogo, ma non dicono nulla sul “com'è stato realizzato” o su “quale posto occupava nel mondo mentale”. Nei casi migliori[25], l'archeologia sperimentale non è una mera “esperienza pratica”, ma il tentativo di ricostruire conoscenze, tecnologie, processi mentali di enorme complessità, non privo di dubbi, ipotesi, interpretazioni ed errori.

     

     

     

     

     

     

    • Nata in Inghilterra negli anni '50 e approdata in Italia più di recente, l'archeologia industriale e proto-industriale adotta un approccio multidisciplinare e si occupa tra l'altro della valorizzazione, anche didattica, dei luoghi di produzione del passato.
      I siti musealizzati (come il Lingotto di Torino, l'ex zuccherificio di Cecina, la Centrale Montemartini a Roma), o quelli dove gli impianti sono stati rimessi in funzione o riqualificati (come spesso accade per le centrali idro-elettriche, idro-meccaniche o per altri sistemi idraulici anche di vaste dimensioni), se presentano le caratteristiche sopra esposte, possono essere un'esperienza didattica significativa sotto molti aspetti. Si tratta a volte di interi villaggi operai con opifici annessi (come a Crespi d'Adda), o più spesso di singoli stabilimenti che, se studiati con intelligenza nel proprio contesto territoriale, sono testimoni privilegiati per la storia dei principali distretti industriali italiani (come i lanifici a Schio e Biella, e le acciaierie a Terni[26]).

     

     


    Marco Cecalupo:Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
    Giuseppe Febbraro:Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

     

    Note:

    1. Il seguente articolo rappresenta una riedizione del saggio già pubblicato dagli autori con il titolo Escursioni nel paesaggio in BONINI G., BRUSA A., CERVI R. (a c. di), La costruzione del paesaggio agrario nell'età moderna, Quaderno 8 (agosto 2012), atti della Summer School Emilio Sereni, III Edizione, 23-28 agosto 2011. L'indice del volume è alla pagina www.fratellicervi.it/images/stories/cervi/Download/2012/indice.pdf; il saggio introduttivo di Antonio Brusa  si può leggere alla pagina www.fratellicervi.it/images/stories/cervi/Download/2012/a.%20brusa_saggio%20introduttivo.pdf.
    2. Nella primavera del 1924, il giovane fisico tedesco Werner Heisenberg era in Danimarca ospite del grande Niels Bohr. Quelle riportate sono le parole pronunciate da Bohr quando giunsero nei pressi del castello di Kronberg. Egli commenta poi come la finzione letteraria di Shakespeare abbia pesato sulla percezione del paesaggio. L'episodio è citato in Jerome Bruner, La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari 2003.
    3. Indicazioni nazionali per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, Gazzetta Ufficiale n. 228, 1 ottobre 2007, disponibili all'indirizzo www.edscuola.it/archivio/norme/programmi/indicazioni_nazionali.pdf.
    4. Nella riforma Moratti (Legge 28 marzo 2003 n.53, art.2), si legge:“Sono promossi il conseguimento di una formazione spirituale e morale, anche ispirata ai principi della Costituzione, e lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale ed alla civiltà europea;”. Nel successivo Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del primo ciclo di istruzione (6-14 anni), allegato D, disponibile all'indirizzo archivio.pubblica.istruzione.it/ministro/comunicati/2004/allegati/all_d.pdf, si afferma che uno degli obiettivi è avere “consapevolezza, sia pure in modo introduttivo, delle radici storico-giuridiche, linguistico-letterarie e artistiche che ci legano al mondo classico e giudaico-cristiano, e dell’identità spirituale e materiale dell’Italia e dell’Europa”.
    5. Sulla democrazia partecipativa come esperienza didattica: Paola Rizzi, Giochi di città. Manuale per imparare a vivere in una comunità equa e solidale, edizioni lameridiana, Molfetta (Bari) 2004; Antonella Alagia, Elena Musci (a c. di), Geppo. I futuri possibili della comunità di Gradara, Comune di Gradara 2004. Una partecipazione simulata, Lo Zen e l'arte della manutenzione della città. Gioco sul passato e sul futuro del quartiere San Filippo Neri, è stata realizzata dall'Istituto Comprensivo Leonardo Sciascia di Palermo nel 2006 con la collaborazione di Historia Ludens. Anche le esperienze sul territorio dei CCR (Consigli circoscrizionali dei Ragazzi) vanno spesso in questa direzione.
    6. Antonio Brusa, Rossella Andreassi, Marco Cecalupo, Come evitare le visite guidate e godersi un bene storico, in La valenza dei beni culturali, atti del convegno 21 maggio 1999, Associazione Ingegneri e Architetti Provincia di Ravenna.
    7. Marshall McLuhan et al., La città come aula. Per capire il linguaggio e i media, Armando Editore, Roma 1984; Arnaldo Cecchini et al., I giochi di simulazione nella scuola, Zanichelli, Bologna 1987; Richard D. Duke, Gaming: il linguaggio per il futuro, edizioni lameridiana, Molfetta (Bari) 2007; Cristiano Giorda, Giochi e geografia. Il territorio come gioco di ruolo, in Antonio Brusa, Alessandra Ferraresi (a c. di), Clio si diverte. Il gioco come apprendimento, edizioni lameridiana, Molfetta (Bari) 2010.
    8. Antonio Brusa, Paesaggio e patrimonio fra ricerca, formazione e cittadinanza, in Il paesaggio agrario italiano proptostorico e antico, atti della I SummerSchool “Emilio Sereni”, Edizioni Istituto Alcide Cervi, Gattatico (Reggio Emilia) 2010; Antonio Brusa, Dalla città come aula alla città-archivio. Note per un possibile curricolo verticale sulla città, disponibile in data 6 aprile 2012 all'indirizzo www.comune.pv.it/museicivici/pdf/annali28/49 Brusa Didattica.pdf.
    9. Rebecca Solnit, Storia del camminare, Bruno Mondadori, Milano 2002.
    10. Scipione Guarracino, Dario Ragazzini, Storia e insegnamento della storia, Feltrinelli, Milano 1980.
    11. A titolo di esempio, al castello di Soncino (Cremona), una classe di ragazzi di scuola secondaria di primo grado è stata invitata, al termine della visita tradizionale, a realizzare armature “medievali” ritagliando con le forbici sagome di cartone preconfezionate e ghirlande di fil di ferro e carta; al termine del “laboratorio”, la sala era invasa dai ritagli di cartone, gettati per terra come inutile scarto. Ci chiediamo: quale informazione ha comunicato l'esperienza in merito al valore dei metalli in epoca medievale?
    12. Scipione Guarracino, Dario Ragazzini, Storia e insegnamento della storia, cit.
    13. Una valido strumento metodologico è rappresentato da Carlo Tosco, Il paesaggio storico. Le fonti e i metodi di ricerca tra medioevo ed età moderna, Laterza, Roma-Bari 2009.  Cfr. anche la sezione didattica Escursioni in Il paesaggio agrario italiano medievale. Storia e didattica, atti della II edizione della Summer School “Emilio Sereni”, Edizioni Istituto Alcide Cervi, Gattatico (Reggio Emilia) 2011, pagg. 369-393.
    14. Cristiano Giorda, Giochi e  geografia. Il territorio come gioco di ruolo, cit.
    15. Howard Gardner, Formae mentis. Saggio sulla pluralità della intelligenza, Feltrinelli, Milano 2002.
    16. Profilo educativo, culturale e professionale dello studente..., cit.
    17. Cfr. Debora Del Basso, Il paesaggio antico oggi. Gli ecomusei, in Il paesaggio agrario italiano protostorico e antico, cit., pagg. 189-192 e Giorgio Chelidonio, Gli ecomusei: orientare le scelte del turismo culturale, in AA.VV, L'ambiente e i segni della memoria, Carocci, Roma 2005.
    18. Nell’ottobre del 2007, in occasione delle giornate di studio ad essi dedicate presso l’Università di Catania, è stata firmata la “Carta degli Ecomusei”. Vedi www.bda.unict.it/Pagina/It/Notizie_1/0/2008/03/07/1532_.aspx
    19. Vedi Mirco ZanoniDa Casa Cervi alla Risiera di San Sabba nasce un collegamento di siti in cui si è svolta la Storia. Per viaggiare dal vivo dentro il ‘900, in “L’Unità”, 9 giugno 2010, anche disponibile all'indirizzo web www.metaforum.it/showthread.php/15891-Paesaggi-della-Memoria. Vedi anche Marzia Gigli, Maria Laura Marescalchi, Il laboratorio nei luoghi di memoria, in Paolo Bernardi, Francesco Monducci, Insegnare storia. Guida alla didattica del laboratorio storico, Utet, Torino 2012.
    20. www.historialudens.it; su questo modello di simulazione/escursione, si veda: Antonio Brusa, Rossella Andreassi, Marco Cecalupo, Come evitare le visite guidate e godersi un bene storico, cit.; Angela Ciancio, Clelia Iacobone (a c. di), Nella città senza nome. Come esplorare l'area archeologica di Monte Sannace, Laterza, Roma-Bari 2000; AA.VV., A Ludic Approach to Culturals Resources. The “Castel del Monte” Case, in Elena Musci (a c. di), On the Edge of Millennium: a New Foundation for Gaming Simulation, atti del convegno ISAGA 24-28 settembre 2001, BA Graphics, Bari 2001; Antonio Brusa et al., Sul buon uso del cellulare: giocare nel sito archeologico di Egnazia, Mundus, n. 1, gennaio-giugno 2008; Annalita Fregni, Paola Montorsi, Giulia Ricci, Cecilia Scalabrini, Dalle carte alla Storia: la mappa di Veleia e la Charta di Gotescalco, in Antonio Brusa (a c. di), L'astronave e la mondina. Giochi e laboratori nel curricolo di storia della scuola di base, Memo/Comune di Modena, Modena 2009.
    21. Gianmario Missaglia, Greensport. Un altro sport è possibile, edizioni lameridiana, Molfetta (Bari) 2002.
    22. www.altarimini.it/News46769-orienteering-citta-di-rimini-sport-e-cultura-nel-centro-della-citta.php
    23. www.udinetoday.it/eventi/cultura/ecorientering-sport-tutti-uisp-comune-udine-studenti-6-ottobre.html
    24. Studio e analisi di reperti, habitat, aspetti economici e culturali delle società studiate (osservazione del fenomeno); ricostruzione di manufatti adottando le tecniche del passato, esecuzione di prove di utilizzazione condotte nel modo e per gli scopi per cui fu realizzato il manufatto (riproduzione del fenomeno); rilevazione, analisi ed elaborazione dei dati oggettivi e soggettivi emersi durante l'intero processo di ricostruzione e di utilizzazione (studio delle leggi che governano il fenomeno). Vedi John Coles, Archeologia sperimentale, Longanesi, Milano1973.
    25. Paolo Bellintani, Luisa Moser (a c. di), Archeologie sperimentali. Metodologie ed esperienze fra verifica, riproduzione, comunicazione e simulazione, Atti del convegno 13-15 settembre 2001 Comano Terme-Fiavè (Trento), Provincia autonoma di Trento 2003; la didattica della preistoria attraverso l'archeologia sperimentale è ben descritta in Antonio Brusa (a c. di), Moduli facili di archeologia sperimentale per le scuole elementari, medie e superiori, in Vivere la preistoria,  I viaggi di Erodoto, Quaderno n° 10, ed. Scol. Bruno Mondadori, Milano 1995; i laboratori sull'argilla, sul colore e sull'industria litica descritti continuano ad essere praticati con successo nelle scuole. Tra le altre esperienze accurate, segnaliamo: il Parco Archeologico della Terramara di Montale (Modena), i siti della Provincia di Trento, L'Archeopercorso del Bostel di Rotzo (Vicenza), la Scuola Estiva di Archeologia di Arcevia (Ancona).
    26. Il dossier I luoghi dell'industrializzazione italiana, in Mundus, n. 2, luglio-dicembre 2008, contiene approfondimenti su: Crespi d'Adda www.villaggiocrespi.it; la Centrale Montemartini di Roma, che oggi è anche uno spazio espositivo dei Musei Capitolini; i distretti industriali di Bolzano e della Valle Trompia (Brescia). Sul distretto vicentino vedi www.schioindustrialheritage.it; il sito www.archeologiaindustriale.org, con sede a Terni, è anche un portale informativo di archeologia industriale.
  • La città ideale e i beni comuni

    Numana, 2 agosto

     


    Forse per pudore, la scritta “città ideale” si è scolorita, al punto che si legge appena, in questo striscione che annuncia il sorgere del complesso turistico “ex santa Cristiana”, sul litorale che da Numana va verso sud. Questa città ideale (nel museo di Urbino poi correrete a rifarvi gli occhi con quella vera) è un alveare di villette, addossate le une alle altre. Archi, balconcini, lesene e merli non riescono a nascondere il senso di affollamento e di affogamento. La grande gigantografia, posta sull’ufficio vendite, ci prova, perché mostra solo la piazza avveniristica, con le palme e, sullo sfondo, solo  la prima schiera di caseggiati. Ma se si alza lo sguardo al di sopra dell’alta siepe, che nasconde il complesso alla vista del passante, la realtà appare angosciante.

     

     

     

    Ho appena terminato la Summer School sulla Didattica del Paesaggio e mi risuona ancora in testa una discussione di Paolo Pileri e Bibo Cecchini, sulla democrazia e l’ambiente. Hanno sostenuto, i due colleghi, che su questi temi “i locali” non debbono decidere. Un certo scandalo fra i partecipanti, tutti democratici e, magari, anche di sinistra. Non è, questo, un bene comune? E sul bene comune non si deve attuare il massimo della democrazia? Se no, che bene comune è?

    Non ho preso queste foto per fare una denuncia, una delle tante ormai che non ci fa caso più nessuno, ma per discutere concretamente, su un esempio. Peraltro, non sapendone nulla, non voglio dubitare che abbiano fatto le cose in regola seguendo alla lettera i sempre più minuziosi e cervellotici regolamenti che, localmente, ci si dà per costruire e ricostruire. Diamolo per scontato. Hanno discusso, guardato le leggi, andava tutto bene, e hanno costruito. E hanno distrutto, per sempre, una cosa bella. Questo era proprio il bene comune: “la cosa bella”. Una cosa bella (un paesaggio, un tramonto, una montagna alberata e continuate come vi aggrada questo elenco) non può che essere di tutti quelli che, passando di lì, la ammirano e si sentono meglio. Ora gli abitanti di quel luogo hanno democraticamente deciso di toglierla dal novero dei beni comuni. Non hanno questo diritto. Si sono semplicemente impadroniti di ciò che non era loro.

    Democrazia. Giusto. Ma fra gli aventi diritto. E questi, per quanto riguarda i beni ambientali e culturali, sono “tutti”. Non i pochi che si trovano ad amministrare quel bene comune, e lo trattano come un bene privato.

    La storia, poi, ha anche qualcosa da dire a questo proposito, perché con la scusa dei “beni comuni” si stanno diffondendo favole sul Medioevo, sulle comunità di villaggio e la loro saggezza antica, che non solo sono degli stereotipi (ennesimi: andatevi a leggere su questo punto il dossier che Sergi ha preparato per “Mundus”, ultimo numero uscito), ma quel che è peggio, stereotipi che vengono usati per ottenere cose malvage. I beni comuni del Medioevo erano proprio il contrario di quelli che pensiamo noi. I contadini li difendevano perché li consideravano propri e ne volevano fare quello che gli pareva. Certo, in alcuni casi decidevano per il meglio e con saggezza. In altri decidevano di bruciare tutto e lo facevano senza alcuno scrupolo, perché pressati dalla necessità di dissodare, di coltivare e di mangiare.

    Noi moderni, gli scrupoli ce li abbiamo invece. Perciò, i nostri beni comuni sono diversi, e vanno difesi da tutti, non solo da chi ci siede sopra.

  • La scomparsa delle Terramare

    Come studiare il collasso di una civiltà padana dell'età del Bronzo. [1]

    Autori: Marco Cecalupo, Gabriella Papadopoli, Davide Porsia (insegnanti di Scuola Secondaria di Primo Grado)

    Introduzione:

    La Summer School “Emilio Sereni” sulla Storia del paesaggio agrario italiano protostorico e antico[2], svoltasi nell'agosto del 2009 presso la Biblioteca-Archivio Emilio Sereni dell’Istituto Alcide Cervi di Gattatico (Re) è stata un'esperienza feconda, per due ragioni: ha sottoposto a dura critica una visione purtroppo molto diffusa del paesaggio e del patrimonio, che chiamiamo “essenzialista” (passatista, identitaria o estetizzante a seconda dei casi), contrapponendone un'altra, moderna e “civica”; allo stesso tempo, ha stimolato i partecipanti, a stretto contatto con la ricerca storico-archeologica più aggiornata, alla progettazione di percorsi e attività didattiche di carattere interdisciplinare. Questo articolo rappresenta alcuni suggerimenti operativi che, speriamo, possano trovare il consenso di docenti disposti a confrontarsi, in aula, su questi temi.


    Abstract:

    Perché la civiltà padana delle Terramare dell'Età del Bronzo crollò? Quale ruolo ebbe, nel suo esito tragico, l'impatto delle trasformazioni antropiche dell'ambiente? In altre parole, l'economia terramaricola era, diremmo con linguaggio attuale, ecosostenibile? La teoria del collasso, elaborata del geografo americano Jared Diamond, può essere applicata anche alle circostanze che decretarono l'abbandono in pochi decenni di centinaia di insediamenti dotati, apparentemente, di una organizzazione complessa così efficace? Due proposte didattiche per discuterne in classe.

    Comprendere il legame esistente tra l’uomo e l’ambiente, valutare l’impatto che ogni azione antropica ha sul territorio: sono, queste, direttive fondamentali per conoscere non solo la modalità di vita, le prospettive future e la sostenibilità di una civiltà sul sistema nel quale si trova ad agire, ma anche per comprendere i modi che hanno, e hanno avuto, le società umane per sopravvivere, tutelarsi, e in alcuni casi, autodistruggersi involontariamente.

    Lo sviluppo storico e, soprattutto, il repentino abbandono delle terremare da parte dei loro abitanti porta ad ipotizzare, come suggerisce il prof. Mauro Cremaschi, docente di Geologia e Geoarcheologia all'Università Statale di Milano[3], che possa essersi trattato di un vero crollo di civiltà, e che sia quindi possibile studiarne l’evoluzione storica e indagare sulla misteriosa scomparsa dei suoi abitanti, applicando i criteri individuati dagli studi di Jared Diamond, docente del Dipartimento di Geografia alla UCLA.

    Nel suo avvincente saggio “Collasso. Come le società scelgono di vivere o morire”[4], Diamond applica le sue ricerche nel campo della biologia sperimentale per costruire un modello in grado di spiegare con approccio scientifico e multidisciplinare il crollo di una civiltà; di fornirci degli strumenti atti a capire perché determinate civiltà del passato siano scomparse, e altre siano sopravvissute; cosa abbia determinato la repentina scomparsa di strutture sociali consolidate, e abbia portato gli uomini che ne facevano parte a sottovalutare - e in alcuni casi ad ignorare, se non inconsapevolmente anticipare - il disastro futuro.


    Egli individua cinque ordini di fattori che possono contribuire al collasso di una civiltà:

    1. Danno ambientale causato al territorio, l’entità del quale va valutata tenendo conto sia del fattore umano, e quindi della pervasività dell’azione umana, sia delle caratteristiche ambientali del territorio, quindi della sua preesistente fragilità o elasticità;
    2. Cambiamento climatico: la presenza di repentini cambiamenti climatici risulta particolarmente problematica per le civiltà preistoriche, nelle quali l’assenza di una trasmissione scritta del passato unita alla brevità della durata media della vita, rende pressoché impossibile valutare la possibilità che a periodi climaticamente favorevoli possano seguire decenni di siccità. L’insorgere di una situazione climaticamente problematica in un “sistema” ben collaudato, e che non ha precedentemente messo in atto strategie di tutela, potrebbe determinare un collasso del sistema stesso difficile da evitare;
    3. Presenza di nemici: la gestione del conflitto, permanente o intermittente, può divenire deflagrante quando la civiltà oggetto dell’attacco è già in difficoltà per altri fattori;
    4. Rapporti con i popoli amici: un possibile indebolimento di una società amica può determinare l’insorgere di gravi problemi, nel quadro di alleanze militare contro terzi o di rapporti di reciproco sostegno economico;
    5. Risposta delle società ai propri problemi: il modo in cui le società reagiscono ai problemi, determinato dal sistema culturale di riferimento e dalle modalità di lettura e analisi degli stessi, può garantire la sopravvivenza delle strutture sociali, o la loro scomparsa.

     

    L’analisi di Diamond prende in esame in modo comparato civiltà passate misteriosamente scomparse, le confronta con altre presenti, analizza la presenza dei cinque fattori individuati e studia, soprattutto, le risposte che queste hanno saputo, o non hanno saputo, mettere in atto per evitare il tracollo.

    E’ particolarmente interessante notare come, pur ponendo l’attenzione sul fattore ambientale, e sull’importanza nella valutazione del danno ecologico prodotto dall’azione umana, Diamond metta in guardia dall’adagiarsi su una sorta di determinismo ambientale: se è indubitabile l’influenza delle caratteristiche ambientali, dell’elasticità e della fragilità del territorio, nonché dei cambiamenti climatici, è pur vero che le società possono “decidere” come agire su questi fattori e quali strategie adottare.

    In quest’ottica, lo studio di queste civiltà passate e della loro misteriosa scomparsa è funzionale per dedurre suggerimenti circa le modalità con cui le società contemporanee possano salvaguardarsi, evitare di incorrere in tragici errori di valutazione, e considerare in modo adeguato lo stretto legame esistente tra le azioni umane, la risposta ambientale, e la costruzione di strategie adatte a garantire la sopravvivenza e la rinascita.

     

    Il nostro progetto nasce dunque dalla volontà di applicare l'approccio della teoria del collasso alla civiltà terramaricola. L'intenzione è quella di costruire un "laboratorio-problema" attraverso il quale gli studenti possano discutere tutte le ipotesi avanzate dagli studiosi per spiegare la scomparsa della civiltà terramaricola, con particolare riferimento allo sfruttamento del suolo, alle modificazioni del paesaggio e alle crisi ambientali.

    Facendo proprio l’impianto teorico-metodologico del laboratorio di Storia ideato dal prof. Antonio Brusa, il lavoro didattico si può strutturare in diverse fasi[5]:

     

    1. presentazione del quadro di civiltà (il dove, il quando e il come della civiltà terramaricola per linee generali, con l’ausilio di strumenti quali carte, ricostruzioni grafiche, immagini e brevi testi, esercizi);

     

    Reperti ritrovati nei pressi di insediamenti terramaricoli (Età del Bronzo Medio, 1600-1300 a.C.), da MUTTI A., cit. Foto aerea dell'impronta attuale sul suolo della Terramara situata nella frazione di Gaione (comune di Parma), da MUTTI A., cit. Carta dei paleoalvei e insediamenti terramaricoli (pallini neri), da CREMASCHI (et alii), L'evoluzione del settore centromeridionale della valle padana, durante l'età del bronzo, l'età romana e l'età alto medievale, 1980.
    Disegno ricostruttivo di un villaggio terramaricolo, da www.parcomontale.it Una palafitta terramaricola ricostruita a Montale (Modena), da www.comune.modena.it  

     

     

    1. focalizzazione del problema (il perché della improvvisa scomparsa degli insediamenti terramaricoli, con l’enunciazione dei dati storico-archeologici che ne rivelano la fine, e un elenco di ipotesi - da verificare - delle cause, ricalcato sui cinque fattori indicati da Diamond)
      1. i terramaricoli disboscarono l'intera pianura;
      2. il clima diventò improvvisamente più caldo;
      3. una società nemica attaccò e distrusse gli insediamenti;
      4. si interruppero scambi commerciali vitali con altre culture;
      5. l'economia agro-pastorale intensiva non era più sostenibile;
    2. rassegna dei risultati delle ricerche (vengono presentati dati e informazioni provenienti da studi aggiornati nei diversi ambiti: archeologia, paleobotanica, palinologia, climatologia, geografia, geologia, antropologia, ecologia);
    3. argomentazioni (gli studenti, divisi in gruppi, sono invitati a costruire un testo argomentativo, con il fine di avvalorare o smentire le ipotesi elencate al punto 2, utilizzando la documentazione dei punti 1 e 3);
    4. discussione (i gruppi simulano, con l'insegnante nel ruolo di chairman, un convegno avente per titolo quello del presente articolo).

    Oltre alla traccia sopra esposta è possibile, ispirandosi al lavoro ricostruttivo del gruppo di studio geo-archeologico del prof. Cremaschi, relativo al sito della Terramara di S. Rosa di Poviglio (RE), e al plastico ospitato presso l'omonimo Museo, una riprogettazione che favorisca l'indagine di relazioni complesse tra litosfera, idrosfera e attività umane in epoca preistorica, che l'attuale progetto lascia solo intuire.

    Il lavoro proposto è la costruzione a titolo sperimentale di un semplice plastico-“gioco”, da sottoporre all'attenzione degli studenti come contributo alla soluzione del problema: "Perché gli insediamenti terramaricoli scomparvero improvvisamente? Quali possono essere le cause di un fenomeno così improvviso?"

    Ecco le operazioni tecniche essenziali che sono state eseguite:

    1. La base di partenza del modello è stata un vecchio acquario della capacità di circa 20 litri. Il fondo è stato ricoperto con del semplice brecciolino e con una vaschetta di plastica dalla forma caratteristica, poi fissata alla parete della vasca e sigillata con del silicone, che simula la presenza di corsi d'acqua o falde acquifere nel sottosuolo. In seguito il brecciolino è stato reso stabile con una colata della mistura di colla vinilica ed acqua.

      il primo strato del plastico: brecciolino, colla, vaschetta di plastica e silicone

    2. La base del plastico è stata poi ricoperta con della cartapesta. È bastato un pennello, della carta assorbente, della colla e dell'acqua. Abbiamo creato anche un “gradino” ben marcato circa alla metà dell'acquario, per rendere più semplice l'inclusione della plastilina. La carta adiacente alla vaschetta è stata ricoperta col silicone per renderla impermeabile.

      il lavoro con la cartapesta.

    3. La parte più alta del plastico è stata colorata con tempera grigio-verde. Sono state aggiunte delle riproduzioni di capanne e di un pozzo. La vaschetta è stata riempita d'acqua. Infine si è ricoperta la vaschetta con un foglio di plastilina di circa un centimetro di spessore.

      la pitturazione e la costruzione delle capanne.

    Il plastico ora è pronto per il gioco vero e proprio.

    SIMULAZIONE

     

    "Siamo nell'Età del Bronzo. Abitiamo in un insediamento terramaricolo della Pianura Padana. Il pozzo vicino alle case è asciutto. Sono giorni che non si riesce più a tirare acqua. Cosa facciamo? Scaviamo un nuovo pozzo? Ma dove?"

    si scava un pozzo alla ricerca dell'acqua.

    Ciascun giocatore è chiamato a scavare lo strato di plastilina con la matita, praticandovi un foro. Ogni giocatore ha solo un tentativo a disposizione.
    Si potrebbe anche suddividere la zona dello scavo in base ad un reticolo alfanumerico per semplificare la suddivisione dei compiti in una classe numerosa.

    Quando un giocatore trova l'acqua il gioco finisce e l'obiettivo è stato raggiunto.

    l'acqua sgorga dal nuovo pozzo.

     

    Il giocatore avrà simulato una pratica, l'escavazione di pozzi in un raggio sempre più esteso, ben testimoniata dalle rilevanze archeologiche relative all'ultima fase dell'insediamento della terramara di Poviglio. Avrà acquisito, dunque, informazioni indispensabili ad una lettura "problematizzante" dello scavo.

    Questa ricerca "affannosa" dell'acqua testimonia una verosimile modificazione ambientale (che ebbe come conseguenza la drastica diminuzione delle risorse acquifere sotterranee) alla quale, probabilmente, la civiltà terramaricola non ha saputo dare risposte repentine e adeguate alle proprie necessità di sopravvivenza. Per dirla con Jared Diamond, l'ipotesi è che le trasformazioni dell'ambiente siano uno dei fattori che ha determinato il collasso dei terramaricoli padani.

     

    Marco Cecalupo: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

    Gabriella Papadopoli: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

    Davide Porsia: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

     

    Note:

    1. Questo articolo è largamente debitore degli articoli degli autori pubblicati in BONINI G., BRUSA A., CERVI R. (a c. di), Il Paesaggio agrario italiano protostorico e antico. Storia e didattica, Quaderno 6 (agosto 2010), atti della Summer School Emilio Sereni, I Edizione, 26-30 agosto 2009. L'indice del volume è alla pagina <www.fratellicervi.it/images/stories/cervi/Pubblicazioni/indici_estratti/quaderni_6_%20indice.pdf>.
    2. <www.fratellicervi.it/content/view/219/161/>; vedi inoltre il saggio introduttivo del Direttore Antonio Brusa alla pagina <www.fratellicervi.it/images/stories/cervi/Pubblicazioni/indici_estratti/quaderni_6_sagggio_introduttivo_brusa.pdf>
    3. BERNABÒ BREA M., CARDARELLI A., CREMASCHI M., Il crollo del sistema terramaricolo, in Id. (a c. di) Le Terramare, la più antica civiltà padana, catalogo della mostra, Electa 1997, pp. 745-755; vedi anche CREMASCHI M., Ambiente, clima ed uso del suolo nella crisi della cultura delle Terramare, in BONINI G., BRUSA A., CERVI R. (a c. di), Il Paesaggio agrario italiano protostorico e antico. Storia e didattica, cit., pp. 31-40.
    4. DIAMOND J., Collasso. Come le società scelgono di morire o di vivere, Einaudi 2005. Dello stesso autore, si veda Id, Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli ultimi tredicimila anni, Einaudi 2002 (ed. or. 1997).
    5. La documentazione, di cui si forniscono alcuni esempi, proviene da: MUTTI A., Caratteristiche e problemi del popolamento terramaricolo in Emilia occidentale, University Press 1993; BERNABÒ BREA M., CARDARELLI A., CREMASCHI M. (a c. di) Le Terramare, cit.; BERNABÒ BREA M., MORI C., La Terramara Santa Rosa a Fodico di Poviglio (Re). Lo scavo archeologico come didattica della Preistoria, ed. Coopsette 2001; BONINI G. [et al.] (a c. di), Il Museo della Terramara Santa Rosa di Fodico di Poviglio: quaderno per la lettura didattica dell'esposizione e suggerimenti operativi per la scuola di base, Poviglio 2001; Guida al Parco archeologico e Museo all’aperto Terramara di Montale, a c. del Museo Civico Archeologico Etnologico del Comune di Modena e Comune di Castelnuovo Rangone (Mo); ZANASI C. (a c. di), Schede didattiche per le scuole elementari e medie, Parco archeologico e Museo all’aperto Terramara di Montale.
  • La storia DENTRO il paesaggio

    Master in Didattica del Territorio

    Venerdì 23 settembre
    Autore: Antonio Brusa

    C’è una storia, nascosta nel paesaggio, che noi vogliamo far emergere. E’ la storia del Territorio. E’ invisibile per sua natura, come tutte le storie. Quindi non consiste nell’ammirazione e nella descrizione delle emergenze artistiche e naturali. E nemmeno nella commemorazione dei fatti che vi accaddero, se ve ne furono di importanti. E’ la ricostruzione della lunga interazione fra due sistemi complessi: quello della natura e quello degli uomini. E’ la comprensione di come, attraverso questa interazione millenaria, il territorio si è costituito, nella forma nella quale ci si presenta oggi, e nell’ambiente che ora ci accoglie.

    Il territorio è, dunque, uno spazio che si è coevoluto con gli umani. Noi ne vediamo solo la fase finale, quella nella quale siamo inseriti, e, per di più, la vediamo come un oggetto. Noi siamo gli uomini – pensiamo -  quello è l’ambiente, il paesaggio, la natura. Ci percepiamo, perciò, come “gli altri”. “I “soggetti”. Noi siamo quelli che “sfruttano”, “utilizzano”, “conservano”, “distruggono”, “posseggono”, “difendono”, “ammirano” o “ignorano” un oggetto, lo spazio che si apre ai nostri occhi. Certamente, queste sono le nostre azioni. Ma queste azioni sono solo una parte del dramma. L’altra è costituita dalle risposte dello spazio e dai vincoli che queste creano, mentre vengono date. Potremmo mai capire uno spettacolo ascoltando unicamente i monologhi di un attore? O ascoltandone separatamente le voci dei protagonisti? E’ una possibilità talmente assurda, che non la prendiamo mai in considerazione.

    Ma è esattamente ciò che accade quando parliamo di paesaggio e quando parliamo di storia. Non possiamo dire che, nel caso della Puglia (che possiamo prendere tranquillamente come esemplare di altre situazioni), nessuno conosca qualcosa della sua storia. Che non si sappia che qui passarono i greci e poi i romani e, dopo di loro, tanti altri ancora. Le vie ci parlano di messapi, di dauni e di peucezi. Ci sarà qualcuno che assocerà questi nomi a popoli antichi. E forse, ancora, qualcuno si spingerà oltre, ricordando Pirro e Annibale. Né possiamo dire che nessuno sappia nulla del paesaggio pugliese, ultimamente così celebrato da riviste, perfino “National Geographic”, location ideale per decine di fiction, e non abbia sciorinato almeno una volta, la lista degli olivi, delle cattedrali, delle bianche rocce delle murge e di Castel del Monte. Appunto: frammenti isolati di un discorso. Parole, magari talmente belle da appagare chi le pronuncia. Ci danno l’impressione di sapere, ma non ci rivelano nulla del dramma, dal quale sono state enucleate. Sono oggetti, splendidi oggetti, che abbiamo tolto dalla vetrina e che rigiriamo nelle mani soddisfatti. Noi con delicatezza, perché siamo educati. Gli altri, gli incivili, maneggiandoli senza cura. Nessuno, in realtà, accorgendosi che non riusciamo a vedere la scena complessiva, la poderosa vicenda nella quale anche noi siamo immersi (della quale anche noi siamo “oggetti”), e che ci scorre di lato e forse ci trascina inconsapevoli.

    Questa estraneità ha immediate conseguenze in ciò che chiamiamo “gestione del territorio”. Se questo è un oggetto, diverso da noi, viene dopo di noi: dopo le case, le strade, i vestiti e il pasto a casa. Queste sono le necessità primarie, quelle che ci permettono di sopravvivere. Il territorio viene dopo. Se avanza qualcosa, è bene curarlo e metterlo su per bene. E’ storia, arte, cultura. Economia, anche: come dimenticare il turismo e l’agricoltura?Ma, appunto, dopo. Primum vivere. Non vedendo la realtà – e cioè il territorio come sistema di natura e di società – con capiamo che la sopravvivenza del territorio coincide con la nostra sopravvivenza. E’ il nostro pane. La gestione del territorio, perciò, non è un di più, il segno distintivo di una regione civile e all’avanguardia, ma l’operazione di governo intelligente, di chi ha capito come funziona la macchina e cerca di guidarla. Sapendo che se non lo fa, prima o poi ne verrà travolto.

    Tutto facile, dunque? Basta “sapere che cos’è un territorio” per rimetterci in carreggiata?

    Il punto è che quello che noi vediamo è il paesaggio. Il territorio è invisibile. Per vederlo occorrerebbero degli occhiali speciali che permettano ai cittadini che lo abitano di “aumentare la realtà” nella quale si muovono. Occhiali difficili da progettare. Quelli che esistono ci fanno vedere delle ricostruzioni del passato. Qui vedo dei ruderi, e ora ammiro dei templi, un castello, il mercato con le tende colorate, il porto gremito di navi. Ancora una volta: degli oggetti. L’effetto paradossale di queste tecnologie immersive, sarebbe quello di consolidarci nel nostro sentirci separati. Spettatori privilegiati dalla tecnologia.

    Questi occhiali speciali sono difficili da comprare, perché sono nella nostra testa, e li dobbiamo costruire noi, piano piano e spesso con fatica. Sono gli occhiali del sapere. Bisogna conoscere l’invisibile, cioè la storia del territorio. E’ una storia che affiora qua e là, attraverso dei segni. I segni sono degli oggetti. A volte comuni, a volte di pregio. Di per sé sono muti. Siamo noi che dobbiamo saperli interrogare e farli parlare. Alcuni di questi oggetti-segni sono già marcati dalla consuetudine. Li sappiamo riconoscere. Di molti altri non sospettiamo l’esistenza: pietre e rocce, alberi, la forma di un dosso, una strada, una costruzione anonima. Anche questi possono diventare segni. Questi occhiali speciali, dunque, sono formati da un sapere preciso (chi, che cosa, quando?) e da un saper fare altrettanto specifico: come rivolgere agli oggetti le domande efficaci, quelle che li fanno parlare? Quelle, in particolare, che ci raccontano il dialogo fra uomini e spazio?

    Qui i discorsi si fanno tremendamente duri. Tutti vorremmo dei cittadini in grado di muoversi consapevolmente nello spazio. Lo vorremmo come una premessa necessaria della vita sociale. Come unq qualità costitutiva di una cittadinanza consapevole. Ma ottenerlo è difficile. Occorre formazione. Scuola, dunque. E, per quanto ci riguarda, un buon insegnamento di storia e geografia: un posto dove si possono dotare i cittadini di questi speciali occhiali, in grado di mostrare loro, finalmente, la realtà nella quale vivono.

  • Programma dello Short Master

    Università degli Studi “Aldo Moro”


    For. Psi. Com/CRIAT centro interuniversitario ricerca territorio

     

    Il paesaggio storico come risorsa didattica per lo studio della storia e della geografia

    Short Master

     

    Coordinatore: Antonio Brusa (Università degli Studi di Bari)
    Direttore scientifico: Loredana Perla (Università degli Studi di Bari)

     

    Struttura dello Short Master:

    Il master si compone di 4 moduli costituiti da

    • incontri teorici (venerdì pomeriggio),
    • laboratori didattici (sabato pomeriggio): svolti sui temi delle lezioni
    • escursioni dimostrative (domenica mattina).

     

    MODULO 1Introduzione e impianto generale

    23-24-25 settembre

     

    Venerdì (16.00-19.00): Introduzione e impianto del corso: Il paesaggio storico come risorsa didattica.

    Antonio Brusa: il punto di vista didattico

    Loredana Perla: la prospettiva pedagogica

    BiagioSalvemini: la prospettiva di ricerca

     
    Sabato (16.00-19.00): presentazione dei laboratori

    Valentina Ventura: i giochi didattici

    Giuseppe Losapio: lo storytelling e il laboratorio didattico

    Giulia Perrino: i segni sul territorio

    Giuliano De Felice: archeostorie

    Sergio Chiaffarata: le associazioni che operano sul territorio

    In plenaria. Viviana Vinci: la valutazione

     

    Domenica mattina: Escursione a Mola di Bari

    Valentina Ventura/Giulia Perrino/Sergio Chiaffarata

    Il paesaggio storico: i segni sul territorio. Mola di Bari dalla preistoria al Novecento.
           

     

    MODULO 2 Dalla preistoria fino all’Alto Medioevo
    7-8-9 ottobre

     

    Venerdì (16.00-19.00): lezioni

    Valentina Ventura: Etnogenesi e spazializzazione

    Elisabetta Todisco: La territorializzazione romana

    Nunzia Mangialardi: Come si destruttura un territorio? Il paesaggio pugliese dal tardoantico al medioevo

     

    Sabato (16.00-19.00): laboratori didattici sulla preistoria, storia antica e alto medievale

    Introduzione Antonio Brusa

    Lavori di gruppo (esempi, modelli e esercitazioni)

    Valentina Ventura: gioco

    Giuseppe Losapio: storytelling

    Giulia Perrino: itinerario turistico

    Giuliano De Felice: cortometraggio/app

    Sergio Chiaffarata: smartapp

    In plenaria: Viviana Vincididattica

     

    Domenica: Escursione di studio

    Valentina Ventura: gioco sul Neolitico (Lama Conte Valentino)

     

     

    MODULO 3 Medioevo e prima età moderna
    28-29-30 ottobre

     

    Venerdì (16.00-19.00): lezioni

    Pasquale Favia: Il riemergere di logiche territoriali nel Medioevo

    Saverio Russo: I paesaggi agropastorali aperti, dall’età moderna a oggi

    Annastella Carrino: Le “quasi città”, dall’età moderna ad oggi

     

    Sabato (16.00-19.00): Laboratori didattici sulla storia medievale e moderna

    Introduzione Antonio Brusa

    Lavori di gruppo (esempi, modelli e esercitazioni)

    Valentina Ventura: gioco

    Giuseppe Losapio: storytelling

    Giulia Perrino: itinerario turistico

    Giuliano De Felice: cortometraggio/app

    Sergio Chiaffarata: smartapp

    In plenaria, Viviana Vinci: osservazioni didattiche

     

    Domenica mattina: escursione di studio

    Sergio Chiaffarata

    Viaggiare nel tempo attraverso lo spazio: il villaggio rupestre Bari

     

     

    MODULO 4 Tarda età moderna ed età contemporanea
    18-19-20 novembre

     

    Venerdì (16.00-19.00): Lemmario essenziale del paesaggio contemporaneo

    BiagioSalvemini: “Insediamento”

    Angela Barbanente: “Paesaggio”

    Dino Borri: “Pianificazione”

     

    Sabato (16.00-19.00): laboratori didattici sulla storia recente

    Introduzione Antonio Brusa

    Lavori di gruppo (esempi, modelli e esercitazioni)           

    Valentina Ventura: gioco

    Giuseppe Losapio: storytelling

    Giulia Perrino: itinerario turistico

    Giuliano De Felice: cortometraggio/app

    Sergio Chiaffarata: smartapp

     

    Discussione finale sulla cittadinanza attiva

     

    Domenica mattina e pomeriggio: escursione di studio
            

    Sergio Chiaffarata

    Paesaggi di guerra e di pace, tra Altamura, Gravina e Corato

  • San Sabba. Il ricordo come arte o come storia.

    Autore: Antonio Brusa


    La Risiera di san Sabba era un grande complesso industriale, per pilare e stoccare il riso importato nello scalo di Trieste. Fu costruita nel 1913, quando la città faceva parte dell’impero austroungarico. Passò quindi all’Italia, ma – trent’anni dopo – tornò ad un governo d’oltralpe, dal momento che dopo l’8 settembre la regione giuliano-dalmata venne annessa al terzo Reich. Poco dopo, nel 1944, la Risiera venne riconvertita in un campo di sterminio, dove vennero imprigionati e uccisi migliaia di partigiani e oppositori politici (si ipotizzano dalle 3 alle 5 mila vittime) e dove venivano concentrati gli ebrei della regione, per essere poi inviati ad Auschwitz. Alla fine dell’aprile del ‘45, prima di fuggire, le truppe naziste fecero saltare il forno crematorio e, quando giunsero gli alleati, quel complesso (sorte che toccò a molte strutture analoghe) continuò ad albergare uomini e donne sofferenti, questa volta profughi che provenivano dall’Istria. Fu abbandonato, cadde in rovina e, finalmente, negli anni ’70, si diede il via alla sua monumentalizzazione, realizzata su progetto dell’architetto Romano Boico, a seguito di un percorso realizzativo, reso accidentato dalla burocrazia e dalla incerta volontà politica.

    Devo ricordare queste brevi note storiche, mentre visito la Risiera insieme a Fabio Todero, ricercatore dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste (Irsml), perché il monumento di Boico, icona ormai celebre della ferocia nazista in Italia, ha completamente occultato l’evoluzione e, perciò, snaturato la storia tragica di questo luogo: prima officina dove uomini e donne hanno lavorato per guadagnarsi da vivere; trasformata dai nazisti in fabbrica di morte; utilizzata poi come transito di disperati istriani e, infine, cruda testimonianza dell’accidia civile e politica italiana.   
    E’ vero. Le due alte e strette pareti di cemento impongono, come dicono tutte le guide che ho consultato su internet, un senso di angoscia, quando le si attraversano per entrare nel sito. Ma si ergono al posto del cortile di ingresso, quello destinato ai “salvati”. Chi avesse varcato il basso portale in fondo (l’attuale ingresso al sito), sarebbe precipitato nello spazio dei “sommersi”. Questa distinzione, come sappiamo fondamentale nella vicenda dello sterminio, si è persa per sempre e la perdo anch’io, mentre attraverso quel passaggio fra i muri.
    Appena entrati, sulla sinistra vi è la “stanza della morte”. Severa e cupa, con le sue travi a vista nere. Era questo il suo aspetto quando vi furono rinchiusi quelli che erano destinati all’uccisione immediata, oppure è la loro angoscia come la immaginò Boico? La finestra era forse murata. So che i graffiti tracciati sui muri furono cancellati (qui come altrove) dalle occupazioni successive. Per il resto, devo arrangiarmi con le ipotesi, e cercare qualche risposta, senza che la sistemazione museale mi aiuti.
    Entro nel cortile. Mi sembra lo scenario del film di Benigni (un’impressione errata: ma il film forse era corretto, perché venne proprio girato in una fabbrica dismessa). Quando era una risiera, infatti, vi erano ballatoi e balconate, penso ancora presenti durante il nazismo. Tutto abraso dal restauro, che ha giudicato più confacente la parete liscia, bucata dalle finestre. A sinistra si apre il locale con la fila di cellette. Piccole, senso di soffocamento. Alcune hanno un’apertura in alto. Accoglievano sei prigionieri per volta. Dovevano stare in piedi, stretti in fila, uno appoggiato all’altro. Ogni cella è fornita, alla sua sinistra, di un giaciglio di legno a due piani. Mi chiedo: sono gli originali? Sono stati tolti e poi rimessi? Il locale venne chiuso, durante la riutilizzazione postbellica del sito? Se no, quelle celle vennero occupate? Da chi? Con quali sentimenti riuscì ad abitarle? Cerco di dialogare mentalmente con ciò che vedo, ma non trovo nessun aiuto, perché, in realtà, non so che cosa vedo.
    Segue la “Sala delle Croci”. Era originariamente articolata in quattro piani, prima di lavoro e poi destinati al deposito dei vestiti e delle “prede” sottratte ai prigionieri. Certamente, il fuoco e l’incuria hanno fatto la loro parte. Mi sforzo di ricostruire il significato che ha voluto conferire l’architetto a questo ambiente, quando ha eliminato i piani e ha lasciato a vista l’armatura di legno dell’interno, dipinta di nero. E’ lui, infatti, che ha ottenuto le immense croci, che si inseguono nello spazio svuotato.
    Uscendo nel cortile, sulla destra vi era l’essiccatoio, trasformato con analogia ripugnante in forno crematorio. I nazisti lo distrussero. La sistemazione scelta, questa volta, riesce a parlarmi: vedo il pavimento, ricoperto da lastre di metallo, e la traccia sul muro del vecchio edificio, un canale su un lato segna il percorso dei fumi, incanalati verso l’altissima ciminiera della Risiera (40 metri), al cui posto si eleva una struttura di ferro (una sorta di Pietà). Nel retro del forno è lo spazio museale (ospita una mostra molto vecchia) e, attraverso un corridoio a sinistra, si accede al memoriale. Mi dice Fabio che qui vi erano dei macchinari. Leggo sulla mappa del campo che fu poi adibito ad abitazioni di aguzzini e a deposito. Anche questo è stato svuotato completamente, fino alle capriate del tetto, che ora ricoprono un ambiente vasto, in fondo al quale un bancone di cemento richiama irresistibilmente un altare. E’ l’interno di una chiesa.

    Nella Trieste della metà degli anni ’70, dunque, questa sembrò la sistemazione museale ideale. Un po’, mi dice Todero, erano i tempi. Si pensava così, allora. Qui, però, c’è una volontà ideologica che mi sembra sovrapporsi alla storia del luogo e alle persone che vi soffrirono, alle loro convinzioni, ai motivi per i quali lottarono e vennero uccisi. C’è una forzatura strana, in questo sito – non voglio usare la parola “violenza”- , quella di chi, volendone salvare la memoria, l’ha piegata al suo modo di rielaborare il passato. La tragedia dello sterminio è come trasformata nel fondale, sul quale si mostra il dolore di gente a noi contemporanea. Un dolore degno e rispettabile; ma ingiusto, se pretende di dialogare con noi al posto delle vittime.
    Non sono un architetto e, perciò, sono certo che questi appunti siano un po’ ingiusti. Tuttavia, nascono dalla convinzione che il punto di vista dello storico non possa essere trascurato, quando si elabora la monumentalizzazione del passato. Perciò, penso che se riuscissimo a restituire al cittadino odierno la complessità storica di una realtà che non esiste più, gli daremmo una possibilità di dialogare con questa. E se riuscissimo a farlo con discrezione, faremmo quello che ci è obbligatorio, particolarmente di fronte alla tragedia immane della seconda guerra. Evitare di metterci in prima fila.
    Una classe mi precede, mentre visito la Risiera. Come faccio sempre, nei musei e negli scavi, la seguo a distanza. Vizio professionale di chi studia didattica. Quindi, cerco di carpire gli sguardi dei ragazzi, il loro comportamento e faccio attenzione alle parole della guida. Sono seduti in due file, nei due lunghissimi banconi sistemati nel museo. Il loro professore, in piedi di fronte a loro, racconta il sito. Lo ha fatto varie volte, mi pare di cogliere. Ho già sentito quello che dice, sono le parole di Levi. Gli allievi non fanno chiasso, sono intimiditi dal luogo, ma si distraggono lo stesso, e il professore se ne è accorto. Calca la mano sul cibo scarso, di pessima qualità, sulle botte. Cerca, con le atrocità raccontate, di catturare la loro attenzione. Nemmeno questa mi sembra una buona strategia memoriale.

  • Un video per raccontare il territorio

    Autore: Valentina Ventura


    A lezione di Cittadinanza e Costituzione

    1. Introduzione
    2. Metodologia e fasi di realizzazione del video
    3. La trama del video-racconto (ovvero lo storyboard)
    4. Conclusione. Un video non è un tema

    1) Introduzione

    Educare alla cittadinanza attraverso la lente di un obiettivo. Questo lo scopo del progetto-concorso nazionale “Articolo 9 della Costituzione. Cittadinanza attiva per la cultura, la ricerca e il patrimonio storico e artistico”, promosso dai  Ministeri dell’Istruzione e dei Beni culturali e della Fondazione Benetton studi e ricerche durante l’anno scolastico appena concluso e dedicato agli studenti della secondaria superiore. Duplice l’obiettivo da raggiungere:

    • sviluppare alcune competenze di cittadinanza, sia quelle di base, da certificare al termine del primo biennio, sia quelle che investono l’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione” lungo tutto il quinquennio della scuola superiore. In particolare il  DM 139/2007 stabilisce che tutti gli studenti (dei licei, degli istituti tecnici e degli istituti professionali) al termine del corso di studi dell’obbligo d’istruzione devono possedere alcune precise competenze spendibili nella realtà sociale, tra le quali quella di “utilizzare gli strumenti fondamentali per una fruizione consapevole del patrimonio artistico e letterario”;
    • fare della partecipazione al Progetto uno strumento complementare per gli insegnamenti curricolari disciplinari, in particolare di Storia e Storia dell’Arte, attraverso la creazione di contesti di apprendimento differenziati, in cui gli studenti siano chiamati ad agire e a confrontarsi con problemi reali e nei quali la scuola entri  in contatto con la società civile, con la sua storia, le risorse presenti sul territorio.

    Il progetto si è articolato in due fasi: la prima fase (settembre 2012-gennaio 2013) ha previsto una serie di lezioni-conferenze, tenute da alcuni dei maggiori studiosi e protagonisti della vita culturale nazionale, sui temi inerenti l’articolo 9 della Costituzione, in luoghi quali istituti, palazzi, musei, biblioteche ed archivi, testimonianze del patrimonio culturale italiano. Per le classi presenti dal vivo alle conferenze, c’è stata la possibilità di visite o laboratori didattici collegati ai temi affrontati. La seconda fase (febbraio-aprile 2013) ha previsto la partecipazione a un concorso per il quale  gli studenti hanno realizzato un video della durata massima di 5 minuti, sui contenuti dell’articolo 9 della Costituzione.

     


    2) Metodologia e fasi di realizzazione del Video

    Nella scelta dell’argomento da affrontare nel video con la mia classe, la II A dell’IISS “Vito Sante Longo” di Monopoli, abbiamo puntato l’attenzione sulla valorizzazione del paesaggio rupestre, caratteristico del territorio pugliese. Scopo del percorso didattico elaborato è stato quello di avvicinare gli studenti all’osservazione, lettura e interpretazione del paesaggio come fonte storica e culturale, favorendone la conoscenza e l’impegno attivo per la sua valorizzazione e tutela. L’approccio è stato di tipo multidisciplinare, poiché molteplici sono le anime del paesaggio (storica, geologica, floro-faunistica, antropologica, ecc.).

    La fase di acquisizione dei dati ha previsto una serie di momenti di approfondimento:

    • la partecipazione della classe all’incontro sul tema “Un bene misconosciuto: il paesaggio italiano, tra Costituzione, ambiente, cronache e condizioni storiche contemporanee”, tenuto presso l’Archivio di Stato di Bari da Giuseppe Fiengo, avvocato distrettuale di Stato di Napoli;

     

     

    • lezioni sul paesaggio rupestre tenute dal dott. Sergio Chiaffarata (Centro Studi Normanno Svevi dell’Università di Bari-Associazione Historia Ludens);

     

     

    • sopralluoghi sul territorio con l’ausilio delle guide del Centro turistico giovanile di Monopoli;

     

     

    • visita d’istruzione al Parco Naturale dell’Alta Murgia, al Pulo e al museo di Lamalunga ad Altamura;
    • produzione scritta di sintesi inerenti gli argomenti trattati negli incontri; ricerca bibliografica e sitografica.

     

    Nella fase di consolidamento e progettazione abbiamo condiviso in classe i risultati delle ricerche avviate, revisionato in modo collaborativo i materiali prodotti e realizzato una serie di articoli sulla valorizzazione del patrimonio culturale, pubblicati dai ragazzi sulle testate giornalistiche locali. In seguito si è proceduto alla progettazione e realizzazione del video per la partecipazione al concorso. I ruoli sono stati assegnati tenendo presenti le competenze di base dei ragazzi e le loro richieste, cercando di favorire sempre il lavoro collaborativo e lo scambio di esperienze.

    Innanzitutto, in base agli scarsi mezzi tecnici a disposizione, si è operata la scelta di montare le immagini del video con una colonna sonora (nel nostro caso Somewhere over the rainbow, nell’interpretazione dall’artista hawaiano Israel Kamakawiwo) evitando così i problemi del montaggio dell’audio in presa diretta.

     

    Quindi abbiamo scelto il titolo del video “Tra queste pietre…le nostre radici”.

    Abbiamo selezionato una serie di frasi di autori famosi della letteratura internazionale che avessero come argomento il paesaggio e ne abbiamo scelta in particolare una di Fernando Pessoa, che ben sintetizza il messaggio che abbiamo voluto trasmettere con il nostro video. L’abbiamo utilizzata nella videata conclusiva e recita: “È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. La vita è ciò che facciamo di essa. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo”.

    Tenendo presenti queste parole abbiamo girato le scene del nostro video. Le uscite dedicate alle riprese, in orario extrascolastico, sono diventate anche una bella e importante occasione di incontro e condivisione con le famiglie, che si sono messe a disposizione accompagnandoci nei sopralluoghi e supportandoci nella realizzazione del video.

     


    3) La trama del video-racconto (ovvero lo storyboard)

    Scena 1 (Zona Costa Ripagnola. “Pagghiare” del XIX secolo. Protagonisti: due ragazzi in vespa): E’ primavera e il sole e la temperatura mite invitano ad uscire e ad immergersi nella natura. In un’ideale passeggiata i ragazzi si trovano a riscoprire luoghi che conservano intatto il fascino dell’antica civiltà rurale, che nei secoli ha abitato le nostre terre coltivando ulivi, vigne, frutteti ed aprendosi al mare. Le “pagghiare” (o furni) sono costruzioni realizzate a secco dai contadini con le pietre recuperate dal dissodamento del terreno. Possono essere semplici ripari per la pioggia o la calura estiva, depositi per gli attrezzi agricoli o essere adibite ad abitazione rurale.

     

     

    Scena 2 (Lama e Torre Incina XVIII secolo, spiaggia. Protagonisti: i due ragazzi in vespa; tre coppie di amici) In queste terre l’acqua ha modellato la roccia e l’uomo, a partire dai primi secoli del Medioevo,  ha assecondato e completato quest’opera ricavando dimore, chiese, frantoi, nei fianchi delle “lame”, e qui si è rifugiato dando vita alla civiltà rupestre. Si definiscono lame i solchi di erosione torrentizia  poco profondi modellati in rocce solubili, tipici del paesaggio pugliese,  che ricorrono assai numerosi e perpendicolari alla costa e convogliano verso il mare le acque meteoriche dall’altopiano della Murgia.

     

     

    Scena 3 (Lama Belvedere. Protagonista: una ragazza a spasso con il cane)  Il vecchio e il nuovo si incontrano, e questo si percepisce anche nel tessuto urbano dove è possibile, tra palazzi moderni, ai piedi del nostro Istituto scolastico, trovare un branco di asinelli che pascola in un’isola verde risparmiata (per quanto ancora?) dalla cementificazione.

     

    Scena 4 (Lama dell’Assunta e chiesa dei santi Andrea e Procopio XI secolo. Un nonno e una bambina, due ballerine di Pizzica) Ricostruirne la storia è possibile non solo attraverso i monumenti e le testimonianze materiali, ma anche attraverso i racconti legati al mondo contadino e le tradizioni che esso ha prodotto. Alla passeggiata si uniscono un nonno e la sua nipotina, alla quale il vecchio racconta standosene seduto all’ombra di un ulivo secolare, e per mano vecchio e bambina entrano in una chiesa rupestre illuminandone gli affreschi con una torcia per poi  incamminarsi lungo la lama a scoprirne la natura.

     

     

    Scena 5 La passeggiata del gruppo si conclude alla “Loggia di Pilato”, un belvedere in collina dal quale l’occhio spazia su tutto il territorio monopolitano. I protagonisti delle scene precedenti si incontrano e si fermano ad ammirare il paesaggio. L’immagine sfuma e viene sostituita da una foto di tutto il gruppo di lavoro (genitori compresi) accompagnata dalle parole di Pessoa.

     

     

    4) Conclusione. Il video non è un tema

    Non ci interessa molto non aver vinto. Forse era nei fatti. Probabilmente un lavoro più canonico, con i commenti, le schede, le musiche del tempo e magari l’enfasi sulle origini e l'esaltazione della cultura locale avrebbe avuto più successo al concorso. Ma sono convinta che, quando si realizza un prodotto culturale, occorra seguirne le regole – storiche in primo luogo – e tecniche,  e che nel loro apprendimento consista il pregio formativo di un’esperienza come quella che ho descritto.

    Perciò, ho cercato di insegnare a guardare il paesaggio e a ricostruirlo culturalmente nel video (questo era lo scopo del lavoro) seguendo i modi di comunicazione simili a quelli della clip, o di reportages affini. (Per la realizzazione di un documentario storico-scientifico consiglierei al collega la lettura del bel lavoro di Simona Bani, Passato sullo schermo. Nuova vita didattica dei documentari storici, in “Mundus”, 2, 2008, pp. 199-206).

    Credo, in questo modo, di aver ottenuto qualcosa che difficilmente si riesce a realizzare con il solo lavoro di classe. Ho favorito la formazione di una memoria di gruppo, con questa esperienza di lavoro coinvolgente e istruttiva. Ho visto i ragazzi entusiasmarsi e, i colleghi sanno che non è retorica,  la luce che si è accesa nei loro occhi. Ho osservato che, dopo i primi sopralluoghi, i ragazzi cominciavano a esplorare il territorio e, man mano, a cercare autonomamente informazioni.

    Il fatto che nasceva il desiderio di conoscere il territorio, e si formava l’impegno a valorizzarlo, è stato il risultato (direbbero i ministeriali “la competenza”) più importante che mi sembra di aver raggiunto.

     

    I luoghi del Video

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