Bari, 30 Luglio


La stampa dà notizia della pubblicazione dell’VIII rapporto sulle classi dirigenti italiane. Confesso che i precedenti non mi avevano affatto interessato. Questo sì, perché tratta di formazione, anche se dei dirigenti (poverini, sono anche loro cittadini italiani). Per i quali, però, la ricerca scopre che la maggior parte di loro, quando vuole la formazione per i figli, li manda all’estero. Oddìo, l’ho fatto anch’io (e tantissimi miei amici), che abbiamo avuto la fortuna, rispetto a tanti connazionali, di mandare fuori i nostri figli. Ma, a differenza dei dirigenti, io non ho i soldi per capire perché sono stato costretto a fare questo. Visto perciò che i Dirigenti hanno fatto questa ricerca, mi sono detto, perché non approfittarne?
Qui riporto le mie obiezioni, invitandovi a leggerla, comunque: è un ottimo lavoro, pieno di notizie utili. Sono le conclusioni che non mi convincono e, perciò, ve le ripropongo (in corsivo), con le mie osservazioni. Mi sembra importante, perché – al netto delle cose buone che pure la ricerca contiene – temo che la macchina politica ne assorbirà solo le sfumature negative.

Non serve aggiungere più anni alla formazione, finendo col prolungare – come è avvenuto – i percorsi di studio, bensì servono meno anni di formazione, in cui però si raggiunga un apprendimento “appropriato” e non “rimandato” ai cicli successivi

Sono da sempre convinto della necessità di riorganizzare il percorso della formazione del cittadino, fondato sul principio che l’apprendimento deve essere “appropriato” e non “rimandato”. E’ questa inveterata abitudine che porta il sistema scolastico italiano ad aggiungere anni, corsi, master, scuole, e scuole speciali, per non parlare della scuola aggiuntiva (quella dei Pon, per esempio: uno sperpero di ricchezza del quale, quando se ne comincerà a parlare, ci dovremo pentire amaramente). Se tutto si facesse bene, in fondo è questa la semplice ricetta del gruppo di ricerca, lo si potrebbe fare anche in tempi più ridotti.
Noi tutti ci siamo chiesti, da sempre: cosa serve per “farlo bene”? E qui, la conclusione della ricerca fa cadere la maschera che copre le intenzioni vere del gruppo che l’ha condotta (sarà dietrologia? Mah). Servono più risorse (in termini di strutture, personale e denaro), è la risposta ovvia, che da sempre ci diciamo. La maschera è proprio quella di chi ritiene che tutto ciò faccia risparmiare, invece. E’ quello che sostengono i ministri italiani, dalla Moratti in poi (compresa quest’ultima e il buon Reggi, che lo ha pure detto papale papale).

Non basta porre al centro il tema della “valutazione” se non si rinforza in parallelo quello della “motivazione” degli studenti, senza la quale ci resta da valutare solo il disamore per la scuola dei giovani e la stanchezza dei docenti;

Anche in questo sono totalmente, ma totalmente d’accordo. Il Ma, grosso come una casa, è che non è vero che il sistema di valutazione è stato messo al centro della macchina formativa italiana. Rimanderei al resoconto che ho pubblicato su HL, dopo aver visitato il CITO, il centro di valutazione vero e reale, funzionante in Olanda. AL suo confronto l’Invalsi si rivela per quello che è: un fantasma pubblico. E questo a prescindere dalla bravura e dall’impegno dei pochissimi ricercatori che vi lavorano. Ma come si fa a sostenere che abbiamo focalizzato tutto sull’Invalsi, se questo ha poche decine di dipendenti, e il Cito ne ha oltre 600 a tempo pieno e migliaia di collaboratori part time (e l’Olanda è un terzo dell’Italia)? Quindi, la frase reale dovrebbe essere “noi abbiamo fatto finta di mettere al centro … ecc ecc, con quel che segue.
Quindi, ancora: non abbiamo investito quello che si doveva, per dotarci di un sistema di valutazione decente, e, per di più, abbiamo lasciato perdere in tutto il resto: non solo la motivazione, ma soprattutto la formazione del personale docente (mi limito a questo, date le mie competenze).

Non serve aggiungere sempre nuove iniziative “fai da te” (talvolta anche di buon livello), nell’ambito dei rapporti formazione/lavoro quanto piuttosto serve costruire un vero e proprio “sistema di giunzioni” che abbia una sua logica interna, con personale, risorse e carriere (come da sempre avviene, ad esempio, in Germania);

Qui ci azzecca in pieno. A parte che le iniziative “fai da te” sul rapporto scuola lavoro si traducono spesso in forme anticipate di sfruttamento del lavoro giovanile, mi limito a quello che so. Qual è il “sistema di giunzioni” che lega formazione docente e servizio attivo? E’ un canale tutto all’interno del pubblico, quindi non soggetto alla difficoltà di “governare” il privato.
I dati parlano con una chiarezza impressionante e mi meraviglio – da sempre - che i colleghi (o la famosa “gente”) non mandi tutto all’aria per la rabbia. La necessità di questa “giunzione” venne prospettata nei decreti delegati del 1974. Si disse che era urgente. Diventò legge dopo circa 15 anni, con la riforma Ruberti. A questo punto iniziò il boicottaggio sordo, quanto fattivo, delle Università (Lettere in testa), che portò alla nascita delle Ssis dopo una gestazione di 9 anni. Dopo i quali, la Gelmini, con un tratto di penna le cancellò (si vantò dicendo che le erano bastati nove minuti per cancellare una cosa che aveva richiesto 9 anni. Le sembrò un prodigio di efficienza). Quanti anni sono passati da quell’infamia della Gelmini? Bene: al 2014, ancora non abbiamo un “sistema di giunzione” fra università e scuola (il TFA come il PAS sono
pannicelli provvisori). E mi sa che dovremo aspettare svariati anni, per averlo.
E sono d’accordo: questo sistema di giunzione deve avere personale risorse, personale e logica interna. Come esiste – anche – in Germania. Ma sarebbe d’accordo Confindustria ad accettare il fatto che ci vogliono dei soldi per questo?

Di conseguenza non serve un di più di soggetti istituzionali, di risorse, di competenze che giochino sul proscenio del passaggio al lavoro dei giovani, contribuendo a rendere più complesso il labirinto all’interno del quale è difficile per gli stessi giovani e per le loro famiglie trovare una buona via d’uscita, quanto piuttosto serve ridurre la complessità e predisporre il sistema di giunzioni appena ricordato.

E qui casca l’asino. Come no? Serve, e come, un di più di soggetti istituzionali con risorse, competenze e soldi. Il documento compie il grave errore di chiamare “complessità” il “casino” che c’è adesso. Confusione, arrangiamenti personali e istituzionali. Logiche di fai da te, che spesso diventano perverse. Leggi ad hoc, create per tamponare o per soddisfare questo e quello. La prima semplificazione sarebbe questa.

Lo sforzo (della ricerca) è stato quello di fare un po’ di pulizia del nostro modo di pensare, tenendo presente che in molti casi non serve “il di più” quanto piuttosto “il di meno” (ma meglio).

Il meglio vuol dire più soldi. Il resto sono piacevoli discussioni.

Si dirà che i soldi non ci sono, che in tempi di crisi si sono cose più urgenti. E, in fondo, anche la nostra classe dirigente non ci crede più di tanto, a sto fatto della formazione. E qui, sono d’accordo, totalmente t’accordo con Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli, al punto che penso che le sue conclusioni non riguardino soltanto “i potenti” del paese:
“la nostra classe dirigente attribuisce poco peso allo studio dei proprio figli; e chi ci crede li manda all’estero. Non un gran presupposto per la rinascita del Paese”.


Una classe dirigente che snobba l’istruzione, in “La Stampa”, 30 luglio 2014, p. 29
Il Rapporto è stato promosso da Fondirigenti e dall'Università LUISS - Guido Carli, con prefazione di Emma Marcegaglia.

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