Autore: Antonio Brusa


Rinverdita dal riferimento alla “Buona Scuola”, ecco l’ennesima invettiva sulla scuola-che-non-funziona. Questa volta, dice Salvatore Settis, non funziona per colpa delle competenze. Nella scuola italiana, afferma lo studioso in un’intervista apparsa sull’ “Huffington Post”, queste hanno tolto di mezzo le conoscenze:
“Ecco, è un’idea perversa sostituire la parola “conoscenza” con “competenza”, come è stato fatto dai pedagogisti alla nostrana, consultati da Berlinguer e dalla Moratti in poi per le loro pessime riforme scolastiche. Abbiamo bisogno di persone con uno sguardo generale. Non bastano le conoscenze specialistiche, approfondite quanto si vuole. Ci vuole una visione collegata col senso della comunità (come del resto è scritto nella nostra Costituzione, che stiamo via via dimenticando)”.

Da una parte le “competenze”. Cioè le specializzazioni e gli approfondimenti (come si legge dopo, legate al mondo del lavoro, subalterne al mercato: e così via). Dall’altra le “conoscenze”, che invece sono generali, di ampio respiro e, come si legge oltre, anche critiche (e così via). La crisi della scuola deriva dal fatto che queste (le conoscenze) sono state sostituite da quelle (le competenze).

Sarà vero? Mi limito al mio campo, quello della storia. Berlinguer, dal quale si sarebbe originato il disastro della sostituzione, ha reso possibile lo studio del Novecento (quindi ha sollecitato una “conoscenza”) e lo ha fatto sia per ragioni scientifiche (credo del tutto evidenti, parlando di un programma di storia) e sia per ragioni sociali, ben dichiarate nei decreti che accompagnarono quella riforma del 1996.

Poi, se si vanno a spulciare i programmi successivi, si vede che le conoscenze ci sono, sono elencate, si spiega sommariamente come vadano studiate, o come vadano scelte, visto che il Miur non può che emanare Indicazioni per la costruzione di curricoli, la cui progettazione compete agli istituti (e questo per una legge Costituzionale). E questo, nonostante i “pedagogisti nostrani”, che furono di volta in volta consultati da Berlinguer, da Moratti o da Gelmini, abbiano premuto per l’introduzione di una “didattica per competenze”.

Gli argomenti di studio sono citati, in storia come nelle altre discipline. Li si possono criticare, si può discutere il sistema di scelta dei contenuti. Non si può sostenere, però, che sono stati sostituiti dalle competenze, intese come conoscenze specializzate subordinate al mercato del lavoro. In molti paesi, nei quali si è rinunciato ad insegnare una “storia generale”, i programmi prescrivono lo studio di pochi momenti specifici. Non è il caso dell’Italia, nella quale governi di destra e di sinistra hanno tenuto ferma la barra proprio sulle “conoscenze generali”.

Allora le competenze. Nei proclami che aprono i programmi se ne parla a lungo. Condivido il fastidio che la loro lettura ingenera in molti professori. So, per contro, che queste prolusioni sono la fonte inesauribile di corsi di aggiornamento organizzati dalle scuole. Ma se vado a controllare le parti disciplinari, le cose non sono così nette, come vorrebbe Settis. Ad esempio, ecco le competenze finali del programma della scuola di base attuale

•    Comprende aspetti, processi e avvenimenti fondamentali della storia italiana dalle forme di insediamento e di potere medievali alla formazione dello stato unitario fino alla nascita della Repubblica, anche con possibilità di aperture e confronti con il mondo antico.
•    Conosce aspetti e processi fondamentali della storia europea medievale, moderna e contemporanea, anche con possibilità di aperture e confronti con il mondo antico.
•    Conosce aspetti e processi fondamentali della storia mondiale, dalla civilizzazione neolitica alla rivoluzione industriale, alla globalizzazione.
•    Conosce aspetti e processi essenziali della storia del suo ambiente.
•    Conosce aspetti del patrimonio culturale, italiano e dell’umanità e li sa mettere in relazione con i fenomeni storici studiati.

A leggerlo tutto, l’elenco è piuttosto lungo, certamente disuguale. Si può discutere se fosse meglio quello precedente, più stringato, o quello della Moratti, infinito. Si può dibattere se sia addirittura necessario. Se ne possono mettere in evidenza errori o impostazione. Ma che queste competenze siano “conoscenze approfondite e specifiche”, o che siano “subalterne al mercato”, e su questa idea basare la propria diagnosi dei mali della scuola, no. Questo è semplicemente sbagliato.

Certamente, il tema delle competenze, insieme con altri, fra i quali il tema delle “educazioni” (all’intercultura, alla legalità, all’ambiente, alla finanza ecc), entra in quel vasto progetto di “de-disciplinare” la formazione scolastica, che trova già esempi internazionali ben pubblicizzati dai media. E’ vero. In questo processo si vuole stemperare il potenziale critico del sapere disciplinare, a favore di una duttilità indefinita (fra l’altro, non mi sembra che l’intervistatore abbia capito molto, quando insinua la domanda: “Competenza vuol dire possedere oggetti conoscitivi e capacità. Conoscenza vuol dire farsi modificare dalle cose che si incontrano, giusto?”).

Si tratta di un tema strategico, che si sta imponendo sottobanco, in sordina. Con un sospiro, la scuola lo accetta come l’ennesimo ukase ministeriale. Lo sopporta di malavoglia, ma non riesce a tematizzarlo come un segno dei cambiamenti del rapporto fra scuola e società, che va discusso con urgenza e approfonditamente; sul quale deve teneralta l’attenzione, o la guardia,  come si diceva ai tempi. 

Ma se vogliamo analizzare la realtà attuale, il risultato più evidente della “didattica per competenze” (nei limiti di quello che vedo nelle scuole) è un fardello fastidiosissimo di carte e di corsi di aggiornamento, questo sì, opportunamente denunciato da Settis. Ma dire che abbia sconvolto il lavoro di classe, così radicalmente da aver provocato la crisi, mi sembra un’affermazione semplicemente non provata. Sfogliando i Piani formativi delle scuole, gli elenchi di competenze si accavallano. Ogni volta che entro in qualche istituto, la domanda è “come ci regoliamo con le competenze?”. Me la rivolgono insegnanti terrorizzati dall’incombente “certificazione delle competenze”, anche loro convinti di vivere ormai in questa strana e nuova “scuola delle competenze”.

Poi, quando vado a guardare quello che scrivono nei loro programmi, assolte le ritualità del pedagogese,scopro ciò che questi formalismi ricoprono. Il fatto che la storia che si spiega è sempre quella. Trovo fenici raccontati, quando va bene, come se si fosse ancora ai tempi di Sabatino Moscati; cretesi che continuano ad andare per mare, nonostante gli studi che ci informano che preferivano di gran lunga l’agricoltura; dori, eoli e joni che si ostinano a invadere la Grecia, per quanto  gli studiosi dei processi etnogenetici ci avvertano che le cose andarono in un altro modo. Per non parlare della storia medievale, che conosco un po’ meglio, dove imperversano indistruttibili piramidi feudali, insensibili alla battaglia quarantennale, condotta con passione da Giuseppe Sergi (e da tanti altri). Qualcosa vorrà pur dire il fatto che i testi più adottati nelle superiori (parlo di storia e filosofia) siano quelli antichi di decenni, con la sola differenza che sono stati abbondantemente sfrondati, a volte corredati a margine dalle novità del giorno, come un tempo gli amanuensi facevano con i disegnini stravaganti. Se dobbiamo interrogarci sulle cause della crisi attuale della scuola, più che incolpare competenze (che al peggio produrranno danni in futuro, ma nel presente sono di carta) non converrebbe soffermarsi sulla inerzia, a volte secolare, delle conoscenze scolastiche? Non sarebbe necessario mettere sotto inchiesta la trafila formativa dei docenti e il sistema di produzione della cultura scolastica, campi nei quali l’Università è pesantemente responsabile?

Quel che lascia disorientati, è che vi è un ceto intellettuale che, quando interviene sulla scuola lo fa senza conoscerla. Ragiona su principi astratti e situazioni inesistenti. Per Settis, le competenze sono troppo specialistiche; per Ferroni sono troppo generali; per Lucio Russo sono figlie della degenerazione del ’68.  Per la maggior parte, sono nefaste perché sono state proposte da una banda di folli pedagogisti o solo perché “nuove”. Alla fine si giunge lì, alla “potenza rivoluzionaria del passato” e al messaggio, mica tanto subliminale, che la scuola di una volta, quella sì che sarebbe lo strumento per affrontare la questione della formazione dei cittadini nel XXI secolo. Alla fine, gli unici che pagano, temo, sono quelli che vorrebbero liberarsi dalle pastoie di quel vecchio modello di insegnamento, quelli che hanno capito che per sopravvivere occorre innovare sia i contenuti che i metodi, e si trovano, invece, soffocati tra futurologia pedagogistica e passatismo disciplinarista.

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Commenti   

+4 # Donatella Rosselli 2016-02-12 19:37
Non sono una fanatica delle competenze, che in effetti sono tali soprattutto nel momento in cui ci ritroviamo, noi docenti, a riempire carte su carte, a "certificare", come se fossimo funzionari comunali... Tuttavia la storia, così come le altre discipline di studio, ha la " malaugurata" caratteristica di dilatarsi a dismisura, ogni anno che passa, e inseguire programmi o indicazioni che dir si voglia si rivela sempre più arduo e defatigante. Mi sembra che chi ha teorizzato la scuola per competenze, tra l'altro, ha tenuto presente proprio la necessità di dotare gli studenti degli strumenti per il cosiddetto apprendimento permanente, delle strategie cioè che possano consentire loro, anche dopo la scuola, di ampliare il proprio bagaglio di conoscenze. La scuola, insomma, è solo il metodo. I contenuti, seppure importanti, non possono esaurirsi tra i banchi. Mi pare dunque che non si tratti di competenze votate utilitaristicam ente al mercato, bensì di mezzi per rafforzare il senso critico. La conoscenza non si esaurisce, e non si può esaurire con la scuola. Lo dico da insegnante.
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+2 # marella corbani 2016-02-12 22:07
E' da una vita che noi insegnanti di lingue insegniamo per competenze!!
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0 # emazib 2016-02-13 09:46
E' da una vita che noi insegnanti di Scienze Motorie insegniamo per competenze. Competenze: usare la conoscenza per creare nuova conoscenza (non per ripeterla a pappagallo)
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0 # Viola 2017-02-12 11:13
Come tutto il "far finta", la didattica per competenze getta altro fumo sulla scuola ed è cosa gravissima. Farsi domande è cosa buona. Consoliamoci dunque con la domanda dell'intervista tore. Che non abbiano effetti già ora le cosiddette mondiali competenze è poi da vedere: ansa.it/.../.... Spazzerei volentieri gli ultimi trent'anni di epocali riforme, pure io passatista come vede, che hanno dilaniato la scuola elementare.
Quello del lavoro sui testi scolastici è una cura cui porre umile, continua e ferma attenzione, concordo. Ho letto cose incredibili in recenti testi di matematica per la scuola elementare. Tuttavia semplificazioni ci sono e saranno sempre. A volte sono quasi necessarie per andare oltre. La moltiplicazione definita come addizione con addendi uguali certo non "spiega" 0,01x0,01 eppure da qualche cosa occorre partire, la partenza non è, si spera, l'arrivo, che sembra spostarsi sempre in un oltre indefinito. Dire che la piramide feudale non è visione corretta senza sostituirla con altro e chiamare le conoscenze scolastiche immobili mi pare... riduttivo. La storia "scolastica" è sempre semplificazione e dunque in un certo senso distorsione. Si studiano a esempio i babilonesi in un paio di paginette, più di 1500 anni, è un discorso per forza di cose schematico.
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