di Antonio Brusa
A. L’educazione civica
Una materia senza identità
Che sia un pasticcio se ne sono accorti quei dipartimenti di storia che già si sono dati da fare per organizzare l’insegnamento dell’educazione civica, la cui introduzione - dal settembre successivo all’entrata in vigore della legge - è stata votata dalla Camera il 2 maggio di questo anno 2019. Che sia “un pasticcio” lo ha dichiarato in Parlamento uno dei tre astenuti, l’on. Gabriele Toccafondi (Gruppo Misto), ex sottosegretario al Miur nel governo Gentiloni. Una dichiarazione fatta in buona compagnia, nonostante la legge sia stata approvata – tra la soddisfazione generale - con una maggioranza che in altri tempi si sarebbe definita bulgara. Infatti, scorrendo il resoconto stenografico delle dichiarazioni di voto si constata che, sia pure con accenti diversi e pur votando a favore, quasi tutti i gruppi parlamentari ribadiscono le obiezioni di Toccafondi: la nuova materia non ha un insegnante dedicato, sarà difficile conciliare i contenuti disparati che prevede, mentre la quadratura del cerchio viene demandata alla bravura di un coordinatore che dovrebbe tirare le fila di lezioni e interventi didattici che potrebbero anche essere distribuiti fra tutte le discipline (e ricavarne un voto unico in pagella). Infine, dulcis in fundo, non vengono stanziati fondi sufficienti per formare queste nuove figure, o ricompensare adeguatamente un lavoro di coordinamento che - al dire dell’on Patrizia Prestipino (Pd), che da professoressa di lettere lo conosce bene - è massacrante.
Certamente, si dovranno attendere le circolari applicative, per capire come se ne viene fuori. Ma alcune manifestazioni di malcontento, immediatamente apparse in rete, ci lasciano intuire che la soluzione di questo pasticcio sarà alquanto complicata, dal momento che dovrà tenere conto non solo di risvolti didattici, amministrativi e – come vedremo – teorici e culturali, ma anche di una non trascurabile questione di organico.
Fig. 1. L’educazione civica senza volto. Immagine scelta dall’Apidge per criticare la proposta di Legge Le “gravi perplessità”, espresse a stretto giro di posta dal coordinamento degli insegnanti dell’area A046 (gli insegnanti di area giuridica), infatti, rivelano che a premere per la nuova disciplina c’è una legione di 18 mila insegnanti di diritto, che, stanchi di essere assegnati all’organico di potenziamento o al sostegno, aspirano a una propria cattedra, non solo nelle superiori, ma anche nella scuola di base. Lo auspica, nella sua dichiarazione di voto per conto del M5S, l’on. Elisabetta Maria Barbuto - lei stessa insegnante di materie giuridiche in una secondaria superiore di Pisticci e membro del coordinamento nazionale della sua disciplina – forse cercando di placare le rimostranze dei colleghi delusi. “Non è l’educazione civica che volevamo”, “è una farsa”, “siamo arrabbiatissimi” – infatti - aveva protestato senza mezzi termini, l’Apidge (Associazione dei docenti di economia e diritto) alla vigilia della discussione parlamentare «Un miscuglio della specie peggiore», ha rincarato la dose, dopo l’approvazione della legge.
Un’educazione civica alla Mary Poppins
Ascoltando l’on. Virginia Villani (M5S) che presenta in aula la proposta di legge Luciano Corradini confessa la sua commozione. L’onorevole – che è una dirigente scolastica - lo chiama “maestro” e ne cita ripetutamente il pensiero. Con qualche ragione, dal momento che Corradini ha lavorato ostinatamente, per oltre vent’anni, con ministri di ogni partito (da Lombardi, a Galloni, a Dini, a Fioroni, a Gelmini) per raggiungere l’obiettivo di introdurre questa materia. Ci era quasi riuscito con Mariastella Gelmini, ma la cosa finì nel nulla e lui, che pure era stato osannato dalla ministra, fu rapidamente messo da parte (qui c’è la cronistoria analitica di quella vicenda). L’occasione della rivincita, dunque, è giunta?
Certo, scrive Corradini, meglio di niente. Ma aggiunge subito che non c’è nulla da celebrare, a meno di non attendersi dei miracoli da quel docente coordinatore che, “come Mary Poppins, dovrà volare da una disciplina all’altra”, nella disperata impresa di armonizzare “tutto quel ben di dio contenuto nei dodici articoli della legge”. Una buona legge sull’educazione civica – aveva proclamato Virginia Villani, facendo proprie le raccomandazioni che Corradini stesso aveva ricordato pochi giorni prima del dibattito - deve rispettare due regole: non deve essere troppo povera di cultura educativa e non si deve caricare di ogni genere di problema. Ebbene, ribatte il pedagogista, sono appunto queste le regole che la nuova legge infrange.
Un’educazione a costo zero
“Da settembre una riforma che costa zero. Torna l’educazione civica come materia sui banchi di scuola”. In questa dichiarazione trionfale, fatta dall’on. Matteo Salvini (Lega-Salvini premier) a Firenze, un mese prima della discussione parlamentare, il vicepresidente del Consiglio trasforma in motivo di vanto proprio quell’assenza di finanziamenti, causa non secondaria del pasticcio che stiamo analizzando. Che dovesse essere una riforma a costo zero era deciso fin dal principio di questa vicenda, dal momento che la proposta originale della Lega, del giugno del 2018, si chiudeva con la medesima clausola di salvaguardia finanziaria che sigilla la legge attuale.
Questo particolare avrebbe meritato di essere portato a conoscenza di tutti e discusso con maggiore insistenza. L’on. Anna Ascani(pd), intervistata da Radio Radicale, lo annovera tra i “piccoli difetti della legge”. Ma nella dichiarazione di voto era stata più tranchant: “Dobbiamo essere onesti perché va detta la verità ai cittadini: questa proposta di legge non introduce un'ora in più di educazione civica al di fuori dell'orario che c'era e chi oggi dice il contrario dice semplicemente una bugia, dà un pessimo esempio e non fa educazione civica”.
Fig. 2. Il ministro Bussetti correda i suoi post su fb con disegni inviati al Miur dai bambini Per quanto abbia scandagliato la rete, non ho trovato una gran voglia di spiegare questo aspetto della questione. Nei suoi numerosi post, Matteo Salvini – che del ritorno dell’educazione civica ha fatto un motivo ricorrente della sua comunicazione - si appella al buon senso, al rispetto che bisogna portare ai docenti, al grembiule da ripristinare, fino ai ceffoni che i genitori dovrebbero dare ai propri figli. Nel video, messo in rete dall’aereo che lo porta in Ungheria “a costruire la nuova Europa”, annuncia di aver reintrodotto l’educazione civica come materia obbligatoria, col pollice levato esclama “promessa mantenuta”, e chiude lì la questione.
Eppure, agli staff che ormai presiedono alla comunicazione di chi governa, non dovrebbero essere sfuggiti i numerosi commenti che sottolineano la faccenda dell’organico e, conseguentemente, i risvolti finanziari e contrattuali della legge. Fra le risposte al post nel quale il ministro Bussetti annuncia il voto positivo alla Camera, leggo quest’accusa - “Avete appioppato una disciplina, perché di questo si tratta, a tutti i docenti” - lanciata da una professoressa siciliana, seguita da altri colleghi che lamentano – apparentemente inascoltati - la vaga trasversalità della nuova disciplina, chiedono a quali materie verranno tolte le ore, fanno osservare che, più che un mancato investimento, si tratta di un autentico taglio di risorse.
Unanimità nella diversità
Una seconda causa del pasticcio è interamente politica. In tutte le presentazioni della legge si sottolinea come questa sia il frutto della convergenza di 16 proposte diverse e di una legge di iniziativa popolare, corroborata da una petizione dell’Anci che ha raccolto 100 mila firme (per la precisione, le proposte 682-734-916-988-1166-1182-1425-1464-1465-1480-1485-1499-1536-1555-1576-1696-1709-A). Un successo politico, dal momento che questa unanimità è del tutto inusuale nel nostro Parlamento, ma che ha un suo costo. L’accordo ha fatto gonfiare la legge originaria, portandola da 4 a 12 articoli. “Ogni forza politica ha voluto metterci del suo”, rivela Anna Ansani nell’intervista citata sopra. Gli effetti di questa coralità si apprezzano negli artt. 3 e 5.
Fig. 3. Il quadro degli obiettivi dell’Agenda 2030 Lo studio della Costituzione italiana, già richiamato con forza nel primo articolo della legge, è anche in cima agli obiettivi dell’articolo 3. È senza dubbio l’elemento condiviso da tutte le forze politiche. Queste, poi, si sono date da fare per imbandire di ogni “ben di dio”, continuando a citare Corradini, una tavola dove le eccellenze agroalimentari stanno accanto all’inno e alla bandiera nazionali, accompagnate da un plotone di educazioni (ambientale, allo sviluppo sostenibile, alla legalità, al patrimonio, all’identità, ai beni comuni, stradale, della salute e al volontariato) e dai ben diciassette obiettivi dell’Agenda 2030. A tutti questi occorrerà aggiungere l’educazione all’antimafia, richiesta nel corso del dibattito e subito accettata dal governo, mentre non possiamo che registrare il disappunto dell’on. Laura Boldrini (LeU) che non ha visto accogliere la proposta di introdurre l’educazione sentimentale.
Nell’articolo 5 si sviluppa una delle competenze citate nel 3, quella digitale. Vi leggiamo la capacità di valutare l’affidabilità delle fonti, comunicare con gli altri con tutta la varietà delle risorse digitali, di informarsi attraverso la rete e utilizzarla per dibattere pubblicamente, ovviamente conoscendo le norme comportamentali dovute, di proteggere la propria identità digitale e di salvaguardarsi dai rischi che si corrono navigando in rete o usando troppo il computer.
Se quattrocento ore vi sembran poche
Trentatré ore l’anno, dalla primaria alle superiori, sono oltre 400 ore. Un’enormità, se le confrontiamo, ad esempio, con un corso universitario di Diritto Costituzionale: questa fu l’obiezione letale con la quale Ernesto Galli della Loggia stoppò il progetto Gelmini. Eppure – spalmate lungo tutto il curricolo e distribuite a spaglio fra il corpo docente - è illusorio pensare che bastino per realizzare un piano formativo adeguato alle richieste di questa legge. O, per converso, che ci sia una figura professionale capace di sobbarcarsi un simile impegno, o anche solo di fornire continuità alla miriade di interventi nella quale questa disciplina si sfrangerebbe: tanto che appare realmente audace l’autoproposizione dei docenti di diritto che, in una petizione online a Matteo Salvini, affermano che “con la loro esperienza e la loro preparazione hanno, senza dover essere formati, (sottolineatura mia) le competenze necessarie per poter insegnare questa materia”.
Quattrocento ore, inoltre, diventano pochissime, se erogate, come si dice negli interventi alla Camera, “un’ora la settimana”. È una questione che qui, su HL, abbiamo già visto a proposito della storia e della geografia anch’esse, ormai in molti istituti, materie da un’ora, e come tali destinate alla sottovalutazione degli allievi (come sanno bene gli insegnanti).
Chi lavorerà alle direttive applicative dovrà sudare per ricavare da questo lungo elenco di desiderata parlamentari un progetto “concreto e di buon senso”, come promesso dall’on. Massimiliano Capitanio (Lega-Salvini premier), promotore della proposta originaria. Per il momento, questa legge non fa altro che prelevare quattrocento ore da discipline, dove avevano un impiego comunque ragionato, per accatastarle disordinatamente in un contenitore chiamato “educazione civica”, tutto sommato di scarso rilievo nelle gerarchie di importanza degli allievi.
Una parola baule
Un po’ come nelle “parole baule” che lo Stregatto spiegava ad Alice, in questa educazione civica ci sono cose discordanti, che ogni relatore riconduce a un suo punto di vista. Secondo alcuni, la nuova materia sarà l’occasione per aprirsi al mondo, vivere civilmente con tutti, fare volontariato, includere i bisognosi e battersi per l’integrazione; secondo altri, invece, diventerà il santuario delle regole, dei doveri, dell’ordine e della legalità, del rispetto dei docenti. Fabrizio Foschi, che ha curato a lungo la sezione didattica di Comunione e Liberazione, sostiene che in questo testo si riconoscono due anime: di quelli che vorrebbero una cittadinanza progressiva, e di quelli che, al contrario, la vorrebbero protettiva. Lungi, però, dall’essere equidistante, il dettato legislativo pende per la versione “protettiva”. Lo prova, continua Foschi, il dato politico fondamentale dell’abrogazione di Cittadinanza e Costituzione (art. 2), la versione chiaramente “progressiva” contenuta nella Legge 107/2015.
Forse con più evidenza lo prova il dibattito alla Camera, vista l’assenza degli accenni, sintomatici dei sostenitori della “cittadinanza progressiva”, alle cittadinanze mondiale e europea; visti i frequenti richiami ad alcune questioni tratte di peso dalle pagine di cronaca nera e alle quali – nelle attese che si scorgono dietro le dichiarazioni di principio - questa legge dovrebbe concretamente provvedere. Lo si nota particolarmente nel caso della educazione digitale. I propositi di introdurla sono lodevoli, in un’ “epoca della democrazia cognitiva, in cui si è cittadini pienamente soltanto se si conosce come le informazioni vengono formate e come le si può utilizzare” (Ascani). Ma, nei più, la paura prende il sopravvento: cyberbullismo, il sexting e il revenge porno, lo stalking e ogni genere di cyber crime sono citati come i mali sociali da contrastare (Gelmini). Internet è ottima cosa, ma al tempo stesso “fonte di molteplici insidie da cui stare alla larga”, avverte Elisabetta Barbuto. “Di fronte a questi fatti gravi – ammonisce l’on. Paola Frassinetti (FdI) - tutti diciamo “ah se avessero avuto un’ora in più di educazione a scuola questo non sarebbe accaduto”. “Se l’avessimo fatto prima – incalza Massimiliano Capitanio - forse non ci sarebbero stati suicidi da cyberbullismo”.
In realtà, i governi precedenti si erano già fatti carico a più riprese di queste preoccupazioni e, al contrario di questo, con investimenti cospicui: basti pensare al Piano Scuola Digitale, finanziato con ben 185 milioni di euro, o al progetto Generazioni connesse o a quello significativamente intitolato “Basta bufale” ), promosso a suo tempo dalla ministra Valeria Fedeli e da Laura Boldrini, allora presidente della Camera. Ma ciò che importa non è sfruttare le risorse che lo stesso Miur ha accumulato, o valutarne gli effetti in modo da evitare la reiterazione di decreti inefficaci, quanto piuttosto intestarsi un messaggio di rassicurazione da inviare agli elettori.
D’altra parte, a questa preoccupazione securitaria non è insensibile nemmeno l’opposizione: la stessa Laura Boldrini quando rimprovera i colleghi di non aver accolto l’educazione sentimentale, argomenta che questa sarebbe stata un ottimo strumento “per riuscire a contrastare il fenomeno della violenza sulle donne”.
Dove tutti sono d’accordo
Come abbiamo già notato, la promozione dello studio della Costituzione è un elemento che accomuna i gruppi parlamentari. Vi sono altre convergenze. La prima è il fatto che ci si attende, da questa materia, il raggiungimento di una coesione sociale, della quale evidentemente si lamenta la mancanza nella società italiana. La nuova educazione civica deve inculcare negli allievi il senso di appartenenza alla comunità. Lo dichiara l’on. Antonio Tasso (Gruppo misto), il primo a intervenire. Lo seguono Paola Frassinetti, che unisce “senso civico e appartenenza” ed Elisabetta Barbuto, la quale vorrebbe che, studiando questa materia, gli allievi italiani si sentissero parte integrante della società.
Dei diversi temi di questa legge, questo sembra riscuotere un largo consenso fuori dall’aula. Fra i tanti, Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci, pur auspicando un radicale intervento migliorativo del Senato (va sottolineato che i sindaci chiedevano un’ora in più da aggiungere al curricolo), apprezza il senso dell’appartenenza che questa legge sollecita. Giorgio Chiosso, pedagogista e storico dell’educazione, elogia il fatto che l’educazione civica possa spingere gli allievi a “sentirsi comunità”. Carlo Troilo, giornalista, intervenendo già alle prime avvisaglie della legge, ne sostiene la necessità, motivandola col fatto che non è importante solo conoscere i valori della Repubblica, ma è necessario metterli in pratica per poter vivere insieme.
Questo insistere sulla funzione sociale e pragmatica della legge ci invita a guardare sotto una nuova luce il secondo punto di convergenza: l’esaltazione unanime del portato formativo della Costituzione. Certo, ci sono gli aspetti cognitivi. Diversi sottolineano il fatto che bisogna conoscere, per poter mettere in pratica. Ma sembrano fare scuola le parole di Mariastella Gelmini: “non vogliamo che gli allievi studino a memoria la Costituzione, ma che la pratichino, giorno per giorno, nella vita quotidiana”. La Costituzione, dunque, il testo che definisce l’impianto e le regole della Repubblica, viene reinterpretata come un breviario morale, che deve istillare negli allievi dei comportamenti virtuosi (un “catechismo”, scrisse a suo tempo Galli della Loggia).
Nulla di nuovo e di particolarmente insolito, per questa disciplina che, fin dai tempi della sua prima proposta, di Aldo Moro, nel 1958, era vista come un’attività di formazione al confine fra “la scuola e la vita”. Per questo motivo non poteva essere oggetto di sole lezioni (si legge in quel testo) ma doveva essere anche vissuta nell’organizzazione scolastica. L’educazione civica, quindi, era una disciplina composita, da insegnarsi a vari livelli: quello diffuso, presente in tutte le discipline; quello pratico, della concreta vita dell’istituzione scolastica; quello specifico, infine, dato dalla storia. Su questa natura ancipite dell’educazione civica si sono esercitati molti studiosi (da Alessandro Cavalli a Bruno Losito fino allo stesso Corradini, per citare solo gli italiani), e molti e diversi sono i “bilanciamenti” fra i vari livelli, che osserviamo nelle tante leggi, italiane e estere (Ho affrontato questo tema insieme con Fabio Fiore in Educazione civica e storia, in Lorenzo Luatti, Educare alla cittadinanza attiva. Luoghi, metodi, discipline, Carocci, Roma, 2009, pp. 198-209).
Lo strano e l’insolito di questa legge è la semplificazione brutale dei livelli, quasi a decretare la fine di questa tradizionale polivalenza, a tutto vantaggio della sola funzione pratico-sociale-morale. Non può non sorprendere il fatto che nessun relatore faccia qualche accenno a come una data materia - scientifica o umanistica - potrebbe concorrere a questa formazione, né che indicazioni di questo genere siano riportate nelle Linee guida (il confronto con la profusione di suggerimenti del testo di Moro sarebbe illuminante, a questo proposito). E, all’interno di questo contesto, ha un significato preciso il fatto che la storia non venga mai citata nel suo tradizionale rapporto privilegiato con l’educazione civica (con una sola eccezione, che vedremo a momenti).
L’educazione civica come “antidisciplina”
Il fatto nuovo è che questa materia sembra per i deputati italiani una sorta di “antidisciplina”. La sequenza delle citazioni non può che impressionare. Esordisce Antonio Tasso, mettendo in opposizione lo studio delle tabelline e dei verbi (che si fa, secondo lui) con quello della Costituzione (che non si fa); seguono Gabriele Toccafondi, per il quale la scuola non è un insieme di discussioni e la “vita non si impara sui libri”. Gli fa eco un “basta al nozionismo” di Elisabetta Barbuto, mentre Paola Frassinetti sottolinea che “educazione non significa mero apprendimento”. Anna Ascanio accenna a una periodizzazione della storia della scuola, nella quale, a un primo periodo dedicato all’apprendimento, che – secondo lei – si è ormai concluso con successo, ne dovrebbe seguire un altro nel quale troverebbe spazio la nuova materia, e si interroga: “la scuola serve per trasmettere nozioni o qualcos’altro”?
Sembra di respirare, ascoltando questi interventi, un’aria familiare e antica. È come se nell’aula parlamentare si allestisse un reenactement dei dibattiti ai tempi della fondazione del sistema scolastico italiano, quando i difensori dell’educazione lottavano a spada tratta contro i sostenitori dell’istruzione. Solo che, oggi, questi ultimi si sono dileguati, mentre l’aula parlamentare, apparentemente all’unisono, si ritrova nella perorazione finale di Elisabetta Barbuto, per la quale la nuova legge deve condurre a “una società vera, a misura d'uomo e dei suoi autentici valori, i valori insegnati a scuola, i valori che vogliamo lasciare ai nostri figli”.
B. Educazione civica e storia
Un esemplare cattivo uso della storia (e di Tucidide)
Paola Frassinetti prova a teorizzare: “È un concetto – dice - quello dell'educazione, che pare essere diventato un po' desueto, forse perché depauperizzato dal suo valore sostanziale, invece tutto si fonda sull'educazione. Educazione è diverso da formazione, è diverso da competenze, si rifà alla vecchia paidéia”. Poi, sull’onda del richiamo al mondo classico, chiude il suo intervento augurandosi che venga scolpita nella mente dei ragazzi questa frase: “Sapere cosa fare, saperlo spiegare agli altri, amare la propria patria, essere incorruttibili”, che attribuisce a Tucidide, ma che lo storico greco non si sognò mai di scrivere. Infatti, si tratta di un assemblaggio di espressioni scollegate, tratte dalla Guerra del Peloponneso (II, 60) e adattate alla bell’e meglio. È un pastiche che circola in rete e che, per ironia della sorte, è ricavato da un discorso di Pericle che significa proprio il contrario di quello che vorrebbe la deputata.
Ce lo spiega Luciano Canfora, informandoci che, in quel discorso, Pericle non esaltava le virtù del cittadino ateniese, ma le proprie. Era un momento brutto per lui. Lo volevano far fuori e lui si difese magnificando la propria intelligenza politica (capire in anticipo le cose e spiegarle agli altri) e una incorruttibilità, alla quale ormai in pochi credevano ad Atene, visto che era già andato a processo per appropriazione indebita.
Fig. 4. Pericle parla agli Ateniesi Un piccolo infortunio per chi sta promuovendo l’educazione civica come antidoto alle bufale in rete. Ma un cattivo uso della storia, se guardiamo questo riferimento al mondo classico dal punto di vista sostanziale. Franco de Anna utilizza anche lui Tucidide, ma ne ricava una conclusione che fa a pezzi l’impianto ideologico di questa legge (Educazione alla cittadinanza e raccolta differenziata). Secondo lo storico greco - scrive riferendosi questa volta al primo discorso di Pericle agli Ateniesi (II, 41) - è la città che “nel suo insieme è una impresa educativa”. Era, naturalmente, la città dei tempi antichi. Se quelle dei giorni nostri non ci riescono più, sarebbe logico concludere che la scuola difficilmente potrà sostituirle, soprattutto se presumerà di realizzare questa impresa con un’ora la settimana e senza soldi.
In realtà, ora continuiamo ad ascoltare Canfora, non fu la città, in quanto comunità, a farsi formatrice. Il vero educatore fu lui, Pericle, tiranno e maestro efficace, che indusse i cittadini ateniesi ad assumere quei comportamenti e quei valori, senza i quali la democrazia non avrebbe potuto reggersi. Ci riuscì attraverso una politica, culturale e sociale, intelligente e dispendiosissima, e aprendo ai concittadini un futuro dal fascino irresistibile. Dall’accostamento storico, sollecitato dall’on. Frassinetti, dovremmo trarre una conclusione che alla deputata non farebbe piacere: e che, cioè, attraverso questa legge, il mondo politico odierno scarica sulla scuola un’incombenza alla quale non riesce più ad attendere.
Un buon antidoto contro l’uso improprio della storia ateniese, frequente nelle scuole quando si affrontano temi di educazione civica e, come stiamo vedendo, anche nel Parlamento italiano, potrebbe essere questo articolo dell’on. Gavino Manca (Pd).
Moro, l’educazione civica e la storia
Nelle Linee guida, come in molti interventi, il richiamo ad Aldo Moro sembra voler nobilitare le origini di questa legge. Il grande statista, infatti, non solo richiamò l’importanza dell’educazione civica all’Assemblea costituente, ma fu il primo a introdurre questa disciplina nell’ordinamento scolastico della Repubblica, quando divenne ministro della Pubblica Istruzione.
Purtroppo per la buona volontà dei relatori, questa filiazione non è credibile. Il testo di Moro non condivide quasi nulla con quello di Bussetti. La diversità riguarda, da una parte, il concetto di educazione civica, e, dall’altra, il suo rapporto con la storia.
Se si supera la barriera del linguaggio enfatico della pedagogia del tempo, infatti, e ci si inoltra nella lettura delle due paginette di Aldo Moro, si scopre una proposta che oggi definiremmo curricolare, perché spiega che cosa insegnare nella scuola elementare, cosa nel settore intermedio (allora diviso fra media e avviamento: ma, si sottolinea, l’educazione civica non poteva che essere uguale per tutti); cosa infine studiare nel tratto finale: “una storia comparativa del potere, nelle sue forme istituzionali e nel servizio”. Vi si parla di diverse discipline, come diritto e economia, ma – si precisa - è con la storia che l’educazione civica “ha dialogo più naturale, e perciò più diretto, essendo a questa concentrica”.
Questo “dialogo” diventa più chiaro cinque anni dopo, nel 1963, quando vengono emanati i programmi della nuova scuola media. Ecco il testo di quella legge: “I profondi nessi esistenti fra storia ed educazione civica postulano che i due insegnamenti, affidati al medesimo docente, vengano condotti e sviluppati in un quadro di intima correlazione anche se è compito di tutti gli insegnanti far risaltare gli aspetti educativi, relativi al dettato costituzionale, in tutti i momenti utili del loro lavoro. I collegamenti con l’educazione civica sono suggeriti fin dalla prima media ma solo nella classe terza sarà possibile – sia per l’età e l’esperienza raggiunta dagli allievi, sia per la più intima connessione con il programma di storia – uno studio più organico di nozioni costituzionali e una maggiore precisazione di forme e caratteri delle nostre istituzioni civili” (“Gazzetta Ufficiale”, supplemento al n. 124, 11 maggio 1963, ora in G. Di Pietro, Da strumento ideologico a disciplina formativa. I programmi di storia nell’Italia contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 1991, pp. 406-7).
In questa raccomandazione vediamo che la funzione educativa generale è demandata all’insieme delle discipline. Tutti i professori sono chiamati a rammentare ai propri allievi quel rapporto fra la “vita” e i principi della Costituzione, auspicato da Moro. Ma il compito essenziale viene affidato al docente di terza media. Per sostanziare questo mandato, gli vengono consegnate quelle due ore mensili, che nel testo di Moro andavano a costituire il monte ore di Educazione Civica. Nell’anno finale della nuova scuola dell’obbligo, dunque, il docente aveva 98 ore a disposizione (68 di storia e 30 di Ed.Civ.) per realizzare il suo piano di lavoro annuale, come allora si chiamava il progetto formativo. E tali restarono, fino a che la ministra Gelmini, col pretesto di introdurre la nuova materia “Cittadinanza e Costituzione”, non eliminò quelle trenta ore in più.
Si comprende meglio questa focalizzazione sulla storia contemporanea, se pensiamo che proprio al principio degli anni ‘60, con la riforma del ministro Giacinto Bosco, cade l’embargo sulla parte finale del programma (dalla Prima Guerra mondiale in poi), stabilito nel dopoguerra (Per queste notizie mi servo del bel libro di Monica Galfré, Tutti a scuola!, Carocci 2017). Il disegno pedagogico è inequivocabile: se vogliamo educare i nuovi cittadini, questi devono conoscere il mondo nel quale vivono. Quelle riforme precisavano che la “concentricità” della quale parlava la legge di Aldo Moro si ritrovava in particolar modo nella storia dell’oggi, e indicava che non si poteva essere cittadini italiani senza conoscere la storia del fascismo, della seconda guerra mondiale e delle vicende della ricostruzione post-bellica (allora, eventi naturalmente vicinissimi), fino alla storia “dei giorni nostri”. Stabiliva, conseguentemente, che la Costituzione stessa doveva essere compresa nel contesto storico nella quale era stata elaborata e nel quale la nazione aveva cominciato a viverla.
Il rapporto tra educazione civica e storia è il misuratore più efficace del baratro che separa il testo di Moro da quello di Bussetti. Lì, la relazione era quasi esclusiva e, addirittura, centrale nel nuovo ordinamento. “L’unione fra storia e educazione civica era considerata l’anima della nuova scuola media” (Galfré, p. 206). Qui, la storia è confusa nell’insieme delle discipline, e tutte insieme annegano nel mare delle educazioni. Da quel rapporto stretto con il sapere disciplinare emergeva un profilo “cognitivo” di cittadino, che diventa tale quando conosce il mondo nel quale vive. Al contrario, dalla legge attuale è perfino difficile estrarre un profilo del cittadino, tali e tanti, e così contraddittori, sono i contenuti e le finalità che si assegnano a una materia, che per giunta si qualifica per le sue istanze anti-cognitive.
Quella direttiva era onesta con gli insegnanti: introduceva una nuova disciplina e ne aggiungeva le ore relative, per non parlare dell’incredibile investimento di denaro che accompagnò quella stagione di riforme. Questa sottrae ore e risorse, e, di conseguenza, ne scarica la realizzazione sulle spalle dei docenti e sugli artifici organizzativi delle scuole.
L’educazione civica e la storia, fra identità e conoscenza.
In effetti, il programma di storia della nuova scuola media stava provando a rompere la lunga tradizione che – fin dall’Ottocento – aveva stretto insieme educazione civica, identità nazionale, genealogia della nazione e storia. Era un programma che faceva intravvedere un nuovo statuto disciplinare, nel quale non ha spazio l’idea di passato come origine della nazione, strumento per la difesa della patria e dell’identità culturale (concetti significativamente assenti in quel testo). Attraverso la storia, vien detto proprio nell’esordio, gli allievi “impareranno a conoscere gli aspetti caratteristici della vita dei vari popoli”. Il passato non viene chiamato in causa come fondamento della collettività, ma è strumento per “meglio intendere i problemi dei tempi nei quali gli allievi vivono”. Questa frase, tratta dal decreto che, quasi in contemporanea, sostituiva i vecchi programmi dei tecnici, è accompagnata dalla raccomandazione agli insegnanti di “governare con attenta economia lo svolgimento del programma”, in modo da arrivare alla trattazione “dei giorni nostri”, e superare “l’inconveniente, largamente diffuso, di tralasciare tutti o quasi i decenni trascorsi del nostro secolo” (D.P.R. 1222/1961, in Di Pietro, p. 403). Una raccomandazione – dobbiamo ammetterlo - che conserva ancora oggi tutta la sua validità.
“Identità” o “conoscenza”. Questa alternativa rappresenta icasticamente l’opposizione fra il modo di concepire le due discipline (e il loro rapporto) nella tradizione otto-novecentesca – da una parte - e nell’Italia della grande trasformazione da nazione agricola a potenza industriale, dall’altra. Nella prima accezione - identitaria - le due discipline sono lo strumento che direttamente costruisce la collettività nazionale; nella seconda – cognitiva - vanno a irrobustire la dotazione critica necessaria ai cittadini che vogliono consapevolmente partecipare alla vita democratica della nazione. Fu, dunque, una rivoluzione non di poco conto, quella che i legislatori del tempo proposero: e non a caso, dietro quella riforma e i suoi programmi agiva un formidabile think tank di studiosi di varia estrazione culturale e di ogni partito. Si trattò di “qualcosa di molto simile a un miracolo”, come scrisse Silvio Lanaro nella sua Storia dell’età repubblicana (Galfrè 187 e ss.).
Nei settant’anni seguenti, queste due maniere di intendere la formazione storica e civile si sono variamente intrecciate e scontrate. Questa contrapposizione si è fatta, man mano, sempre più esplicita e accesa. Basti pensare alle riforme di questo inizio secolo, che hanno visto i governi di Centro-destra emanare programmi identitari (in particolare i programmi della scuola di base della ministra Moratti, del 2003); mentre i due programmi del Centro-sinistra (2008 e 2012) sono chiaramente cognitivi. Ma non si tratta di una contrapposizione solo politica, dal momento che si interseca con l’altra, fra tradizione e innovazione scolastica, inaugurata appunto dai programmi del 1963. Lo dimostra il caso del programma che la Commissione De Mauro elaborò nel 2001, dichiaratamente cognitivo, nel quale l’educazione civica era compresa nell’asse geo-storico-sociale, contro il quale si “pronunciò” (così si espresse Rosario Villari) il Manifesto dei trentatré storici, molti dei quali esponenti di spicco della sinistra, scritto in nome di una visione identitaria della storia insegnata (per questa vicenda il testo di riferimento è: Luigi Cajani, I recenti programmi di storia per la scuola italiana).
Questa premessa è necessaria per valutare l’intervento dell’on. Vittorio Sgarbi (Gruppo misto), l’unico che abbia ricordato il rapporto privilegiato fra storia e educazione civica. “Non esiste educazione civica senza conoscenza della storia” aveva esordito, richiamando, fra applausi forse riparatori, il Manifesto Il passato è un bene comune, in difesa dello studio della storia, di Andrea Giardina, Liliana Segre e Andrea Camilleri. La storia a cui pensa Sgarbi, tuttavia, appare diversa da quella evocata dal testo di Moro. Lo si intuisce dal fatto che il deputato cita le parole del ministro Bussetti, che, in visita alla mostra su Leonardo, aveva dichiarato: “noi siamo quello che siamo stati”; e poi rinforza questo concetto, richiamandosi a un’Italia profonda, che esisterebbe “prima” della formazione dello stato italiano.
E così, l’unica volta che la storia viene citata in Parlamento, è per legare la cittadinanza alla genealogia dell’Italia. Il pendolo oscilla verso l’identitarismo, e una storia che insegna l’appartenenza alla nazione è in buona sintonia con questa educazione civica, che ne vorrebbe plasmare a scuola i cittadini modello.
L’Italia, l’Europa e le mani sulla cittadinanza
Sarebbe profondamente sbagliato pensare a questi fatti come al frutto esclusivo delle controversie interne al nostro paese. Se allarghiamo lo sguardo all’Europa, ci accorgiamo che essi hanno a che vedere con processi di trasformazione che hanno scosso i sistemi formativi dell’intero continente. Tre di questi mi paiono fondamentali per il nostro discorso. Li rammento brevemente.
Il primo è il passaggio da “educazione civica” a “educazione alla cittadinanza”. E’ perfettamente leggibile nel confronto fra il testo di Moro e questo. Quello era centrato sulla politica, vista come il piano privilegiato, lungo il quale l’individuo si rapporta alla collettività. Questo stesso piano, nel testo di Bussetti, si sfarina in tante dimensioni: sociali, economiche, culturali, mediatiche, alimentari, psicologiche, ambientali. Nel rapporto Eurydice sull’Educazione alla cittadinanza (2017), ciò viene spiegato col motivo che la relazione fra l’individuo e il mondo ha cominciato a mutare in profondità nella seconda parte del Novecento e ha fatto esplodere la complessità del concetto di cittadinanza. È questo stravolgimento – e non un mero desiderio di novità pedagogica - che impone ai governi di rivedere le modalità e i contenuti della formazione del cittadino.
Il secondo processo trae origine dall’avvento del nuovo, grande soggetto politico degli ultimi decenni, l’Europa. Un soggetto politico sovranazionale che, fra accelerazioni e pause, si è velocemente costruito in pochi decenni, e che ha bisogno di creare “i suoi cittadini”. Il Consiglio d’Europa, infatti, ha cominciato a muoversi da subito nel campo della formazione, con convegni, raccomandazioni ai governi e con iniziative di ricerca e sensibilizzazione. La strada era, più o meno, quella già percorsa dagli stati otto-novecenteschi, ma con una novità decisiva. Il bagno di sangue della seconda guerra mondiale e lo sterminio nazista sono i “traumi terribili” (scrive Alois Ecker) che hanno obbligato a rimodulare il profilo tradizionale del cittadino, difensore della patria e della identità. Il nuovo profilo è disegnato nel trattato di Lisbona del 2009. Esso promuove un individuo aperto, empatico, capace di comunicare con gli altri e che, perciò, aggiunge alla padronanza della propria lingua quella delle lingue straniere; adopera in modo saggio i mezzi di comunicazione; ha spirito di iniziativa; sa come partecipare alla vita pubblica ed è ferrato in matematica e scienze. Questo testo è la risposta politica che l’Europa dà alla “complessità del concetto di cittadinanza”: e come tale andrebbe letto, in luogo di cercarvi una sequenza velleitaria di competenze. (Per queste notizie mi servo della ricerca internazionale coordinata da Alois Ecker, docente di didattica della storia all’Università di Graz: Civic and History Teachers’ Education in Europe, Consiglio d’Europa, Brusselles 2013, del quale si legge in rete questo primo rapporto).
Il terzo processo viene dall’Europa orientale. Dopo la caduta del muro, quei paesi hanno immediatamente riformato i sistemi scolastici e, in particolare, gli insegnamenti di storia e di educazione civica. Ma: in luogo di ispirarsi agli assetti che, in contemporanea, l’Europa occidentale si stava dando, hanno preso a modello programmi e finalità dell’insegnamento storico-civile dalla tradizione ottocentesca. Quindi, nessun trauma di guerra, nell’Europa ex comunista. Anzi, vista dalla Russia come il glorioso momento della fondazione nazionale, e dagli ex-stati satelliti come il martirio che ne santifica l’indipendenza, quella carneficina diventa il terreno su cui edificare un profilo di cittadinanza identitario e difensivo. E, in molti casi, come accade in Ucraina, fortemente caratterizzato da aspetti di aggressività (per l’insegnamento della storia in Ucraina si possono leggere i miei due articoli apparsi su “Historia Magistra”, nn. 23 e 24, 2017). Questo “vento dell’est” soffia potentemente verso occidente, e (insieme con altri fenomeni endogeni, fra i quali la reazione identitaria all’immigrazione) contribuisce a riportare in vita un nazionalismo muscolare, che sta investendo la cultura storica diffusa e, con questa, i modelli di cittadinanza degli stati occidentali.
L’educazione alla cittadinanza e l’attacco alla storia
Così la storia, che faticosamente cercava di liberarsi dalle pastoie della cittadinanza tradizionale, e si proponeva sempre più come “strumento per orientarsi, analizzare società complesse e gli sviluppi politici odierni” (Ecker, p. 38), viene oggi investita da più fronti. Dalla parte della “nuova cittadinanza” proviene una valanga di “educazioni” che la sommerge, tende a ridurne il peso e spinge i governi a riconfigurare il lavoro formativo in direzione di “competenze” concretamente apprezzabili dalla società e dalle famiglie. Dal versante europeo, l’UE ne ripropone la funzione antica di costruzione di appartenenze, e però, al tempo stesso, ne conferma il ridimensionamento (non è affatto un caso che la storia non sia fra le discipline citate esplicitamente nel dettato lisbonense). Dal fronte orientale, il “vento dell’est” aggiunge a questi obiettivi identitari toni di esclusività nazionalistica.
Questi fenomeni sono l’espressione di cambiamenti profondi che andrebbero esplicitati, studiati e discussi, se si vuol aggiornare la questione della formazione dei cittadini. Al momento, essi evidenziano tristemente la fatuità dei richiami al buon senso, al grembiulino, al bullismo e agli schiaffoni paterni, con i quali il Parlamento italiano vorrebbe far loro fronte. Se una disciplina, come l’educazione alla cittadinanza, si sfrangia in cento progetti, occorrerebbe una proposta in grado di costruire una sintassi e di trasformare in un discorso razionale l’accavallarsi delle “emergenze”. Altrimenti, diventa inutile perfino discuterne del senso e della possibile efficacia. E, conseguenza non trascurabile, si finirà per accollare alla scuola il compito titanico di immaginare in che modo questa sommatoria di raccomandazioni potrebbe invogliare centinaia di migliaia di ragazzi a farsi membri attivi di una comunità.
In coda, ecco un’osservazione, solo apparentemente marginale, ma che storici e insegnanti di storia farebbero bene ad annotare: la nostra disciplina è scomparsa dall’orizzonte della formazione del cittadino, senza che qualche deputato abbia sentito il bisogno di motivare questa scelta, e che qualcuno si sia opposto. Eppure, si tratta di una novità così radicale, nei curricola scolastici repubblicani, che ci aspetteremmo di leggere resoconti di schermaglie altrettanto vivaci di quelle sul cyberbullismo. Il silenzio unanime che ha accompagnato il commiato dell’educazione civica dalla storia ci lascia col sospetto che il Parlamento italiano non si sia reso conto della natura del processo al quale ha posto mano.
Ma anche l’assenza di reazioni da parte degli storici è motivo di riflessione. Da qualche anno, infatti, le Associazioni di categoria sembrano aver preso consapevolezza della questione didattica. Con il Manifesto hanno raccolto un incoraggiante numero di adesioni, fra studiosi e cittadini comuni. Perché, dunque, questo silenzio? Temo ciò che dipenda dal fatto che non si è percepito il legame fra la vicenda dell’educazione civica e quell’ “attacco alla storia” che si tenta di contrastare. Forse non è chiaro che in entrambi i casi è in gioco il medesimo “contratto formativo”, a suo tempo stilato fra Stati e “produttori di storia”. Credo che da questa inconsapevolezza derivino sia la mancanza di prese di posizione sulla questione dell’educazione civica, sia una certa confusione nell’individuare le alternative verso le quali muoversi. Ne leggiamo qualche traccia nel Manifesto e negli interventi che questo ha sollecitato.
Cosa vogliamo, noi storici, quando chiediamo un recupero di considerazione? Rimettere in vigore quel contratto antico, per quanto ripulito dalle coloriture violente del passato? Per ottenere il riconoscimento, politico e sociale, dobbiamo tornare a parlare di identità nazionali o culturali (“smarrire noi stessi e la nostra nazione”, leggo nel Manifesto). O, ancora, dobbiamo di nuovo farci promotori di identità politiche, conseguenza inevitabile di quel ruolo di custode delle “memorie che non possono essere dimenticate”, che molti assegnano alla storia? (Intorno a questo concetto ruota l’intervista a Camilleri, pubblicata da “Repubblica” a corredo del Manifesto).
Oppure, al contrario, la storia è lo strumento per scardinare gli “spazi fittizi” che imprigionano il cittadino, in modo che la sua coscienza si apra agli “spazi sconfinati” della conoscenza del mondo (sono ancora parole del Manifesto)? È quel sapere “critico, non uniforme, non omogeneo, che rifiuta il conformismo” – è questo il suo orgoglioso incipit – che molti di noi vorremmo caratteristica fondante della cittadinanza democratica, ma che non appare certo una priorità impellente di molti governi?
Perché se, come credo, è la seconda alternativa quella da praticare, allora non è più tempo di manifesti e di convegni. Occorrono ricerca specializzata, argomenti, dati e nuova formazione universitaria dei docenti, per convincere decisori sempre più riottosi della utilità della conoscenza storica nel profilo moderno di un cittadino.
La battaglia nella scuola
Dum Romae consulitur, è il caso di ripetere, la Sagunto scolastica viene man mano espugnata. Le tre richieste che chiudono il Manifesto sintetizzano un disastro che si è già compiuto - la diminuzione delle ore di storia e il disinvestimento nella ricerca storica – del quale l’abolizione della terza prova nell’Esame di stato è un simbolo potente, come ha voluto sottolineare Andrea Giardina nella sua ultima lezione alla Normale di Pisa. Attendiamo ulteriori diminuzioni, dovute alla reintegrazione di geografia, che avverrà con grande probabilità a danno della storia (come già sanno i colleghi delle professionali), mentre, lo abbiamo ricordato all’inizio, le circolari applicative ci diranno di quanto la nuova educazione civica inciderà sui curricoli delle diverse materie, e, quindi, della storia.
Nel frattempo, la perdita di fiducia delle istituzioni nelle potenzialità formative della storia si manifesta nella sua scomparsa dall’aggiornamento delle reti d’ambito (denunciata in una lettera alla ministra Fedeli da me, allora direttore di “Novecento.org” e da Giuseppe Bagni, segretario del Cidi nazionale); nel fatto che un qualsiasi progetto di formazione storica – che si voglia far approvare dal Miur, come dall’UE, come da un assessorato alla cultura o alla scuola locali - debba essere contrabbandato sotto le voci di una qualsivoglia educazione (alla Cittadinanza, al Patrimonio o allo Sviluppo sostenibile); nel fatto, già notato, che la storia non venga quasi mai citata nelle liste di competenze desiderabili, che il Consiglio di Europa non cessa di inviare ai vari governi.
Apparentemente, la scuola si sta lasciando scorrere addosso questi processi senza fiatare e, forse, senza nemmeno conoscerli. Tuttavia, in molti istituti, se si vanno a guardare i progetti e le attività, e si leggono le programmazioni, si nota un fermento che lascia intuire spazi di disaccordo, o di disagio. Ma prima di formulare la domanda fatidica “che fare?”, concediamoci un brevissimo excursus transfrontaliero, nel Canton Ticino.
Che cosa possiamo imparare dal Canton Ticino
La vicenda della nuova legge sull’educazione civica in Canton Ticino, infatti, ha delle analogie inaspettate con il caso italiano, che, insieme con qualche importante differenza, ci aiuta a problematizzare la nostra situazione. Ecco i fatti.
Il Canton Ticino aveva una legge sull’educazione civica fin dagli anni ’90, alquanto simile a quella italiana prima della riforma Gelmini. L’educazione civica, vi si diceva, è compito di tutti, ma in special modo degli storici, la cui materia era appunto denominata “storia e educazione civica” (un rapido resoconto della situazione ticinese si trova qui). A differenza dell’Italia, il governo cantonale, però, aveva promosso un libro di testo specifico, scritto da studiosi di didattica della storia, che – in otto capitoli – “trasforma in materia insegnabile” la questione dei diritti e dei doveri, proponendo un percorso rigoroso che va dalla famiglia, allo stato, al mondo (Conoscere la civica, diventare cittadino).
Questo assetto non piacque a Alberto Siccardi: imprenditore valtellinese emigrato a Mendrisiotto, dove aveva impiantato con successo una fabbrica di protesi e da dove svolgeva anche un’intensa attività politica. “Prima gli svizzeri”, è uno dei suoi slogan preferiti. Sua è stata l’idea di modificare la legge degli anni ’90, separando l’educazione civica dalla storia, e facendone un insegnamento di due ore mensili da sottrarre in parte a storia. separando l’educazione civica dalla storia, e facendone un insegnamento di due ore mensili da sottrarre in parte a storia.
La sua proposta incontra la ferma opposizione dell’Atis, l’associazione che riunisce gli insegnanti di storia ticinesi con l’appoggio dell’Associazione degli storici svizzeri, l’adesione dei comitati dei genitori, delle associazioni dei dirigenti scolastici e il sostegno dei partiti di sinistra.
Gli insegnanti argomentano che questa riforma riduce un monte ore già risicato; obiettano che è quasi impossibile creare un sistema di valutazione per una materia di mezz’ora la settimana. Sostengono che l’educazione civica deve essere collegata alla storia, perché solo in questo modo “i diritti e i doveri” vengono contestualizzati, se ne fornisce una conoscenza critica e si evita che si riducano a nozioni astratte; protestano che, in fin dei conti, loro già fanno tutto quello che vorrebbe la nuova legge. Gli storici aggiungono la preoccupazione che “una modifica di tale portata sia il risultato non di un riesame generale dei piani di studio promosso dall’autorità competente con il concorso degli esperti dettato da ragioni scientifiche, didattiche e pedagogiche, ma di un’iniziativa popolare legislativa generica, politicamente profilata.” (qui la rassegna completa degli interventi).
Di parere contrario, ovviamente, i partiti che appoggiano Siccardi - la Lega ticinese e il partito populista svizzero (Udc) - che ribattono accusando gli insegnanti di trascurare questa materia e minacciano commissioni esterne di controllo. Un argomento vincente, per Siccardi, è che, in fondo, si tratta di una riforma a costo zero. Non si leggono tanti altri ragionamenti nella rassegna degli interventi a sostegno della legge. Il loro pezzo forte è l’appello agli elettori, che si concretizza con una petizione popolare e con un referendum. Nella consultazione popolare non c’è partita. Il documento degli insegnanti di storia ottiene 983 voti; i sostenitori della legge vincono con un sonoro 63%, il 24 settembre 2017.
La scuola accetta il verdetto e si mette in moto. Si rifanno i piani di studio, scorporando dal programma di storia le parti di educazione civica, si organizzano nuovi orari, ma nelle classi si fa molta attenzione a riannodare queste parti alla storia, com’è necessario per la loro comprensione (lo si apprende da un puntuale servizio radio sull’applicazione della legge). In pratica, la nuova legge sembra non aver fatto altro che complicare ciò che gli insegnanti già facevano. D’altra parte, non occorreva essere raffinati pedagogisti per prevedere che, con mezz’ora la settimana, staccata da tutto il resto, non si va molto lontano.
Facili le analogie con l’Italia: dalla riforma a costo zero, alla medesima origine dei proponenti (la Lombardia settentrionale, dalla quale provengono sia Siccardi che Capitanio). A entrambi non importa molto il succo della proposta (in Italia tutto andava bene, mentre i promotori svizzeri non ne hanno proprio parlato), perché si confida in un sottotesto della legge (identità, appartenenza, sicurezza) a prova di bomba con l’elettorato attuale. In entrambi i casi, quindi, ma lo denunciano solo gli storici svizzeri, la proposta non scaturisce da ricerche storico-pedagogico-didattiche, quanto da una scelta politica. Comune, ancora, è il fatto che il proposito di cambiare il mondo - con 30 o 60 minuti a settimana, non cambia molto - si traduce in un rompicapo, che docenti e dirigenti devono sbrogliare.
Non meno istruttive, per noi, sono le differenze. Non ci occuperemo qui di quelle politiche (è evidente che in Canton Ticino i partiti di sinistra sono stati capaci di leggere l’intento politico dei promotori della legge, e si sono comportarti di conseguenza). Qui ci interessano le considerazioni professionali: in Ticino c’è un soggetto che rappresenta gli insegnanti di storia; c’è un’associazione di storici attenta ai fatti della scuola e in grado di intervenire con precisione; c’è un gruppo strutturato di ricercatori di didattica della storia, che si occupa della formazione e del lavoro dei docenti. Di conseguenza - in Ticino, a differenza che in Italia - gli insegnanti sono stati resi consapevoli della posta in gioco, hanno potuto far sentire la loro voce nella battaglia, e, pur avendo perso, ora hanno dei supporti (corsi, proposte di lavoro, materiali) che non li lasciano soli di fronte al rebus didattico da sciogliere.
Torniamo in Italia. Che fare?
Conosco la situazione ticinese per essere stato coinvolto in alcuni seminari di formazione, nei quali i docenti hanno affrontato i temi di questa legge. Dal primo, nel 2017, sui rapporti fra Educazione alla cittadinanza e storia, al secondo sul populismo, mentre nel terzo, che si svolgerà nel 2020, si parlerà della questione giovanile. Le strade proposte per affrontare la questione sono fondamentalmente due (di questa vicenda parlerà ampiamente Daniele Bollini – che fa parte dello staff dei ricercatori didattici - in un suo articolo di prossima pubblicazione in Italia): – cercare nell’ambito del curricolo dei momenti storici che possono adeguatamente contestualizzare qualche aspetto dell’educazione civile (il primo seminario)
– puntare sulla storia “molto” contemporanea (il secondo e il terzo seminario).
Sono strade note anche in Italia.
Per la prima su HL si trova già un abbozzo di curricolo, che dall’antichità fino ai giorni nostri, individua dei momenti “caldi”: si va dalla fondazione stessa della città, fino a Roma e al suo particolare concetto di cittadinanza; si centra l’attenzione sul Trattato di Westfalia, e cioè sulla nascita del concetto moderno di cittadinanza; se ne ricordano le variazioni ottocentesche (con l’aggregazione a questo concetto dei temi dell’identità nazionale) e, finalmente, si presentano i problemi relativi al concetto di cittadinanza attuale, legato alla rivoluzione del Welfare.
Fig. 5. Logo del Laboratorio del Tempo Presente, rete di scuole per la revisione del curricolo di storia e lo studio del mondo attuale. Ma in rete c’è anche il bel lavoro di Carla Marcellini, che, partendo dalle urgenze dell’esame di stato, individua alcuni temi forti (come il concetto di Stato o la Costituzione) che, peraltro, sono già trattati da molti insegnanti e che, con altri argomenti, suggerisce l’idea di una “valigetta di strumenti storici” per la formazione del cittadino. Sempre su HL, infine, Marco Cecalupo ha proposto diversi lavori, che cercano di integrare storia, educazione civile e geografia e che, in forma più strutturata, presenta in La strada delle competenze (Loescher 2016).
Per la seconda, l’analisi del presente, si è costituita una rete di scopo “Il Laboratorio del tempo presente”, che mira a raccogliere suggerimenti e strumenti didattici, utili per analizzare i temi caldi e i periodi più vicini a noi. Qui su HL si troveranno altri articoli su questo tema. Scorrendo gli indici di “Novecento.org”, si leggono decine e decine di laboratori e di proposte didattiche, raccolti in sei anni di lavoro della rivista. Entrambe le strade sono consentite dalla legislazione attuale: la legge sull’Educazione alla cittadinanza attualmente in vigore (quella appunto che la nuova legge abolisce); le Indicazioni ministeriali relative ai programmi della scuola di base; il nuovo assetto degli esami, previsti dalla recentissima direttiva n. 205; per non parlare del concorso su Cittadinanza e Costituzione, con prove articolate lungo il curricolo verticale. In conclusione, si continua a lavorare …
Ci si muove ancora oggi, è appena il caso di farlo notare, nel solco tracciato da Aldo Moro: c’è una formatività generale, attribuita alla scuola nel suo complesso (e che andrebbe presa in carico particolarmente nel “curricolo informale”), mentre nella storia si vanno a cercare i momenti topici del rapporto fra potere e società. Le criticità, che abbiamo riscontrato nel corso di questi settant’anni, forse non dipendono soltanto dall’assenza di una materia indipendente con un voto separato (come sostengono i promotori della legge). Probabilmente, incidono di più fatti noti e denunciati, come la diminuzione delle ore di storia/geografia, o l’incapacità generale dei docenti italiani di programmare l’apprendimento quinquennale, in modo da riservare ai tempi attuali un tempo congruo (tema, questo, venuto alla ribalta in occasione della polemica sulla prova di storia). E, causa, infine, più generale, la difficoltà con la quale la comunità scolastica riesce a socializzare “buone pratiche”, come quelle che migliaia di docenti hanno realizzato dagli anni ’60 ad oggi, anche nel campo del rapporto fra educazione civica e storia. Problemi che restano, quale che sia la legge che verrà approvata.
In questa, come in altre occasioni, chi decide di percorrere queste strade, lo fa da solo o con altri volontari come lui: è questa la grande differenza fra Italia e altri stati (come forse qualcuno avrà sospettato, quello del Ticino è solo un esempio).
Ecco ciò che potremmo fare noi, come storici e insegnanti di storia. Spero che altri (dai geografi ai docenti di diritto e economia ecc.) facciano le loro proposte e – dal basso – si riesca a creare una sorta di progetto un po’ più credibile di quello che troviamo nella Legge Capitanio. Mentre scrivo, la legge è in votazione al Senato. Già leggo su internet le pressioni di questo o quel gruppo, per aggiungere qualcosa di suo gradimento. Temo che il – “fritto misto” – (termine usato dallo stesso Capitanio, sia pure per difendersi) ne verrà ulteriormente arricchito.
Occorrerebbe, invece, che qualche senatore riuscisse a dare una scossa ai suoi colleghi: perché, quei profondi rivolgimenti che abbiamo appena ricordato sono così seri, da imporre una legge seria sull’Educazione alla Cittadinanza. Ma di questa discussione daremo conto in un altro contributo.