Dante

  • Dante e la Germania. Molto rumore per nulla

    di Domenico Mugnolo

    01Fig.1: Arno Widmann, “giornalista radical chic” tedesco, e Dante, nell’accostamento del “Il Giornale”. Fonte La polemica su Dante

    È vero che, se proprio abbiamo bisogno di nemici, ci tocca cercarceli fuori. E a chi mai, più che ai tedeschi, calza il ruolo di nemico? Ed eccoti servito il nemico tedesco, tanto più che egli pare essere appartenente anche alla orribile categoria del “radical-chic” (da qualche parte nella tempesta che si è scatenata nei tre giorni scorsi devo averlo letto, ma non riesco a ritrovare chi ha tirato fuori la parola che si presta a mille usi, restando sempre priva di senso).

     

    La polemica sui giornali italiani

    Nella giornata dedicata a Dante, il 25 marzo 2021, un quotidiano tedesco, la “Frankfurter Rundschau” pubblica un articolo di Arno Widmann (Dante: die Guten ins Töpfchen, die Schlechten ins Tröpfchen, tradotto, suonerebbe più o meno: Dante: I buoni da una parte, i cattivi dell’altra). Nelle intenzioni dell’autore, è un omaggio a un poeta che è patrimonio dell’umanità intera, ma il quotidiano italiano “La Repubblica” (Dante, l’incredibile attacco dalla Germania: «Arrivista e plagiatore» di Rita Monaldi e Francesco Sorti) legge nelle parole dello “scrittore e giornalista” niente meno che un insulto a Dante e persino al nostro paese che lo celebra annualmente.

    Sulla scia di “Repubblica”, altri quotidiani italiani criticano aspramente Widmann. E, come spesso avviene quando in Italia si parla di Germania, l’attacco, che secondo me è tutt’altro che un attacco, viene presentato come l’opera non di un giornalista, di una singola persona, ma dell’intero paese: “dalla Germania”: uniti nella difesa dell’onore nazionale, giornali schierati di solito su fronti opporti: “La Repubblica”, “La Stampa” (“L’attacco che arriva dalla Germania: «Dante vale meno di Shakespeare, copiò tutto da un arabo», di Letizia Tortello), “Il Giornale” che attacca Roberto Saviano che osa prendere le difese di Widmann. Quel che è peggio è che nella polemica, a parte il ministro Franceschini (richiesto di un parere, egli ha, sì, citato correttamente: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”, ma più giustamente avrebbe dovuto dire “Non ragioniam di voi…”), si sono lasciati trascinare oltre al direttore degli Uffizi Eike Schmidt, i professori Luca Serianni, Enrico Malato e Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca.

    Di Schmidt, Serianni, Malato e Marazzini mi permetto di dubitare che abbiano letto l’articolo su cui hanno tuttavia espresso un parere, fidandosi probabilmente di ciò che è stato loro riferito. Time is money e leggere costa tempo. Massima comprensione se non trovano il tempo, ma allora bisognerebbe astenersi dal commentare senza prima sapere: un’abitudine che nelle università un tempo si insegnava. Non avrei mai immaginato di ritrovarmi a dover difendere Roberto Saviano, che mi sembra sia uno dei pochi a essere intervenuto con cognizione di causa, attirandosi addosso le ire del “Giornale”.

     

    Arno Widman

    Avendolo letto, premetto senza tanti giri di parole che l’articolo mi è parso non certo il lavoro di uno studioso, di un dantista, ma di persona colta e lettore attento della Divina Commedia, sì. Senz’altro. I punti di vista dell’autore possono non essere condivisi, ma non sono mai offensivi e non ridimensionano in alcun caso l’importanza di Dante. Tutt’altro. Widmann legge l’opera di Dante nella sua epoca, fa delle ipotesi suggestive su alcune delle ambizioni e delle intenzioni che animarono l’autore e ne definisce infine alcune caratteristiche. Non essendo io un dantista, ma semplicemente un lettore di Dante (che però per mestiere si occupa di letteratura e di filologia), non posso, né voglio impegnarmi a discutere l’articolo su di un piano scientifico, ma mi limiterò a riferirne correttamente il contenuto, ampiamente travisato negli articoli apparsi sulla stampa italiana. Non capisco se per via di una – diciamo così - imperfetta traduzione o per una lettura frettolosa. In qualche caso, come ho già detto, mi permetto di dubitare che alcuni di coloro che sono intervenuti nella discussione abbiano letto di persona l’articolo.

     

    Che cosa scrive Widmann?

    I punti centrali del suo intervento sono i seguenti:

    • Implicitamente sfiora la questione dello sviluppo della nostra lingua, ricordando che per leggere la Commedia oggi abbiamo bisogno di un ricco apparato di note, per comprenderne e apprezzarne scelte lessicali e sintassi; di note abbiamo però bisogno, aggiunge Widmann, anche per via dell’altissimo livello filosofico-teologico del suo discorso. Ma la cosa straordinaria di Dante, sottolinea Widmann, è che per la Commedia si serva del volgare, dal momento che, per secoli ancora, sarebbe stato il latino la lingua obbligata per affrontare questioni filosofiche e teologiche.

    • La poesia d’amore italiana si sviluppa a partire da quella dei trovatori provenzali, i quali cantavano le lodi di una donna reale o immaginaria riuscendo, grazie anche alla musica con cui accompagnavano i loro versi, a risvegliare emozioni e sentimenti. Nella Commedia Dante canta Beatrice, di cui per inciso non sappiamo se sia davvero esistita, come già i trovatori avevano cantato una donna; lo fa però senza la stampella della musica, andando dunque oltre i trovatori e riuscendo, grazie al calore con cui servendosi delle sole parole descrive e rappresenta le emozioni, ad avvincere e commuovere i propri lettori.

    • Widmann ricorda la difesa a spada tratta, da parte di dantisti italiani, della originalità di Dante che l’arabista spagnolo Miguel Asin Palacios avrebbe messo in dubbio, ipotizzando una possibile conoscenza e utilizzazione da parte del poeta italiano del racconto del viaggio di Maometto dalla Mecca alla Moschea della Roccia di Gerusalemme e quindi al Cielo; da parte sua si chiede se in tal modo i dantisti non abbiano sottovalutato l’ambizione del poeta che, conoscendo quel testo, nella Commedia avrebbe probabilmente voluto, con il racconto del proprio viaggio, andare ben oltre il modello di Maometto. Riuscendoci, precisa Widmann.

    • Paolo e Francesca: data l’imperscrutabilità del giudizio divino, Dante, si legge nell’articolo, non sa, non può sapere come Dio abbia giudicato i due amanti, se li abbia perdonati o condannati alle pene dell’inferno; vuole però mostrarsi certo della condanna, per poter mettere in scena un sentimento umanissimo, anche se inaudito per il cristianesimo: la compassione per i dannati;

    • Nel poema dantesco si parla di Beatrice, ma non si fa alcun accenno alla moglie dell’autore e ai figli; la vita matrimoniale, osserva Widmann, non pare ancora avere dignità di presenza nella letteratura e occorrerà arrivare alla Riforma luterana per incominciare a vederne una rappresentazione letteraria; allo stesso modo Widmann sottolinea l’esclusiva presenza umana nel poema dantesco: flora e fauna ne sono assenti (se non, aggiungerei, come allegorie o simboli), così come sono assenti gli spazi interni: stanze, ecc. Non mi sembra che si possa leggere in tali osservazioni una critica.

    • Widmann tributa un omaggio alla immensa curiosità di Dante, il quale – scrive - la proietta su uno dei suoi personaggi, Ulisse, che vuole soddisfarla anche a costo di incontrare la morte (qui mi sia permesso aggiungere che una cinquantina di anni fa, con parole apparentemente irriverenti, ma icastiche, il poeta tedesco Karl Mickel tributava in un sonetto un omaggio alla curiosità, alla brama di conoscere di Dante: “Noch im Arsch des Teufels /
    Will Dante, was er wahrnimmt, wissen.”, traduzione: “Anche nel culo del diavolo / Vuol conoscere Dante quello che scorge”).

    • Widmann sottolinea che la relazione di viaggio di Marco Polo e la Commedia sono coevi. E mettendo in evidenza che l’una è interamente concentrata sulla vita e la realtà terrena, l’altra sull’al di là, invita a considerare e tenere nel dovuto conto questa contemporaneità, per evitare di attribuire all’epoca ciò che invece è del poeta: la sua ossessione religiosa;

    • Widmann fa scivolare l’osservazione che ha evitato di parlare dei conflitti fra Ghibellini e Guelfi, sulla condanna all’esilio, ecc. – questioni che considera probabilmente eventi certamente importanti nella biografia di Dante Alighieri, ma non decisivi per la concezione e la lettura della Commedia. In effetti Widmann è concentrato sugli aspetti compositivi della “Commedia”, non sui dati biografici del poeta.

    • L’ultimo è il punto più delicato perché è stato letto come segno della volontà di Widmann di stabilire un ordine gerarchico che vedrebbe al primo posto Shakespeare e al secondo Dante. Se fosse così, Widmann sarebbe uno stupido, più o meno quanto coloro che auspicherebbero un capovolgimento dell’ordine gerarchico, riservando così il primo posto a Dante, il secondo a Shakespeare. Tentare di stabilire, in questo come in altri casi, un ordine gerarchico in ambito letterario e artistico a me pare lo stigma della superficialità, della puerilità e dello sciovinismo. In verità, richiamando quel saggio dantesco (1929) nel quale Th. S. Eliot scrive che Dante si legge facilmente, Widmann osserva che la facilità postulata dal cattolico Eliot si basa su di un elemento: l’evidenza con cui nella Commedia i buoni vengono distinti dai malvagi. Tale evidenza, continua, manca di necessità nell’ “amorale” Shakespeare, nel cui pensiero e dunque nella cui opera tutto diventa molto più tortuoso e relativo.

    Ecco, sono queste le cose che ha scritto realmente Widmann. Anche il “Fatto quotidiano” (“Dante «arrivista e plagiatore»? Ecco cosa c’è scritto davvero sul giornale tedesco a cui ha risposto il ministro Franceschini”), che ha denunciato l’errore di “Repubblica”, “Stampa”, “Giornale”, non precisa quali siano gli errori di quei quotidiani, non espone la posizione di Widmann, ma si limita a contrapporre le prese di posizione di molti italiani che vivono in Germania e protestano contro i superficiali articoli apparsi sulla stampa italiana.
    Ora mi chiedo, dove sia il motivo dello scandalo. Forse soltanto nella incapacità di tanti giornalisti di leggere attentamente il testo di un loro collega straniero e nella pretesa di giudicare senza aver prima letto ciò di cui si parla.

  • Dante in camicia nera. Un caso esemplare di medievalismo politico.

    di Marco Brando

    Screenshot 2023 01 19 alle 12.37.05 Prima affermazione: «Ritengo che il fondatore del pensiero di destra in Italia sia Dante Alighieri, perché quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in lui, ma anche la sua costruzione politica in saggi diversi dalla Divina Commedia, è profondamente di destra».

    Seconda affermazione: «Il massimo poeta può dirsi a ragione l’antesignano dei grandi ideali che ora sono messi in essere dal Governo nazionale».

    Sono concetti espressi nell’ambito dello stesso discorso? In apparenza, sì. Invece non è così. La prima affermazione risale al 2023. La seconda al 1927. Insomma, le separano 96 anni. Eppure entrambe sono casi esemplari di medievalismo politico, basati sull’uso (e soprattutto sull’abuso) dell’eredità dantesca (per medievalismo si intende lo studio del processo continuo di creazione del Medioevo nella società post-medievale, in particolare quella dei nostri giorni). 

    Il ministro Gennaro Sangiuliano

    Non resta che svelare il mistero sulla paternità delle due affermazioni. La prima - che attribuisce all’Alighieri la responsabilità di avere fondato quasi 8 secoli fa, evidentemente a sua insaputa, «il pensiero di destra» - è stata fatta il 15 gennaio 2023 da Gennaro Sangiuliano, ministro della Cultura nel Governo Meloni, durante la kermesse milanese di FdI, partito erede del Msi post-fascista. Al di là delle polemiche scaturite giustamente a proposito dell'oggettivo strafalcione (da parecchi punti di vista: storico, cronologico, letterario, politico e via elencando), è utile ricordare che il ministro non è il primo, nell'ambito della destra italiana contemporanea, ad attribuire al Sommo poeta medievale, vissuto tra XIII e XIV secolo, responsabilità per scelte politiche fatte nei secoli XX e XXI. 

    Screenshot 2023 01 19 alle 12.26.05 Domenico Venturini, scrittore fascista

    È giunto, così, il momento per rivelare chi è stato l'artefice della seconda affermazione, quella in cui Dante è indicato come ispiratore, sempre a sua insaputa, del fascismo. Si chiamava Domenico Venturini; nel 1927 - in pieno Ventennio - firmò, nella collana Pubblicazioni d'opere per l'incremento della letteratura fascista, un libro intitolato Dante Alighieri e Benito Mussolini: 124 pagine edite da Nuova Italia. I titoli di alcuni capitoli si commentano da soli: Il Veltro esattissima figura allegorica del Duce Magnifico, L’esilio del Duce e l’esilio di Dante, La istituzione delle Corporazioni esistente ai tempi danteschi, II Duce riparatore, annunciato da Dante, individuato nel nostro Duce Magnifico. Il volumetto, accompagnato dalla prefazione di Amilcare Rossi, medaglia d’oro al Valor militare e presidente dell’Associazione nazionale combattenti, fu riproposto in una versione aggiornata, ampliata (ben 322 pagine) e rilegata nel 1932. Era un testo molto caro al regime, tanto che ebbe una diffusione vastissima e garantì al suo autore la nomina ad accademico d’Italia. 

    Il dantismo fascista

    Sicuramente Sangiuliano, quando ha evocato la paternità dantesca della cultura della destra attuale, ha espresso un giudizio che non è stato ispirato dalla lettura assidua del libro appena citato. Tuttavia, la curiosa coincidenza di vedute porta a supporre che il pensiero destrorso caro al ministro sia fondato, più o meno consapevolmente, sull’eredità di Venturini piuttosto che su quella di Alighieri. Vale dunque la pena di soffermarsi su altri passaggi del volumetto, per capire quali siano altri punti di vista espressi quasi un secolo fa e magari per essere pronti ad altre simili e ridondanti esternazioni nel 2023.

    Nell’introduzione dell’edizione del 1927 Venturini scrive che «tutte le manifestazioni, le idealità̀, le concezioni di grandezza patria, le nobili aspirazioni al ritorno della romanità̀, che integrano il vasto programma della nostra rinascita civile e morale, e che formano quel complesso di memorabili atti del Governo nazionale, atti che lasceranno una impronta indelebile del secolo di Mussolini, hanno il meraviglioso riscontro col pensiero del grande filosofo e poeta italiano, che con la poderosa produzione del suo privilegiatissimo ingegno, fu considerato il restauratore della nuova civiltà̀ europea». Nel concludere l’edizione del 1932, l’autore sentenzia: «Noi fascisti dobbiamo aver presente che Dante ha vagheggiato gli stessi ideali politici, morali, religiosi messi in essere dell'Era Fascista. [...] Il Massimo Poeta può̀ dirsi a ragione l’antesignano dei grandi ideali del Fascismo. [...] Non poteva certamente concepire e scrivere opere il cui contenuto etico e politico sarebbesi potuto riscontrare non consentaneo (conforme, ndr) ai grandi ideali del Fascismo. È doveroso quindi riguardare Dante, il profeta della Patria, l’anticipatore del Fascismo. La rinascita politica e morale voluta dal Duce è quella desiderata da Dante. [...] Ad majora, adunque, e sempre nel nome di Dante e nel nome del Duce Magnifico della nuova Italia». 

    FmdpIT0X0AY3Sqy Dante, profeta di Mussolini

    Non solo. Fra le altre esibizioni di certezze sul “fascismo dantesco”, in prima edizione - nel paragrafo Il Duce riparatore, annunciato da Dante, individuato nel Duce Magnifico - Venturini assicura che il titolo caro al dittatore «fu vaticinato dal sommo poeta, il quale appunto nel Dux voleva le virtù e le qualità che si ammirano in Benito Mussolini. [...] Nel canto XXXIII del Purgatorio, Beatrice enimmaticamente (sic!, ndr) dice a Dante che verrà̀ un Duce a vendicare gli oltraggi fatti alla profanata chiesa ed all’impero. Ecco le parole di Beatrice: “Io veggio certamente, e però il narro, / addurne (nella Divina Commedia in realtà si legge “a darne”, ndr) tempo già stelle propinque, / ….. nel quale un Cinquecento Dieci e Cinque, messo da Dio, anciderà la fuia, / e (“con” nella Commedia, ndr) quel gigante che con lei delinque”. È da sapersi che il numero romano DXV si è ge­neralmente interpretato DVX parola fatidica al nostro tempo. [...] Ora questo Messo da Dio ai tempi del poeta non venne mai, e perciò il vaticinio dantesco restò senza applicazione. Solo ai nostri tempi [...] la Provvidenza fece sorgere l’uomo che compì in breve spazio di tempo la gran­diosa riformagione delle cose d’Italia abbattendo ben altra fuja (Dante in realtà scrive “fuia”, intesa come meretrice, con riferimento alla curia papale corrotta, ndr) ed altro gigante che nel nostro caso (nel caso di Alighieri è la monarchia di Francia, ndr) possono essere figure del bolscevismo e della sua insana e perniciosa dottrina. [...] Il nuovo ordine di cose che si è svolto in Italia e l’avvento del Fascismo, sembrano sciogliere l’enimma (sic!, ndr) di Dante. Il DUX viene personificato in Mussolini, che appunto per inesplicabile combinazione fu denominato Dux». 

    Dante in camicia nera

    Di certo, l’accostamento tra Dante e Mussolini non è stato, durante il regime littorio, soltanto una fissazione di questo autore. Come scrive Stefano Jossa, docente di Letteratura italiana all’Università di Palermo, sul magazine online Doppiozero, la battuta del ministro Sangiuliano «ha una lunga storia, che si radica almeno in quel “Dante fascista” che nel corso del Ventennio si affermò progressivamente nell’immaginario di regime». Jossa cita, insieme al libro di Venturini, anche Dante, l’Impero e noi. Dalla Nuova Antologia di Emilio Bodrero (1931) e Dante e Mussolini di Tommaso Vitti (1934). Mentre Stefano Albertini, docente di Italiano alla New York University, nell’articolo Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell'Italia fascista ha scritto nel 1996: «Durante il ventennio fascista non c'era discorso ufficiale, dal Duce all'ultimo direttore didattico, che al punto di ricordare le glorie patrie di questa stirpe di poeti, santi, eroi e navigatori non includesse in pole position il poeta fiorentino. Anche i libri di testo per le scuole elementari e persino i manuali di cultura fascista per le organizzazioni giovanili del regime includevano sempre un ritratto di un Dante pensoso e meditabondo accompagnato da didascalie celebrative e da brevi estratti da passi strategici della Commedia». 

    wefefwefwewewe Medievalismo politico

    È opportuno essere consapevoli del fatto che la strumentalizzazione politica di Dante durante il Ventennio è solo un aspetto dello sfruttamento del Medioevo, più o meno inventato, da parte di quel regime; un (ab)uso d’altra parte già diffuso nel XIX secolo in chiave risorgimentale e nell’Italia repubblicana del XX, a partire dagli anni Ottanta: l’esempio più lampante è l’evocazione della Lega lombarda e del mitico e mai esistito Alberto da Giussano, diventati pilastri identitari della Lega Nord di Umberto Bossi e, in parte, della Lega (senza Nord) di Matteo Salvini. Quindi Gennaro Sangiuliano, evocatore di Dante simpatizzante di Fratelli d’Italia (con quasi 8 secoli di anticipo), non dovrebbe sentirsi solo. Tuttavia, visto il ruolo di ministro della Cultura, ci saremmo aspettati un’analisi un po’ più originale. A Milano, prima di proporla, aveva premesso: «So di fare un’affermazione molto forte». In realtà, visti i numerosi precedenti in salsa mussoliniana, è stata soprattutto un’affermazione che appare prevedibile, disinformata e scontata.

     


     

    BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

    Stefano Albertini, Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell'Italia fascista, in The Italianist, University of Reading, Reading (Regno Unito) 1996.

    AskaNews, Per il ministro sangiuliano il fondatore del pensiero di destra in Italia è Dante, in AskaNews.it, Milano 14 gennaio 2023.

    Emilio Bodrero, Dante, l’Impero e noi. Dalla Nuova Antologia - 16 maggio 1931, Società Nuova Antologia e Casa editrice d’arte Bestetti e Tumminelli, Roma-Milano 1931.

    Marco Brando, Il medievalismo, cioè il Medioevo (dopo il Medioevo) studiato dagli storici, in Treccani.it, Roma 11 luglio 2022.

    Stefano Jossa, Per Dante, svoltare a destra, in Doppiozero.com, Milano 16 gennaio 2023.

    Benito Mussolini, Messaggio dantesco (27 giugno 1932) - Discorsi, Scritti e Articoli, in Adamoli.org.

    Domenico Venturini, Dante Alighieri e Benito Mussolini, prima edizione, Nuova Italia, Firenze 1927.

    Domenico Venturini, Dante Alighieri e Benito Mussolini, seconda edizione, Nuova Italia, Firenze 1932.

    Tommaso Vitti, Dante e Mussolini, Tipografia Sociale Jacelli & Saccone, Caserta 1934.

  • Maometto e Dante. Una buona occasione per parlare di inculture, didattica e storica.

    di Antonio Brusa, Ilaria Sabbatini

     

    Il fatto

    Ne hanno parlato tutti i giornali e tantissimi hanno commentato sui social: due famiglie musulmane di Treviso hanno chiesto di non far studiare Dante e la prof le ha prontamente accontentate, sostituendolo con Boccaccio. Subito dopo, un docente di liceo ha spiegato a una tv locale che sì, in effetti, Dante mette Maometto nell’inferno, e questo non sta bene ai musulmani. Fra i commenti più autorevoli, leggiamo quelli del Ministro Valditara, della Sottosegretaria Facchinetti, di Matteo Salvini e di un deputato della Lega, Centinaio, noto alle scuole per aver promosso la legge sull’Educazione civica che le sta attualmente affliggendo. Con suoi Inferno, Purgatorio e Paradiso, Dante è offensivo per i musulmani, avverte “Il Corriere del Veneto” e questa informazione ha scandalizzato i più.

    L’episodio, accaduto a febbraio, è stato ripreso da Antenna3 il 23 maggio e da allora è diventato un evento mediatico. Come tale, dunque, va commentato (del fatto in sé sappiamo poco e quindi non è il caso di esprimersi sulle scelte di un docente, né qui riprendiamo il tema della cancel culture, sul quale HL ha proposto numerosi contributi). Il discorso pubblico sull’evento è interessante perché rivela una duplice incultura, didattica e storica. Con una differenza fra i due livelli: mentre, per quanto riguarda la storia, rileviamo che alcuni commenti appaiono sufficientemente informati, come quelli di Matteo Cazzato  o di Enrico Galiano, per quanto riguarda la didattica siamo costretti a osservare che l’ignoranza appare totale. L’episodio, dunque, più che la questione dell’intercultura fra le comunità italiana e straniere, propone con forza una questione di incultura, gloriosamente nazionale.

     

    Dante e l’incultura didattica

    Per iniziare, ecco Alex Corlazzoli, del “Fatto Quotidiano”, che chiude il suo resoconto con queste parole:

    Ora si tratta di capire se il docente abbia agito in autonomia o se abbia concordato con il consiglio di classe o con la presidenza la modalità: da una parte vige la libertà d’insegnamento garantita dal Contratto nazionale all’articolo quindici, dall’altra il dovere ad attenersi alle Indicazioni nazionali del ministero che sono in sostanza il vecchio “programma” cui tutti i docenti facevano riferimento.

    Si tratta di capire, invece, perché il giornalista (lui solo?) confonde “programma” con “Indicazioni nazionali”, dal momento che sono due documenti che non hanno nulla in comune: il primo è l’elenco degli argomenti di studio, il secondo è l’insieme delle raccomandazioni per progettare il curricolo. E basta sfogliare quel testo (assai breve: sono le pagine 28-35) per rendersi conto che non vi si cita nessun autore. Sono tutti a scelta del docente. Le “tre corone”, un tempo imprescindibili, (Dante-Petrarca-Boccaccio), come si dice nel gergo, appartengono alla stagione dei programmi del Novecento, quando le antologie erano obbligatorie e scandivano anno dopo anno una summa in pillole della Letteratura Italiana. E, poiché siamo in una secondaria di primo grado, è bene ricordare che in queste scuole l’antologia è un testo opzionale, che il consiglio di classe può non adottare, se pensa che i testi a disposizione siano sufficienti per curare la formazione linguistico-letteraria dei ragazzi.

    Infine, se ci prendiamo la briga di sfogliarne qualcuna, si vedrà che non mancano, in genere, l’esordio con la selva oscura, e gli episodi di Caronte, di Ulisse e di Paolo e Francesca. Ma, a compulsarle tutte con pazienza, non si vedrà nemmeno l’ombra di quel canto XXVIII incriminato, dove si raccontano le pene di Maometto.

    Dal punto di vista dell’istituzione, che si studi Dante o che non lo si studi non può essere un problema.

    Infatti, sembra essere sfuggito a tutti i commentatori che qui si tratta di una scuola secondaria di primo grado, e non di uno dei tanti licei istituiti dalla riforma Gelmini, per i quali quella ministra prescriveva la lettura di almeno 25 canti nell’ultimo triennio (p. 14). Fatto grave: la cosa è sfuggita anche ai commentatori istituzionali. È grave perché un conto è temere che una cultura straniera stia attentando al canone nazionale, un altro è commentare una scelta didattica, magari spiacevole e sbagliata (ma, sottolineo ancora: occorrerebbe essere ben informati su come sono andati i fatti). Di certo, la questione rivela che nemmeno il Ministro conosce le Indicazioni, che pure ha annunciato più volte di voler cambiare, e che la maggior parte degli intervenuti non sembra capire la differenza che c’è fra una secondaria inferiore e una superiore.
    Quella docente ha dichiarato che ha risolto il problema sostituendo Dante con Boccaccio, suscitando in questo modo l’impressione di ragionare come se le “tre corone” esistessero ancora e avvertendoci che, forse, un problema sul quale riflettere potrebbe essere questo: come mai un insegnante di una secondaria di primo grado del XXI secolo si comporta come se fosse in una scuola media del XX?

     

    Immagine2Fig.1: Altona (Hamburg), Schulbibliothek des Christianeums, Codex Altonensis, 1350-1410 ca. Il Saladino è l’uomo nobilmente atteggiato sulla sinistra del castello degli Spiriti Magni.L’inferno di Dante

    Ma, ora, passiamo ad esaminare la parte storica chiamata in causa da questo evento.

    L'VIII cerchio dell'Inferno è destinato ai peccatori che hanno ingannato chi non si fida. È diviso in dieci bolge, ognuna riservata a una categoria di peccatori. Dante ne descrive la struttura nel Canto XVIII dell'Inferno.

     

     

    Luogo è in inferno detto Malebolge,
    tutto di pietra di color ferrigno,
    come la cerchia che dintorno il volge [...]
    Di qua, di là, su per lo sasso tetro
    vidi demon cornuti con gran ferze,
    che li battien crudelmente di retro.Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
    vidi gente attuffata in uno sterco
    che da li uman privadi parea mosso.

    (IF XVII)

    [privadi=latrine]

     

    La pena di Maometto

    Nella IX bolgia di questo cerchio infernale, Dante mostra la pena dei peccatori colpevoli di aver seminato discordia. Secondo il principio del contrappasso, costoro vengono orrendamente mutilati da un diavolo che li squarcia con una spada e riapre continuamente le loro ferita, proprio come loro hanno causato lacerazioni in ambito politico o religioso.

    In questo contesto atroce e disumanizzato, Dante colloca anche Maometto, creando così un precedente per i futuri imbarazzi di chi si trova ad affrontare, da un punto di vista occidentale, la questione della rappresentazione del profeta e fondatore dell'Islam. La scelta di Dante di includere Maometto come figura nettamente negativa ha infatti sollevato e continua a sollevare diverse polemiche e dibattiti.

    Maometto è rappresentato con una ferita che lo lacera dal mento all'ano, in una descrizione particolarmente cruda e di registro deliberatamente volgare che lo paragona a una botte senza fondo. Con un linguaggio grottesco e provocatorio, Dante mette in evidenza la brutalità e la crudeltà della pena di Maometto.

     

    Maometto e Giuda

    È impossibile non notare la somiglianza con l'iconografia di Giuda eviscerato, così come viene tratteggiato in alcune iconografie ispirate agli Atti degli apostoli: «Giuda comprò un pezzo di terra con i proventi del suo delitto e poi precipitando in avanti si squarciò in mezzo e si sparsero fuori tutte le sue viscere». (At 1,18, cfr. Mt 27,5).

     

    Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
    com’io vidi un, così non si pertugia,
    rotto dal mento infin dove si trulla.

    Tra le gambe pendevan le minugia;
    la corata pareva e ’l tristo sacco
    che merda fa di quel che si trangugia.

    Mentre che tutto in lui veder m'attacco,
    guardommi e con le man s'aperse il petto,
    dicendo: "Or vedi com'io mi dilacco!

    vedi come storpiato è Mäometto!
    Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
    fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

    E tutti li altri che tu vedi qui,
    seminator di scandalo e di scisma
    fuor vivi, e però son fessi così.

    (IF, XXVIII)

     

    La parafrasi in italiano corrente deve essere piuttosto esplicita, se vuole rispettare il linguaggio di Dante:

     

    Una botte, priva delle doghe del fondo, non è bucata così come io vidi un dannato tagliato dal mento fin dove si scorreggia. Tra le gambe gli pendevano le interiora; si vedevano gli organi e il sacco ripugnante che trasforma in merda ciò che si mangia. Mentre fissavo lo sguardo su di lui, mi guardò e si aprì il petto con le mani, dicendo: «Adesso vedi come sono lacerato! Guarda come è storpiato Maometto! Di fronte a me c'è Alì [cugino e genero del profeta n.d.r.] che piange col volto squarciato dal mento alla fronte. E tutti gli altri che puoi vedere qui, in vita erano seminatori di scandalo e scisma, e per questo sono mutilati in questo modo».

     

    Maometto è un eretico cristiano?

    La polemica sul passo dantesco si ripete a intervalli di tempo più o meno regolari a seconda delle contingenze politiche e, di fronte a questo eccesso di sensibilità, vengono in mente principalmente due cose: il problema dei semicolti e il cherry picking, ovvero l’abilità di scegliere esclusivamente gli argomenti che confermano la propria tesi, evitando tutti quelli che potrebbero contraddirla.

    Dante colloca Maometto nella IX bolgia dell'VIII cerchio, tra i seminatori di discordia. Discordia significa scisma, divisione e forse, prima di prendere posizioni di qualunque tipo, bisognerebbe farsi qualche domanda sul perché Maometto è considerato scismatico e non pagano.

    In questo senso, un segnale impossibile da ignorare è il fatto che dopo pochi versi, proprio Maometto dice a Dante di avvertire fra Dolcino, esponente dei moti ereticali a lui contemporanei, di prendere provvedimenti se non vuole seguirlo nella stessa sorte infernale (il frate venne arso sul rogo nel 1307). A questo punto occorrerebbe approfondire l’idea di Maometto scismatico informandosi sulla leggenda di Bahira, mentore cristiano ed eretico del Profeta.

     

    Immagine3Fig.2: Buonamico di Buffalmacco, "Giudizio universale", particolare di Maometto, 1336-41, Camposanto monumentale di Pisa (da Wikipedia). FonteUna lunghissima tradizione medievale

    Le prime nozioni diffuse nel mondo cristiano orientale relative alla vita del Profeta furono quelle mediate dalla Chronographia di Teofane (815 ca) che fecero di Maometto il discepolo di un monaco reietto, trasformando Bahira, che secondo la tradizione musulmana ne preconizzava il carisma profetico, in un cristiano apostata.

    La leggenda traeva origine dai primi biografi di Maometto, Ibn Isḥā´q (m. 767), autore di Sirat Rasul HaAllah (Vita dell’inviato) e di Ibn Hishām (m. 833) autore di Al-Sīra Al-Nabawiyya (La vita del Profeta) [che a sua volta costituisce l’edizione dell’opera di Isḥā´q,30 e al-Tabari (m. 923) autore di Ta’rīkh al-rusūl wa-al-mulūk (Storia degli inviati e dei re)].

    Quando Maometto, ancora ragazzo, si recò in Siria con una carovana di mercanti, insieme allo zio Abu Talib passarono nei pressi di una cella dove viveva il monaco Bahira che riconobbe il profeta da certi segni della natura. Fermatosi a conversare con lui il monaco ebbe la certezza della sua missione quando riconobbe il segno della profezia sul corpo del giovane Maometto.

    Fuori dall’Arabia, la tradizione passò in Mesopotamia e in Siria da cui, per il tramite delle relazioni con l’impero bizantino, giunse al mondo cristiano. Fu appunto nella versione siriana che il monaco Bahira diventò Sargis, esplicitando nel nome la propensione eretica del mentore e dell’allievo, il futuro profeta dell’islam (Sergio era uno dei capi dell’eresia Pauliciana, spesso associata al manicheismo e, conseguentemente, ai catari).

    La tradizione divenne definitivamente leggenda passando nell’Occidente cristiano. Il teologo siriano Giovanni Damasceno (m. 749), che nel De haeresibus liber pose le basi della futura concezione di Maometto, raffigurava il personaggio del mentore come un eremita cristiano votato all’eresia ma nel contesto del superamento dell’idolatria preislamica.

    Giovanni Damasceno così parla del profeta dell'Islam: «è sorto fra di loro un profeta di nome di Mamed, che fondò la propria setta dopo avere conosciuto i libri del Vecchio e quelli del Nuovo Testamento e avendo intrattenuto conversazioni con un certo monaco Ariano».

     

    Immagine1Fig.1: Giovanni Canavesio, "Giuda impiccato col diavolo che gli porta via l’anima", 1492, particolare. Briga, Santuario di Nostra Signora del Fontan.Per approfondire l’argomento

    Bisognerebbe leggere Alessandro D'Ancona, il grande filologo ottocentesco, e il suo saggio sulla leggenda di Maometto in Occidente, per capire la scelta di Dante. Perché il problema è sempre quello dei semicolti. Si dà per scontato di avere cultura a sufficienza, invece non si sa quello che si dovrebbe sapere. E in questo caso, quello che non si conosce è proprio la cultura di Dante. Sennò perché metterebbe Maometto nell'inferno e il Saladino tra gli Spiriti Magni? Infatti, Dante lo colloca nel Limbo, insieme ad Aristotele, Socrate, Platone, tra i personaggi virtuosi dell'antichità che non sono in paradiso solo perché non hanno conosciuto Cristo.

    Le comunità siriache hanno tramandato oralmente la storia del monaco Bahīra sin dall'VIII secolo. La storia orale ha subito variazioni nel tempo ed è stata tradotta in varie lingue guadagnando popolarità come strumento apologetico. Su Jstor si può trovare il saggio di Meriem Dhouib, Maometto "profeta de li saraxini" e poi si può sempre ricorre al classico di D'Ancona, La leggenda di Maometto in Occidente. Dhouib presenta una panoramica dei principali eventi storici e motivi religiosi della storia. Alessandro D’Ancona ricostruisce con fonti e testi ogni particolare della leggenda di Maometto in Occidente, ossia il modo in cui si è diffusa la leggenda di Maometto nella cristianità occidentale fin dalla sua prima descrizione nel contesto patristico orientale. Entrambi lavorano sulle fonti, ricostruiscono una tradizione sulla base delle testimonianze che ci giungono da un passato molto antico secondo un metodo lavoro scientifico che è ben diverso dalle narrazioni approssimative e dai giudizi di pancia che abbiamo visto in questo recente dibattito.

    Forse serve conoscerlo, Dante, prima di commentarlo. Se poi vogliamo aggiungere ulteriore spessore alla questione ecco due studi, gentilmente indicati da Francesco Barone: Krisztina Szilágyi, Muhammad and the Monk: The Making of the Christian Bahira Legend; Barbara Roggema, The Legend of Sergius Bahira.

    E chi lo avrebbe mai detto che ci saremmo trovati di fronte a una visione dantesca così diversa da quella che avevamo sempre immaginato? Il fatto è che quel periodo che noi chiamiamo medioevo è un paese solo apparentemente simile al nostro ma, in realtà, è un paese straniero, che ai moderni conviene percorrere con prudenza e curiosità.

     

    Bibliografia minima

    • A. D’Ancona, La leggenda di Maometto in Occidente, nuova edizione a cura di A. Borruso, Bologna, Salerno Editrice, Roma, 1994.
    • M. Dhouib, Maometto «profeta de li saraxini», in Italica, 87 (2010), pp. 533-553 (disponibile su Jstor consultato il 28 maggio 2024).
    • K.  Szilágyi, Muhammad and the Monk: The making of the Christian Baḥīrā Legend, in Jerusalem Studies in Arabic and Islam, 34 (2008), pp. 169–214.
    • B.  Roggema, The legend of Sergius Bahira: eastern Christian apologetics and apocalyptic in response to Islam, Boston, Brill, 2009. Ampi stralci su Google books.

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