didattica

  • Nuova recensione per Piccole Storie 1

    Avevo conosciuto il lavoro di Antonio Brusa (e probabilmente anche incontrato lui in qualche convegno), fin dai primi anni Ottanta, quando insegnavo storia al liceo e mi occupavo di didattica della storia. Ho avuto il piacere di riprendere in mano uno dei frutti di questo lavoro in occasione della pubblicazione del primo volume di Piccole storie dalla Meridiana, casa editrice per la quale è curatore di diverse collane.

    Il volume, che si presenta come il primo di una serie, si propone di fornire una visione e un approccio didattico innovativo all’insegnamento della preistoria, a partire dalla scuola materna.

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  • Piccole Storie 1

    Quando insegniamo una storia “liscia”, senza problemi, di fatti che scorrono, di descrizioni che si leggono e poi si dicono in classe, non facciamo formazione, perché lasciamo il nostro allievo lì dov’era prima. Non lo smuoviamo dal suo stato “a-problematico”. Il sapere storico nasce quando l’allievo comincia a porsi delle domande.

    Questo libro è, in primo luogo, un libro di storia, e delle domande corrette che a essa – in questo caso la preistoria – è utile e corretto rivolgere. Si apre con la sollecitazione a fare pulizia mentale. A liberarsi dagli stereotipi, e per quanto riguarda la preistoria sono piuttosto abbondanti. Questi sono un ostacolo insormontabile, se si vuole accedere a un racconto problematico del passato, che insegni anche a interrogare il presente.

    Piccole storie 1 contiene, inoltre, otto giochi. Non che un insegnante li debba svolgere tutti e tutti siano necessari. Eccedono le necessità di un curricolo solo per permettere al docente di fare la sua scelta. Alcuni possono essere svolti nella scuola dell’infanzia e nei primi anni delle elementari (non necessariamente la preistoria va fatta in terza!). Ogni gioco è dedicato a una questione storica.

    A questi otto giochi fa seguito un capitolo di didattica collaborativa. Inventare i giochi è lo strumento migliore per imparare ad usarli in classe. E scambiarseli è lo strumento con il quale nascono le banche di strumenti per insegnare. Qui, dunque, troverete una decina di proposte.

    Infine, nel capitolo di Preistoria Triviale troverete la risposta al dubbio che state già meditando: e i contenuti quelli tradizionali, la partizione fra paleolitico e neolitico, dove abitava Habilis e dove abitava Neandertal e così via? Eccoli.

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  • Piccole Storie 1. Racconti di preistoria

    “Credo che la storia, la buona storia, sia così bella e affascinante, così piena di misteri e così aggrovigliata, che è l’ambiente ideale per viverla attraverso i giochi. Penso, perciò, che i giochiziari siano vuoti di senso non perché sono zeppi di parole crociate ma perché si rifanno a una storia inerte, elencativa e vecchia. […] Un gioco storico ha la possibilità di appassionare e, quindi, di divertire, se nasce da un problema storico attraente. Da una storia viva.”

    La casa editrice la meridiana manda in libreria Piccole Storie 1. Giochi e racconti di preistoria per la primaria e la scuola dell’infanzia, del prof. Antonio Brusa, pubblicato nella collana di didattica ludica p come gioco, che spazza via i pregiudizi e rimette ordine nella didattica della storia a partire dalla scuola primaria, il ciclo a cui i nuovi programmi ministeriali affidano in maniera quasi esclusiva lo studio della preistoria.

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  • PopShoah? Immaginari e pratiche di memoria pubblica intorno al genocidio ebraico

    Autore: Claudio Monopoli

     

    Varcata la soglia del settantesimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, dieci anni dopo l’istituzione della Giornata mondiale della memoria, diventa un interrogativo imprescindibile chiedersi come insegnare la Shoah, fuori dalla retorica della celebrazione, immersi come siamo nel nuovo universo immaginario del XXI secolo. E’ l’universo dei nati dopo il 2000, pieno di immagini nuove, e in numero infinitamente superiore, di quelle che lo studente degli anni '90 poteva trovarsi ad osservare. L’origine di questo cambiamento sta nel fatto che quell’evento è divenuto oggetto di una possente industria culturale, fatta di libri, film, fiction, social media. Oggi, la Shoah è anche un insieme di immagini e concetti appartenenti alla cultura pop.

    Una ragazza si fa fotografare presso il Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa di Berlino (da un social)

     

    Come insegnare, dunque, la Shoah in questa nuova situazione? Rispondere a questo interrogativo è stato l’obiettivo della quarta edizione del Corso di Storia e Didattica della Shoah dell’Università degli Studi di Bari. “Popshoah? Immaginari e pratiche collettive intorno all’uso pubblico della memoria dello sterminio degli ebrei d’Europa” è il titolo del convegno, organizzato da Francesca Romana Recchia Luciani e Claudio Vercelli, (16 e 17 ottobre 2015), rivolto a docenti e studenti universitari.

    Il suo primo obiettivo è stato quello di delineare le modalità attraverso le quali la Shoah diventa un oggetto culturale di massa. Se prima a questo termine si associavano atmosfere di indicibilità, ora l’evento storico, proprio a causa della sua forte mediatizzazione, è diventato una metafora narrativa o, ancor di più, una semplice ambientazione per trame di libri o film. L’analisi della produzione cinematografica, proposta da Claudio Gaetani, rivela che è addirittura possibile parlare dei format “Holocaust film”, un genere le cui formule narrative sono usate anche in rappresentazioni di altro tipo, come quelle fumettistiche. Come osservato da Recchia Luciani, questa utilizzazione dell’evento storico provoca una perdita del senso del dramma stesso e crea un fertile terreno per la costruzione di ideologie revisioniste o negazioniste.

     La bambina dal cappottino rosso del film Schindler's List.

    Proiezione a cura della Comunità ebraica di Roma presso Largo 16 ottobre, 7 aprile 2013 (inizio del Yom Ha Shoah)

     

    Per un insegnamento rivolto agli studenti di oggi, cronologicamente lontani da quegli eventi, sarebbe necessaria una rappresentazione non spettacolarizzata, attraverso la quale recuperare il senso del dramma reale. Invece, la produzione filmica americana sembra orientarsi in direzione opposta. Ad esempio, l’immagine della bambina dal cappottino rosso, di Schindler’s List (ne ha parlato Damiano Garofalo), diventa un simbolo, soggetto a riprese e citazioni sul web e nelle fiction televisive, ormai privato di ogni collegamento alla tematica della Shoah. Non solo. Tale processo è stato ripetuto ed applicato anche alla figura di Anne Frank, il cui celeberrimo diario viene spesso utilizzato come testo scolastico sul tema. Oltre alla trasformazione in un “quasi-giallo” della famiglia Frank, testimoniata dalle recensioni al sito web della Casa di Anne Frank, le produzioni americane di Broadway e l’adattamento cinematografico di George Stevens, forniscono, secondo Fiorenza Loiacono, una prospettiva edulcorata della storia di Anne Frank, in cui la Shoah diviene sfondo marginale di una storia squisitamente adolescenziale, arricchita da ideologie individualistiche. Un processo di edulcorazione che si esaspera nella “carinizzazione” della figura della povera ragazza ebrea, operata dai manga giapponesi.

    "Carinizzazione" della figura di Anna Frank attraverso il manga giapponese di Megumi Sugihara e Naoko Takase

     

    Se, di fronte ad un tale panorama culturale, la costruzione negli studenti della memoria storica appare necessaria, tuttavia essa non può essere immaginata come un risultato da conseguire tramite il “rito” della celebrazione. La forma della ritualità e della consuetudine, spiega Cristiano Bellei, pone fine alle domande e moltiplica, in realtà, le banalizzazioni sul tema; così, ad esempio, per uno studente l’ “ebreo” può divenire sinonimo di “perseguitato”, al di fuori di ogni comprensione ed interrogativo circa le reali origini della persecuzione stessa.

    E’ necessario trovare e percorrere quella che Natascia Mattucci definisce la stretta strada che intercorre fra banalizzazione e sacralizzazione, per ricostruire una percezione lontana sia dai miti di indicibilità sia dalle spettacolarizzazioni. E’ un obiettivo che può essere ottenuto, se seguiamo il lavoro di Raffaella Di Castro, ascoltando le testimonianze dei parenti delle vittime della Shoah: testimoni di “secondo livello”, nati fra gli anni '60 e '80, le cui storie oscillano fra una voglia di apertura pubblica delle storie familiari e la necessità di custodirle nella dimensione privata.

    Il punto fondamentale, che occorre necessariamente tener presente per l’insegnamento della Shoah, è la “presentificazione” dell’evento storico. A partire da questo fenomeno, Claudio Vercelli invita i docenti a prendere coscienza, insieme agli studenti, sia delle costruzioni politiche operate sul concetto di Shoah, che includono anche contrapposizioni puramente dialettiche fra foibe e lager, sia dell'utilizzo decontestualizzato di immagini e concetti sul tema negli ormai diffusissimi social network. Come illustrato da Antonio Brusa, il compito del docente è quello di aiutare gli studenti a formarsi una coscienza storica. Questa è il frutto della rielaborazione delle conoscenze storiche e della memoria individuale. Non è, dunque, quello di partecipare a una celebrazione o alla custodia di una memoria pubblica. L’insegnante di storia insegna a studiare quell’oggetto, ormai lontano nel tempo, sia nella sua dimensione “verticale” di momento tragico dell’antisemitismo di lunga durata; sia in quello “orizzontale”, di contestualizzazione all’interno della politica generale di sterminio dei nazisti. Tre sono le configurazioni didattiche suggerite: l’analisi della pianificazione dall’alto del processo di sterminio; lo studio “dal basso”, dei soggetti che vi parteciparono, come vittime o oppressori o bystander; la costruzione culturale che ha accompagnato e ridefinito nel tempo questo processo.

    Osservando questo tema dal punto di vista storiografico, Guri Schwarz ritiene che, oltre alla memoria letterale, ovvero quella legata al contesto e all’unicità dell’evento, esista anche la memoria di tipo esemplare, che connette il singolo oggetto storico ad una o più idee generali. Tali memorie non solo possono coesistere, ma insieme generano anche le differenti interpretazioni storiografiche del tema, come quella che legge la Shoah come punto di arrivo dell’antisemitismo nella Storia d’Europa, o quella che considera tale evento un tassello di una più ampia storia di violenza e genocidi da collegare anche al contesto coloniale.

    Oltre ad una corretta e consapevole strutturazione dell’insegnamento in classe, occorre acquisire una piena consapevolezza dei possibili strumenti didattici. Il concetto stesso di “luogo della memoria”, ha spiegato Elena Pirazzoli, si presenta molto più ampio di come spesso viene inteso ed utilizzato. Per luogo, infatti, non si intende solo un elemento geograficamente localizzato, ma si può anche indicare una qualsiasi unità significativa, anche astratta, che rappresenta un simbolo per una comunità. Ciascun luogo di memoria può essere soggetto di “invenzione”, sia nel senso di scoperta del significato o evento storico ad esso correlato, sia nel senso di una costruzione immaginativa, quando a tale luogo vengano attribuiti significati storici, come accade a molti monumenti commemorativi. Anche i “viaggi della memoria” sono uno strumento didattico, che attraverso il tempo ha modificato usi e significati. Bruno Maida racconta le diverse fasi storiche del processo che ha reso il “viaggio della memoria”, da pratica riservata ai familiari delle vittime della Shoah, a strumento didattico. L’obiettivo di tale viaggio, suggerisce lo studioso, non deve essere la costruzione di ideologie da parte dello studente, ma l’invito ad un’acquisizione di senso di cittadinanza consapevole e partecipe.

    Foto ricordo di studenti di scuola media in occasione nel "Viaggio della memoria" del 2012

     

    L’immaginario, in conclusione, costituisce un filtro e un canale, attraverso il quale la società e gli allievi di oggi si connettono col passato tragico dello sterminio. Le conoscenze che esso veicola sono potenti e di effetto. Costituiscono da una parte un formidabile strumento di attrazione; dall’altra un altrettanto formidabile pericolo di perdere capacità di interrogarsi sugli eventi e di percepirne la drammaticità. Compito della scuola è, esattamente, tener vive le domande e costruire intelligenze capaci di farlo.

  • Si può giocare la guerra? Un convegno a Bari, il 17 ottobre.

    di Antonio Brusa

    Immagine1 Che rapporto c’è tra guerra, giochi e videogiochi? Come si può raccontare, attraverso un’attività ludica, il dramma del conflitto, l’inferno della distruzione o la minaccia del reciproco annientamento nucleare, tema tornato tristemente attuale con lo scoppio delle ostilità tra Russia e Ucraina? Trenta esperti in diverse discipline, provenienti da Italia e svariati Paesi d’Europa, ne parleranno a Bari, lunedì 17 ottobre, nella Mediateca Regionale Pugliese, in occasione di “Videogames, Guerra e Alta Cultura”.

    Tra loro, esperti e sviluppatori di videogame, giochi da tavola e wargame, docenti e ricercatori di storia moderna, romana e militare, docenti di letteratura e rappresentanti dell’editoria fantascientifica, organizzatori del Devcom/Gamescom di Colonia (il più grande evento fieristico del digital entertainment in Europa), esperti di geopolitica e collaboratori della rivista Limes, il più celebre periodico italiano dedicato a politica estera, economia e attualità internazionale. Ci siamo anche noi, di Historia Ludens e dell’Università di Bari, con una sessione dedicata all’insegnamento della storia coi giochi e, in questo caso, coi giochi di guerra. Se vuoi la pace, potrebbe essere un nostro motto, studia la guerra.

    L’evento è organizzato da Age Of Games, software house italiana con sede a Bari, in collaborazione con Apulia Film Commission, Mediateca Regionale Pugliese e Regione Puglia. Alla sua quinta edizione, il progetto “Videogames e Alta Cultura” è nato a Bari nel 2018, da un’idea di Fabio Belsanti, game designer con una formazione da storico, Roberto Talamo, teorico della letteratura e insegnante, ed Elisa Di Lorenzo, CEO di Untold Games.

    Appuntamento alle 8,30. L’evento si chiuderà nel pomeriggio alle 18. Per ulteriori informazioni sul programma della giornata e sugli ospiti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..

    Sito web: www.videogamesandhighculture.com.

    Sarà possibile assistere alla diretta streaming sul canale Youtube “Videogames & High Culture”, al link: https://bit.ly/3yk0S9A.

  • The Saigon Execution: “La foto che fece perdere la guerra”

    Laboratorio su una foto iconica: lettura e contestualizzazione*

    di Antonio Brusa 

     

    The Saigon Executione la guerra del Vietnam

     

    saigonE. Adams/Associated Press, General Nguyễn Ngọc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon (1968)All’una e trenta della mattina del 31 gennaio del 1968 i marines nordvietnamiti e i vietcong (i guerriglieri comunisti del sud Vietnam) scatenarono l’offensiva del Têt (il Capodanno vietnamita). Ottantamila soldati attaccarono contemporaneamente le più importanti città del Vietnam del sud. Contavano sulla sollevazione della popolazione, stanca degli americani e della guerra, e sul rapido disfacimento delle truppe del Vietnam del Sud, che ritenevano un esercito-fantoccio al servizio degli Usa. Si lanciarono all’attacco convinti che non sarebbero più ritornati nei loro rifugi nella foresta e che avrebbero ributtato in mare gli invasori. La loro sconfitta fu cocente. La popolazione, per quanto antiamericana potesse essere considerata, non guardava affatto con simpatia i soldati del nord e non si ribellò. L’esercito sud-vietnamita difese strenuamente le città, mentre gli americani ebbero modo di scatenare per intero la loro potenza di fuoco su bande di guerriglieri venute finalmente allo scoperto. Le cifre non consentono dubbi: i combattenti comunisti contarono circa 60 mila morti; la coalizione americana circa 4.500 (La cronistoria della battaglia su “Retestorica”;) all’offensiva del Têt e agli eventi del ’68 è dedicato il sesto episodio della Guerra del Vietnam (PBS, 2017) di Ken Burst e Lynn Novick, significativamente intitolato Tutto cade a pezzi, che sarà oggetto di analisi nell’ultima parte di questo laboratorio: altri riferimenti si troveranno nella sitografia sui movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam, curata da Antonio Prampolini e pubblicata qui, su HL.

    2mappeL’Offensiva del Têt su Pinterest (a; https://www.pinterest.it/pin/417286721693184202/) e la guerra del Vietnam secondo l’Enciclopedia Treccani (b; http://www.treccani.it/enciclopedia/vietnam/)

    La battaglia che gli americani avevano vinto sul campo fu da loro persa politicamente. Pochi giorni dopo la sua fine, nel marzo del 1968, sospesero i bombardamenti nel Nord Vietnam, chiesero l’apertura di colloqui di pace e il presidente Lyndon B. Johnson decise di non ripresentarsi alle elezioni. Il generale William Westmoreland, comandante in capo delle armate americane, che aveva chiesto altri 200 mila soldati per concludere la guerra, fu richiamato in patria. Prese il via un estenuante e contorto percorso diplomatico che portò, nel 1975, a fermare il conflitto più lungo al quale gli Usa abbiano mai partecipato (G. Herring, America Longest War. 1950-1975 , Temple University Press, Philadelphia 1979).

    Sulle ragioni del sorprendente esito di quella battaglia, storici, politici e giornalisti hanno discusso a lungo. Hanno ragionato sul costo della guerra e il peso che questa aveva sulle finanze americane, sulla mobilitazione militare della quale il nord comunista aveva dato ampia dimostrazione, insieme con la sua tenacia nel resistere a un nemico enormemente più forte, sulle titubanze e i contrasti della dirigenza americana, sullo choc della gente che si sentì ingannata dai proclami trionfali di Johnson e Westmoreland (G. W. Hopkins, Historians and the Vietnam War. The Conflitcs Over Interpretations continue, in “Studies in Popular Culture”, 23, 2, 2000, pp. 99-108, 100).

     

    La foto iconica

    Fra le cause di questa sconfitta si citano spesso i media e, in particolare, alcune foto che ebbero un successo straordinario, dal momento che apparvero su giornali e tv di tutto il mondo. Erano immagini che colpivano il lettore. Non avevano bisogno di didascalie (No caption needed), talmente chiaro era il loro messaggio sulla brutalità della guerra. Erano foto iconiche. Robert Lariman e John Lucaites ci insegnano che per definire iconica una foto sono necessarie quattro caratteristiche:

    • è conosciuta da tutti,
    • evoca delle emozioni,
    • viene replicata all’infinito dai media,
    • continua a essere replicata nel corso del tempo (No Caption Needed: Iconic Photographs, Public Culture, and Liberal Democracy, Chicago, 2007).

    Questo genere di immagini “acquista immediatamente un carattere simbolico”: lo scrisse Wicki Goldberg, la studiosa che usò per prima questa espressione – foto iconica –  per distinguere quelle che avevano il potere metonimico di sintetizzare una storia in un colpo d’occhio e, qualche volta, addirittura di cambiarla (N. Smith Damen et al. (2018), The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon e W. Goldberg, The Power of Photography: How Photographs Changed our Lives, New York, 1991).

    Tutti ne conserviamo qualcuna in qualche angolo della memoria, come il miliziano ucciso durante la Guerra civile spagnola; o il vecchio siciliano che indica la strada al ragazzone yankee appena sbarcato in Sicilia nel 1943, entrambe frutto del genio visivo di Robert Capa; il bambino di Varsavia, immortalato da un anonimo fotografo al servizio di Hitler, e l’altro bambino, Ālān Kurdî, ripreso da Nilüfer Demir, morto sulla spiaggia di Bodrum. Le conserviamo non solo per la loro bellezza tecnica e per il loro carattere simbolico, ma perché attribuiamo loro un qualche significato profondo, un “valore” che le rende importanti ai nostri occhi.

    La guerra del Vietnam ce ne ha lasciate almeno sette:

    • The Burning Monkdi Malcom Browne (1963). Thích Quảng Đức era un monaco buddista che si diede fuoco per protestare contro il regime sud-vietnamita. “Nessuna fotografia nella storia del giornalismo ha mai generato le stesse emozioni di questa”, dichiarò John Kennedy.
    • Reaching out di Larry Barrows (1966), che informò gli americani che anche i marines potevano cadere in battaglia;
    • General Nguien Ngoc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon (1968) fu scattata da Eddie Adams per le strade di Saigon. È conosciuta anche con altri nomi: Rough Justice on a Saigon Street (Giustizia sommaria in una strada di Saigon), Têt execution o Saigon Execution, dizione che userò in questo contributo. Vinse il premio Pulitzer nel 1969 e, da allora, diventò il prototipo della foto che cambia la storia (M. Astor, A Photo That Changed the Course of the Vietnam War, 1 febbraio 2018, “N.Y. Times” e  R. Hamilton, Image and Context: The Production and Reproduction of The Execution of a VC Suspect by Eddie Adams, in J. Walsh et al. (eds.), Vietnam Images: War and Representation, Editorial Board, Lumiere (Co-operative Press Ltd 1989, p. 171).
    • And Babies? (1968) è il titolo del manifesto tratto dalla foto di Ron Haeberle, fotografo dell’esercito americano, che testimoniava le atrocità del massacro di My Lay, un evento che scosse l’opinione pubblica mondiale;
    • Kent State Massacre (1970), scattata da uno studente, John Filo, per testimoniare la sparatoria della Guardia Nazionale contro i giovani che protestavano contro la guerra del Vietnam;
    • Accidental Napalm(1972), di Nick Ut, la celebre foto della bambina nuda che fugge dal villaggio incendiato dal napalm;
    • Helicopter evacuation from Sai Gon(1975), di Hubert van Es che ritrae l’elicottero che imbarca i fuggiaschi dal terrazzo della residenza del capo della Cia a Saigon.

    Al principio del suo Flags of our Fathers(2006), il film che racconta le memorie ferite dei marines che issarono la bandiera americana sul monte Suribachi a Jwo Jima, Clint Easwood accosta The Saigon Execution alla celebre foto che ritrae la scena dell’alzabandiera (Raising the Flag on Iwo Jima), per la quale Joe Rosenthal guadagnò il Pulitzer in quello stesso 1945, proprio perché entrambe – si dice nel film - ebbero il potere di cambiare la storia: questa incoraggiando la popolazione americana a sostenere una guerra che pareva a molti troppo lunga e sanguinosa; quella, la Saigon Execution, convincendola della sua crudeltà inutile.

    The Saigon execution èinclusa da "Time"fra le cento foto che contrassegnano la storia contemporanea. Oltre a questa, il 1968 – un anno record! - ne conta altre tre: l’invasione di Praga, il saluto col pugno chiuso dei quattrocentisti neri alle olimpiadi del Messico e l’Earthrise, la foto del sorgere della terra scattata da Bill Anders mentre orbitava intorno alla luna.

    Su The Saigon execution imposterò un modello di laboratorio storico per questo genere di fonte visiva che ne permetta di mettere a fuoco i problemi storico-didattici e, al tempo stesso, fornisca ai docenti qualche idea concreta di lavoro

     

    Prima fase: lettura della fonte

    Una foto iconica si presta, quasi per natura, a un percorso che parte dall’approccio emotivo e si chiude con la riflessione critica. Lo organizzo in quattro fasi, che per ragioni di comodità vengono pubblicate in due puntate.

    Nella prima fase, dopo aver chiesto agli allievi di esprimere le proprie impressioni, li si guida alla lettura strutturata della fonte. Nella seconda, si sottopongono a revisione critica gli elementi ottenuti dalla lettura: confronto tra fonti diverse, valutazione della fonte e sua contestualizzazione. Nella terza, si affronta la questione del rapporto fra passato e presente, dal punto di vista della comunicazione e dei problemi etici che questa comporta. Nella quarta, infine, si focalizza l’attenzione degli allievi sul contributo che la storiografia può dare nella costruzione di una visione critica di quell’evento. Queste fasi sono organizzate, ancora, secondo un ordine progressivo di difficoltà. Le prime due sono composte da testi brevi, molto legati all’osservazione della fonte. Nelle successive, invece, i testi sono più lunghi e invitano a riflettere su questioni sociologiche, storiche e memoriali. Come si ribadirà in seguito, ogni fase può essere svolta sia nel modo tradizionale (lezioni e lettura dei testi: non mi occupo in questa sede della valutazione), sia in forme didattiche partecipate, delle quali si fornirà sempre un modello. Tuttavia, per favorire il docente che voglia provare strategie diverse, i brani sono di lunghezza breve (escluso gli ultimi due), in modo da poter essere “montati” altrimenti.

    Scrivono Jeffrey Walsh e James Aulich, i curatori di Vietnam Images: War and Representation (cit, pp. 1-9), che un’immagine cristallizza l’evento e lo decontestualizza. Il compito dello storico è quello di riportarlo nel suo contesto.  È questo lavoro che ci permette, da una parte, di capire in profondità quell’evento e, dall’altra, di rapportarci a quello correttamente, sia pure a distanza di quasi mezzo secolo. “Rapportarsi correttamente” vuol dire fare i conti con questioni quali la memoria pubblica, l’uso pubblico della storia, la cosiddetta “memoria condivisa” e i media, nuovi e vecchi, che sono lo strumento principale di socializzazione di questi problemi. Si tratta, dunque, di fare storia, ma al tempo stesso educazione alla cittadinanza e, come si vedrà soprattutto nella seconda parte (nelle proposte di Valerio Bernardi e Giulia Perrino), convocare intorno al tema posto dalla Saigon Execution altre discipline, come la filosofia e le scienze della comunicazione e artistiche.

    In questo laboratorio i documenti e i materiali non andrebbero presentati insieme, in un unico dossier, ma poco per volta, secondo le modalità che vengono di seguito indicate. Ho cercato di realizzare un’antica idea di Scipione Guarracino, che vagheggiava un’attività nella quale ad ogni nuovo documento gli allievi fossero spinti a modificare le conclusioni fino a quel momento raggiunte (S. Guarracino, La logica della ricerca e la didattica dell’archivio, in Didattica della storia e archivi. Atti degli incontri di studio, Caltanissetta, 1-2 dicembre 1986, a cura di C. Torrisi, Caltanissetta-Roma 1987, pp. 55-85). Mi sembra una buona strategia per far rivivere agli allievi il gusto della scoperta progressiva, tipico di una ricerca scientifica.

    Dopo aver motivato i ragazzi al lavoro e fornito gli elementi essenziali di contestualizzazione (date, luogo e motivi della guerra; cenni sull’Offensiva del Têt), l’insegnante presenta la foto, chiede di commentarla o di esprimere che cosa provano guardandola. Chiede, ancora, di ipotizzare che cosa essa rappresenti. In pratica, mette alla prova il potere della fonte iconica di suscitare emozioni senza bisogno di tante parole. Afferma un manuale recente: “La fotografia cattura perfettamente la drammaticità della morte e la disumanità della guerra. Il volto contratto del condannato e quello vuoto e rilassato dell’esecutore” (A. Graziosi, a cura di, Storie. Il passato nel presente, Giunti, Firenze 2019, p. 502). Il contrasto fra i due protagonisti della foto sollecita sentimenti e pensieri. Li si trascrive man mano che vengono espressi.

    Altre domande sono suggerite dallo stesso manuale: “le immagini della violenza contro i prigionieri vietcong ebbero un effetto dirompente nell’opinione pubblica americana”. Per riprendere il titolo di questo contributo, questa fu una foto “spartiacque”. Fino a quella foto, era stata una guerra di bravi ragazzi. Dopo, cominciò ad essere una sporca guerra. Perché? Chiediamo agli allievi di congetturare delle risposte.

     

    Una lettura strutturata

    Robert Hamilton fornisce un saggio di lettura denotativa di questa foto. Può essere una guida per mettere in luce particolari sfuggiti e stilare una descrizione analitica precisa.

     

    La fotografia mostra due figure principali. Una, in uniforme, è vista di profilo, con il braccio teso mentre punta una pistola alla testa dell’altra figura, che è in posizione frontale, veste una camicia a scacchi e ha le mani dietro la schiena. La fotografia include anche due figure marginali e l’ombra di una terza; ci sono alcune costruzioni in secondo piano, che vanno da destra verso sinistra, come uno scenario indistinto e poco chiaro.  Le due figure in primo piano stanno in piedi, in contrasto tonale con lo sfondo indistinto. La postura e l’espressione indicano che il colpo è stato appena sparato.

    La scena potrebbe indicare che “un soldato o un poliziotto spara a un civile disarmato per strada” (R. Hamilton, cit., p. 172).

     

    Angie Lovelace ci fornisce, invece, un modello di descrizione fortemente connotata, “semiotica”, come la definisce (Iconic photos of the Vietnam War era: A semiotic analysis as a means of understanting, 2010). In ogni caso, una descrizione molto partecipata.

    Il boia doveva essere consapevole della macchina fotografica puntata su di lui quando ha deciso di puntare la pistola contro il vietcong prigioniero. Ha girato il corpo e il viso lontano dall’obiettivo, nascondendo così la sua espressione e lo scopo della sua azione. Dal canto suo, il volto della vittima rivela paura e l’angoscia di essere ucciso.

    La camicia scozzese spiegazzata della vittima è l'opposto della mimetica tipica di un militare. Il suo abbigliamento dice a chi guarda che non è un militare, ma un cittadino che viene colpito a sangue freddo. Viene sparato a bruciapelo, senza processo, in una strada deserta. Non viene sparato con un mitra o un fucile, armi che in genere portano i soldati, ma con una pistola. Ciò accentua la disumanità della scena, perché questa non rappresenta più un’azione militare, ma l’odio fra due uomini, o, in questo caso, l’odio fra le due parti in conflitto

    La posizione delle braccia dei due personaggi mostra la disparità del potere. Il braccio del tiratore è steso orizzontalmente. Mentre preme il grilletto, i muscoli del suo braccio si tendono, mostrando il potere che sta esercitando sulla sua vittima. Le braccia del vietcong non sono visibili; sono legate dietro la schiena. Mostrano la sua privazione di potere e la sua impossibilità di reagire. Il vietcong è immobile. Nessuno lo sta trattenendo, ma non sta cercando di scappare. Ha accettato il suo destino. Non prova nemmeno a ruotare il suo corpo o a sottrarsi al colpo di pistola e al suo destino imminente.

    Il soldato a sinistra digrigna i denti. Il suo volto mostra l’emozione per l’atto raccapricciante che sta guardando.

    Questa foto crea empatia per la vittima e criminalizza l’esecutore. Si può anche non conoscere la situazione concreta, ma questo non impedisce di simpatizzare con la vittima e considerare questa scena inumana. Questa foto mostra un atto disumano, che enfatizza la disumanità della guerra del Vietnam nel suo complesso”  (A. Lovelace, cit., pp. 40-41).

     

    Procedimento didattico

    Questi due brani possono essere usati in vari modi. Possono essere spiegati oppure dati direttamente in lettura. Il docente li può tenere per sé e utilizzare come scaletta per domande guida per l’analisi, in un dialogo informale con gli allievi. Altrimenti, in modo più formale, proporrà di completare una tabella - individualmente o in gruppi - per poi controllarla avvalendosi delle descrizioni di Hamilton e Lovelace.

    Ciò che è importante, comunque, è tenere per fermo che più attenta è l’analisi del documento, più vivaci saranno le discussioni successive.

    Particolare della foto Descrizione analitica.   Significato                       
    Testa e volto dell'esecutore    
    Testa e volto della vittima    
    Corpo e braccia dell'esecutore    
    Corpo e braccia della vittima    
    Abbigliamento dell'esecutore    
    Abbigliamento della vittima    
    Armi    
    Personaggi secondari    
    Sfondo    

     

    La scena e i protagonisti

    In questa parte del laboratorio suggerisco di dividere la classe in tre gruppi. A tutti verrà consegnato il primo testo, la descrizione della scena (di seguito: testo a). Poi si suddivideranno le tre biografie (testi b, c, d), una per ciascun gruppo. Ogni gruppo, dunque, avrà due testi da leggere e commentare. Essendo testi brevi, si può prevedere un tempo ragionevolmente ridotto. Richard Stocktonpropone una ricostruzione dettagliata della vicenda, che può servire da guida all’insegnante per seguire il lavoro dei gruppi e gestire la discussione collettiva finale, facendo attenzione a non anticipare – e bruciare così – i temi che verranno presentati successivamente (The Story Behind Eddie Adams’ Iconic “Saigon Execution” Photo, 2020)

     

    a. La scena (per tutti i gruppi)

    Il primo febbraio i marines sudvietnamiti catturarono un sospetto vietcong presso la Pagoda buddista dove si era asserragliato un commando comunista. L’unica identificazione militare del prigioniero era una pistola, del tipo solitamente usato dagli ufficiali vietcong. Indossava una camicia a scacchi e pantaloncini corti. Fu condotto per la strada, con le mani legate dietro la schiena, di fronte al generale di brigata Nguyễn Ngọc Loan, capo della Polizia nazionale. Quando il prigioniero gli si avvicinò, Loan estrasse il revolver e lo agitò per allontanare i marines. Senza dire una parola, puntò la pistola alla tempia del prigioniero e premette il grilletto. L’uomo cadde per terra, mentre il sangue schizzava dalla ferita”. (Hamilton, p. 173). Poi, diretto verso i presenti, disse: “Questa gente uccide molti americani e molti dei nostri. Buddha mi perdonerà. (C. Bonnet, L'exécution de Saïgon: quand le photographe devient l'ami du tueur, “L’OBS”, 2017)

    saigon sequence

    Dalla sequenza delle foto si capisce che il reporter ha continuato a scattare anche dopo l’uccisione. Infatti, si vede il vietcong a terra e, nell’ultima inquadratura, un soldato americano che lo riprende, dopo che gli è stato posto sul petto un numero di riconoscimento. Poco dopo, non ripreso dal fotografo, passa un camion militare che raccoglie il corpo per seppellirlo in un posto ancora sconosciuto. 

     

    b. Nguyễn Ngọc Loan (1930 – 1998)

    Loan pizzeriaLoan nella sua pizzeria “Les trois continents” - in https://vietbao.com/a279394/ky-niem-voi-tuong-nguyen-ngoc-loan

    Aveva fatto l’aviatore nell’esercito del Vietnam del sud. Apprezzato per la sua bravura, ma anche grazie ad amicizie altolocate, fece carriera diventando generale e capo della polizia di Saigon. Svolgeva il suo lavoro con estremo rigore e spietatezza. Non faceva sconti a nessuno, nemmeno agli americani, che – difatti – lo consideravano un piantagrane fastidioso. Era adorato dai suoi uomini, tenacemente anticomunista e, al tempo stesso, convinto nazionalista, con un forte senso dello stato. Così lo descrive Pham Phong Dinh, un suo amico. Sappiamo, tuttavia, che fece accordi con la mafia locale, e dai proventi del traffico di oppio ricavava denaro da distribuire ai suoi agenti (Ho Dieu Anh and Spencer C. Tucker, voce Nguyễn Ngọc Loan, in Martin J. Manning and Clarence R. Wyatt (a cura di), Encyclopedia of Media and Propaganda in Wartime America, Clio, Oxford, 2011, p. 667).

     

    Aveva trentotto anni quando gli fu assegnato il compito di difendere il quartiere dove si trovava la Pagoda buddista, uno degli obiettivi dei guerriglieri durante l’Offensiva del Têt. La foto dell’esecuzione lo rese famoso e detestato in tutto il mondo. Tre mesi dopo l’Offensiva, fu ferito gravemente. Gli dovettero amputare una gamba. Trasportato in Australia per essere curato, venne riconosciuto e costretto a ritornare in Vietnam.

     

    Oriana Fallaci scrisse di lui che era la persona più odiata di Saigon. Lo aveva intervistato mentre era in ospedale. Gli chiese il motivo di quell’uccisione brutale. Lui rispose che il vietcong sparava senza uniforme. Era un vigliacco. Lo uccise perché fu preso da un moto di collera. “Forse fui veramente cattivo - concluse congedandosi dalla giornalista -  ma colui che uccisi era forse migliore di me?” (Niente e così sia, Rizzoli, Milano 1969, pp. 203-206)

     

    Nel 1975, quando il Vietnam del Nord vinse definitivamente la guerra, scappò negli Stati Uniti, dove aprì una pizzeria. La foto continuava a perseguitarlo anche qui. Denunciato per crimini di guerra, venne assolto da un tribunale americano: fra i testimoni a sua difesa ci fu lo stesso Eddie Adams, che nel frattempo era diventato suo amico. Morì di cancro nel 1998. Adams gli dedicò un elogio sul “Time”, nel quale scrisse: “in quella fotografia morirono due persone: il destinatario del proiettile e il generale Nguyễn Ngọc Loan. Io ho ucciso il generale con la mia macchina fotografica” (Eulogy: General Nguyen Ngoc Loan, “Time”, 27 luglio 1998).

     

     c. Nguyễn Văn Lém (1931 o 1932 – Saigon, 1 febbraio 1968)

    Nguyễn Văn Lém è stato un attivista vietnamita, membro del Fronte di Liberazione Nazionale, nelle cui fila combatteva col nome di battaglia di Bai Lop. Fu sommariamente giustiziato a Saigon dal capo della Polizia Nazionale della Repubblica del Vietnam, Nguyễn Ngọc Loan, durante l'offensiva del Têt, di fronte ad un cameraman dell'NBC e ad un fotografo dell'Associated Press, Eddie Adams. Il vietcong in questione era stato arrestato in quanto sospettato di aver ucciso un ufficiale sud vietnamita, sua moglie e sei dei suoi figli (uno dei quali sopravvisse). Nella stessa azione la sua unità, della quale Lém era l'ufficiale superiore, aveva inoltre sommariamente fucilato altri 31 civili. (Wikipedia e A. Miconi, Saigon Execution 1968: “The Photo that lost the War”, in “Problemi dell’informazione”, 63, 1, pp. 63-86).

     

    mogliePhilip Jones Griffiths, (1996), Nguyễn Thi Lop mostra un giornale con la foto del marito e la medaglia al valore del Vietnam, in https://pro.magnumphotos.com/Asset/-29YL5346576G.hIl giorno in cui fu ucciso, Nguyễn Thi Lop, sua moglie – che allora aveva 30 anni ed era incinta di un mese - vide i suoi vicini riuniti attorno a un giornale e si avvicinò loro. "Guarda Loan che uccide un vietcong!" uno di loro le disse. "Capii all'istante che era Lém", dichiarò in seguito Lop, "ma non potevo dire nulla, dovevo nascondere il mio dolore e portarmelo dietro come il fardello di un venditore ambulante mentre vagavo per la città cercando di scoprire in silenzio cosa fosse successo. Ero troppo terrorizzata per avvicinarmi alla sua unità per paura di essere identificata".

    Nel 1998, in occasione della morte del generale Loan, viene intervistata da un giornalista. È una bisnonna di 66 anni che non vuole dimenticare il passato. Ha battezzato sua figlia Loan “nel tentativo di purificare l'anima dell'uomo che lei chiama il male". Dice: “Una sola cosa avrei voluto: incontrare Loan e chiedergli perché aveva ucciso mio marito” (War secret dies with killer of Saigon, in “South China Morning Post”, 23 luglio 1998). Non serba rancore nei confronti del fotografo, perché solo grazie a lui – dice – si è conservato il ricordo di Lém, del quale non si trovò nemmeno il cadavere.

     

    Saigon Execution è esposta nel Museo della Guerra di Ho Chi Minh City (il nome odierno di Saigon). Nel nuovo contesto ha cambiato significato. Non testimonia la lotta fra mondo libero e comunismo né l’orrore della guerra. È il simbolo dei “tormenti del Vietnam” (R. Hamilton, cit., p. 181) e della guerra per la liberazione nazionale, per la quale Nguyễn Văn Lém è un eroe.

     

    d. Eddie Adams

    È il terzo protagonista di questa scena. Non compare nella foto, ma senza di lui quell’uccisione non sarebbe diventata l’Esecuzione di Saigon.

    Eddie Adams si era specializzato nei fotoreportage di guerra sotto le armi, avendo combattuto in Corea nel corpo dei marines, al principio degli anni ’50. Poi aveva cominciato a lavorare per l’Associated Press (AP), la più grande agenzia americana di fotogiornalismo. Nella sua lunga carriera ha scattato migliaia di foto, che gli avevano meritato oltre 500 premi e riconoscimenti di vario genere. Ma la foto per la quale è ricordato, e che lo rese celebre, fu proprio l’istantanea dell’uccisione di Nguyễn Văn Lém.

     

    meme lezamaIl fotografo vittima della sua foto. Montaggio (meme) di Julio Lezama, in Victimas o Victimarios, cit.Confessava di sentire quasi un senso di colpa per quella foto. Per lui, il Generale Nguyễn Ngọc Loan era una brava persona, un eroe che la foto trasformò in un mostro. In quei giorni Saigon era piena di cadaveri. Si sparava a vista contro chiunque. La foto non racconta tutta la storia – diceva - ma solo un pezzo. Racconta bugie e il generale ne era stato una vittima.

    Ma anche lui, in qualche modo, ne era una vittima. Si sentiva perseguitato da quella foto. Diceva di aver realizzato decine di reportage nei quali “nessuno si era fatto male”. Non gli piaceva di essere ricordato solo per quell’assassinio. Non sopportava, lui – ex-marine e sostenitore degli Usa – che la sua foto venisse usata come simbolo della politica militarista degli Stati Uniti dagli studenti che, nel frattempo, occupavano le Università e manifestavano nelle piazze di tutto il mondo. Non sopportava che fosse diventata “un dannosissimo e perfetto strumento di propaganda nelle mani del Vietnam del nord” (R. Hamilton, cit.,  p. 179).

     

    Quando il generale estrasse la pistola, pensava che l’avrebbe usata per minacciare il prigioniero, per farlo confessare. Dichiarò che non avrebbe mai immaginato che avrebbe sparato (BB news, 29 gennaio 2018). Ma, dopo il colpo, Loan si voltò verso di lui e disse che quell’uomo aveva ucciso molti americani e molti vietnamiti (qui Eddie Adams parla della Saigon Execution, nel 2008).

     

    Discussione e lezione conclusiva

    I tre gruppi, dopo aver letto e discusso brevemente le biografie, confrontano le loro conclusioni. Tutti insieme, poi, verificano le impressioni espresse all’inizio dell’attività. Erano corrette? Vanno modificate e in che modo? È accettabile l’assunto che una foto iconica “non ha bisogno di didascalie”?

    Può essere usato come “innesco della discussione” questo testo di Julio Lezama, che gioca molto sull’emotività. Nel caso l’unità di lavoro finisca qui, l’insegnante terrà conto – per la sua lezione conclusiva - dell’andamento del dibattito, dei problemi emersi e, soprattutto, dei nuovi dati presentati nella seconda fase.

     

    TRE FOTO

     (J. Lezama, Victimas o Victimarios, cit., con qualche modifica)

     

    Seconda fase. Lettura critica e contestualizzazione della fonte

    Adams pulitzerEddie Adams riceve il Premio Pulitzer nel 1969 e mostra la foto premiata, in J. Lezema, Victimas o Victimarios cit.

     

    Procedimento didattico

    Questa seconda fase si apre con uno schema riassuntivo delle conclusioni raggiunte, che si potrebbe comporre con l’aiuto di questa tabella:

     

      Le nostre conclusioni
    Eddie Adams  
    Nguyễn Ngọc Loan  
    Nguyễn Văn Lém  
    Impatto della foto con il pubblico  
    Incidenza della foto nella guerra  

     

    Anche in questa seconda fase consiglio tre gruppi di discussione:

    • sulla produzione della fonte iconica (testo e);
    • sul’affidabilità dei testimoni (testo f);
    • sul suo impatto sul pubblico (testo g).

    L’insegnante consegna a ciascun gruppo uno dei tre testi (e, f, g), insieme con quelli già esaminati nella prima fase (a, b, c, d). Quindi ogni gruppo avrà un dossier di cinque testi su cui lavorare, dei quali almeno due già letti e commentati. Essendo, anche in questo caso, testi brevi, si prevedrà un tempo ragionevolmente ridotto. Terminata l’analisi, ci si riunisce e si decidono le eventuali modifiche da apportare allo schema iniziale. Come per la fase precedente, se il lavoro ha preso troppo tempo, si può chiudere a questo punto con la lezione conclusiva. Altrimenti, si passerà alla terza fase.

     

    Il laboratorio di discussione

    Come abbiamo appena detto, l’insegnante consegna a ciascun gruppo il piccolo dossier e i gruppi si riuniscono separatamente per discuterlo. Questa volta, però, sono necessarie alcune avvertenze, dal momento che i nuovi testi metteranno in luce delle contraddizioni e faranno sorgere molti dubbi.

    La rete – e, in genere, la storia pubblica -  ci ha abituato a paralogismi, derivanti in larga misura dall’impianto argomentativo del negazionismo. Nel nostro caso in particolare, occorrerà fare attenzione alla regola del “falsum in uno, falsum in toto”, tipica dei legal thriller in tv e ampiamente usata nella storia “faidate”. Un testimone dice una bugia, dunque è screditato e la sua testimonianza va rigettata interamente. (Su questa “parastoria” sono già intervenuto qui, su HL).

    L’assunto storico, invece, è che tutti i testimoni “dicono bugie”, nel senso che raccontano la realtà dal loro punto di vista, e nel senso ancora che, col passare del tempo, cambiano opinione e riformulano la loro esperienza (la storiografia ha ampiamente lavorato su questi punti). Le regole della parastoria sono, a ben vedere, delle scorciatoie per pigri. La bravura dello storico è proprio quella di lavorare con pazienza sulle testimonianze, rispettandole tutte, eliminare “le scorie” e cercare di delineare una ricostruzione della realtà alla quale la fonte fa riferimento, mai facile e lineare, sempre piena di dubbi.

    Posti, dunque, di fronte a questi nuovi documenti, sarà possibile che gli allievi ricorrano a qualcuno degli espedienti conoscitivi parastorici: “allora tutto è falso”, “allora questo testimone è un imbroglione”, “allora non si può sapere cosa accadde”. Il docente sceglie se prevenire le possibili interpretazioni sbagliate con una breve lezione prima del laboratorio, oppure aspettare gli allievi al varco, con le loro interpretazioni spontanee, e discuterne con loro. “Ogni documento è menzogna. Sta allo storico di non fare l’ingenuo”: Jacques Le Goff scrisse questa regola aurea nel 1978. Vale anche per le foto iconiche (potrà essere utile attrezzarsi con la rilettura della voce monumento/documento dell’Enciclopedia Einaudi).

    Nella redazione del testo riassuntivo della discussione, dunque, il fatto in sé non va messo in dubbio. Susan Sontag, la celebre scrittrice e studiosa della fotografia, ci assicura che non c’è alcun motivo per sospettare dell’autenticità di quello che vediamo nella foto che Eddie Adams scattò il primo febbraio del 1968 (S. Sontag, Regarding pain of the Others, Picador, N.Y. 2003, p. 47). Le domande, le incertezze, le ipotesi, le suggestioni contrastanti riguarderanno i motivi di questa azione, le intenzioni dei protagonisti, il suo significato, il contesto e l’impatto che questa ebbe sulla società.

    Ecco i nuovi testi da consegnare agli allievi.

     

    e. La produzione della fonte

    Eddie Adams è solo uno dei 537 addetti stampa che seguono la guerra. L’Associated Press (AP), l’agenzia per la quale Adams lavora, è presente in forze con più di venti fotografi. Ogni giorno di guerra vengono scattate migliaia di foto. Solo poche di queste passano il filtro delle redazioni e vengono comprate dai media. Solo pochissime diventeranno le “foto che tutti guardano”, quelle che ti rendono famoso. Si può immaginare quanto sia spietata la concorrenza fra i reporter. Confessa Horst Faas, rivale acceso di Adams: "Cercavo di apparire sui giornali ogni giorno, per battere la concorrenza con foto migliori" (A. Hamilton, Horst Faas. The Chronicler of Vietnam who captured horror, 2012).

     

    E, per converso, poiché i media erano una macchina enorme che viveva delle loro foto, si può immaginare quale pressione le diverse agenzie fotografiche esercitassero sui fotoreporter, spingendoli a correre rischi a non finire pur di scattare un’istantanea di successo. Non dobbiamo dimenticare che, nel corso di quella guerra, ben 135 di loro persero la vita (T. Bartimus, A homage to the photojournalists lost to decades of war in Vietnam, 29 aprile 2020). 

     

    Adams era supportato da una troupe della NBC, una delle più importanti reti televisive americane, che lo seguiva nella sua caccia. Quella mattina, dunque, quando si seppe che un vietcong era stato catturato, il gruppo di giornalisti si precipitò per strada, seguì il drappello di soldati che scortava il prigioniero e, quando questi fu portato di fronte al generale, si schierò per riprendere ciò che sarebbe accaduto. Questo vuol dire che la foto mostra unicamente alcuni dei partecipanti alla vicenda. Ma il generale Loan non è solo con la sua vittima. Ha di fronte a sé un gruppo di fotoreporter e cameramen, con i loro assistenti, armati di macchine fotografiche, telecamere e microfoni. Sa che, attraverso loro, è osservato da un pubblico mondiale. Loan, quindi, vuol dare una lezione al mondo. “Non avrebbe giustiziato sommariamente il sospetto vietcong se non ci fossero stati dei giornalisti a testimoniarlo”, conclude lapidariamente Susan Sontag (S. Sontag, Regarding pain of the Others, Picador, N.Y. 2003, p. 47).

     

    È versaigon camera oscuraThe Saigon Execution, nella camera oscura, dopo essere stata sviluppata, viene messa ad asciugare.o che, successivamente, Adams ebbe a dolersi di questa foto. Aggiunse, per rincarare la dose, che era una foto sbagliata, fatta male, che non l’avrebbe mai voluta scattare (M. Persivale in “Corriere della Sera”, 24 dic. 2009) . Ma Peter Arnett, uno dei giornalisti americani più famosi e seguiti, racconta di quella notte in cui Adams sviluppò i negativi, aiutato proprio da Horst Faas che li esaminava con la lente di ingrandimento: rivela che quando questi vide la foto “mormorò 'maledetto' e consegnò il film a Eddie che lo guardò e lanciò un ‘whoop’ ". I due fotografi avevano capito a colpo d’occhio che quella foto valeva oro (In guerra con Eddie Adams, “The digital Journalist”, ottobre 2004). Infatti, quando il rollino giunse nella sede dell’AP, i giornalisti esplosero in esclamazioni di giubilo (R. Hamilton, cit., p. 182).

     

    f. L’affidabilità dei testimoni

     

    Non abbiamo testimonianze dirette e al tempo stesso complete della Saigon Execution. I testimoni raccontano i particolari poco per volta, spesso dopo anni. Per esempio: che cosa disse Loan, dopo aver ucciso il vietcong? Adams, in varie occasioni, dichiarò che pronunciò queste parole: "Ha ucciso molti dei miei uomini e molti della tua gente". Questa frase viene riportata concordemente dalla stampa del tempo (R. Hamilton, cit., pp. 175-176). Invece, secondo David D. Perlmutter, studioso di foto iconiche che scrive nel 2004, Lém avrebbe detto: “Molti americani sono stati uccisi in questi ultimi giorni e molti dei miei migliori amici vietnamiti. Ora lo capisci? Buddha lo capirebbe”. Altri, ancora, specificano: “Buddha mi perdonerà”. (C. Bonnet, cit., 2017). Ma noi possiamo pensare, leggendo l’intervista di Oriana Fallaci, che Loan era cristiano (“aveva un crocifisso al collo”). Quanto sono credibili le aggiunte?

     

    Inoltre: come faceva Loan a sapere che Lém aveva ammazzato senza pietà una famiglia intera? La sequenza delle foto, e più ancora il video girato dalla NBC, non sembrano lasciare spazio a un momento in cui il generale viene informato. Il prigioniero arriva e viene immediatamente giustiziato: il tutto in meno di dieci secondi. Nella ricostruzione di Ken Burns, il viet cong arriva, Loan ordina a un soldato di ucciderlo, e quando questo indugia, allontana tutti agitando la pistola, dice “ti giustizio” e lo uccide. (In The Execution of a vietcong, History Channel, 2016, min. 2.20-2.30, con spezzoni di intervista a Adams e alla moglie di Lém).

     

    Le precisazioni si aggiungono e si accavallano col passare del tempo: ha ucciso una famiglia intera, con i nonni e i bambini; no, era la famiglia di un amico di Loan; in più, ha ordinato la fucilazione di oltre trenta civili. Oriana Fallaci chiede a Loan perché non divulgò subito i crimini commessi da Lém. Lui rispose, con uno scatto di orgoglio, che non aveva bisogno di giustificazioni. Potremmo rivolgere la stessa domanda all’Amministrazione Usa, quando si accorse che la foto stava diventando uno strumento della propaganda antiamericana. Perché non dirlo subito, per fermare l’uso ostile di quella foto? Nel 1985, Ted Welch notava una contraddizione in una intervista che Adams aveva appena rilasciato a “Newsweek”. Questi, infatti, aveva affermato che “quell’uomo aveva ucciso il miglior amico di Loan e tutta la sua famiglia”. Welch trovava che questa coincidenza fosse difficile da credere, e si chiedeva perché Loan (o Adams stesso, aggiungiamo noi) non avesse divulgato questa informazione, data l’attenzione pubblica che l’esecuzione aveva richiamato” (R. Hamilton, pp. 181 s.).

     

    Lém, il vietcong, è veramente un assassino spietato? La moglie sostiene che non ha mai fatto nulla di male e che, in realtà, lo si è confuso con un'altra persona. Notizia ripresa dalla versione vietnamita di Wikipedia che mette in dubbio l’identità della vittima.

     

    g. L’impatto sociale della fonte

    Lo ripetono in molti, quasi come un mantra, nei commenti e nei libri che parlano della Saigon Execution: quella foto fu una bomba psicologica che allontanò la maggioranza della popolazione dal sostegno alla guerra e costrinse l’amministrazione americana a iniziare una procedura di sganciamento. È la foto che fece perdere la guerra.

     

    Sostiene questa tesi Peter Braestrup, fotoreporter tra i più impegnati in quella guerra (Big Story: How the American Press and Television reported the Crisis of Tet 1968: vedine la buona recensione di George Herring, 1979). Ma di parere decisamente diverso è Don Oberdorfer, anche lui un giornalista sempre presente sui campi di battaglia.

     

    Potremmo continuare con le citazioni: la discussione fra gli addetti ai lavori è inesauribile. Per trovare qualche punto fermo, dobbiamo uscire da quel dibattito e cercare tracce concrete dell’impatto popolare della foto. Se, dunque, andiamo a vedere i sondaggi, questi ci danno un risultato paradossale: da una parte aumentano coloro che pensano che la guerra verrà perduta; ma dall’altra, ed è questo che ci interessa, i sostenitori della guerra non diminuiscono affatto, anzi aumentano. Infatti, i contrari all’intervento americano, che erano il 52% nel febbraio del 1967, scesero al 42% un anno dopo, a foto già pubblicata (W. M. Hammond, The Tet Offensive and the News Media, in “ Army History”, 70, 2009, pp. 6-16, 9 ). David D. Perlmutter (2004) scrive che “non c’è nessuna prova che questa foto abbia avuto un effetto significativo sulla pubblica opinione americana”. E conclude il suo studio sulle fonti iconiche sostenendo che quello della “foto che fece perdere la guerra” è solo un mito. 

     

    Ciò che va in crisi – continuano a raccontarci le ricerche sul campo -  è la fiducia in Lindon Johnson, il Presidente americano. La gente non crede più che sia la persona adatta a guidare la nazione. Contro di lui si schierano, quindi, sia i pacifisti, che lo accusano di aver aumentato a dismisura l’impegno americano nel Vietnam, sia i "falchi frustrati", i sostenitori della guerra che lo avevano appoggiato fino a quel momento, ma che ora vogliono che venga sostituito da un nuovo condottiero. (P. Hagopian, The “Frustrated Hawks, Tet 1968, and the Transformation of American Politics, in “European Journal of American Studies, 2008, numero speciale sul ’68).

     

    Ma non si tratta di interpretazioni spontanee. Perché l’icona sviluppi le sua forza ha bisogno di persone, di apparati che ne guidino la lettura. Il potere sociale della foto non promana dall’immagine in quanto tale (N. Smith Dahmen et al., The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon).

     

    Quella foto fu usata dall’apparato propagandistico vietnamita e in tutto il mondo diventò il simbolo dell’aggressione americana. Fu autentica benzina per i movimenti contestatori pacifisti, ma – osserva Martin Kemp – “potremmo supporre che venisse usata anche per dire ai Vietcong : “ecco cosa vi può capitare …” (Christ to Coke. How image become ikon, Oxford U.P, 2012, p. 207). Forse fu proprio questa sua duttilità che non dissuase gli americani dal loro appoggio alla guerra e dal desiderio “di fargliela pagare” ai guerriglieri comunisti. D’altra parte, non ci erano riuscite le ben quarantamila immagini prodotte e fatte circolare dal movimento pacifista. Ciò che questa foto ottenne (o rinforzò) fu il giudizio negativo sul modo con il quale l’amministrazione stava conducendo quella guerra, ma non sulla guerra in sé. (D. Kunzle, Killingly Funny: US Posters of the Vietnam Era, in Vietnam lmages: War and Representation, cit., pp. 112-122).

     

    Inoltre, in quel 1968 avvennero altri fatti gravissimi che sconcertarono gli elettori americani e che influirono nell’orientarli politicamente: l’assassinio di Martin Luther King, il leader del movimento per i diritti civili dei neri (15 gennaio); l’assassinio di Bob Kennedy, il fratello di John, che privò del suo principale candidato l’ala progressista del partito Democratico (6 giugno). Il 20 agosto le truppe del patto di Varsavia invasero Praga e – evento probabilmente decisivo – il 26 agosto la Convention del partito Democraticosi spaccò fra i sostenitori della guerra – i falchi frustrati – e i pacifisti, . Questa degenerò in scontri violenti, nei quali intervenne brutalmente la polizia. Ha scritto di recente Louis Menand che da quel momento gli elettori bianchi abbandonarono il partito Democratico, come apparve chiaramente alle elezioni presidenziali del successivo 5 novembre, che consegnarono a Richard Nixon la palma del vincitore (David Culbert discute l’impatto complessivo di questi eventi sull’opinione pubblica americana in Television's Visual Impact on Decision-Making in the USA, 1968: The Tet Offensive and Chicago's  democratic National Convention in “Journal of Contemporary History”, 33, 3, 1998, pp. 419-449).

     

    La foto ebbe certamente il potere di deprimere il Presidente Johnson, al punto da spingerlo a non ripresentarsi per il secondo mandato. Ebbe un grande impatto sulle élites mediatiche, sui giornalisti, la gente di cultura, i politici, i giovani del Sessantotto. Sul resto della popolazione – la maggioranza - non sembra aver avuto lo stesso effetto. Con le parole di Perlmutter: “The Saigon Execution colpì Johnson, ma non la gente, che non si lascia convincere da una sola foto, e per la quale la vittima era comunque un nemico, uno che spara ai nostri ragazzi”. William M. Hammond è ancora più chiaro: “Quello che la maggior parte del pubblico pensava aveva poco a che vedere con quello che presumevano i critici dei media” (The Press in Vietnam as agent of defeat, in “Reviews in American History”, 17, 2,1989, pp. 313-323, 315).

     

    “Il punto cruciale, quindi, è che il contesto più importante - e spesso trascurato - della valutazione di un'immagine iconica sono i pregiudizi del pubblico; come sempre, credere è vedere. Le persone possono guardare qualsiasi immagine e creare ciò che vogliono farne. I commentatori d'élite si inoltrano su un terreno psicologico molto incerto quando affermano che qualsiasi immagine "naturalmente" provoca una certa reazione. Un'immagine può essere "divertente" per una persona e "rivoltante" per un'altra”. (N. Smith Dahmenet al., cit.).

     

    Il punto sul dibattito in classe

    Il dossier appena esaminato dovrebbe permettere alla classe di giungere a nuove conclusioni, con le quali modificare quelle che hanno aperto questa seconda fase.

    Che cosa ci dice della guerra del Vietnam questa foto, se la guardiamo al di fuori del suo contesto? Nulla di più di ciò che si deve dire, normalmente, di qualsiasi guerra. L’orrore della morte. Nelle guerre si uccide e si viene uccisi. La fonte aggiunge a questa informazione una emozione così violenta da indurre un forte senso di ripulsa. È probabile che questa sia la reazione di tutti, ieri come oggi. Ma “ripudiare la guerra in generale”, come abbiamo visto, non equivale al rigetto di quella guerra particolare.  

     

    Ciò che interessa lo storico non sono (soltanto) le reazioni emotive. Sono piuttosto i giudizi e le conseguenze che ne ricava il destinatario di quella foto. Questo laboratorio dovrebbe aver permesso di scoprire che, nel passato, ognuno vi ha ascoltato e visto cose diverse: il vietnamita, il giovane contestatore, il presidente Johnson o il suo successore, Richard Nixon, un esponente della minoranza colta o della maggioranza popolare americana. Ognuno ha visto nella foto qualcosa che confermava suoi convincimenti precedenti.

     

    Questo laboratorio, di conseguenza, ha posto il problema di cosa possiamo vederci noi. Innanzitutto, ci ha indotto a prendere qualche distanza dalla lettura spontanea di una fonte iconica. Forse è proprio questa che favorisce la mitologizzazione dell’immagine. Nell’analisi micro (la scena dell’esecuzione), abbiamo osservato, invece, che quella foto non ci racconta di protagonisti completamente cattivi, né di vittime del tutto innocenti. Per quanto riguarda il contesto generale, abbiamo intravisto una macchina poderosa, quella dei media, che agisce in una situazione politica e militare complessa, che si avvale di questa foto come di un potente strumento di combattimento. Quella foto, dunque, non ci informa sulla guerra (della quale non ci dice molto di più di quello che sappiamo da altre fonti e, oltre tutto, ce lo dice anche con qualche incertezza), ma è essa stessa un’arma di quella guerra. Se la guerra è un orrore, quella foto non va considerata da noi come uno “spiraglio per guardarlo meglio”, ma come uno degli strumenti in qualche modo coinvolto nella sua produzione.

     

    Certo, di molta parte delle testimonianze di guerra si può dire che sono talmente coinvolte nel conflitto da farne parte attiva. Lo specifico della foto iconica è proprio in quella sua potenza evocativa che fa pensare a tutti (anche a molti studiosi) che non ha bisogno di didascalie. No captions needed. Ma, senza parole, l’icona può essere piegata a molte interpretazioni e, quindi, usata da molti soggetti. "Il potere delle immagini iconiche non è una forza unica che copre tutte le eventualità. Piuttosto, un'immagine iconica può avere potenzialità diverse che possono o meno coincidere con l'interpretazione di quell'immagine o il modo in cui tale immagine viene impiegata”. (N. Smith Dahmen et al., cit., The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon).

     

    *questa è la prima parte di un articolo sulla Saigon Execution, a sua volta parte di un corposo intervento di HL sul Sessantotto, composto da due interventi su “Sessantotto. Un anno spartiacque”, scritti da me; da due sitografie sul Sessantotto e una sui movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam, scritte da Antonio Prampolini; una presentazione multimediale interattiva per svolgere il laboratorio con una LIM oppure a distanza, curata da Lucia Boschetti. 

  • The Saigon Execution. Il laboratorio a distanza

    di Lucia Boschetti

     

    A casa, in classe, un po’ e un po’… ma continuiamo i laboratori!

    Come integrare uno dei laboratori di Historia Ludens (o qualunque altro!) in una lezione a distanza?

    Una possibilità è offerta da un software ad utilizzo gratuito (per la versione base), che si chiama Pear Deck.

    Pear Deck offre una serie di componenti aggiuntivi da utilizzare su Google presentazioni. Inserendo uno di questi componenti all’interno di una slide, la si rende interattiva: ciò significa che gli studenti non si limitano a guardarla, ma devono compiere le operazioni richieste.

    In tempi di dubbi sul numero di studenti che possono contemporaneamente seguire una lezione in classe o a distanza, questa soluzione è ottimale: possiamo interagire contemporaneamente e nello stesso modo con due gruppi, uno in presenza e uno connesso da casa. Per questa ragione, mi è sembrato sensato proporre in questo momento dei materiali già predisposti, che permettano a docenti che non lo hanno mai sentito nominare di servirsi di questo strumento con facilità.

    A questo scopo, la prima presentazione interattiva che propongo è costruita sul laboratorio The Saigon Execution e la guerra del Vietnam.

    infografica

    In generale, l’applicazione Pear Deck può essere utilizzata in tre modi:

    1) in maniera sincrona in presenza, svolgendo il laboratorio in classe e proiettando le slide alla LIM. In questo modo, le risposte degli studenti possono essere visualizzate anonime e commentate collettivamente: sarà il docente a gestire la visualizzazione delle diapositive e, quando crede, delle risposte, mentre gli studenti, sui loro smartphone, visualizzeranno le slide seguendo il ritmo imposto dal docente. Per ciascuna diapositiva vedranno la consegna dell’attività da svolgere e la propria risposta, ma non le risposte degli altri.

    2) in maniera sincrona a distanza, connettendosi dallo smartphone o da un computer alla presentazione in corso. Vale quanto detto per la modalità 1 per quanto riguarda la visualizzazione docente/studenti.

     

    Le opzioni 1 e 2 possono essere mescolate: è sufficiente che, nel momento in cui si avvia la presentazione in classe, si connettano ad essa anche gli studenti che seguono tramite videochat. Poiché il computer di classe trasmette alla LIM, il risultato sarà che sia il gruppo classe in presenza sia gli studenti connessi in remoto seguiranno la stessa attività e le risposte degli uni e degli altri compariranno alla LIM insieme, quando il docente deciderà di renderle visibili.

    Nei casi 1 e 2, quando il docente avvia la presentazione deve scegliere la modalità “Instructor-paced activity”: ciò significa che solo lui potrà gestire il ritmo di scorrimento delle diapositive. Quando arriverà alla slide numero 7, per permettere agli studenti di svolgere i lavori di gruppo dovrà selezionare la modalità “Student-paced activity”.

     

    Il docente può sempre passare da una visualizzazione all’altra cliccando sui tre puntini che compaiono in basso a destra durante la presentazione.

    Schermata 2020 06 15 alle 14.20.50 Se una parte della classe è connessa in remoto, la cosa migliore è formare due gruppi con gli studenti in presenza e un terzo gruppo in videochat: sarà sufficiente che il docente spenga l’audio del computer di classe durante il lavoro di gruppo, lasciando gli studenti connessi a dialogare tra loro. A seconda del numero degli studenti, si potranno moltiplicare i gruppi: se gli studenti connessi in remoto lavorano in più gruppi, ciascuno si riunirà in una stanza virtuale separata.

     

    3) Una terza possibilità è usare la presentazione Pear Deck in maniera asincrona, nel qual caso l’insegnante avrà precedentemente svolto la lezione di contestualizzazione, oppure fornirà agli studenti una breve registrazione di avvio, lasciando al lavoro dei gruppi tutta l’analisi delle fonti. Nel caso 3 il docente avvierà fin dall’inizio il laboratorio selezionando la modalità “Student-paced activity”. È bene tenere presente che quando il docente avvia la presentazione in questa modalità cliccando su “End/Termina” compaiono due diverse opzioni: la prima comporta l’interruzione della presentazione per tutti i partecipanti, mentre la seconda chiude la presentazione sul computer del docente, che può dunque allontanarsi, ma la lascia attiva per gli studenti, finché il docente, riconnettendosi, non la interrompe.

    Ovviamente, in questo caso starà all’insegnante selezionare, seguendo l’articolo principale, i passaggi che richiedono necessariamente la sua presenza. I gruppi si riuniranno autonomamente in videochat.

     

    Qui potere accedere alla presentazione digitale completa del laboratorio The Saigon Execution e la guerra del Vietnam. La presentazione include dei componenti aggiuntivi che rendono interattive alcune delle slide. I caratteri utilizzati in tutti i testi sono piuttosto piccoli: questa scelta è stata compiuta intenzionalmente per mantenere i testi all’interno di una slide, dal momento che ciascun utente può regolare lo zoom. I materiali non sono, quindi, adatti per la stampa.

     

    Quali sono e come funzionano le slide interattive?

     

    Le slide interattive sono identificate dal simbolo della pera che compare in basso a sinistra.  simbolo PD Questo articolo è rivolto a insegnanti utilizzano per la prima volta presentazioni con i componenti aggiuntivi Pear Deck: per questa ragione, il numero e la tipologia delle slide interattive sono limitati. Nelle prossime puntate troverete presentati altri componenti aggiuntivi.

    Le slide da 1 a 4 sono classiche, con l’avvertenza che la slide 3 contiene i link a due filmati presenti su youtube per presentare la serie The Vietnam War di K. Burns e L. Novick. Entrambi i video sono in inglese: se il docente non intende usarli, può semplicemente tenere la slide di sfondo mentre avvia la contestualizzazione della guerra, così come suggerito nell'articolo di Brusa.

     

    Le slide 5 e 6 sono contrassegnate in basso dal simbolo della pera e dal comando “Students, draw anywhere on this slide”. Dai loro smartphone o pc, gli studenti possono selezionare la modalità testo cliccando su T e scrivere nei punti della slide sui quale cliccano: questo permette a ciascuno di scrivere in corrispondenza delle righe delle due tabelle.

     

    La slide 7 spiega come affrontare il lavoro di gruppo: andranno individuati alcuni ruoli tra i membri e tutti dovranno partecipare alla discussione. In particolare, si segnalano due ruoli: il segretario, che avrà il compito di prendere sinteticamente nota di tutti gli interventi nel corso del dibattito di gruppo; e l’addetto stampa, che dovrà compilare un breve resoconto finale. Una volta spiegati i ruoli, l’insegnante avvierà la modalità “Student-paced” e lascerà ai gruppi il tempo di lavorare sui testi proposti.

    In questo modo, gli studenti del gruppo A scorreranno la presentazione fino alla slide 8, contrassegnata dal colore giallo che corrisponde al loro gruppo; quelli del gruppo B fino alla slide 9 (colore rosso) e quelli del gruppo C fino alla slide 10 (colore azzurro). Se si decide di far lavorare più gruppi sullo stesso materiale documentale, basterà indicare loro su quale slide soffermarsi.

     

    Le slide da 8 a 11 e la successiva slide 15 sono identificate dal comando “Students, write your response”: in questo caso gli studenti non selezionano un punto della slide nel quale scrivere, ma inseriscono la risposta come se fosse un messaggio di testo.

     

    La slide 13 contiene l’ultima forma di interattività utilizzata in questa presentazione: chiede allo studente di selezionare, tra quattro opzioni, la sua disponibilità a intervenire nella discussione.

    L’utilizzo di questa slide si basa sul presupposto che l’insegnante può visualizzare le risposte degli studenti sul proprio computer mantenendo la LIM in modalità freeze (selezionandola con il telecomando dall’apposito tasto), cioè senza modificare la proiezione. In alternativa, gli insegnanti che attivano la modalità Premium dell’applicazione possono usufruire della visualizzazione privata delle risposte degli studenti accedendo al Teacher Dashboard.

     

    La slide 16 contiene il link ai testi per la seconda fase della lezione (testi e, f, g dell’articolo originale): in questo caso il link permette solo di visualizzare o scaricare il documento, come in un classico ipertesto.

     

    Riepilogando, nella presentazione sono state inserite tre modalità di interazione:

    1) risposta da inserire in un punto preciso della slide (oppure disegno, ma in questo caso non serve);

    2) risposta da digitare come messaggio di testo;

    3) risposta a domanda a scelta multipla.

     

    Pear Deck offre componenti aggiuntivi: il che significa che questi tre componenti base possono essere aggiunti a qualunque slide, anche ad una presentazione realizzata offline con power point e caricata su Google presentazioni. Allo stesso modo, sia le slide che i singoli componenti possono essere eliminati da questa presentazione modello per personalizzarla in base alle esigenze del docente.

     

    Ok, come faccio ad iniziare?

     

    Per utilizzare la presentazione modello è necessario disporre di un account Google (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) e seguire le istruzioni:

    1. Cliccate sul link e create una copia della presentazione, che si salverà nella cartella Drive associata al vostro account. Questo link si riferisce alla presentazione del laboratorio The Saigon Execution e la guerra del Vietnam, ma con la stessa procedura si può accedere a tutte le presentazioni create con Pear Deck.

     

    Schermata 2020 06 15 alle 14.18.23 2. Cliccate su Componenti aggiuntivi> Pear Deck for Google Slides Add-on e poi su Installa. A questo punto, avete installato i componenti aggiuntivi: pochi passi e avrete finito!

    3. Cliccate di nuovo su Pear Deck for Google Slides Add-on: questa volta non compare più “installa”, ma “Open Pear Deck Add-on”, che andrà cliccato.

     

    Schermata 2020 06 15 alle 14.18.40 4. Date il via alla presentazione selezionando “Start Lesson”, il bottone verde.  

    5. Scegliete l’opzione di sinistra per la modalità asincrona, quella a destra per la modalità sincrona (potrete cambiare in seguito, quando necessario)

    La presentazione si lancerà automaticamente su una nuova scheda del browser: non utilizzerete un software off line (per esempio, Power Point), ma gestirete la presentazione direttamente dal browser (per esempio, Google Chrome). Durante il primo utilizzo, vi verrà chiesto di concedere una serie di autorizzazioni, sempre autentificandovi con il vostro account google.

    Schermata 2020 06 15 alle 14.24.36 6. Avvisate i vostri studenti di collegarsi dal loro dispositivo, computer o smartphone, al sito joinpd.com e di inserire il codice della lezione che compare sul vostro schermo: da questo momento, seguiranno la lezione direttamente, con la possibilità di interagire. Quando almeno uno studente si sarà connesso, potrete premere play e iniziare la lezione.

    7. Nelle slide interattive, cliccate sulla barra in basso, sul pulsante “Show Responses”/”Hide Responses” rispettivamente per mostrare o nascondere le risposte (visualizzerete il numero di risposte già date).

    8. Ogni sessione di presentazione viene salvata per 30 giorni: in questo arco di tempo avete la possibilità di scaricare gratuitamente, in formato excel, un resoconto di tutte le risposte che sono state date da ciascuno studente su ogni slide. Per farlo, anziché avviare la presentazione cliccando sul bottone “Start lesson”, selezionate le tre linee orizzontali alla sua destra e cliccate su “Review Session”. Ciascuna sessione compare in ordine cronologico: cliccando sui tre puntini a destra è possibile esportare i dati e salvarne una copia sul proprio computer. 

     

    Dubbi? Potete seguire i video tutorial

     

    Questi video tutorial sono stati realizzati seguendo passo passo l'apertura della presentazione per il laboratorio The Saigon Execution e la guerra del Vietnam. Guardandoli, quindi, potete vedere uno per volta i passaggi da compiere.

     

    Sicuri e volete essere più autonomi?

     

    Un’alternativa per i lavori di gruppo è sostituire le slide 8, 9 e 10 con documenti condivisi creati tramite Googledocs. Il vantaggio di procedere in questo modo è che sul documento condiviso del gruppo ciascuno studente riporterà i propri commenti, anziché deputarlo al segretario, e l’addetto stampa scriverà la sintesi.

     

    Se volete procedere in questo modo, potete scaricare una copia dei documenti per i gruppi A, Be C e caricarla nella vostra cartella Google drive.

    Schermata 2020 06 15 alle 14.51.58 A quel punto, inserite nella slide 7, accanto al nome di ciascun gruppo, una forma (per esempio una freccia, come compare nella slide 17): selezionatela e cliccate sul tasto destro del mouse per inserire il link di condivisione al documento, che potete copiare e incollare aprendo il documento stesso tramite Googledocs e selezionando, in alto a destra, “condividi”. Un unico accorgimento, in questo caso: assicuratevi che accanto alla voce “chiunque abbia il link” sia spuntata l’opzione “editor”. Così gli studenti saranno abilitati non solo a vedere ma anche a modificare i documenti condivisi.

    Ricordate che se utilizzate la presentazione con più classi, dovrete aggiornare il link ad una copia bianca di ciascun documento, da salvare sempre all'interno della vostra cartella Google drive: altrimenti al secondo utilizzo si apriranno i documenti già compilati dalla prima classe.

  • Un Osservatorio sull’insegnamento della storia in Europa

    Occasione persa o opportunità interessante?

    di Paolo Ceccoli

    Nasce l'Osservatorio sull'insegnamento della storia

    01 La presidenza francese del Consiglio d’Europa (maggio-novembre 2019) si è fatta recentemente promotrice della creazione di un Osservatorio sull’insegnamento della storia in Europa. Il 26 novembre del 2019 ventitré ministri dell’educazione su quarantasette stati, tra cui l’Italia, hanno firmato una dichiarazione in cui si afferma che «il modo attraverso il quale la storia viene insegnata può favorire la riconciliazione fra le nazioni e all’interno di ciascuna nazione». Gli stessi ministri hanno anche affermato in quella sede che si adopereranno in favore della creazione dell’Osservatorio, uno strumento che dovrebbe fornire l’opportunità di

     

     

    promuovere pratiche che incoraggino un insegnamento della storia in linea con i valori del Consiglio d’Europa così come sono sanciti nelle nostre convenzioni. L’Osservatorio non mirerà a standardizzare il modo con cui la storia viene insegnata in Europa. Rispetterà le prerogative di ogni paese in questo campo e si assicurerà che le sue attività siano in linea con il lavoro del Consiglio d’Europa in materia di insegnamento della storia

     

    La Risoluzione che istituisce l’Osservatorio attraverso un accordo parziale allargato (APA) è stata poi sottoscritta solo da diciassette paesi. Non solo i promotori non sono riusciti ad allargare il consenso nei confronti dell’iniziativa ma hanno perso sostegni importanti. Tra i sei che non hanno confermato gli impegni preliminari vi sono infatti Italia e Svizzera, seguite da paesi piccoli o piccolissimi come Liechtenstein, Moldavia, Principato di Monaco e Montenegro. Gran Bretagna, Germania, i paesi scandinavi e tutta l’Europa centro orientale non hanno ritenuto di dover partecipare nemmeno alle riunioni preliminari.

    In questo articolo cercheremo di capire come si è organizzato per ora questo osservatorio, cosa potrebbe fare - temiamo poco, viste le premesse - e chi lo dirige, ma ci sembra necessario prima contestualizzare il clima in cui nasce l’iniziativa.

     

    La Francia, promotrice dell'Osservatorio

    02 La Francia rivoluzionaria e poi repubblicana ha sempre avuto molta fiducia nelle virtù dell’istruzione pubblica, statale, laica, obbligatoria e il più possibile gratuita. Già nel 1792 il filosofo Condorcet, nel suo Rapporto sull’istruzione pubblica presentato all’Assemblea nazionale, scrive che «il primo scopo di una istruzione nazionale» consiste nel «rendere reale l’uguaglianza politica riconosciuta dalla legge» (p. 8). Qualche pagina più avanti, tuttavia, riconosce che: «l’uguaglianza degli spiriti e quella dell’istruzione sono delle chimere. Bisogna dunque cercare di rendere utile questa ineguaglianza necessaria» (p. 17). La legge Ferry del 1882 cerca finalmente di realizzare i principi illuministi e razionalisti, intrisi di ottimismo pedagogico e fede nel progresso preconizzati da Condorcet. Le norme stabiliscono, non per caso, che il primo scopo dell’istruzione primaria, sul quale si fondano poi tutti gli altri è «l’istruzione morale e civica», in altre parole l’educazione a quei valori repubblicani che sembrano ancor oggi condivisi dalla maggioranza dell’opinione pubblica francese.

     

    Il terrorismo mette in crisi la fiducia nella formazione scolastica

    Non dobbiamo dunque sorprenderci se vari attentati di matrice islamista, come quello contro la redazione di Charlie Ebdo del 2015 o il recente assassinio del docente di storia e geografia Samuel Paty abbiano destato oltralpe un profondo scalpore. Questi attentati, quasi tutti perpetrati da terroristi nati e cresciuti in Francia, o in Belgio - che hanno studiato in scuole pubbliche e laiche - pongono un problema educativo fondamentale. Com’è possibile conoscere e non apprezzare i valori incarnati nella Dichiarazione dei diritti del 1789? Come si può arrivare a uccidere, talvolta suicidandosi allo stesso tempo, per affermare la supremazia di confuse e superficiali forme di fondamentalismo religioso e anticoloniale? Come è possibile non cogliere le opportunità di dare senso alle disuguaglianze, secondo quanto affermato da Condorcet, infliggendo violenza sanguinaria contro chi afferma i diritti più elementari di libertà, compreso quello, ad esempio, di passeggiare a Nizza sulla Promenade des Anglais? Non sarà forse che il sistema pubblico di istruzione non è stato capace o non è più in grado di realizzare gli scopi per cui era stato pensato durante la rivoluzione e costruito tra Ottocento e Novecento in quasi tutta Europa e paesi affini? Siamo sicuri che i suoi scopi abbiano senso o siano stati mai veramente realizzati? Come mai studenti con provenienze culturali diverse, nati e cresciuti in Europa occidentale, non sono stati integrati socialmente pur avendo frequentato le scuole nate per questo?

    Il problema naturalmente ha innanzitutto un risvolto politico: a cosa serve la scuola se non favorisce la coesione sociale? Se educa studenti che possono così clamorosamente disprezzare i valori che cerca di rappresentare e trasmettere? I ministri dell’educazione di tutta l’Unione europea e il commissario europeo per l’educazione affrontarono la questione una prima volta nel 2015.

     

    Una dichiarazione sulla cittadinanza e l'importanza della storia

    03 Venne pubblicata una dichiarazione in cui i ventotto ministri si misero d’accordo su di una lista di buoni propositi come:
    • il rafforzamento dei sistemi educativi,
    • la promozione dell’insegnamento del pensiero critico,
    • la lotta contro il razzismo e la discriminazione,
    • l’incoraggiamento del dialogo e delle conoscenze interculturali.

    Il documento, nella sua semplicità, indicava alcune linee di intervento che suscitarono l’attenzione dell’associazionismo professionale degli insegnanti. Euroclio (network europeo che raggruppa più di ottanta associazioni di docenti in 47 paesi), ad esempio, integrò quella dichiarazione con un proprio documento approvato dalla Conferenza Annuale del 2015 tenutasi a Helsingor in Danimarca.

    Il punto fondamentale sollevato da Euroclio fu che le finalità della dichiarazione intergovernativa di Parigi non avrebbero potuto realizzarsi senza una specifica attenzione all’insegnamento della storia, che andava ampliato e migliorato. L’insegnamento della storia veniva infatti individuato come il terreno più fertile da coltivare se si voleva educare le giovani generazioni ad una convivenza multiculturale rispettosa delle libertà individuali, al riconoscimento e all’accettazione di ciò che ci divide insieme a ciò che ci unisce, in Europa e non solo.

     

    Ma la storia non sembra interessare la politica

    Sembra proprio di poter dire che questi documenti non ebbero un gran seguito. Certo le attività di associazioni come Euroclio sono proseguite, anche con risultati per certi versi rimarchevoli, conseguiti talvolta in contesti ostili. Ci si permetta di segnalare qui, a titolo di esempio, la proposta di un curriculum di storia alternativo e non tossico che i colleghi eurocliani della Bosnia-Herzegovina hanno recentemente pubblicato.

    In generale, tuttavia, le cose ci sembrano andate via via peggiorando. Il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali hanno indotto i governi a pensare, con le loro decisioni, che il ruolo della scuola nel favorire la coesione sociale e dare senso alle differenze fosse quella che in Italia chiamiamo “educazione civica”. I programmi e i progetti finanziati dai vari enti decisionali in Europa e in molti paesi dell’Unione sono andati in quel senso riducendo l’importanza e la riflessione sull’insegnamento della storia o, peggio, pensando che il ritorno ad un insegnamento nozionistico, rigidamente cronologico, fondato sulla storia nazionale, di cui naturalmente essere orgogliosi proprio perché tale, fosse la ricetta giusta per contrastare fondamentalismi e radicalismi causati, secondo questa tendenza, dal relativismo e da un malinteso senso di colpa per essere quello che siamo. Ecco allora che, su iniziativa del governo francese e sotto la guida di Alain Lamassoure, parlamentare centrista di lungo corso, sia francese che europeo, nonché ex ministro per gli affari europei, nasce la proposta di un osservatorio europeo sull’insegnamento della storia.

    Lamassoure, originario della Navarra storica e appassionato europeista, intercetta i desideri del governo Macron di fare qualcosa per migliorare l’efficacia dei processi di inculturazione veicolati dalla scuola. L’insegnamento della storia sembra essere un campo di indagine interessante per capire quali nozioni ricevono i giovani che frequentano le scuole europee, quali attività svolgono nell’ambito dell’insegnamento della storia e con quali metodi o tecniche. Lamassoure ha presentato la sua idea durante la ventiseiesima conferenza annuale di Euroclio, tenutasi nell’aprile del 2019 a Danzica in Polonia. L’associazione ha subito aderito all’iniziativa cercando di cooperare come meglio poteva. La decisione della maggioranza dei governi dei paesi appartenenti al Consiglio d’Europa di non partecipare ci dice tuttavia che il tema non è sentito a livello governativo quanto lo è fra i docenti più attivi nell’associazionismo professionale.

     

    I compiti dell'Osservatorio 

    In ogni caso ora che questo Osservatorio ha preso forma, cosa farà? Cosa si propone con così pochi paesi partecipanti? Gli obiettivi restano ambiziosi, come si legge nella pa-gina del sito web che ne descrive le attività:

    • «raccogliere, organizzare e rendere disponibili informazioni fattuali sui modi in cui la storia è insegnata in tutti i paesi che aderiscono all’Accordo parziale allargato»;
    • l’Osservatorio terrà particolarmente conto delle attività scientificamente e accade-micamente solide nel suo campo;
    • terrà conto inoltre «della diversità dei sistemi educativi degli stati membri dell’accordo» ,
    • si assicurerà che le sue attività siano complementari a quelle dell’intero Consiglio d’Europa circa l’insegnamento della storia,
    • infine l’Osservatorio «non ha lo scopo di armonizzare i curricoli».

    Per raggiungere questi obbiettivi l’Osservatorio dovrà, in particolare:
    • condurre studi su come la storia viene insegnata negli stati membri dell’APA,
    • condurre studi su temi specifici dell’insegnamento della storia in modo particolari su aspetti che non sono inclusi nel curricolo formale,
    • «organizzare riunioni e conferenze per contribuire alla preparazione e alla diffusione di questi studi»,
    • diventare un punto di riferimento per organizzazioni e associazioni nel campo.

    Per tentare di realizzare questi obiettivi ambiziosi l’Osservatorio si è dotato di un comitato direttivo a livello politico e di un comitato di consulenti scientifici composto da diversi edu-catori, insegnanti, docenti e ricercatori anche di paesi che non appartengono all’APA. I membri di questo consiglio, scelti dal comitato direttivo, comprendono quattro colleghi e colleghe che lavorano con Euroclio, sempre più coinvolta nell’iniziativa, e anche uno storico italiano che lavora a Strasburgo, Piero Colla. Non ci resta che augurare all’Osservatorio un buon lavoro. Il comitato scientifico, la cui prima seduta si è tenuta il 13 luglio 2021, dovrà innanzitutto cercare di definire meglio le finalità e gli scopi, articolandoli in obiettivi speci-fici e praticabili. Il numero di paesi coinvolti non induce certo a credere che ci saranno mol-te risorse disponibili, ma, al di là di questo, la traduzione degli scopi in attività che vadano oltre le buone ma generiche intenzioni appare una sfida difficile da ogni punto di vista.

  • Utilità e inutilità della storia*

    a cura di Giuseppe Di Tonto

    * Editoriale de "Il Bollettino di Clio", Nuova serie, Numero 15, Giugno 2021

    Professore, perché dobbiamo studiare la storia?

    Immagine E’ una domanda che abbiamo sentito pronunciare spesso nelle aule delle scuole dagli studenti. Essa nascondeva altri interrogativi certamente non retorici: a cosa serve studiare la storia? Ci servirà a qualcosa da adulti nella nostra vita futura?

    La domanda, che potrebbe essere proposta come epigrafe di questo numero de Il Bollettino di Clio, ci riporta alla memoria un analogo quesito posto da Marc Bloch nell’introduzione al suo libro Apologia della storia o mestiere di storico. La risposta che lo storico proponeva nel suo libro, diventato un classico della metodologia storiografica, era rivolta ai dotti e agli scolari e tuttavia non ha esaurito i termini del problema, se è vero come è vero che negli ultimi anni l’attenzione degli storici è ritornata sul tema.

    Ci proviamo anche noi, in questo numero, a ragionare sulla utilità e inutilità della storia, alla luce dei mutamenti della società e delle forme della comunicazione storica, intrecciando problemi metodologici, esperienze didattiche e letture storiografiche.

    Il numero si apre con l’intervista di Ivo Mattozzi a Scipione Guarracino, un dialogo tra esperti di metodologia storica e di didattica della storia. Alcuni punti emergono nel dialogo tra i due studiosi. Una premessa d’obbligo: “si può vivere senza storia ma difficilmente si è privi di una immagine del passato; questa si forma in ogni caso e in mancanza di storia sarà il mito a imporsi." (Guarracino). Ma come far emergere il bisogno di storia? Per sollecitare l’attenzione verso una storia davvero utile, soprattutto per le nuove generazioni, occorre puntare sull’osservazione e l’ascolto, imparare ad apprezzare le conquiste dell’umanità che talvolta sembrano esistere da sé e a porre domande, in definitiva acquisire il senso storico come un sesto senso supplementare che non può fare a meno del metodo storico che va insegnato lungo tutta la carriera scolastica e all’università.

    I due studiosi dialogano poi sul potere formativo delle conoscenze storiche ragionando sul se e come esse hanno a che fare col presente (Mattozzi) distinguendo “dei passati che continuano a vivere nel presente, che lo condizionano e ce ne rendono quasi prigionieri, lo determinano o almeno lo spiegano…e dei passati che non hanno nessun rapporto con il presente, altri che hanno un rapporto molto esile, altri ancora il cui rapporto si è affievolito con il tempo e magari è stato mitizzato abusivamente.” (Guarracino)

    Anche la storia digitale offre opportunità per una ricerca utile e motivata di informazioni per un giudizio storico sensato, per possibili simulazioni storiche, cercando di evitare il rischio che tutto si trasformi in un semplice intrattenimento. Esistono sui canali radio, Tv e sulla rete internet programmi e contenuti che, se pur condizionati dal linguaggio divulgativo che li caratterizza, rappresentano una buona occasione per avvicinare la storia dei fatti passati ma essa va necessariamente integrata con “una autonoma formazione avvenuta attraverso i diversi momenti dell’insegnamento e dell’addestramento ai metodi” (Guarracino).

    Nel successivo intervento Fulvio Cammarano si sofferma sui problemi della marginalizzazione della storia che trova le sue ragioni nell’aver attribuito ad essa l’incapacità di offrire soluzioni ai problemi del presente. La storia viene delegittimata in quanto si presenta come disciplina antiquaria che si occupa del passato e poco funzionale alla decodifica del presente. Ma la perdita di rilevanza della storia si accompagna al rischio di indebolimento del senso storico degli individui che apre il varco alla diffusione di fake news riguardanti il presente e il passato. Tocca quindi alla scuola educare alla profondità temporale “per contribuire al processo di costruzione dell’identità personale che si dà sempre nell’unificazione di passato e futuro con il presente”.

    Nel suo contributo Carlo Greppi si interroga sulla possibilità di contrastare, attraverso correttivi nella produzione storiografica, la voracità informativa che contraddistingue la nostra era. Lo scopo di questa azione è quello di smascherare le mistificazioni ovvero le alterazioni della verità storica costantemente in agguato e offrire nuovi modelli di racconto della storia che si reggono sulla loro fondatezza, allo scopo di creare comunità aperte e democratiche. La sfida che l’autore ci trasmette si regge sulla passione per la ricerca, lo studio e il racconto che può essere un veicolo per alzare anche la soglia dell'attenzione dei giovani lettori di storia.

    La riflessione di Serge Gruzinski ruota intorno alla necessità per la ricerca storica di superare, in un mondo globalizzato, la visione ancora fortemente eurocentrica che essa tende ad offrire. Si tratta, secondo l’autore, di decostruire strutture storiografiche in cui ancora prevalgono categorie interpretative europee per offrire letture che facciano interagire il locale con il globale. Un tale approccio darebbe nuovo ossigeno ad una didattica della storia costretta a misurarsi, nelle odierne classi multietniche, con patrimoni introdotti e patrimoni ereditati, un modo per evitare derive identitarie e ricostruire la complessità del passato in un'ottica maggiormente inclusiva.

    David Bidussa si concentra nel suo intervento sulla crisi del ruolo degli storici nella interpretazione e nella ricostruzione storica del tempo presente, tenendo in sottofondo un secondo tema relativo alla storia come oggetto di falsificazione. La costruzione del racconto storico sembra aver perso la sua capacità di lavorare sulla critica al “senso comune” per proporre una diversa e più informata ricostruzione del nostro tempo presente.

    Antonio Brusa introduce una interessante riflessione sul termine “alfabetizzazione storica” da intendere come quell’insieme di capacità che mette in grado un individuo di avvicinarsi ad un testo storico, di comprenderlo, di sapere in che modo è stato costruito e infine di utilizzarlo eventualmente per comprendere aspetti della società presente. L’alfabetizzazione storica, dunque, è strettamente collegata con l’attivazione di capacità di pensare storicamente e con la formazione di una corretta coscienza storica.

    Charles Heimberg propone il tema del rapporto tra passato e presente nella trasmissione della storia e delle memorie, troppo rapidamente riassunto nell'idea di non ripetere gli errori del passato. La questione delle finalità della storia e del suo insegnamento è invece una questione complessa, che suggerisce risposte secondo concezioni molto diverse. L’autore si sofferma in particolare sugli obiettivi che possono essere considerati scientifici e critici, che si basano sull’epistemologia della disciplina e mirano a sviluppare una comprensione del mondo sociale e una capacità di giudizio critico. Questa categoria di obiettivi è, a suo avviso, la più importante perché porta alla possibilità di un’emancipazione attraverso i saperi. Per evitare che l’insegnamento della storia nelle scuole si trasformi in ingiunzioni prescrittive, che allontanerebbero da qualsiasi possibilità di costruire un’intelligibilità del passato e del presente, è necessario che le storiche e gli storici si preoccupino della trasmissione della loro disciplina nelle scuole, così come è essenziale che le insegnanti e gli insegnanti di storia restino in contatto con la scienza storica e i suoi sviluppi per tenerne conto nella loro pratica.

    Il crescente interesse per il racconto storico al di fuori della scuola si manifesta nelle forme spesso caotiche ma seducenti dei diversi usi della storia, dalla produzione cinematografica e televisiva all’intrattenimento ludico. Ancor più seri si prospettano gli usi pubblici della storia: costruzione e abbattimento di monumenti, istituzione di commemorazioni, richieste di risarcimenti materiali e morali, leggi sulla storia possono essere usati come strategie per la creazione di consenso interno o di gestione delle relazioni internazionali o diventare occasioni per guerre della memoria. Nel suo intervento Luigi Cajani si addentra nell’analisi di questi usi per analizzarne le caratteristiche e gli effetti. Per consentire agli studenti un approccio analitico e consapevole occorrerà che la scuola ne faccia oggetto di insegnamento.

    Quanto è importante e utile la categoria di genere nella ricerca e nella formazione storica? Se ne occupa Elisabetta Serafini partendo dalla considerazione che la storia di genere è valutata marginalmente, non solo nel sistema formativo e nell’insegnamento della storia a scuola, ma anche nella ricerca accademica, essendo ritenuta ancora opzionale da gran parte degli storici. L’autrice nella sua analisi ci porta a riflettere sulla utilità e imprescindibilità di questa categoria e sulla necessità dell’ingresso della storia delle donne e di genere nelle scuole non solo “per colmare un evidente disallineamento tra conquiste della ricerca e curricoli scolastici” ma soprattutto per sollecitare e promuovere le pari opportunità. Va anche considerato il modo in cui presentare la storia di genere nell’insegnamento scolastico, non come una storia aggiuntiva e giustapposta ma attraverso una rivisitazione della storia generale, della sua periodizzazione, un diverso utilizzo delle fonti passando anche attraverso un ripensamento della manualistica scolastica.

    Un contributo particolare ci arriva da Valentina Della Gala che si concentra sulle posizioni e le proposte dello storico ligure Edoardo Grendi per il rinnovamento dell’insegnamento della storia a scuola e in ultima analisi del lavoro di storico. Pur risalendo agli anni’70 del secolo scorso, le argomentazioni dello storico sui fini dell’insegnamento e apprendimento della storia e le critiche al paradigma storicista allora prevalente, non hanno perso forza e mantengono elementi di grande interesse ed attualità.

    Jacopo Bassi dà conto nel suo intervento dell’esperienza di una rivista elettronica di storia, Diacronie, come il primo passo per dare vita ad una comunità virtuale che ragioni di storia. Il dialogo che una tale esperienza ha offerto non solo ai redattori ma anche agli autori e ai lettori si è rivelato un potente strumento dotato di enormi potenzialità, tanto per la comunicazione scientifica quanto per incentivare l’aspetto divulgativo della conoscenza storica.

    Nell’intervento di Irene Bolzon e di Chiara Scarselletti si riflette sul ruolo dei musei di storia a partire dal recente dibattito sulla public history in Italia e sulle sfide poste dall’educazione alla cittadinanza. Nel dettaglio si racconta l’esperienza pratica di laboratorio svolta presso il MeVe – Memoriale Veneto della Grande Guerra di Montebelluna (TV) – nell’ambito del progetto di educazione civica intitolato “La città che vorrei”.

    L’esperienza, basata su un processo di co-creazione dei contenuti del museo al quale hanno partecipato studenti della scuola primaria, è stata impostata su un percorso di educazione alla cittadinanza a partire da ciò che i bambini conoscono: il luogo in cui vivono. I risultati ottenuti enfatizzano la funzione dei musei di storia in quanto spazi privilegiati in cui raccontare il passato e avviare pratiche di public history attraverso modalità capaci di adattarsi ai loro molteplici pubblici.

    Per la rubrica Esperienze Paola Palmini ci descrive un percorso realizzato in una classe prima di scuola primaria nell’epoca della pandemia. Il progetto sviluppato nel corso dell’intero anno scolastico ha avuto come finalità principale la creazione di un contesto esperienziale affettivo, accogliente e altamente socializzante. “Amicizie spaziali”, questo il titolo del progetto, è stato realizzato attraverso un approccio interdisciplinare, orientato a introdurre percorsi di storia, di geografia e di educazione civica. Di particolare rilevanza l’obiettivo raggiunto di avvio del processo di educazione temporale e spaziale legato alle esperienze vissute e alla comprensione del tempo presente.

    Gli studenti considerano la storia una disciplina da memorizzare, così come storia dell'arte, geografia, scienze, fisica e altre. Ma è proprio e sempre così? Su questa domanda Paola Lotti ci presenta nel suo articolo i risultati di un questionario somministrato a studentesse e studenti di una scuola superiore di Padova che ha dato risultati contrastanti. Convivono nelle risposte degli studenti da una parte, nel lungo periodo, l'interesse per la disciplina, rafforzato da necessità di studio, di vita quotidiana, di comprensione dei processi storici attuali, dall'altra permangono le difficoltà a modificare stereotipi e luoghi comuni, derivate anche dalle modalità di apprendimento scolastico.

    Un’esperienza analoga relativa ad una classe V di scuola superiore ci viene raccontata da Elena Monari che dopo aver descritto il curricolo di storia proposto ai suoi studenti ci propone i risultati di un elaborato realizzato dalla classe che, attraverso l’analisi di un brano storiografico, doveva argomentare sulla utilità della storia. Le riflessioni degli studenti sembrano smentire il luogo comune dell’inutilità della storia: studiare la storia restituisce una visione del mondo piena di dettagli e ricca di novità, un modo per imparare a combattere le sempre più ricorrenti distorsioni e false notizie, uno strumento per la costruzione di una identità. Sono solo alcuni dei pensieri degli studenti sulla storia che possono ridare fiducia ai docenti che la insegnano.

    Nell’ultimo contributo di esperienze Maria Chiara Di Pofi, prendendo spunto dalla sua tesi di dottorato, si sofferma in particolare sull’analisi relativa agli atteggiamenti degli studenti nei confronti della storia, realizzata attraverso un questionario. Anche in questo caso i risultati sembrano essere incoraggianti. La concezione che emerge è quella di una disciplina che offre la possibilità di imparare dai fallimenti e dai successi degli altri e di riflettere non solo su eventi, fatti e processi del passato, ma anche del presente.

    Nella rubrica Letture segnaliamo cinque libri che permettono di approfondire la riflessione sulla utilità e inutilità della storia. Adriano Prosperi, Un tempo senza storia (a cura di Vincenzo Guanci); Carlo Greppi, La storia ci salverà (a cura di Enrica Dondero); Gruzinski S., La macchina del tempo (a cura di Giulio Ghidotti); Flores M., Cattiva memoria. Perché è difficile fare i conti con la storia (a cura di Ernesto Perillo); Scipione Guarracino, Senza storia. Ricominciamo da uno (a cura di Giuseppe Di Tonto)

    Le Spigolature (a cura di Ernesto Perillo) sono dedicate a Marc Bloch riportando l’introduzione al testo Apologia della storia o Mestiere dello storico, più volte citato in alcuni articoli di questo numero.

    La Controcopertina infine è dedicata ad una citazione di Walter Benjamin, che si richiama ad un quadro di Paul Klee Angelus Novus, contenuta nelle sue Tesi sulla filosofia della storia del 1940.

     

    Buona lettura!

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