di Antonio Brusa
Il paradigma classico della didattica della storia – basato sui cinque elementi: aula, programma, manuali, lezione, interrogazione – si forma nel contesto di una complessa operazione di pedagogia nazionale, messa in atto dagli stati europei nel 1800. Una strategia che si attiva lungo molti canali: la filiera scuola-università, quella della produzione mitopoietica (le Invenzioni, come ci ha insegnato Eric Hobsbawm), l’intensa produzione di feste, inni e calendari nazionali, l’intervento sull’arredo urbano (nomi delle strade, monumenti, edifici pubblici), il sostegno alla produzione lirica (in Italia soprattutto), la sacralizzazione dell’ambiente (i parchi nazionali, che custodiscono la natura vergine della nazione) e la progressiva patrimonializzazione del passato, che inizia con i grandi monumenti e finisce ai giorni nostri con il “patrimonio immateriale” delle tradizioni e financo delle ricette. Una strategia complessa e costosa.
L'identità vale tanti soldi
Uno scopo vitale per quei giovani stati: la costruzione dell’identità nazionale. Vitale, perché occorreva trasformare gli abitanti delle centinaia di migliaia di località europee in cittadini di uno stato.
Ma, a questo punto, occorre fermarsi, e capire bene che cos’è l’identità.
Possiamo definire l’identità in due modi: essenzialista e relazionale. Il primo “guarda dentro” l’identità, ne osserva i componenti. Il secondo, invece, mette l’accento sul rapporto fra soggetto e mondo circostante. I due concetti danno luogo a scuole di pensiero (e anche scuole politiche) in forte opposizione. Ma non andiamo lontani dal vero se affermiamo che, anche ad avere una posizione essenzialista, non si può negare i componenti di un’identità provengono da ogni dove; e, per converso, il sostenitore dell’identità essenzialista non avrà difficoltà a riconoscere come originale il coktail individuale, per quanto risulti composto di elementi appartenenti ad altri soggetti. Questa identità può essere, ancora, declinata in due dimensioni: quella individuale, e quella collettiva. Questa, a sua volta, può essere mondiale, sovraregionale, nazionale, cittadina, di gruppo ecc.
L'identità cambia nel tempo
Nelle campagne dell’ancien régime le identità, individuali e di gruppo erano piuttosto semplici, rispetto alle nostre. In un villaggio isolato (come per esempio poteva accadere nelle immense praterie dell’impero russo) i contadini avevano certamente un’identità di genere e di generazione. Non avrebbero mai visto in vita loro un pope o un signore. Quindi, non avevano bisogno di identità più raffinate, che li distinguessero da quei personaggi. Ma con l’avvento della società moderna (urbanizzazione, industrializzazione, e stato) le identità tendono a diventare sempre più complesse, fino ad arrivare ai giorni nostri, quando – dice la gran parte degli studiosi – ogni soggetto del pianeta terra ha identità multiple e cangianti.
Chi costruisce le identità?
Nell’ancien régime i soggetti “formatori di identità” sono la famiglia, ma soprattutto la chiesa e la comunità (di villaggio o di quartiere). Con l’avvento degli stati, quelle identità non funzionano più. Perciò, subentra lo stato, con la pedagogia che abbiamo visto sopra. Il nuovo meccanismo funziona a meraviglia per decenni. Ne secondo dopoguerra comincia a incepparsi. Gli stati si indeboliscono progressivamente e, di pari passo, si indeboliscono le identità che riescono a offrire. In questo spazio vuoto si precipita un nuovo soggetto: il manager identitario. Può essere un soggetto religioso (l’Isis), politico (la Lega degli anni ’80), di costume (i dark); e i luoghi di formazione identitaria si diffondono nel territorio. La rete diventa il luogo principe dove il manager offre il suo servizio, spesso, a milioni di uomini e donne bisognosi di chiarezza e certezza, in un groviglio identitario che non riescono più a gestire.
Che fa la scuola in questa nuova situazione?
Ha due scelte di fronte a sé. La prima è gettarsi nel mercato identitario ed entrare in concorrenza coi suoi molti manager. Tutti producono identità? La scuola dice: la mia è la migliore e i cittadini si devono adeguare. In fin dei conti è quello che fece la Moratti, con i suoi programmi del 2003, che imponevano ai cittadini italiani l’identità giudaico-cristiana.
La seconda è quella di sostegno. Noi sappiamo che oggi è difficile costruirsi un’identità, o meglio ancora “gestire le molteplici identità”. La scuola può aiutare il soggetto a costruirsi un’identità di “alta qualità”. I ragazzi, oggi, costruiscono la propria identità nel gruppo dei pari e nella rete. Osservano le prodezze degli amici, gli eroi della rete: sono questi i modelli culturali in base ai quali si “autoforma”. La scuola può presentare ai suoi allievi i migliori modelli culturali del mondo: come guardare il mondo, come rapportarsi con gli altri, come pensare al futuro.
E la storia?
Anche la storia ha due strade “identitarie” di fronte a sé.
La prima è quella di una storia che spinga gli allievi ad aderire alla comunità nazionale, proponga loro modelli da imitare, li muova all’amore e al senso del dovere nei confronti della “madre-patria” (quale che essa sia: nazione, gruppo, entità sovranazionale ecc).
La seconda è quella culturale-cognitiva, nella quale la storia insegna ai giovani a leggere il mondo, capire processi profondi, che resterebbero invisibili senza gli specifici “occhiali” della storia. Lavora sul cognitivo (e non può fare altro, perché è una scienza), ma così facendo, crea nei fatti una comunità di colti, capaci di capire la complessità sociale e capaci, di conseguenza, di prendere decisioni responsabili. Questa dovrebbe essere la “nuova” cittadinanza democratica.
La strategia identitaria degli stati.
Negli ultimi trent’anni è accaduto un fenomeno imprevedibile: una quantità notevole di stati e di soggetti collettivi ha ripreso pari pari le strategie identitarie ottocentesche, dando luogo a una sorta di gigantesco re-enactement di situazioni che tutti pensavano passate. Sono gli stati dell’Europa Orientale (soprattutto), ai quali si aggiungono molti stati di nuova costituzione, e la sterminata quantità di gruppi emergenti (etnici, di genere, religiosi, ecc). Ci danno la possibilità di conoscere questa strategia dal vivo, e non più soltanto sui libri. Osservandola, capiamo la struttura di questa narrazione storica identitaria. I suoi elementi costitutivi ce ne mostrano la natura mitologica:
a. L’antichità. Le radici affondano nella preistoria o, in mancanza di questa nei tempi più antichi
b. I primati. Il mio gruppo ha prodotto nel tempo alcune grandi scoperte (dal vino, agli spaghi, al trapano, per non parlare della democrazia o della città) che meritano il rispetto di tutti
c. La grandezza. Un tempo, il mio gruppo o il mio stato erano vasti, spazialmente e culturalmente, molto più di adesso.
d. La sofferenza e il martirio. L’antica grandezza è stata repressa da nemici (passati o ancora presenti)
e. Gli eroi. Morti nella difesa della grandezza passata, o combattenti vittoriosi dei nemici.
f. La resurrezione. Oggi è il tempo di riprendersi gli antichi spazi e di conquistare quel rispetto e quel riconoscimento al quale, per i meriti accumulati nella nostra storia, abbiamo diritto.