didattica della storia

  • A scuola di futuri paesaggi

    Ci sono gli effetti speciali, per chiudere il ciclo delle Summer School sul Paesaggio Storico, che si tengono a Gattatico, presso Reggio Emilia, ormai da cinque anni. Siamo partiti con la preistoria e, quest’anno, giungiamo agli ultimi decenni. Di qui ci proietteremo verso il futuro. Gli effetti speciali? Eccoli: l’ultimo giorno di questa Summer, Bibo Cecchini (dell’Università di Alghero), con il suo staff e la collaborazione di colleghi della Bicocca, prepara un programma di simulazione. I partecipanti al seminario immagineranno i cambiamenti che, secondo loro, sono idonei ad affrontare i nostri problemi e magari a superarli. Il programma ce ne farà vedere gli effetti nel futuro.

     

    Sotto elezioni, uno direbbe, ne avremmo proprio bisogno di un “laboratorio creativo” di questo genere. Ma per il momento, ne potrà godere solo chi verrà alla Summer. Per chi ne avesse già voglia, il programma, in sintesi, è questo. Si inizia con una ripresa del passato. Una rapida scorsa dalla preistoria a oggi, giusto per fissare le basi del discorso più approfondito (organizzato da Rossano Pazzagli) sulla realtà del paesaggio agrario di oggi: le nuove tecniche, i nuovi mercati, l’abbandono delle campagne e la distruzione dei suoli, la loro rigenerazione. Una giornata di lavoro, al termine della quale ci si comincerà a orientarsi verso il domani. Lo faremo in modo non del tutto convenzionale. Ci penserà, infatti, Luigi Cajani a introdurci all’immaginazione del futuro, parlandoci della “terra formazione”, quella branca di romanzi di fantascienza nella quale si ipotizza che gli uomini colonizzano un esopianeta e lo trasformano in modo che assomigli alla Terra. Un viaggio nella fantasia – ma non troppo: siamo sempre storici  e insegnanti – rafforzato dalla visione di Avatar. Quindi ci sarà un’escursione sul territorio: una località di montagna, per chiedersi che ne è dei nostri boschi; e una di pianura, in visita in una realtà agricola d’avanguardia. Il sabato, in chiusura, gli effetti speciali di cui sopra.

     

    Questo ricco programma è inaugurato  e chiuso da due presenze eccezionali. In apertura, Simone Neri Serneri, dell’Università di Siena, disegnerà il quadro complessivo, entro il quale si articoleranno le relazioni e i lavori della Summer. In chiusura Sergio Rizzo, autore con Gian Antonio Stella di Vandali. L’assalto alle bellezze d’Italia, ci permetterà di collegare i temi scientifici e didattici, affrontati nella scuola con quelli necessari della cittadinanza e della politica.

     

    La Summer School “Emilio Sereni”, si svolgerà fra il 28 e il 31 agosto. La Biblioteca “Emilio Sereni” si trova presso l’istituto Cervi. E’ un luogo straordinario, per il richiamo ideale, per il paesaggio, le capacità organizzative dei suoi dirigenti e degli operatori, per l’incredibile biblioteca di Emilio Sereni e – non ultimo – per la bravura della sua cuoca calabro-emiliana. Quindi: non appena esce il bando sul sito, andate a vedere il programma in dettaglio e arrivederci a Gattatico!

  • Akbar, o dell'intercultura in tempi di crisi e di Natale

    Natale, festa di lotta e di intercultura

    Ricorre sulla stampa, quasi ad ogni Natale, la notizia che in qualche scuola italiana le maestre hanno proibito presepi e feste natalizie in ossequio all’intercultura. Il presepe continua a fare scandalo, e non solo in Italia. Quest’anno “Le Monde” dava conto delle proteste di un parroco parigino, infuriato per un allestimento poco tradizionale del presepe. Non mi entusiasma eccessivamente l’idea del presepe nelle scuole o nei luoghi istituzionali (o anche nelle università, come accade spesso nel mio dipartimento). Ma sono del tutto dubbioso sull’efficacia che la sua interdizione possa avere nella diffusione di una prospettiva interculturale, che allude piuttosto ad una cultura aperta, pronta agli scambi, curiosa, piuttosto che ad un modo di guardare il mondo regolato da chiusure e da divieti. E, ancora, mi appare molto strano, e degno di qualche attenzione, il fatto che una festa così meticcia e mescolata fin dalle sue origini (dal momento che assembla fatti pagani, gnostici, dell’ortodossia cristiana, e popolari di varia provenienza), diventata con il tempo il luogo per eccellenza delle atmosfere familiari e ireniche, possa diventare il pretesto per prese di posizioni fondamentaliste ed esclusive.

    Mi chiedo come mai l’approccio interculturale sia rapidamente diventato, nello spazio di due o tre decenni, una disciplina (con i rigori che ne conseguono) e rischi in diverse occasioni di far nascere nuovi dogmi, da aggiungere a quelli che la storia ci ha regalato. Dovrebbe, a mio modo di vedere (e naturalmente non solo mio, né pretendo di averlo inventato io), caratterizzare lo stesso approccio allo studio dei fatti culturali. Indispensabile, in particolare, nel momento eccezionale di trasformazione che tutti stiamo vivendo. Ci deve ricordare ciò che è vero sempre, ma oggi più che in altri periodi storici: ciò che consideriamo “cultura” è in realtà un processo. Noi ne viviamo una fase piuttosto movimentata, che ha bisogno di tutto, meno che delle spade al servizio di ideologie sclerotizzate.

    Entra in scena Akbar

    Faccio questi ragionamenti mentre mi aggiro nella mostra romana su Akbar, il grande imperatore moghul. Akbar era musulmano, imperatore in quel delle Indie nel XVII secolo. Del Cristianesimo conosceva quello che gli avevano raccontato i missionari gesuiti, che i portoghesi sbarcavano a frotte a Goa. Era un appassionato di religioni. Di tutte le religioni. Perciò, si fece venire immagini e testi dall’Europa e li fece ricopiare. Non sapeva leggere, come accadde a molti grandi imperatori. Dunque, aveva bisogno di discutere con missionari e preti di ogni genere, e aveva bisogno soprattutto di immagini. Nelle sue raccolte c’erano crocifissioni, deposizioni, scene del vangelo, immagini di apostoli e di missionari, insieme con le immagini e i testi di innumerevoli culti indiani, persiani e cinesi.

    Il presepe di Akbar

    Ed ecco il presepe che si fece dipingere da uno dei suoi più grandi artisti Manohar (1580-1620). Osserviamolo: i protagonisti, Giuseppe e Maria, hanno volti occidentaleggianti e sono ritratti con la tecnica del chiaroscuro, che i pittori indiani hanno appena appreso dalle stampe europee. Il paesaggio, invece, è decisamente indiano e, se alziamo lo sguardo al cielo, vediamo delle nuvole disegnate con uno stile chiaramente cinese, così come cinese è il vasellame di porcellana, sparso per terra o portato dagli angeli. Questi, a loro volta, vengono certo dalla Persia, e ce ne accorgiamo per il fatto che hanno il piumaggio attaccato al corpo, sconosciuto in Occidente, dove gli angeli hanno corpo apparentemente umano e solo le ali da uccello.

     

    Manohar, Natività (1600-1602)Manohar, Natività (1600-1602) Il vasellame cinese Le nuvole cinesi

     

    Il paesaggio indiano Il chiaroscuro europeo E l’angelo persiano

    Akbar si era circondato dei migliori pittori e disegnatori indiani. Aveva creato scuole d’arte, dove si sperimentavano tecniche nuove e nuovi soggetti; dove si mescolavano modalità di rappresentazione occidentali e orientali. Si faceva inviare dall’Europa stampe e disegni, forse anche quadri, e ingiungeva ai suoi di copiarli e di far proprie le tecniche straniere.

    Luca, santo europeo e no

    Mi impressiona, più di ogni altro, il San Luca Evangelista, ricopiato da una stampa di Hans Sebald Beham, un incisore tedesco straordinariamente prolifico, della prima metà del XVI secolo (1500-1550: http://www.britannica.com/EBchecked/topic/58653/Hans-Sebald-Beham ). L’autore indiano è molto fedele all’originale. Di suo ci mette i colori vivacissimi, quelli tipici delle miniature indiane del periodo. Ai piedi del santo disegna due cani, in luogo del toro (il simbolo dell’evangelista), un animale la cui presenza era per lui incompresa, o anche imbarazzante, dato il ruolo dei bovini nella cultura indiana. I cani da caccia sono animali di corte, forse a suo giudizio erano maggiormente degni della nobiltà del personaggio.

    L’effetto e il contrasto mi sorprendono. L’incisione tedesca nasce in un clima di lotte religiose feroci. E’ il momento di Lutero, della reazione cattolica e delle prime sanguinose guerre di religione. Il santo europeo campeggia su uno sfondo severo, di solidi geometrici, privo di concessioni. Predica il verbo e rivolge al suo pubblico uno sguardo intenso. Il santo indiano, invece, porta a spasso i suoi libri in un paesaggio ameno. Sicuramente non è un predicatore, e, per di più, ha perso l’aureola (immagino che in India non sapessero che farsene). Hans Sebald Beham fu accusato di eresia e rischiò di brutto. Peraltro, sappiamo che le incisioni (le sue e quelle di decine di altri artisti) erano esse stesse strumenti di guerra ideologica. Stampate in innumerevoli copie, e diffuse anche fra gli illetterati, si rivelarono una delle armi più utilizzate nella contesa interreligiosa europea.

     

    Trasportato in un’altra parte del mondo, e nel clima di tolleranza signorile della reggia di Akbar, questo san Luca ha messo da parte ogni animosità. Rivela l’atteggiamento curioso della corte indiana, che lo circonda di un alone di favola, ravvivato da colori gradevoli. Questo pubblico, che non sa nulla delle guerre di religione che stanno insanguinando l’Europa, ama le rappresentazioni piacevoli. Ma, per quanto non sembri capire molto del cristianesimo, lo considera ugualmente degno di rispetto e di venerazione.

    E’ molto studiata, per quanto riguarda le lingue, la questione della traduzione. In tanti ce ne hanno spiegato le difficoltà, le impossibilità addirittura, ma anche gli spazi mentali che essa apre. Tradurre è tradire e, al tempo stesso, guardare quell’oggetto da un altro punto di vista, impensabile, a volte, dall’autore, o nella lingua originaria. Suppongo che esistano studi analoghi per la “traduzione delle immagini”. Non li conosco purtroppo: ma mi sembra corretto affermare, che queste rappresentazioni sono una testimonianza di come gli “oggetti culturali” viaggino da una parte all’altra del mondo, e di come, in questa trasposizione, diventino più ricchi. Questo avveniva ben prima delle nostre enfasi inter-mono-culturali. L’episodio di Akbar mette in evidenza un dato da tenere per fermo: ciò che noi consideriamo “intercultura” non è l’affermazione di un eccezionalità, ma – al contrario – è la forte sottolineatura che chi ne sostiene le ragioni non fa altro che sostenere quelle della cultura umana, tour court.

    La lezione di Akbar

    Ma a questo punto: chi era Akbar? Il suo nome per intero era Jalaluddin Muhammad, terzo imperatore della dinastia Moghul, i conquistatori musulmani della penisola indiana. Akbar, “Il più grande”, fu il nome che si attribuì, non temendo di fregiarsi dell’appellativo che i musulmani riservano a Dio. Regnò a lungo, una cinquantina d’anni (1542-1605), completando le conquiste dei suoi predecessori e consolidando il suo dominio con una organizzazione politica e amministrativa che durò secoli, fino all’aggressione inglese del 1858.

    Il suo interesse per le religioni era vivissimo, come abbiamo visto. Conoscerlo ci aiuta a conservare la nostra barra, diritta sulla consapevolezza critica dei fatti umani.

    Akbar eresse nel 1575 una “casa del culto” (ibadatkhana), nella sua nuova capitale, Fathpur Sikri, nella regione dell’Uttar Pradesh. In questo edificio raccolse testi, immagini e sapienti di ogni religione. Qui fece convenire mullah e imam delle varie confessioni islamiche, santi di tutta l’India e, infine, i recentissimi e nuovi gesuiti. Voleva che si confrontassero, che cercassero insieme un dio che li mettesse tutti d’accordo. Un’impresa per niente agevole. Si racconta che più volte dovette fare la voce grossa, soprattutto a causa delle liti fra musulmani, o delle intemperanze dei gesuiti, che alla vista dei seguaci di Muhammad, perdevano ogni ritegno. Alla fine, probabilmente spazientito, decise di inventarsela lui la religione universale e pacificatrice. Una religione strana, senza teologia né culti, che spingeva alla generosità personale, alla cura del bene comune, aperta all’ambiente e alla natura. O una “setta”, come dissero immediatamente i suoi detrattori. Akbar non sembra, infatti, aver avuto vita facile come inventore di religioni, nonostante il suo immenso potere. Considerato eretico o apostata dai musulmani, pagano dai cattolici, miscredente dagli indiani, materialista un po’ da tutti, suscitò – se mai ce ne fosse stato bisogno – gli aspetti di intolleranza delle religioni allora esistenti. A conti fatti, la sua politica religiosa servì a costruire intorno alla sua dinastia un’aura di sacralità, che ne circondò per secoli il potere, fino appunto alla dominazione inglese.

    Un destino che lo fa assomigliare (fatte salve tutte le differenze) a quei pacificatori politici che, in nome di una qualche unità, fondano un partito che dovrebbe accogliere tutti. L’unità non si raggiunge, ma il panorama politico, di solito, si arricchisce di un nuovo venuto.

    Per saperne di più, vai a vedere la mostra alla Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra, dal 23 ottobre al 3 febbraio 2013 (http://www.fondazioneromamuseo.it/it/840.html ), oppure leggi il catalogo, a cura di Gian Carlo Calza (a cura di), Akbar. Il grande imperatore dell’India, Skira, 2012.

  • Anche i docenti giocano la storia

    Autore: Isabella D'Amico*

    I docenti di Scuola dell’Infanzia e Primaria del I e II circolo di Mola di Bari sono stati letteralmente catturati, e messi a giocare la preistoria. E’ accaduto nell’ambito del progetto “Biblioteca in un click”, promosso dal I Circolo “M. Montessori” di Mola. La scena della cattura si è svolta nell’Aula magna dell’Istituto. Il cacciatore, stavolta è stato Antonio Brusa (che i lettori di HL conoscono fin troppo bene), durante la presentazione diPiccole Storie 1. Giochi e racconti di preistoria per la primaria e la scuola dell’infanzia (Ed. La Meridiana).

    I docenti hanno giocato (erano oltre un centinaio), hanno provato su di sé l’efficacia di quei giochi e il divertimento che provocano (il che non guasta), e ora sono in grado di trasferire questo divertimento ai loro alunni. E’ una didattica coinvolgente, che trova il suo punto di forza proprio nel gioco, un vincente alleato dei bambini, in grado di smontare stereotipi ancora presenti tanto nei nostri metodi d’insegnamento quanto nei contenuti dei manuali, attraverso una partecipazione attiva alla costruzione dei saperi.

    L’incontro è stato un’occasione per verificare come, con poco, sia possibile fissare concetti fondamentali nelle menti dei nostri piccoli discenti in modo (spesso) più proficuo e produttivo della canonica lezione, dando loro la possibilità di porsi delle domande, e avviandoli così, sin dalla più tenera età, al metodo storico. L’auspicio è che i docenti ora sperimentino i laboratori proposti in questo libro, seppur facendo i conti con i problemi quotidiani dovuti alla contrazione oraria, alla luce delle Nuove Indicazioni. Anche giocando alla preistoria si può educare al tempo presente!

    * docente I Circolo didattico “M. Montessori”- Mola di Bari

  • Armin T. Wegner in mostra alla Sinagoga di Reggio Emilia

    Armin T. Wegner fu un testimone del genocidio armeno. A rischio della vita, e della sua carriera nell’esercito tedesco, percorse la Turchia fino alla Siria, documentando il massacro. Era un idealista, al punto che, quando Hitler andò al potere, gli spedì una lettera in cui lo pregava di aiutare il popolo ebraico. Venne duramente punito dalle SS, imprigionato e deportato. Morì nel 1978. Alla mostra presso la Sinagoga di Reggio Emilia, che espone alcune sue fotografie, ho trovato questo testamento spirituale (altre sue foto, con la bibliografia relativa, qui su HL in Ravished Armenian)

  • Avete detto Invalsi?

    Autore: Antonio Brusa

    La valutazione come un melodramma.

     

    Ouverture italiana

    Poche volte ho visto gli insegnanti così arrabbiati, come quando si parla di Invalsi. Una delle ultime ero a Modena, platea di oltre cento colleghi. L’inviato ministeriale, che vorrebbe parlare del cantiere delle riforme, che come quello di Sanpietro non si chiude mai, ha l’infelice idea di toccare il tema della valutazione. Prima mano che si alza. Domanda. Altre mani. Domande sempre più insistenti. Osservo il volto dei colleghi. Oggi è di moda fare gli incazzati. Ma questa volta mi sembra speciale. Intervengono preoccupati, desiderosi di avere una risposta e non soltanto di fare una denuncia. Sembrano addolorati perché troppe cose non vanno come si dichiara.

     

    Indice

    • Primo movimento olandese
    • Entra in scena Virgilio
    • Il parterre
    • La scena
    • L’opera ha inizio
    • Esecuzione
    • Valutazione
    • Applausi e fischi
    • Questioni di budget
    • Promossi e bocciati
    • Crescendo finale

     

    Primo movimento olandese

    A un certo punto, l’inviato nomina il Cito. Ricordavo vagamente che ne aveva già parlato qualcuno del ministero. Avevo memorizzato quella notizia, perché conosco un ricercatore del Cito, che effettivamente era andato al ministero e aveva incontrato qualcuno. Me ne aveva parlato, anche, Huub Kurstjens, di una sua visita al Miur, come di un episodio curioso, nel quale aveva conosciuto persone gentilissime e molto interessate a cosa si fa in Olanda. Si erano lasciati con la promessa di risentirsi, e non si erano più visti.

    Così, quando ci sono andato, ad Arnhem (proprio la città del film della battaglia sul ponte), dove c’è la sede centrale del Cito, ho chiesto a Huub di portarmici. La volevo proprio vedere e, poiché sulla valutazione nutro gli stessi dubbi dei colleghi italiani, volevo capire bene. Ora vi racconto quello che ho visto e ascoltato. Trarrete le vostre conseguenze. Le mie ve le dirò alla fine.

     

    Entra in scena Virgilio

    Cito (i dati li trovate nel sito, che ha una versione inglese) è un istituto privatizzato dal 1999. Huub preferirebbe un istituto pubblico, purché indipendente dal potere politico. Ma non spetta a lui decidere, mi dice. Lo ascolto con rispetto, perché è il mio Virgilio (essendo il segretario della Dante Alighieri di Nijmegen sarà orgoglioso di questo paragone). La valutazione, spiega, deve essere esterna. Totalmente. Non, come mi lascia intendere, come quella dell’Invalsi, il cui presidente è di nomina ministeriale. Il tipo che regge le sorti del Cito è un manager, attento al funzionamento dell’azienda. Questa ha come committente lo Stato (ma ci sono anche altri soggetti, che in questo momento non ci interessano), e quindi ha tutto l’interesse a soddisfarne le esigenze. Sa che se le cose sono fatte male, la committenza finisce e l’azienda, o almeno il suo dipartimento, chiude.

     

    Sede del Cito. Interno

     

    Il parterre

    Dopo aver ricevuto il pass e firmato il registro (l’azienda è tenuta a vincoli di segretezza ovvi), entro nella hall. Sarà l’effetto di Escher, che è di queste parti, ma l’intrico delle scale, dei ponti interni che si incrociano sopra il vasto ambiente interno, occupato dalla sala destinata all’accoglienza, dalle biblioteche e dalla mensa, è quasi da capogiro. Un ambiente per seicento dipendenti, tanti sono quelli che vi lavorano, insieme con alcune migliaia di docenti, che vengono chiamati a discutere, valutare i test e provarli in classe. Inevitabilmente corro col pensiero a Villa Falconieri, la sede dell’Invalsi. Ci andai diversi anni fa, quando era presidente Benedetto Vertecchi. Bellissima, con un giardino incantevole e gli interni affrescati. Gli olandesi se la sognano. Vi lavoravano allora tre o quattro ricercatori. Non credo che siano aumentati molto. Azzardo un paragone. L’Olanda ha 16 milioni di abitanti. Se volessimo costruire in Italia un sistema di valutazione come quello del Cito, l’Invalsi dovrebbe avere quasi 2000 ricercatori e circa 10mila docenti, aggregati in vario modo ai progetti. In pratica, un istituto grande quanto la Sapienza. Gli italiani se lo sognano.

     

    La scena

    All’interno si susseguono i dipartimenti. Da quelli che si occupano degli aspetti materiali (riproduzione delle prove, invii); a quello della sicurezza, vitale in un’azienda di questo tipo; a quelli che si occupano della produzione delle prove, divisi per discipline e per gradi di scolarità. Fino al dipartimento di psicometria, che esamina ogni anno i risultati delle prove e ne tira le conseguenze. Sono tutti open space. A Huub questo non piace. Non ci si può concentrare e i libri sono da tutt’altra parte. Per giunta, le stanzette per studiare individualmente sono prese d’assalto. Be’, penso: villa Falconieri è meglio, almeno in questo, con le sue alcove dipinte. Ecco il reparto casseforti, dove vengono chiuse le prove, in attesa di essere inviate alle scuole. Ogni tanto, una poltrona da fantascienza, per riposarsi e riflettere, guardando il panorama di Arnhem e le nubi barocche del cielo d’Olanda.


    Un visitatore italiano, riconoscibile dal telefonino, prova l’efficacia della poltrona da riflessione

     

    L’opera ha inizio

    Huub mi spiega come si arriva alla realizzazione di una prova. Ve la racconto alla buona. Dunque, si parte da un documento (una sorta di programma) che definisce i contenuti di studio. E’ concordato con le associazioni degli insegnanti, con gli storici ed è stabilito in ambito ministeriale. A partire da quel testo, il ricercatore di Cito individua gli argomenti specifici della prova. E’ assistito da un gruppetto di docenti, con i quali si vede periodicamente. Discute con loro, formula lo schema della prova. Ascolta le reazioni e i risultati dei pre-test. E’ il momento della validazione della pratica sul terreno. Alla fine produce la sua proposta. Questa viene ridiscussa all’interno del Cito, e poi passata a un comitato di storici e di insegnanti, di nomina ministeriale, il Cve. Osservazioni e obiezioni. Revisione. A questo punto, il ministero la fa propria e se ne assume la responsabilità politica. Comincio a capire: la fase della produzione è privata. Ma una volta accettata, la fase dell’esecuzione è politica. In pratica: non c’è scaricabarile.

    Chiedo quanto tempo ci vuole per completare il percorso. Tre anni. Più o meno tanto ci vuole per realizzare una prova d’esame. Come voi, a questo punto, ripenso al teatrino della licenza, quando pochi mesi prima dell’esame vengono annunciate le materie. Come voi, a questo punto, penso allo scandalo delle prove sbagliate, la cui responsabilità viene attribuita a questo o a quell’ispettore che “ha fatto” le prove, come si capirebbe, due settimane prima.

    Tre anni sono tanti? Giusti, secondo Huub, per essere sicuri che una prova funzioni, sia adatta ai ragazzi e al lavoro dei professori. Soprattutto in storia, disciplina dipendente quant’altre mai dai percorsi individuali del docente. Va bene, dico. Sempre test con freccette e palline sono. No, ribatte. Mi piacciono le prove che fanno discutere. Quelle che creano dibattito. Per esempio, l’anno scorso ho dato una domanda sulla guerra di liberazione indonesiana (antica colonia olandese). Chiedevo se, secondo gli allievi, era una guerra civile o una guerra tout court. Un argomento sensibile, di quelli che hanno scatenato anche un dibattito pubblico. Sono prove che fanno discutere, richiedono argomentazioni pertinenti, che non sempre hanno risposte univoche.

     

    L’esecuzione

    Ma andiamo con ordine. Fatta la prova e validata dal ministero, che succede? Un paio di settimane prima dell’esame, viene inviata alle scuole. Queste la ripongono in cassaforte e, il giorno stabilito, il dirigente apre il plico di fronte alla platea degli esaminandi. Il plico contiene i fogli che vengono distribuiti agli allievi. Il tempo dell’esame varia, dal liceo classico al professionale. Un solo caso di violazione, da quando esiste il sistema. L’anno scorso un allievo di una scuola privata di Rotterdam ha trafugato il testo e lo ha distribuito ad amici e compagni, anche a pagamento. La prova è stata annullata agli allievi che hanno riconosciuto di aver copiato, che, in cambio della loro confessione, hanno avuto la possibilità di rifarla. Altri, che non hanno confessato, ma sono sospettati, se verranno ritenuti responsabili perderanno l’anno. Il ladruncolo è sotto processo.

     

    Valutazione

    Gli insegnanti ritirano le prove. Hanno ricevuto un modulo, con le risposte corrette. Una volta terminato il lavoro, inviano il plico ad un’altra scuola, scelta dal ministero. Tutto è anonimo: mittente e ricevente. La valutazione viene ripetuta. Se c’è concordanza bene. Se questa manca, i due insegnanti vengono messi in contatto. Discutono. Se arrivano all’accordo, stabiliscono il voto comune. Altrimenti lasciano i voti separati. In casi eccezionali, la questione viene presa in carico dagli ispettori. Questa procedura dura due settimane. Nel frattempo, le associazioni di storici (e degli altri specialisti) si riuniscono, esaminano le prove e le risposte, danno loro valutazioni, anche diverse da quelle prospettate dal Cito. Questa discussione aiuta gli insegnanti nella loro correzione, così come un sito (funzionante) al quale si possono rivolgere per dubbi e interpretazioni diverse.

     

    Applausi e fischi

    Quando l’insegnante invia (via Internet) i risultati con i voti individuali, allega anche le risposte alle quattro domande fondamentali: sul tempo, sulla qualità della prova, sull’argomento e sulla rispondenza della prova al lavoro effettivamente svolto. Fondamentali, insiste Huub, perché danno il voto al valutatore. Gli insegnanti non sono affatto teneri. E non è piacevole per un ricercatore prendersi un bel quattro (Huub è al settimo cielo per il suo 6, 17).  

    Il ricercatore, a questo punto, ha i risultati. Può rielaborarli e produrre i voti. Nel frattempo i dati vengono inviati al dipartimento di Psicometria, che ha la possibilità di fornire delle valutazioni generali, ma anche di individuare casi particolari, eccellenze o problemi.

     

    Promossi e bocciati

    La valutazione degli istituti, finalmente. Viene fatta così. Il voto finale dell’allievo è stabilito per metà dall’istituto, e per metà dalla prova nazionale. Quando la differenza fra le due valutazioni è alta, supera ad esempio di due punti (la prova nazionale ha dato 6, la valutazione locale 8), allora scatta il campanello d’allarme. Si invia un ricercatore che cerca di capire i motivi di questa disparità: possono dipendere dalla situazione disagiata della scuola o da difetti interni alla scuola, o dagli insegnanti. Il caso viene studiato. Può portare alla decisione di erogare finanziamenti e aiuti (situazione disagiata) oppure a sanzioni. Un cartellino giallo. Al terzo, la scuola viene privata della possibilità di erogare la licenza. Un bel guaio. Vuol dire che la scuola è costretta a chiudere. Teoricamente ci sono anche sanzioni nei confronti dei docenti, per quanto siano piuttosto rare.

     

    Questioni di budget

    Ogni anno, il ricercatore responsabile produce un suo rapporto, che viene pubblicato dalla rivista del Cito e da “Kleio”, la rivista degli insegnanti di storia, e discusso dalle associazioni (qui è il forum degli esami di storia) . E’ la sua idea sull’andamento della prova: cosa è andato bene, cosa male, quali proposte si possono fare per il futuro. Huub è responsabile della storia nelle professionali. Uno dei tanti, che producono, ogni anno, seicento prove di esame, sia in cartaceo, sia in digitale. Una fabbrica agguerrita e costosa. Ogni prova costa 50 mila euro, la maggior parte dei quali servono a pagare gli insegnanti che coadiuvano il ricercatore. Trenta milioni di euro, solo per le prove di esame (aggiungete a queste anche le altre attività dell’istituto, come quella di realizzare portfolio per gli studenti, su richiesta delle scuole, e avrete anche un’idea dell’investimento che occorre per realizzare questo sistema di valutazione.)

    Huub mi spiega pazientemente che, fatti tutti i conti, si tratta di un investimento accettabile, perché 30 milioni di euro è il costo di una scuola con 4000 studenti. Quindi, è come se lo stato avesse deciso di fare una scuola in più, e in cambio ha il suo sistema di esami. Questa somma, divisa per ogni studente, da 70 euro (per avere un’idea, uno studente costa complessivamente 7381 euro l’anno). Insomma, per quanto ricchi, gli olandesi  i conti se li sanno fare.

     

    Crescendo finale

    Una visita non è una ricerca. Quindi questo report non va preso come un articolo scientifico sulla valutazione. Ma dare uno sguardo in casa d’altri mi (ci) permette alcune conclusioni, per quanto provvisorie e, naturalmente, tutte da discutere.

     

    Il finale tecnico: non è vero che la valutazione “obiettiva” sia per forza con test a risposta chiusa. Per esempio, le prove di storia per i licei prevedono solo risposte aperte. E, sempre per quanto riguarda la storia, la maggior parte delle domande verte sulla capacità di interpretare documenti, di ricavare conclusioni da dati o da insieme di fatti. Tecnicamente: sulle abilità storiche.

     

    Non è vero che per fare questi test alcuni esperti si chiudono nello studio e il giorno dopo escono trionfanti col loro fogliettino. Devono discutere, confrontarsi, andare nelle scuole. E questo esige personale, tempo, denaro. E’ lavoro, e non c’è tecnica o modulo o diavoleria pedagogica che tenga. La qualità del prodotto è proporzionale alla quantità di lavoro che ci hai messo dentro. Il resto è retorica.

     

    Non è vero che il sistema nazionale produce delle “classifiche” delle scuole. Individua dei problemi: poi, ancora una volta, si va, si osserva si studia e si discute. Non ci sono automatismi meccanici.

     

    Non è vero che il sistema è freddo. Si basa – ed è questo il suo vero costo, a quanto ho capito – sulla discussione come metodo. Estenuante, continua e a tutti i livelli. E questo richiama molto qualcosa che chiamiamo democrazia (in Olanda, come in Italia).

     

    E’ vero che questo sistema ha potenti retroazioni sull’attività professionale: fatto bene, guardando avanti e a ragazzi che sappiano affrontare problemi, spinge l’insegnante a migliorare. Il che vuol dire che li riporterà all’indietro, se viene realizzato con l’idea che una valutazione nazionale ci restituisca la scuola seria di un tempo (come vuole la nuova vulgata pedagogica: nozionistica).

     

    E’ vero, infine, che questo sistema permette ai ragazzi olandesi di ottenere un diploma valido per tutte le università e per ogni avanzamento di studi, e riconosciuto in tutto il mondo.

     

    Il finale politico. Confesso che, al termine della mia visita, non ho sciolto i miei dubbi su di un sistema di valutazione nazionale privato, per quanto controllato severamente come il Cito. Come abbiamo visto, anche Huub ha i suoi. Non siamo ingenui: non tutto funziona in Olanda, tutto potrebbe essere fatto meglio o addirittura in un modo completamente diverso. Immagino, inoltre, che ci sia un dibattito sempre aperto, sul modo con cui il Cito svolge il suo compito.

    Ma ho una certezza. Il Cito mostra che cosa “è” un sistema di valutazione nazionale. Mi svela che l’Invalsi è la parvenza di un sistema, come quelle poltrone di “verafintapelle” che gli amanti storici di Arbore ricordano. Mi fa sospettare che sia un’autentica umiliazione, quella di sottoporre centinaia di migliaia di professori e milioni di studenti a una prova che “assomiglia” a una prova certificata, ma non lo è. E mi indigna vedere docenti, ricercatori, opinionisti che si accapigliano sulla necessità o sul danno di un sistema nazionale di valutazione. Favorevoli o contrari: ma di che cosa stiamo parlando, in Italia?

     

    E il finalino filosofico (?). Da questa visita mi sembra di aver capito una differenza fondamentale (sicuramente già illustrata in decine di testi di docimologia: pazienza, ci sono arrivato tardi). Quella tra valutazione nazionale e prova centralizzata. Non basta stabilire una prova uguale per tutti, per avere una valutazione nazionale. Questa cerca di costruire una platea nazionale, sulla base della quale il singolo docente e il singolo allievo possano misurare il proprio lavoro. L’altra si limita a sottrarre al docente una parte dell’esame, e legittima interrogativi inquietanti. La prova centralizzata serve perché i docenti non sono capaci di redigere delle buone prove? Perché, se li lasciamo liberi, ne combinano di cotte e di crude? Perché  non sanno scegliere i contenuti di studio? Insomma. Da una parte la fiducia negli insegnanti, e quindi la loro consultazione continua. Dall’altra, la sfiducia sottintesa e quindi la necessità del controllo.

     

    Ringrazio Huub Kurstjens per la visita, le correzioni e i suggerimenti.

  • Comunità in guerra sull’Appennino.

    La Linea Gotica tra storia e politiche della memoria, 1944-2014
    Rimini, 20-22 novembre 2014

    Nell'ambito delle commemorazioni del 70° anniversario della resistenza, il convegno si propone di affrontare il contesto del fronte italiano tra l'autunno 1944 e la primavera 1945, imperniato sulla cosiddetta “Linea Gotica”,  la struttura più lunga e più stabile dell'apparato difensivo tedesco,  vera e propria “cicatrice” dell'Italia in guerra.

    Ne sono promotori l’Istituto per la storia e le memorie del ‘900 Parri ER, l’Istituto storico della Resistenza di Rimini, la rete degli istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea dell’Emilia-Romagna e l’Insmli.

    Rispetto agli storici convegni del 1984 e 1990, l'attenzione sarà posta sulla vita delle comunità in quel contesto, e sulle elaborazioni memoriali e storiografiche che, sul piano nazionale e internazionale, ne hanno caratterizzato la successiva rappresentazione.

    Si partirà dalla vicenda della Linea Gotica collocata nei quadri generali offerti dalla più recente storiografia sulla seconda guerra mondiale, con particolare ma non esclusiva attenzione per la storia militare; e dalle ricerche sulla resistenza italiana ed europea dell'ultimo decennio.

    Si darà poi spazio, secondo le indicazioni della Commissione storica italo-tedesca, alle storia delle esperienze del fronte, proprie dei soldati dei diversi schieramenti, dei partigiani e dei civili.

    Una sezione del convegno affronterà le dinamiche di riconfigurazione reciproca tra i molteplici poteri presenti sul territorio nell'inverno 1944-1945, superando le visioni localistiche, incrociando gli sguardi provenienti dai due lati del fronte e chiarendo le sovrapposizioni tra azione amministrativa e azione repressiva.
     
    Si analizzeranno quindi nuove dimensioni della vita sociale nell'area considerata, approfondendo i fenomeni più originali e i processi più innovativi, con particolare attenzione alle questioni di genere e generazione.

    Si darà infine rilievo alla “Linea Gotica” come nodo della public history italiana, censendo le numerose iniziative sviluppate su questo tema, proponendone una analisi critica e comparata con altre esperienze europee,  avanzando nuovi progetti di valorizzazione territoriale.

    Il convegno vero e proprio sarà accompagnato da altri eventi di rilievo, ad esso strutturalmente collegati: in particolare una tavola rotonda sulle politiche della memoria nell'area; alcuni momenti spettacolari; e un progetto di traduzione didattica delle proposte storiografiche emerse.

    Nel complesso, è nostra intenzione offrire uno sguardo di sintesi sul tema, che possa recepire e organizzare i risultati prodotti dagli istituti storici negli ultimi anni; e insieme fornire nuovi spunti di riflessione che, anche grazie allo stimolo offerto da uno sguardo internazionale,  possano far procedere ulteriormente il lavoro di ricerca e le pratiche di divulgazione.

    Qui il programma del Convegno

  • Con le lenti di Gramsci. L'educazione nel XXI secolo: politiche, problemi, prospettive.

    Le colleghe di Uniba sono state bravissime a progettare e realizzare questo seminario sull'educazione nel XXI secolo, vista attraverso le "le lenti di Gramsci". Difficilmente ho partecipato a un incontro così equilibrato, fra discipline diverse normalmente in conflitto quando si parla di scuola.

    Lo si potrà ascoltare anche sul canale sulla pagina fb segnalata nella locandina.

    Ma esserci e discutere in presenza sarà un'altra cosa.

     

    con le lenti di gramsci locandina 6 dicembre

    DOWNLOAD PDF LOCANDINA

  • Convegno SiDidaSt: insegnare storia per il XXI secolo.

    La Società italiana di Didattica della Storia (SiDidaSt) è lieta di segnalare il Convegno Insegnare storia per il
    21° secolo, organizzato in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell'Antichità dell'Università degli Studi di Padova.

    La SiDidaSt opera in tutta Italia per favorire la ricerca didattica nel mondo della scuola e dell’università, affrontando le questioni dell’insegnamento della storia, dei suoi usi pubblici e della formazione degli insegnanti. Attualmente riunisce oltre 120 soci e socie provenienti dall’Accademia e da tutti i gradi
    scolastici.

    Il Convegno, in programma presso l’Università di Padova e on-line l'8 e 9 settembre p.v., costituisce un'occasione di incontro non solo tra gli associati, ma anche tra studiosi e insegnanti esterni all’associazione che desiderino conoscerne l’orientamento e l’operato. Le tematiche in discussione verteranno sul miglioramento e il rinnovamento della didattica della storia, dal punto di vista dei curricoli, dei contenuti e dell'uso di nuovi metodi e tecnologie.

    Al momento dell’apertura del nuovo anno scolastico, l’iniziativa pone al centro della discussione la necessità di una didattica disciplinare rigorosa e aggiornata, capace di suscitare l’interesse degli studenti nei confronti della storia e di provvederli di strumenti utili per la lettura del mondo e per contrastare la cultura della distrazione e della disinformazione.

  • Corso di formazione e aggiornamento in Didattica della storia

    Locandina corso DiSSGea SiDidaSt Sididast, Società di didattica della storia, organizza il suo primo corso di formazione.

    All'interno della locandina tutte le informazioni necessarie per l'iscrizione e il programma del corso.

    LOCANDINA

  • CORSO DI STORIA E DIDATTICA DELLA SHOAH

    IIIa edizione

    17-18 ottobre 2014

     

     

    Come posso trasmettere la Shoah alle generazioni del futuro?
    E come posso farlo in modo equilibrato, nel rispetto cioè della sostanza storica ma al tempo stesso tenendo a distanza la retorica e la facile demagogia?
    Infine: quali fra le molte iniziative possibili offrono i migliori benefici sul piano didattico e formativo?

     

    Per rispondere a queste domande l’Università di Bari “Aldo Moro”, per il terzo anno, istituisce venerdì 17 e sabato 18 ottobre 2014 un Corso di Storia e didattica della Shoah. Il Corso si svolge in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Regionale per la Puglia, la FLC CGIL Puglia e la Fondazione Casa Rossa di Alberobello.
    La responsabilità scientifica è a cura della Prof.ssa Francesca R. Recchia Luciani (Docente di Filosofie contemporanee, Dpt. FLESS-UniBA) il Corso si avvale dei contributi didattici del Prof. Antonio Brusa (Commissione didattica INSMLI- Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, docente di Didattica della storia, Dpt. FLESS-UniBA) e dei Dott. Pino Bruno (Giornalista e Direttore Responsabile presso Tom's Hardware Italia), Elena Musci (Docente a contratto di Educazione al patrimonio-Università della Basilicata), Sergio Chiaffarata (Presidente dell’Associazione del Centro Studi Normanno-Svevi) e Raffaele Pellegrino (Ricercatore IPSAIC Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia meridionale). La visita alla Casa Rossa di Alberobello sarà guidata dal Prof. Francesco Terzulli (Dirigente scolastico Istituto di Istruzione Secondaria Superiore “Pacinotti” di Taranto, Fondazione Casa Rossa).

     

    Il Corso dell’Università di Bari “Aldo Moro” è uno dei sedici organizzati negli stessi giorni dalla Rete Universitaria per il Giorno della Memoria in altrettanti atenei del Paese e in due atenei europei, in Polonia e in Croazia, con il patrocinio del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, delle Ambasciate d’Israele, di Polonia e di Croazia in Italia e dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

     

    Qui trovate il programma completo e la scheda di adesione

     

  • Didattica Storia Intercultura

    Formazione e sperimentazione per docenti


    Da sempre la storia ha svolto la funzione di formazione del cittadino, inteso come appartenente ad una comunità nazionale. Ovunque, questa funzione è in crisi: le comunità sempre più diventano multietniche e gli Stati sempre più perdono la capacità di intervenire efficacemente nei processi fondamentali delle società. Le comunità, nazionali e no, hanno bisogno di nuove concezioni di cittadinanza, inclusive, aperte al mondo e agli altri, e, al tempo stesso, capaci di mettere a valore le eredità del passato. Anche la storiografia ha sviluppato nuovi modi di analizzare il passato, di comprendere il presente e di guardare al futuro. Questi nuovi modi e queste nuove esigenze didattiche impongono una revisione dei contenuti in classe e delle modalità di insegnamento.

    Per la storia si tratta di una sfida difficile: dal lato della ricerca, occorre offrire ai docenti visioni del passato credibili, perché capaci di spiegare il mondo odierno, e affascinanti, perché dotate di senso; dal lato degli insegnanti, occorre attrezzarsi e, al tempo stesso, liberarsi da rigidità e da stereotipieconsolidate.

    Nell'ambito del Progetto FEI 2013 “Crescere Cittadini”, l'Isral organizza un percorso formativo di innovazione e sperimentazione per i docenti delle scuole di ogni ordine e grado. Il ciclo di incontri si svolgerà ad Alessandria e in altre sedi della provincia. Dopo i primi incontri i docenti potranno sperimentare gli studi di caso individuati nelle proprie classi. I risultati dei lavori verranno documentati a cura dell'Isral e presentati insieme ai docenti nel convegno conclusivo di marzo.

    Qui trovate il programma completo dei lavori

  • Dopo le discussioni sulla prova di storia. In attesa della tempesta perfetta?

    di Antonio Brusa

    “Non rubiamo il passato ai ragazzi”

    Se le proteste per reintrodurre la prova di storia (la vecchia tipologia C della prima prova) avessero un qualche riscontro, politico o anche solo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, sarebbe una bella vittoria per una disciplina che sta patendo un processo di marginalizzazione disastroso, ormai di livello mondiale.

    È, dunque, una buona battaglia quella lanciata da “Repubblica”, forte dell’appello della senatrice Liliana Segre, al quale hanno aderito storici, scrittori, artisti, giornalisti e tanti cittadini. I molti giovani che hanno risposto al questionario sulla reintroduzione della prova, e i moltissimi che hanno aggiunto considerazioni sull’utilità dello studio della storia, col loro numero incoraggiano tutti quelli che amano questa disciplina e ne ritengono indispensabile il portato formativo.

    Come si ricorderà, il dibattito è stato avviato dall’allarme lanciato dal Coordinamento della Giunta centrale per gli studi storici e delle Società degli storici (Cusgr, Sis, Sisem, Sisi, Sismed, Sissco), a seguito delle modifiche della prova di esame di stato (Circolare MIUR n. 3050 del 4 ottobre 2018). Su «Historia Ludens» abbiamo dato ampiamente conto dei numerosi interventi.

    Storia sotto attacco. Gran BretagnaStoria sotto attacco. Gran Bretagna

    A quella mobilitazione il ministro Marco Bussetti ha riposto con dei fatti. Aveva promesso che la storia non sarebbe scomparsa, e ha mantenuto la parola. La storia è stata presente direttamente in una delle tracce proposte, quella sul brano di Claudio Pavone, e, indirettamente, sia nella traccia su Pascoli (Patria), sia in quella sui diritti civili e soprattutto su La Storia di Elsa Morante. Dunque: la storia come disciplina importante e, per questo, trasversale, come il ministro non ha mai smesso di dichiarare. In aggiunta, Bussetti ha sottolineato che, con questo sistema, la storia è uscita dal dimenticatoio studentesco, registrando un numero di scelte superiore al passato, dal momento che gli studenti “non si sono polarizzati su una prova”. Pensando allo 0,6%, registrato dal tema sulle Foibe, assegnato al tempo della Gelmini, gli si dovrebbe dar ragione, per quanto l’instant poll di Skuola.net ci faccia temere che, comunque, la traccia di “storia-storia” sia l’ultima delle sette in lizza.

    Un dibattito acceso e una certa varietà di opinioni

    Questi “fatti” del ministro non hanno accontentato Andrea Giardina e con lui molti altri, storici e no, che li hanno considerati insufficienti a ridare alla storia quel ruolo centrale nell’impianto formativo, del quale la prova di storia era, per così dire, il sigillo.

    Tuttavia, occorre notare che il fronte delle opinioni è molto diversificato. Uno specchio di questa varietà è dato dalla rapida indagine presso i dirigenti scolastici, svolta da “AdnKronos”, nella quale, accanto a chi attribuisce la scelta del ministro al deprecabile e ulteriore allontanamento della scuola dalla visione gentiliana (!), vi è chi, come Tina Gesmundo, preside di uno dei più attivi licei di Bari, afferma che "l'eliminazione della traccia di storia fa parte di un grande disegno che va a picconare i fondamentali della nostra cultura umanistica ", al contrario di Chiara Alpestre, preside dello storico “D’Azeglio” di Torino, per la quale si tratta di "una falsa polemica”, dal momento che, se “è vero che il tema storico non viene più esplicitato” e che la Storia viene “diluita all'interno di altre tipologie”, non si può negare che “l'attenzione per tutte le dimensioni di competenza dell'allievo sia rimasta".

    La contesa potrebbe continuare: sarà vero che la trovata del ministro è “ideologica” come accusa Giardina? e che, più che eliminare una traccia poco accorsata, si sarebbe dovuto intervenire per renderla più appetibile? Si potrebbe aggiungere, per rinfocolare la polemica, che il ministro è stato abbastanza astuto, scegliendo tracce ampie, che potevano essere svolte anche conoscendo poca storia ma sapendone ben parlare, e che ha, altrettanto saggiamente, evitato il nodo degli ultimi settant’anni, quel buco nero della conoscenza storica nelle nostre scuole, messo in luce agli esami di questi ultimi due decenni (su questo vedi ancora «Historia Ludens»). Si potrebbe, anche, rinfacciare al ministro una perdita di dignità della storia, ridotta a disputare una prova di esame alle altre discipline, come lamenta il documento della SISLav, la società degli storici del lavoro.

    Quale che sia il giudizio che diamo di questo dibattito, e quali che ne siano gli esiti ultimi, tutti dovremmo riflettere sul fatto che i problemi che questo dibattito ha fatto emergere resteranno, e sono talmente gravi che dovrebbero accomunare i contendenti in uno sforzo comune. Sarebbe l’ennesima beffa, ammonisce Marco Campione, se, spentisi i fuochi della polemica, la storia tornasse nel dimenticatoio pubblico, in attesa della diatriba successiva, sull’educazione civica, o il bullismo o una qualsiasi altra disfunzione. (L’articolo, pubblicato da «Italia Oggi» può essere letto qui, in una versione leggermente diversa).

    È il caso, quindi, di tornare sulle questioni messe in luce dal dibattito, di analizzarle nella loro complessità e nei soggetti coinvolti. Occorre che tutti capiscano che ruolo vi hanno giocato, e, ciascuno per la propria parte, prendano le decisioni opportune, nella speranza che “la sveglia non sia suonata troppo tardi”, come teme Jacopo Frey, ripercorrendo la vicenda di una degradazione della disciplina, che negli ultimi venti anni è apparsa inarrestabile.

    La diminuzione delle ore di storia

    Che la ministra Gelmini abbia operato un “pesante taglio delle ore di insegnamento” è notizia ormai da Wikipedia. Nascoste nelle pieghe di una delle tante leggi per la semplificazione e il risparmio (burocraticamente: Legge 133/2008) vi erano le norme per la semplificazione scolastica, con le quali la ministra, “con il pretesto di creare uno zoccolo duro di apprendimenti”, sfalciava gli orari, con un particolare riguardo per la storia. A 10 anni di distanza, Mariangela Caprara a buon diritto segnala quella, come la data d’inizio del naufragio.

    Storia sotto attacco. Stati UnitiStoria sotto attacco. Stati Uniti

    Tuttavia, a sfogliare le agenzie del tempo, ci sorprende la flebilità delle proteste (confrontate, per dirne una, a quelle attuali). Una scuola più “leggera” fa risparmiare e questo – a molti della maggioranza come dell’opposizione – non dovette apparire un danno irreparabile; e una scuola “più semplificata” forse non dispiacque a tanti storici, per i quali le complicazioni didattiche sono volentieri il sintomo di un qualche sconfinamento pedagogico. Si levarono lamenti per la sparizione della geografia; parecchi gridarono alla cancellazione della storia dell’arte (un’accusa alla Gelmini che si rivelò non del tutto fondata.). Ma gli allarmi reali, quelli che avrebbero dovuto risuonare al cospetto della frana della storia, tacquero. Né ebbero una minima eco le denunce lanciate da «Mundus», la rivista di didattica della storia che l’editore Palumbo ha pubblicato per qualche anno (n. 5-6, 2007, Editoriale).

    Passati sotto silenzio allora, è indispensabile ricordare quei tagli oggi, per apprezzarne correttamente la gravità. Può aiutare questo prospetto orario, calcolato sui due cicli dei programmi attuali (con l’avvertenza che il conto è necessariamente approssimato, dal momento che è molto difficile valutare l’incidenza dell’autonomia negli orari effettivi adottati dai singoli istituti).

     

      Prima della GelminiDopo la Gelmini
    Primaria L’insegnante dell’area geo-storico-sociale disponeva di 9 ore settimanali.
    La pratica di fare “molta storia” era abbastanza diffusa
    Dalle 3 alle 7 ore settimanali
    Nell’ultimo biennio, quindi, da 268 ore in su.
    2 ore/1 ora
    Nell’ultimo biennio fra le 132 e le 66 ore
    Secondaria di primo grado L’insegnante disponeva di 2 ore di storia e altrettante di geografia. In terza aggiungeva 30 ore di educazione civica. Gelmini abolisce queste ultime e introduce geo-storia con 3 ore settimanali 68 ore annuali. 234, totali nel triennio, comprese quelle di educazione civica. 51 ore annuali
    153 ore nel triennio
    Secondaria di secondo grado Ad eccezione liceo classico, che propone 3 ore settimanali, tutti gli altri istituti hanno la storia a due ore, che diventano 4 con geografia. Geostoria riduce di un quarto queste ore. 340 ore nel quinquennio 265 ore
    Tutto il curricolo di storia L’autonomia fa sì che i totali varino da istituto a istituto 840 (e oltre)
    (da aumentare, a seconda delle scelte degli insegnanti della primaria)
    550 (spesso anche meno)
    (calcolando un programma di 132 ore nella primaria)
    Perdita approssimativa nell’intero curricolo: almeno 289 ore

     

    Quanto incide l’autonomia sulle ore di storia?

    Molto, dovremmo dire, per quanto sia estremamente complicato acquisire dati certi per tutto il territorio nazionale. Una frequentazione piuttosto assidua delle scuole mi ha fatto conoscere una vasta tipologia di comportamenti. Vi sono primarie nelle quali, giocando con orari e spostamenti di personale, si è riusciti a mantenere un assetto comparabile a quello dell’ “età d’oro” della Falcucci; altre, invece, nelle quali le tre ore delle scienze geo-storico-sociali sono state divise equamente fra Storia, Geografia e Cittadinanza e Costituzione. Lo stesso ventaglio trovo nelle secondarie di primo grado: qui, accanto al decadimento delle discipline geo-storico-sociali a materie da un’ora la settimana, sappiamo di calendari alternanti (una settimana alla storia, l’altra alla geografia); mentre non mancano istituti virtuosi, dove, recuperando “l’ora di approfondimento”, si ripristina il monte ore pre-Gelmini.

    A questa varietà di comportamenti corrisponde un'organizzazione lavorativa altrettanto diversificata: mi è capitato di conoscere insegnanti, prossimi apparentemente al suicidio, la cui cattedra era composta da 9 ore di lavoro in un corso, e da altrettante da spendere in nove classi diverse. Immagino che una ricognizione capillare ci riserverebbe altre sorprese.

    Il disastro delle professionali. Un caso di studio della marginalizzazione della storia

    Nel loro documento di protesta, gli storici citano, a riprova della volontà politica di marginalizzazione della storia, la questione del biennio delle professionali, dove la storia è diventata materia da un’ora la settimana. A mio modo di vedere, si tratta un perfetto caso di studio nel quale analizzare la complessità del problema e le diverse responsabilità dei soggetti coinvolti.

    Storia sotto attacco. ItaliaStoria sotto attacco. Italia <br> (Targa esposta nei negozi Feltrinelli)

    Cominciamo dal Miur. Nell’aprile del 2017 la ministra Valeria Fedeli varò il decreto di riordino degli istituti professionali. Nei quadri orari (riportati nell’Allegato 3) leggiamo che all’ “asse storico-sociale” del biennio sono assegnate 264 ore, esattamente quante vengono assegnate all’italiano e all’asse scientifico. L’asse storico-sociale è, di fatto, uno dei tre pilastri della formazione di base. Questa, nel suo complesso, gode di 1188 ore, un gruzzolo orario ben superiore a quello destinato al comparto professionalizzante (di 914 ore). L’accusa che la politica culturale del Miur è antiumanista e, in particolare, tesa alla svalorizzazione della storia non coglie nel segno: almeno fino a questo momento, e per quanto riguarda le professionali.

    Come si arriva al dimezzamento della storia

    Tradizionalmente, di quel monte ore ne venivano assegnate due alla storia e due a economia e diritto. Quindi la storia nelle professionali aveva 66 ore annue, quante nelle altre secondarie superiori (con l’eccezione del Classico, ovviamente). Mancava la geografia, che, finalmente nel 2018/19, ha cominciato a vedere i frutti delle sue lunghe battaglie per entrare nei curricoli. Lo annuncia trionfalmente Paola Pepe, dalle colonne della rivista online dell’Aiig (Associazione degli insegnanti di geografia), avvisando gli iscritti che la loro disciplina potrà avvalersi di un’ora, se non due, la settimana («l’insegnamento di geografia non deve necessariamente essere di un’ora settimanale, potrebbe essere anche di due ore o più»). Il punto è: dove si prendono queste ore? Come Pepe ricorda in quello stesso articolo, l’introduzione della geografia è una tipica riforma “senza oneri aggiuntivi”. Il monte ore resta quello. Per farsi spazio, la nuova deve cannibalizzare (mi si passi il termine) le discipline che c’erano prima.

    Se queste 264 ore vengono ripartite al modo di Salomone, generano quattro materie da un’ora la settimana. Come sanno bene gli insegnanti, e in particolare quelli delle professionali, per gli allievi diventano quattro materie di importanza trascurabile; ai professori prospettano un lavoro per nulla entusiasmante. Che programma di studi si può realizzare con sole 33 ore l’anno?

    264 ore. La politica italiana (precedente al governo in carica) ha fatto un investimento culturale notevole negli istituti professionali. Un investimento che stiamo sprecando, dobbiamo concludere con tristezza.

    Un disastro non necessario

    Ma è ineluttabile questo modello di ripartizione oraria? Niente affatto. Certo, bisogna farsi largo fra i rovi del buropedagoghese ministeriale per capire come. Ma, con un po’ di pazienza, si scopre che nelle intenzioni del legislatore le quattro discipline sono da vedere quanto più possibile legate fra di loro. Sono “aggregate”, si dice più volte (artt. 2 e 5), mentre si sottolinea che vanno privilegiati i progetti e i momenti interdisciplinari (art. 5, commi b, c).

    Non compare in nessuna parte del testo la norma che il monte ore vada suddiviso in parti uguali. La parola che ricorre spesso è “flessibilità”. Se ne danno anche dei parametri: ogni disciplina può “perdere fino al 20%” del tempo assegnato (che è poi una stranezza, visto che questo tempo non è mai definito); si dice, ancora, che si può modificare fino al 40% dell’orario. Vi è, ancora, una riserva di 264 ore da destinare a progetti individualizzanti, che nessuno vieta che vengano utilizzate a supporto di questo o quell’apprendimento. Per non parlare, infine, di quella marea di progetti (PON e altri) che, invece di disperdere l’attenzione degli allievi in mille rivoli, potrebbe essere finalizzata a una meritoria integrazione disciplinare.

    Si potrebbe fare qualcosa nelle scuole?

    I mezzi, almeno per limitare dei danni, ci sarebbero. Vista la gravità della situazione, ci attenderemmo che venissero attivati (nelle scuole e nel Miur, che potrebbe riservare a questo tema qualcuna delle sue incessanti direttive). Si può lavorare con le compresenze, col personale di potenziamento; si potrebbero discutere scelte anche dolorose, per salvare una disciplina e non perderle tutte e quattro. E, poi, perché non creare, come prescrive la norma, momenti integrati di lavoro storico-geografico o di storia e diritto, e perché non provare a mettere economia con storia o con geografia?

    Storia sotto attacco. AustraliaStoria sotto attacco. Australia

    Indubbiamente questa ri-organizzazione del lavoro crea problemi: orari magari non facili per i docenti, e non solo di quelli dell’asse storico-sociale; spostamenti di personale; fastidiose revisioni di abitudini; questioni sindacali; una progettazione didattica laboriosa; richieste di aggiornamento specifiche; un’azione pressante negli organi collegiali per sensibilizzare colleghi e dirigenti. Il tutto aggravato – probabilmente - da una certa inconsapevolezza delle opportunità che l’autonomia offre. È una miriade di ostacoli, della struttura e delle persone, per superare i quali occorrerebbe che la comunità scolastica condividesse un po’ di quella passione per la storia e per la sua utilità civile, che gli intervenuti al dibattito dichiarano sui media. Forse questa vicenda ci sta raccontando che questa condivisione non è molto diffusa, nelle nostre scuole.

    Disastri prossimi venturi

    Un tempo la geografia economica regnava nelle scuole tecniche e professionali. Fatta fuori da sciagurate riforme passate, è giusto che i colleghi di geografia le provino tutte per cercare di reintrodurla. Ma, come abbiamo visto, la combinazione fra la non volontà di spendere (“senza oneri aggiuntivi”) e l’incapacità delle scuole di rimodulare gli insegnamenti, porta a risultati spiacevoli per tutti, geografi compresi.

    Storia sotto attacco. Nuova ZelandaStoria sotto attacco. Nuova Zelanda

    Non saranno gli ultimi. Forti del successo nei bienni e dell’endorsement di Bussetti, i colleghi di geografia si dicono sicuri di entrare nei trienni delle professionali, dove non ci sono gli assi, ma c’è solo storia; chiedono con insistenza che il voto di “geostoria” sia disgiunto in tutti i bienni: il che potrebbe voler dire suddividere le tre ore attuali e riassegnarle in parti uguali, magari con insegnanti diversi.

    Dietro l’angolo c’è l’Educazione civica. Vantando un sorprendente sostegno trasversale, che va dall’Anci alla Lega (la proposta di legge è dei deputati brianzoli Capitanio e Centemero), accenderà di sicuro una nuova discussione mediatica sulla scuola, il cyberbullismo, i consumi giovanili di droghe e, come annunciò Salvini, sui professori che non vengono più rispettati. Nella proposta di legge, i dati che ci devono preoccupare ci sono tutti. La materia sarà di 33 ore, insegnata dai professori di storia e geografia nella scuola di base e da quelli di diritto e economia nella scuola superiore, con voto separato e prova d’esame, e, dulcis in fundo, con la clausola di “invarianza finanziaria”: senza oneri aggiuntivi e con il personale attualmente in servizio (art.4).

    Aspettiamo l’esito delle proteste per l’introduzione di Storia dell’Arte, e siamo curiosi di capire come e con quante ore verrà introdotta la Storia regionale, promessa per il momento da Bussetti al solo Zaia, governatore della Regione Veneto.

    Non discuto, qui, le intenzioni dei proponenti. Sottolineo il fatto che, se la scuola non riuscirà a sfruttare le opportunità dell’autonomia, il palazzo di via Trastevere continuerà a essere la borsa degli stakeholder della didattica, e le discipline universitarie continueranno a pensare che, trasformandosi in lobbies, risolveranno i loro problemi didattici, è certo che il peggio deve ancora venire.

    Quando, e di quanto, si scenderà ovunque sotto l’ora di storia settimanale?

    Poche ore, molta didattica

    “Più diminuiscono le ore, più la didattica della storia è necessaria”. Con queste parole Alessandro Cavalli sintetizza i lavori dell’ultima assemblea (2017) degli studiosi di didattica della storia tedeschi. Infatti, se in Italia si piange, in Germania non si ride: qui la storia è già, in diverse situazioni, materia da un’ora la settimana. Non c’è spazio per errori e perdite di tempo, quando l’orario è così ridotto all’osso. Tutto deve essere ben studiato: la formazione dei prof, la scelta degli argomenti, le modalità di studio, il rapporto fra sapere esperto e materia di insegnamento. Questo compito impegna ben 320 specialisti, tanti risultano dai dati della loro associazione. La loro competenza è considerata necessaria per la conduzione della macchina della formazione storica nazionale.

    È indispensabile, poi, anche per i dibattiti che scoppiano periodicamente a proposito della storia. Infatti, queste discussioni pubbliche, prive come sono di riferimenti solidi, poggiati su corpose ricerche universitarie, diventano facilmente l’arena dove si scontrano opinioni, anche autorevoli, ma con scarsi fondamenti professionali. Inoltre, se guardiamo la cosa dal punto di vista della politica, è di vitale importanza che i decisori usufruiscano di quadri costruiti su dati di ricerca, che non siano solo il frutto di predilezioni e di esperienze personali.

    Così pensano in Germania: la situazione italiana è sotto i nostri occhi.

    320 a 0. Questo potrebbe essere l’esito del confronto fra Italia e Germania, dal momento gli storici italiani che si occupano di didattica si contano sulle dita di una mano, mentre non ci sono (in servizio) studiosi specializzati in questa disciplina. Luigi Cajani ci spiega in che modo, e perché, la storiografia italiana sia giunta a questi risultati, in una relazione presentata al convegno sulle prospettive della didattica della storia in Italia, organizzato da Walter Panciera, il coordinatore della sezione didattica della Sisem (Le vicende della didattica della storia in Italia, in E. Valseriati (a cura di), Prospettive per la didattica della storia in Italia e in Europa, Palermo, 2019, pp. 121-130).

    Storia sotto attacco. GiapponeStoria sotto attacco. Giappone

    La conclusione che ricaviamo è inesorabile. La comunità degli storici non è in grado di intervenire in questo dibattito se non con delle opinioni. Qualificate per quanto si voglia, ma sempre opinioni.

    Per giunta, la mancanza di una seria ricerca storico-didattica non consente ai colleghi storici di collaborare professionalmente alla soluzione di quei problemi che la discussione sull’esame ha messo in evidenza, e che sono stati ripresi in una vasta gamma di interventi, da Gianni Oliva, storico e preside, fino a «Wired» rivista di innovazione digitale, ma preoccupata, in questa occasione, delle sorti della conoscenza storica: come riconfigurare il programma di studi, in modo da permettere al docente di affrontare gli ultimi settant’anni? Quali sono le letture storiche di questo periodo didatticamente più efficaci? In che modo far sì che la disciplina storica diventi un po’ più attraente? Quali sono gli approcci più sicuri per affrontare l’integrazione fra storia le altre discipline sociali e geografiche? In che modo includere nella trattazione storica quegli elementi che consentono di svolgere anche temi di educazione alla cittadinanza?

    Di fronte a queste richieste, l’accademia italiana non è in grado di offrire una solida ricerca didattica. L’insegnante deve continuare a sbrigarsela da solo. Le case editrici hanno mano libera per produrre proposte di dubbia consistenza (è palmare nel caso della geostoria). E, nella prospettiva della revisione dei programmi (anche questa una minaccia dietro l’angolo), il Miur non avrà nessun progetto, discusso e validato dagli storici, con il quale confrontarsi.

    La “Questione didattica”

    In realtà, negli ultimi due anni le Società degli Storici sembravano essersi rese conto della gravità della situazione e avevano cominciato a mettere a fuoco il fatto che esiste una “questione didattica” italiana. Avevano organizzato un buon numero di convegni, messo in cantiere qualche master di didattica della storia (che mi auguro vengano effettivamente attivati), ma – soprattutto – lanciato al Miur l’idea di un centro nazionale per lo studio della didattica storica.

    Il nuovo governo non appare molto interessato a questa prospettiva e le stesse associazioni degli storici sembrano aver abbandonato questa idea, forse attratte dalle scintillanti promesse didattiche della Public History. Questa prospettiva, suggerita da Andrea Giardina a ridosso delle dichiarazioni ministeriali, è stata successivamente ripresa da David Bidussa.

    La Public History, si sostiene, vanta modalità di comunicazione efficaci e attraenti: film, documentari, fiction seriali, tridimensionalità, spettacolarizzazione, gamification, reenactement. È ciò che serve per modificare la percezione di una disciplina noiosa e per disincagliarla dalle secche della sua marginalizzazione.

    Ma è una semplificazione inaccettabile quella «che porta a identificare la Public History come la soluzione alla marginalizzazione della storia» (Agostino Bistarelli). Non si tiene presente, argomentando in questo modo, che la Public History, come qualsiasi altra branca della storiografia dalla quale si vogliano prendere materiali da portare in classe, deve diventare essa stessa un oggetto della didattica storica (lo ricorda Luigi Cajani sulle pagine di Public History Weekly), se vogliamo che venga trattata con maestria professionale. È questa, che mette in grado il docente di fornire, «attraverso un lavoro pluriennale, competenze storiche che permettano di destreggiarsi tra le narrazioni del passato che l’odierna società globale ci propone». Così si esprime Salvo Adorno, coordinatore della sezione didattica della Sissco.

    La Public History non sostituisce la didattica, ma ne acuisce, se mai ce ne fosse bisogno, il problema della mancanza

    La tempesta perfetta

    È tipico dei dibattiti sulla scuola l’individuazione della politica come l’unico nemico da battere. A questa regola non ha fatto eccezione la querelle sulla prova di storia. La pur rapida analisi, che qui ho proposto, spero abbia messo in evidenza come molti siano i padri delle disfunzioni lamentate.

    C’è l’Università che, incapace di produrre una proposta culturale che costringa il Miur a confrontarsi, si sfrangia in lobbies, ciascuna delle quali attiva sue strategie di vittoria; c’è la comunità degli storici, che non ha mai preso in considerazione l’indispensabilità di una solida didattica disciplinare; c’è la scuola che, incapace di usare al meglio gli strumenti dell’autonomia, ottiene spesso il risultato di peggiorare direttive, già nate male di suo. C’è il Miur, che interpreta la sua azione di governo della formazione dei cittadini unicamente come mediazione dei diversi interessi (didattici e no). Ci sono i media, che rinunciano all’analisi per ridursi a eco delle rimostranze. C’è un pubblico, infine, propenso a premiare chi, fra tutti questi, si lamenta più credibilmente.

    Gli ingredienti di una tempesta perfetta ci sono tutti. Non se ne esce, temo, se ciascuno dei suoi protagonisti non comincia a rendersi conto delle sue responsabilità, e della parte di problema che gli tocca affrontare.

     

    Immagini

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  • Fare storia con gli oggetti. Il libro, finalmente.

    di Antonio Brusa

    photo 2022 02 24 18 12 35  Gli oggetti sono un concentrato di storia. Ci parlano della cultura, delle tecniche, delle aspirazioni, dei modi di vita di un popolo e, perfino, delle loro vicissitudini, delle guerre, delle feste, delle carestie. Ma gli oggetti sono muti. Dobbiamo interrogarli, perché ci parlino di storia. Joan Santacana e Nayra Llonch ci insegnano a interrogarli. Lo fanno in un libro semplice e profondo al tempo stesso, nel quale si trovano i principi storiografici e didattici che ci permettono di trasformare gli oggetti in fonti da utilizzare in classe, e si trova anche una bella carrellata di oggetti, dalla preistoria ad oggi, ben spiegati e pronti all’uso.
    “Proviamo a immaginare di proporre come oggetto un rotolo di carta igienica. Quali conoscenze ne possiamo ricavare? Qual era l’igiene intima in Occidente, prima che esistesse questa invenzione? E uno stuzzicadenti che cosa ci può dire? Gli antichi Romani li usavano?”

    Siamo circondati da oggetti. Un archivio storico potenzialmente infinito. Ma, poiché non sappiamo interrogarli, questi oggetti restano muti. Sono le cose di tutti i giorni, quelle che (avrebbe detto il buon Sartre) ci danno la nausea del quotidiano. La didattica degli oggetti ha lo straordinario potere di farci capire (e far capire ai nostri allievi) il loro valore. Anche quello delle piccole cose. Dentro, c’è tutta la storia. Questo è il messaggio che Joan e Nayra vogliono comunicarci. “Gli oggetti sono frutto di invenzioni, prestiti culturali o scoperte. Oggi sono parte della nostra cultura. Quando li analizziamo, ci fanno capire che noi oggi beneficiamo del lavoro di individui di ogni parte del mondo e di ogni tempo. Siamo il risultato di una storia millenaria e multietnica. E gli oggetti ne sono la testimonianza”.

    Fare storia con gli oggetti. Metodi e percorsi didattici per bambini e adolescenti è il primo libro della collana “Insegnare storia”, diretta da me e Walter Panciera, per Carocci editore. Seguiranno altri volumetti, tutti dal costo contenuto, e tutti col medesimo intento di fornire al lettore le idee teoriche necessarie per gestire una bella antologia di materiali pronti all’uso (con sito di accompagnamento con materiali aggiuntivi). I prossimi volumetti riguarderanno la didattica ludica e quella con le tecnologie, l’insegnamento della storia locale, dell’Antico vicino oriente (ecc. ecc.).

  • Fare storia con gli oggetti. Storia, Public History e Didattica dell'oggetto

    photo 2022 03 31 15 11 11 Circa un mese fa, su Historia Ludens, abbiamo recensito il nuovo volume di Joan Santacana Mestre, Fare storia con gli oggetti. Metodi e percorsi didattici per bambini e adolescenti e martedì 5 aprile 2022, alle ore 15.40, lo presenteremo per il seminario permanente di Touching History e per il corso di Didattica della Storia del Dipartimento di Ricerca e Innovazione Umanistica (DIRIUM) dell'Università di Bari.

    Sarà possibile seguire l'incontro, in presenza, presso l'Auditorium del complesso di Santa Teresa dei Maschi nella Città Vecchia, a Bari, o tramite Microsoft Teams utilizzando il codice 2hjqhs1.

     

  • Gli storici italiani e la didattica della storia

    di Daniele Boschi

    Si è tenuto a ottobre (2018) il primo convegno sulla didattica della storia organizzato insieme dalla Giunta centrale per gli Studi storici e dalle Società degli storici, nel solco di quell’ampliamento delle proprie attività che la Giunta ha intrapreso negli ultimi anni, e che ha portato anche alla nascita nel 2016 della Associazione Italiana di Public History1. Una decina di relatori hanno affrontato i diversi temi della didattica. Ci permettono di farci un’idea del livello del dibattito accademico sulla didattica della storia in Italia.

    Storia e competenze

    Walter Panciera (Università di Padova) ha osservato che il passaggio da una didattica fondata sulla trasmissione delle conoscenze a una didattica centrata sull’acquisizione di competenze comporta l’abbandono dell’obsoleta concezione storicistica, ancora prevalente nelle scuole, e del canone ipertrofico che ad essa si accompagna. Occorre adottare nuove modalità didattiche che valorizzino il carattere problematico e i metodi propri del lavoro storiografico. Secondo Panciera un nuovo approccio all’insegnamento della storia può contribuire alla costruzione di ben quattro delle otto competenze chiave delineate nella raccomandazione del Parlamento europeo del 2006: la competenza digitale, imparare a imparare, le competenze sociali e civiche, la consapevolezza ed espressione culturale. L’adozione di una didattica per competenze non comporta peraltro la rinuncia a trasmettere i contenuti che si ritengono davvero irrinunciabili: occorre uno sforzo comune e condiviso per definire alcuni topics, ovvero tematiche fondamentali ben precisate, da indicare nel curricolo di storia, lasciando ai docenti un adeguato margine di scelta.

    Il laboratorio storico

    Sulla stessa linea di Panciera si è collocato l’intervento di Ivo Mattozzi (Associazione Clio ’92), che nella sua relazione è tornato a sottolineare l’importanza e il senso delle attività laboratoriali nell’insegnamento e apprendimento della storia. Mentre la didattica tradizionale punta soprattutto sulla trasmissione di conoscenze storiche che vengono presto dimenticate e delle quali lo studente non percepisce l’utilità, la didattica laboratoriale mira a costruire il modo di pensare “storicamente”, allo scopo di formare cittadini che sappiano utilizzare gli strumenti e le competenze acquisite per comprendere meglio il mondo attuale e per agire su di esso. Mattozzi ha poi messo in evidenza diverse “misconcezioni” relative all’attività laboratoriale - dall’abitudine a catalogare le fonti in modo arbitrario (fonti materiali, fonti scritte, ecc.) alla convinzione che le abilità nell’uso delle fonti servano soltanto per capire come funziona l’attività dello storico - fino a criticare l’idea stessa che fare ricerca sulle fonti sia il tipo di laboratorio storico più appropriato.

    Dettaglio del Ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento

    Le nuove tecnologie

    Anche le nuove tecnologie possono fornire occasioni per praticare metodi didattici alternativi a quelli tradizionali. Secondo Flavio Febbraro (Istituto piemontese per la storia della Resistenza) occorre anzitutto prendere atto della progressiva pervasività della rete, dei dispositivi elettronici e delle “app” nella vita quotidiana di tutti noi. In questo contesto spicca il ruolo di Wikipedia, l’enciclopedia online più consultata da tutti, insegnanti compresi, la cui sezione italiana comprende oltre 1 milione e 400mila voci. Anche le voci di storia contemporanea di Wikipedia sono molto consultate, ma sono diventate oggetto di manipolazioni storiografiche volontarie e ben pensate, che i meccanismi di controllo interni a Wikipedia non sempre riescono a smascherare. Acquista perciò particolare valore e interesse l’esperienza realizzata dall’Istituto piemontese per la storia della Resistenza, che ha organizzato una serie di corsi di formazione per docenti, incentrati sull’analisi e la decodifica delle voci di storia contemporanea presenti su Wikipedia; gli insegnanti sono poi diventati loro stessi, insieme al loro gruppo classe, “autori” di Wikipedia, cimentandosi in un laboratorio di scrittura e di ricerca storica che ha portato alla realizzazione di diverse voci, coinvolgendo i gruppi classe in un compito di realtà gratificante e partecipato2.

    Storia, geografia e altre discipline

    Adalberto Magnelli (Università di Firenze) ha svolto un’ampia riflessione sui rapporti tra l’insegnamento della storia e quello della geografia e delle altre discipline cosiddette “umanistiche”. La storia ha per sua natura una vocazione interdisciplinare; e d’altra parte le Indicazioni nazionali per i Licei hanno introdotto la “geo-storia”, disciplina transdisciplinare. Nella pratica didattica, tuttavia, l’effettiva realizzazione di una maggiore interazione o integrazione tra la storia, la geografia e le altre discipline va incontro a fortissimi ostacoli; per superarli sarebbe necessario sviluppare strategie e metodi didattici innovativi, dal cooperative learning al problem solving ai giochi di ruolo; la relazione ha fornito numerosi suggerimenti ed esempi utili a promuovere una reale innovazione didattica in tal senso.

    I manuali di storia medievale

    Vito Loré (Università Roma Tre) ha presentato i risultati di un recente sondaggio sulla trattazione della storia medioevale nei manuali scolastici; tale ricerca ha evidenziato la persistenza di stereotipi ed errori che gli studiosi hanno smascherato o corretto da parecchi decenni3. Vi è anzitutto uno stereotipo quadro, la netta divisione tra Alto e Basso Medioevo, alla quale sono connessi numerosi altri stereotipi, a partire da quello ben noto secondo cui la frammentazione dei poteri, che erroneamente si pensa tipica dell’Alto Medioevo, sarebbe legata alla diffusione della cosiddetta “piramide feudale”. La presenza di questi stereotipi da un lato comporta vere e proprie “falsificazioni” di alcuni processi storici di notevole rilievo; dall’altro lato, priva gli studenti della possibilità di cogliere la complessità della realtà storica non soltanto del Medioevo ma anche dell’età moderna. Dopo avere indicato le ragioni per cui si è giunti a questa situazione poco soddisfacente, Loré ha suggerito che non sarebbe troppo difficile porvi rimedio: le case editrici potrebbero dotarsi di “lettori” competenti; gli estensori dei libri di testo scolastici dovrebbero avere almeno un manuale universitario di riferimento; e sarebbe opportuno che i manuali scolastici, come tutti gli altri prodotti editoriali, fossero regolarmente recensiti.

    Storia greca e formazione dei docenti

    Gianluca Cuniberti (Università di Torino), partendo dall’esperienza acquisita da diversi anni con l’insegnamento della storia greca nel corso di laurea in Scienze della Formazione primaria di Torino, ha mostrato come, in quel contesto, una didattica attiva e finalizzata all’acquisizione di competenze possa perseguire il duplice scopo di trasmettere ai futuri insegnanti le conoscenze e i metodi propri della ricerca storica e di prepararli, allo stesso tempo, al lavoro che svolgeranno in classe. La storia greca, in particolare, offre la possibilità di indagare le “dimensioni originarie” della storia della civiltà occidentale (le origini della scrittura, della moneta, della democrazia, ecc.), argomenti che ben si prestano all’insegnamento della storia nella scuola elementare. Su queste tematiche gli studenti del corso hanno costruito, in occasione delle loro tesi di laurea, numerose attività di tipo laboratoriale, delle quali Cuniberti ha fornito diversi esempi interessanti.

    La formazione in servizio dei docenti

    Elisabetta Serafini (Università di Roma ‘Tor Vergata’, Società Italiana delle Storiche) ha fatto il punto sullo stato attuale della formazione in servizio dei docenti, a partire dalla nuova situazione delineatasi dopo l’entrata in vigore della legge 107 del 2015 e del Piano nazionale di formazione del personale docente per il triennio 2016-19. Questo Piano ha indicato come priorità per la formazione in servizio la promozione di competenze di carattere generale, trasversali a tutte le discipline, come quelle relative all’innovazione didattica, alle tecnologie digitali, all’inclusione e alla prevenzione del disagio giovanile, lasciando quindi poco spazio per le attività formative dedicate alle singole discipline. Di conseguenza, soltanto una piccola parte dei corsi presenti sulla piattaforma Sofia4 risultano dedicati alla storia e di questi la maggior parte riguardano la storia contemporanea, sono erogati da enti accreditati per la formazione (piuttosto che dalle università o dalle scuole) e hanno come destinatari i docenti della scuola secondaria. Un importante contributo alla formazione dei docenti di storia viene offerto dalla Società Italiana delle Storiche, che fin dalla sua fondazione nel 1989 si occupa anche dell’aggiornamento dei docenti: la relazione ha illustrato le iniziative e le pubblicazioni degli ultimi anni e quelle che saranno realizzate nei prossimi mesi5.

    Gli interventi legislativi sul curricolo scolastico

    Qualsiasi intervento volto a modificare l’insegnamento di una singola disciplina, nel nostro caso la storia, rischia di essere vanificato dal cattivo funzionamento della scuola considerata come “sistema”. Agostino Bistarelli (Giunta Centrale per gli Studi Storici) ha evidenziato la scarsa coerenza degli interventi di carattere legislativo effettuati negli ultimi anni e il forte scarto che si è venuto a creare tra le proclamazioni e le dichiarazioni ufficiali, da una parte, e la concreta prassi didattica e amministrativa dall’altra. Bistarelli ha analizzato in quest’ottica alcuni recenti documenti e interventi del MIUR: in occasione della verifica dell’attuazione delle nuove Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, è stata annunciata l’apertura di una nuova fase di consultazione e confronto con le istituzioni scolastiche e la comunità scientifica nazionale, ma tale annuncio non ha avuto alcun seguito; i nuovi percorsi dell’istruzione professionale varati nel 20176 enunciano traguardi molto ambiziosi senza indicare in che modo sia possibile raggiungerli nella concreta attività didattica; i contenuti delle prove di ammissione ai corsi di laurea in Scienze della formazione primaria e in Architettura non sono in linea con le competenze e le conoscenze acquisite dagli studenti al termine della scuola secondaria7. Se non si pone mano alle molteplici incongruenze tra i vari settori e livelli del sistema scolastico, lo sforzo di arrivare a una vera riforma della scuola assomiglierà sempre più al supplizio di Tantalo: per quanto l’obiettivo possa sembrare ogni volta vicino, esso viene sempre puntualmente mancato.

    Prigionieri nel gulag delle Solovki. Archivio Tomasz Kizny

    L’insegnamento della storia internazionale

    Nicola Mocci (Università di Sassari) ha fatto il punto sullo stato attuale dell’insegnamento universitario della storia internazionale e delle storie di area, considerato anche nel suo rapporto con la formazione dei docenti. La storia internazionale è un settore della ricerca accademica che non si identifica con la storia delle relazioni internazionali e che tende sempre più a confluire nel più vasto ambito della world history o global history. D’altro canto, le storie d’area, intese come storie dei continenti e delle società extraeuropee, hanno avuto una vita felice dal secondo dopoguerra fino al 1990 circa; poi sono entrate in crisi e hanno subito un declino che ha portato quasi alla loro scomparsa. In Italia, la storia internazionale e le storie d’area sono confluite in un unico ambito disciplinare, che è attualmente in uno stato di sofferenza per l’esiguo numero di corsi e di docenti. Nel mondo della scuola è viva tra gli insegnanti l’esigenza di una maggiore apertura verso la storia di continenti e società extraeuropee, ma l’impostazione dei libri di testo è rimasta fortemente eurocentrica dopo il fallimento del tentativo, compiuto dal ministro De Mauro negli anni 2000-2001, di introdurre la storia mondiale nel curricolo scolastico.

    La storia nelle Università

    Paola Bianchi (Università della Valle d’Aosta) ha reso conto dell’impostazione, delle finalità e dei primi risultati di un censimento degli insegnamenti di storia inseriti nei piani di studio universitari. L’indagine, avviata dal Coordinamento delle società storiche, ha come scopo quello di valutare in modo attendibile le potenzialità che i vari corsi di storia sono in grado di sviluppare o, viceversa, rischiano di vedersi sottrarre da altri settori, in un contesto caratterizzato da un generale e allarmante ridimensionamento delle discipline umanistiche nel mondo universitario8. Dopo avere illustrato lo stato di avanzamento dell’indagine e alcune difficoltà che essa ha incontrato, Bianchi ha presentato, limitatamente agli insegnamenti di storia moderna, i primi dati emersi dalla ricerca, che consentono di delineare il profilo del corpo docente, scomponendolo per genere, età e ruolo, e le principali caratteristiche dei corsi di laurea secondo le loro diverse denominazioni e tipologie.

    La didattica universitaria della storia

    Salvatore Adorno (Università di Catania) ha trattato soprattutto delle finalità e dei metodi della didattica della storia nei percorsi curricolari delle università. Partendo dalla diffusa lamentazione circa le scarse conoscenze storiche e il cosiddetto “presentismo” dei giovani di oggi, egli ha definito anzitutto la competenza come “un sapere agito nella società”. Ha quindi posto in evidenza il fatto che l’insegnamento della storia a livello universitario ha come destinatari studenti che, nella maggior parte dei casi, troveranno uno sbocco lavorativo come insegnanti nelle scuole, piuttosto che nella ricerca universitaria. E’ per questo che la dimensione didattica e la comunicazione hanno un ruolo centrale; e l’insegnamento della storia non può prescindere dai grandi interrogativi che ci pone la società di oggi, che spesso non coincidono con le domande storiografico-accademiche. In quest’ottica, la principale “competenza”, alla quale deve puntare l’insegnamento della storia, è la capacità di leggere la società odierna decodificando i messaggi in cui hanno un ruolo, da un lato, le fonti, in quanto strumento di “certificazione” degli eventi, e dall’altro lato il tempo, inteso come insieme dei rapporti tra passato, presente e futuro.

    Prospettive di lavoro

    A Luigi Mascilli Migliorini (Presidente della Società Italiana per la Storia dell’età moderna) è stato affidato il compito di concludere il convegno ed egli ha ripreso in modo critico alcuni dei temi affrontati nelle relazioni e nella discussione. Ha osservato anzitutto che lo scadimento del livello delle conoscenze storiche di base, verificatosi negli ultimi dieci-quindici anni, rende difficile praticare una didattica per competenze, perché non è attraverso le competenze che si ricostruiranno le conoscenze che sono andate perdute. Ha invitato poi la comunità degli storici ad assumere nuovamente una funzione di guida rispetto alle altre discipline, a partire dalla sostanziale interdisciplinarietà connaturata alla storiografia. Occorre comunque prendere atto che il nostro rapporto con il passato è profondamente cambiato; tuttavia, il cosiddetto “presentismo” non va visto come un avversario da combattere, ma come la condizione del nostro tempo, rispetto alla quale la modalità didattica più adeguata potrebbe essere quella di insegnare la storia a ritroso, a partire dal presente, come del resto Marc Bloch suggerì quasi cento anni fa. Infine, una nota di ottimismo può venire dal fatto che vi è, nella società di oggi, una diffusa curiosità per il passato, della quale si deve approfittare, anche attraverso una maggiore collaborazione tra le università e le altre agenzie formative.

     

    Note

    1. Il titolo del convegno è “Gli storici e la didattica della storia. Scuola e Università”. La videoregistrazione dei singoli interventi al convegno è stata pubblicata sul canale YouTube della Giunta Centrale per gli Studi Storici.

    2. Su questo progetto dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza vedi anche istoreto e novecento.

    3. Cfr. Vito Loré-Riccardo Rao, Medioevo da manuale. Una ricognizione della storia medievale nei manuali scolastici italiani, “Reti Medievali Rivista”, 18, 2 (2017). L’articolo si può leggere alla seguente pagina web.

    4. La piattaforma SOFIA (acronimo per “Sistema Operativo per la Formazione e le Iniziative di Aggiornamento dei docenti”) è il portale messo a punto dal MIUR al quale i docenti devono registrarsi per accedere alle attività di formazione a loro rivolte.

    5. Molte informazioni sulle pubblicazioni e le iniziative dalla Società Italiana delle Storiche si trovano sul sito della Società.

    6. Decreto Legislativo 13 aprile 2017, n. 61.

    7. Decreto Ministeriale 3 aprile 2018, n. 260; Decreto Ministeriale 27 aprile 2018, n. 337.

    8. Interessante il riferimento all’articolo di Andrea Zannini, Gli umanisti nella crisi dell’università, pubblicato sulla rivista online “Il Mulino” il 19/01/2018.

  • I diari come fonte storica. L’Archivio di Pieve Santo Stefano.

    di Antonio Prampolini

    Indice

    1. L’Archivio di Pieve Santo Stefano

    2. Il sito web dell’Archivio

    3. Le piattaforme tematiche

    3.1 Italiani in quarantena
    3.2 Italiani all’estero
    3.3 Grande guerra
    3.4 10 giugno 1940: l’entrata in guerra dell’Italia
    3.5 Elette ed eletti nell’Italia repubblicana

     

    ARCHIVIO PIEVE SANTO STEFANO IMMAGINE 1Fig.1: il logo della Fondazione Archivio Diaristico Nazionale onlus Fonte1. L’Archivio di Pieve Santo Stefano

    A partire dagli anni Ottanta sono sorte, sia in Italia che in Europa, diverse sedi archivistiche e varie associazioni per raccogliere, tutelare e valorizzare scritti autobiografici, fino ad allora dispersi e spesso destinati all’oblio, nella consapevolezza della loro importanza quali fonti per una storia ricostruita non più solo attraverso i personaggi famosi, i grandi movimenti, le rivoluzioni e le classi sociali, ma con lo sguardo rivolto alla gente comune e alle loro vicende personali1. Una storia, solo apparentemente minuscola, che si affianca e si intreccia con quella che solitamente scriviamo con la S maiuscola.

    Una delle prime e più importanti realtà per la conservazione e la diffusione di scritti autobiografici è l’Archivio Diaristico Nazionale con sede a Pieve Santo Stefano, piccolo borgo toscano nella Valtiberina. L’archivio è stato fondato nel 1984 dal giornalista e scrittore Saverio Tutino2 per salvare e pubblicare documenti di origine popolare, spesso rifiutati dagli archivi ufficiali e dagli editori. Dall’anno della sua fondazione ad oggi, l’archivio ha visto crescere nel tempo il proprio patrimonio, acquisendo un numero sempre maggiore di scritti autobiografici di varia provenienza e natura (diari, memorie, lettere), anche grazie al Premio Pieve, istituito dallo stesso Tutino nel 1985. Questo premio, infatti, assicura al vincitore la pubblicazione della propria opera. Attualmente, quasi diecimila unità sono conservate presso l’archivio, e molti degli scritti hanno partecipato al concorso.

    L’Archivio di Pieve Santo Stefano si è distinto anche per l’uso delle nuove tecnologie informatiche nella catalogazione e nella conservazione del proprio patrimonio. Si è, infatti, dotato di un sistema elettronico di schedatura che tiene conto di una molteplicità di dati (autore, data di nascita, professione, titolo dell'opera, consistenza, genere, provenienza geografica, abstract, soggetti, parole chiavi, luoghi citati, eventi o personaggi straordinari, estremi cronologici del racconto, descrizione del manoscritto, tempo della scrittura ed altri dati) tutti utili al ricercatore per avvicinarsi ai testi autobiografici, anche solo con una idea di massima dei loro contenuti. Ha inoltre intrapreso un’attività straordinaria di restauro e digitalizzazione dei manoscritti, partendo da quelli più antichi o in peggiore stato di conservazione, sino ad arrivare ai documenti più recenti. La digitalizzazione, in particolare, ha reso possibile la realizzazione di un museo innovativo (il Piccolo museo del diario) e, soprattutto, la pubblicazione online dei diari e delle memorie autobiografiche sul sito web dell’Archivio.

     

    2. Il sito web dell’Archivio

    Il sito dell’Archivio di Pieve Santo Stefano si articola in più sezioni. Tre sono le principali:

    Archivio,
    Museo
    Diari online.

    La sezione Archivio permette di accedere al Catalogo informatico dei diari, attraverso il quale è possibile impostare diverse ricerche, semplici o multiple, per Titolo, Autore, Estremi cronologici. Di ogni diario viene proposta una scheda che comprende, oltre ai dati della ricerca: il Tempo della scrittura, la Tipologia testuale, la Natura del testo, la Provenienza geografica e la sua Consistenza.

    ARCHIVIO PIEVE SANTO STEFANO IMMAGINE 2Fig.2: l’ingresso del Piccolo Museo del Diario FonteLa sezione Museo presenta il Piccolo Museo del Diario, allestito per raccontare, attraverso un percorso coinvolgente e innovativo, l’archivio e le preziose testimonianze autobiografiche che conserva.

    Tra le sue attività, di particolare interesse quelle inerenti la Didattica: La memoria è viva, viva la memoria (in questo modulo didattico gli studenti vengono condotti alla scoperta dell’archivio, della sua storia e delle procedure di catalogazione dei testi autobiografici) e Didattikit (un gioco didattico con le carte di Diari incrociati: un kit per attività di scrittura creativa).

    La sezione Diari online indirizza il visitatore del sito verso cinque piattaforme tematiche che contengono estratti dei diari conservati presso l’archivio, le quali invitano a compiere «un viaggio straordinario nelle memorie private degli italiani»:

    Italiani in quarantena, diari dall'isolamento;
    Italiani all'estero, i diari raccontano;
    Grande Guerra, i diari raccontano;
    10 giugno 1940: l'entrata in guerra dell'Italia; Elette ed eletti.

     

    3. Le piattaforme tematiche

    ARCHIVIO PIEVE SANTO STEFANO IMMAGINE 3Fig.3: : la diffusione del colera in Italia tra il 1835 e il 1837 nei principali centri (Atlante tematico d'Italia, Touring Club Italiano, 1992) Fonte3.1 Italiani in quarantena

    La piattaforma Italiani in quarantena, diari dall'isolamento propone venti testi autobiografici (distinti dai nomi degli autori e da un numero progressivo) che coprono un arco temporale che va dall’inizio dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento. Vi troviamo, in particolare, le testimonianze delle terribili epidemie che hanno colpito l’Europa e l’Italia:

    • il colera in Spagna (1833-34 diario 1, 1865-67 diario 10);
    • il colera a Napoli (1836 diario 5, 1837 e 1854 diario 15, 1884 diario7);
    • il colera a Roma (1837 diario 14);
    • il colera a Como (1855 diario 8);
    • la “Spagnola” (1918-19 diario 4, diario 6, diario 12, diario 17).

     

     

    ARCHIVIO PIEVE SANTO STEFANO IMMAGINE 4Fig.4: l’emigrazione italiana per regione negli anni 1901-1915 Fonte3.2 Italiani all’estero

    La piattaforma Italiani all'estero, i diari raccontano è il frutto di un progetto realizzato con il contributo della Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. E’ una selezione delle parti più significative delle testimonianze raccolte nel fondo catalogato con il soggetto “emigrazione”. Ogni pagina è stata digitalizzata dal documento originale (diario, memoria o lettera), titolata, introdotta, collocata nel tempo, geolocalizzata, e indicizzata con delle parole chiave rispondenti ai temi relativi al vissuto degli italiani all’estero dall’Ottocento ai giorni nostri.

    La piattaforma offre la possibilità di consultare i testi autobiografici per Autori, Temi, Luoghi (paesi e continenti), elencati in ordine alfabetico, e per Periodi storici (Periodo pre-unitario, fino al 1876; Periodo post-unitario, 1876 – 1914; Periodo tra le due guerre mondiali, 1914-1945; Periodo post seconda guerra mondiale, 1946-1976; Periodo contemporaneo, dal 1977 ai giorni nostri).

     

    ARCHIVIO PIEVE SANTO STEFANO IMMAGINE 5Fig.5: Trincea italiana sull’Adamello, 1918 Fonte3.3 Grande guerra

    La piattaforma Grande Guerra, i diari raccontano, nata dalla collaborazione tra l’Archivio di Pieve Santo Stefano e il gruppo editoriale L’Espresso, propone brani estratti da taccuini, lettere e memorie dei soldati italiani che hanno combattuto nel Primo conflitto mondiale. Vuole essere «uno strumento per viaggiare nel tempo» per comprendere le esperienze di vita e di morte nelle trincee di sassi e di fango di quella lunga e terribile guerra di logoramento.

    I brani sono stati pubblicati nel più assoluto rispetto degli scritti originali: «numerosi sono gli errori di ortografia che si mischiano con costruzioni lessicali di origine dialettale, i nomi dei luoghi sono spesso storpiati, i tempi dei verbi ingarbugliati. La guerra l’hanno raccontata ufficiali istruiti ma anche soldati quasi analfabeti che si cimentavano per la prima volta con la parola scritta».

    Le ricerche possono essere effettuate per Autori, Temi, Eventi e luoghi bellici. I brani sono stati tutti geolocalizzati per consentire una lettura delle storie attraverso la mappa interattiva visualizzata nella prima pagina della piattaforma.
    La Grande Guerra, i diari raccontano non è un progetto “chiuso”, ma destinato ad arricchirsi grazie agli scritti autobiografici che numerosi continuano a pervenire da ogni parte d’Italia all’Archivio di Pieve Santo Stefano.

     

    ARCHIVIO PIEVE SANTO STEFANO IMMAGINE 6Fig.6: Benito Mussolini annuncia la dichiarazione di guerra dal balcone di Palazzo Venezia a Roma Fonte3.4 10 giugno 1940: l’entrata in guerra dell’Italia

    La piattaforma 10 giugno 1940: l’entrata in guerra dell’Italiapresenta una selezione di quindici brani tratti dagli scritti autobiografrici conservati presso l’archivio, per raccontare da un punto di vista assolutamente inedito uno dei momenti più drammatici della storia del nostro Paese.

    In alcuni diari è evidente l’eco della retorica e della propaganda del regime fascista, come ad esempio in quello di Paolino Ferrari, il quale scriveva:

     

    «10 giugno 1940. Oggi il Duce ha parlato dal balcone di Palazzo Venezia per annunciare l'evento agli italiani ed al mondo. È la guerra, la santa guerra attesa da decenni e auspicata dai migliori italiani per l'affrancamento della Patria dall'egemonia dei franco-inglesi nelle acque del Mediterraneo e per il compimento definitivo dell'unità nazionale»,

     

    o in quello di Aldo Bigalli:

     

    «Lunedì 10 giugno 1940. Mattina. Grande orgasmo, Pomeriggio. Alle 18 il Duce ha annunziato che l'Italia a fianco della Germania è entrata in guerra e che “l'Italia proletaria fascista è di nuovo in piedi”».

     

    Nei diari scritti dalle donne traspare tutta la preoccupazione per le conseguenze della guerra.

    Magda Ceccarelli De Grada annotava:

     

    «1940 12-13 Giugno. L’urlo sinistro delle sirene d’allarme. Le prime volte fa una certa impressione nel buio della notte, ma poi la promiscuità e la insicurezza dei rifugi consiglia di rimanere in letto o quanto meno in casa. Mia figlia si attacca a me come una bambina»,

     

    e Ester Marozzi:

     

    «10 giugno 1940. Oggi alle 18 il Duce in un discorso dal balcone di Palazzo Venezia ha annunciato al popolo che la guerra alla Francia e all’Inghilterra è dichiarata da domani giorno 11 giugno […] Nessuno sente questa guerra, nessuno la vuole, ma Mussolini ha ordinato che si faccia».

     

    ARCHIVIO PIEVE SANTO STEFANO IMMAGINE 7Fig.7: copertina del Corriere della Sera del 6 giugno 1946, con la notizia dei risultati del referendum istituzionale indetto il 2 giugno 1946 Fonte3.5 Elette ed eletti nell’Italia repubblicana

    La piattaforma Elette ed elettiè il risultato di un progetto di ricerca finalizzato allo studio delle «pratiche discorsive sulla donna politica e sull’uomo politico» nella storia dell’Italia repubblicana e alla rappresentazione del profondo divario di genere nelle istituzioni pubbliche come «dato endemico» della sua storia. Il 1946, anno di fondazione della Repubblica e della prima andata alle urne delle donne, costituisce un «osservatorio privilegiato» per studiare tale divario.

    La piattaforma, che offre interessanti spunti di riflessione sull’ingresso delle donne nella vita politica, si articola in sei sezioni:

    Progetto;
    Rappresentazioni;
    Eventi;
    Voci dall’Italia Repubblicana;
    Categorie/Temi (Maternità e paternità, Sessualizzazione, Privato, Oratrici e oratori, Coppie, Inversione di genere, Virtù fisiche e virtù morali, Abiti, lusso e acconciature);
    Elette (elenco dei personaggi).

    Le cinque piattaforme tematiche online dell’Archivio di Pieve Santo Stefano costituiscono indubbiamente, sia per la varietà dei temi affrontati che per la qualità degli scritti autobiografici proposti, una vera e propria “enciclopedia popolare” della storia d’Italia. Una fonte preziosa che non può essere ignorata dai docenti e dagli studenti nel loro impegnativo ma affascinante percorso di insegnamento e di apprendimento della storia contemporanea del nostro Paese.

     


    Note

    1 In Italia, oltre all’Archivio Diaristico Nazionale (ADN) di Pieve Santo Stefano, si distinguono per la loro attività di catalogazione e ricerca: l’Archivio Ligure della Scrittura Popolare di Genova (ALSP) e l’Archivio della Scrittura Popolare di Trento (ASP). In Europa: il Nederlands Dagboekarchief (NDA) con sede a Amsterdam e la Association pour l’autobiographie et le patrimoine autobiographique (APA) con sede a Ambérieu-en-Bugey (Francia), il Deutsches Tagebucharchiv con sede a Emmendingen (Germania), La Roca del Vallés Arxiu de la memòria popular (Spagna).

    2 Su Saverio Tutino, sulla sua attività di giornalista e scrittore: la voce a lui dedicata nelDizionario Biografico degli Italiani.

  • I nomi. Una fonte sorprendente per scoprire il Medioevo

    di Marco Brando

    Screenshot 2024 10 28 alle 16.00.01Fig. FonteNella cassetta degli attrezzi dell'insegnante può entrare un nuovo grimaldello. Si tratta del recente libro L’anima medievale nei nomi contemporanei (Olschki, 2024), firmato dal linguista Enzo Caffarelli, con prefazione del presidente dell'Accademia della Crusca Paolo D’Achille. Allievo di Luca Serianni, fondatore della Rivista Italiana di Onomastica-RIOn, consulente dell’Accademia citata, ex professore all’Università di Roma-Tor Vergata, Caffarelli è tra i principali studiosi e divulgatori dell’onomastica: si tratta del ramo della linguistica che studia il sistema dei nomi propri, i processi di denominazione e le loro caratteristiche.

     

    Origine e funzione dei cognomi

    In questo volume l'autore indaga in modo inedito il rapporto tra l’onomastica italiana e l’eredità, vera o immaginaria, lasciata dall’Evo di mezzo. Lo fa utilizzando anche gli strumenti del medievalismo, cioè lo studio del modo in cui il Medioevo è stato percepito comunemente negli ultimi due secoli. «Il nostro presente, scrive, appare immerso in quell’universo enigmatico e policromo detto, appunto, “Medioevo”». Per questo motivo è importante restituire a tutti (o quasi) la possibilità di incontrare questo Medioevo quotidiano. È una prospettiva che potrebbe conquistare l’interesse degli studenti - piccoli e grandi, dalle elementari alle superiori - in modo semplice e, per così dire, personalizzato. Come? Semplicemente, per esempio, facendo l’appello in classe e riflettendo sui singoli cognomi. Infatti i cognomi degli italiani (circa 400.000) affondano le radici nell'epoca medievale, quando si formò un nuovo sistema, quello binominale, costituito da nome e, appunto, cognome. La sua funzione era quella di distinguere con facilità un individuo dagli altri indicando chiaramente la sua appartenenza a una delle articolazioni della collettività, la famiglia. Tra XIII e XIV secolo il sistema si consolidò, finché diventò stabile tra la fine del Cinquecento e il Settecento, dopo il varo della norma del Concilio di Trento (1563) che impose di compilare regolarmente i registri di battesimo.

    96754e29cffa1d7a756a5d50d1c282a5Fig.2: FonteOggi i cognomi sono una delle testimonianze linguistiche del passato medievale presente con più costanza nella nostra vita quotidiana, anche se la maggioranza delle persone non se ne rende conto. «Gran parte dei prenomi medievali o comunque usati nel Medioevo [...] hanno originato cognomi contemporanei, alcuni in gran copia, compresi quelli gratulatori, descrittivi, laudativi, augurali, caratteristici dei secoli XII e XIII», scrive il linguista. Eccone alcuni esempi:

     

    Origini del cognome Esempi di cognomi
    Gratulatoria e augurale Benicansa, Bonaccorso, Crescimbeni, Migliore, Ognibene, Parbuono, Salimbeni, Tornabene.
    Consolativa Balsamo, Balzamo, Conforti, Rimedio, Rinato, Rinnovato, Ristori, Rinnovato, Ritrovato, Ricuperati.
    Descrittiva Caradonna, Diamanti, Perla, Riccabella, Riccadonna, Stella.
    Numerale Centolanze, Cinquegrani, Cinquemani, Dodici, Quaranta, Settesoldi, Settimi, Settimio.
    Da prenomi germanici Bertagna, Bertone, Berté, Cardini, Carducci, Guglielmi, Gugliotta, Riccardi.
    Da personaggi della letteratura cavalleresca Altobelli, Armellini, Astolfi, Baiardo, Boato, Brandimarti, Cabrini, Carlomagno, Danese, Fioravanti, Lancellotti, Maccabruni, Malaguti, Morante Orlando, Pipino, Rinaldo, Rolando, Ruggero, Sansonetti.
    Da arti e mestieri Acquaroli, Arrotini, Barilari, Calderai, Caligari, Calzolai, Cerchiari, Chiavari, Chiodaroli, Facchini, Falegnami, Gessaroli, Orefici, Pallari, Saccomani, Saponari, Sgherri, Speziali, Tessitori.
    Da toponimi Da Milano, De Corato, De Troia, Di Bari, Di Capri, Di Paola (anche con elisione delle preposizioni).
    Da etnonimi Alemanno, Aragona, Catalano, Goti, Greco, Lamanna, Lombardo, Longobardi, Ragone, Saraci.
    Da ambiti politici, giuridici medievali Barone, Camerlenghi, Castaldo, Cavalleri, Conte, Ducati, Imperatore, Milite, Soldati, Vassallo, Viceconte, Visconti.
    Da ambiti religiosi Arcidiacono, Bonfrate, Cardinale, Depiscopo, Del Vescovo, Lomonaco, Mastromonaco, Prestigiacomo, Prete.

     

    0004498 img0Fig.3: FontemedioevoFig.4: FonteDalle strade alle stelle: non solo cognomi

    Naturalmente, questo piccolo lavoro sarà più agevole in una classe a maggioranza italiana (peri cognomi stranieri occorrerà attrezzarsi diversamente). Ma i nomi “delle cose” sono una risorsa storica inesauribile. Caffarelli suggerisce tante altre fonti alle quali attingere: la toponomastica (l'insieme dei nomi attribuiti alle entità geografiche), l’odonomastica (il complesso dei nomi delle strade e piazze); le transonimie e i “travestimenti” agionimici (località con nomi legati ai nomi dei santi), i crematonimi (nomi di bar, ristoranti, negozi, eccetera), i deonimici (nomi comuni) derivati da eponimi (personaggi) medievali, ideonimi (nomi di origine medievale usati in contesti come film, serie tv, opere teatrali e letterarie, fumetti, videogiochi o pubblicità) e persino astrotoponimi (nomi di stelle, pianeti, eccetera).

     

     

     Tipi di nomi Esempi
    Odonomastici (esempi limitati alle citazioni di scrittori, poeti, letterati, storici, filosofi e umanisti).  Prime cinque vie, piazze, ecc. in ordine di frequenza: Dante (4.000 dediche), Petrarca, Ariosto, Boccaccio, Machiavelli.
     Transonimie e travestimenti  Dopo Maria (220 località e 21 comuni) e Pietro (43 comuni e 197 località), la terza posizione spetta a San Martino di Tours (153 località minori e 26 comuni).
     Crematonimi (esempi limitati ai ristoranti)  Buffalmacco, Ciacco, Calandrino e Chichibio, Ippogrifo, Brancaleone (dal film omonimo), Anno Mille, Medioevo, Federico II.
     Deonimici  Bertoldo, boccaccesco, botticelliano, cacasenno, dantesco, decameroniano, machiavellico, petrarchesco, raffaellesco, trivulziano.
    Ideonimici  Camelot, Il nome della rosa, Ivanhoe, La freccia nera, Lancillotto, L’armata Brancaleone, La Papessa Giovanna, Robin Hood. 
    Astrotoponimi (esempi limitati agli asteroidi)  Avicenna, Brunelleschi, Dante, Donatello, Ghiberti (Lorenzo), Giotto, Hieronymus (Bosch), Marcopolo, Odorico (da Pordenone). Petrarca, Pisano (Nicolò), Raffaellosanti, Robbia (Luca della), Simonida (principessa serba), Verrocchio. 

     

    DSCF0550Fig.5: FonteNomi e problemi storici

    Tanti nomi, ma ancora tante domande. Per esempio, quanto è autentico il Medioevo che affiora nell’onomastica italiana? Esiste davvero un retroterra storico-culturale dietro la scelta fatta dal piccolo Comune che riesuma il proprio toponimo medievale o che dedica una piazza a un protagonista del suo passato, vissuto un millennio prima? Come mai a Dante Alighieri sono dedicate una strada o una piazza in circa 2.500 comuni (seguito da san Francesco, sant'Antonio, san Rocco e Petrarca)? Quanto i genitori sono consapevoli del retroterra storico-letterario quando, nel XXI secolo, chiamano i figli, per esempio, Leonardo, Beatrice, Manfredi, Ginevra, Lapo o Sveva? Cosa c’è alla base della scelta ricorrente di chiamare un ristorante “Chichibio” (immaginario cuoco veneziano citato nella IV novella della VI giornata del Decameron di Boccaccio), “Ciacco” (collocato da Dante tra i golosi nel III cerchio dell’Inferno e da Boccaccio nella novella VIII della IX Giornata) o, semplicemente, “Medioevo”?

    Il linguista ci rivela che siamo continuamente catapultati nel Medioevo dai nomi delle persone e di quelli di varie località, dal modo in cui chiamiamo vie e piazze, dai nomi dei marchi commerciali, fino ad arrivare alle produzioni artistiche e ai libri. Di sicuro, si tratta di un Evo di mezzo più immaginato che conosciuto consapevolmente. E questo, anche se l'epoca è citata in modo superficiale e banale, a cominciare da giornalisti e comunicatori di vario genere.

    federico secondo palace hotel 1Fig.6: FonteIl libro di Caffarelli ci mostra dunque - attraverso un viaggio nel mondo dell’onomastica - quanto il Medioevo sia ancora oggi un architrave sia della vita quotidiana, sia delle politiche culturali del nostro paese. I nomi possono diventare, così, una miniera di scoperte. Dalle semplici curiosità, allo studio di problemi scottanti, ad esempio, quello della costruzione delle identità individuali e collettive. Per esempio, si possono studiare i cambi di nome di strade o piazze (per motivi storici, sociali o culturali); si può analizzare il ruolo dei nomi nella propaganda politica (si pensi al mai esistito Alberto da Giussano, tuttora abusato come simbolo di un noto partito) e nella comunicazione di massa. Uno spunto può essere offerto da un'indagine su medievalismo e società: per valutare la presenza dell'immaginario medievale nella società contemporanea, attraverso l'analisi dei nomi di persone, prodotti commerciali, marchi, associazioni, eventi e fenomeni di costume. Ciò permetterebbe di avviare una riflessione critica sul significato della "riscoperta" del Medioevo e sulle sue implicazioni culturali e sociali.

    asteroide GiottoFig.7: FonteInsomma, partendo dai nomi, gli studenti possono intraprendere un viaggio alla scoperta del passato, sviluppando al contempo competenze di ricerca, analisi critica e consapevolezza storica. Un percorso che il libro di Caffarelli suggerisce e rende possibile.

    Enzo Caffarelli, L’anima medievale nei nomi contemporanei, Olschki, Firenze, 2024

  • Il "Festival Federico II Stupor Mundi" dedica una sessione alla didattica

    10 borse di studio per giovani studiosi

    di Antonio Brusa

    Federico II PROGRAMMA generale web compressed Pagina 01 Capita molto di rado che un convegno di storia sia così aperto alle scuole. E' caso di questo convegno, organizzato da Fulvio Delle Donne, che è riuscito ad attrarre ad Ancona e Jesi (non dimentichiamolo: città natale di Federico II) fra i maggiori studiosi dell'imperatore svevo. Ancora più raro è il caso di convegni che dedicano una sessione intera alla didattica. Sono invitate le scuole e ci sono anche 10 borse di studio per giovani studiosi.

    Sul sito tutte le informazioni necessarie.

     

    PROGRAMMA

    BANDO BORSE DI STUDIO

     

  • Il laboratorio del tempo presente

    Diario di bordo, Bari 19 febbraio

    Ne sostengo la necessità da molti anni. Dobbiamo imparare, prima noi, ad analizzare il nostro tempo, e dobbiamo insegnare a farlo ai nostri allievi. A questo scopo, internet non sempre risponde bene. Troppo spesso, anzi, alimenta quel circolo fra fatti e eventi, che non ci permette di guardare le cose un po' dall'alto. Per questo, ci servono gli studi, quelli seri. Magari più tosti da leggere e capire, ma nei quali troviamo le dritte per ricostruire vicende che abbiamo vissuto, cercare qualche filo conduttore valido e facile da spiegare.

    A me è piaciuto molto questo articolo(“I soliti comunisti”: Il discorso anticomunista in Italia dopo il 1989 - Il Calibro.com), di Andrea Mariuzzo, precario di lusso, dal momento che ha studiato a Harvard e a Parigi. L'anticomunismo è una delle categorie politiche più usate. Come si analizza dal punto di vista di uno studioso di scienze politiche (e di storia attuale, mi viene da aggiungere)? Come trasformare "l'anticomunismo" in un concetto scientifico, e quindi adoperabile in un processo di formazione alla storia?

    Troverete in questo articolo molti eventi e fatti, che o avete vissuto, se lo avete fatto abbastanza come me, oppure avete ascoltato o citato nei discorsi pubblici sul passato recente. Mariuzzo li sistema e ce ne dà una chiave di comprensibilità, splendidamente aperta sul presente. Per questo è un ottimo saggio, da inserire nella nostra biblioteca.

    Ovvio che per gli allievi odierni, tutto questo non sarà percepito come "un fatto reale e presente". Ovvio che non ne sanno nulla e che per loro sarà quasi la stessa cosa che ascoltare la storia di un feudo. Ovvio che avranno bisogno di cronologie certe (che paradossalmente pretendiamo per la storia di Roma e non curiamo per la storia più recente). Ovvio che ci dobbiamo lavorare, e che non ci aiuta quasi nessuno.

    Ma se non lo facciamo noi, chi lo farà?

  • Il paesaggio pugliese. Una grande aula di storia e geografia

    Un master didattico per gli insegnanti

    Autore: Antonio Brusa

    Lo trasformeremo in un'aula di storia e geografia, il nostro territorio. Si partirà dalla preistoria, dai primi insediamenti neolitici, fino ad arrivare alle trasformazioni del presente e alle speranze (e battaglie) per il futuro. Ad ogni tappa si mostreranno i segni della storia e i modi per usarli in classe. E, ad ogni tappa, ci sarà un'uscita sul territorio, per una dimostrazione didattica concreta.

    Ci siamo riusciti, finalmente, a dare il via a questo master, con l'aiuto dei colleghi di Pedagogia, di Loredana Perla e di Viviana Vinci in primo luogo; dei colleghi del CRIAT (il centro di studio sul territorio che riunisce tutte le Università pugliesi); e con l'aiuto di un bel gruppo di insegnanti/esperti, che saranno i tutor didattici di questa avventura.

    Il master si svolgerà in soli quattro weekend. Ci vedremo il venerdì pomeriggio, per le lezioni storiche e pedagogiche; il sabato pomeriggio, invece, ci saranno le dimostrazioni didattiche e i lavori di gruppo. La domenica mattina si parte.

    Inizieremo a lavorare a settembre e termineremo, quindi dopo quattro settimane. A breve pubblicheremo il calendario: ma - ATTENZIONE! - se questa proposta vi interessa, pre-iscrivetevi subito, perché il 14 aprile l'Università chiuderà le adesioni. E, se non riusciremo ad arrivare alla quota minima, ahimé, il master non si farà. Nel link troverete tutti i dati per iscrivervi. Ma - ATTENZIONE BIS! - dal momento che, lo avete capito dalle date, la nostra Università fa di tutto per facilitarvi, quando tenterete di iscrivervi, a meno che non siate dei maghi digitali, non ce la farete.

    Non vi scoraggiate. Due colleghe VIviana Vinci (3202247736) e Ilenia Amati (3289626823) si prodigheranno per aiutarvi

    http://www.uniba.it/…/…/il-territorio-come-risorsa-didattica

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