didattica della storia

  • L’innovazione possibile di “Insegnare storia”.

    di Antonio Brusa

    Immagine1 I primi tre libri della serie “Insegnare storia” possono essere considerati il manifesto della collana “Insegnare storia”. L’innovazione scolastica spesso è considerata una sorta di metanoia, di rivolgimento dell’esistente. Non senza ragioni: la quantità di ostacoli che si frappongono fra la realtà e un modello accettabile di insegnamento è tale che vien voglia di rovesciare tutto e ripartire da capo. Dalla burocrazia, alle classi numerose, al monte ore risicato, agli allievi che hanno difficoltà di lettura e una scarsa propensione allo studio della storia, è ben nota la lunga schiera di impedimenti che vengono tirati in ballo quando la discussione verte sul mestiere dell’insegnante. Raimundo Cuesta, un apprezzato studioso spagnolo di didattica della storia, ha scritto che nella testa degli insegnanti convivono tre “storie”: la “storia sognata”, quella che tutti vorremmo portare in classe; la “storia regolata”, quella che pretenderebbero programmi e direttive; e la “storia realizzata”, quella che alla fine riusciamo a fare. E la distanza fra la prima e l’ultima è, per molti, deprimente.

    Il guaio è che si parla poco di questi argomenti quando si tratta di formare gli insegnanti che, quindi, nonostante il succedersi di tentativi, uno più effimero dell’altro, vengono ancora preparati come nell’Ottocento; e se ne parla tanto nelle aule dei professori o nei corsi di aggiornamento, quando ormai queste difficoltà incombono tutte insieme, e tu devi fare lezione fra dieci minuti.

    Cambiare tutto, di colpo, non è cosa di tutti i giorni. Questi tre libri suggeriscono un’altra strada: si può cambiare qualche aspetto particolare, e questa piccola innovazione si può cumulare con altre innovazioni. Con calma, dando tempo al tempo. Non è una novità. Qualcuno potrebbe ricordare di un ministro che diceva che non avrebbe fatto riforme complessive, ma usato il “cacciavite”. Aggiustare, rattoppare. Mettere delle pezze.

    Certo, il rischio c’è. Un “particolare” ha senso ed efficacia se fa parte di un quadro generale. E, quando si è da soli, spesso questo quadro sfugge. In questo caso, i “particolari” andrebbero a formare un brutto vestito di arlecchino. Una collana può evitare questo pericolo. I tre libri di Insegnare storia si muovono all’interno di un quadro di alfabetizzazione storica ormai consolidato nella ricerca storica internazionale. Lo scopo di un insegnante è quello di avviare i propri allievi al “pensare storicamente” (Ne parlo in Giochi per imparare la storia: pp. 84-87, ma la bibliografia su questo tema comincia ad essere interessante, anche in Italia). Per questo motivo, l’innovazione proposta deve avere salde radici storiografiche. Ma queste non bastano. Quarant’anni di ricerca didattica italiano ci dimostrano che occorre che questa innovazione sia formulata in modo da essere applicata nelle classi italiane così come sono ora (e non come le vorremmo). Questa innovazione deve passare dalla “prova della classe”, prima di essere diffusa e, di conseguenza, deve fare i conti non solo con la realtà, ma anche con altre discipline, fino a ieri estranee alla storia: dalle varie scienze della formazione, alle discipline cognitive, antropologiche e così via.

    Queste sono le “innovazioni possibili” dei tre libri. Se è impossibile cambiare tutto, dall’oggi al domani, comunque domani potremo parlare in classe della società romana a partire dalla bottega o dalla catena di uno schiavo; impostare una lezione sulla Rivoluzione francese, usando in modo intelligente Kahoot!; e, alla fine di un bimestre, perché non ripetere ciò che si è studiato col gioco di carte inventato da Giuseppe Losapio, che riprendo nel mio libro (pp. 131 ss)?

    A mano a mano, e se la collana sarà accompagnata dal successo che questi primi volumetti stanno incontrando, si aggiungeranno altre tessere di questo complesso mosaico. Per l’anno prossimo abbiamo in cantiere il libro sul curricolo in continuità, dall’infanzia alla secondaria di primo grado, per mettere a disposizione di tutti la sperimentazione della rete LabSto21; il libro sulla storia del Vicino Oriente raccontata ai bambini (quanti stereotipi e misconoscenze sono presenti nella manualistica corrente …); una guida alla didattica museale. E poi, parleremo di storia locale, di uso delle fonti iconografiche, del laboratorio, di come fare bene una lezione.

    Questi libri sono congegnati in modo tale che possano essere adottati nelle università. Ormai tutte hanno un corso di Didattica della storia. Specie le facoltà di Scienze della formazione. Studiare qualcosa di didattico prima di essere gettati nella mischia, non è una cattiva idea. Anzi, è il succo della proposta didattica di “insegnare storia”. Una buona innovazione didattica è un aiuto per chi insegna e un formidabile strumento di formazione per chi vuole insegnare.

  • L’Intervista impossibile: Ottaviano Augusto. L’intelligenza artificiale come strumento per apprendere la storia antica.

    di Elisabetta Buono

    1 N  Se Ottaviano potesse parlare, cosa ci racconterebbe?
    In un contesto in cui ci si chiede se l’Intelligenza Artificiale sia utile o dannosa per la scuola, se sia da condannare, vietare, bandire, o sia piuttosto da integrare nelle lezioni come utile supporto, insomma, nell’attuale dibattito tra detrattori e sostenitori, puristi della scuola senza tecnologie ed entusiasti delle ultime novità nel campo del machine learning, in due classi del biennio di un Liceo Artistico in provincia di Cagliari – il liceo “Brotzu” di Quartu S. Elena - abbiamo provato a coglierne sia le potenzialità che i limiti: e questo attraverso la trattazione di contenuti disciplinari che ci hanno consentito di raggiungere, anche, obiettivi didattici perfettamente in linea con un curricolo scolastico tradizionale.
    Il nostro istituto è una piccola scuola di studenti a forte rischio di abbandono scolastico e con un elevatissimo numero di studenti con bisogni educativi speciali, più del 50% in ogni classe. Credo che questa nota possa aiutare il lettore a valutare questo percorso di studio dell’antico, fra scoperta delle fonti, interviste impossibili, e mondo reale e virtuale.

     

    La lezione partecipata e ChatGPT

    ChatGPT è un modello di linguaggio naturale basato sull'architettura GPT-3.5, addestrato da OpenAI per generare testo in modo autonomo. È progettato per comprendere e rispondere alle domande e alle richieste degli utenti in modo naturale e coerente, utilizzando una vasta conoscenza del linguaggio naturale e di diversi argomenti. ChatGPT è in grado di svolgere molte funzioni, come la generazione di testo creativo, la traduzione, la correzione grammaticale e molto altro ancora.

    Per chi non l’avesse intuito, questa definizione viene proprio dalla chatbot (simulatore di conversazione umana). Si noti la proprietà di linguaggio (la chat si esprime nella lingua con cui viene formulata la domanda), la chiarezza, la coerenza e la capacità di sintesi.

    Quello dell’AI e delle sue straordinarie potenzialità, è argomento di grande attualità. Ma come la utilizzano i nostri studenti? Sappiamo che i più scaltri sanno come trovare le risposte di un compito, come farsi fare riassunti, temi, ricerche, risolvere problemi. Possiamo provare, come insegnanti, a suggerire ai nostri studenti un diverso utilizzo, magari più costruttivo, di questa straordinaria tecnologia? Questa attività è stata proposta a due classi seconde con l’obiettivo di:

    • conoscere l’argomento “Ottaviano Augusto”;
    • ragionare sulle fonti (e su quelle in rete in particolare);
    • introdurre come argomento trasversale quello dell’Intelligenza Artificiale;
    • utilizzare l’editor grafico Canva1 per realizzare un prodotto multimediale;
    • conoscere come è impaginato e strutturato un quotidiano.
    • E, infine, quello di realizzare un prodotto: “La Gazzetta dell’antica Roma”.

    Nella prima fase, che definiremo di discussione guidata e “innesco”, l'insegnante ha introdotto l’argomento, utilizzando il manuale in dotazione. Questa fase preliminare è durata una decina di minuti durante i quali si è cercato di collocare Augusto nel suo contesto, seguendo i vari paragrafi e linee del tempo, con riferimenti, però, anche alla sua vita privata e alla sua personalità. Lo scopo era quello di incuriosire studentesse e studenti lasciando aperte questioni ed eventuali piste di approfondimento.

     

    Interrogare ChatGPT

    A questo punto è entrata in gioco l’Intelligenza Artificiale attraverso la nota applicazione Chat GPT2. Come detto, è questo un risponditore virtuale (GPT sta per Generative Pre-trained Transformer: Trasformatore Pre-addestrato Generativo). È un chatbot ideato per generare testo automatico ad imitazione di quello umano. Il modello di rete neurale (modello linguistico ampio) è stato addestrato su un enorme database di testo, tanto che può rispondere a qualsiasi domanda, o quasi. La conversazione può essere, per così dire, personalizzata, ed è ciò che è stato fatto. Il prompt, cioè l’istruzione iniziale per generare risposte è stato: “Facciamo un gioco: immagina di essere Ottaviano Augusto e rispondi alla domanda…”.

    L’insegnante, dunque, lancia l’applicazione alla LIM e invita gli studenti a porre le domande a Ottaviano Augusto.

    Inutile dire che gli studenti si sono sbizzarriti, proponendo le più svariate questioni: dalle scelte politiche o culturali dell’Imperatore, alla vita privata; domande insolite, inaspettate (cosa pensi della Sardegna? ami i cavalli? quanto pesi?), il tutto condito da una forte curiosità e da un coinvolgimento attivo, visto che era il grande Ottaviano “in persona” a rispondere.

     

    gpt1

     

    Verificare ChatGPT: la vera figlia di Augusto

    Dopo questa fase, in cui gli alunni, selezionando un certo numero di domande e risposte, confezionano l’intervista, viene rivolta loro la fatidica domanda: Chat GPT dice la verità?

    Insinuato il dubbio, si chiede ai ragazzi e alle ragazze di verificare le risposte, formulando domande più precise e consultando autorevoli fonti in rete. Si scopre che non tutto ciò che è ChatGPT ha dichiarato è vero. In alcuni casi, il risponditore automatico confonde gli imperatori, si contraddice e, quanto più strana, insolita o inconsueta è la domanda, tanto più “inventa”, senza mai ammettere che non sa rispondere.

     

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    Compito dell’insegnante diventa, quindi, quello di smontare l’oracolo, aiutare gli studenti a individuare fonti certe, testimonianze, prima di tutto in rete, ad avere un atteggiamento critico e accettare l’idea che in alcuni casi rimarranno dei dubbi dal momento che non sempre è possibile rispondere con assoluta certezza oppure vi sono opinioni discordanti tra gli stessi storici. Si citano autorevoli studiosi come Canfora3 e Traina4, si leggono stralci dal Res gestae divi Augusti a cura di Nicola Guarino, leggibile online5. Insomma, approfondiamo in classe l’argomento come piccoli indagatori del passato.

     

    Ma Cagliari fu fondata dai Romani?

    ChatGPT ha affermato che Cagliari è stata fondata da Ottaviano. Sarà proprio così? La risposta ci dà l’occasione per aprire una parentesi sulla storia del capoluogo sardo. Wikipedia riporta che uno scrittore latino del III secolo, Gaio Giulio Solino, nella sua opera De Mirabilibus Mundi, afferma che la città di Caralis venne fondata dall'eroe greco Aristeo, giunto in Sardegna dalla Beozia. Una breve ricerca, e troviamo il documento in latino nel sito: https://www.thelatinlibrary.com/. Qui è riportato il capitolo sulla Sardegna (il quarto): Sardinia. In ea de solifuga, et herba Sardonia. Vi leggiamo: (…) Mox Aristæum regnando his proximum in urbe Caralis…6. Si fa, poi, cenno alla pubblicazione di Sergio Atzeni sulle vicende storiche di Cagliari7 e agli studi di Francesco Cesare Casula8. Si ragiona sul fatto che vi è una differenza sostanziale tra il concetto di “fondare” e quello di “conquistare” o “dominare”.

     

    Il finto Augusto si attribuisce il Circo Massimo

     

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    Ottaviano ha costruito il Circo Massimo? Altra ricerca e altra precisazione: le prime installazioni risalirebbero addirittura all’epoca di Tarquinio Prisco. Giulio Cesare realizzò il circo in muratura. Augusto si limitò a restaurarlo dopo un incendio, facendovi aggiungere l'obelisco flaminio, ora collocato in Piazza del Popolo. In questo caso l’informazione viene presa dal sito della Sovrintendenza Capitolina ai beni culturali9.

     

    ChatGPt colto in flagrante

    Una veloce puntata su un altro risponditore automatico integrato nel motore di ricerca della Microsoft, Bing, ha portato in classe momenti di ilarità. Alla domanda: “che fonti storiche utilizzi per rispondere come fossi Ottaviano Augusto?”, il bot ammette:

     

    Immagine5

     

    L’ilarità con la quale gli studenti accolgono questa dichiarazione è una buona prova del fatto che hanno capito quanto sia importante affidarsi a fonti autorevoli, quando si parla di passato.

     

    Quotidiano romano Frau Eleonora  Il prodotto multimediale Augusto Ottaviano Mazzella Chiara 2A

    Ci si trasferisce nell’aula informatica. Dopo aver esaminato con l’insegnante alcuni modelli di quotidiani e la loro impaginazione, i ragazzi sono invitati a inventare una “gazzetta dell’antica Roma” (per un’analisi dettagliata di questo modello didattico si veda: Cristina Bonelli, Il laboratorio come didattica del prodotto, in Bernardi, Monducci (a cura di), Insegnare storia, Utet 2012). L'insegnante guida gli allievi nelle scelte grafiche, nell’impianto, nella contestualizzazione e nella selezione dei contenuti. A questa fase vengono dedicate due ore, una alla settimana, in due settimane successive, nelle quali studenti e studentesse hanno avuto il tempo di effettuare ricerche individuali e completare il progetto anche in autonomia.

    Anche questa fase ha riservato all’insegnante delle piacevoli sorprese: ragazze e ragazzi si sono documentati, per esempio, sul carattere tipografico da utilizzare. Per quanto il prodotto da realizzare fosse ovviamente un modello di pura fantasia, pure si è cercato di renderlo verosimile, credibile, contestualizzato. Gli studenti scoprono che a Roma esisteva una scrittura corsiva, la capitale corsiva latina, maiuscola e minuscola. Uno studente indaga sul colore da utilizzare e scopre che i romani utilizzavano inchiostro nero, ricavato dalla pece, e rosso, ottenuto da un minerale. Un’altra studentessa, volendo inserire nella sua pagina una pubblicità, va alla ricerca delle bambole utilizzate dai bimbi nell’antica Roma. Gli esempi da riportare sarebbero tanti. Tutti testimoniano la piacevole sensazione della curiosità, della voglia di conoscere e di ampliare le proprie conoscenze andando oltre il manuale, basandosi, stavolta, sulla comparazione di fonti e sulla loro selezione.

    Insomma, un atteggiamento da esploratori che ha reso la storia viva con quel giusto approccio critico e ragionato che era, in definitiva, il principale obiettivo di questa attività.

     

    Valutazione:

    La valutazione è stata sia di processo che di prodotto: gli indicatori (esplicitati e selezionati insieme ai ragazzi prima dell’inizio dell’attività), sono stati:

    • partecipazione attiva;
    • selezione dei contenuti;
    • rielaborazione delle risposte ottenute e verifica della loro veridicità;
    • capacità collaborativa (in classe si sono aiutati);
    • realizzazione del progetto grafico (immagini contestualizzate, libere; aspetto grafico; creatività).

    Questa attività ha consentito a tutti gli studenti coinvolti di raggiungere risultati ben al di sopra della sufficienza. Non ci sono stati progetti superficiali, trascurati o poco curati.

     

    Considerazioni finali

    L’argomento è stato analizzato, approfondito e studenti e studentesse non lo dimenticheranno facilmente.

    Attraverso le domande e le risposte, dagli stessi ragazzi è nata l’esigenza di spaziare, effettuare collegamenti e relazioni con altri personaggi, eventi e vicende della Roma imperiale (difficilmente sarebbe accaduto con una lezione frontale).
    L’uso combinato delle fonti in rete (dalle immagini libere da diritti d'autore, alle fonti ritrovate in rete, all’analisi dell’attendibilità delle risposte di ChatGPT) e della letteratura in cartaceo, ha fatto nascere un atteggiamento consapevole, attento nei confronti delle informazioni ricevute: gli studenti ora sanno che non tutto ciò che si trova sul web, per quanto ammantato di autorevolezza, è vero o corretto.

    Tutti nelle due classi sono stati coinvolti e si sono divertiti, anche coloro che in genere hanno un atteggiamento tiepido nei confronti degli argomenti di Storia che si affrontano del biennio. Inoltre, anche chi era stato assente in alcune fasi del percorso, ha voluto concludere il progetto, segno che i metodi dell’imparare facendo e della scoperta attraverso l’errore sono stati vincenti.
    L’attività di interrogazione della Chatbot ha “rubato” in tutto poco più di 4 ore di lezione. Troppe per un solo imperatore romano? Forse. Ad ogni modo gli obiettivi raggiunti sono stati veramente tanti, da quelli nozionistici relativi a fatti ed eventi storici, alle competenze disciplinari sul pensiero storico, alle competenze trasversali, digitali, metodologiche, di cittadinanza attiva, di ricerca e approccio ragionato ai contenuti di conoscenza.

    Per chiudere, ecco una selezione delle “Gazzette” inventate dagli allievi.

     

     Cliccare sull'immagine per ingrandirla

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    Gli elaborati sono stati poi messi in mostra nel Metaverso al seguente LINK.


    Note

    1 Canva è un noto editor grafico online, molto utilizzato nelle scuole grazie all’opportunità di avere gratuitamente la versione pro. Si trova all’indirizzo: https://www.canva.com/

    2 https://openai.com/blog/chatgpt

    3 Canfora L., Augusto figlio di Dio, Edizioni Laterza, Roma, 2015.

    4 Traina G., La storia speciale. Perché non possiamo fare a meno degli antichi romani, Edizioni Laterza, Roma 2020.

    5 https://www.antonioguarino.it/wp-content/uploads/2016/08/Res-gestae-divi-augusti-1968.pdf.

    6 https://www.thelatinlibrary.com/solinus1.html.

    7 Atzeni S., Cagliari. Storia di una città millenaria, youcanprint, 2015.

    8 Casula F. C., Breve storia di Sardegna, Carlo Delfino Editore, Sassari, 2017.

    9 https://sovraintendenzaroma.it/i_luoghi/roma_antica/monumenti/circo_massimo.

     

  • La caduta dell’impero romano e gli ultimi imperatori (2)

    Autore: Antonio Brusa


    Ovvero, gli imperatori sfigati

    Parte II: Materiale per gli allievi

     

    1.    Schema dell’attività

    Destinatari: allievi di prima media o di prima/seconda superiore

    Tempo: 4 ore

    Obiettivi principali:
    •    conoscere le vicende relative alla caduta dell’Impero romano;

    •    riflettere sulle cause di quell’evento;

    •    riflettere sul rapporto fra biografia e storia ( … )

    Fasi di lavoro
    Aprite con il dossier di immagini. Va trattato in modo molto leggero e rapido, altrimenti se ne va via troppo tempo. Serve per introdurre il tema e raccogliere le idee e i preconcetti degli allievi.

    Assegnate le 14 biografie. Lasciate agli allievi il tempo per studiare la recitazione. Date le istruzioni perché interpretino il personaggio al meglio. Agli altri allievi assegnate il compito di fare “gli storici”. Ascoltano e giudicano (se volete possono fare domande). Voi sarete l’intervistatore. Li chiamate, con il dovuto rispetto, in ordine cronologico. Si vota e si elegge il più sfigato e il più fortunato (o bravo).

    Al termine (o anche in un altro momento, purché non troppo distante) avviate una riflessione sul momento storico, mettendo in evidenza i temi esposti nel dossier per gli insegnanti: la provincializzazione dell’impero, il ruolo dei barbari, l’impresa di cartagine, l’attività degli imperatori. Si potrebbero sfruttare anche le monete, riportate per ogni biografia.


    2.    Dossier di immagini
    Con un breve commento introduttivo, presentiamo in classe le immagini. Sono tutte dell’Ottocento anglo-francese. La tecnica può essere la seguente: leggiamo le prime due (quelle delle galline di Onorio), facendo vedere come sia importante soffermarsi sui particolari, e che è bene elencarli tutti, prima di fare ipotesi sul loro significato. Poi, possiamo lasciare le altre alla lettura d ei ragazzi, collettiva o per piccoli gruppi. Alla fine, chiediamo ai ragazzi di esprimere le loro opinioni sulla caduta dell’impero romano.

      J. W. Waterhouse, Dolce far niente, 1879

     Lawrence Alma-Tadema (1836-1912), Le rose di Eliogabalo, 1888

     

      Jean-Paul Laurens (1838-1921), Onorio,1890; Joseph Noël Sylvestre (1847-1926), Il sacco di Roma, 1890

    Thomas Cole (1847-1926), Il sacco di Roma, 1890
     

    3.    Imperatori sfigati. Dramatis personae

    Ecco finalmente le biografie. Sono corredate dalla riproduzione di solidi aurei (con due eccezioni “barbariche”: le monete di Ricimero, nella quale si riproduce il monograma RM  e di Odoacre, ritratto con i baffi, come mai un imperatore avrebbe accettato).

    Qualche suggerimento per la loro lettura. L’imperatore si fa ritrarre di profilo (alla moda classica dell’impero) o frontale, secondo uno schema tardo e bizantino. Importante osservare com’è abbigliato: tunica oppure armature. Il suo copricapo: corona, elmo, oppure ghirlanda di foglie. Osservate se ha armi, scudi. A volte esibisce il Chrismòn. Il retro è ugualmente interessante. VI viene raffigurata una croce, oppure la vittoria, mezzo pagana (le ali) e mezzo cristiana (la croce). Oppure lo stesso imperatore trionfante. Notare anche la scritta COMOB, sempre sul retro: è la garanzia imperiale che si tratta di una moneta di oro fino.

    Sono la testimonianza che l’impero durò fino alla fine, e anche dopo, dal momento che sia Odoacre che Teodorico coniarono monete (solidi o tremissi bizantini), spesso con l’effige dell’imperatore bizantino in carica.

     

    Galla Placidia (380-450)

    Sono cattolicissima. Questo lo sapete tutti, perché tutti avete visto il mio mausoleo a Ravenna. Quello che non sapete è che sono una “donna dello Stato”. Per me, la repubblica, come noi romani chiamiamo l’impero, viene prima di tutto. Anche di mia sorella. Tanto è vero che la feci condannare a morte, quando venne accusata col marito Stilicone di aver favorito i goti, che erano venuti ad assediare Roma.

    E, invece, mio fratello Onorio non mi va a dare in ostaggio proprio a loro, ai goti? Vado in Gallia, sposo Ataulfo, il re goto (voi li chiamate visigoti). Gli faccio un figlio. E’ un possibile successore all’impero. Avevo allora ventidue anni.

    A mio fratello questa prospettiva non piace. Fa guerra ai goti, vince, e io torno in patria. Lui, inesauribile, ha pronta un’altra sorpresa: mi fa sposare Costanzo. Bravo generale, nulla da dire. Ma brutto. Accetto (e poi non dite che non sono una “donna dello Stato”). Faccio due figli.

    Finalmente, ecco l’erede: Valentiniano III.

    Finalmente, Onorio muore e Costanzo diventa imperatore. E io imperatrice.

    E FINALMENTE, anche Costanzo si toglie di mezzo. Il figlio è troppo piccolo. Dunque governo io. DA SOLA. Una donna a capo dell’impero di Occidente.

    Purtroppo i maschi è difficile farli andare d’accordo. Bonifacio, Felice e Ezio. Tre generali magnifici. Roma non ha mai avuto tanti generali, così bravi, contemporaneamente. Ma sempre a litigare fra di loro. Mando Ezio in Pannonia (per voi è l’Ungheria). Così se la vede con Attila, il più cattivo dei barbari. Felice lo spedisco in Gallia, contro i goti e Bonifacio in Africa, dove era tutto tranquillo.

    I maschi e i loro pasticci. Bonifacio diventa ariano. Un eretico. Non posso sopportarlo, perché sono cattolica e gli tolgo il comando. Che ti fa lui? Va a chiamare Genserico, il re dei vandali che, fino a quel momento se ne era stato buono buono in Spagna.

    Un guaio. Quello viene e conquista l’Africa.

    E Enzo? Certo era il più bravo e io l’ho sempre appoggiato. Diventa amico di Attila, gli promette mia figlia in sposa. E Attila chiede metà impero come dote.

    Ovviamente, Valentiniano (che nel frattempo è diventato maggiorenne) dice di no.

    E qui cominciano i disastri che sapete:  le invasioni, i saccheggi, le guerre. Non faccio a tempo a vederli, però, perché muoio nel 451, dopo aver guidato un impero e fatto politica per quasi mezzo secolo.

    Vi devo confessare, però, che il mio vanto maggiore è la mia fede. Sono una ferrea cattolica. Non per nulla ho fatto uccidere Libanio. Sapete, quel filosofo pagano che si diceva facesse pure miracoli? Una nullità, tanto è vero che non lo studiate manco a scuola.
     


    Petronio Anicio Massimio (455)

    Valentiniano, questo non lo doveva fare. Passi che ha ucciso a coltellate Enzo, il miglior Primo generale dell’impero. Ma farsi mia moglie, con tutte le donne che poteva avere. Uno sfregio.

    E io l’ho fatto ammazzare.

    E poi mi sono fatto nominare imperatore.

    E poi mi sono preso sua moglie. Eudocia, la donna più bella di Roma.

    Solo che questa *** per vendicarsi ha chiamato Genserico, il re dei vandali. Quello, che aveva conquistato l’Africa,  non si è fatto pregare. Ha preso la flotta ed è venuto in Italia. Ha assediato Roma e l’ha saccheggiata.

    Quello che non capisco è perché il popolo romano se l’è presa con me. Dice che è tutta colpa mia. E, quando ho cercato di scappare (attenzione: non per paura, ma per salvare la dignità imperiale!), mi hanno preso a sassate e mi hanno ucciso.

    Per Ercole! (lasciatemi dire questa imprecazione pagana), ho regnato per appena tre mesi!
     


    Avito Marco Mecilio Flavio Eparchio (455-456)

    Vivevo in Gallia, in una villa da favola, con giardini, cascate, giochi d’acqua, boschetti.

    Quando i Visigoti, che stavano in Gallia, aiutarono i Romani a sconfiggere Attila, nella battaglia “mondiale” dei Campi Catalauni, decisero che era il momento di avere un imperatore amico loro. E io lo ero. Quindi, mi convinsero a prendere il posto di Petronio Massimo, morto ammazzato.

    Ho nominato subito Flavio Ricimero a Primo Generale dell’impero. Un bravo generale. Se la vide alla grande contro i Vandali, in Sicilia.
    E’ un tipo sveglio. Forse troppo. Infatti, quando i Vandali con la loro flotta bloccarono i rifornimenti di grano a Roma, e la popolazione si ribellò, lui ne approfittò e mi depose. Diceva che avevo perso la fiducia del popolo e che occorreva un nuovo imperatore.

    Mi fece vescovo di Piacenza.

    VESCOVO AL POSTO DI IMPERATORE! Non mi va. Me ne scappo nella mia Gallia per rimettermi con i miei amici, i nobili gallo-romani e i visigoti.

    Ma quello – Ricimero - mi raggiunge e mi fa uccidere.
     


    Flavio Giulio Valerio Majorino (457-461)

    Erano tutti contenti di me. Senatori, proprietari terrieri, il popolo, le città. Li ho difesi dai nemici, ho ridotto le tasse, ho permesso alle città di autogovernarsi, ho dato una calmata agli esattori fiscali (erano veramente troppo violenti, lo riconosco).

    Per una volta tanto, gli storici della vostra età giudicano bene un imperatore!

    Poi ho tentato la grande impresa. Ho armato una flotta di 300 navi, per liberare finalmente i mari dai Vandali, e restituirlo a Roma. Ma Genserico, il re dei Vandali, quella volpe, mi ha colto di sorpresa. Ha distrutto la mia flotta.

    Questo è bastato a Ricimero, che pure era un mio vecchio amico, a fargli pensare che ero ormai un cavallo perdente. E mi ha fatto uccidere.
     


    Libio Severo Serpenzio (461-465)

    Io lo capisco Ricimero. Troppo astuto, bravo. Doveva essere lui l’imperatore, e invece non poteva, perché era un barbaro svevo.

    Aveva tolto di mezzo Maioriano, perché limitava il suo raggio di azione, e ha voluto me. Il patto era che l’avrei dovuto lasciar fare. Ma di qui a dire che ero un “sovrano fantoccio” – come scrivono certi storici -  ce ne vuole.

    Io, per conto mio, me ne sarei stato tranquillo nelle mie tenute in Lucania. E ho fatto, onestamente, la mia parte di imperatore. Solo che il mio collega di Oriente aveva altre idee. Era lui, che voleva mettere le mani su Roma, attraverso un suo fantoccio.

    Così, Leone Il Grande, l’imperatore di Costantinopoli, si è messo d’accordo con Ricimero, e mi hanno fatto fuori. Hanno detto che ero morto naturalmente. See. Mi hanno avvelenato.


     
    Antemio Procopio (462-472)

    Ci fu una specie di accordo internazionale, fra Genserico, re dei Vandali, Leone il Grande, imperatore d’Oriente e Ricimero, il Primo Generale dell’impero d’Occidente. E io ero il garante di questo accordo. Sono un greco, e perciò un uomo di fiducia di Leone il Grande. Oltretutto, ero suo genero.

    Mi designarono al posto di Libio Severo, quel vecchio incapace, e diventai imperatore.

    Era un doppio gioco internazionale. Tutta una manovra per attaccare in forze i Vandali. Abbiamo raccattato – io e Leone il Grande - tutto l’oro e l’argento che si riuscì a trovare in Occidente e in Oriente. 40 tonnellate d’oro. Varammo la più grande flotta mai messa in mare dall’impero romano in tutta la sua storia. 1300 navi e 100 mila soldati. Abbiamo fatto vela per l’Africa e abbiamo attaccato Cartagine, la capitale dei Vandali.

    Altro che decadenza, come dite voi storici.

    Voi storici la fate facile. Era una “invincibilis armata”, scrivete paragonandola ad un’altra flotta di un altro imperatore che non conosco, un certo Filippo II mi pare. Fatto sta che Genserico ci ha attaccato con le navi incendiarie, i brulotti, e ci ha sconfitti.

    Voi che contate gli anni dalla nascita di nostro signore, direste che è il 468 d. C. Per noi romani è il settimo anno del mio impero, 1220 anni dopo la fondazione di Roma. Cartagine si è vendicata. Segnatevi questa data.

    Quella sconfitta fu una vera disgrazia. Le cose cominciarono a andar male. Ricimero mi dette la caccia. Cercai di scappare. Mi travestii da mendicante, ma mi hanno preso e mi hanno tagliato la testa.

    Lo so, è la legge di Roma. Chi perde paga, soprattutto quando è un imperatore.
     


    Olibrio (472)

    La mia fortuna fu anche la mia disgrazia. Ora posso dirlo. Avevo sposato Placidia, la figlia di Licinia Eudocia (ricordate? la bellissima moglie di Valentiniano, quella che Genserico aveva portato a Cartagine come ostaggio). Perciò, quando sposo Placidia, entro in “quota Genserico”, e siccome me ne ero scappato a Costantinopoli, sono anche in “quota impero d’Oriente”.

    Lui, Genserico, dopo aver distrutto la flotta di Antemio e di Leone,  pretende di avere il suo imperatore. E così eccomi qua, a Roma.
    Questa è stata la mia fortuna. Finalmente posso attuare la mia politica. SONO MOLTO RELIGIOSO, erigo chiese, voglio la salvezza del mondo. E poi, sotto il mio regno, muore Ricimero (altra fortuna).

    Bah, per quanto religioso, forse cedevo troppo ai piaceri della tavola. Ero malato di idropisia e questa mi ha ucciso. A meno che a farlo non sia stato il mio successore. Ma lo so. E’ un incidente spiacevole che può accadere a un imperatore romano.
     
    Flavio Ricimero (455-472)

     
    Me ne hanno dette di cotte e di crude. E mica solo i miei contemporanei. Anche voi storici vi siete sciacquati la bocca. E vai con la maldicenza che sono crudele, che faccio intrighi, che manovro imperatori come fantocci, che penso solo ai fatti miei e ad arricchirmi, che non appena uno diventa troppo potente, lo faccio ammazzare.

    Insomma. BASTA.

    Il grande Costantino (che sia sempre lodata la sua memoria) che cosa faceva? E Onorio? E la tenera Galla Placidia? E lasciamo stare Valentiniano III, che quando non andava a donne o a caccia, faceva ammazzare questo e quello.

    Tutto per non ammettere che, in questa massa di gente che complotta per il potere, io sono il più bravo. Ben quattro imperatori sono riuscito a far eleggere: Majorino, Libio, Antemio e Olibrio. Sono riuscito a tenere a bada Vandali, Visigoti, Burgundi, Svevi. Ora mi alleavo con uno, ora con l’altro. Certo: se mi alleo con i Vandali, è chiaro che bisogna far fuori l’imperatore appoggiato dai Visigoti. E poi, vi pare poco riuscire ad avere buoni rapporti con l’imperatore d’Oriente? E se lui e Antemio fanno quella figuraccia contro i Vandali, mica me ne posso stare con le mani in mano?

    Provate a pensare: quando sono morto (di malattia o avvelenato? boh), dopo di me è cominciato lo sfacelo.
     


    Glicerio (473-474)

    Ero il capo della guardia imperiale, quando Olibrio è morto improvvisamente. Ho dalla mia le truppe germaniche. Il Nord, finalmente. Tutti stanchi di queste intromissioni di Costantinopoli.

    Quale occasione migliore? Ho colto la palla al balzo e sono diventato imperatore. Ma non ho fatto in tempo a spiegare che volevo riportare Roma alla sua gloria passata, che Leone Il Grande, imperatore di Bisanzio, passa al contrattacco e manda il suo imperatore di fiducia, Giulio Nepote.

    Insomma, ho dovuto fare le valigie.

    Mi hanno offerto di diventare vescovo di Valona, in Dalmazia (oggi la chiamate Albania).

    Un vescovado in cambio dell’impero! Quei pidocchiosi. Ma gliel’ho fatta pagare, a Giulio. Chiedetelo a lui.
     


    Giulio Nepote (474-475)

    Arrivo in Italia pieno di speranze e con un grande compito. Far abbassare la cresta a Visigoti e Vandali insieme. Forse esagerato, visto che non ho un grande esercito e che l’impero, dopo il disastro della flotta a Cartagine di otto anni fa, non ha più un solido.

    Così devo cedere la Provenza, la regione più ricca della Gallia, ai Visigoti. E ai Vandali devo consegnare la Sicilia, la Corsica e la Sardegna.

    Non mi resta che appoggiarmi al partito degli Unni. Perciò chiamo Oreste, che fu segretario di Attila, e lo nomino Primo Generale.
    Mi è andata male. Quello mi depone, e mi manda in esilio, e mi nomina vescovo.

    E così, anche io, da imperatore mi ritrovo vescovo. Ma non è finita qui. Dove mi manda? Proprio a Valona, dove mi aspettava Glicerio.
    Ragionate:  quando mi hanno ammazzato, chi volete che fosse il mandante? Odoacre (come ha scritto qualche storico) o lui – Glicerio - l’imperatore che io avevo detronizzato e che covava vendetta?

    Ma scrivetelo nei vostri libri. Romolo Augustolo, che Oreste mise al posto mio,  non fu mai riconosciuto dall’imperatore d’Oriente. Dunque, SONO IO L’ULTIMO IMPERATORE, e sono morto nel 480. E toglietelo una buona volta, questo 476, che non significa nulla!
     


    Romolo Augusto (475-476)

    Vorrei pregarvi, cortesemente, di finirla con questa storia di Augustolo. Leggete bene il nome scritto sulle mie monete: Romolo Augusto Pio Felice Augusto. E’ quello il nome dell’ultimo imperatore d’Occidente.  Il MIO nome.

    Il diminutivo se lo sono inventati i goti e i bizantini. Non mi potevano vedere, perché io vengo daAquincum, che sarebbe la vostra Budapest, la città di Attila, l’indimenticabile re degli unni. E mio padre era stato il suo segretario.

    Certo, io sono Romolo Augusto. E’ il nome con cui sono stato battezzato. Imperatore a sedici anni.

    Odoacre mi depose, dopo appena un anno di governo. Uccise mio padre, ma mi risparmiò.

    Mi mandò in una villa bellissima sul mare. Avete presente quella che si era fatta costruire Lucullo, quel tipo ricchissimo, che faceva feste grandiose quando l’impero viveva i suoi tempi d’oro? Quella. Sul promontorio Miseno, in Campania, vicino Napoli.

    E mi dette pure un vitalizio di seimila solidi d’oro l’anno, la normale pensione dei senatori (mi pare che questa usanza duri ancora ai vostri giorni, o’ vero?), (ho preso un po’ di accento campano).

    Ricordo ancora l’incoronazione. Fu legale, nonostante quella malalingua di Nepote. Lessero un panegirico, un discorso di lode in mio onore, dicendo che a Roma stava per iniziare la nuova età dell’oro. Che ironia. Ma chi lo poteva immaginare?

    Attenzione: non furono i barbari a farmi cadere. Furono i senatori, che non vedevano l’ora di liberarsi dell’imperatore, per farsi gli affari propri. Si misero d’accordo con Odoacre e fecero il colpo di stato. Magari pensavano che, con Zenone che se ne stava lontano a Costantinopoli, le cose sarebbero andate meglio per loro.

    Non si rendevano conto che non facevano cadere me, ma l’impero. Ma chi lo pensava allora?

    Quanti anni ho? Sono vicino ai sessanta, che ai miei tempi è come dire “cento anni”. E morirò nel mio letto. Mica sono come quegli sfigati dei colleghi che mi hanno preceduto, che sono tutti morti ammazzati.
     


    Flavius Odovacar (Odoacre) (472-490)

    IO SAREI IL BARBARO CHE ABBATTE’ L’IMPERO? Certo, sono figlio di un re sciro, che combattè nelle truppe di Attila, il re unno. Ma io, l’accordo l’ho fatto col Senato romano. E avevano ragione, questi senatori italici. Ora comanda uno che tiene per Costantinopoli, ora uno che tiene per i Vandali o per i Visigoti. E per gli italici nessuno?

    Così, ho deposto Romolo Augustolo (e chiamatelo con questo nome, per favore) e l’ho mandato in una bella villa. Poi ho mandato le insegne imperiali a Bisanzio e gliel’ho cantata chiara: tenetevelo là l’imperatore. Lontano dall’Italia. Qui bastiamo noi. L’Italia agli italici (compresi gli Sciri, gli Eruli, i Rugi, i miei amici barbari, a cui ho distribuito le terre in premio. Naturalmente).

    Vatti a fidare dell’imperatore d’Oriente. Ne sa una più del diavolo. Fa finta di accettare, e prepara invece una contromossa. Quello, Zenone, si mette d’accordo con un re goto, Teoderico Amal, gli da i carri, i cavalli, gli permette di radunare un grande esercito e me lo lancia contro.

    Teoderico mi ha ammazzato, con tutta la mia famiglia. Ma il mandante fu Zenone.
     


    Zenone (474-491)

    Ebbene sì, cari colleghi romani, IO SONO BARBARO.
    Mio padre era un capo-tribù isaurico, una popolazione che abita vicino al confine turco. Il mio vero nome è Taracosicodissa. Però sono bravo, ho cambiato nome e sono diventato imperatore. 

    Voi, invece, romani con la puzza sotto il naso, se uno è barbaro o greco non lo volete al comando dell’impero. So io quello che abbiamo dovuto penare per farvi accettare Antemio. Voi lo chiamavate “greculus”, “il grecuccio”, per disprezzo.

    Non vi accorgete che, con questo vostro atteggiamento, vi fate sfuggire i migliori?

    Pensateci. Ricimero non poteva fare l’imperatore lui, al posto di mandare avanti gente come Olibrio o Glicerio [rivolgendosi a loro: senza offesa, è un ragionamento storico quello che faccio]. E no. Ricimero è svevo. Al massimo, può diventare Primo Generale. E l’ammuina di Oreste, che deve nominare suo figlio perché lui è figlio di barbari e non può fare l’imperatore, dove la mettete?

    Se il vostro senato fosse veramente intelligente, chi meglio di Genserico? E’ bravo, sa governare, guida gli eserciti come un dio. E lo so bene io, che mi ha fatto fuori tutta la flotta.

    Dice: ma è vandalo. E io sono isaurico. Ed è a me – l’imperatore barbaro - che avete mandato le vostre insegne imperiali. Ben vi sta.

     
    Aelia Verina (457-484)

    Tutti maschi, gli storici. E tutti prevenuti. Se parlate di un imperatore, allora tutti a dire “la sua abilità politica, la sua capacità di fare alleanze” bla bla. Se un imperatrice fa le stesse cose, allora lei trama, complotta, lavora nelle alcove, è assetata di potere.

    Be’. Io sono stata la moglie di Leone il Grande, l’imperatore di Costantinopoli. Poi lui mi va a morire. Che devo fare per garantire la successione di mio figlio? Normale: do l’altra figlia in sposa a uno, Zenone, il barbaro che diventò imperatore. Bravino ma niente di che. Così mi tiene il trono in caldo, per quando il figlioletto cresce.

    E non mi va a morire anche lui, mio figlio piccolo? E pensare che lo avevamo già chiamato Leone II!

    E allora mi do da fare. Con il mio amante Patrizio (avete qualcosa da dire?), mi metto d’accordo con Illo, un generale veramente bravo, poi con Teoderico Strabone, un re goto. Insomma, con tutti quelli che potevano darmi la garanzia di dare il trono all’altro figlio, Marciano.
    Guardate, che per tramare bisogna essere capaci. Fare alleanze, ascoltare, insinuare, far balenare delle speranze, raccogliere consensi fra i potenti. E io sono brava. A un certo punto, sono riuscita a mandare via Zenone e a far nominare – pensate !!! – Basilisco. Si proprio lui, mio fratello, quello così scemo da perdere la flotta a Cartagine.

    E quando Zenone torna, riesco a farmi perdonare e ricomincio. Mi mandano in galera. Ma anche da lì sono capace di organizzare un altro colpo di stato, con mio figlio Marciano, che nel frattempo è cresciuto. Mi alleo con Illo, e continuo, continuo …

    Alla fine, Zenone mi manda in esilio, nella sua terra d’origine, l’Isauria. Ormai sono vecchia. Giusto il tempo per morire.

    Sconfitta io? Se lo pensate, trovatemi un’altra persona, capace di fare la politica imperiale per trentacinque anni di fila.

  • La caduta dell’impero romano e gli ultimi imperatori.

    Autore: Antonio Brusa


    Ovvero, gli Imperatori sfigati: una drammatizzazione soft, per raccontare una storia che si studia poco, ma che ci interessa da vicino


    Parte Prima (docenti)

    “Gli amori sono come gli imperi, quando sparisce l’idea sulla quale sono fondati, spariscono anche loro”
    Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere

    “Io penso anche che una visione del passato che si prefigga esplicitamente di eliminare ogni crisi, ogni declino, rappresenti un reale pericolo per il giorno d’oggi. La fine dell’Occidente romano vide orrori  e disordini quali io spero sinceramente di non dover mai sperimentare, oltre a distruggere una complessa civiltà, facendo retrocedere gli abitanti dell’Occidente a un livello tipico della preistoria. Prima della caduta di Roma, i Romani erano sicuri quanto lo siamo noi oggi che il loro mondo sarebbe continuato per sempre, senza sostanziali mutamenti. Non saremmo saggi a imitare la loro sicumera”.
    Bryan Ward-Perkins, La caduta di Roma e la fine della civiltà

     
    J.W. Waterhouse (1849-1917), Le favorite dell’imperatore (studio), 1883

     

    Introduzione
    L’intervista impossibile è un espediente ben consolidato. Chi ha una certa età, ricorda quelle di Umberto Eco alla radio. Vecchie storie, sempre belle. Raffaele Licinio ha avuto l’idea di rinverdirla. E da quella sono nati questi Imperatori sfigati. Sfortunati per vari motivi. Il primo è che, come vedrete, intrigarono e uccisero per conquistare il potere. Ma quando l’ottennero, l’impero si squagliò.

    Il secondo è che tutti ne pensano male. Ressero l’impero alla sua fine, dunque ne furono responsabili. Non è del tutto vero. In alcuni casi per nulla. Erano anche bravi, sicuramente non peggiori di quelli di prima. Il terzo, è che non se li fila più nessuno. Avete mai sentito parlare di Olibrio, di Glicerio, di Libio Severo detto Serpentio? O di Majorino, del quale, pure, Gibbon scrisse meraviglie?

    E che dire del povero Romolo Augusto? Lo ascolterete. Ci terrà a dirvi che si chiamava così, non con quel ridicolo diminutivo, appiccicatogli da storici malevoli.

    L’unica donna che si cita nei manuali è Galla Placidia. Già. Il mausoleo, i mosaici, Ravenna. Fu una straordinaria Donna di Stato (possiamo usare finalmente questa espressione?), come Elia Verina, che non conoscete, ma che ammirerete senza alcun dubbio. Donne potentissime, quanto jellate anche loro nella memoria storica, non solo dei contemporanei.

    Imperatori sventurati, perché questa benedetta caduta dell’impero mi sembra che non la studi più nessuno. Eppure, come ci dice Bryan Ward-Perkins, si tratta di un evento che ci permette di fare molte riflessioni sul momento storico che viviamo. 

    Scalognati, infine, perché gli eventi e le biografie, nemmeno quelli, non li cura più nessuno.

    Perciò, vorrei mostrare che anche delle piccole biografie permettono di ricostruire la complessità di un evento, di capire il funzionamento della grande macchina imperiale e di farsi qualche idea non peregrina sul suo disfacimento (attenzione, non equivocate: piccole biografie, non “la notizia dell’esistenza di tizio o caio”, come solitamente troviamo nei manuali).

    Ho provato questa piccola drammatizzazione nella libreria Zaum, a Bari. Pubblico misto. Allievi antichi e recenti, colleghi, clienti della libreria. Ad alcuni ho consegnato il testo qualche giorno prima; ad altri pochi minuti prima. Quasi zero istruzioni. Si tratta di un’attività soft, da condursi con mano leggera e senza nessuna preparazione. Non una di quelle fatiche mostruose a cui a volte si sottopongono i colleghi (LA DRAMMATIZZAZIONE E LA STORIA). Nel pubblico c’erano vari insegnanti, di media e di superiore. Mi hanno detto che la proveranno in classe. La pubblico dunque per loro, e per chi di voi voglia imitarli. Questo è il testo riservato ai docenti. Seguirà l’unità di lavoro per la classe, con i materiali.

     

    Indice
    •    Un preambolo tutto di immagini
    •    Nel caso si apra una discussione
    •    Intermezzo ludico, giusto per scaldarsi
    •    Gli imperatori sfigati
    •    Dopo il gioco si riflette sulla storia
    •    La vendetta di Cartagine
    •    Bibliografia
    •    Cronologia

     

    1.    Un preambolo tutto di immagini
    Racconta quella malalingua di Procopio, storico bizantino, che Onorio, figlio di Teodosio e imperatore d’Occidente,  accudiva amorevolmente delle galline nel suo palazzo di Ravenna, dove aveva trasferito la corte, nel 403, per paura dei Goti. La gallina preferita si chiamava Roma. Ne era talmente preso che, quando gli comunicarono che Alarico si era impadronito di Roma, pensò con terrore a lei, prima di realizzare che si trattava della vecchia capitale, conquistata in quell’anno 410.

    Aprirei in classe l’attività Gli imperatori sfigati proprio con questo episodio, illustrato da John William Waterhouse, pittore inglese amante della romanità. Proietterei sia lo schizzo preparatorio, sia il quadro definitivo, Le favorite dell’imperatore. Nello schizzo, il pittore sembra avvicinarsi con difficoltà alla storiella della gallina. Onorio siede sui gradini, su un tappeto sghembo, i cortigiani lo guardano perplessi mentre lui nutre i pennuti. E’ l’immagine di una follia personale. Nel quadro definitivo, invece, l’imperatore siede sul trono. I cortigiani si inchinano timorosi, uno schiavo regge il labaro imperiale; i funzionari perplessi sono relegati sullo sfondo, vicino alla porta. Ecco lo sfascio di un impero.

     
    J.W. Waterhouse, Le favorite dell’imperatore (1883)

    Il tema della decadenza imperiale fu particolarmente amato nell’Ottocento, soprattutto dai pompiers, quei pittori realistici, destinati a soccombere anche loro di fronte all’avanzata furiosa dei barbari impressionisti. Nonostante il giudizio negativo di tanti libri di storia dell’arte, adoro Jean-Paul Laurens, loro magnifico rappresentante. Il suo Onorio racconta la tragedia di quel periodo. Un bambino. Pelle scura (suo padre era spagnolo). E’ come inghiottito dal trono imponente. I suoi piedi non toccano terra. Il globo, simbolo dell’universalità del potere imperiale, è sfacciatamente grande (quello reale era molto più piccolo). Gli imperatori veri reggevano uno scettro. Laurens mette in mano al piccolo una spata sproporzionata. (nel dossier troverete le altre immagini)

    Questo è Onorio, l’imperatore che aprì il V secolo. Potrebbe essere Romolo Augusto,  il ragazzo che lo chiuse.

    Due aspetti sembrano attrarre quegli artisti. Da una parte, la vita lussuosa. Coinvolge Caligola, Nerone, Eliogabalo, e – dunque – l’intera vicenda dell’impero, non solo la sua fine. Il “dolce far niente” di Waterhouse e le svenevolezze di Eliogabao, di Alma-Tadema. Marmi, tappeti, vino, cibo, triclini, cetre e donne discinte sono le icone di uno sperpero eccessivo. Dall’altra, il terrore e le distruzioni dei barbari. Il crollo politico e militare.
    Vediamo i goti di Alarico che tirano giù la statua dell’imperatore. Sono nudi, come gli eroi classici. Abbattono un sovrano o un tiranno? (come a molti, mi vengono in testa i marines che sradicavano con le funi le statue di Saddam Hussein: le fiamme e le distruzioni sullo sfondo mi confermano nell’analogia).

    Mi colpisce il dipinto di Thomas Cole, quella che Laterza ha scelto per illustrare il libro di Bryan Ward-Perkins. La folla fugge dalla città in fiamme. I barbari si gettano sui civili. Dal ponte che crolla la gente precipita in un mare agitato. Sulla destra, un eroe colossale. Non è un soldato, anche se imbraccia uno scudo. E’ lo scudo tondo degli opliti, non quello lungo delle legioni. Rappresenta la civiltà classica, diremmo. Sbreccata, come lo scudo. Indifesa, perché la mano che avrebbe impugnato la spada è troncata. E priva di testa.

    Queste rappresentazioni parlano facilmente. Non occorre conoscere molti particolari della vicenda reale, per farsi coinvolgere dal dramma. Per questo motivo, si prestano magnificamente a introdurre questa attività. Basta sapere del “crollo di un grande impero”. Perché  avvenne? I quadri funzionano come catalizzatori di congetture. Le raccogliamo: barbari, lusso, ozio, incapacità di difendersi, stupidità dei governanti. Ci bastano a tratteggiare lo scenario che farà da sfondo ai nostri “imperatori sfigati”. Eviterei di appesantire l’attività con una lezione vera e propria (magari la farete alla fine). Per giocare, basterà aggiungere qualche informazione.

    - che l'impero romano era diviso in due parti, Oriente e Occidente, ciascuna con un suo imperatore

    -  che l’impero d’Occidente era diviso in province: Italia, Gallia, Iberia, Africa, Pannonia, Illirico (uso i nomi più comuni). Aiutatevi con una carta geografica. Importante: localizzate Roma, Costantinopoli e Cartagine  

    - che vi erano delle popolazioni barbariche: i goti, i vandali, gli unni, i germani.

    - e che siamo nel V secolo, l’ultimo di vita dell’impero romano d’Occidente.


    2.    Nel caso si apra una discussione
    Probabilmente non sarà possibile in classe chiedersi perché quei pittori erano così affascinati dall’impero e dalla sua caduta. Il crollo dei tentativi napoleonidi fu certamente un motivo di attrazione. Ma restavano vivissimi tre grandi imperi europei: il russo, l’asburgico e l’inglese. La storia di Roma, questo è evidente, svolgeva il triplice ruolo di modello, di ammonimento ma anche di luogo onirico della sregolatezza.

    Sarà più interessante ancora chiedersi perché questo evento è così presente nella memoria pubblica odierna, e in particolare in quella americana. Certamente, gli allievi ne sapranno poco. Ma non è detto che alcuni degli argomenti e delle spiegazioni circolanti non siano arrivati alle loro orecchie. Il confronto fra Usa e Roma è ovvio, quanto assai praticato dalla storiografia. Erfried Munkler ci ha spiegato perché nel suo Imperi. Il dominio del mondo dall’antica Roma agli Stati Uniti (Il Mulino, 2008).

    Trovo di qualche utilità l’analisi proposta da Jean-Laurent Cassely, un giornalista francese specializzato nel seguire le vicende culturali. Ci aiuta a scoprire quanto “uso politico della storia” si celi nelle ipotesi, solo apparentemente spontanee, fatte dagli allievi. Il giornalista, infatti, ci avverte che il confronto fra caduta di Roma e crisi degli Usa è uno dei cavalli di battaglia della destra americana e del Tea Party. Argomenti di questo confronto sono le libertà sessuali (ah, i gay!), ma soprattutto le analogie politico-economiche. Al tempo della Repubblica, si sostiene in America (ma potremmo dire non solo), vi era la prevalenza dell’iniziativa individuale. Al tempo dell’Impero, predominarono invece stato e burocrazia.

    I paralleli fra Roma e Usa sono inquietanti, aggiunge severo Lawrence Reed, presidente della Foundation for Economic Education: il debito, la politica estera, l’arroganza del potere politico.

     

    3.    Intermezzo ludico, giusto per riscaldarsi
    Tornando al clima leggero, più consono con questa attività, ecco un giochino da farsi fra colleghi (non so quanto proponibile agli allievi), che potrà introdurre una discussione eventuale sull’uso politico di questi temi. Alexander Demandt (1984) ha raccolto 210 spiegazioni della Caduta dell’Impero: economiche, politiche, sociali, climatiche, biologiche, morali e etiche. Le trovate sinteticamente elencate qui.  Ne propongo uno stralcio.

    Voi cercate, per ognuna di esse, il politico italiano che la sosterrebbe con più energia. Se vi sembrano assurde e strane, leggetevi l’elenco completo nel sito (ne troverete di più curiose ancora), oppure fatevi coraggio e sorbitevi il tedesco accademico di Demandt, che avrà il pregio di rassicurarvi come tutte vantino una qualche nobile origine scientifica:


    Anarchia
    Mentalità anti-germanica
    Apatia
    Arretramento delle scienze
    Bolscevizzazione/Comunismo
    Capitalismo
    Cristianesimo
    Corruzione
    Cosmopolitismo
    Declino del carattere nordico della popolazione
    Distruzione dell’ambiente
    Disarmo e pacifismo
    Eccessiva presenza di stranieri
    Troppa libertà
    Troppe tasse
    Omosessualità
    Influenza ebraica
    Perdita della dignità maschile
    Economia monetaria
    Razionalismo
    Stagnazione
    Usurpazione dei poteri da parte dello stato

     

    4.    Gli imperatori sfigati
    Sono quattordici brevissime autobiografie. Gli otto imperatori che governarono negli ultimi trent’anni dell’impero; un barbaro, Odoacre, che non può mancare per spiegare le ragioni del suo gesto; Zenone, l’imperatore d’Oriente; e due donne, ad aprire e chiudere la sfilata. Galla Placidia riassume, con la sua vita intensissima e lunga, le vicende della prima metà del secolo; Elia Verina, la moglie di Leone il Grande, imperatore di Costantinopoli, apre uno spiraglio sui modi di governare del tempo, sul ruolo delle donne e permetterebbe qualche riflessione critica sulle fonti (tutte maschili e, quindi, poco propense a valorizzare il ruolo politico femminile).
    I fatti raccontati nelle biografie sono tutti verificati, nella storiografia e nelle fonti. Ovviamente, il “carattere”, che emerge dal testo, è mio. Ho cercato un linguaggio “basso”, colloquiale, quasi da Spoon River (si minima licet …). Non ho messo molte indicazioni sulla recitazione, proprio per rimarcare il carattere soft di questa drammatizzazione.

    I testi vanno letti con espressione, ma senza esagerare. A gusto dell’interprete. Ho rimarcato con il maiuscolo (seguendo lo stile imperante nel web) alcune espressioni. Andrebbero lette con voce più alta. Il resto, spetta all’interprete. Naturalmente, il docente potrà eliminare espressioni, o cambiarle se gli sembreranno troppo difficili.

    Consegnerei i testi il giorno prima, chiedendo agli interpreti di preparare una lettura espressiva. Una cura particolare per le imperatrici: andrebbero affidate alle due ragazze più spigliate. Alcune biografie sono centrali, per capire il meccanismo di funzionamento dell’impero: quella di Ricimero ad esempio. Questi fu il Primo generale (ho tradotto con questa espressione, che per quanto da Guerre Stellari è precisa, il termine Magister Militum Presentalis). Era una sorta di Primo ministro. Vi consiglierei, dunque, di assegnare le biografie ai ragazzi che, a vostro giudizio, si prestano meglio a interpretarne il carattere.

    Suggerite agli interpreti di rivolgersi al pubblico degli storici (vedi dopo), per chiedere consenso o per convincerli della loro bravura. E, quando il testo lo richiede, di rivolgersi a qualche collega imperatore (ad esempio, Giulio Nepote se la può prendere con Glicerio, che lo fece fuori). Avvertirete, in ogni caso, che i testi vanno letti. Non imparati a memoria.

    Agli altri allievi assegnerete il ruolo degli storici odierni. Loro sono la giuria. Ascoltano e giudicheranno. Potremmo assegnare due titoli: il secondo premio al più bravo (o al più fortunato), e il primo andrà al più sfigato.

    Voi svolgerete il ruolo dell’intervistatore. Questo vi permetterà di aiutare lo studente, nel caso si impappini nella lettura. Oppure, se avete bisogno di ravvivare la scena, potete intavolare una discussione con l’imperatore di turno. Li chiamerete in ordine cronologico. Ovviamente avrete una copia delle biografie, che terrete costantemente d’occhio. Abbiate cura di non fare i professori. Se volete aggiungere particolari o precisazioni, introduceteli con espressioni del tipo: “da altre fonti di informazione mi risulta”, “i servizi segreti ci hanno comunicato confidenzialmente”, “qualche pettegolo insinua”, “facciamo un po’ di gossip”.

    Insomma, state al gioco e  divertitevi voi per primi.

     

    5.    Dopo il gioco, si riflette sulla storia.
    Questa citazione di Gibbon è stato il mio primo campanello di allarme: [La figura di Maggioriano] presenta la gradita scoperta di un grande ed eroico personaggio, quali talvolta appaiono, nelle epoche degenerate, per vendicare l'onore della specie umana. [...] Le leggi di Maggioriano rivelano il desiderio di fornire rimedi ponderati ed efficaci al disordine della vita pubblica; le sue imprese militari gettano l'ultima effusione di gloria sulle declinanti fortune dei Romani. (Storia della decadenza e caduta dell'Impero Romano, capitolo xxxvi, §4, s.a. 457)

    Per me erano stati sempre degli inetti, gli imperatori occidentali del V secolo. Gibbon mi metteva una pulce nell’orecchio. Così, mi sono messo a leggere le loro vite e a sfogliare gli studi dei colleghi. Certamente, le opinioni sono contrastanti. Ma gli imperatori “buoni” non mancarono. Su Maggioriano (o Majorinus) basti Gibbon. Ma che dire di Antemio? Era un greco disprezzato dai romani per i suoi natali. Seppe conquistarseli perché contribuì col suo patrimonio alla costruzione della flotta più grande, mai allestita dall’impero romano. Un impresa sfortunata, la sua, quanto generosissima. E Ricimero? Presentato da molti come un intrallazzatore riprovevole, sotto altri punti di vista fu un abilissimo politico. Avito, Glicerio, Libio Severo (imperatori fantocci, secondo molti) anche loro cercano di dare un indirizzo politico alla barca dello stato.

    Il libro, però, che mi ha fatto cambiare idea è 428 dopo Cristo, scritto da Giusto Traina. Racconta un anno della decadenza. Un anno anonimo nel quale non successe nulla di ciò che leggiamo nei manuali. Mostra, dunque, come funzionava la corte, la complessità di un governo che doveva tenere conto, contemporaneamente, di situazioni diversissime e lontane. Mostra la solidarietà fra Oriente e Occidente, fra Nord e Sud. Chi governava (l’imperatore o i suoi consiglieri), non poteva essere un inetto.

    Avevo letto di corti travolte dal vizio e dal lusso, perennemente occupate in complotti. Peter Heater ci informa che vi lavoravano degli “analisti”. Usa proprio il termine che ci è diventato familiare attraverso decine di film sulla Cia. Non lasciamoci ingannare, quindi, dagli stuoli di eunuchi e di amanti. A corte vi era gente capace di studiare la realtà geopolitica, di individuare strategie internazionali, di valutare l’impatto di decisioni economiche e l’umore della popolazione.

    Indubbiamente quegli imperatori avevano conquistato il potere uccidendo i rivali, e furono a loro volta uccisi. Non era anormale. Anzi, a leggere Paul Veyne, era proprio quello il sistema di selezione sul quale l’impero si basò nel corso della sua esistenza secolare. Una novantina di imperatori, scrive, quasi tutti morti ammazzati. Funzionava così la lotta fra le grandi famiglie, un migliaio circa, che gestivano il territorio e le sue ricchezze.

    Questa contesa per il trono ci obbliga a notare che ogni famiglia esprime un radicamento territoriale. L’impero è un dominio composito e variegato, nel quale le diverse regioni fanno sentire la loro voce. Lo fanno nel senato, attraverso le famiglie provinciali e italiche, i cui rampolli scalano in competizione il cursus imperiale, oppure attraverso le legioni e i loro generali. Da questo punto di vista, la dinamica del V secolo è comparabile a quella di altri secoli più felici. La differenza fondamentale è che, ora, a rappresentare gli interessi regionali sono i barbari: i goti in Gallia e in parte della Iberia; gli Svevi e i Vandali in Iberia; in Africa i Vandali; i Germani, i Franchi e i Burgundi nelle terre galliche e del Nord, e gli Unni in Pannonia. Ogni imperatore fa riferimento a un partito regionale, dunque a un sovrano barbaro.

    I sovrani barbari le tentano tutte pur di accedere al potere. Come i generali romani  vanno all’assalto dell’Italia, assediano Roma (l’assedio più sanguinoso non fu né quello di Alarico, né quello di Genserico, ma quello che portò sul trono l’imperatore Olibrio, nel 472) e cercano di eliminare gli altri pretendenti. Chiedono e ottengono principesse di sangue reale in sposa, per sé o per i figli. Alcuni, come Attila, pretendono doti territoriali esagerate (metà dell’impero!); altri, si limitano ad ottenere la legittimazione del loro dominio regionale. Tutti sanno, però (compresi Ricimero, lo svevo,  Gundobado, il burgundo che gli successe nella carica di Primo generale, e Oreste, il padre di Romolo Augusto), che nessuno di loro potrà diventare imperatore. Certo, pensare Genserico imperatore fa senso, per quanto il re barbaro fosse un grande. Ma questa repulsione valeva solo per l’Occidente. In Oriente, l’integrazione dei barbari fu completa, come testimonia il fatto che Zenone, un barbaro, era l’imperatore al quale Odoacre consegnò le insegne imperiali.

     

    6.    La vendetta di Cartagine
    Nessuna paura: non allungheremo la lista di Demandt con questa attività. Tanto più che, per questioni cronologiche, lo storico tedesco non poteva conoscere lo studio di Chris Wickham, che fornisce il quadro esplicativo che considero di riferimento. Wickham parte proprio dall’idea che l’impero è un complesso di regioni, molto diverse tra di loro, che si tengono insieme per il reciproco interesse. Fino a che dura questa solidarietà, l’impero resiste ad ogni tempesta. Quando questa viene a mancare, crolla. E’ proprio quello che capitò quando Genserico si impadronì della provincia d’Africa, la grande fornitrice di cereali della parte occidentale del Mediterraneo. Quindi, la data del 439 (conquista di Cartagine) può essere considerata centrale in un processo dissolutivo indubbiamente complesso.

    In questo contesto, assume una straordinaria importanza la sfortunata spedizione navale del 468, frutto dell’azione combinata dei due imperatori, Antemio e Leone Magno. Heater la paragona alla vicenda dell’Invencible Armada. Un’analogia facile. Oriente e Occidente allestirono una flotta immensa. Quasi 1300 navi e centomila soldati. Almeno questo dicono le fonti, che parlano anche di una raccolta di oro pari a 40 tonnellate. E’ vero: le navi da guerra (i dromoni a remi) erano poche e la maggior parte delle imbarcazioni erano da carico. Ma, a conti fatti, fu la più grande flotta mai allestita dall’impero romano.

    Le due Rome andarono all’assalto di Cartagine per ripristinare il flusso vitale di cereali. La gestione della spedizione fu tragica. Basilisco, il generale romano, si rivelò indeciso. Genserico, invece, adoperò con abilità i brulotti, navi incendiarie che, lanciate contro le navi romane (rivestite di pece e quindi infiammabilissime), fecero una strage. Fu la stessa tattica che gli inglesi adoperarono, la notte del 7 agosto 1588, contro gli spagnoli.

    Procopio, per una volta storico serio, ce ne lascia una descrizione efficace:
    “Quando furono più vicini, i vandali diedero fuoco alle barche che si erano trascinati dietro, e non appena il vento ne gonfiò le vele le lasciarono andare verso la flotta romana. E siccome in quel punto si era riunito un gran numero di navi, le barche appiccarono facilmente il fuoco a tutto ciò che toccarono”
    Così terminò l’ultimo sforzo congiunto delle due parti dell’impero. Se avesse avuto successo, commentiamo noi oggi, la distribuzione di cereali in Occidente avrebbe ripreso, e, forse le cose sarebbero andate diversamente. Altre volte, infatti, l’impero era stato messo quasi alle corde e si era risollevato; e, nei secoli successivi, altre volte l’impero d’Oriente sembrò ridotto al lumicino, e si riscattò brillantemente. La realtà volle  che, dopo appena otto anni da quell’ultimo e inutile conato, l’impero di Occidente svanì. Quella sconfitta non toccò invece l’impero d’Oriente, che poteva contare ancora sull’asse granario Egitto-Costantinopoli, e quindi sul “collante” che resse il complesso sistema alimentare e fiscale dell’impero, fino all’arrivo degli arabi. Poi, la storia cambiò, anche per l’impero romano d’Oriente.

     

    7.    Bibliografia
    Michael Grant, Gli imperatori romani. Storia e segreti, Newton Compton, Roma 1984
    Peter Brown, Potere e cristianesimo nella tarda antichità, Laterza, Bari 1995
    Paul Veyne, L’empire gréco-romain, Seuil, Paris 2005
    Giusto Traina, 428 dopo Cristo. Storia di un anno, Laterza, Bari  2007
    Peter Heather, La caduta dell’impero romano. Una nuova storia, Garzanti, Milano 2008
    Chris Wickham, Le società dell’alto medioevo. Europa e Mediterraneo secoli V-VIII, Viella, Roma 2009
    Peter Heather, L’impero e i barbari. Le grandi migrazioni e la nascita dell’Europa, Garzanti, Milano 2010
    Bryan Ward-Perkins, La caduta di Roma e la fine della civiltà, Laterza, Bari 2011
    Giorgio Ravegnani, La caduta dell’impero romano, Il mulino, Bologna, 2012
    Umberto Roberto, Roma Capta. Il Sacco della città dai Galli ai Lanzichenecchi, Laterza, Bari 2012

    http://www.lesdiagonalesdutemps.com/article-l-histoire-romaine-a-travers-la-peinture-115992304.html
    http://www.histoire-fr.com/rome_empire_occident_2.htm
    http://www.luc.edu/roman-emperors(Curate da Ralph Matisen, le biografie degli imperatori sono perfette e ricche di fonti)

     

    8.    Cronologia
    401-403 Prima invasione in Italia dei goti, guidati da Alarico
    410 Sacco di Roma, da parte di Alarico
    421 Costanzo eletto imperatore, muore
    423 Muore Onorio
    425 Valentiniano III, all’età di 6 anni viene eletto imperatore
    435 I vandali, sotto la guida di Genserico ottengono terre in Africa
    439 Cartagine è conquistata da Genserico
    440-453: Attila re degli Unni
    451 Campi Catalauni, in Gallia: Attila viene sconfitto da una coalizione gotico-romana, guidata da Ezio
    454 Valentiniano III uccide Ezio
    455 Petronio Massimo fa uccidere Valentiniano III
    457 Majorino diventa imperatore. Ricimero diventa Magister Militum Presentalis
    461 Libio Severo imperatore
    467 Antemio Imperatore
    468 Antemio e Leone Magno attaccano Cartagine
    472 Olibrio imperatore, dopo il sacco di Roma, durante il quale viene ucciso Antemio. Olibrio muore nello stesso anno. Muore Ricimero. Gundobado nuovo Magister Militum.
    473 Glicerio Imperatore
    474 Giulio Nepote depone Glicerio e viene eletto imperatore
    475 Oreste depone Giulio Nepote e elegge suo figlio Romolo Augusto
    476 Romolo Augusto viene deposto da Odoacre
    489 Teoderico Amal conquista l’Italia in nome dell’impero d’Oriente

  • LA CRISI SPIEGATA AI RAGAZZI. In 3 storie, con un prologo e un'appendice

    Autore: Massimiliano Lepratti

     

    Indice:

    1.  Prologo
    2.  Prima storia. La miccia: ossia la moneta non si sa più quanto valga
    3. Seconda storia: il combustibile, ossia quando le case statunitensi scesero di valore (sorprendendo tutti)
    4.  Terza storia: l'incendio si propaga
    5.  Appendice. Chi ferma l'incendio?

     

    1. Prologo

     

    La crisi che abbiamo conosciuto a partire dal 2008 non è la prima e probabilmente non sarà l'ultima grande crisi economica e finanziaria conosciuta dall'umanità. Le spiegazioni possono essere tante e complesse, ma per voler essere semplici si può cominciare dicendo che tutte le crisi hanno un elemento di partenza comune: qualcosa a cui prima si dava un valore elevato improvvisamente perde questo valore. Nel 2008 questo qualcosa sono state le case, altre volte sono state le aziende che producono computer, altre volte ancora altri oggetti.

    Ma quelli elencati finora sono solo i carburanti, una volta che una crisi è scoppiata l'incendio sale così alto e forte che tutto brucia e la parola d'ordine diventa portare acqua per fermare il fuoco, nessuno si preoccupa più di sapere cosa lo ha provocato. Per limitare gli incendi tuttavia è importante conoscerne le cause perciò qui proveremo a farlo, esaminando i tre elementi principali: la miccia, il carburante (di cui abbiamo detto sopra) e il bosco in cui si propaga.

     

    2. Prima storia. La miccia: ossia la moneta non si sa più quanto valga

     

    Nel 2008 la grande crisi che stiamo vivendo ancora oggi si è manifestata dapprima nel mondo delle banche, ossia quei luoghi in cui ci scambiano monete e altri pezzi di carta che rappresentano una ricchezza. A un certo punto alcune grandi banche hanno detto che non sapevano più a quanta ricchezza corrispondevano i pezzi di carta che stavano comprando e vendendo e sono cominciati i guai grossi: se non sai quanto vale una cosa come fai a continuare a venderla, e soprattutto chi la comprerebbe?

    Il guaio ancora più grosso è che da molti anni non si sa neppure quanto valga una moneta e questo rende più facile la comparsa  di problemi come quelli che stiamo vivendo.

    Può apparire strano affermare che nessuno sappia quanto vale la moneta, ciascuno tra noi potrebbe dire che la moneta che ha in mano vale 2 euro o la cartamoneta che ha nel portafoglio ne vale 10. Ma in questo modo non stiamo offrendo risposte alla domanda, perché la domanda successiva diventerebbe immediatamente: ma 2 euro o 10 euro quanto valgono? E nessuno lo sa.

     

    Intermezzo: perché il valore della moneta è incerto

     

    Per capire meglio questa storia curiosa bisogna andare molto indietro nel tempo, quando le monete di oro, argento e rame cominciarono ad essere usate per facilitare gli scambi: prima della moneta se io desideravo scambiare le mele che coltivavo con i fazzoletti fatti da un artigiano non bastava che a me interessassero i fazzoletti, occorreva anche che lui accettasse come pagamento le mie mele, ossia che le mele lo interessassero, il che non avveniva sempre. Nel tempo si sono individuati alcuni oggetti che tutti ritenevano interessante possedere e scambiare e la preferenza progressivamente andò alle monete metalliche ossia a cilindretti in oro, argento o rame facili da trasportare, difficili da rovinare, belli da vedere. In questo modo io potevo vendere le mie mele in cambio di cilindretti  di metallo, ossia di monete e offrire a chiunque questi cilindretti in cambio di fazzoletti o di altro. Un grosso vantaggio delle monete era che si sapeva esattamente quanto valevano: valevano il metallo che contenevano, ad esempio una lira (o libra) valeva esattamente una libbra d'argento (ossia una quantità pari a circa 300 grammi)

     

    La storia però si complica ai tempi dei Romani, circa 1800 anni fa quando gli imperatori romani, per mancanza di metalli, presero l’abitudine che sulle monete doveva rimanere scritto lo stesso valore (ad esempio “una lira”), ma che la quantità di metallo contenuto doveva divenire la metà.

     

    Questa specie di truffa è continuata nel tempo ed ha raggiunto il suo momento più importante qualche decina di anni fa, il 15 agosto del 1971 quando il presidente degli Stati Uniti Nixon decise  il passaggio finale. Fino a quel momento le monete non contenevano più nulla di prezioso, ma almeno se una persona voleva poteva andare in banca negli Stati Uniti e chiedere che il suo pezzo di cartamoneta fosse trasformato in una quantità di oro stabilita. Invece dal 15 agosto del 1971 Nixon  decise che non si poteva più chiedere di trasformare in oro i dollari; per finanziare la guerra  contro il Vietnam erano stati stampati troppi dollari e l'oro contenuto a Fort Knox (il forziere degli Stati Uniti) non era più sufficiente.

    Da quel momento dire quanto vale una moneta o un pezzo di carta che rappresenta una ricchezza diventa una pura convenzione, ossia non qualcosa che si possa facilmente misurare, ma un accordo tra persone o enti di un certo rilievo, un accordo che continua a cambiare e di cui sempre meno sono chiari i decisori, ossia coloro che stabiliscono la convenzione.

     

     

    3. Seconda storia: il combustibile, ossia quando le case statunitensi scesero di valore (sorprendendo tutti)


    Lasciamo stare le monete, gli altri pezzi di carta e il problema del loro valore. Lo riprenderemo in seguito. Ora ci spostiamo dalla miccia (l'incertezza sui valori delle monete) al combustibile della crisi.

    Anche qui la storia inizia con un fatto molto semplice: il lavoro di molte imprese dipende dalla costruzione e dalla vendita di nuove case. Costruire una nuova casa significa dare lavoro a muratori, architetti, elettricisti, idraulici, ma anche a coloro che producono gli oggetti con cui la casa si riempirà (mobili, televisori, frigoriferi...) e a coloro che costruiranno le strade, le linee telefoniche, le tubature che collegano la casa con il resto della città.

    Erano quindi in molti a desiderare che si continuasse quanto più possibile a fabbricare nuove case negli Stati Uniti e anche nel resto del mondo. I più potenti fra costoro erano le grandi imprese di costruzione e le banche, che guadagnavano prestando soldi sia a chi fabbricava la casa, sia a chi l'avrebbe comprata.

    A un certo punto il numero di coloro che aveva comprato una nuova casa sembrava esaurito. Un acquisto simile non è alla portata di tutti: per pagare le centinaia di migliaia di dollari o di euro per l'abitazione occorre avere un lavoro sicuro che permetta ogni mese di mettere da parte una certa quantità di soldi da restituire alla banca che ci ha prestato l'insieme del denaro necessario all'acquisto e con cui ci siamo indebitati per anni e anni.

     

    Un miracolo americano: le banche aiutano i poveri immigrati messicani

     

    Cosa fare allora? Le possibilità erano due: o smettere di costruire nuove case, oppure trovare nuovi acquirenti fra coloro i quali non sembravano in grado di ripagare. Fino al 2006 si scelse la seconda soluzione: le banche statunitensi prestavano i soldi agli immigrati messicani poveri, privi spesso di un lavoro stabile, affinché comprassero una casa. Per assicurarsi contro il rischio del mancato pagamento ponevano una condizione: nel caso in cui non fosse stato ripagato il debito, la casa sarebbe diventata di proprietà della banca. Questa condizione è una cosa normale che le banche pongono sempre a chi chiede un prestito per quel tipo di acquisto, ma il fatto nuovo era l'aumento continuo del valore delle case durante gli anni 2000 (ogni pochi anni raddoppiavano il prezzo) così che se l'immigrato non avesse avuto soldi per la restituzione del prestito la banca si sarebbe appropriata di una casa il cui valore nel frattempo era cresciuto di molto e ci avrebbe guadagnato in ogni caso.

     

     

    Tra il 2006 e il 2007 il gioco però si rompe, il prezzo delle case negli Stati Uniti a forza di crescere è diventato troppo alto, un aumento ulteriore farebbe sì che non vi sarebbero altri acquirenti e a quel punto il prezzo  comincia a calare. Le banche si rendono conto che gli immigrati poveri non solo continuano a faticare nel pagare le rate del prestito, ma in più, che la gallina dalle uova d'oro non fa più uova. Ossia la casa che dovrebbe essere tolta agli immigrati in caso di incapacità di pagamento sta perdendo valore.


    4. Terza storia: l'incendio si propaga

     

    A questo punto inizia la storia della propagazione dell'incendio ed è la più complessa, sebbene i suoi meccanismi basilari siano facili.

    Davanti a immigrati non più in grado di pagare, le banche avrebbero potuto chiamarli, togliere loro le case e rivenderle. Se avessero potuto procedere in questo modo non avrebbero certo fatto la felicità dei loro debitori, ma avrebbero perso solo un po' di soldi, circoscrivendo l'incendio.

    Invece la miccia, nel frattempo, era diventata molto più lunga e molto più nascosta e ha cominciato ad incendiare anche luoghi molto lontani da quelli dove il tutto ha avuto origine.

    Per non dover aspettare 20 o 25 anni in attesa che i nostri immigrati messicani avessero completato  la restituzione dei debiti, le banche nel momento in cui tutto sembrava andar bene avevano venduto il loro credito. Per capirci facciamo un esempio, supponiamo che la banca A in cambio ad esempio di 105.000 dollari incassati immediatamente ha venduto alla banca B un pezzo di carta ufficiale in cui c'era scritto: “il signor Gonzalez deve pagare entro 25 anni 100.000 dollari prestatigli per l'acquisto della sua casa più altri 50.000 per gli interessi, totale 150.000 dollari”. La banca B  per non dover a sua volta aspettare 25 anni a quel punto aveva diviso in 10 pezzi da 15.000 dollari ciascuno la carta originale del sig. Gonzalez. Questi nuovi pezzi di carta si chiamano “obbligazioni derivate”. Quindi, la banca B, mette insieme ciascuno di questi 10 pezzi con altri pezzi di carta (altre obbligazioni) provenienti da altre persone che avevano chiesto prestiti.

     

    Tutti imitano Paperon de’ Paperoni

     

    Il risultato è una specie di puzzle che la banca B ha ceduto alle banche C, site in altre parti del mondo, magari a un prezzo un poco più alto di quello che lei stessa aveva pagato. E perché le banche C avevano accettato di comprare a un prezzo un poco più alto? Evidentemente perché speravano che il prezzo di quei puzzle di carta salisse ulteriormente di valore. E come fa a salire di valore un pezzo di carta? È un processo che ha a che fare con quanto dicevamo al termine della prima storia: se un pezzo di carta (banconota, obbligazione o puzzle di obbligazioni che sia) non ha un riferimento certo in qualche cosa di ben definito che si possa immediatamente scambiare con esso, il suo valore dipende solo da quanto ci si aspetta che varrà.

    Per dirla più chiaramente: da quanto i più ricchi e potenti tra coloro che comprano e vendono quei pezzi di carta si aspettano che varrà. Se la banca di Paperon de' Paperoni decide di comprare un sacco di pezzi di carta legati al debito di tanti signori Gonzalez, probabilmente tanti altri faranno lo stesso. Si aspetteranno che il valore di quei pezzi di carta cresca (“se li compra Paperone una ragione ci sarà...”). E il bello è che il valore cresce davvero perché non è legato a nulla di ben definito, ma solo al prezzo che i vari acquirenti sono disposti a pagare e che può crescere fino a che nessuno è più disposto a tirar fuori tutti quei soldi.

     

    E nessuno sa dove è finito il debito iniziale

     

    Tutto bene? Assolutamente no, perché quando ci si rende conto che il sig. Gonzalez ha magari perso il lavoro e non può pagare il debito e che contemporaneamente la sua casa sta diminuendo di valore, nessuno è in grado di dire dove sia finito il pezzo di carta iniziale che diceva “il sig. Gonzalez deve 100.000 dollari più 50.000 di interessi alla banca A”. Come è possibile che questo sia accaduto? Attraverso due processi, il primo è il continuo spezzettamento e rimescolamento di quel pezzo di carta; il secondo è l'assenza di controlli, per cui le grandi banche che facevano questo processo di spezzettamento e rivendita non dovevano seguire regole particolari e alla fine loro stesse non badavano più a dove i loro puzzle andavano a finire. Fino a che nell'agosto del 2007 una grande banca francese ha detto “fermi tutti, io non presto e non ricevo più pezzi di carta da nessuno perché non  sono assolutamente in grado di dire quanto questi valgono”.

    A quel punto il panico si diffonde, altre grandi banche in buona parte del mondo sono in condizioni simili a quella francese e non possono prestare o ricevere nulla.

     

    5. Appendice. Chi ferma l'incendio?

     

    La crisi divampa: se le banche non prestano più soldi, le fabbriche che hanno bisogno di soldi per allargare o continuare l'attività chiudono, i lavoratori perdono il lavoro, e se perdono il lavoro non possono restituire i prestiti che hanno ricevuto per comprare casa dalle banche e così altre banche entrano in crisi. Ma non è finita:  gli stessi lavoratori non guadagnando più nulla smettono di comprare i prodotti che compravano prima (ad esempio non vanno più nelle agenzie turistiche, non comprano più una nuova maglietta per giocare a tennis o un nuovo paio di scarpe per andare in montagna) e le aziende che producono quelle magliette e quelle scarpe chiudono, lasciando a casa altri lavoratori e aumentando la diffusione della crisi.


    Fermare una crisi non è per nulla facile. Uno dei sistemi che in passato ha funzionato è stata la creazione di posti di lavoro da parte dello Stato. Per uscire dalla crisi in passato alcuni Stati hanno deciso di aprire nuove scuole e nuovi ospedali. Per far questo hanno dovuto assumere nuovi insegnanti, nuovi medici, nuovi infermieri etc. pagandoli attraverso la stampa di nuova cartamoneta. A quel punto è stato messo in atto un circolo virtuoso, basato sull'idea che se uno Stato è in crisi deve spendere di più.

     

    Sembra il contrario del buonsenso comune, ma ha funzionato: i nuovi insegnanti, medici, infermieri avendo uno stipendio potevano comprare una casa. Il costruttore di case ricevendo il denaro da loro poteva usarlo per acquistare un'automobile. Il rivenditore di automobili poteva usare lo stesso denaro per acquistare le magliette da tennis e le scarpe da montagna che in precedenza non comprava più nessuno e così  una parte delle aziende iniziavano ad uscire dalla crisi. In più tutti i protagonisti del circolo virtuoso (medici, infermieri, insegnanti, costruttori di case, rivenditori di automobili, rivenditori di magliette e scarpe) avendo un lavoro pagavano le tasse e allo Stato tornava indietro quella cartamoneta che aveva fatto stampare all'inizio per riattivare l'economia.

     

    Ma ogni crisi ha una storia sua e le ricette per uscire non possono essere dettate una volta per tutte. Per il momento fermiamoci qui, il resto è rimandato ad altre storie.

     

     

    Bibliografia essenziale

     

    Luciano Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, Torino 2011
    Andrea Fumagalli, Sai cos'è lo spread?, Bruno Mondadori. Milano 2012
    Massimiliano Lepratti, L'economia è semplice, EMI, Bologna 2008

  • La guerra insegnata. Note di didattica per la scuola e per i musei. (Parte prima)

    Autore: Antonio Brusa


    La guerra insegnata. Note di didattica per la scuola e per i musei. (Parte prima)

     

    Indice


    1. Craonne, la città martire
    2. Gallipoli, la spiaggia sacra
    3. Perché studiare la guerra?

     

    1. Craonne. La città martire

     

     Craonne si trova nel Nord Est della Francia, sotto le Ardenne, dove si affrontarono soldati di molte guerre, europee e mondiali. Per una di quelle eccezioni che si imparano solo in loco, si pronuncia Cran (ma dubito tutti i francesi lo sappiano). La città è piccolissima, un insediamento sparso, con una vecchia scuola, adibita a mensa, e un palazzo comunale costruito con i fondi del governo svedese (omaggio alla città martire). La città importante più vicina è Laon. A un medievista brillano gli occhi a sentirne il nome. Qui si elaborò la scrittura detta “Laon A Z”, sulla quale molti studenti di paleografia, me compreso, hanno consumato i loro occhi. Anche Laon si dice “Lan”. Ho perso l’occasione di farmene bello, di questa particolare pronuncia, con Franco Magistrale, che mi insegnò quella scrittura. Mi consolo dedicandogli questo piccolo lavoro.

     

    L’alboreto di Craonne è un luogo dello spirito. Cento anni fa era l’inferno. Craonne, infatti, è una cittadina che si trova al termine dello Chemin de Dames. Il nome delizioso di questa lunga vallata viene dal 1700, quando le signore del tempo vi passeggiavano con le loro carrozze. Durante la Prima Guerra mondiale era pronunciato con terrore dai soldati. Quella valle era la linea di contatto fra le armate tedesche e quelle francesi. Nel piccolo palazzo comunale di Craonne, due plastici, forse un po’ ingenui, illustrano efficacemente la situazione militare: le trincee nemiche scorrevano parallele, a volte a pochi metri di distanza; mentre – in alto – dal costone che sovrasta la vallata, i tedeschi mitragliavano e bombardavano i francesi, che cercavano invano di ripararsi dietro fortificazioni di ogni specie.


    Quel luogo fu un macello umano. Nella prima giornata di assalti morirono quasi cinquantamila francesi. Alla fine della guerra le vittime furono diverse centinaia di migliaia, da entrambe le parti. Fra di loro, anche cinquecento italiani, di un corpo d’armata inviato dal Regno d’Italia a soccorrere l’alleato in difficoltà. Un quadro, anch’esso alquanto ingenuo, esposto nel comune, ci restituisce il senso di una tragedia ottusa. Ritrae una lunga fiumana di soldati, visti di spalle. Procedono stretti l’uno accanto all’altro verso l’orizzonte, dove c'è Craonne in fiamme, e dove moriranno. Craonne è una metonimia di ogni guerra combattuta sui campi e studiata nelle scuole.


    La cittadina di Craonne, ai piedi del costone, fu distrutta dalle artiglierie francesi. Dopo la guerra non venne ricostruita in loco, ma a pochi chilometri di distanza. Al suo posto hanno lasciato crescere gli alberi. Scendi nel parcheggio, dall'auto o dal pullman che scarica i visitatori, e ti dirigi verso il bosco. Ti inoltri per i viottoli. Riconosci facilmente che furono un tempo le strade della città. Ad ogni svolta, un cartello con la foto d’epoca ti avvisa che c’era una piazza, al posto della radura; e più avanti ancora il fornaio e poi la scuola comunale. La vita degli alberi, al posto di quella degli uomini e delle loro cose. Forse è questo il senso di pace, che l'alboreto ti comunica?

    Craonne come è oggi e come era prima della distruzione


    Più in là, verso il costone di roccia, vedo degli operai. Lavorano alle attrezzature turistiche del sito. Strade, scale, giardini curati. Il costone di roccia era stato traforato dai tedeschi, con tunnel e bunker. Uno di questi, la Caverna del Drago, è diventata un museo, al termine del quale si passa in un bar/ritrovo, che si apre sulla valle con una balconata spettacolare. Quello era il punto di vista dei soldati tedeschi, e ora è il mio. Oggi, vedo una distesa di colline morbide, con macchie alberate, fattorie, campi coltivati. Il soldato tedesco scrutava quella distesa ingrigita dal fumo, dai ruderi e dai tronchi bruciati, alla ricerca di nemici da eliminare.

     

    L’ingresso del bunker, chiamato la Caverna del Drago; il belvedere attrezzato del museo omonimo

     

    I cittadini di Craonne trovano nel turismo di guerra una fonte di sostentamento. Non c'è bisogno di una indagine accurata per capirlo. Ho la sensazione, però, che lo facciano con dignità. E' una sensazione, certo. Forse, sono anche influenzato dal fatto che la città non si limita al turismo, ma promuove una ricerca accanita e senza veli sulla guerra e sulla memoria.


    La Francia ha un rapporto particolare con la storia. A differenza del nostro paese, è facile che un dibattito storico accenda gli animi della gente comune anche se si parla di fatti accaduti un secolo fa, come è il caso della Prima Guerra mondiale. Detta in parole povere, la questione che divide gli studiosi è questa: per conservare la memoria di quel passato tragico, dobbiamo accettare tutto, usare ogni mezzo, anche la spettacolarizzazione spinta; oppure questa memoria acquista senso e utilità sociale solo se tiene viva  la tragedia e l'incomprensibilità del conflitto, che lacerarono – insieme -  quei tempi lontani, e quelli che ci separano da loro? Ci dobbiamo battere perché la memoria è un patrimonio da salvaguardare per il solo fatto di riguardare eventi decisivi; oppure dobbiamo lottare – intellettualmente e moralmente - per dare un senso a questa memoria? E che cosa deve dar senso a questa memoria? L'idea che quei fatti sono le nostre radici, il “passato senza del quale non abbiamo futuro”? O può darle senso – e quale? - la puntigliosa ricostruzione della desolazione che quei fatti portarono?


    Perché ricordare? Vale anche per la memoria la domanda che il bambino rivolse a Marc Bloch, “perché studi la storia?” E vale anche in questo campo l'ammonimento di Bloch, che gli storici sbagliano, e di grosso, a considerare scontata questa domanda?

    Il programma del convegno su Storia e Memoria

     

    2. Gallipoli. La spiaggia sacra

     

    Quindi, sono a Craonne, insieme con storici che vengono un po' da tutto il mondo, perché ci accomuna il desiderio di raccontarci qualche risposta a questa domanda. Fu una guerra mondiale: dunque non mi sorprende di ascoltare colleghi francesi, italiani, spagnoli, cechi e turchi, canadesi, americani e neozelandesi. Questi ultimi mi incuriosiscono particolarmente. Perché un neozelandese o un australiano dovrebbero porsi oggi il problema della memoria della Prima Guerra mondiale? Certamente, quelle terre inviarono dei soldati. Facevano parte dello schieramento alleato. Questo lo studiamo. Ma, tutto sommato, saremmo portati a pensare che si trattò di una guerra per loro lontana, che sentirono estranea, e quindi facilmente preda dell'oblio. No, ribatte Fanny Pascual, che insegna nell’Università della Nuova Caledonia, informando noi europei che i memoriali della Prima guerra abbondano ai nostri antipodi. Sono luoghi di memoria venerati, oggetto di turismo e di visite incessanti. Sono luoghi di fondazione della nazione.

     

    Il memoriale di Auckland in Nuova Zelanda e quello di Canberra, in Australia, con i papaveri, i fiori dei soldati, apposti dai visitatori

     

    Normalmente, quando spieghiamo in Italia la Prima guerra, tralasciamo un evento che per noi, per la nostra sensibilità, appare alquanto distante. Al principio del 1915 gli Alleati decisero di aprire un nuovo fronte in Turchia. Organizzarono una flotta e uno sbarco imponenti (la prima operazione del genere, sottolineano gli esperti di storia militare). Ma lo fecero così male che mandarono a morire centinaia di migliaia di giovani: neozelandesi e australiani. Un giudizio, questo, sul comportamento stupido e folle degli ammiragli inglesi che guidarono questa impresa sciagurata, che è condiviso dagli studiosi (lo ritroverete fedelmente su Wikipedia). Motivato, senza dubbio, questo giudizio suona però strano, qui a Craonne, dove uno si chiederebbe perché la condotta dei generali francesi,  per quanto sciagurata, sia da considerarsi militarmente corretta.


    In quel caso, ad accelerare la disfatta alleata, contribuì l'armata turca, guidata è vero da un generale tedesco, ma animata da Mostafà Keimal Ataturk, il fondatore dello stato turco moderno. Fu lui, dicono le cronache, che ebbe l'intuizione di fortificare i costoni di roccia che sovrastano le striminzite spiagge dove sbarcarono i baldi giovani dall'Oceania. E di lì i turchi, come i tedeschi a Craonne, presero a mitragliarli con comodo. Per questo motivo, conclude Loubna Lahmrari, studiosa marocchina, specialista di storia turca presso l’università di Montpellier, quella spiaggia di Gallipoli è considerata un luogo di memoria e di fondazione della nazione.


    Il cinema non poteva mancare all’appuntamento. Nel 1985, Peter Weir girò Gli anni spezzati, con Mel Gibson, nella parte di un giovane australiano che fa il portaordini durante la guerra, non riesce ad evitare il massacro e muore anche lui; la Turchia non è da meno, con ben cinque film, uno dei quali reimpiega Mel Gibson, a carattere più o meno nazionalistico.


    La medesima località è diventata un luogo sacro, per due nazioni agli antipodi. E, per giunta, ci dimostra con chiarezza la diversità del ricordo, della memoria e della storia. Per quello della memoria, essa fu teatro di eroismi e martiri. Lo sguardo della storia, invece, pur mettendo in luce le indicibili sofferenze umane che vi furono patite, ricorda che da una parte vi furono dei giovani mandati allo sbaraglio da uno stupido generale; e che dall'altra, altri giovani, per quasi un anno, si esercitarono al tiro al bersaglio umano. La conoscenza, oggi, di quel fatto – potremmo dire “la coscienza storica di quel fatto” -  a mio modo di vedere, non consiste nel “dovere di ricordarlo”; quanto, piuttosto, nell'obbligo morale e scientifico di esplorare i meccanismi sociali, culturali e politici, che lo trasformarono in un evento fondatore.

     

    3. Perché studiare la guerra?

     

    Dovremmo riflettere sull’utilità di una “educazione alla violenza”: in altri termini sulla utilità di dotare i ragazzi di un’attrezzatura mentale, che li metta in grado di far fronte a questo aspetto della vita e della storia, che abbiamo quasi del tutto eliminato nella concezione borghese della vita familiare, ma che straripa nei media e, spesso, nelle strade. E questo è oggi necessario. Non sembri paradossale -  l’analisi dei manuali non ci lascia alcun dubbio – la guerra è sparita dalla didattica.


    Il paradosso nasce dal fatto che, a causa dell’immagine di “storia-battaglia” che la grande rivista francese del secolo scorso “Les Annales” aveva creato per battere la storia tradizionale, e affermare vittoriosamente la propria idea di storia, tutti siamo convinti che gli insegnanti si dividano in due categorie: quelli che spiegano guerre, sovrani e trattati di pace; e quelli che spiegano “la società”. Le battaglie appartengono alla “storia dall’alto”. Ma in realtà: chi la spiega ancora? Ciò che vediamo, invece, è un canone piuttosto deformato, composto da una congerie di tradizioni storiche e storiografiche che si sono fuse e intrecciate fra di loro, attraverso l’uso da una parte, e con la sapiente regia commerciale delle case editrici dall’altra.


    Le guerre, dal canto loro, è vero che abbondano e ne troviamo a bizzeffe, pagina dopo pagina. Ma fate attenzione: sono citate, non sono descritte. Solo qualche volta -  a proposito di Qadesh, per esempio (la prima battaglia che trovo nei manuali: ma sta rapidamente scomparendo, a causa dei tagli di ore e conseguentemente di pagine); oppure della battaglia navale di Salamina o di quella terrestre di Canne – si trova la descrizione delle manovre degli schieramenti. Ma assai di rado leggeremo la sofferenza, i cadaveri, le ferite, la fatica terribile del combattimento, l’angoscia nella sua attesa, la spossatezza e il vuoto, alla sua fine. Sono guerre senza soldati e senza sangue. Tutto questo sia perché i testi, in genere, diventano più freddi e impersonali; sia perché l’intero apparato emotivo della comunicazione storica viene trasferito nelle immagini: e queste, sempre di più invadono i nostri manuali (e c’è da pensare che l’incipiente vicenda della storia in rete non farà che aumentare questa tendenza). Potremmo dire che la guerra dei manuali è il luogo dove si palesa la vittoria della “civiltà delle buone maniere”, che – secondo Norbert Elias – ha pian piano ripulito le nostre case dalle tracce di violenza e di sporco.


    Le eccezioni sono anch’esse significative. In occasione della prima, ma soprattutto della seconda guerra mondiale, si fa largo la descrizione della “sofferenza della popolazione”. Il martirio del fronte interno: il cibo razionato, il freddo, le donne al lavoro maschile, i bombardamenti. E, soprattutto in occasione della prima guerra, troviamo spesso il tema della “vita delle trincee”. A mio modo di vedere, queste pagine hanno molto a che vedere con l’ideologia della “gente comune”, e quindi, pur ponendosi esplicitamente come “critiche” e come “inviti alla riflessione”, corrono il rischio di ribadire convinzioni comuni e ormai scontate.


    Due eccezioni ancora mi sembrano significative, in questo occultamento della violenza, ma sono così importanti che richiedono un discorso a parte. La prima è quella della violenza “sacra”. Quella appunto che porta all’indipendenza della nazione, o alle lotte per la sua sopravvivenza. Per quanto in declino, essa è ancora presente, con modalità diverse e interessantissime da studiare, da nazione a nazione. La seconda riguarda la Shoàh: il racconto della violenza assoluta. Nei tempi recenti è diventato (e anche di questo occorre discutere) paradigmatico al punto tale che tende a sopraffare quello dominante negli ultimi decenni del secolo scorso, il racconto della Resistenza.


    I morti delle guerre manualistiche non sono mai “cadaveri”. Al massimo numeri. Settantamila romani uccisi a Canne; cinquanta milioni di morti nella seconda guerra mondiale. Indici di grandezza della guerra. Inoltre, più si risale verso il passato, più queste vittime assumono i colori dell’epica. Ecco la battaglia di Maratona. Migliaia di morti nell’esercito persiano e “solo” poche decine di ateniesi. Ecco la conquista della Gallia o della Dacia. Centinaia di migliaia di barbari uccisi e un milione catturati e fatti schiavi. Il ragazzo impara la potenza di Roma.


    Non voglio discutere o criticare il racconto epico della guerra. La rielaborazione dell’evento, nella letteratura come nel gioco, fa parte integrante del nostro modo di gestire questi fatti terribili. Il punto è: e la storia? Si deve limitare a citare questi fatti, alle loro descrizioni fredde e asettiche, e, in pratica, li deve occultare? E, magari, deve lasciare al “tema di attualità”, o all’ora di filosofia o di religione, il compito di tematizzarne e raccontarne l’angoscia? Eppure la storiografia ha elaborato potenti sistemi di indagine su questi eventi. Privarne gli allievi non sembra una scelta molto acuta.


    A molti sembra un progresso, non parlare di guerre. Spiego la vita dal basso, della gente comune, la storia di genere o le mentalità. Oppure, come si dice, “spiego la pace”. Giusto: ma non spiegare le guerre significa circondare questi fatti con un recinto di protezione, che li separa dalla storia e li confina nell’empireo degli oggetti scolastici. Li priva della loro problematicità e, perciò, li de-storicizza.


    Noi cercheremo di indagare su questo fenomeno, servendoci di una fonte e di un luogo particolari: i musei di guerra. Molto diffusi in altre nazioni (in Francia in particolare), in Italia sono presenti per la maggior parte in Italia Settentrionale e, ovviamente, con una concentrazione maggiore nelle regioni investite dalla Prima Guerra mondiale. Non mancano i musei del Risorgimento, che di recente hanno conosciuto un momento di risveglio dopo un lungo torpore: anche loro, si ricordi, sono in gran parte musei di guerra. Ho escluso da questa ricerca i musei della Resistenza: per questi occorreranno un discorso e uno studio particolari.


    Studiare la guerra nei musei serve non solo ai loro operatori. E’ utile anche per gli insegnanti. Come tutti sanno, la collaborazione fra insegnanti e operatori è fondamentale per un buon uso didattico del museo. Ma, oltre a questo, lo studio delle scelte espositive del museo aiuta docenti e storici ad approfondire questo argomento. Ci fornisce conoscenze e idee per spiegarla bene, e fare – della guerra – un oggetto di buona didattica.

     

    Fine prima parte

     

    (Seguirano la Parte seconda, sui musei tradizionali e i “musei-manuale”; la Parte terza sui “musei-laboratorio” e i “musei-provocazione”. Questo contributo è la rielaborazione della relazione che ho tenuto al convegno  di Craonne, e che verrà pubblicata in Francia)

  • La storia della guerra. Dai militari agli storici, o dalle caserme alle scuole?*

    La commemorazione del Centenario della Prima Guerra mondiale

    Da Moratti, a Gelmini a Giannini, l’elenco delle ministre della scuola affascinate dal mondo militare comincia a diventare lungo. Forse qualcuno ricorda l’idea che ai militari dovesse essere affidata la commemorazione scolastica del 4 novembre. Oggi si va più in là: è la memoria della Prima Guerra mondiale che ispira l’intesa fra Miur e Ministero della Difesa, intitolata “Favorire l’approfondimento della Costituzione italiana e dei principi della Dichiarazione universale dei diritti umani, in riferimento all’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione”.  

    Questo accordo, infatti, è stato siglato in occasione del Centenario della guerra, ma con lo scopo più ampio di contribuire all’educazione civile dei ragazzi e a diffondere la “cultura della difesa”. Secondo le due ministre, potranno essere utilizzati i militari più adatti all’insegnamento. Probabilmente, occorrerebbero militari capaci di fare storia. Non dubito che ce ne siano in Italia. Per attrezzarvi nella valutazione, vi propongo un mio adattamento della voce histoire-bataille, scritta da Nicolas Offenstadt per un dizionario storiografico francese. Così, potrete capire il modello storiografico, al quale il graduato che verrà in classe fa riferimento. Meglio ancora, dal momento che la storia della guerra è un argomento importante e degno di essere trattato, vi offrirà il destro per spiegarla voi, direttamente, agli alunni e ai militari che vorranno venire a scuola a impararla. Come sempre, vi invito, dopo questa lettura a prendere in mano l’originale Nicolas Offenstadt, Histoire-bataille, in C. Delacroix, F. Dosse, P. Garcia, N. Offenstadt (dir), Historiographie 1. Concepts et débats, 2010, pp. 163-169. (HL)

     

    La storia della guerra, fatta dagli storici e dai militari

    (…) La storia delle guerre in quanto tali ha sempre interessato molto gli storici. A dire il vero, la storia militare ha coinvolto, fino ad oggi, anche i militari. Per loro, la storia delle battaglie è “maestra di vita”: dai combattimenti del passato occorre ricavare delle lezioni per il presente militare e per i combattimenti futuri. Il grande storico militare, tanto discusso quanto influente, Hans Delbrueck (1848-1929) polemizzò nei suoi scritti contro gli storici dello stato maggiore intorno ai problemi storiografici del tempo.

    Criticò la pretesa dei militari di avere il monopolio in questo campo, cercando, contro quello che allora si pensava, di mettere a punto una storia militare più universale, più colta e meno eroica, meno isolata, inoltre, dalla politica, dall’economia e dalla cultura.
    (…)


    Come i militari fanno la storia della guerra

    A lungo questa storia militare è stata concepita come una storia della strategia e della tattica. Le battaglie e i combattimenti erano studiati e analizzati con uno sguardo d’insieme, precisamente quello del comando: gli obiettivi della battaglia, i piani preparati, la realizzazione delle operazioni a scala complessiva, o almeno a quella di grandi unità di combattimento, i risultati in rapporto alle previsioni o alle speranze di quelli che li hanno iniziati, la valutazione del risultato (battaglia vinta o persa, “decisiva” o no). Questo tipo di storia militare, ancora oggi viva, si inscrive in una storiografia istituzionale, politica, di storia “dall’alto”  in certo senso, legata a quella dei grandi uomini,   siano essi grandi decisori nella sala di comando,  oppure  comandanti  sul campo di battaglia.

    In particolare, la storia militare si è mal connessa, proprio per questi presupposti, con quelle innovazioni che hanno caratterizzato la scienza storica a partire dal XIX secolo: rivoluzione scientifica, allargamento dei punti di vista, l’attenzione alle strutture e alle mentalità, un’accresciuta riflessività.
    (…)

     

    Storia della guerra e identità nazionale

    (…) Scritta largamente da militari o da storici-militari,  la storia delle battaglie occupa un ruolo importante nel “romanzo nazionale” dei grandi paesi a tradizione militare. Le battaglie, quelle vittoriose, si vedono assegnare un ruolo cruciale o la missione di portatrici di simboli nella costruzione della nazione. Esse erano spesso presentate – e lo sono ancora -  come se fossero delle epopee. Molte di loro sono anche state analizzate, in questa prospettiva, come “luoghi di memoria”: Alesia, o Verdun in Francia, Tannenberg o Stalingrado per la Germania.  

    I lavori più recenti si sforzano in effetti di mettere in prospettiva critica questi miti identitari, le letture eroiche e entusiaste dei combattenti liberatori, ivi compresi gli eventi fondatori della Seconda Guerra mondiale, come la Battaglia di Inghilterra del 1940 (con il mito dei few against the many), o lo sbarco in Normandia del 1944, con una eroizzazione semplificatrice dei soldati. (…)


    Civili inglesi si rifugiano nella metropolitana (1940). Nel 1941, il ministero dell’Aviazione britannico pubblicò una brochure di trentadue pagine per costruire intorno alla Battaglia di Inghilterra un’aura leggendaria. Questa brochure venne diffusa in milioni di esemplari.La “battaglia dei pochi contro i molti”, come recitava il mito che ne nacque, è studiata da Richard Overy


    Una nuova “storia-battaglia”

    Da una trentina di anni a questa parte, la storiografia si è evoluta parecchio, al punto da evocare ormai una “nuova storia-battaglia”, che sarebbe lontana sia dall’immagine negativa associata come uno stigma a questo termine, sia dalla realtà di una storia dei combattimenti visti dall’alto e inserita in una semplice narrazione istituzionale e eventografica.  (…)

    Il primo di questi rinnovamenti, legato alle riflessioni sul racconto storico, riguarda le domande stesse che rivolgiamo alla battaglia. Che cos’è una battaglia o un combattimento? La risposta è meno semplice e più aperta di quanto non appaia. I racconti, soprattutto quelli che descrivono la battaglia, giocano la loro parte nella sua definizione; e le controversie per darle un nome, definire la sua estensione spaziale o più ancora la sua cronologia, cancellare o valorizzare un protagonista creano problemi complicati, che conviene sciogliere.

     

    Un caso esemplare della Prima Guerra mondiale: lo Chemin des Dames

    Queste domande sulla costituzione stessa dell’oggetto “battaglia” caratterizzano una ricerca collettiva sullo Chemin des Dames (1917). Lo scacco di questa grande offensiva, dalla quale si sperava tanto, indusse i commentatori francesi a esitare sulla maniera migliore per chiamare quella battaglia, per darne la versione meno negativa possibile (“Battaglia dell’Aisne”, “Chemin des Dames”, “Offensiva Nivelle” ecc.). Da subito, i discorsi dominanti cercarono di minimizzare la sconfitta o di trasformarla in vittorie parziali. La difficile narrazione dello Chemin des Dames, legata, per giunta, agli ammutinamenti, continuò, dopo l’evento, nella scrittura della storia (la battaglia vi occupa spesso un piccolo posto); e le commemorazioni che se ne fecero furono ora discrete ora complesse. Così, lo Chemin des Dames può essere qualificato come “evento senza forma”, tanto la messa in scena della sua estensione geografica e la sua ampiezza cronologica variano secondo i discorsi, per non parlare delle discussioni politiche e dei dibattiti interpretativi.
     

    Nicolas Offenstadt ha diretto quest’opera collettiva, dedicata allo Chemin de Dames, un “inferno”, come dicevano gli stessi soldati. Di questo massacro, e della sua rimozione francese, ci parla Giovanni de Luna. Di Craonne e dello Chemin de Dames si parla su HL a proposito di didattica museale.

     

    Gli storici rovesciano il punto di vista dei militari

    Oltre a queste domande, la “nuova storia-battaglia” rovescia i luoghi e le scale di osservazione. Con il libro molto importante di John Keegan, Il volto della Battaglia,  che studia insieme Azincourt (1415), Waterloo (1815) e la Somme (1916), i soldati nella loro esperienza del combattimento, nelle loro pratiche, le loro maniere di fare e di sentire la guerra diventano il cuore dell’interrogazione storica. Gli storici tentano di leggere la battaglia “al livello del suolo”, di comprendere le motivazioni dei combattenti, ma anche i loro comportamenti in combattimento, sia che si tratti dei gesti tecnici, dei sentimenti, delle reazioni psicologiche sia che si tratti dell’esercizio della violenza. Lo fanno anche per i periodi più antichi, come mostra lo studio “archeologico” del combattimento nella Grecia antica, condotto da Victor Hanson che segue l’oplita dalla polis fino alla morte sul campo di battaglia, attraversando tutte le fasi dell’azione militare.

     
    Qui troverete lo schema del libro di Keegan; due libri di Hanson ci spiegano fino in fondo la sua tesi – molto discussa – che mette in correlazione la straordinaria capacità di uccidere della società occidentale, con la sua democrazia. Quitrovi L’Arte occidentale della guerra

     

    La storia della guerra non è più una “storia-battaglia”

    In senso più ampio, i nuovi approcci della battaglia sganciano (dal mondo militare) l’oggetto “combattimento”, per situare i soldati nelle società del loro tempo con le loro credenze e le loro maniere di fare: è questo l’incontro fecondante con le innovazioni della storia culturale, un incontro avvenuto non senza dibattiti.  (…)

      Per rendersi conto del modo diverso di raccontare una battaglia, si può confrontare la ricostruzione proposta da arsbellica, secondo i canoni dell’histoire-bataille, e lo studio rivoluzionario di George Duby, La domenica di Bouvines. 27 luglio 1214 (del 1973), Einaudi, Torino. Di Duby, la Rai mette a disposizione le interessantissime interviste di metodologia storica

     

    Il lavoro di George Duby sulla battaglia di Bouvines ha, da questo punto di vista, marcato una rottura, altrettanto importante di quella del libro di Keegan. Il medievista ha inquadrato la battaglia del 1214 almeno da un triplo punto di vista. Dapprima, quello della contestualizzazione della battaglia in rapporto alla guerra e alla pace nel mondo medievale (“una sociologia della guerra”), poi in quello della sua narrazione da parte dei cronisti e delle fonti, e infine, dal punto di vista, legato a questi, delle costruzioni leggendarie che l’hanno accompagnata (…)

    Così, la storia delle battaglie è ormai integrata nell’insieme delle ricerche storiografiche contemporanee (ivi comprese quelle di genere) anche se l’espressione “storia-battaglia” resta il simbolo di una maniera di fare che molti storici rifiutano e che, pur tuttavia, perdura largamente nella storiografia militare.

    *Traduzione e adattamento di Antonio Brusa

  • Lezione 2. Formazione storica e identità

    di Antonio Brusa

    01Fig. 1: A. Mucha, La resurrezione del popolo slavo, P. Finolezzi, Art Nouveau e Indipendentismo slavo nell’opera di Alphonse Mucha Fonte Il paradigma classico della didattica della storia – basato sui cinque elementi: aula, programma, manuali, lezione, interrogazione – si forma nel contesto di una complessa operazione di pedagogia nazionale, messa in atto dagli stati europei nel 1800. Una strategia che si attiva lungo molti canali: la filiera scuola-università, quella della produzione mitopoietica (le Invenzioni, come ci ha insegnato Eric Hobsbawm), l’intensa produzione di feste, inni e calendari nazionali, l’intervento sull’arredo urbano (nomi delle strade, monumenti, edifici pubblici), il sostegno alla produzione lirica (in Italia soprattutto), la sacralizzazione dell’ambiente (i parchi nazionali, che custodiscono la natura vergine della nazione) e la progressiva patrimonializzazione del passato, che inizia con i grandi monumenti e finisce ai giorni nostri con il “patrimonio immateriale” delle tradizioni e financo delle ricette. Una strategia complessa e costosa.

    L'identità vale tanti soldi

    Uno scopo vitale per quei giovani stati: la costruzione dell’identità nazionale. Vitale, perché occorreva trasformare gli abitanti delle centinaia di migliaia di località europee in cittadini di uno stato.

    Ma, a questo punto, occorre fermarsi, e capire bene che cos’è l’identità.

    Possiamo definire l’identità in due modi: essenzialista e relazionale. Il primo “guarda dentro” l’identità, ne osserva i componenti. Il secondo, invece, mette l’accento sul rapporto fra soggetto e mondo circostante. I due concetti danno luogo a scuole di pensiero (e anche scuole politiche) in forte opposizione. Ma non andiamo lontani dal vero se affermiamo che, anche ad avere una posizione essenzialista, non si può negare i componenti di un’identità provengono da ogni dove; e, per converso, il sostenitore dell’identità essenzialista non avrà difficoltà a riconoscere come originale il coktail individuale, per quanto risulti composto di elementi appartenenti ad altri soggetti. Questa identità può essere, ancora, declinata in due dimensioni: quella individuale, e quella collettiva. Questa, a sua volta, può essere mondiale, sovraregionale, nazionale, cittadina, di gruppo ecc.

    L'identità cambia nel tempo

    Nelle campagne dell’ancien régime le identità, individuali e di gruppo erano piuttosto semplici, rispetto alle nostre. In un villaggio isolato (come per esempio poteva accadere nelle immense praterie dell’impero russo) i contadini avevano certamente un’identità di genere e di generazione. Non avrebbero mai visto in vita loro un pope o un signore. Quindi, non avevano bisogno di identità più raffinate, che li distinguessero da quei personaggi. Ma con l’avvento della società moderna (urbanizzazione, industrializzazione, e stato) le identità tendono a diventare sempre più complesse, fino ad arrivare ai giorni nostri, quando – dice la gran parte degli studiosi – ogni soggetto del pianeta terra ha identità multiple e cangianti.

    Chi costruisce le identità?

    Nell’ancien régime i soggetti “formatori di identità” sono la famiglia, ma soprattutto la chiesa e la comunità (di villaggio o di quartiere). Con l’avvento degli stati, quelle identità non funzionano più. Perciò, subentra lo stato, con la pedagogia che abbiamo visto sopra. Il nuovo meccanismo funziona a meraviglia per decenni. Ne secondo dopoguerra comincia a incepparsi. Gli stati si indeboliscono progressivamente e, di pari passo, si indeboliscono le identità che riescono a offrire. In questo spazio vuoto si precipita un nuovo soggetto: il manager identitario. Può essere un soggetto religioso (l’Isis), politico (la Lega degli anni ’80), di costume (i dark); e i luoghi di formazione identitaria si diffondono nel territorio. La rete diventa il luogo principe dove il manager offre il suo servizio, spesso, a milioni di uomini e donne bisognosi di chiarezza e certezza, in un groviglio identitario che non riescono più a gestire.

    Che fa la scuola in questa nuova situazione?

    Ha due scelte di fronte a sé. La prima è gettarsi nel mercato identitario ed entrare in concorrenza coi suoi molti manager. Tutti producono identità? La scuola dice: la mia è la migliore e i cittadini si devono adeguare. In fin dei conti è quello che fece la Moratti, con i suoi programmi del 2003, che imponevano ai cittadini italiani l’identità giudaico-cristiana.

    La seconda è quella di sostegno. Noi sappiamo che oggi è difficile costruirsi un’identità, o meglio ancora “gestire le molteplici identità”. La scuola può aiutare il soggetto a costruirsi un’identità di “alta qualità”. I ragazzi, oggi, costruiscono la propria identità nel gruppo dei pari e nella rete. Osservano le prodezze degli amici, gli eroi della rete: sono questi i modelli culturali in base ai quali si “autoforma”. La scuola può presentare ai suoi allievi i migliori modelli culturali del mondo: come guardare il mondo, come rapportarsi con gli altri, come pensare al futuro.

    E la storia?

    Anche la storia ha due strade “identitarie” di fronte a sé.

    La prima è quella di una storia che spinga gli allievi ad aderire alla comunità nazionale, proponga loro modelli da imitare, li muova all’amore e al senso del dovere nei confronti della “madre-patria” (quale che essa sia: nazione, gruppo, entità sovranazionale ecc).

    La seconda è quella culturale-cognitiva, nella quale la storia insegna ai giovani a leggere il mondo, capire processi profondi, che resterebbero invisibili senza gli specifici “occhiali” della storia. Lavora sul cognitivo (e non può fare altro, perché è una scienza), ma così facendo, crea nei fatti una comunità di colti, capaci di capire la complessità sociale e capaci, di conseguenza, di prendere decisioni responsabili. Questa dovrebbe essere la “nuova” cittadinanza democratica.

    La strategia identitaria degli stati.

    Negli ultimi trent’anni è accaduto un fenomeno imprevedibile: una quantità notevole di stati e di soggetti collettivi ha ripreso pari pari le strategie identitarie ottocentesche, dando luogo a una sorta di gigantesco re-enactement di situazioni che tutti pensavano passate. Sono gli stati dell’Europa Orientale (soprattutto), ai quali si aggiungono molti stati di nuova costituzione, e la sterminata quantità di gruppi emergenti (etnici, di genere, religiosi, ecc). Ci danno la possibilità di conoscere questa strategia dal vivo, e non più soltanto sui libri. Osservandola, capiamo la struttura di questa narrazione storica identitaria. I suoi elementi costitutivi ce ne mostrano la natura mitologica:
    a. L’antichità. Le radici affondano nella preistoria o, in mancanza di questa nei tempi più antichi
    b. I primati. Il mio gruppo ha prodotto nel tempo alcune grandi scoperte (dal vino, agli spaghi, al trapano, per non parlare della democrazia o della città) che meritano il rispetto di tutti
    c. La grandezza. Un tempo, il mio gruppo o il mio stato erano vasti, spazialmente e culturalmente, molto più di adesso.
    d. La sofferenza e il martirio. L’antica grandezza è stata repressa da nemici (passati o ancora presenti)
    e. Gli eroi. Morti nella difesa della grandezza passata, o combattenti vittoriosi dei nemici.
    f. La resurrezione. Oggi è il tempo di riprendersi gli antichi spazi e di conquistare quel rispetto e quel riconoscimento al quale, per i meriti accumulati nella nostra storia, abbiamo diritto.

  • Manuali per la scuola e manuali per l’università: un seminario romano

    di Daniele Boschi

    Ecco una buona notizia per quelli che amano la storia: l’Università di Roma Tor Vergata ha istituito un “Laboratorio permanente di didattica della storia”.

    Una delle prime attività è stata l’organizzazione di un seminario sui manuali di storia (vedi la locandina allegata), nel quale docenti e ricercatori universitari, insegnanti delle scuole, autori e redattori di manuali di storia hanno riflettuto insieme sullo sviluppo storico, le caratteristiche e le diverse modalità di utilizzo di questi importanti, anche se molto discussi, strumenti didattici.

    I manuali scolastici di storia hanno alle spalle un tradizione plurisecolare

    Come ha ricordato nella sua relazione Luigi Cajani, i manuali scolastici di storia hanno alle spalle una lunga tradizione che risale al XVII secolo. Fra i manuali del ‘600 spicca quello del tedesco Johann Buno, che affiancava al testo numerose immagini, per aiutare i più giovani scolari a memorizzare i fatti e i personaggi più importanti1. Il manuale di Buno ebbe grande successo, e così pure quello ottocentesco di Laure de Saint-Ouen, che oltre ad accompagnare il testo con simboli e immagini presentava, alla fine di ogni capitolo, numerose domande, non tutte nozionistiche, per facilitare la rielaborazione e la memorizzazione dei contenuti2.

    Le fonti storiche nei manuali scolastici in Italia dal secondo dopoguerra a oggi

    Il confronto fra il passato remoto dei manuali e quelli del dopoguerra, fa risaltare i due fatti nuovi, che contraddistinguono le preoccupazioni didattiche dei giorni nostri: le fonti (documenti storici e brani storiografici) e gli apparati di esercizi.

    J. Buno, Elefante1. Dalle Historische Bilder di Johann Buno: sullo sfondo di un gigantesco elefante, una folla di immagini illustra i principali eventi storici del quinto secolo d.C.

    In una prima fase, fino agli anni ’70 del ‘900, le fonti erano spesso raccolte in volumi distinti dal manuale vero e proprio. Tra i primi libri di testo ad unire il profilo storico generale e le fonti, va ricordato il fortunato manuale di Antonio Desideri, Storia e storiografia, uscito nel 1978. Un ulteriore passo in avanti fu compiuto da Alberto De Bernardi e Scipione Guarracino nel 1987 con L’operazione storica, che alle fonti accompagnava un importante apparato di esercizi. Questo manuale è rimasto un modello insuperato; ma è estremamente significativo che esso abbia riscosso un buon successo soltanto fra gli insegnanti più preparati, mentre ha avuto una scarsissima adesione fra la massa dei docenti, al punto che fu ritirato dopo pochi anni.

    Questa sorta di ostilità aiuta a comprendere il ritorno (molto evidente negli ultimi anni) verso libri di testo che danno più importanza alla dimensione narrativa della storia e lasciano meno spazio alle fonti, non di rado inserendole all’interno di apparati didattici di scarsa qualità, curati dalle redazioni delle case editrici piuttosto che dagli autori dei manuali.

    L’uso dei manuali scolastici da parte di docenti e studenti

    Ma in che modo docenti e studenti usano, o dovrebbero usare, i manuali di storia nelle scuole? Come Antonio Brusa ha ricordato nella sua relazione, la riflessione teorica su questo tema ha inizio già negli anni ’70; tuttavia, da allora fino ad oggi, ben pochi dati empirici sono stati raccolti sulle reali pratiche didattiche.

    Riprendendo le premesse e i risultati di una ricerca condotta negli anni ’80 su un campione abbastanza ampio di insegnanti e studenti della scuola media3, Brusa ha sostenuto che il primo fondamentale obiettivo che gli insegnanti dovrebbero porsi non è quello di “spiegare” il manuale, ma piuttosto quello di rendere gli studenti autonomi nella lettura e nello studio del libro di testo. Gli studenti non dovrebbero essere abituati a “restituire” ciò che hanno letto, ma ad esporre e a discutere i risultati delle loro ricerche sul libro di testo. Si tratta di un’attività che andrebbe impostata e programmata a partire da obiettivi molto elementari, per raggiungere poi gradualmente risultati via via più ambiziosi. Non tutti i manuali si prestano allo stesso modo alla realizzazione di questo tipo di lavoro e sono vive le resistenze degli insegnanti ad abbandonare la prassi didattica più tradizionale.

    Peraltro, la situazione attuale è molto diversa rispetto agli anni Ottanta, sia per la grande eterogeneità dei contenuti che si riversano nei manuali (iconografici, digitali, di storia pubblica ecc.), sia per il minore interesse delle case editrici e delle stesse politiche pubbliche rispetto alle esigenze formative specifiche delle singole discipline. Permane però l’esigenza di una chiarificazione teorica riguardo alle potenzialità e ai limiti dell’uso didattico dei manuali di storia e sarebbe l’ora di avviare una seria ricerca empirica sulle effettive modalità del loro impiego nelle scuole.

    Si possono migliorare i libri di testo?

    Per rispondere a questa domanda, Vito Loré è partito dai risultati dell’indagine, da lui realizzata insieme a Riccardo Rao, sulla trattazione della storia medioevale nei libri di testo scolastici della scuola secondaria4. La loro ricerca ha evidenziato la persistenza di numerosi stereotipi ed errori, che gli studiosi hanno individuato da parecchi decenni. I luoghi comuni si addensano attorno ad uno stereotipo quadro: la netta e ormai improponibile dicotomia fra un alto Medioevo caratterizzato da una larghissima dominanza del localismo a livello politico ed economico, dalla diffusione del “feudalesimo”, dalla corruzione morale del clero, e un basso Medioevo caratterizzato in maniera diametralmente opposta.

    J. Buno, Attila2. Particolare dell’immagine riprodotta nella figura 1: Attila, il “flagello di Dio”, e sopra di lui Giulio Valerio Maggioriano, imperatore romano d’Occidente dal 457 al 461

    Secondo Lorè, la cattiva tessitura dei libri di testo nella parte relativa al Medioevo potrebbe essere ricondotta a un certo distacco fra la didattica universitaria e la didattica scolastica, verificatosi probabilmente fra i tardi anni Settanta e i primi anni Ottanta del Novecento. A ciò si aggiunge l’enorme dilatazione e polverizzazione del mercato editoriale verificatasi negli ultimi decenni: oggi l’offerta di manuali per le scuole di ogni ordine è amplissima e non esistono manuali che abbiano una posizione realmente dominante sul mercato.

    In conclusione, Loré suggerisce tre tipi di rimedi: in primo luogo, le case editrici potrebbero dotarsi di “lettori” competenti, capaci di individuare i punti critici dei manuali già in catalogo, o in corso di redazione; in secondo luogo, gli autori dei nuovi libri di testo scolastici dovrebbero dovrebbe essere tenuti, quasi da contratto, a costruire il loro testo sulla base di manuali universitari recenti, assunti come riferimento; in terzo luogo sarebbe opportuno che i manuali scolastici, come tutti gli altri prodotti editoriali, fossero regolarmente recensiti, in modo tale da evidenziare il loro livello di aggiornamento scientifico.

    I manuali di didattica della storia

    Nel confronto con i problemi della didattica scolastica, risaltano le particolarità di quella universitaria. A differenza di quelli scolastici (che, lo ricordiamo, sono centinaia e alcuni di questi risalgono agli anni ’60 del secolo scorso), i manuali di didattica della storia sono recenti e molto pochi. Uno dei più noti è quello di cui è coautore Walter Panciera5, che nella sua relazione ha illustrato le problematiche inerenti alla realizzazione di questo particolare strumento didattico.

    I manuali di didattica della storia sono destinati in primo luogo alla preparazione degli studenti dei corsi di laurea in scienze della formazione primaria; in secondo luogo alla formazione degli studenti dei corsi di laurea in storia, molti dei quali diventeranno poi docenti nelle scuole secondarie; e infine alla formazione in servizio degli insegnanti. Non è semplice rispondere in modo efficace con uno stesso testo alle attese e ai bisogni formativi di queste tre diverse categorie di potenziali “utenti”. Sarebbe opportuno e utile differenziare i manuali secondo i diversi ordini e gradi del sistema scolastico.

    Inoltre, se è abbastanza agevole definire il quadro epistemologico della disciplina, risulta più problematico fornire indicazioni e consigli circa i metodi e le strategie didattiche: infatti, mentre abbondano proposte di modelli e di buone pratiche, è raro che essi siano stati validati attraverso un serio lavoro di sperimentazione didattica che ne abbia dimostrato l’efficacia. Infine, per avere un quadro completo di questo genere di manualistica, occorrerebbe allargare lo sguardo dai testi che trattano della didattica della storia in generale a quelli dedicati a specifiche metodologie, come la didattica laboratoriale o quella digitale, o a singoli argomenti storici.

    I manuali universitari di storia: una prima inchiesta

    Per lungo tempo i docenti universitari di storia hanno utilizzato gli stessi manuali adottati nel triennio delle scuole superiori, in particolare nei Licei. Ma specialmente dopo la riforma universitaria del 1999, quella che ha introdotto il sistema del “3+2”, la situazione è cambiata, e in molti corsi universitari di base vengono ora utilizzati manuali di storia pensati e scritti per l’Università (anche se in molti casi si tratta di ampliamenti o rielaborazioni di libri di testo per i Licei).

    Stefano Mangullo e Fernando Salsano hanno illustrato i primi risultati emersi da un sondaggio sui manuali di storia nei corsi universitari di base, promosso dal “Laboratorio permanente di didattica della storia” dell’Università di Roma Tor Vergata. Il dato più interessante è la generale soddisfazione dei docenti per i manuali in uso, che tendono infatti ad essere confermati per più anni. Tra i manuali più usati vi sono quello di Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto per la storia contemporanea, quello di Carlo Capra per la storia moderna e quello di Andrea Zorzi per l’età medioevale.

    Un manuale di storia per le università

    J. Buno, Odoacre3. Particolare dell’immagine riprodotta nella figura 1: Odoacre toglie la corona dal capo e lo scettro dalle mani di Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano d’Occidente

    Marco Bellabarba e Vincenzo Lavenia hanno presentato il loro nuovo manuale, Introduzione alla storia moderna6, che qui è interessante perché è un modello molto diverso dai manuali per le scuole. Infatti, presenta una prima parte tematica che affronta questioni di carattere generale, spesso fortemente connesse con il mondo attuale: dalle migrazioni al rapporto con l’ambiente, dal lavoro alla famiglia, dalle emozioni alle forme della comunicazione, per indicare solo alcuni degli argomenti trattati. La seconda parte, invece, ricostruisce i principali fatti storici in ordine cronologico, ma si contraddistingue per un approccio non eurocentrico e per l’accento posto su luoghi e momenti chiave spesso trascurati dai testi scolastici, come ad esempio la fine della “pax mongolica” nell’Asia del XIV secolo, o la cacciata dei “moriscos” dalla Spagna all’inizio del Seicento.

    Un manuale di storia economica

    Un altro interessante manuale universitario di recente pubblicazione è la Storia economica globale del mondo contemporaneo, curata da Carlo Fumian e Andrea Giuntini7, che lo ha presentato durante il seminario. È un libro di testo per studenti universitari, ma pensato anche per un pubblico più ampio, e ambisce a differenziarsi da altri manuali di storia economica per il suo approccio globale e transnazionale. Pur essendo incentrato sul mondo contemporaneo, il testo prende avvio da una sintesi molto ampia del periodo che va dalla metà del XV secolo fino al XIX, lunga epoca nella quale prese forma il sistema capitalistico globale. Sul web è possibile leggere una interessante intervista ai due autori sui temi trattati nel loro libro: dalla industrializzazione in età contemporanea alla rivoluzione commerciale, dalle migrazioni alla diffusione di povertà e disuguaglianze, dalla nascita dell’impresa “globale” al destino dello Stato-nazione.

    Un campo di ricerca da scoprire

    Le relazioni e la discussione che ad esse ha fatto seguito hanno messo in evidenza lo stato fluido della didattica universitaria e scolastica: da una parte legate a modelli tradizionali, che non vengono seriamente messi in discussione, dall’altra lanciate verso innovazioni interessanti, ma per ora scollegate da una puntuale verifica della loro reale ricaduta ed efficacia didattica. In comune, i due ordini di insegnamento hanno il fatto che la ricerca sulla didattica della storia è la grande assente. Quella sulla didattica scolastica, nata con grandi speranze negli anni ’80 del secolo scorso, ora rischia di scomparire per mancanza di ricercatori specializzati; quella sulla didattica universitaria, al contrario, non ha visto mai la luce (in Italia e solo ora se ne parla a livello internazionale). Iniziative come questa del “Laboratorio permanente di didattica della storia”, dunque, sono da sottolineare proprio per il loro carattere sperimentale e coraggioso: ci auguriamo tutti che la didattica della storia possa finalmente accreditarsi nelle istituzioni, in modo che queste possano fornire un contributo stabile e serio alla formazione dei docenti.

     

    * Le immagini sono state cortesemente fornite da Luigi Cajani.

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    1. Johann Buno, Historische Bilder. Darinnen Idea Historiae Universalis : Eine kurtze Summarische Abbildung Der fürnehmsten Geist-und Weltlichen Geschichte durch die vier Monarchien, Lüneburg, 1672.

    2. Laure de Boen de Saint-Ouen, Histoire ancienne mnémonique : avec emblêmes et portraits : méthode nouvelle pour apprendre l'histoire d'une manière prompte et ineffaçable, Parigi, 1837.

    3. Cfr. Antonio Brusa, Guida al manuale di storia. Per insegnanti della scuola media, Roma, Editori Riuniti, 1985.

    4. Loré non è stato fisicamente presente al seminario, ma ha trasmesso il testo della sua relazione. I risultati della ricerca di Loré e Rao sono stati pubblicati nell’articolo Medioevo da manuale. Una ricognizione della storia medievale nei manuali scolastici italiani, “Reti Medievali Rivista”, 18, 2 (2017).

    5. Walter Panciera - Andrea Zannini, Didattica della storia. Manuale per la formazione degli insegnanti, Firenze, Le Monnier, 2006.

    6. Marco Bellabarba - Vincenzo Lavenia (a cura di), Introduzione alla storia moderna, Bologna, Il Mulino, 2018.

    7. Carlo Fumian - Andrea Giuntini (a cura di), Storia economica globale del mondo contemporaneo, Roma, Carocci Editore, 2019.

  • Materia di studio

    Pavia 2 aprile

     

    Dì, fa Mario con il suo caratteristico intercalare, lo sai come chiamano gli studenti la storia? Siamo quasi al termine del Pas, a Pavia. Mario lavora con me forse da venti anni, e ora insegna anche lui in un corso di didattica. Fa il vice-preside in un comprensivo dell'Oltrepò, dove ha lanciato un questionario sulle materie. E' venuto fuori che la storia, insieme con le scienze e la geografia sono "materie di studio". Che vuol dire, chiedo?

    Per questi ragazzi, l'italiano, l'educazione artistica, la matematica non sono "materie di studio". Lì si fanno i compiti, i problemi, si scrive, si discute. Storia, invece (come le sfortunate compagne), "si studia". Cioè si legge, si impara e si dice in classe.

    Sembrano ancora in vigore i regolamenti del 1817, quando l'Austria si riprese queste terre e impose che "la storia è materia rigorosamente mnemonica". Potenza dei tempi lunghi, avrebbe detto il nostro Le Goff. Come si fa a scalfire questa prodigiosa resistenza? Mario è sconsolato. Mi dice: sono decenni che facciamo corsi, manifestazioni, convegni, siamo andati in tutte le classi con i nostri allievi della Silsis a mostrare giochi e laboratori. Niente da fare.

    Qualche anno fa, in un sondaggio più artigianale, aveva chiesto ai ragazzi che cosa ne pensassero della storia. Peste e corna, ne dissero. Ma, alla domanda: come vi piacerebbe studiarla? qualcuno rispose: Come quella volta che vennero gli archeologi a fare uno scavo in classe. Erano i miei amici del Cridact, il centro di didattica dell'antico dell'Università di Pavia, che con Stefano Maggi portavano in giro il loro cubo magico (uno scavo simulato, del quale parlo in Piccole storie). Si erano divertiti, avevano memorizzato (al punto che se ne ricordavano a distanza di anni), ma i loro insegnanti, dopo aver preso atto con soddisfazione del "nuovo metodo", avevano chiuso la parentesi. Finita la ricreazione, la storia "è materia di studio".

    Eppure, in quei regolamenti ottocenteschi, dopo l'ingiunzione a "studiare", si proseguiva consigliando quegli antichi colleghi a prendere qualche contromisura perché "a che serve imparare a memoria, se poi l'allievo non sa spiegare e connettere fra di loro gli avvenimenti?". Anche due secoli fa, l'avevano ben chiara la faccenda. Noi no. Ancora no (se leggerete Piccole Storie, il gioco sul cubo magico l'ho dedicato proprio a Davide, quel ragazzino che diceva che gli sarebbe piaciuto studiare la storia in modo diverso).

  • Mediterraneo. Come usare un articolo di giornale e (come usare HL) in una lezione di storia

    Autore: Enrica Bricchetto

     

    L’articolo di David Abulafia,Tremila anni di Mare Nostrum, è stato pubblicato sul “Sole24 ore”, nelle pagine della “Domenica”, del 20 marzo scorso (2016).

    L’autore è uno storico molto noto, autore de Il grande mare. Storia del Mediterraneo, uscito in Italia nel 2013.

    L’ articolo di Abulafia serviva in verità per dare notizia, sul supplemento culturale del “Sole 24 ore”, del seminario dell’Aspen Institute - presidente Giulio Tremonti - dal titolo Hubs and network in the Mediterranean basin: A Path to sustainable growth.

    Nel corsivo di presentazione dell’iniziativa, si leggeva che Aspen Institute, insieme a Raicultura, ha realizzato il documentario Mare di mezzo.Il Mediterraneo e le sue città, nel quale Abulafia racconta la storia delle città mediterranee come “hub” politici, culturali e commerciali. L’articolo, in sostanza, è una specie di sceneggiatura del documentario. 

    Dietro la confezione di una pagina con queste caratteristiche in un quotidiano economico come il “Sole 24 ore” c’è l’esigenza di far conoscere ai lettori l’attività dell’Aspen Institute, il cui scopo è quello di individuare negli interventi imprenditoriali possibilità di miglioramento dell’area e conseguentemente, promuovere investimenti. Non è dunque uno scritto destinato ad uno scopo didattico. Tuttavia, mi è sembrato interessante provare a “stressare” la modalità di presentazione della notizia e entrare nel merito dell’uso e della qualità dei prodotti audiovisivi che circolano.

    Provo, quindi, a descrivere la procedura che ho usato, per trasformarlo in un oggetto di studio.

    Presupposti metodologici: Web, Flipped Teaching, Eas

    Vari metodologie didattiche, ormai diffuse, soprattutto il Flipped Teaching e gli EAS (Episodi di Apprendimento Situati), essendo centrate sull’attività, partono da un momento che anticipa la lezione1. In altri termini, lo studente si appresta al lavoro in classe possedendo già alcune conoscenze che ha messo a punto lavorando a casa - in modo sia autonomo sia guidato.

    Il mondo della comunicazione è un deposito di materiali per il docente che intenda lavorare con questi metodi. L’idea di fondo è quella di mettere lo studente in una situazione di apprendimento problematica e attuale. Lavorare, quindi, su di un articolo fresco di stampa, su un video che si trova in un sito di economia significa partecipare del flusso delle notizie culturali, dentro cui sta anche la storia, e entrare in un discorso pubblico, che può suscitare dibattito e interesse.


    I materiali per la lezione

    I materiali per la lezione sono costituiti dalla prima pagina - la copertina della “Domenica” - con articolo e cartina e dal documentario. Ribadisco che tutto si trova nel sito di Aspen Institute, quindi basta dare il link agli studenti.

    Il documentario colpisce per la sua frontalità, per la scelta di immagini di repertorio, per il grado quasi zero della regia che lo rendono più simile a una videolezione che a un non-fiction film.

    Nella parte che anticipa la lezione in classe - cioè a casa - il docente può assegnare la visione di alcune parti agli studenti, con un’esplicita richiesta di analisi del formato video. In questa fase è sempre meglio che gli studenti abbiamo una traccia per analizzare il video, magari un un semplice questionario, per mettere a fuoco sia elementi di contenuto sia elementi formali. Oppure il docente può utilizzare piattaforme com EcuCanon o Ted-ed che consentono di fare domande e aggiungere contenuti ai video.

    L’articolo può essere dato da leggere integralmente, con una richiesta precisa di schematizzazione del contenuto in modalità testuale oppure grafica (si consiglia l’utilizzo di Easel.ly che è una webapp per fare infografiche). Ancora, può essere “tradotto” in una linea del tempo digitale (per esempio con le Apps Dipity, Preceden o Tiki Toki) o sulla carta.

    Alla base di questa parte c’è la convinzione che gli studenti si approprino dei contenuti e dei ragionamenti proposti perchè li rielaborano.

    Il Mediterraneo e lo Spatial Turn

    In HL più volte si è trattato il tema del Mediterraneo nella prospettiva dello spatial turn, un paradigma secondo il quale “i territori”, cioè gli spazi organizzati dall’uomo, ambiscono a diventare il soggetto dell’analisi e del racconto storico. Oceani e mari, quindi, cessano di essere gli scenari inerti della storia, e diventano essi stessi i protagonisti del racconto (mettendo nella barra di ricerca del sito il termine “Mediterraneo”, ci si imbatte in molti interventi - quasi tutti di Antonio Brusa – che illustrano con esempi questo approccio).

    Brusa riassume così le due polarizzazioni del dibattito sulla didattica della storia oggi.

    Da una parte la storia insegnata è vista nel suo ruolo tradizionale di costruttrice di identità (nazionali, locali, o sovranazionali come nella insistente politica scolastica del Consiglio d’Europa).
    Dall’altra, la storia insegnata è vista come strumento per la lettura del mondo.
    Per i primi, quel modello elaborato nell’Ottocento è lo storytelling che dà senso all’essere italiani o europei, in un mondo sempre più connesso e planetarizzato, e perciò va salvaguardato nelle scuole.
    Per i secondi, si tratta di riformulare il nostro approccio al passato.

    E’ da questa prospettiva che la pagina della “Domenica” mi ha consentito di riflettere.

    Il Mediterraneo di Abulafia

    Abulafia ragiona sul Mediterraneo in senso diacronico - dall’età del bronzo all’età moderna. Si sofferma, poi, sul periodo medievale, nel quale il Mediterraneo diventa la culla delle religioni rivelate, i cui fedeli si spartiscono lo spazio politico senza tuttavia interrompere l’interazione fra le diverse sponde del mare. La prospettiva è la lunga durata che dimostra, anche se Abulafia non lo rileva apertamente, che gli scambi commerciali, i rapporti economici rappresentavano un mondo in cui i contrasti erano presenti senza interrompere i contatti.

    Abulafia però non si spinge oltre. Ci lascia, alla fine, con l’idea di una dialettica inalterata attraverso i tempi. “Noi” di qui, “Loro” da quella parte. Ognuno a guardare l’altro dalla propria prospettiva. Non è un grande passo avanti, rispetto alle storie nazionali e autocentrate (eurocentriche come arabocentriche).


    Mediterraneo, spazio comune

    Per fare un passo avanti il docente può leggere l’intervista a Mostafà Hassani-Idrissi, storico dell’università di Rabat, che ha coordinato la stesura di un manuale di storia del Mediterraneo alla quale hanno partecipato storici dei principali paesi delle due sponde2.

    Lo storico suggerisce di guardare al mare come ad uno spazio plurale, in cui per molto tempo sono stati attori e hanno vissuto uomini e donne appartenenti a popoli che oggi - a causa delle guerre e della destabilizzazione creata da Daesh - si rischia di considerare lontani da noi. E’ un lungo lavoro di responsabilizzazione degli uni verso gli altri, in una società multietnica come quella Europa attuale, che la scuola deve perseguire. Conoscere e avere la consapevolezza di continuare a condividere uno spazio comune può essere uno strumento per combattere insorgenze razziste o xenofobe.

    Questo manuale dovrebbe essere presto tradotto in italiano e aiutare i docenti a problematizzare in senso storico l’attualità della cronaca politica.

    Framework 

    A questo punto, il docente costruisce una cornice concettuale che parte dalla prospettiva di Abulafia e abbraccia l’idea di Mediterraneo plurale di Idrissi. Fa quindi un discorso di cambiamento di paradigma, dimostrando che uno spazio può essere analizzato in modi diversi. Tale diversità di analisi incide anche sulla visione dell’ oggi che presenta agli studenti. Pensare a un Mediterraneo come luogo di contatti, ci fa riconoscere come persone che, pur avendo religione e cultura diverse, hanno un passato in comune.
    Dal momento che gli studenti hanno già esaminato la prospettiva di Abulafia, sono sicuramente più pronti a cogliere lo spostamento che gli si vuole proporre che è problematico non nozionistico.

    Al termine...

    L’articolo di Abulafia - da cui è partita questa riflessione - ha funzionato da stimolo e da aggiornamento veloce per il docente che può entrare nell’ottica di costruire quadri, dentro i quali i presente e il passato entrano in relazione e assumono senso.

    Il problema di molti docenti di storia è che hanno una formazione che appartiene alla storia come costruttrice di identità nazionali. I manuali del triennio riportano e ribadiscono questa prospettiva. Non presentano altri paradigmi molto interessanti per una didattica della storia a base mondo e non a base eurocentrica. Quindi il docente, anche se molto informato, si chiede uno sforzo di riorganizzare i propri contenuti. Tale riorganizzazione fa riferimento alla trasformazione dei contenuti che il docente sa in quelli che deve selezionare per i propri allievi. Nel linguaggio della didattica si indica con il termine di Trasposizione.

    Al tempo delle emergenze planetarie che, grazie o per colpa alla tecnologia, entrano nelle classi, anche il processo di selezione dei contenuti dei docenti subisce delle scosse, deve far fronte a cambiamenti repentini e, quando è possibile, capirne anche le ragioni.

    Diventa quindi strategico rispondere alle interpellanze dell’attualità e capirne le origini.

    NOTE

    1. Cfr. Micro-progettazione e pratiche a confronto.Propit,Eas, Flipped, a cura di Pier Giuseppe Rossi e C.Giacone, marzo 29016, scaricabile gratuitamente all'indirizzo dell'editore Franco Angeli;  G.Cecchinato,  Flipped Classroom. Un nuovo modo di insegnare e di apprendere,Torino, Utet, 2016; P.C. Rivoltella, Fare didattica con gli Eas, Brescia, La Scuola, 2013 e  Didattica inclusiva con gli Eas, Brescia, La Scuola, 2015. Si veda anche il sito www.cremit.it

    2. Cfr. Un manuale di storia comune, per una società aperta. Intervista a Mustafa Hassani-Hidrissi, 13 dicembre 2013

  • Mediterraneo. Una storia da condividere


     


    La scrittura in comune, da parte di un gruppo di storici e studiosi di didattica della storia, provenienti da otto paesi del Nord e del Sud del Mediterraneo, ha portato alla creazione di Méditerranée. Une histoire à partager /Mediterraneo. Una storia da condividere (edito da Bayard, Parigi).
    Questo progetto è centrato su una scala radicalmente nuova, quella mediterranea. Si propone come complemento per gli insegnanti, che troppo spesso hanno materiali e programmi rinchiusi nella scala nazionale. Tiene conto delle evoluzioni recenti della disciplina storica e in particolare della storia mondiale e della connected history.
    Il volume si compone di cinque capitoli, dalla preistoria alla primavera araba. Ogni capitolo presenta una contestualizzazione storica e studi di caso selezionati in modo da rispettare l’equilibrio geografico tra le diverse sponde del Mediterraneo. Gli studi di caso sono strutturati intorno ad un testo introduttivo, che presenta il problema e il contesto storico e un corpus di documenti di vario tipo. Attraverso il racconto, i documenti e le carte, i quindici autori - storici ed educatori provenienti da Marocco, Tunisia, Francia, Italia, Portogallo, Grecia, Libano ed Egitto,  coordinati da Mostafa Hassani Idrissi, docente di didattica della storia all'Università Mohammed V di Rabat -ripercorrono la nascita di un soggetto storico, il Mediterraneo, esplorandone i diversi periodi di tensione e di cooperazione, isolazionismo e apertura, tradizionalismo e modernità.
    Accompagnato da un sito internet, questo progetto viene presentato a Marsiglia il 2 e il 3 dicembre, alla presenza di ministri, autorità regionali e cittadine e di un nutrito gruppo di storici e studiosi dell’area mediterranea. Ad esso seguirà un piano di formazione, che inizierà il giorno successivo con un corso tenuto- fra gli altri - da due degli autori dell’opera, Didier Cariou e Antonio Brusa.

  • Modelli di racconto storico: dalla ricerca alla didattica. Dal medioevo (e non solo).

    di Antonio Brusa

    Con Amedeo Feniello la prima sessione del seminario sulla narrazione storica si è concentrata sulle modalità e i temi del racconto storico: come raccontano la storia i ragazzi, e come la racconta lo storico? 

    Feniello FacebookFig.1: Amedeo Feniello, foto FacebookI ragazzi raccontano

    I loro racconti sono a disposizione di tutti. Basta cliccare sul sito Narrazionidiconfine.it e si potranno scaricare i quattro volumetti che raccolgono i racconti che gli allievi di secondaria hanno presentato al concorso “Che storia”, organizzato da Amedeo Feniello e Pietro Petteruti Pellegrino, giunto quest’anno alla quinta edizione. Sono centinaia di racconti che permettono di capire fondamentalmente due cose:

    1. Quali sono i periodi storici e gli argomenti che gli allievi prediligono.
    2. Quali sono le modalità preferite quando scrivono un racconto storico

    Fra i temi, la parte del leone la fa la storia contemporanea. Quella relativa alla seconda guerra e alla Resistenza, ma soprattutto il periodo “dei padri”, dal Sessantotto in poi. C’è stata una “fiammata medievale”, alimentata in particolare dal fantasy, che va lentamente spegnendosi (si vedrà quest’anno coi prossimi racconti). Fra i personaggi, prima per distacco è la strega. Amata soprattutto dalle ragazze e interpretata con un’ottica latamente femminista. Altri periodi storici sembrano sollecitare poco gli estri narrativi dei nostri allievi. Molto gettonata è la storia locale: racconto di una leggenda, un personaggio, un fatto (vero o di fantasia) avvenuto nel proprio ambiente.
    Interessanti anche le modalità del racconto. Le elenco

    1. Empatia. L’allievo finge di essere il protagonista e racconta in prima persona
    2. Lo scenario. L’avventura potrebbe svolgersi ovunque. La cura dei narratori è nella ricostruzione del contesto. Non è infrequente l’ “effetto Don Brown”: improvvisamente, da un angolo spunta un personaggio notissimo, che si scopre aver qualcosa a che fare con la vicenda.
    3. Impegnativo è il modello “docufiction”, un’avventura del tutto inventata, ma rigorosamente provata da una o più fonti
    4. L’oggetto. Si parte da un oggetto storico e attorno a questo si costruisce il racconto
    5. Ieri/oggi. La narrazione si sposta in continuazione fra ieri e oggi (es: Napoli durante le quattro giornate; Napoli oggi)
    6. L’epistolario inventato. Un fatto (di primaria importanza o anche marginale e non raccontato nei manuali) viene ricostruito attraverso la corrispondenza di due suoi protagonisti
    7. Il giallo. Incontra crescente interesse l’ambientazione di un giallo nel passato
    Inoltre, ogni racconto è corredato da una scheda degli insegnanti che ne hanno seguito la produzione, che descrivono metodi di lavoro, fonti usate. I racconti sono sempre collettivi.

    Lo storico racconta

    Amedeo Feniello ci permette di esaminare tre modalità di racconto, a partire da tre suoi lavori.

    Sotto il segno del leoneFig.2: Sotto il segno del leone FonteIl primo è Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana (Laterza 2011). È la storia del tumultuoso e contraddittorio rapporto fra i musulmani arrembanti nel Mediterraneo e la nostra penisola. Si apre con l’assedio di Siracusa dell’878. Un lunghissimo e feroce assedio, che si conclude con la riduzione in schiavitù di gran parte dei siracusani, che vengono fatti sfilare, come prede di guerra, nella nuova capitale musulmana, Palermo. Si chiude con la triste vicenda di Lucera. Quando riuscì a domare le rivolte musulmane in Sicilia, Federico II deportò la popolazione superstite a Lucera. Lontano dalla loro patria, i musulmani fondarono qui una colonia che, col tempo, diventò fedelissima del sovrano svevo. La musica cambiò con gli angioini: bigotti (e diciamolo), non tolleravano questa enclave di infedeli. Che, quindi, alla fine del 1200 furono fatti prigionieri e venduti come schiavi.

    Il testo di Feniello funziona, narrativamente, per contrasti. Si apre con i musulmani vincitori e si chiude con gli stessi che diventano vittime.

     

    LacrimeFig.3: Dalle lacrime di Sybille FonteIl secondo testo è Dalle lacrime di Sybille. Storia degli uomini che inventarono la banca (Laterza 2015). Il tema è uno dei meno amati nella scuola italiana. La storia economica. Figuriamoci le complesse vicende che portarono, nella Toscana del XIV secolo, alla formazione delle prime banche e, con queste, alla nascita dei primi germi del capitalismo. L’espediente letterario adottato da Feniello è quello di rivivere questa vicenda astratta attraverso la figura di una donna, Sybille, una signora provenzale alla quale le banche fiorentine rubano l’intero patrimonio. La donna non si scoraggia e porta gli interlocutori (fra questi ci sono i fratelli Villani, che evidentemente non erano solo interessati a scrivere cronache) di fronte al giudice. Non ce la fa. Il nuovo potere è inarrestabile, caratterizzato dalla ferrea logica del denaro, privo di qualsiasi pudore: pensate che per vincere, quei banchieri cercarono di dimostrare che la ricorrente, Sybille, semplicemente non esisteva.

     

     

     

    DemoniFig.4: Demoni, venti e draghi FonteIl terzo è Demoni, venti e draghi. Come gli uomini hanno imparato a vincere catastrofi e cataclismi (Laterza 2021). Qui lo storico non racconta più personaggi o singoli eventi. Ora scrive la storia di tre macroaree geografiche - il Mediterraneo (il mondo dei demoni); l’Oceano Indiano (il mondo dei venti); la Cina (il mondo dei draghi) – alle prese con la tempesta perfetta. La crisi del XIV secolo. Una catastrofe nella quale si intrecciarono la crisi ambientale (la miniglaciazione), la crisi economica (il fallimento delle banche), e la peste (si prega di fare gli scongiuri per ogni analogia). Come gli uomini reagiscono? Qui, il motore della narrazione non è la differenza religiosa o l’odio etnico o la brama dei guadagni. Il motore è totalmente astratto: il paesaggio adattativo. L’uomo modifica totalmente il proprio rapporto con la natura, il proprio assetto sociale. E così facendo, supera la prova.

     

     

     

    La didattica del racconto

    Come utilizzare questi lavori in classe? Il livello base è a disposizione di tutti. Si legge il libro, se ne ricava uno spunto narrativo, lo si racconta in classe. Su questa ossatura didattica si possono innestare varie attività: lettura di qualche pagina, ricerca di illustrazioni a corredo della lezione (ecc.). Il “racconto-base”, tuttavia, nasconde quello che è lo specifico del lavoro dello storico: il rapporto con le fonti. Nel libro, questo è messo in evidenza dall’apparato delle note, spesso percepito come un insopportabile appesantimento erudito. Nella didattica andrebbe messo in rilevo attraverso forme opportune di didattica partecipata. Ne elenco alcune

    a. Quando il racconto è centrato su un fatto o su un personaggio (l’assedio di Siracusa o Sybille), possiamo progettare un “miniarchivio”. Ricaviamo dal testo le fonti (i lavori di Feniello si prestano benissimo). Le adattiamo alla classe (prima media o terza superiore). Sono tutte fonti narrative. Bastano una decina di brani. Fingiamo di aver trovato il dossier in un vecchio archivio. Ne facciamo quattro copie e le distribuiamo ad altrettanti gruppi. Una breve introduzione (“siamo nel secolo IX, i musulmani attaccano la Sicilia. Abbiamo trovato delle fonti di quell’evento, ma non sappiamo di che cosa parlino con precisione”). I ragazzi devono ingegnarsi a scoprire personaggi e vicende. La storia eventografica (ché di questo si tratta) ha dalla sua il fatto che si snoda attraverso una cronologia ed ha come protagonisti dei personaggi in carne ed ossa. E questo fornisce un’ottima base per le domande da fare alle fonti. Gli allievi lavorano. L’insegnante fa un tutorato molto leggero. Non importa se sbagliano o prendono delle cantonate. Alla fine si legge quello che si è capito. Il lavoro si chiude con la lezione dell’insegnante che fornisce i termini giusti della vicenda (e magari invita a leggere il libro che non è male). Il lavoro va condotto con mano leggera. Non è una vera ricerca. Quindi non immaginate che duri chissà quante ore. Diciamo due (magari a casa scrivono il risultato del lavoro) e poi un’ora per il debriefing.
    b. Quando il racconto è di carattere astratto (la seconda parte di Sybille o Demoni, Venti e Draghi) questo modello non può essere ovviamente applicato. Suggerisco due alternative.

    B1: la lezione documentata. Preparo una lezione di sintesi del libro. Cerco nel testo di Feniello una decina di documenti che si riferiscono a punti precisi della mia sintesi (se la classe è competente anche di più). Possibilmente iconografici. Se sono scritti, che siano molto brevi. Preparo i quattro dossier. Li consegno agli allievi e concedo qualche minuto perché ne prendano visione. Poi inizio la mia lezione. Gli allievi la devono seguire con gli occhi puntati sui documenti. Infatti, quando mi fermo (o do un altro genere di segnale), gli allievi devono mostrare il documento che si riferisce a quel momento della mia lezione. Si può dare un po’ di pepe a questa attività, imbastendo una gara a squadre, con punteggi a chi primo azzecca il documento, e parallele penalità per chi sbaglia la citazione.
    B.2 Il racconto sinottico. Ricavo dal testo tre timeline relative alle tre aree geostoriche: Mediterraneo, India, Cina. Curo che siano modulari (inizio, parte centrale, esito). Gli allievi le devono inscrivere in una tabella a tre colonne, una per ogni regione. Proveranno, utilizzando i dati della cronologia, a imbastire dei racconti. Leggendo le colonne in verticale, saranno quelli che riguarderanno una sola regione per volta. Ma se si legge in orizzontale, potranno provare un racconto sinottico. Qual è l’inizio della storia nelle tre regioni? Cosa succede dopo x anni? Come va a finire? Anche in questo caso, la narrazione può essere suddivisa nei gruppi, e poi montata in plenaria. Ovviamente, alla fine, la lezione del professore darà il quadro completo della vicenda.

    Il seminario

    Logo Il seminario è organizzato da Palazzo Ducale, Genova. Si svolge online. La seconda sessione di lavoro sarà con Marina Gazzini. Vedremo i racconti falsi: quelli medievali e quelli odierni. Che farsene? Li buttiamo, insegniamo a evitarli come la peste o troviamo un modo per fare storia anche con questi?

  • Peter Seixas. Che cosa ci insegna un grande studioso di didattica della storia

    di Antonio Brusa, Antonio Prampolini

    Immagine1 Peter Seixas non è molto conosciuto in Italia. Quindi, il modo migliore per onorare la memoria di questo “gigante degli studi”, come scrivono i suoi colleghi, è ricordarne il notevole contributo alla didattica della storia, teorica e applicata, offrendo ai docenti italiani una sitografia delle sue opere liberamente scaricabili. Seixas è uno di quegli studiosi che ha alternato il lavoro di ricerca universitario con l’impegno nelle scuole del Canada, dove lavorava, sia nella produzione di materiali, sia nell’individuazione dei problemi teorici.

    Ha affrontato temi che interessano gli insegnanti di tutto il mondo. Fra questi, due mi sembrano decisivi. Il primo riguarda il canone degli studi. Un problema esploso nel secondo dopoguerra, in parallelo al processo di decolonizzazione. Che cosa si intende per “programma di storia”? quali popoli occorre studiare, come configurare il passato da proporre agli studenti? Un tema che tocca da vicino anche l’Italia (basti pensare alla legislazione sull’insegnamento storico a partire dagli anni ’90). Seixas ha sostenuto un punto di vista “post-moderno” (lui stesso lo definisce così). Non esiste un canone valido per tutti, ma ogni comunità ha il diritto di costruirsi il suo. Una posizione che va contestualizzata nel clima di politica culturale canadese, travagliato dal profondo senso di colpa nei confronti delle comunità indigene, vittime in passato del brutale tentativo di eradicare la loro identità.

    Un secondo tema interessa ancora più da vicino il docente. Seixas affronta una domanda che tutti ci facciamo: che cosa vogliamo che uno studente sappia, al termine degli studi? Che ricordi alcuni fatti del passato, o che sappia “ragionare storicamente”? Lo studioso canadese punta decisamente per la seconda opzione (che, ovviamente, implica la conoscenza di fatti del passato). La articola nei “sei grandi concetti storici”:

    Il significato storico: individuare che cosa è importante in un racconto o in una situazione
    I documenti: attraverso quali procedure si arriva alla ricostruzione del passato
    Il tempo: quale senso dare al flusso complesso di cause e di cambiamenti
    Le cause: imparare a spiegare i fatti e le loro conseguenze
    La prospettiva storica: saper collocare fatti e persone nei loro contesti passati
    La dimensione etica: capire in che modo la storia può aiutarci a vivere oggi

     

    Sitografia delle opere liberamente scaricabili.

    Peter Seixas, Conceptualizing growth in historical understanding, in David Olson & Nancy Torrance eds. Education and Human Development. Oxford, Blackwell. 1996, pp. 765-783.

    Le persone hanno una connessione con la storia del tutto indipendente dai quadri investigativi degli storici professionisti. La ricerca nell’ambito della didattica ha prestato una notevole attenzione ai problemi dello sviluppo della comprensione per le materie scientifiche. Per la storia, invece, sono pochi i lavori comparabili. David Lowenthal definisce "sbalorditivo" che ci sia stata così poca ricerca su come le persone in generale vedono, valutano o comprendono il passato. All'interno della comunità della ricerca educativa, Downey e Levstik hanno notato nel 1991 «una preoccupante mancanza di attenzione a ciò che i bambini sanno e a come sono arrivati a imparare ciò che sanno [sulla storia]». Perché è così? Seixas indaga le ragioni di questo ritardo della didattica applicata alla storia.

    ID., A model of historical thinking, in «Educational Philosophy and Theory», Vol. 49, n. 6, 2017, pp. 1-13.

    Il "pensare storicamente" (historical thinking) ha un ruolo centrale nella teoria e nella pratica dell'insegnamento della storia. Per Seixas, gli insegnanti dovrebbero lavorare con un modello di “pensiero storico”. Dove guardano, e dove dovrebbero guardare, per costruire tale modello? Negli ultimi decenni si sono sviluppati tre filoni principali: uno basato sul British Schools Council History Project, orientato empiricamente all'istruzione; un secondo che si ispira al campo tedesco della didattica e della coscienza storica, più filosoficamente orientato; un terzo che fa riferimento alle esperienze didattiche degli Stati Uniti. Tutti e tre con profonde radici nella storiografia e nella filosofia delle proprie tradizioni nazionali. Gli insegnanti di storia canadesi hanno lavorato con un ibrido pragmatico. Sebbene questo modello sia stato molto influente nella riforma dei programmi di studio della storia canadese, c'è stata solo una discussione teorica minima sull'esplorazione della relazione di questo modello con le tre tradizioni che hanno contribuito a plasmarlo. Questo articolo vuole essere un contributo per colmare tale lacuna.

    ID., Benchmarks of historical thinking: A framework for assessment in Canada, in «The Center for the Study of Historical Consciousness», vol.16, 18/08/2006, pp. 1-12.

    Cosa dovrebbero sapere ed essere in grado di fare gli studenti quando hanno finito i loro anni di storia scolastica? Sicuramente l'accumulo di fatti da ricordare non è una risposta adeguata alla domanda. Il "pensare storicamente" (historical thinking) è ricorrente in molti documenti curriculari, i quali però non sono molto utili per spiegarne il significato a insegnanti e studenti. Se non "più fatti", allora qual è la base per un curriculum di storia che si estende per diversi anni di scolarizzazione? Con questo articolo Peter Seixas vuole dare un contributo ad una corretta interpretazione di cosa sia il “pensare storicamente”.

     ID., Student Teachers Thinking Historically, in «Theory and Research in Social Education», vol.26, n.3, 1998, pp. 310-341.

    L’uso delle fonti primarie in classe è fondamentale per l’insegnamento della storia. Eppure, non ci sono studi sull'apprendimento da parte dei docenti di come utilizzare al meglio tali fonti. Con questo studio esplorativo Seixas vuole indagare le difficoltà che i docenti incontrano nell’insegnare agli studenti come leggere le fonti primarie in modo critico e costruttivo.

    ID., Beyond Content and Pedagogy: In Search of a Way to Talk About History Education, in «Journal of Curriculum Studies», vol.31, n.3, 1999, pp. 317-337.

    Una delle forme meno esaminate di collaborazione scuola/università è quella che riunisce studiosi di una determinata disciplina e docenti della corrispondente materia scolastica. Il documento esamina quattro siti di istituti estivi del California History Social Science Project, concentrandosi sul linguaggio utilizzato da storici e insegnanti per descrivere i loro ruoli e contributi.

    Peter Seixas e Penney Clark, Murals as Monuments: Students’ Ideas about Depictions of Civilization in British Columbia, in «American Journal of Education», 110 (2/2004), Chicago, University of Chicago Press, 2004, pp. 146-171.

    In tutto il mondo le persone si confrontano con monumenti o altri artefatti che celebrano origini storiche, movimenti, eroi e trionfi non più visti come degni di celebrazione. Essi diventano particolarmente interessanti nel momento in cui suscitano dibattito, vale a dire, quando le persone s’interrogano su cosa si può fare con queste memorie del passato. Le proteste per una serie di murales raffiguranti le origini della civiltà nella Columbia britannica vengono analizzate dagli autori di questo articolo attraverso un campione di 53 saggi scritti da studenti delle scuole superiori per rispondere al dilemma di cosa fare dei murales.

    Peter Seixas e Carla Peck, Teaching Historical Thinking (a cura di), Challenges and Prospects for Canadian Social Studies, Vancouver, Pacific Educational Press, 2004, pp. 109-117.

    Seixas e Peck iniziano questo articolo sottolineando la differenza tra la storia raccontata nei film e quella che dovrebbe essere insegnata in classe. In particolare, gli autori sostengono che mentre i film “travolgono gli studenti" con le loro narrazioni del passato, l'apprendimento della storia in classe dovrebbe, invece, mirare a insegnare agli studenti ad avvicinarsi alla storia in modo critico, per non esserne “travolti". Gli studenti dovrebbero porsi le giuste domande per costruire le proprie narrazioni storiche, evitando l'apprendimento meccanico e gli esercizi di memorizzazione.

     Peter Seixas e Carla Peck, Benchmarks of historical thinking: First steps, in «Canadian Journal of Education», vol. 31, n. 4, 2008, pp. 1015-1038.

    In questo articolo, gli autori esaminano le prime fasi di un progetto pluriennale, esteso all’intero Canada, per riformare l'insegnamento della storia nelle scuole. Lo studio si basa su: osservazioni dei partecipanti al progetto, documenti, interviste e questionari. Gli autori hanno riscontrato nella realizzazione del progetto di riforma diversi impedimenti (superabili) nell'applicazione da parte degli insegnanti di concetti potenzialmente difficili.

    Peter Seixas e Tom Morton, The Big Six Historical Thinking Concepts, Nelson College Indigenous, 2012.

    Quando uno storico decide di studiare il passato deve affrontare diversi problemi. Peter Seixas e Tom Morton ne elencano sei: individuare che cosa è importante (significato storico); come conoscere il passato (prove); come dare un senso al flusso complesso della storia (continuità e cambiamento); perché si verificano gli eventi e quali sono le loro conseguenze (cause ed effetti); come comprendere meglio le persone che appartengono al passato (prospettive storiche) e come la storia può aiutarci a vivere nel presente (dimensione etica). Questi problemi, e i concetti che ne conseguono, non possono tuttavia essere compresi isolatamente, ma devono essere visti nel loro insieme quando si insegna la storia.

    Kadriye Ercikan e Peter Seixas, New directions in assessing historical thinking, (a cura di), con saggi di autori vari, tra cui: Carlos Kölbl and Lisa Konrad, Gabriel A. Reich, Abby Reisman, Denis Shemilt, Bruce VanSledright, e con una introduzione dei curatori, The New Shape of History Assessments, Routledge, New York, 2015.

    Il riconoscimento nella sfera pubblica del potente ruolo della memoria collettiva, la consapevolezza dei rapidi cambiamenti demografici, l'ubiquità dei conflitti, la commemorazione dell'ingiustizia storica producono nuove opportunità e nuove esigenze nell’insegnamento della storia nelle scuole. Il loro impatto è amplificato nei programmi scolastici nella misura in cui ricercatori e insegnanti prestano attenzione, sia come questione di equità che come questione pedagogica, alle convinzioni, idee e capacità con cui gli studenti arrivano al primo giorno di scuola.
    In questo volume, Kadriye Ercikan e Peter Seixas hanno riunito una schiera di esperti internazionali che, collettivamente, hanno contribuito al progresso della didattica della storia.

    La biografia di Peter Seixas: https://edcp.educ.ubc.ca/faculty-staff/peter-seixas/

  • Piramidi molto imperfette

    Autore: Antonio Brusa
    I manuali di storia dei licei

    Introduzione
    L’Indice dei libri del mese di aprile pubblica l’inserto sulla scuola, il ventiseesimo della sua lunga vita. Questa volta è dedicato ai manuali di storia. Vi potete leggere una lunga intervista a Roberto Gulli, ora direttore di Pearson Italia (è stato a lungo alla guida della Bruno Mondadori), un’indagine su come i manuali trattano il tema della Shoàh e un intervento di Rachele Pasquali su di un fenomeno di attualità, i libri “fai da te”. In mezzo anche un mio studio, sui manuali di storia del liceo, che l’Indice mi permette di ripubblicare qui. Ne presento, dunque, una versione più ampia (la rivista di carta ha leggi diverse dal digitale, ed è giusto approfittarne), ma cerco di dare conto del dibattito, così come emerge anche dagli altri interventi.

    Studio i manuali da più di trent’anni (e ne scrivo da una quindicina). Ho sempre sostenuto che i manuali sono un oggetto di estrema complessità, che non è lecito banalizzare nella facile opposizione “manuale sì-manuale no”, o in quella più recente che oppone la comunicazione cartacea a quella digitale. Questa complessità è per così dire strutturale, cioè coinvolge nella sua fabbricazione una notevole quantità di figure intellettuali; ma è anche funzionale, perché coinvolge nell’uso molti soggetti sociali (dall’editoria, all’università, alla scuola, con i professori e gli studenti). Questo “dispositivo” ha sedimentato dentro di sé l’intera storia dell’istituzione, da quasi due secoli. Qualsiasi scelta che facciamo a suo riguardo è difficile e problematica. Abbandonarlo? Ma per che cosa, con quali vantaggi o quali nuovi pericoli? Usarlo ancora? Ma in che modo, e – soprattutto – come modificarlo e adeguarlo ai nostri tempi?

    In entrambi i casi, i futuri sono talmente incerti, che occorrerebbe muoversi con attenzione, avendo alle spalle seri studi, e non le velleità di ministri che si succedono a ritmo sostenuto o le pensate estemporanee di questo giornalista o di quel dipartimento scolastico di storia.

     
    Le piramidi di Amenemhat e di Snefru (medio regno), fotografate nel 1858


    1.    Quali sono i manuali più adottati nei licei
    La classifica dei manuali più adottati nei licei si apre con iltesto di Antonio Brancati e Trebi Pagliarani,Dialogo con la storia e l’attualità, della Nuova Italia. Paragonabile per longevità al solo Manaresi (il testo che transitò quasi indenne dal Fascismo alla Repubblica), questo libro ha percorso l’ultimo mezzo secolo, riuscendo molte volte a primeggiare nei favori dei docenti. Unisce un solido impianto narrativo all’attenzione per gli umori didattici diffusi: le fonti, il rapporto con il presente, la geostoria, i personaggi, i problemi, i concetti chiave, costituiscono le rubriche fisse che intervallano il racconto.

    Secondo è Valerio Castronovo,MilleDuemila. Un mondo al plurale, della stessa casa editrice. E’ un libro dall’impianto diverso, nel quale il testo scorre senza interruzioni, e le sole parti aggiuntive sono quelle rigorosamente contemplate dall’accademia: le fonti e la storiografia. 

    Segue il manuale di Francesco Maria Feltri, Maria Manuela Bertazzini e Franca Neri, La torre e il pedone, della Sei, centrato su un racconto “anche dalla parte dei perdenti”.

    Gianni Gentile, Luigi Ronga e Anna Rossi sono gli autori dellaquarta opera in classifica,Millennium. Storia e geostoria del mondo, della Scuola, caratterizzata da un testo sintetico, a volte ai limiti dello schema, spesso intervallato da approfondimenti e bilanciato da un corposo apparato di rubriche, documenti e discussioni.

    Chiudono il quintetto Vittoria Calvani e Michela Volante, Spazio Storia, Arnoldo Mondadori Scuola  che si segnala per la scrittura continua e molto scorrevole, interrotta di tanto in tanto da brevi riprese di fonti, con una questione storica affrontata alla fine di ogni capitolo (in seguito citerò i manuali col nome del primo autore).

    2.    Un po’ di conti, per capire “perché” i manuali di storia vengono adottati
    Messi insieme, questi cinque libri prendono intorno al 20% del mercato. Un tempo questa sarebbe stata la cifra del solo leader. Oggi, il primo ottiene circa il 7%; il quinto poco più del 2%. La conclusione ovvia è che la stragrande maggioranza degli insegnanti odierni appare incerta, divisa com’è fra decine di testi la stragrande maggioranza dei quali non supera il 2%.
    Questa situazione è specifica della storia. Se prendiamo in considerazione, infatti, il mercato dell’altro grande libro umanistico, la letteratura italiana, vediamo che esso fa perno intorno a due modelli (il Baldi della Paravia e il Luperini della Palumbo). Ma più chiaro ancora – dal momento che l’insegnante è il medesimo - è il confronto con la filosofia, nella quale un autore, il Fornero-Abbagnano della Paravia, prende con le sue diverse versioni oltre il 45% del mercato. Il ricercatore, abituato a considerare il proprio come specchio del mondo, sarebbe propenso ad attribuire questa frammentazione alle “incertezze della storiografia” e alle “storie non condivise”,  malattie intorno alle quali ama dilettarsi da almeno quarant’anni.

    La realtà sembra essere un’altra. Posto che tutti i manuali che qui analizzo si innervano in quella che solitamente si chiama “storia tradizionale” (come vedremo), le variazioni riguardano fondamentalmente la loro configurazione didattica, quel costrutto di testo e paratesto che sfugge, in genere, al controllo dell’autore/storico: iconografia, strumentazione didattica, come cronogrammi, schemi e prove di verifica, rubriche, per non parlare dei materiali online. I manuali cercano di catturare gli “stili di insegnamento”, più che l’idea di storia dei docenti. Il leader vero odierno, quindi, non è più un autore, ma una casa editrice, la Bruno Mondadori, che con una discreta schiera di manuali rastrella il 23% del mercato. Ho contato dal suo catalogo (ma non sono affatto sicuro di essermi sbrogliato adeguatamente fra edizioni rosse, verdi e blu, online e cartacee) ben 28 corsi per il triennio.

    3.    Lo “stile di insegnamento”
    La diversità degli stili si coglie nei due manuali della Nuova Italia. Il Brancati deve il suo intramontabile successo al fatto che centra quello che potremmo definire l’idealtipo del rapporto fra insegnante e allievo: uno assegna, l’altro studia. E’ una macchina oliata nel corso degli anni. Il docente riconosce con chiarezza l’argomento da spiegare. Lui e l’allievo non devono perdere tempo a cercare la Lotta delle investiture o il Sacco di Roma. Quando il docente vuole, fanno una sosta su questa o quella rubrica – tutte molto rapide -  che l’autore ha predisposto lungo la sua narrazione. Altrimenti, salta. Ed è l’unico sforzo che gli si chiede, in un percorso che prevede una sola direzione, dal principio del libro verso gli indici finali.

    L’altro, il manuale di Castronovo, si rivolge a un docente che, al contrario, non ama interruzioni. Anche in questo caso, la direzione di lettura è sempre in avanti. Quindi, il docente spiega il capitolo, e quando ritiene importante fermarsi a discutere, lo può fare distesamente alla fine della trattazione, con documenti lunghi e brani storiografici impegnativi (i brani e i documenti di Brancati, invece, sono al confronto assai brevi).

    4.    La storia fuori dalla storia
    Ciò che distingue un testo dall’altro, dunque, è il paratesto, o meglio ancora, il rapporto fra testo e paratesto. Si va da un massimo, il libro di Gentile, nel quale l’uno e l’altro grosso modo si pareggiano, a un minimo, quello di Calvani, con pochissime interruzioni di una narrazione che incorpora fatti, problemi, aneddoti, curiosità e discussioni. Fanno gioco le quantità. Calcolando quelle fino alla Crisi del Trecento (cioè tutto il Basso Medioevo), si va dal centinaio di pagine dedicate da Feltri alle oltre 300 di Calvani (gli altri tre manuali si attestano intorno alle duecento). Una differenza così evidente, che non può non avere esiti sull’immagine stessa del periodo.

    Diventa fondamentale un requisito “materiale” di questo libro: il suo peso. Ricorderete la polemica di qualche anno fa, e le direttive ministeriali e giuridiche che la accompagnarono (ci fu un pretore che stabilì che il loro peso complessivo non doveva superare un terzo del peso del loro sfortunato portatore). Questa polemica, unita a quella sul costo dei manuali ha inciso sulla foliazione, e conseguentemente sull’opera di sfrondamento dei testi. L’abbattimento dei volumi-impressionante per le medie-per quanto riguarda i licei è contenuto ma sensibile: si passa, ad esempio, dalle oltre ottocento pagine del medioevo di Guarracino (edizione 1992) alle quasi seicento di quello dell’ultima edizione del Brancati (si tenga conto che, a causa del cambiamento dei programmi, il primo racconta la storia di dieci secoli, il secondo quella di sei, dall’XI a metà XVII secolo, ma ha un paratesto più corposo).

    Questo vincolo ha potenti ricadute didattiche: cosa è stato sfrondato? La risposta è chiara fin dalla prima sfogliata: tutto ciò che non sembra appartenere alla storia tradizionale. La “nuova storia” si alloggia nei siti appositi, che ogni editore ha avuto cura di allestire in questi ultimi anni. Nei manuali, nelle letture soprattutto, se ne possono trovare i brandelli. Ci dimostrano che, anche di questa, si è formata una paradossale idea di tradizionalità, dal momento che vengono ancora privilegiati vecchi brani di Bloch, Braudel, Le Goff. Insomma, come negli anni ’70 (evidentemente immortali), la “nuova storia” resta sempre quella francese, e – mentre la ricerca ha ormai consegnato al passato la battaglia fra storia degli eventi e storia delle strutture –  la manualistica, tradizionale perfino in questo, la considera ancora segno di innovazione. La storiografia, con i suoi tumultuosi sviluppi degli ultimi trent’anni, circola molto lontano.

    5.    Manuali di carta e digitale
    Nei tempi più recenti, per contro, questo processo di semplificazione, si è accelerato a causa delle leggi sul digitale, che prevedono il trasferimento in rete di una parte dei materiali cartacei (in futuro dovrebbe essere totale, secondo un’agenda ministeriale alquanto complicata da capire e da realizzare).

    I siti diventano complessi e vasti depositi di materiale eterogeneo: parti di manuale tagliate, iconografia, film, documentari, contributi storiografici e divulgativi, rimandi ad altri siti, oltre ai materiali prettamente didattici, come percorsi strutturati, strumenti interattivi e così via e oltre, naturalmente, al “manuale in pdf”. Se si potesse quantificare “il circolante storico didattico” attuale, certamente quello digitalizzato supererebbe di gran lunga quello cartaceo. Infatti, per quanto il mercato digitale registri una contrazione (evidente conseguenza dell’incertezza delle leggi e dell’inadeguatezza strumentale, di materiali e di formazione professionale), pur tuttavia sono già 15 milioni, le pagine fruibili on line, per dar conto soltanto di quelle “adottabili”, e non del complesso dei materiali veicolati dai siti.

    Di fronte a questo fenomeno impressionante, lo studioso confessa la sua impotenza: non disponiamo di nessuna ricerca sull’argomento, né si riesce a capire in che modo, con quali forze e con quali investimenti, se ne possa realizzare una soddisfacente. Restano, dunque, inevasi alcuni dubbi: se è vero che il manuale ha uno o più autori riconoscibili e responsabili, chi risponde della correttezza scientifica e dell’efficacia didattica della storia veicolata dai materiali online?  E come valutare l’idea complessiva di storia, che si evince da questi siti? In luogo della tanto decantata trasparenza, la rete si dimostra un luogo del nascondimento, piuttosto, e dell’opacità.

    6.    Lo “spazio” nella vulgata storica
    Torniamo all’idea di storia. Conta così poco nei manuali? A differenza di quanto questa analisi veloce  potrebbe suggerire, dobbiamo pensare il contrario. L’idea di storia insegnata è talmente consolidata e diffusa – una sorta di vulgata - che nessuno osa cambiarla. Per questo motivo non è, agli occhi del complesso dei produttori di un manuale, un fattore distintivo (ed evidentemente, nemmeno agli occhi della maggior parte dei docenti). Quindi, il paradosso di questa situazione è che, se un docente di filosofia abbandona il Fornero-Abbagnano per il Reale-Antiseri, questa scelta sarà probabilmente accompagnata da una qualche crisi filosofica. Non si potrà dire la stessa cosa per un cambio di manuale storico.

    I tratti essenziali di questa vulgata emergono bene dal confronto fra queste cinque opere. Per descriverli, concentrerò l’indagine sulla parte medievale. In primo luogo, lo spazio. Non ci si lasci ingannare dai titoli, anche se richiamano il mondo o i mondi plurali. La storia raccontata in questi manuali è, senza alcun complesso, euro-centrata. Si parla solo di ciò che accade in questa parte dell’Antico Continente. Il mondo compare giusto in qualche cartina di apertura. E, fatti salvi i musulmani del tempo delle crociate, qualche accenno alle spezie esotiche, gli unici extraeuropei a godere di un trattamento privilegiato sono i mongoli. Calvani, ad esempio, dedica loro un intero capitolo. 

    Si può obiettare con un argomento tecnico: i programmi sono rigorosamente eurocentrici. Questa è una scelta politica, ben esplicitata in diverse occasioni dalle due ministre Moratti e Gelmini. Non tocca, e su questo punto non ci dovrebbero essere dubbi, il diritto dell’autore e dell’editore, e più ancora quello del docente, di coltivare della storia un’idea diversa. E, in ogni caso, anche questi programmi non impediscono, all’autore che voglia permettere ai propri lettori di situare la storia europea in un quadro più ampio, di parlare di contenuti, che il programma non considera obbligatori ma non proibisce affatto.

    Inoltre, a osservare con un po’ più di attenzione il racconto, si osserva come la definizione di “storia europea” sia alquanto impropria. Infatti, non di Europa si parla, quanto piuttosto di alcuni fatti salienti, avvenuti in quella che possiamo chiamare la “banana blu” storico-didattica: quella striscia di terra che va dalle Fiandre all’Italia centro-settentrionale. Il resto dell’Europa gode di attenzioni saltuarie. Ora la Spagna, quando si tratta di aver qualcosa da fare con i musulmani; ora gli slavi o gli ungari, giusto per dire delle invasioni o dei loro primi regni; ora dei bizantini (come sempre in decadenza), in occasione di scismi e crociate. E, per quanto riguarda il sud italiano, se non fosse per normanni, Federico II e la Sicilia (autentica Shangri-la dell’intercultura) non avrebbe nessun titolo per giocare un ruolo in questa narrazione. In pratica: la maggior parte di quella che noi consideriamo Europa è esclusa dalla trattazione dei nostri manuali.

    7.    Il tempo della vulgata storica
    Tutto questo, come ben sappiamo, è nel pieno della tradizione didattica italiana.  Le novità si trovano lungo l’asse cronologico, quello della narrazione. I testi precedenti gli anni ’80, infatti, avevano in gran parte una struttura elementare. Le vicende si succedevano ininterrotte. Alla fine della loro trattazione, si trovava il capitolo (o le letture) sulla “cultura” e “la vita quotidiana”. Nessuno di questi manuali segue più questo schema. Tre di essi aprono con la Rinascita dell’anno Mille. Un capitolo di storia economica quindi, a basso contenuto di eventi. Calvani inizia con un capitolo di storia delle mentalità e Feltri con uno sul potere, che gli permette di raccontare le vicende da Carlo Magno a Enrico IV. Entrambi, però, fanno seguire immediatamente la trattazione economica del “risveglio dell’XI secolo”. Con qualche differenza di ordine, poi, tutti affrontano il tema dei commerci e degli scambi, e in questa occasione parlano delle famose Repubbliche Marinare, mentre il racconto più propriamente tradizionale riaffiora nei capitoli variamente dedicati ai Comuni, o all’Impero e alle Monarchie. Lo schema di Gentile è mirabile nella sua semplicità: in principio c’è l’Europa feudale, poi la rinascita, segue il conflitto fra cristiani e musulmani e si chiude con la questione della Chiesa e dell’Impero. Questa organizzazione della materia mostra una sorta di compromesso fra i temi didattici “à la française” e la tradizione italiana più antica. Un patto elaborato e siglato, più che nelle sedi della ricerca, nelle redazioni editoriali.

    8.    Gli stereotipi inevitabili
    L’analisi più dettagliata del racconto ci conduce alla terza caratteristica della vulgata liceale: la rigidità di alcune conoscenze. Mi servo, come elemento di confronto, del dossier sul Medioevo, coordinato da Giuseppe Sergi, con il proposito di fornire – anche agli autori di manuali - un piano narrativo “reso solido e convincente dalla forte condivisione di risultati che caratterizza, negli ultimi decenni, la medievistica professionale” (in Mundus, 5-6, 2010, pp. 92-191). Si trova, nei nostri manuali, la silloge quasi completa delle conoscenze da rivedere: dalla piramide feudale con vassalli, valvassori e valvassini, all’autarchia della curtis e l’immancabile baratto, all’alto medioevo tutto di feudatari e ai servi della gleba. Vi trovano poi, perfetto riscontro le parole con le quali  Giuliano Milani stigmatizza la vulgata corrente del basso medioevo: “il Comune getta le basi di una nuova società che, attraverso le fasi politiche della signoria e del principato, porta allo stato moderno (Mundus, p. 113).
    A volte, gli autori lasciano trasparire un conflitto cognitivo. Ecco Gentile: “sarebbe sbagliato pensare che questi legami dessero luogo a una rigida gerarchia o a una piramide feudale, come si era soliti dire in passato. In realtà si trattava di una piramide molto imperfetta” (p. 21). Altre volte sembra che il radicamento della convinzione sia così tenace, da non permettere all’autore di trarre ovvie conclusioni dai materiali che lui stesso offre. Feltri riporta un bel grafico, che mostra come la crescita della popolazione europea inizi a partire dal 650. Nonostante l’evidenza, ripete nel testo il mantra: “la popolazione prende a crescere dopo il Mille” (p. 6). Calvani racconta con precisione del peggioramento delle condizioni di vita nelle campagne, dopo quella data, ma cita fra le cause della Rinascita dell’XI secolo (un must insostituibile), il cambiamento di status dei contadini e il fatto che sarebbero diventati liberi proprietari (p. 24). 

    Altre volte, è il caso di Castronovo, l’autore sembra non ricordare di aver curato la pubblicazione di un articolo drastico - sempre di Giuseppe Sergi - sul medioevo manualistico e sulla sua indistruttibile vulgata (Prometeo, settembre 1993), e parla di “spartiacque del Mille”, descrive vassalli, valvassori, servi della gleba, sistemi feudali; dice che la curtis è un sistema chiuso caratterizzato dall’autoconsumo, non mancano i vescovi conti e la “via francigena che è una delle principali vie del commercio europeo” e fra le letture pone l’aggiornatissimo passo nel quale Pirenne parlava, quasi ottant’anni fa, di borghi e wik.

    9.    Qualche “si dovrebbe”, per finire
    Mi arresto qui, con una avvertenza: non si tratta di conoscenze erronee limitate al Medioevo. Su questo stesso numero dell’Indice, Francesca Costantini mostra questa inarrestabile voglia di conformismo anche per quanto riguarda la trattazione della Shoàh, e per restare alla storia contemporanea, Luigi Cajani ha pubblicato suItalia Contemporanea un’indagine a tappeto sul modo con il quale i manuali odierni raccontano le foibe, con la diffusissima reticenza sui crimini italiani nei Balcani (e non, come vuole il dibattito didattico pubblico, su quelli a danno degli italiani).

    E non vorrei che venissero considerate “bufale”.  Sono conoscenze spesso di buona famiglia, elaborate dalla storiografia di un tempo, o semplicemente in ambienti colti, e cristallizzatesi nella cultura dotta. Ho provato a definirle “stereotipi colti”. Sono spie del malfunzionamento di una macchina che parte dalle università, dalla loro offerta formativa e dalla marginalità della ricerca storico-didattica, chiama in causa la distruzione, negli ultimi venti anni, di qualsiasi cenno di formazione in servizio, trova sponde solidissime nella cultura diffusa, che è pronta a stracciarsi le vesti ad ogni attentato alla buona, vecchia e rassicurante storia tradizionale.

    Credo che questa situazione sia così complessa (non voglio usare la parola grave) che ci fa riflettere sia sulla ferma difesa che Roberto Gulli fa delle case editrici – garanti secondo lui della validità scientifica dei manuali –; sia dell’entusiasmo con il quale Rachele Pasquali esalta i manuali “fai da te”, che per ciò stesso dovrebbero essere – secondo lei – liberi da ogni stereotipo e da ogni conformismo didattico. Dovrebbe far riflettere i colleghi storici, a cui spetterebbe il compito di avviare una seria discussione sull’aggiornamento delle conoscenze storiografiche (evitando di mettere mani in cose che non conoscono, come la didattica, le famiglie, i programmi). Dovrebbe, invece, far capire all’accademia l’importanza di una seria ricerca storico-didattica. Credo, ancora, che dovrebbe invogliare i docenti a osservare con un occhio un po’ più critico i loro manuali (e le proprie conoscenze storiche, soprattutto se datate).

    Dovrebbe suonare come un campanello di allarme per il ministero. A che serve parlare di digitale, di liceo a quattro/cinque anni, se poi la cultura che vi si veicola è così distante da quella che caratterizza il dibattito storico mondiale?

     

     

  • Popshoah?

    La memoria dello sterminio e il suo uso pubblico


    Ormai è un appuntamento stabile, quello che vede centinaia di docenti riunirsi a Bari a studiare e discutere dei problemi didattici e divulgativi, relativi allo sterminio degli ebrei europei. La barra costante di questi seminari annuali è stata quella di spostare l'attenzione della scuola dalla commemorazione allo studio. Abbiamo, in passato, affrontato diversi temi: la violenza, le immagini, i laboratori, i luoghi di memoria pugliesi. Abbiamo, anche, potuto ascoltare studiosi capaci di far capire i problemi attraverso percorsi di studio emozionanti. Non dimentichiamo le lezioni di Fréderic Rousseau, che ci ha spiegato come la foto del bambino di Varsavia da documento storico si è trasformata in icona destoricizzata; o di Alberto Salza, col suo viaggio nell'inferno dello sterminio; o di Pino Bruno, che ha offerto ai docenti la sua esperienza di inviato in alcune delle guerre più atroci nella nostra contemporaneità.

    Quest'anno si parla di "popshoah". Non è un titolo provocatorio. Si tratta di sviscerare una questione che tutti sentono importante, quando si parla oggi di quegli eventi, ma che non molti hanno il coraggio di affrontare. Auschwitz fu liberata settant'anni fa. Un tempo lunghissimo, data la velocità di trasformazione del nostro mondo, durante il quale quelle immagini si sono trasformate, hanno preso nuovi significati, circolano in ambiti sempre più lontani da quelli originari, e vengono usate per mille scopi diversi. Auschwitz, nel nostro immaginario, è qualcosa di molto diverso da ciò che fu nelle sue origini, da come fu pensata e raccontata a partire dagli anni '60 del secolo scorso.

    Ogni volta che parliamo di Shoah, dunque, non facciamo solo i conti con un passato atroce. Ce la dobbiamo vedere con le sue immagini, prodotte e fatte circolare dalle decine di "presenti" che si frappongono tra noi e la fine della Seconda guerra mondiale.

    E' quello che faremo a Bari: grazie ai tanti studiosi che hanno accettato di venire, alla passione e alla bravura di Romana Recchia Luciani e alla dedizione dei ragazzi del Centro Normanno Svevo, senza dei quali questo appuntamento non si potrebbe, semplicemente, realizzare.

  • PopShoah? Immaginari e pratiche di memoria pubblica intorno al genocidio ebraico

    Autore: Claudio Monopoli

     

    Varcata la soglia del settantesimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, dieci anni dopo l’istituzione della Giornata mondiale della memoria, diventa un interrogativo imprescindibile chiedersi come insegnare la Shoah, fuori dalla retorica della celebrazione, immersi come siamo nel nuovo universo immaginario del XXI secolo. E’ l’universo dei nati dopo il 2000, pieno di immagini nuove, e in numero infinitamente superiore, di quelle che lo studente degli anni '90 poteva trovarsi ad osservare. L’origine di questo cambiamento sta nel fatto che quell’evento è divenuto oggetto di una possente industria culturale, fatta di libri, film, fiction, social media. Oggi, la Shoah è anche un insieme di immagini e concetti appartenenti alla cultura pop.

    Una ragazza si fa fotografare presso il Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa di Berlino (da un social)

     

    Come insegnare, dunque, la Shoah in questa nuova situazione? Rispondere a questo interrogativo è stato l’obiettivo della quarta edizione del Corso di Storia e Didattica della Shoah dell’Università degli Studi di Bari. “Popshoah? Immaginari e pratiche collettive intorno all’uso pubblico della memoria dello sterminio degli ebrei d’Europa” è il titolo del convegno, organizzato da Francesca Romana Recchia Luciani e Claudio Vercelli, (16 e 17 ottobre 2015), rivolto a docenti e studenti universitari.

    Il suo primo obiettivo è stato quello di delineare le modalità attraverso le quali la Shoah diventa un oggetto culturale di massa. Se prima a questo termine si associavano atmosfere di indicibilità, ora l’evento storico, proprio a causa della sua forte mediatizzazione, è diventato una metafora narrativa o, ancor di più, una semplice ambientazione per trame di libri o film. L’analisi della produzione cinematografica, proposta da Claudio Gaetani, rivela che è addirittura possibile parlare dei format “Holocaust film”, un genere le cui formule narrative sono usate anche in rappresentazioni di altro tipo, come quelle fumettistiche. Come osservato da Recchia Luciani, questa utilizzazione dell’evento storico provoca una perdita del senso del dramma stesso e crea un fertile terreno per la costruzione di ideologie revisioniste o negazioniste.

     La bambina dal cappottino rosso del film Schindler's List.

    Proiezione a cura della Comunità ebraica di Roma presso Largo 16 ottobre, 7 aprile 2013 (inizio del Yom Ha Shoah)

     

    Per un insegnamento rivolto agli studenti di oggi, cronologicamente lontani da quegli eventi, sarebbe necessaria una rappresentazione non spettacolarizzata, attraverso la quale recuperare il senso del dramma reale. Invece, la produzione filmica americana sembra orientarsi in direzione opposta. Ad esempio, l’immagine della bambina dal cappottino rosso, di Schindler’s List (ne ha parlato Damiano Garofalo), diventa un simbolo, soggetto a riprese e citazioni sul web e nelle fiction televisive, ormai privato di ogni collegamento alla tematica della Shoah. Non solo. Tale processo è stato ripetuto ed applicato anche alla figura di Anne Frank, il cui celeberrimo diario viene spesso utilizzato come testo scolastico sul tema. Oltre alla trasformazione in un “quasi-giallo” della famiglia Frank, testimoniata dalle recensioni al sito web della Casa di Anne Frank, le produzioni americane di Broadway e l’adattamento cinematografico di George Stevens, forniscono, secondo Fiorenza Loiacono, una prospettiva edulcorata della storia di Anne Frank, in cui la Shoah diviene sfondo marginale di una storia squisitamente adolescenziale, arricchita da ideologie individualistiche. Un processo di edulcorazione che si esaspera nella “carinizzazione” della figura della povera ragazza ebrea, operata dai manga giapponesi.

    "Carinizzazione" della figura di Anna Frank attraverso il manga giapponese di Megumi Sugihara e Naoko Takase

     

    Se, di fronte ad un tale panorama culturale, la costruzione negli studenti della memoria storica appare necessaria, tuttavia essa non può essere immaginata come un risultato da conseguire tramite il “rito” della celebrazione. La forma della ritualità e della consuetudine, spiega Cristiano Bellei, pone fine alle domande e moltiplica, in realtà, le banalizzazioni sul tema; così, ad esempio, per uno studente l’ “ebreo” può divenire sinonimo di “perseguitato”, al di fuori di ogni comprensione ed interrogativo circa le reali origini della persecuzione stessa.

    E’ necessario trovare e percorrere quella che Natascia Mattucci definisce la stretta strada che intercorre fra banalizzazione e sacralizzazione, per ricostruire una percezione lontana sia dai miti di indicibilità sia dalle spettacolarizzazioni. E’ un obiettivo che può essere ottenuto, se seguiamo il lavoro di Raffaella Di Castro, ascoltando le testimonianze dei parenti delle vittime della Shoah: testimoni di “secondo livello”, nati fra gli anni '60 e '80, le cui storie oscillano fra una voglia di apertura pubblica delle storie familiari e la necessità di custodirle nella dimensione privata.

    Il punto fondamentale, che occorre necessariamente tener presente per l’insegnamento della Shoah, è la “presentificazione” dell’evento storico. A partire da questo fenomeno, Claudio Vercelli invita i docenti a prendere coscienza, insieme agli studenti, sia delle costruzioni politiche operate sul concetto di Shoah, che includono anche contrapposizioni puramente dialettiche fra foibe e lager, sia dell'utilizzo decontestualizzato di immagini e concetti sul tema negli ormai diffusissimi social network. Come illustrato da Antonio Brusa, il compito del docente è quello di aiutare gli studenti a formarsi una coscienza storica. Questa è il frutto della rielaborazione delle conoscenze storiche e della memoria individuale. Non è, dunque, quello di partecipare a una celebrazione o alla custodia di una memoria pubblica. L’insegnante di storia insegna a studiare quell’oggetto, ormai lontano nel tempo, sia nella sua dimensione “verticale” di momento tragico dell’antisemitismo di lunga durata; sia in quello “orizzontale”, di contestualizzazione all’interno della politica generale di sterminio dei nazisti. Tre sono le configurazioni didattiche suggerite: l’analisi della pianificazione dall’alto del processo di sterminio; lo studio “dal basso”, dei soggetti che vi parteciparono, come vittime o oppressori o bystander; la costruzione culturale che ha accompagnato e ridefinito nel tempo questo processo.

    Osservando questo tema dal punto di vista storiografico, Guri Schwarz ritiene che, oltre alla memoria letterale, ovvero quella legata al contesto e all’unicità dell’evento, esista anche la memoria di tipo esemplare, che connette il singolo oggetto storico ad una o più idee generali. Tali memorie non solo possono coesistere, ma insieme generano anche le differenti interpretazioni storiografiche del tema, come quella che legge la Shoah come punto di arrivo dell’antisemitismo nella Storia d’Europa, o quella che considera tale evento un tassello di una più ampia storia di violenza e genocidi da collegare anche al contesto coloniale.

    Oltre ad una corretta e consapevole strutturazione dell’insegnamento in classe, occorre acquisire una piena consapevolezza dei possibili strumenti didattici. Il concetto stesso di “luogo della memoria”, ha spiegato Elena Pirazzoli, si presenta molto più ampio di come spesso viene inteso ed utilizzato. Per luogo, infatti, non si intende solo un elemento geograficamente localizzato, ma si può anche indicare una qualsiasi unità significativa, anche astratta, che rappresenta un simbolo per una comunità. Ciascun luogo di memoria può essere soggetto di “invenzione”, sia nel senso di scoperta del significato o evento storico ad esso correlato, sia nel senso di una costruzione immaginativa, quando a tale luogo vengano attribuiti significati storici, come accade a molti monumenti commemorativi. Anche i “viaggi della memoria” sono uno strumento didattico, che attraverso il tempo ha modificato usi e significati. Bruno Maida racconta le diverse fasi storiche del processo che ha reso il “viaggio della memoria”, da pratica riservata ai familiari delle vittime della Shoah, a strumento didattico. L’obiettivo di tale viaggio, suggerisce lo studioso, non deve essere la costruzione di ideologie da parte dello studente, ma l’invito ad un’acquisizione di senso di cittadinanza consapevole e partecipe.

    Foto ricordo di studenti di scuola media in occasione nel "Viaggio della memoria" del 2012

     

    L’immaginario, in conclusione, costituisce un filtro e un canale, attraverso il quale la società e gli allievi di oggi si connettono col passato tragico dello sterminio. Le conoscenze che esso veicola sono potenti e di effetto. Costituiscono da una parte un formidabile strumento di attrazione; dall’altra un altrettanto formidabile pericolo di perdere capacità di interrogarsi sugli eventi e di percepirne la drammaticità. Compito della scuola è, esattamente, tener vive le domande e costruire intelligenze capaci di farlo.

  • San Sabba. Il ricordo come arte o come storia.

    Autore: Antonio Brusa


    La Risiera di san Sabba era un grande complesso industriale, per pilare e stoccare il riso importato nello scalo di Trieste. Fu costruita nel 1913, quando la città faceva parte dell’impero austroungarico. Passò quindi all’Italia, ma – trent’anni dopo – tornò ad un governo d’oltralpe, dal momento che dopo l’8 settembre la regione giuliano-dalmata venne annessa al terzo Reich. Poco dopo, nel 1944, la Risiera venne riconvertita in un campo di sterminio, dove vennero imprigionati e uccisi migliaia di partigiani e oppositori politici (si ipotizzano dalle 3 alle 5 mila vittime) e dove venivano concentrati gli ebrei della regione, per essere poi inviati ad Auschwitz. Alla fine dell’aprile del ‘45, prima di fuggire, le truppe naziste fecero saltare il forno crematorio e, quando giunsero gli alleati, quel complesso (sorte che toccò a molte strutture analoghe) continuò ad albergare uomini e donne sofferenti, questa volta profughi che provenivano dall’Istria. Fu abbandonato, cadde in rovina e, finalmente, negli anni ’70, si diede il via alla sua monumentalizzazione, realizzata su progetto dell’architetto Romano Boico, a seguito di un percorso realizzativo, reso accidentato dalla burocrazia e dalla incerta volontà politica.

    Devo ricordare queste brevi note storiche, mentre visito la Risiera insieme a Fabio Todero, ricercatore dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste (Irsml), perché il monumento di Boico, icona ormai celebre della ferocia nazista in Italia, ha completamente occultato l’evoluzione e, perciò, snaturato la storia tragica di questo luogo: prima officina dove uomini e donne hanno lavorato per guadagnarsi da vivere; trasformata dai nazisti in fabbrica di morte; utilizzata poi come transito di disperati istriani e, infine, cruda testimonianza dell’accidia civile e politica italiana.   
    E’ vero. Le due alte e strette pareti di cemento impongono, come dicono tutte le guide che ho consultato su internet, un senso di angoscia, quando le si attraversano per entrare nel sito. Ma si ergono al posto del cortile di ingresso, quello destinato ai “salvati”. Chi avesse varcato il basso portale in fondo (l’attuale ingresso al sito), sarebbe precipitato nello spazio dei “sommersi”. Questa distinzione, come sappiamo fondamentale nella vicenda dello sterminio, si è persa per sempre e la perdo anch’io, mentre attraverso quel passaggio fra i muri.
    Appena entrati, sulla sinistra vi è la “stanza della morte”. Severa e cupa, con le sue travi a vista nere. Era questo il suo aspetto quando vi furono rinchiusi quelli che erano destinati all’uccisione immediata, oppure è la loro angoscia come la immaginò Boico? La finestra era forse murata. So che i graffiti tracciati sui muri furono cancellati (qui come altrove) dalle occupazioni successive. Per il resto, devo arrangiarmi con le ipotesi, e cercare qualche risposta, senza che la sistemazione museale mi aiuti.
    Entro nel cortile. Mi sembra lo scenario del film di Benigni (un’impressione errata: ma il film forse era corretto, perché venne proprio girato in una fabbrica dismessa). Quando era una risiera, infatti, vi erano ballatoi e balconate, penso ancora presenti durante il nazismo. Tutto abraso dal restauro, che ha giudicato più confacente la parete liscia, bucata dalle finestre. A sinistra si apre il locale con la fila di cellette. Piccole, senso di soffocamento. Alcune hanno un’apertura in alto. Accoglievano sei prigionieri per volta. Dovevano stare in piedi, stretti in fila, uno appoggiato all’altro. Ogni cella è fornita, alla sua sinistra, di un giaciglio di legno a due piani. Mi chiedo: sono gli originali? Sono stati tolti e poi rimessi? Il locale venne chiuso, durante la riutilizzazione postbellica del sito? Se no, quelle celle vennero occupate? Da chi? Con quali sentimenti riuscì ad abitarle? Cerco di dialogare mentalmente con ciò che vedo, ma non trovo nessun aiuto, perché, in realtà, non so che cosa vedo.
    Segue la “Sala delle Croci”. Era originariamente articolata in quattro piani, prima di lavoro e poi destinati al deposito dei vestiti e delle “prede” sottratte ai prigionieri. Certamente, il fuoco e l’incuria hanno fatto la loro parte. Mi sforzo di ricostruire il significato che ha voluto conferire l’architetto a questo ambiente, quando ha eliminato i piani e ha lasciato a vista l’armatura di legno dell’interno, dipinta di nero. E’ lui, infatti, che ha ottenuto le immense croci, che si inseguono nello spazio svuotato.
    Uscendo nel cortile, sulla destra vi era l’essiccatoio, trasformato con analogia ripugnante in forno crematorio. I nazisti lo distrussero. La sistemazione scelta, questa volta, riesce a parlarmi: vedo il pavimento, ricoperto da lastre di metallo, e la traccia sul muro del vecchio edificio, un canale su un lato segna il percorso dei fumi, incanalati verso l’altissima ciminiera della Risiera (40 metri), al cui posto si eleva una struttura di ferro (una sorta di Pietà). Nel retro del forno è lo spazio museale (ospita una mostra molto vecchia) e, attraverso un corridoio a sinistra, si accede al memoriale. Mi dice Fabio che qui vi erano dei macchinari. Leggo sulla mappa del campo che fu poi adibito ad abitazioni di aguzzini e a deposito. Anche questo è stato svuotato completamente, fino alle capriate del tetto, che ora ricoprono un ambiente vasto, in fondo al quale un bancone di cemento richiama irresistibilmente un altare. E’ l’interno di una chiesa.

    Nella Trieste della metà degli anni ’70, dunque, questa sembrò la sistemazione museale ideale. Un po’, mi dice Todero, erano i tempi. Si pensava così, allora. Qui, però, c’è una volontà ideologica che mi sembra sovrapporsi alla storia del luogo e alle persone che vi soffrirono, alle loro convinzioni, ai motivi per i quali lottarono e vennero uccisi. C’è una forzatura strana, in questo sito – non voglio usare la parola “violenza”- , quella di chi, volendone salvare la memoria, l’ha piegata al suo modo di rielaborare il passato. La tragedia dello sterminio è come trasformata nel fondale, sul quale si mostra il dolore di gente a noi contemporanea. Un dolore degno e rispettabile; ma ingiusto, se pretende di dialogare con noi al posto delle vittime.
    Non sono un architetto e, perciò, sono certo che questi appunti siano un po’ ingiusti. Tuttavia, nascono dalla convinzione che il punto di vista dello storico non possa essere trascurato, quando si elabora la monumentalizzazione del passato. Perciò, penso che se riuscissimo a restituire al cittadino odierno la complessità storica di una realtà che non esiste più, gli daremmo una possibilità di dialogare con questa. E se riuscissimo a farlo con discrezione, faremmo quello che ci è obbligatorio, particolarmente di fronte alla tragedia immane della seconda guerra. Evitare di metterci in prima fila.
    Una classe mi precede, mentre visito la Risiera. Come faccio sempre, nei musei e negli scavi, la seguo a distanza. Vizio professionale di chi studia didattica. Quindi, cerco di carpire gli sguardi dei ragazzi, il loro comportamento e faccio attenzione alle parole della guida. Sono seduti in due file, nei due lunghissimi banconi sistemati nel museo. Il loro professore, in piedi di fronte a loro, racconta il sito. Lo ha fatto varie volte, mi pare di cogliere. Ho già sentito quello che dice, sono le parole di Levi. Gli allievi non fanno chiasso, sono intimiditi dal luogo, ma si distraggono lo stesso, e il professore se ne è accorto. Calca la mano sul cibo scarso, di pessima qualità, sulle botte. Cerca, con le atrocità raccontate, di catturare la loro attenzione. Nemmeno questa mi sembra una buona strategia memoriale.

  • Scrivere la storia per finta, ma non troppo. La scrittura empatica come esercizio di storia e di italiano

    di Marco Cecalupo

    Abstract. A volte, la spettacolarizzazione della storia produce una forte sensazione di shock. Ma essere catapultati nel passato – e magari riviverlo – senza conoscerne le coordinate interpretative fa leva soltanto su empatia e immedesimazione superficiali, senza produrre un aumento di conoscenza. La descrizione di alcuni casi concreti, relativi alla Giornata della Memoria, offre elementi di critica a questo modello che possiamo definire sensazionalistico. Le esperienze didattiche di scrittura empatica tratte dal blog “I libri di Leo” dell'IC Leonardo da Vinci di Reggio Emilia – realizzate a margine di laboratori e giochi di HL – si propongono, invece, come modello cognitivo.

    1. Un presepe della shoah?

    La shoah tra i banchi del mercato, Venaria Reale (Torino)1. La shoah tra i banchi del mercato, Venaria Reale (Torino), Giornata della Memoria 2018. Fonte: la Repubblica (online)

    Qualche tempo fa, in occasione della Giornata della Memoria 2018, il Comitato Giorno della Memoria1 del Comune di Venaria Reale (Torino) organizzò e finanziò una iniziativa pubblica, presentata nell'edizione locale di Torino sul sito del quotidiano la Repubblica il 28 gennaio 2018 con le seguenti parole: «Soldati in divisa nazista dalle smorfie dure, un gruppo di donne terrorizzate con la stella gialla imposta agli ebrei che portano con sé le poche cose che sono riuscite a prendere in casa durante il rastrellamento, il cupo suono di una sirena, ordini abbaiati seccamente. È la rievocazione storica organizzata dal Comune di Venaria, alle porte di Torino, nel Giorno della Memoria: una marcia dolorosa in centro, e tra i banchi del mercato, che ha provocato grande commozione tra i passanti che si sono trovati all'improvviso a tu per tu con l'orrore della deportazione. Sul suo sito il Comune spiega di avere deciso l'iniziativa per sensibilizzare i cittadini sui temi dell'Olocausto e della discriminazione».

    Sul sito del Comune, in realtà, non siamo riusciti a leggere nulla più. Per esempio, nulla si diceva sulla consulenza storica dell'evento, e si poteva legittimamente nutrire qualche dubbio su un rastrellamento accompagnato da musica di violini in pieno giorno, oppure sulla completa assenza dalla scena di fascisti collaborazionisti italiani2. Non si trattò di una novità assoluta, un'iniziativa molto simile, che ha coinvolto anche giovanissimi studenti, è stata organizzata in occasione della Giornata della Memoria nel 2013 a San Marco in Lamis (Foggia)3.

    La simulazione della shoah a San Marco in Lamis (Foggia), 20132. La simulazione della shoah a San Marco in Lamis (Foggia), 2013. Fonte: www.foggiatoday.it

    Ne discussi con Antonio Brusa, ci ponemmo la questione dell'empatia nell'insegnamento della storia. Avevo definito quella discutibile iniziativa una sorta di “presepe vivente della shoah”, ed entrambi l'avevamo considerato un rito dannoso. Ma la nostra critica non fu di ordine storico, cioè in merito all'accuratezza documentale, ma piuttosto rivolta allo scarto interpretativo tra ciò che l'iniziativa si proponeva e il suo esito finale.

    Come si può definire la modalità utilizzata a Venaria Reale? Per alcuni aspetti, tra cui l'esposizione alle telecamere e la drammatizzazione caratteriale messa in scena dagli attori mediante i costumi, la mimica, la prossemica, l'espressione facciale e la recitazione, essa può essere paragonata ad un set cinematografico. Per altri versi, tra cui l'ambientazione in un luogo pubblico non interdetto ai passanti e l'apparente improvvisazione, si può caratterizzare come un flash-mob4. Ancora, la modalità potrebbe definirsi “teatro di strada”, ma non ci è dato sapere se i protagonisti fossero semplici figuranti dilettanti o attori professionisti. Più semplicemente, appare come una “rievocazione in costume”, anche in assenza di una chiara esplicitazione nei confronti dell'ignaro pubblico.

    Dal punto di vista della pedagogia e della didattica, in tutti i casi, non può definirsi una simulazione e non ha il carattere dell' “esperimento sociale” o del “candid-camera”, poiché è mancato l'aspetto della necessaria osservazione sperimentale delle reazioni degli astanti.

    Spostando l'attenzione dal significante al significato, ci chiedemmo: cosa ha rappresentato la scena per le persone che vi hanno assistito? Si trattava chiaramente di una questione a cui è interessata – oltre che la didattica – anche la public history, ma non fu facile rispondere a questa domanda poiché, come si è detto, nessuno (né gli organizzatori, né i giornalisti che hanno riferito la notizia sui media) si premurò di raccogliere in forma visiva o testuale le impressioni e le considerazioni del pubblico. Il giornalista de la Repubblica ha scritto di una «grande commozione», ma non sappiamo sulla base di quali informazioni ha tratto questo giudizio. Indirettamente, si potevano analizzare le riprese video5, che però non mostravano alcuna reazione evidente da parte dei presenti. Il pubblico suo malgrado si divideva equamente in due parti: coloro che si fermavano a guardare e gli altri che continuavano a camminare o a svolgere le proprie azioni ordinarie come se nulla stesse accadendo. Non si poteva dunque parlare di coinvolgimento o interazione del pubblico, se non in riferimento ai processi di identificazione propri del cinema, della TV e del teatro. Se qualcuno pensò qualcosa, la modalità non prevedeva, né è realmente avvenuto, che prendesse la parola o interferisse con la scena in atto, come ad esempio accade nei L.A.R.P. di ambientazione storica6. Il pubblico fu meramente spettatore dell'evento. Come, appunto, in una sorta di presepe vivente della shoah.

    A nostro avviso, l'interesse didattico era pressoché nullo. Nessuno penserebbe mai di convertire al cattolicesimo o di spiegarlo mediante un'osservazione attenta della rappresentazione vivente della Natività. D'altro canto, nella società dello spettacolo, nessuno si è mai sognato di interrompere una messa in scena, o quanto meno mai con l'intenzione di cambiarne la sceneggiatura7. Per riprendere la metafora religiosa, nessuno ha mai interrotto una via crucis per salvare Cristo dalla condanna a morte.

    2. Emozionare vs studiare?

    Eravamo quindi nel campo della Pop shoah8 descritto da Francesca R. Recchia Luciani e Claudio Vercelli, che nel loro recente volume ci ricordano come la spettacolarizzazione e «la sovraesposizione mediatica di un così dirompente evento storico, […] ricondotta ad una sorta di breviario dei buoni sentimenti, rischia di depauperarne proprio l'intrinseco valore civile»9.

    Dunque lo sterminio nazifascista e antisemita non prevede la possibilità di essere rappresentato o simulato con finalità didattiche? Possiamo citare diversi tentativi più riusciti in questo senso, ma innanzitutto occorre mettere in guardia tutti da questa banalizzazione della memoria dello sterminio. Alcune riflessioni critiche sono state scritte su «Historia Ludens» da Antonio Brusa a commento del film Austerlitz (del regista ucraino Sergei Loznitsa) e del progetto Yolocaust del fotografo israeliano Shahak Shapira10.

    Locandina del film Die Welle (L'Onda), di Dennis Gansel, 20083. Locandina del film Die Welle (L'Onda), di Dennis Gansel, 2008

    Sul piano letterario, il romanzo The Wave (L'onda), pubblicato dallo scrittore statunitense di letteratura per ragazzi Todd Strasser nel 1981, è basato proprio su un esperimento sociale (chiamato The Third Wave) svoltosi in una scuola della California nel 1969, in cui il docente di storia Ron Jones ha simulato l'instaurazione di un modello sociale gerarchico totalitario nella sua classe alla Cubberley High School di Palo Alto.

    Nei casi del libro (e del film11), si è trattato di un investimento intellettuale ed economico rilevante, ma ci sono state anche soluzioni a costo zero, come quelle condotte in un Liceo Artistico di Firenze nel 2011, in una scuola media di Vercelli nel 2017 e più di recente in tante altre scuole italiane.

    Nel Liceo Artistico di Porta Romana (Firenze) la professoressa Marzia Gentilini è entrata in classe il Giorno della Memoria dicendo: «È arrivata una circolare che un po’ mi preoccupa: entro il 15 di febbraio ciascuno di voi deve portare il certificato di nascita e di residenza. Non so se sia per il federalismo o cosa, ma pare che il ministero non paghi più la scuola se non siete nati a Firenze e se non sono prevalentemente nati a Firenze anche i vostri genitori e i vostri nonni. Ci faranno finire l’anno e poi ciascuno di voi deve tornare nei Paesi di provenienza della famiglia». Sull'edizione di Firenze online de «La Repubblica» si possono leggere anche le reazioni commosse e oppositive degli studenti. Rosa Maria De Giorgi, l’assessore all’istruzione, si complimentò con la docente e commentò pubblicamente: «La giornata della Memoria non deve essere un appuntamento rituale che si ferma a una pagina di un libro. La professoressa del liceo ha trovato la strada migliore per bucare lo schermo e attirare l’attenzione dei ragazzi, ha fatto indossare loro la follia di quel momento storico»12.

    Lezione shock al Liceo Artistico di Porta Romana (Firenze), Giornata della Memoria 20114. Lezione shock al Liceo Artistico di Porta Romana (Firenze), Giornata della Memoria 2011. Fonte: la Repubblica (online).

    In occasione della Giornata dei Giusti del 6 marzo 2017, nella scuola secondaria di primo grado “Pertini” di Vercelli, le professoresse Patrizia Pomati e Carolina Vergerio hanno diramato nelle cinque classi terze una finta circolare che imponeva ai ragazzi con almeno un genitore straniero (tutti informati dell'esperimento prima che venisse realizzato) che smettessero immediatamente di seguire le lezioni con i loro compagni e poi a giugno facessero due esami in più, uno per dimostrare “la conoscenza della lingua” e l'altro “la cultura italiana”. Anche in questo caso, gli studenti hanno reagito opponendosi con decisione all'allontanamento dei propri compagni di classe. La dirigente dell'Istituto Comprensivo commentò: «L'esperimento è andato benissimo. Ci aspettavamo ovviamente una reazione, ma non della portata di quella che c'è stata. Forse se ci fosse stata una reazione così forte anche allora le cose sarebbero andate diversamente»13.

    Mentre ne L'Onda la struttura gerarchica chiusa o la cultura e la pratica discriminatoria e violenta, tipiche del NSDAP, vengono semplicemente replicate dalla storia passata nel presente, gli esperimenti delle due scuole italiane hanno l'ambizione di attualizzare l'impianto giuridico-culturale delle istituzioni totalitarie e delle leggi razziali del 1938, spostando i termini del discorso in una dinamica socio-culturale del tempo presente: quella della migrazione e delle politiche migratorie. Entrambe le modalità, pur nella loro diversità, colgono l'aspetto centrale di una simulazione: il rapporto empatico tra il soggetto rappresentato e l'attore della rappresentazione. In altri termini, quegli studenti hanno sperimentato la vertigine, che secondo Roger Caillois è una delle componenti fondamentali e imprescindibili del gioco di simulazione14. In questi casi, si potrebbe dire tecnicamente che la simulazione non ha un pubblico che assiste, ma solo partecipanti attivi, chiamati a decidere, scegliere, prendere la parola e agire in conseguenza della situazione nuova che si è creata, con la possibilità (non solo teorica) di modificarla e in sostanza di determinarne l'esito.

    Se consideriamo le esperienze delle due scuole, la domanda ha rappresentato uno stimolo a pensare al rapporto tra sé e il mondo. Ci si è chiesti: cosa accadrebbe se le politiche migratorie prendessero una piega “eliminazionista”? È evidente che non si tratta solo del tentativo di una speculativa storia contro-fattuale o di una distopia fantascientifica, ma di un'apertura alla riflessione sulla realtà attuale. Si nasconde dunque una domanda ancor più stringente: qual è il nostro giudizio storico (comparato, potremmo dire) sulle attuali politiche migratorie in Italia, in Europa e nel resto del mondo?

    Secondo Antonio Brusa, in generale queste iniziative pongono il problema del rapporto fra empatia/sentimento e storia. Le due manifestazioni (quella di Venaria e quella nelle scuole), seppur diverse nelle modalità, sembrano mostrare una dinamica analoga: si presenta una situazione scioccante, si sollecitano sentimenti, e (nel secondo caso) si discute insieme. È pero difficile confrontare le due performance senza averle viste o senza averne una descrizione analitica: ciò impedisce di formulare un giudizio complessivo.

    Ma il modello che abbiamo sempre messo in cantiere come Historia Ludens è: situazione scioccante + analisi e lavoro storico = condizioni per esprimere un giudizio o uno stato d'animo. Questa fase, dunque, è concepita come un momento di sintesi dopo la fase analitica15. In questo modo, noi pensiamo che l'educazione storica "blocchi" il circuito lucrosissimo delle emozioni, e si ponga anche in un modo assai critico contro l'attuale emotional turn, che ha preso tutti, dai politici ai pedagogisti, ai dirigenti scolastici.

    3. Per un'empatia consapevole

    Qualche giorno dopo, durante la presentazione del Viaggio della Memoria 2018 a cura di Istoreco presso l'Università di Reggio Emilia, posi la stessa questione allo storico Piotr M. A. Cywiński16, direttore del memoriale e del museo di Auschwitz dal 2006. La sua risposta fu sostanzialmente simile: la spettacolarizzazione della storia è una modalità pericolosa perché, facendo leva sui sentimenti, distoglie dalla reale comprensione degli eventi, e rende inutile l'approccio cognitivo proprio delle ricerche storiche, l'unico che rende giustizia alla complessità del fenomeno shoah. Egli sperava che almeno le professoresse avessero preso spunto dalla simulazione per avviare lo studio della storia.

    E allora? Non si tratta di rinunciare ai sentimenti, all'empatia, alle forme di drammatizzazione, ma di invertire l'ordine dei fattori per ottenere un “prodotto” didattico fondato sulla consapevolezza. In breve, si può essere empatici con gli “altri” (nel tempo e nello spazio) solo dopo averli conosciuti e studiati, dopo aver contestualizzato il loro agire all'interno di un quadro storico-culturale che ci apparirà – per qualche verso, in aspetti marginali o in larga misura – diverso dal nostro.

    Nella mia pratica didattica quotidiana nell'IC Leonardo da Vinci di Reggio Emilia, ho provato più volte a sollecitare l'intelligenza degli studenti attraverso il decentramento cognitivo, soprattutto proponendo loro attività di scrittura empatica dopo aver svolto delle attività di studio di documenti, di gioco-laboratorio o di analisi dei contesti storici. I tre casi presentati in allegato di seguito – pubblicati sul blog del bookcrossing scolastico “I libri di Leo”17 – forniscono il risultato di questi tentativi, che sottopongo alla valutazione degli attenti lettori di questo sito.

    Il blog “I libri di Leo” è nato nel 2018, dopo due anni di attività di bookcrossing all'interno della scuola secondaria di secondo grado. Nel giugno 2019, conta in elenco più di 400 libri, più di 160 articoli suddivisi nelle sezioni: recensioni, eventi, scritture, regole, nuovi arrivi. Con trecento visitatori unici ogni mese, gestito da una trentina di studenti che scrivono e amministrano le pagine web, il blog rappresenta una modalità inclusiva e non valutativa di approccio alla lettura. Scrive Shalon (uno studente della classe 2E): «Tutti noi ci siamo iscritti perché crediamo che scrivere su questo sito non sia solo interessante, ma è anche un modo per appassionarci di più nei confronti della scrittura e della lettura, e può servire anche per conoscere le nostre attività. Abbiamo intervistato gli esperti che sono stati invitati a scuola, abbiamo scritto tante recensioni e pareri sui libri letti. Non importa che il giudizio sia sempre positivo, basta partecipare e scrivere il proprio pensiero».

     

    Allegati

    Allegato 1 – San Francesco. Immagini che raccontano storie
    Allegato 2 – Groenlandesi: The End
    Allegato 3 – Giustizia è fatta!

     

    Note

    1. Nel sito si possono leggere i principi generali del Comitato: «La Città di Venaria Reale, di concerto col Comitato promuove e sostiene attività dirette a diffondere e valorizzare il patrimonio storico, culturale e politico della Resistenza antifascista, contribuisce a far vivere ed affermare i principi della Costituzione Repubblicana, a ricordare gli orrori di quel periodo storico e ad assumere comportamenti [grassetto mio] affinché quello che è accaduto non possa più ripetersi».

    2. Sulla rimozione delle colpe in Italia, vedi: Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza 2013, e Massimo Castoldi (a c. di), 1943-1945: I «bravi» e i «cattivi». Italiani e tedeschi tra memoria, responsabilità e stereotipi, Donzelli 2016.

    3. Vedi la galleria fotografica sul sito di FoggiaToday.

    4. Termine di derivazione inglese che significa letteralmente “evento improvviso tra la folla”.

    5. Sono riportate in un filmato di oltre 30 minuti sul sito del quotidiano la Repubblica. È visibile anche una galleria fotografica dell'evento.

    6. LARP è l'acronimo di Live Action Role-Playing, in lingua italiana gioco di ruolo dal vivo (anche abbreviato in GRV). Sui LARP di ambientazione storica vedi Aladino Amantini, I Larp storici, in Chiara Asti (a c. di), Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica, Unicopli 2019.

    7. In occasione della rievocazione storica del 75° anniversario dello sbarco di Anzio, a Nettuno (Roma), un'anziana signora non è riuscita a resistere alla vista delle divise dei soldati tedeschi e «ha iniziato così a inveire contro i figuranti, colpendone anche uno con la borsetta», la Repubblica online, 21 gennaio 2019.

    8. Francesca R. Recchia Luciani, Claudio Vercelli (a c. di), Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico, il melangolo 2016. Il libro raccoglie gli Atti del convegno tenutosi all'Università di Bari il 16 e 17 ottobre 2015.

    9. Su «historialudens.it» si possono leggere la recensione del volume, di Raffaele Pellegrino; e l'articolo sul convegno, di Claudio Monopoli.

    10. Antonio Brusa, Lo scandalo del selfie (2017), su «historialudens.it».

    11. La trasposizione sul grande schermo del romanzo è stata operata dal regista tedesco Dennis Gansel con il film omonimo (Die Welle), nel 2008.

    12. Riportando la notizia dell'iniziativa sul suo blog, il maestro e pedagogista Marco Moschini cita un commento di Rosario Mazzeo, tratto dalla rivista «L'Educatore»: «È importante “sorprendere” perché ci sia un risveglio emotivo. “Stupore” è la prima flessione (reazione) della mente colpita in modo da essere attratta. Infatti il termine “stupore” (da steup, che in sanscrito vuol dire pungere, colpire), richiama l’emozione dell’essere colpito, e quindi del tenere sgranati gli occhi per poter meglio vedere. Più alto è il livello di sorpresa, più acquista importanza la proposta dell’insegnante, perché più alto è il risveglio emotivo».

    13. Si può leggere la notizia completa sulle edizioni locali online de La Stampa e de la Repubblica. Gli studenti, al termine della simulazione, hanno scritto le loro considerazioni finali, tra le quali leggiamo: «Mi sono sentito uno schifo perché non mi ritengo superiore ai miei compagni»; «So che se succedesse veramente i miei compagni si ribellerebbero e mi aiuterebbero»; «Abbiamo reagito così perché erano nostri amici, ma se una cosa è ingiusta, è ingiusta per tutti»; «Anche io ho la possibilità di cambiare le cose».

    14. Roger Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani 1981 (ed. orig. 1958).

    15. Nei giochi di simulazione di HL, il lavoro di analisi è precipuo nella fase di debriefing. Vedi una rassegna recente di giochi in Marco Cecalupo, E Cesare disse: “Si lanci il dado!”, in Chiara Asti (a c. di), Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica, Unicopli 2019.

    16. Piotr M. A. Cywiński, Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz, Bollati Boringhieri 2017 (ed. orig. 2012). Su HL puoi leggere: Enrica Bricchetto, Non c’è una fine. Camminare a Auschwitz con Piotr Cywiṅski, 2017. Su questi temi, vedi anche Enrica Bricchetto, Raccontare la storia? Non è soltanto questione di comunicazione, 2016.

    17. Nella sezione Scritture, oltre a quelli presentati qui, si possono leggere altre esperienze di scrittura empatica di studenti con i titoli evocativi: Grazie capo, Racchiuso in un sacco di emozioni, Secondo i nazisti, Il racconto di Esther, Memorie sotterrate, Una storia, Solo una madre, Il ricordo del passato, A cena con il nemico, Una lettera dall'Afganistan, Da quando sono entrata qui (inoltre, sono in corso di pubblicazione lettere simulate di operai inglesi del XVIII e XIX secolo). Sul diario di Anne Frank, vedi anche: Sono dalla tua parte, Anna!, e, su questo sito, l'articolo Marco Cecalupo, La tua Kitty, risultato di un laboratorio per la Giornata della Memoria 2014.

     

    Bibliografia dei laboratori

    1) Il laboratorio sull'iconografia e l'iconologia di san Francesco d'Assisi è pubblicato in:
    • Marco Cecalupo, San Francesco. Immagini che raccontano storie, in Quaderni, n. 7, Edizioni Istituto Alcide Cervi (Atti della 2° Summerschool Emilio Sereni “Il paesaggio agrario italiano medievale”, 24-29 agosto 2010), pp. 377-386.

    Il lavoro è basato su:
    • Chiara Frugoni, Francesco e l'invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto, Einaudi 1993 (in particolare il capitolo sesto, Francesco e la natura, la predica agli uccelli, pp. 233-268).
    • Chiara Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d'Assisi, Einaudi 1995.
    • Maurizio Chelli, Manuale dei simboli nell'arte. Il Medioevo, Edup 2002.
    • Erwin Panofsky, Il significato delle arti visive, Einaudi 1962 (ed. or. 1955).

    Sull'uso delle immagini nella ricerca storica:
    • Peter Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Carocci 2002 (ed.or. 2001).
    • Francis Haskell, Le immagini della storia. L'arte e l'interpretazione del passato, Einaudi 1997 (ed.or. 1993).
    • Carlo Ginzburg, Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Einaudi 2000.

    Sul laboratorio didattico con documenti iconografici:
    • Antonio Brusa, L'atlante delle storie, 2 voll., Palumbo 2010.
    • Elena Musci, Il laboratorio con le fonti iconografiche, in Paolo Bernardi (a c. di), Insegnare storia. Guida alla didattica del laboratorio storico, Utet 2006.
    • Franz Impellizzeri, Marco Cecalupo, Le immagini delle crociate, in Antonio Brusa (et al.), L'officina della storia, Laboratorio, vol. 1, Ed. Scol. Bruno Mondadori 2008.

     

    2) Il materiale del gioco-laboratorio sui groenlandesi è pubblicato in:
    • Elena Musci, Le colonizzazioni vichinghe, in Antonio Brusa, L'atlante delle storie. La sintassi della storia, vol. 2, Palumbo Editore 2010.
    Il laboratorio è basato sulle ricerche pubblicate in:
    • Jared Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi 2005 (ed. Orig. 2005).
    Una rassegna di giochi di storia a cura di Historia Ludens in:
    • Marco Cecalupo, E Cesare disse: “Si lanci il dado!”, in Chiara Asti (a c. di), Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica, Unicopli 2019.

     

    3) La traccia didattica del laboratorio su Walerjan Wròbel è ricavata da:
    • Antonio Brusa, Scipione Guarracino, Alberto De Bernardi, L'Officina della storia, Laboratorio 3, Ediz. Scol. Bruno Mondadori 2008 (a cura di Francesco Impellizzeri).
    Il riferimento storiografico da cui sono tratti i materiali del laboratorio è:
    • Christoph Ulrich Schminck-Gustavus, Mal di casa. Un ragazzo davanti ai giudici 1941-1942, Bollati Boringhieri 1994 (ed. or. 1986).

  • Sensibilità

    Monteconero, 28 marzo


    Non la insegno come te, ma sai, ho una certa sensibilità alla didattica. L’ho sentita decine di volte, questa frase. Tutte le volte che ho chiesto a un collega di storia come mai avesse deciso di insegnare Didattica della storia in un corso di formazione per insegnanti. Anche perché, la prima volta che l’ho sentita, un editore l’aveva rivolta a me (visto che sei così sensibile alla didattica, perché non dai uno sguardo a questo manuale?). Be’, sono sensibile alla didattica anch’io, lo ammetto. Tanto che, con un certo numero di colleghi (pochi in Italia, molti in tutto il mondo), ci abbiamo lavorato su e ci abbiamo costruito una disciplina, che si chiama “Didattica della Storia”, e vanta due associazioni internazionali.

     

    Questa disciplina ha una sua biblioteca, ormai talmente fornita che è impossibile per ciascuno di noi sfogliare per intero; un suo corpus di fonti, ad esempio i manuali di storia, che occorrerebbe conoscere, per insegnare agli altri come usarli (nella biblioteca delGeorg Eckert Institut, di Braunschweig, ve ne sono oltre 145 mila e più di mille, per la maggior parte italiani, sono quelli che ho raccolto nel fondo-manuali che ho accumulato a Bari). Oppure – altro esempio - i programmi, che è importante studiare e confrontare, cronologicamente o comparando fra loro quelli di Stati diversi, se vogliamo valutare correttamente i programmi vigenti in Italia. Ha dei metodi di indagine, che sono codificati e di cui sarebbe bene aver pratica per non fare la figura del principiante. Questa disciplina ha aperto un certo numero di cantieri di lavoro: dall’uso del digitale, all’uso del patrimonio, ai rapporti fra storia e identità, ai problemi connessi con l’insegnamento delle diverse storie, da quella locale a quella mondiale, ai rapporti fra storia e formazione, alle tecniche di insegnamento: sul manuale, con i giochi, con i laboratori. Eccetera eccetera. Tanto vasto è questo elenco, che nessuno di noi, che facciamo didattica della storia, è in grado di praticarlo per intero. Anche in questa disciplina, come in tutte del resto, ci dobbiamo specializzare. In questi anni lo abbiamo fatto. Lo si è visto, ad esempio, al principio di settembre dell’anno scorso, quando a Roma abbiamo dato l’avvio alla nuova associazione di Didattica della storia (IRAHSSE), con la partecipazione di un’ottantina di studiosi da tutto il mondo, con altrettante relazioni e il solito sistema delle sezioni in parallelo.

     

    Fra le sue tante attività, la Didattica della storia ha trasformato l’ora di storia in un terreno di ricerca. In questo trovo una sua grande utilità all’interno di un corso di formazione. Senza questa indagine scientifica, l’ora di storia ha una grande probabilità di restare “l’ora della pratica insegnante”. Un’ora nella quale una persona che conosce l’argomento (a questo dovrebbe provvedere il corso di laurea, ormai portato a cinque anni, e non il Tfa, come prescrive chiaramente la legge) ne parla a dei giovani visibilmente disinteressati, cercando di farsi capire e di farsi apprezzare. Incombenza complicata, come sanno tutti, da affrontare – ma solo se questa persona fosse sprovvista di conoscenze precise di didattica disciplinare – almeno con una certa sensibilità.

     

    Infatti, la didattica della storia, quando diventa disciplina, si raffredda, purtroppo. Si occupa di studiare, analizzare, progettare, verificare. Insomma, fa quelle cose normali che fa solitamente uno studioso al quale si chiede di produrre del sapere. Gli si chiede – unicamente - che sia di buona qualità. A tale scopo, la comunità degli studiosi specifici si occupa di fare le pulci ai suoi scritti con una deplorevolmente scarsa sensibilità. Questo sistema, così pedante e così accademico, oggi è in grado di fornire un complesso studi affidabili, che permettono a quell’ “ora di insegnamento” di uscire dalla routine della pratica e di entrare in un altro ambiente: quello della sperimentazione, del confronto con gli altri dell’utilizzazione di strumenti, teorie, pratiche provate già in altri contesti. Quello di una visione problematica,  e per questo dignitosa, del proprio lavoro.

     

    Il docente di storia odierno non è più solo (quante indagini abbiamo sulla “solitudine dell’insegnante”!), perché ha disposizione l’archivio delle ricerche compiute in tutto il mondo. Un supporto formidabile, che lo aiuterebbe nella gran parte dei problemi che lo affliggono. Basterebbe accedervi. Ecco un buon significato della frase: “collegare la pratica scolastica alla ricerca”. Una frase che abbiamo ripetuto tante volte, da trasformarla in un luogo comune. Perché non lo sia più, occorre che i futuri docenti studino un po’ di didattica disciplinare. Senza, si ritorna (o si resta, ahimè) in un passato, nel quale questa funzione veniva gestita (e lo viene ancora) dalla sola pedagogia – della quale gli studenti del Tfa hanno un’offerta abbondante – o dal passaparola. Da bocca a orecchio. La didattica orecchiata, ovvero l’arte di arrangiarsi. La necessità di una formazione professionale universitaria del docente sta proprio nella possibilità (speranza, scommessa, desiderio, progetto politico, utopia, chiamatela come volete) di rompere questa routine tradizionale e di avviare una nuova stagione, di docenti consapevoli dei problemi, delle teorie, delle tecniche didattiche specifiche, capaci di usarle, capaci di un approccio critico nei loro confronti, e quindi di scegliere. 

     

    Come è andata con le Ssis, lo sappiamo. Esiste una buona quantità di pubblicazioni, dalle quali apprendiamo che, a parte qualche isola, le Università italiane hanno visto esprimersi felicemente tutta la sensibilità dei colleghi. La partita dei Tfa è appena iniziata. La Sisem (ne diamo notizia in un altro intervento su hl) ha promosso un convegno sull’argomento e Gaetano Greco, che si occupa del Tfa in Toscana, ne ha scritto su “Mundus”, prospettando anche un'indagine sui prossimi corsi. Siamo tutti curiosi di conoscere quanti docenti di storia italiani sono sensibili alla didattica.

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