identità

  • Educazione “della” memoria contro educazione “alla” memoria.

    di Antonio Brusa

    01 Non è una questione di preposizioni articolate

    Negli ultimi decenni le scuole di tutto il mondo - investite da uno tzunami di “Giornate della Memoria” e del conseguente compito di promuovere l’educazione “alla” memoria - sono diventate uno dei campi di battaglia delle politiche identitarie degli stati. Noi – insegnanti e ricercatori di storia – dovremmo batterci perché, al contrario, diventino il luogo dell’educazione “della” memoria. Un luogo dove gli allievi apprendano a valutare criticamente le politiche memoriali – nazionali e sovranazionali -, apprendano che il ricordo sociale - la memoria pubblica - è un aspetto fondamentale della vita democratica e che, perciò, la discussione di ciò che conviene ricordare, e degli scopi per i quali occorre ricordare, fa parte dei diritti-doveri di un cittadino.

    La memoria dei fatti del passato, soprattutto di quello vissuto, ossia la capacità di selezionarne alcuni e di fissarli nel ricordo extrascolastico, e la memoria collettiva, ossia la selezione degli eventi attorno ai quali la comunità dei cittadini è convocata, sono gestite principalmente dalla politica e dal dispositivo dei media. Sono questi che decidono i fatti da ricordare e, quindi, sollecitano i cittadini “a” ricordarli. Sono questi, dunque, che concretamente ne plasmano la memoria. La scuola pubblica, istituzione preposta alla formazione dei cittadini, dovrebbe rivendicare il proprio ruolo. Dovrebbe denunciare il fatto che un’educazione intellettuale che ubbidisca a regole esterne al mondo scientifico/didattico contraddice il dettato costituzionale, che affida tale compito alla scuola e all’Università, luoghi garanti della libertà dell’insegnamento/apprendimento. E, per contro, dovrebbe promuovere la formazione di una “memoria educata”.

    Quali sono le condizioni per questa educazione “della” memoria? Ecco quelle che mi sembrano fondamentali: la contestualizzazione, l’inserimento nel curricolo, il rapporto fra storia e memoria e il rapporto con l’educazione civica.

    La contestualizzazione

    Quali che siano le attività e i materiali che vengono preparati per la Giornata della Memoria e la competenza e la passione che li caratterizzano, molti insegnanti si accingono ad affrontarla con l’idea che essa riguardi il rapporto fra i propri ragazzi e un evento estremamente tragico del passato. Questa è solo una parte della storia. A più di due decenni dall’istituzione della prima Giornata della Memoria, oggi constatiamo che questa è un frammento di un universo di iniziative politiche volte a utilizzare il passato come marcatore identitario. I soggetti di queste iniziative non sono soltanto gli stati, ma anche singoli gruppi politici e gruppi sociali emergenti (di genere, etnici, localistici ecc.). Spesso queste memorie rivendicate o imposte sono in conflitto, a volte si elidono vicendevolmente. La conoscenza di questo scontro è la prima condizione per evitare che la scuola ne diventi lo scenario inconsapevole. L’analisi dei motivi che hanno trasformato la memoria del passato in un terreno di azione politica aggiunge agli obiettivi più consolidati dello studio – ad esempio - della Shoah (l’antisemitismo, il genocidio, il nazismo e i perpetratori del genocidio, il rapporto con gli altri), quelli relativi al rapporto “verticale” fra cittadini e stato (perché i governi vogliono agire sulla memoria, individuale e collettiva?) e “orizzontale” fra stati e gruppi sociali (perché il passato viene usato in chiave identitaria?). La maggior parte delle risposte che riusciamo a dare a queste domande ci riportano alla mente un proverbio arabo, ricordato volentieri da Marc Bloch, che “siamo figli più del presente che del passato”, e, quindi, ci conducono, direttamente o indirettamente, alla realtà della globalizzazione. Mettono in evidenza la necessità di contestualizzare l’atto del ricordo. Studiare a scuola la Shoah è un fatto molto diverso, oggi, da ciò che poté essere negli anni ’60 o al tornante del secolo, quando ne venne istituita la Giornata commemorativa. Una conseguenza non secondaria di questo cambiamento è il deperimento delle riflessioni didattiche e dei materiali messi a punto nel corso del tempo, o, quanto meno, la necessità di una loro attenta revisione.

    02 L'inserimento nel curricolo

    La ricchezza degli spunti didattici che offre la Shoah, e la sua complessità, fanno sì che raramente essa venga affrontata in classe in una completezza enciclopedica. Si sceglie, di volta in volta, questo o quell’aspetto che al momento appare al docente più efficace. La necessità di una contestualizzazione, che qui proponiamo, accresce certamente questa complessità. Per di più, questa andrebbe moltiplicata per le giornate memoriali più accorsate che mi sembrano - oltre a quella della Memoria - la Giornata del Ricordo, quella della Legalità e quella delle Vittime del mare (non sono a conoscenza di ricerche sulla loro frequentazione nelle classi italiane. Sulla deprimente corsa alla commemorazione si veda qui).

    Ovvia, quindi, l’urgenza di un’organizzazione curricolare, nella quale le varie esigenze formative trovino il loro posto e si possano accumulare nel tempo. Altrettanto ovvia la necessità di “agganciare” i diversi aspetti, messi in evidenza negli oggetti della commemorazione, a temi che dovrebbero essere sviluppati in un curricolo di storia attento ai problemi che si incontrano studiando i vari periodi storici, più che al dettaglio degli eventi. Ad esempio: la formazione dello stato, il rapporto fra stato e cittadini, le pedagogie dello stato e, andando verso i nostri giorni, l’emergere delle questioni identitarie e la loro rilevanza politica e sociale. Le ricorrenze memoriali, in questo modo, diventerebbero “casi di studio” ben acclimatati nel curricolo, e non eventi eccezionali che vi irrompono dall’esterno. Andrebbero a far parte di quel “laboratorio del tempo presente”, autentico banco di prova delle capacità di ragionamento storico acquisite dagli allievi.

    Alla complessità dell’oggetto va aggiunta la complessità del bagaglio epistemologico e metodologico che occorre possedere per affrontarlo in modo maturo. Jörn Rüsen ce ne fornisce un quadro schematico in tre fasi:
    a. L’insieme delle capacità che permettono all’allievo di analizzare un dato fatto storico (analisi dell’evento, comparazione con altri eventi, classificazione ecc.)
    b. L’insieme delle capacità che gli permettono di confrontare le ricostruzioni storiografiche con quelle del senso comune.
    c. La capacità di osservare in parallelo una doppia evoluzione interpretativa: quella storiografica e quella della memoria pubblica o del senso comune. *

    È chiaro che non si può mettere in pista questo complesso di sapere e di saper fare in una sola giornata. Se ne devono “spalmare” le singole operazioni in un curricolo che parta dalle più semplici (non necessariamente incluse nel punto a) e giunga a quelle più complesse, che non saranno sempre quelle del punto c. Come spesso accade nell’insegnamento, la realizzabilità di un obiettivo in classe dipende anche dalla strategia didattica e dai mediatori adoperati. Giusto per fare un esempio che mostri come anche in una scuola media si può praticare qualcosa del livello medio-alto, si pensi al confronto che si può instaurare fra il risultato di una rapida inchiesta su che cosa pensano i familiari degli allievi a proposito della Shoah e una ricostruzione storiografica.

    Solitamente, la programmazione degli eventi memoriali si limita alla ricerca di “qualcosa che non si è fatto l’anno scorso”, o di “qualcosa che sia adatto a quella certa classe”. E ciò è in armonia con una “educazione alla memoria”, il cui problema principale è interessare gli allievi, coinvolgerli, suscitare le loro emozioni o trovare quegli argomenti talmente efficaci da scolpire quel dato evento nella loro memoria. Strategie sempre utili, ma che sono altra cosa rispetto a quel processo di crescita coerente che dovrebbe portare all’educazione della memoria, cioè alla progressiva autonomia degli allievi nella valutazione e nella scelta degli eventi degni di essere ricordati.

    Il rapporto fra storia e memoria

    È impossibile riassumere in poche battute l’imponente dibattito sul rapporto fra storia e memoria che ha coinvolto negli ultimi decenni parti significative della comunità storiografica mondiale. Per quanto concerne l’educazione della memoria, credo che occorra tenere conto di due aspetti, che riguardano rispettivamente la memoria individuale e quella collettiva.

    Il primo è relativo all’esplosione della “società della conoscenza”, intendendo con questa espressione una società nella quale i media mettono a disposizione delle masse l’intero sapere umano, e, al tempo stesso, costituiscono per queste masse il mezzo per rendere pubblico il “proprio” sapere. Si crea, in questo modo, una platea universale nella quale ciascuno esprime la propria opinione su qualsiasi argomento e, per quello che ci riguarda, sul passato. A differenza dei contadini del Seicento, che probabilmente avevano una visione del mondo, presente e passato, circoscritta al loro ambiente di vita, il cittadino odierno iscrive nella propria memoria fatti che un tempo si sarebbero letti solo nei libri. Il fascismo e il genocidio degli ebrei, le foibe, l’uccisione di Falcone e Borsellino, il naufragio di Lampedusa del 2013, quindi, possono far parte dell’idea di passato del cittadino comune. Con quale criterio e con quali accortezze questi eventi sono stati selezionati, e vengono richiamati e reinterpretati nel discorso comune? Rispondendo a questa domanda, Stefano Pivato ha espresso il suo – e nostro - sconcerto in un aureo libretto dal titolo emblematico Vuoti di memoria (Usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana, Laterza 2007). Potremmo aggiungere che quelle memorie che appaiono allo storico così “vuote”, in realtà sono “selvagge”, essendosi formate in modo spontaneo, senza alcuna assistenza esperta, nel vorticare tumultuoso delle conoscenze.
    Il secondo aspetto è quello - che ho già richiamato - della scoperta del passato da parte della politica. È una sorta di ripresa di politiche culturali, già sperimentate dagli stati europei ottocenteschi e primo novecenteschi. Nel nuovo scenario della globalizzazione, tuttavia, occorre legittimarsi non più al cospetto di pochi stati europei, ma di fronte alla massa enorme di otto miliardi di persone. Il passato cessa di essere (solo) un terreno da studiare, per diventare l’inesauribile repertorio di argomenti, fatti, personaggi da utilizzare a supporto delle proprie richieste di riconoscimento. Si creano così quadri memoriali composti da primati, che magnificano la grandezza del soggetto, e da torti subiti, che ne motivano le pretese di risarcimento. I soggetti (stati, gruppi politici o sociali) premono sulle scuole per riformulare i programmi di storia in chiave nazionalistica, di genere, etnica o localistica, e si agitano nel pubblico per nuove iniziative monumentarie o commemorative (Sul conflitto mondiale della memoria). E, a conti fatti, tutti constatano che l’intervento pubblico è più remunerativo di quello scolastico: dà risultati immediati e apprezzabili dagli elettori, dalle famiglie e dai membri del gruppo, e ottiene riscontri amplissimi nei media. Al contrario, l’apprendimento storico è lento, chiuso nelle aule, se ne vedono (forse) gli effetti dopo anni di studio, e ad ogni sondaggio dà risultati deludenti. Per giunta, più è aggiornato, meno è capito in famiglia. Ecco alcune buone ragioni per un progressivo disinvestimento nell’insegnamento storico, controbilanciato dal parallelo aumento di giornate commemorative.

    In questo quadro, l’educazione della memoria si propone come un lavoro sociale di civilizzazione delle memorie individuali, indispensabile in una società democratica che richieda ai cittadini scelte e orientamenti che tengono conto di fatti e non di “fattoidi”. Al tempo stesso costituisce una buona reazione alla deriva de-disciplinarizzante della formazione, dal momento che richiama e reinterpreta le istanze formative memoriali all’interno del curricolo.

    03 Storia, memoria, educazione civica

    La Legge sull’educazione civica (92/2019) e la più recente proposta di legge sull’introduzione delle competenze non cognitive (A.S. 2372) sono legate dal filo rosso della de-disciplinarizzazione della formazione. Il dibattito parlamentare, che in tempi rapidissimi portò alla reintroduzione dell’educazione civica come materia a sé stante, si è rivelato un sondaggio di opinione fra i parlamentari sul rapporto fra discipline e formazione. Tutti, infatti, senza distinzione politica, hanno approvato entusiasticamente questa nuova materia che finalmente non si sarebbe studiata sui libri e che avrebbe riguardato la vita reale. Una materia utile e non da aula scolastica (le citazioni sono quasi letterali: controllate il resoconto che ho pubblicato su HL). Nel corso del dibattito, si è sollecitata l’introduzione dell’educazione dei sentimenti, degli atteggiamenti e di una quantità di altri buoni comportamenti – rigorosamente non cognitivi - puntualmente ripresi nella proposta di legge sulle competenze non disciplinari. Proposta di legge anch’essa approvata a larghissima maggioranza.

    Sul perché di questa ondata di consensi anti-disciplinari, i commenti si orientano su due interpretazioni: da una parte c’è chi sostiene che siano il frutto del pensiero unico liberal-capitalista; dall’altra, si argomenta intorno alla perdita di interesse verso le discipline umanistiche, a favore delle discipline Stem, quelle che la società apprezza come utili. Almeno per quanto riguarda l’Italia, le fonti parlamentari smentirebbero entrambe le ipotesi, dal momento che fra i cordiali sostenitori di entrambe le leggi troviamo esponenti della sinistra anticapitalista, e le discipline condannate perché “troppo scolastiche” sono tutte, senza distinzioni.

    Credo che l’unica spiegazione consista nel fatto che il mondo politico, non solo quello italiano, richiede un riscontro visibile dell’investimento formativo. Un riscontro visibile alle famiglie, al cittadino comune. Sono questi, in ultima analisi, che negano alla politica il tempo della lunga formazione disciplinare. E le competenze non disciplinari hanno giusto questo vantaggio: il buon rapporto con i compagni, la partecipazione a iniziative ambientali, il sostegno a una campagna umanitaria, la denuncia del bulletto non hanno bisogno dei lunghi allenamenti delle discipline, per produrre un gesto, un comportamento, un qualcosa che tranquillizzerà le famiglie sul buon funzionamento della scuola.

    La legge sull’Educazione civica non fa cenno alle questioni memoriali che, come abbiamo appena visto, sono parte costitutiva di una cittadinanza democratica. Noi ci abbiamo provato, invece. Con l’Istituto Comprensivo n.6 di Modena (all’interno della rete di scuole LabSto21), abbiamo prodotto un curricolo di educazione civica multidisciplinare che contempla, fra le sue attività, anche quella dell’educazione della memoria, nel quale la Giornata della Memoria diventa un segmento normale della programmazione. Avremo modo di parlarne su HL, a sperimentazione terminata. Per il momento, lanciamo la questione: educazione alla memoria, o educazione della memoria?


    * Il testo citato è J. Rüsen, What is Historical Consciousness? A Theoretical Approach to Empirical Evidence, University of British Columbia, Vancouver, 2001.

    * I disegni delle ragazze e dei ragazzi della scuola primaria “Montessori” di Bollate, prodotti in occasione del Giorno della Memoria, pubblicati in Ti prometto che non dimenticherò mai. SHOAH: Il buio e la luce della speranza, edizione Kindle e Il Melograno, 2017, sono ricavati da Gariwo. La foresta dei giusti:
    https://it.gariwo.net/gallerie-fotografiche/altro/progetto-memoria-i-disegni-dei-ragazzi-18631.html

  • Lezione 2. Formazione storica e identità

    di Antonio Brusa

    01Fig. 1: A. Mucha, La resurrezione del popolo slavo, P. Finolezzi, Art Nouveau e Indipendentismo slavo nell’opera di Alphonse Mucha Fonte Il paradigma classico della didattica della storia – basato sui cinque elementi: aula, programma, manuali, lezione, interrogazione – si forma nel contesto di una complessa operazione di pedagogia nazionale, messa in atto dagli stati europei nel 1800. Una strategia che si attiva lungo molti canali: la filiera scuola-università, quella della produzione mitopoietica (le Invenzioni, come ci ha insegnato Eric Hobsbawm), l’intensa produzione di feste, inni e calendari nazionali, l’intervento sull’arredo urbano (nomi delle strade, monumenti, edifici pubblici), il sostegno alla produzione lirica (in Italia soprattutto), la sacralizzazione dell’ambiente (i parchi nazionali, che custodiscono la natura vergine della nazione) e la progressiva patrimonializzazione del passato, che inizia con i grandi monumenti e finisce ai giorni nostri con il “patrimonio immateriale” delle tradizioni e financo delle ricette. Una strategia complessa e costosa.

    L'identità vale tanti soldi

    Uno scopo vitale per quei giovani stati: la costruzione dell’identità nazionale. Vitale, perché occorreva trasformare gli abitanti delle centinaia di migliaia di località europee in cittadini di uno stato.

    Ma, a questo punto, occorre fermarsi, e capire bene che cos’è l’identità.

    Possiamo definire l’identità in due modi: essenzialista e relazionale. Il primo “guarda dentro” l’identità, ne osserva i componenti. Il secondo, invece, mette l’accento sul rapporto fra soggetto e mondo circostante. I due concetti danno luogo a scuole di pensiero (e anche scuole politiche) in forte opposizione. Ma non andiamo lontani dal vero se affermiamo che, anche ad avere una posizione essenzialista, non si può negare i componenti di un’identità provengono da ogni dove; e, per converso, il sostenitore dell’identità essenzialista non avrà difficoltà a riconoscere come originale il coktail individuale, per quanto risulti composto di elementi appartenenti ad altri soggetti. Questa identità può essere, ancora, declinata in due dimensioni: quella individuale, e quella collettiva. Questa, a sua volta, può essere mondiale, sovraregionale, nazionale, cittadina, di gruppo ecc.

    L'identità cambia nel tempo

    Nelle campagne dell’ancien régime le identità, individuali e di gruppo erano piuttosto semplici, rispetto alle nostre. In un villaggio isolato (come per esempio poteva accadere nelle immense praterie dell’impero russo) i contadini avevano certamente un’identità di genere e di generazione. Non avrebbero mai visto in vita loro un pope o un signore. Quindi, non avevano bisogno di identità più raffinate, che li distinguessero da quei personaggi. Ma con l’avvento della società moderna (urbanizzazione, industrializzazione, e stato) le identità tendono a diventare sempre più complesse, fino ad arrivare ai giorni nostri, quando – dice la gran parte degli studiosi – ogni soggetto del pianeta terra ha identità multiple e cangianti.

    Chi costruisce le identità?

    Nell’ancien régime i soggetti “formatori di identità” sono la famiglia, ma soprattutto la chiesa e la comunità (di villaggio o di quartiere). Con l’avvento degli stati, quelle identità non funzionano più. Perciò, subentra lo stato, con la pedagogia che abbiamo visto sopra. Il nuovo meccanismo funziona a meraviglia per decenni. Ne secondo dopoguerra comincia a incepparsi. Gli stati si indeboliscono progressivamente e, di pari passo, si indeboliscono le identità che riescono a offrire. In questo spazio vuoto si precipita un nuovo soggetto: il manager identitario. Può essere un soggetto religioso (l’Isis), politico (la Lega degli anni ’80), di costume (i dark); e i luoghi di formazione identitaria si diffondono nel territorio. La rete diventa il luogo principe dove il manager offre il suo servizio, spesso, a milioni di uomini e donne bisognosi di chiarezza e certezza, in un groviglio identitario che non riescono più a gestire.

    Che fa la scuola in questa nuova situazione?

    Ha due scelte di fronte a sé. La prima è gettarsi nel mercato identitario ed entrare in concorrenza coi suoi molti manager. Tutti producono identità? La scuola dice: la mia è la migliore e i cittadini si devono adeguare. In fin dei conti è quello che fece la Moratti, con i suoi programmi del 2003, che imponevano ai cittadini italiani l’identità giudaico-cristiana.

    La seconda è quella di sostegno. Noi sappiamo che oggi è difficile costruirsi un’identità, o meglio ancora “gestire le molteplici identità”. La scuola può aiutare il soggetto a costruirsi un’identità di “alta qualità”. I ragazzi, oggi, costruiscono la propria identità nel gruppo dei pari e nella rete. Osservano le prodezze degli amici, gli eroi della rete: sono questi i modelli culturali in base ai quali si “autoforma”. La scuola può presentare ai suoi allievi i migliori modelli culturali del mondo: come guardare il mondo, come rapportarsi con gli altri, come pensare al futuro.

    E la storia?

    Anche la storia ha due strade “identitarie” di fronte a sé.

    La prima è quella di una storia che spinga gli allievi ad aderire alla comunità nazionale, proponga loro modelli da imitare, li muova all’amore e al senso del dovere nei confronti della “madre-patria” (quale che essa sia: nazione, gruppo, entità sovranazionale ecc).

    La seconda è quella culturale-cognitiva, nella quale la storia insegna ai giovani a leggere il mondo, capire processi profondi, che resterebbero invisibili senza gli specifici “occhiali” della storia. Lavora sul cognitivo (e non può fare altro, perché è una scienza), ma così facendo, crea nei fatti una comunità di colti, capaci di capire la complessità sociale e capaci, di conseguenza, di prendere decisioni responsabili. Questa dovrebbe essere la “nuova” cittadinanza democratica.

    La strategia identitaria degli stati.

    Negli ultimi trent’anni è accaduto un fenomeno imprevedibile: una quantità notevole di stati e di soggetti collettivi ha ripreso pari pari le strategie identitarie ottocentesche, dando luogo a una sorta di gigantesco re-enactement di situazioni che tutti pensavano passate. Sono gli stati dell’Europa Orientale (soprattutto), ai quali si aggiungono molti stati di nuova costituzione, e la sterminata quantità di gruppi emergenti (etnici, di genere, religiosi, ecc). Ci danno la possibilità di conoscere questa strategia dal vivo, e non più soltanto sui libri. Osservandola, capiamo la struttura di questa narrazione storica identitaria. I suoi elementi costitutivi ce ne mostrano la natura mitologica:
    a. L’antichità. Le radici affondano nella preistoria o, in mancanza di questa nei tempi più antichi
    b. I primati. Il mio gruppo ha prodotto nel tempo alcune grandi scoperte (dal vino, agli spaghi, al trapano, per non parlare della democrazia o della città) che meritano il rispetto di tutti
    c. La grandezza. Un tempo, il mio gruppo o il mio stato erano vasti, spazialmente e culturalmente, molto più di adesso.
    d. La sofferenza e il martirio. L’antica grandezza è stata repressa da nemici (passati o ancora presenti)
    e. Gli eroi. Morti nella difesa della grandezza passata, o combattenti vittoriosi dei nemici.
    f. La resurrezione. Oggi è il tempo di riprendersi gli antichi spazi e di conquistare quel rispetto e quel riconoscimento al quale, per i meriti accumulati nella nostra storia, abbiamo diritto.

  • Mobile qual piuma al vento. L’identità collettiva e i programmi di storia.

    di Antonio Brusa 

    2024 07 23 12 59 06 Lega Pontida cambia pelle e diventa anti Islam si farà nellanniversario della La notizia che vedete riportata in foto (“Repubblica”, 22/07, 2024) non è solo la testimonianza dell’ennesima giravolta identitaria del più antico partito italiano, ma è la prova che, talvolta e miracolosamente, la storia giunge in soccorso della scuola, proprio come le galeazze di Venezia a Lepanto o, se vogliamo dirla tutta, come i cavalieri alati polacchi all’assedio di Vienna.

    Qual è il rischio che la scuola sta correndo? Ne abbiamo già parlato tanto su HL, che basterà accennare ai dinosauri  che impedirebbero ai ragazzi di dotarsi di una salda identità italiana, e al libro Insegnare l’Italia, che potremmo considerare la summa ideologica della Commissione Galli Della Loggia/Perla per la riforma dei programmi. Ora, non pretendiamo affatto di convincere il decisore politico a suon di Remotti, Amselle, Rivera, Gallissot, Amartia Sen (e decine e decine di altri studiosi), che l’identità collettiva è un costrutto politico, potenzialmente dannoso, che non ha nessuna possibilità di riferirsi alle caratteristiche essenziali di una collettività, posto che se ne possa trovare una lista che metta d’accordo i membri della stessa. Finalmente, è uno stesso partito della maggioranza, presumibilmente dalla stessa parte del Ministro, che ci offre l’opportunità di suggerirgli di lasciar perdere con l’identità e di concentrarsi sulla storia.

    Vogliamo mettere per iscritto i fatti elementari? Al principio degli anni ’80, la Lega aveva come simbolo identitario Alberto da Giussano. Hai voglia a scrivere saggi per avvisarli di non fare brutte figure, perché si trattava di un personaggio inventato. Loro no, hanno sguainato lo stesso gli spadoni e sono andati a Pontida, a proclamare la loro identità padana e antiromana: chissà poi perché, dal momento che l’antica Lega Lombarda, quella originale, era sostenuta dal papa de Roma. Poi si sono scocciati delle armature medievali, si sono innamorati dei celti, e sono riandati a Pontida con le corna e i treccioloni biondi. Poverini, del tutto ignari che la più bella tomba celtica italiana si trova a Canosa e che, chissà, Lino Banfi ne potrebbe incarnare l’avatar moderno con maggiore credibilità. Ma loro no. I celti sono del Nord contro il Sud, e noi siamo celti, hanno ribadito convinti. E oggi, saltando dalla Protostoria all’Età moderna, si immedesimano in quei guerrieri/marinai che fermarono il pericolo turco a Lepanto, nel 1571. Forse si ritroveranno con qualche nostalgico ungherese, col dente ancora avvelenato per la batosta di Mohacs, certamente con dei viennesi fieri del loro cornetto anti-islamico, ma credo che Marine Le Pen si sfilerà, come fecero i suoi antenati, che ai tempi di Lepanto erano talmente filoturchi che sarebbero stati espulsi con ignominia dal Rassemblement National.

    Quindi, caro Ministro, lasci l’identità a quella variopinta schiera di cosplayer della storia. Non trasformi l’aula di storia in quel prato divertente che è diventato Pontida. Pensi a una disciplina seria, amata da tanti insegnanti che vorrebbero farla imparare per bene. E se vuole proprio ottenere la gratitudine di tutti, a qualsiasi identità facciano riferimento, restituisca le ore che la Gelmini tolse, permetta alle professionali di studiare storia tranquillamente, assegni all’educazione civica e all’orientamento ore proprie e non rubate ad altre discipline. E per quanto riguarda l’identità, ci lasci liberi di costruircela come vogliamo, con le trecce bionde e senza.

  • Ötzi e il clandestino

    Bari-Roma, 15 ottobre

     

    Una ricostruzione di Ötzi nel museo a lui dedicato a Bolzano www.iceman.it


    La stampa di oggi riporta la notizia che nel sangue di 19 abitanti svizzeri, austriaci e altoatesini è stato trovato l’aplogruppo G nel cromosoma Y. E’ lo stesso presente nel sangue di Ötzi, “l’uomo di ghiaccio” conservato a Bolzano. Una variante genetica molto rara. Titola “La Stampa”:Ritrovati i parenti di Ötzi. Illustra il ritrovamento con una cartina (che in realtà mostra solo una parte dell’Alto Adige e dell’Austria, forse gli Svizzeri sembrano discendenti con meno diretti) intitolataLa zona degli eredi.

    Probabilmente qualcuno ricorderà la battaglia per questa eredità. Scoppiò subito dopo il ritrovamento dei resti. Giacciono dalla parte austriaca o da quella italiana? Questione di metri (e degli accordi De Gasperi-Gruber, ovviamente del tutto ignari che avrebbero suscitato un tale impiccio testamentario), si stabilì che erano sul versante italiano. Nel frattempo, per mettersi al sicuro, gli austriaci li portarono a casa loro, per studiarli, affermarono. Dopo qualche battaglia diplomatica, si rassegnarono a consegnarli all’Italia. Italia? A Bolzano, come si usa distinguere da quelle parti. Fu una buona scelta, diciamolo subito, perché il museo costruito intorno a questa straordinaria testimonianza dell’età del rame è ammirevole, dal momento che unisce cura scientifica, attenzione e sapienza didattica al rispetto per il corpo di un uomo, morto tragicamente.

    Ma, come tutti ricorderanno, dietro il giusto orgoglio di essere i custodi di questo reperto, si celava, neppure tanto discretamente, una bella battaglia identitaria. Ötzi era un antenato. O meglio: testimoniava l’antichità di un lignaggio. Giusto. Ma di chi? Gli uomini, si sa, si spostano, e la storia antica è piuttosto indifferente ai confini politici moderni. Perciò, fatti fuori legalmente, gli austriaci tornano alla carica e se la vedono con gli abitanti del versante meridionale delle Alpi (appunto, gli Altoatesini, per quanto la parola “meridionale” non vada loro molto a genio). Ma entrano in gioco anche i trentini e gli attuali bresciani. Cosa altro dedurre, infatti, dalla scoperta che l’ascia di rame che il malcapitato portava con sé ha forme testimoniate nella provincia di Brescia; oppure che le erbe che aveva ingerito sono delle valli alpine meridionali? E chissà se lo stambecco (il suo ultimo pasto) non proveniva da quel di Innsbruck. A far fuori tutte queste velleità ereditarie, una ricerca di alcuni anni fa stabilì che nessuno dei gruppi umani attualmente residenti nella regione è portatore di geni appartenenti a Ötzi. Si concluse allora: chissà dove saranno finiti i suoi discendenti, o chissà se si saranno estinti e chissà da quanto tempo.

    Adesso questi risultati hanno ridato fiato alle trombe identitarie. Ben 19 discendenti. “Almeno 19”, riportano i media con i limiti dovuti, perché dubitare fa molto scientificamente corretto. Poi, messe da parte rapidamente le precauzioni, ecco che si aggiunge la foto di un “manager svizzero”, suo lontano erede, il quale si confessa molto contento delle sue nobili origini, corroborate (dice lui) con l’ evidente somiglianza e con il fatto che anche a lui piace la carne di stambecco.

    Non sono un esperto di genetica e nemmeno di statistica. Sono un lettore, e invito gli amici a leggere con attenzione. L’aplogruppo in questione sembra essere originario dei monti dell’Himalaya, è testimoniato nel Pakistan e nel vicino Oriente e oggi, dice Walter Parson, il ricercatore autore della scoperta, è piuttosto raro. Se è vero, dunque, che “almeno” 19 svizzeri, sud-tirolesi e austriaci ne sono portatori, non se ne dovrebbe dedurre che questi signori sono in relazione genetica sia con Ötzi, sia con gente che viene da quelle lontane regioni? E visto che quel poveretto è morto da tanto tempo, perché non sottolineare questa ulteriore parentela, dal momento che pakistani, irakeni e siriani sono vivi e oltretutto cercano disperatamente di attraversare il Mediterraneo per venire da noi, anzi: vogliono proprio andare in Austria e in Svizzera? Non sarebbe anche questo uno scoop giornalistico, una spettacolare “carrambata neolitica”?

    Il professor Parson ha utilizzato un campione di 3700 donatori di sangue della regione dal quale è stato escluso chi “veniva da troppo lontano o aveva famiglie con incroci genetici complessi”. E’ evidente che al professore piace - come dice una nota pubblicità – “vincere facile”.

     

  • Storia comune, nazione e educazione identitaria. Una discussione a proposito di "Insegnare l’Italia".

    di Piero S. Colla

     

    1. Il revival della semantica dell’“identità”: tra discorso politico e istituzionalizzazione

    Con poche eccezioni, il percorso verso il voto europeo del 6-9 giugno 2024 delinea una tendenza generale, sottesa alle campagne elettorali dei paesi membri. Istanze e proposte organizzate attorno alle minacce che insidierebbero l’identità, etnoculturale o nazionale, dei popoli chiamati al voto, permeano il dibattito pubblico e polarizzano il confronto tra i programmi. Il richiamo delle retoriche dell’appartenenza sembra disarmare il ragionamento, confermando un trend di lungo periodo: la storia politica degli ultimi anni ci conferma che rappresentazioni contrapposte dell’alterità – spauracchio della “sostituzione” etnica, sfide dell’integrazione dei migranti, velleità protezionistiche o autarchiche, dall’alimentazione al costume… – orientano strategie e narrazioni in modo talmente organico ed esclusivo che l’oggetto stesso dell’appuntamento elettorale – il futuro della costruzione europea, delle politiche e delle istituzioni che dovrebbero sostenerla – fatica ad aprirsi un varco.

     

    Dalla Francia alla Svezia: rinasce il culto delle radici?

    È bene fare chiarezza sulla dinamica che ha portato il tema dei confini immaginari della comunità civile ad insinuarsi nel vocabolario politico-istituzionale. Dall’indomani della sua elezione, il presidente francese Nicolas Sarkozy annunciava la creazione di un “Ministero dell’Identità nazionale”1, subito denunciato in un testo dello storico Gérard Noiriel2. Più di recente, Emmanuel Macron – presentando il suo progetto di legge rivolto contro il “separatismo” islamico3 – rilanciava il tema convenzionale dell’assimilazione repubblicana, di un’identità civica presentata in forma volontaristica, pedagogica, assegnando compiti precisi al settore educativo4. Nella stessa direzione puntò, nel 2022, una riforma dell’educazione civica (Éducation morale et civique) dal forte accento valoriale.

    Con accenti diversi, molti nodi cruciali dell’agenda politica degli ultimi anni sono scanditi dalla medesima percezione esasperata del ruolo aggregante della fedeltà alle radici: il recupero (anche educativo) dell’identità imperiale britannica, culminato nella Brexit, ne è un buon esempio. Radici nazionali, certo, ma non sempre sovrapponibili a uno stato-nazione: in paesi costruiti su un equilibrio precario tra diverse tradizioni, dalla Spagna al Belgio, l’invenzione o la reinvenzione di una cultura, nazionale o sub-nazionale, sono da decenni elementi polarizzanti del confronto politico – con riflessi immediati sulle diatribe scolastiche5. La loro forza magnetica travalica culture politiche e schieramenti: il caso di C. Puidgemont, il leader nazional-conservatore catalano accusato di secessione, attualmente riparato a Waterloo, a cui il socialista P. Sanchez ha offerto l’amnistia dai gravi capi d’imputazione che pesano su lui in cambio del sostegno al proprio governo, sta a testimoniarlo.

     

    La paura di perdersi

    La convergenza delle ansie di intellettuali francesi, britannici o est-europei attorno al tema del declino ci segnala un altro dato: la prevalenza di una preoccupazione di tipo reattivo, auto-protettivo, nell’attrazione che il tema dell’identità esercita sulla classe politica. La paura di perdersi, di vedere il collante della propria comunità (una storia, un habitus) trasformato in bersaglio. Una proposta dirompente, avanzata poche settimane orsono dal governo in carica a Stoccolma – introdurre “il razzismo anti-svedese” (degli stranieri, evidentemente) come una nuova fattispecie di crimine6 – è emblematica di questa nuova figura dell’allarme sociale. Un senso del “noi”, ripiegato a riccio, le cui ripercussioni sul messaggio della scuola non si faranno presumibilmente attendere.

     

    2. Identità nazionale, educazione e “canone”

    Proprio da questo punto di vista, con riferimento alle politiche del curricolo e dell’insegnamento della storia, un trend si è profilato in Europa con una certa chiarezza a partire dagli anni 2000. Temi e proposte che lo animano hanno spiazzato ampi settori degli specialisti di didattica della storia, obbligati a constatare che miti, simboli, nuclei tematici che si erano abituati a considerare come oggetto di decostruzione critica e presa di distanze si stanno riaccreditando, nel dibattito civile, come alternative positive alla crisi della disciplina: la panacea per un presunto disagio identitario. Mi riferisco, per esempio, alla designazione di antenati nobili, indiscutibili, di una comunità nazionale.

     

    AsterixFig.1: L'histoire de France en BD ("La storia di Francia a fumetti") FonteGli antenati Galli al servizio dell’integrazione?

    Dal momento che diventate francesi, sentenziò il 19 settembre 2016 l’ex-presidente Sarkozy, rivolto ai migranti accolti come cittadini, “i vostri antenati sono i Galli”. Tra i leader in carica, Viktor Orbán ha intrapreso lo stesso percorso, imbastendo un ardito percorso di recupero – funzionale alle esigenze geostrategiche del momento – delle radici turche (e ottomane ) degli ungheresi7. La tendenza va però ben al di là di dichiarazioni propagandistiche, estemporanee o meditate che siano. In Francia dove (per citare lo storico Antoine Prost) “l’insegnamento della storia è un affare di Stato”, la paventata crisi del “romanzo” (roman) o del “racconto” (récit) nazionale a scuola è stata – per quanto la cosa possa stupire – al centro del confronto, nelle ultime tre tornate elettorali8. La riabilitazione del “canone” storico, ossia di un’armatura genealogica dei concetti cardinali dell’unità nazionale, è stato un cardine delle riforme curricolari realizzate in Danimarca e in Olanda negli ultimi vent’anni9. Nella regione belga delle Fiandre, la rivendicazione di un “canone” separato è un elemento strategico del programma del governo in carica, come arma contro l’universalismo binazionale del regno belga10.

     

    L’Italia, tra identitarismo e storia mondiale

    Anche il saggio di recente pubblicazione di E. Galli della Loggia e di L. Perla11 può essere annoverato in questo ambito, come un documento programmatico, argomentato e per certi versi estremo. È lecito dubitare però, sulla base di quanto detto sopra, che si tratti di una proposta inedita, per quanto il contesto, anche politico, in cui viene rilanciata ne amplifichi l’impatto e le possibili implicazioni normative. Come ha ricordato opportunamente Luigi Cajani commentando il saggio su questo sito, il tema catalizzò l’interesse dei commentatori e la comunità degli storici, in Italia, poco meno di un quarto di secolo fa, quando un canone secolare fu insidiato da ipotesi alternative, formulate nel contesto della riforma dei cicli abbozzata dalla Commissione De Mauro. L’alternativa storia mondiale/storia nazionale, in quanto elemento cardinale di un curricolo verticale, divenne per la prima volta un tema di confronto acceso, al di fuori dalla ristretta cerchia degli specialisti del curricolo.

    Le diverse versioni delle Indicazioni nazionali per la scuola dell’obbligo, varate dopo l’abbandono di quella ipotesi radicale di riforma dell’impianto cronologico e tematico del corso, hanno dato vita, in questo senso, a diverse variazioni sul tema del posto della nazione nel curriculum di storia della scuola dell’obbligo: per giungere fino alla versione del 2012 – con cui Insegnare l’Italia dialoga polemicamente a distanza. Indicazioni caratterizzate da una pluralità di posizioni, dove il riferimento all’identità culturale in quanto obiettivo formativo è sfumato, ma non assente. Così, le stesse finalità inserite nella sezione introduttiva relative alla storia insistono tanto sul significato etico e “patrimoniale” (quindi sociale e civico) dello studio della materia, quanto sull’educazione ad una “coscienza storica” formulata in chiave individualistica, come competenza universale. Per quanto riguarda la scansione proposta dei temi di studio e degli obiettivi di apprendimento, l’area culturale di riferimento è certo l’Italia, ma anche l’Europa e l’orizzonte mondiale – mentre fissare l’esatta gerarchia, o l’articolazione tra questi piani rientra, verosimilmente, tra i compiti dell’insegnante.

    È lecito parlare di una costante esitazione del legislatore, tra un governo e l’altro, nel confrontarsi con la dimensione “nazionale” della missione educativa dell’insegnante di storia12, che spiega, in qualche misura, il riacutizzarsi della diatriba in un contesto, come quello attuale, di incertezza culturale e di conflitti tra memorie.

     

    3. La nazione e il curricolo: restaurare o innovare?

    Se le controversie (ravvivate recentissimamente dagli interventi del ministro Valditara13) possono essere considerate come l’eco di un conflitto soggiacente e mai sedato, rispetto al quale il contesto italiano non fa eccezione, la pubblicazione di un libro che si schiera risolutamente su uno dei fronti – come Insegnare l’Italia – costituisce una provocazione stimolante: l’occasione per affiancare al giudizio su un intervento dai toni provocatori qualche interrogativo di portata più generale. Come si strutturano i campi ideologici attorno al posto dell’“italianità” nell’insegnamento della storia – e soprattutto: quale posta in gioco vi si collega, sul piano delle politiche scolastiche e del curricolo? Vorrei tentare di rispondere alla domanda sulla scorta della lettura in parallelo del libro in questione e dell’analisi critica svolta da Cajani, ma anche della maniera in cui lo stesso dibattito si configura, contemporaneamente, in altri territori d’Europa.

     

    Galli della Loggia: l’identità fonda la nazione, non la esalta

    In apertura della prima sezione del saggio, curata da Galli della Loggia, troviamo una dichiarazione d’intenti di tipo rifondativo. L’autore si sforza di liberare il campo dalle riserve ideologiche che la rivendicazione di un’educazione consapevole all’identità italiana potrebbe suscitare, confutando il luogo comune secondo cui coltivare, attraverso la scuola, un senso di appartenenza esclusivo, radicato nella tradizione e nel patrimonio culturale, sarebbe sinonimo di una posizione politica intransigente, escludente, velatamente razzista. Il progetto che Galli Della Loggia mette al centro della sua proposta non è, in effetti, la pura celebrazione dei fasti della patria, o di un nucleo di valori fondativi elevati su un piede di superiorità, sulla falsariga della narrazione etnocentrica che paesi come Francia, Gran Bretagna o Stati Uniti conobbero in vari momenti della loro storia. Non si tratta semplicemente di resuscitare un catechismo civico-patriottico con venature fideiste, per quanto le allusioni degli autori al culto delle reliquie o all’apprendimento dell’Inno di Mameli a memoria tendano in questa direzione. L’aspetto più originale sta nel declinare un obiettivo politico – ripristinare in un pubblico disincantato, distratto ed etnicamente plurale, il senso della solidarietà sociale e della partecipazione democratica (finalità intorno alla quale tutti convergono) attraverso il rafforzamento dello status della cultura storica relativa alla nazione, nel curricolo dei primi anni d’insegnamento.

    La proposta va compresa, e si pone dichiaratamente, come l’antitesi di una tendenza per nulla confinata all’Italia: la generalizzazione di un prototipo di educazione alla cittadinanza intesa (sul modello del Quadro di riferimento delle competenze per una cultura della democrazia, del Consiglio d’Europa14) come l’acquisizione guidata di competenze e disposizioni psicosociali, in riferimento a valori, diritti e doveri formulati in termini universali. Principi immanenti, de-storicizzati. Ai quali gli autori contrappongono una riqualificazione civica, nazionale, del corpus di tutte le discipline.

     

    Una pedagogia carismatica e gerarchica che parli al cuore e all’intelletto

    Portare l’educazione storica – come Galli della Loggia propone – “al centro del processo didattico” sarebbe al tempo stesso la risposta alla crisi del legame sociale, in una società frammentata, e a una sfida didattica: accompagnare i più giovani verso la comprensione di un mondo sociale forgiato dalla storia, e incomprensibile al di fuori di essa. Come un filo rosso, scorre attraverso il saggio l’elogio del dettaglio percepito “qui e ora”, rispetto all’astrazione e all’universalità dei concetti: familiarizzare l’alunno con un genius loci saturo di significati, da esplorare sotto l’autorità del maestro. Questa pedagogia di tipo carismatico (e gerarchico) farebbe leva tanto sul registro della cognizione quanto su quelli del carisma e dell’emotività: tra le virtù dell’educazione storica, Galli Della Loggia annovera infatti da una parte lo stimolo ad un atteggiamento relativistico (“scoprire che le idee e i costumi …mutano…”), dall’altra la possibilità di promuovere, attraverso l’esempio e l’identificazione, una dinamica sociale contrapposta, centripeta. La formazione di una comunità culturale coesa.

    Un approccio genetico all’identità collettiva racchiude, secondo l’autore, la chiave di due virtù: la consapevolezza individuale (aderire a un “punto di vista”, e non più a slogan ripetuti a macchinetta) e la tutela delle specificità di ogni cultura, ogni alterità. Il concetto è familiare alla tradizione dell’antropologia culturale, e richiama alla mente l’apologia di Claude Levi-Strauss in favore di “una certa chiusura culturale” – nel nome, appunto, della preservazione di una diversità minacciata – pronunciata davanti all’UNESCO nel 197115.

     

    4. Identità storica, coscienza storica e curriculo

    Coerentemente con quanto abbiamo detto sopra in riferimento alla storia, gli autori del volume (in particolare attraverso il ragionamento svolto nei due capitoli a cura di Loredana Perla) sembrano attribuire sostanziali virtù pedagogiche a uno spostamento di baricentro, che ricentri il curricolo, fin dai primi anni di scuola, attorno alle tracce e ai brandelli familiari che ne veicola l’esperienza del mondo: la lingua, un paesaggio rappresentato in forma poetica (“i campi”…) e la memoria storica in cui siamo immersi, attraverso il dibattito pubblico, per esempio. Anche quando dividono le coscienze, il 25 aprile o il Giorno del Ricordo sono emblemi del legame tra comunità civile e storia come “eredità”. Dig where you stand – il motto dei pionieri dell’archeologia industriale nordica, negli anni ’70 – potrebbe prestarsi a questo progetto. Al centro del nuovo schema si trova pertanto l’esperienza privata dell’italianità e dei suoi simboli, e il valore del mondo classico, rappresentato attraverso idealtipi e personalità carismatiche, in parte interpretato in retrospettiva (“che cosa ci hanno lasciato i Romani”).

     

    Le paure del presente ispirano il ritorno alla narrazione risorgimentale

    A prima vista, la proposta sembrerà familiare alla generazione dei 40/60enni, ed è su questo elemento che potrà contare, presumibilmente, il consenso che raccoglierà. Ma a guardar bene, l’inversione della progressione cronologica propugnato da Galli della Loggia per i programmi della scuola primaria – che porterebbe a introdurre lo studio degli eroi del Risorgimento nel secondo anno delle primarie – rappresenta, più che un ritorno al passato, un ritorno a modelli pre-novecenteschi, dei primi decenni dall’Unità. Un ritorno innestato su un clima sociale opposto a quelle che aveva accompagnato, e favorito, la genesi di quel canone: non l’ottimismo evoluzionista di fine Ottocento, che portava a coniugare fiducia nel progresso, nazionalismo e imperialismo, ma l’horror vacui della società globalizzata, senza padri, votata alla frammentazione e al declino.

    Il salto verso una prospettiva di storia mondiale, prospettato dalla Commissione De Mauro nel 2001, resta evidentemente alieno rispetto a questa prospettiva.

     

    5. Storia identitaria e storia critica: ipotesi alternative o idealtipi?

    Prima di osservarne le conseguenze sul piano didattico, mi sembra urgente discutere la pertinenza dell’obiettivo stabilito dagli autori sul piano politico-ideologico. Ciò aiuterebbe non tanto a decostruire la loro posizione, ma a collocare noi stessi, ed eventuali contro-proposte, rispetto a una diatriba che sembra cristallizzarsi attorno a due petizioni di principio.

    Impostando la sua recensione sull’opposizione generale tra fautori di una storia “identitaria” e di una storia critico-scientifica, Luigi Cajani assegna evidentemente Insegnare l’Italia, alla prima categoria, ricordando (a giusto titolo) che si tratta a grandi linee di una tendenza dominante nel mondo, e sottolineando che le Indicazioni per la scuola dell’obbligo, in vigore in Italia, hanno, nelle vicissitudini delle diverse riforme, seguito un’altra strada. Davanti a un conflitto che – come è facile prevedere – conoscerà altri momenti accesi, mi sembra utile che la critica non si concentri, in modo esclusivo, sull’(in)opportunità di collocare acriticamente l’“identità italiana” come finalità del processo educativo: un partito preso facile da decostruire, rispetto alle esigenze di un mondo multipolare, dalle frontiere divenute porose.

     

    Occorre approfondire le ragioni delle posizioni identitarie

    Sarebbe invece utile che lo sforzo critico si spingesse a sondare anche la tesi opposta, che cioè la costruzione dell’identità di gruppo, e quindi anche nazionale, non rappresenti in nessun caso un obiettivo strutturante, e che l’architettura del curriculum possa prescindere dall’urgenza con cui i temi dell’integrazione culturale, della memoria politica, della tutela del patrimonio – che declinano in vario modo la relazione tra costruzione dell’io e storia - vengono agitati sulla scena sociale.

    Dove si annidano i pericoli di un uso identitario della storia? Ogni riferimento a una filiazione culturale, nella didattica, è pericoloso per natura? La distorsione identitaria riguarda la scelta degli oggetti d’insegnamento, la loro disposizione nel curricolo, o la finalità che viene loro assegnata?

    La polemica (che la didattica della storia ha promosso, nei vari contesti in cui forze nazionalpopuliste hanno promosso, di volta in volta, il ritorno a un “racconto” rassicurante – e gli esempi, dalla Polonia alla Gran Bretagna, non difettano) è spesso articolata in termini politici piuttosto unidimensionali: insistere sul radicamento che la storia deve coltivare sarebbe di per sé sinonimo di autoritarismo, negazione della diversità, e della libera indagine. Il romanzo nazionale votato dalla destra francese non è altro (sulla scorta delle opere di Suzanne Citron) che un “mito nazionale” da sconfessare16. Gli esempi sui quali gli autori di Insegnare l’Italia fanno leva per suffragare la loro proposta – il libro Cuore, o Pinocchio, in quanto iniziazioni efficaci e pertinenti all’introiezione del senso della Patria – non possono che accreditare questo sospetto.

     

    Le identità collettive hanno un fondamento storico?

    A complicare il quadro, la critica dell’uso tradizionale della storia a sostegno dei processi di nation building ha fatto leva nel tempo su un certo numero di assiomi, non sempre rigorosi e coerenti. Una delle tesi consiste nel negare qualsiasi materialità all’esistenza di identità collettive radicate nel passato e nella cultura comune, quindi alla materia stessa del contendere. All’inizio degli anni 2000 (per fare soltanto un esempio, rilevante sul piano dei principi più che delle pratiche), la diatriba si generalizzò all’intero continente, attraverso il dibattito sull’inserimento o meno di un riferimento alle sue “radici ebraico-cristiane” nel progetto di Costituzione europea. Come è noto, il dibattito si saldò con l’omissione di quel riferimento “identitario”, a cui seguì – fatto ben più importante – la bocciatura dell’intero progetto costituzionale. Alcuni osservatori, come lo storico israeliano Elie Barnavi, consigliere scientifico del Museo di storia dell’Europa di Bruxelles (inaugurato nel 2017), ritennero che la richiesta – portata soprattutto dal Partito popolare europeo – di legare la costruzione europea ad un’“eredità”, fosse giustificata, sul piano intellettuale e strategico.

    Il conflitto attorno al fondamento storico-culturale delle identità nazionali – e per riflesso di una possibile narrazione continua della sua genesi (anche se i due concetti non sono sovrapponibili: proporre, sulle tracce dei Lieux de mémoire di Pierre Nora, una storia critica dell’identità francese non significa aderirvi in toto, in modo mistico) – è antico, e inficiato a mio avviso da un certo nominalismo. A Parigi, a Roma come a Stoccolma, questo conflitto vede contrapposti chi dichiara che la comunità nazionale è sempre stata il prodotto di ibridazioni e contatti, e che un comune denominatore non esiste – e chi per reazione vanta il significato e la persistenza di simboli passati. Con una curiosa inversione, è proprio l’editoria scolastica e la letteratura edificante (che di quella memoria comune è stata il pilastro) a rappresentare, adesso, il principale oggetto di investimento emotivo. Non la storia di Francia, ma il Petit Lavisse o il Malet Isaac, manuali adottati per decenni e considerati da Nora luoghi di memoria per antonomasia. Non l’irredentismo come progetto, ma il libro Cuore. In un contesto in cui un ex-candidato alle elezioni presidenziali francesi, Eric Zemmour, si dedica alla scrittura di 600 pagine di un’Histoire de France nostalgica (puntualmente demistificata da una schiera di rappresentanti della storiografia scientifica ), contrapponendosi alla riscrittura in chiave cosmopolita e anti-identitaria della storia francese da parte di Patrick Boucheron18, l’impressione è di un muro contro muro, in cui l’agitatore politico ruba il mestiere allo storico, e viceversa.

     

    La lunga storia dell’insegnamento identitario

    A partire da questa rappresentazione binaria e intellettualmente ambigua, da cui gli stessi autori di Insegnare l’Italia non sembrano astrarsi, pochi sono disposti ad ammettere che l’insegnamento scolastico della storia è sempre stato solidamente ancorato su un presupposto “identitario”, ma anche ambivalente, articolato, in dialogo con la storia scientifica, e non sempre trascrivibile in termini politico-strumentali.

    Nell’Italia fascista, il mito scolastico di Roma “apparteneva” a Mussolini (ma anche all’antifascista Momigliano) …o si esercitava su entrambi? Se mi si lascia passare un riferimento personale, la scuola della mia infanzia (fine degli anni ’70), aveva intrapreso – sul piano delle prassi – un approccio desacralizzatore rispetto all’identità nazionale, che permetteva di organizzare davanti a tutta la scuola un film come Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno mai raccontato (Florestano Vancini, 1971). Ma la stessa scuola articolava miti romani, ricordo delle libertà comunali, e retorica corale della Resistenza, fatto a cui devo, sul fronte della cultura storica, una relativa familiarità con le vicende della Liberazione e, sul piano della cultura politica, qualche riflesso che mi differenzia dai miei coetanei estoni, o ungheresi. Mentre l’uso scolastico delle identità nazionale si andava appannando, prosperavano (in quell’Italia solcata dagli anni di piombo) identità politiche non meno intransigenti e violente, mescolate a quelle locali, celtiche, di cui si intravedeva il rifiorire. Tanto da trasmettere a me bolognese un messaggio letteralmente identico a quello che Sarkozy avrebbe voluto impartire (a prescindere dalle origini di ciascuno) agli scolari di oggi: “i tuoi antenati, furono i Galli”.

     

    L’identità si nasconde anche nelle storie “alternative”

    Dove si fissano allora i paletti? E che cosa si può tentare di diverso? Il primo passo consiste forse nel domandarsi a quali condizioni si sfugge all’uso identitario della storia, quando l’alternativa è difficile persino da “pensare”. Con scrupolo filologico, L. Cajani ha ricordato l’impegno versato dell’UNESCO, dal dopoguerra, in favore di un approccio (auto)critico dell’educazione storico come contrappunto dell’uso identitario della storia. È facile notare che anche nel paradigma multiprospettico – elaborato e teorizzato in un’epoca assai più recente, in seno del Consiglio d’Europa, prima come teoria, poi come comune denominatore di una volontà politica sottoscritta dai governi – operano, spesso in modo esplicito, sottintesi identitari.

    La rivincita delle “identità minoritarie”, anche da parte delle istituzioni transnazionali, è stato uno dei frutti più palesi della rottura dei canoni centralisti. E nelle riforme che si sono succedute a partire dagli anni ’70 e ’80 – in Alto Adige/Süd Tirol come nelle province autonome spagnole, in Scozia come in Francia – la critica delle narrazioni nazionaliste si è innestata sull’esaltazione di modelli identitari alternativi e rivendicati (addirittura, nel caso del Süd Tirol, sul concetto di Heimat) che rivendicavano, in alternativa a un’identità formale, civile – delle appartenenze “calde”, sentimentali, conculcate19.

    Nel rivendicare un’identità indigena – dal Canada alla Scandinavia – le ideologie sprezzantemente etichettate come woke nel dibattito pubblico sono, a loro volte, intrise di implicazioni identitarie: una visione della storia intesa a rifondare appartenenze conculcate, e pensate come “naturali”. Di converso, la stessa idea di valorizzare un’identità particolare porta a enfatizzare l’esistenza di un’identità “maggioritaria”, sia pure come fattore d’identificazione negativa: se il passato della minoranza la definisce e la qualifica, anche la maggioranza si ritrova ancorata ad una rappresentazione narrativa, stilizzata. La rivincita dell’ethnos (l’identità come natura) sull’ethos – l’identità come patto civile, sul quale il discorso della scuola conosce può esprimersi in modo più articolato.

     

    68779612 hugeFig.2 : "Sametinget", il parlamento della minoranza "Sami" in Norvegia (immagina libera da diritti Fonte )Combattere l’identità in nome dell’identità?

    In Svezia ad esempio, dopo il loro riconoscimento ufficiale, nel 2000, come “minoranze nazionali”, gruppi come i Rom, i Sami o gli ebrei sono stati integrati nel curricolo ufficiale (da un governo progressista) non solo come fonti di conoscenza, ma nell’intento preciso di guidare i membri verso un’identificazione positiva con la “loro” identità. Al carattere fortemente etico e integrativo dell’uso della disciplina, proprio alla Svezia, viene così ad aggiungersi, in complemento, l’idea di un’identità parziale, come fonte di autostima. Il risultato, come mostrano gli studi in proposito, apre quesiti angosciosi, di difficile soluzione, per il corpo insegnante: che significa, per l’insegnante di storia, promuovere la fierezza “etnica” di alunni diversi, dentro la stessa classe? Insegnare un’anti-storia, contrapposta a quella mainstream? Una storia della quale l’insegnante di storia, peraltro, non conosce nulla?20

    L’identità nazionale è insomma contestata più spesso in nome dell’identità che contro di essa: il culto delle radici caratterizza, in modo a volte ossessivo, gli avversari del canone tradizionale – che lo accusano di razzismo e di esclusivismo. E il dialogo tra pedagogia e scrittura dei curricula continua ad offrire il destro a una retorica che tiene assieme individualismo, critica e identità. Al di là delle quérelle nazionali, le istituzioni europee e transnazionali sono impegnate da vent’anni nella promozione di un’ideologia delle competenze multiculturali, e di una “memoria comune” europea, che insiste su capisaldi dello stesso tipo: rivendicazione di valori comuni, valorizzazione di determinati snodi, e persino la scelta di miti dell’origine e di eroi21.

     

    paty 960Fig.3: Annuncio della commemorazione in memoria del prof. Samuel Paty nelle scuole francesiLa Francia: immigrazioni e identità nazionale

    La ricerca di tessere, con gli strumenti della storia, un’identità europea transnazionale, la riabilitazione delle memorie regionali e autonomistiche, e il riaffiorare di nostalgie nazionaliste seguono da decenni un percorso parallelo; ma scandiscono entrambe il dibattito sulle possibilità del “vivere assieme”, in comunità sempre più minacciate da tensioni centrifughe. Secondo i contesti, alla scuola viene richiesto ora di incapsulare queste tensioni con una parola suadente, ma a-storica (rafforzando l’educazione ai valori democratici, l’ABC del vivere in società) oppure di non sottrarsi al confronto sulla storicità dell’incontro tra memoria e esercizio della cittadinanza, portandovi una voce razionale, e abilitando l’alunno a posizionarsi in modo autonomo. La Francia sembra aver percorso la prima strada: le riforme messe in cantiere, in riferimento all’insegnamento della storia, dal socialista Hollande e da Macron (entrambi accusati dalla destra di svendere l’identità nazionale) confermano che il quadro di riferimento è dato ampiamente per scontato, e resta risolutamente nazionale, ma non necessariamente “nazionalista”. I programmi della scuola dell’obbligo francesi appaiono più espressamente etnocentrici dello stesso progetto che Galli della Loggia abbozza, in modo un po’ sommario, per la scuola primaria. È sufficiente, per verificarlo, osservare la suddivisione in temi proposta per le classi CM1 e CM2 (età: 9-10 anni), e introdotta nel 2015:

    Storia - Classe di CM1

    • TEMA 1: …e prima della Francia?
    • TEMA 2: L’epoca dei re
    • TEMA 3: L’epoca della Rivoluzione e dell’impero

    Storia - Classe di CM2

    • TEMA 1: L’epoca della République
    • TEMA 2: L'età industriale – in Francia
    • TEMA 3: La Francia, dalle guerre mondiali all’Unione europea.

    Il quadro di riferimento si espande, ma solo in parte, a livello di scuola secondaria. Al liceo, una forte caratterizzazione tematica e problematizzante dello studio della storia non impedisce che i temi proposti per i primi due anni del corso siano, in misura di 3 su 8, incentrati sulla modernità in Francia.

     

    Quando quella del professore di storia è una situazione a rischio

    Non è forse un caso se dalla critica delle narrazioni auto-centrate, narcisistiche, la Francia, paese che per primo, grazie Emile Durkheim, arrivò a concettualizzare la funzione centrale della scuola come fabbrica della coesione sociale trascenda subito nella ricerca elaborata di nuove forme di comunità. La spinta dei movimenti migratori ha servito indubbiamente da sprone. Quando il curricolo e i programmi d’esame, per esempio, hanno introdotto il tema della colonizzazione e della decolonizzazione, è anche per sottolineare (con una legge varata sotto la presidenza Chirac) il “ruolo positivo” delle conquiste francesi, o per problematizzare (come nei programmi del 2019, in vigore per l’ultima classe del liceo) le ferite ancora aperte: “la guerra d’Algeria e le sue memorie”22. Il confronto con una narrazione comune, con un’identificazione che si biforca, è dunque sempre al centro.

    PatyFig. 4: Samuel Paty (1973-2020) FonteIl ruolo strutturante del passato e della sua elaborazione ha insomma il suo posto tanto nel vecchio approccio come nel nuovo: come dato, e come progetto. E soprattutto come oggetto di preoccupazione, in un paese dove essere professore di storia è un mestiere a rischio. Essersi fatti carico del proprio ruolo di mediatore dei valori di tolleranza del 1789, è valso a due colleghi – negli ultimi quattro anni – una condanna a morte, ad opera di gruppi che concepiscono l’“identità” (religiosa e non solo) come un’entità non negoziabile, su cui la scuola non deve avere la minima presa23. Anche per questo la ricerca di una via d’uscita, anche tra gli storici di professione, è percepita come una necessità vitale.

     

    La comprensione critica è una chiave per un approccio comune alla storia

    Generalmente, sono proprio gli specialisti dell’alterità in seno ai curricula e ai canoni d’insegnamento – tra i quali lo scrivente si annovera – a porsi il problema della fabbricazione sociale di una narrazione comune, attraverso la narrazione storica. Il racconto di “ciò che ci è comune” è il titolo di un’inchiesta, realizzata nel 2016 sotto la guida della sociologa Françoise Lantheaume, mettendo a confronto la Francia con la Svizzera, la Germania e il Canada24. La scelta di questo tema dialoga polemicamente con la lettura declinista dello stato della scuola. Già nel 2002 un libro controverso, I Territori perduti della Repubblica25 aveva tracciato un quadro allarmante dell’incapacità della scuola di frenare l’esplosione di razzismo, confermando l’impressione che in molte aree peri-urbane, dominate dall’influenza delle reti islamiste, la trasmissione dell’ABC civico repubblicano fosse messa a repentaglio. In un’antologia di testimonianze di operatori della scuola, raccolte all’indomani degli attentati del 2015, gli risponde Benoît Falaize con un titolo che fa il verso al precedente: I territori vivi della Repubblica26. Nell’introduzione, il libro contiene un’osservazione incoraggiante: un insegnamento fattuale, incentrato sulla comprensione critica, può anche essere la chiave dell’incontro tra le memorie. La ricetta per un’identità ricomposta.

     

    Nessuno avrà da ridire se “comprendere” e “conoscere” possono anche significare, per effetto indotto, la possibilità di “ri-conoscere”.

     

    Per quanto le diagnosi sembrino divergere radicalmente, dunque, un interrogativo attorno alla costruzione del senso comune per mezzo della storia sottende la controversia, sui due fronti. Sul piano empirico, due punti fermi emergono dall’analisi delle risposte degli alunni: da un lato, al di là della pretesa disgregazione della scuola repubblicana, i punti di riferimento storici (date, personaggi, episodi fondatori…) tendono a perpetuarsi a prescindere dalla prudenza con cui la scuola vi si avvicina, dall’altro, la ricerca identitaria, mediata dalla storia, resta diffusa tanto a sinistra quanto a destra dello spettro politico. Il primo dato ci conferma anche che una prospettiva narrativa e genetica è ancora una modalità prevalente a partire da cui la storia viene assimilata; il secondo, che le società atomizzate che ci circondano non scoraggiano, ma esasperano la ricerca di “radici” storiche.

     

    6. Una quérelle non solo “scolastica”: identità e memorie nella storia pubblica

    Cercherò, per concludere, di riassumere le domande che questa ricostruzione solleva. Invitando il lettore a sospendere – in omaggio a una buona prassi scientifica – il giudizio di valore (“l’identità – come l’intendiamo – è buona o cattiva”?), per chiedersi invece: fino a che punto riconoscersi in un’identità (storica) è un “bisogno” per il singolo? Quanto lo è per la collettività?

    Mi pare indispensabile rilevare a questo proposito un altro aspetto a complemento della cronologia dei curricula tracciata da Cajani: dopo i correttivi apportati alla riforma Moratti, gli obiettivi identitari del curriculum non sono stati tanto accantonati, quanto trasferiti in misura crescente verso altri oggetti d’identificazione, extracurricolari. Il dato non è solo italiano: l’esplosione delle diverse forme di sensibilizzazione alla memoria di traumi collettivi, drammi o genocidi ha conosciuto un boom, nel quale l’intenzione di inculcare durevolmente un senso di identificazione – ma anche emozioni, sensazioni comuni – si esprime senza filtri. Il passato è portatore (secondo le Linee guida nazionali “per una didattica della Shoah a scuola”, del 2019) di una “lezione”; la sua conoscenza non deve (cito dallo stesso documento) “restare fine a se stessa”.

    Un punto di vista edificante, echeggiato anche nell’ampia produzione di raccomandazioni, europee o italiane, relative alla “cittadinanza attiva”, multiculturale e post-nazionale, ove lo studio della storia è la premessa di una presa di coscienza etica, di un senso di “responsabilità”27.

    Senza pronunciarmi sulla fondatezza di simili approcci, devo constatare che il modello integratore, la ricerca di forgiare il cittadino di domani, non si è mai inclinato a una prospettiva avalutativa, neutrale: l’ingegneria dell’identità si è spostata verso altri nuclei narrativi, investendoli di attese. La novità è piuttosto la difficoltà generale che la costruzione di una narrazione post-nazionale incontra, a fronte delle intransigenze della memoria sociale. È sintomatico che – mentre le porte della scuola si aprivano, attraverso l’inflazione di giornate “della memoria di…” – alle pratiche commemorative, si è rivelato sempre più arduo, nello spazio sociale, fare riferimento agli elementi fondatori della comunità. Riconoscersi in una storia, in un’anamnesi, reale e non affabulata.

    Dal 25 aprile, all’Unità d’Italia, al 1° maggio, le rare occasioni in cui al corpo politico è data l’occasione (nel deserto delle culture politiche d’antan) di riconoscere la propria legittimità, stanno diventando occasione di contrapposizioni rituali, non di rado violente, in cui la storia viene negata, manipolata o agitata come una clava. Anche Insegnare l’Italia – nel proporre un uso etico e edificante, per non dire “presentista” dell’epopea di Roma, della civiltà comunale o del Risorgimento – cade in questa trappola.

    Restano allora due domande: a) quale funzione può esercitare l’insegnamento della storia nella gestione di queste tensioni? b) è utile negare il problema, come se la storia che insegniamo o che riassumiamo nei curricula o nei libri di testo non avesse nessun rapporto con le memorie che operano di fronte a noi, e dentro di noi?

    Contrapporre categoricamente l’identità collettiva ad una storia più vera o “pura”, non è – a mio avviso – una risposta adeguata alla sfida lanciata da Insegnare l’Italia. Si tratta di ricordare – con Maurice Halbwachs28 – che le comunità, tutte, sono fatte di ricordi condivisi. La parola della scuola dovrebbe essere attenta, scientifica, emancipatrice – ma anche consapevole del suo impatto, e delle sue responsabilità.

     


    Note

    Il nome esatto del ministero, istituito nel 2007 e soppresso tre anni più tardi, era Ministère de l'Immigration, de l'Intégration, de l'Identité nationale et du Développement solidaire.

    G. Noiriel, À quoi sert “ l'identité nationale ”?, Marseille, Agone, 2007.

    Loi n°2021-1109 confortant le respect des principes de la République (“loi-séparatisme”), del 2021.

    Tra le innovazioni della legge si nota la riduzione drastica delle deroghe che autorizzano l’istruzione familiare (homeschooling).

    Un contributo recente su questo tema, pubblicato in Francia, è Histoires nationales et narrations minoritaires: vers de nouveaux paradigmes scolaires ? : XXe-XXIe siècles (a c. di P. S. Colla, B. Girault e S. Ledoux), Lilles, Septentrion, 2024.

    Svenskfientlighet. Dichiarazioni rese, tra aprile e maggio 2024, dalla ministra delle Pari opportunità, Paulina Brandberg, liberale.

    7 https://balkaninsight.com/2021/11/08/the-two-faces-of-orbans-hungary-christian-and-neo-ottoman/

    Persino un presidente come Macron, che aveva fatto dell’integrazione europea un tema caratterizzante del suo primo mandato, ha compiuto incursioni in questo campo, invocando il ritorno alla “cronologia” nella didattica della storia. 

    M. Grever, S. Stuurman (a c. di), Beyond the Canon: History for the Twenty-First Century, Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2007.

    10 Su questo, vedi il contributo di K. Van Nieuwenhuyse, L’enseignement de l’histoire dans un Etat-nation en déclin. Le cas belge depuis le XIXe siecle in Histoires nationales et narrations minoritaires, cit. Cfr. anche il volume curato da E. Tartakowski, School Historical Knowledge in Europe. Transnational circulations and debates, Arcidosso, Effigi 2023, che comprende altri casi recenti di “rinazionalizzazione” dell’insegnamento della storia, come il caso della Polonia.

    11 Insegnare l’Italia – Una proposta per la scuola dell’obbligo, Brescia, Scholé 2023.

    12 “La dimensione nazionale si presta in modo privilegiato ad educare alla memoria” ribadisce ancora il documento Indicazioni nazionali e nuovi scenari (CSN per le Indicazioni nazionali, 2018).

    13 Su questo tema, cfr. l’intervento di A. Brusa.

    14 https://www.coe.int/en/web/reference-framework-of-competences-for-democratic-culture/

    15 “Razza e Cultura” in C. Levi-Strauss, Razza e storia. Razza e cultura, Torino, Einaudi, 2002 [1971].

    16 S. Citron, Le mythe national, Paris, Editions ouvrières, 1987.

    17 A. Aglan e al., Zemmour contre l'histoire, Collection “ Tracts ”, 34, Parigi, Gallimard, 2022.

    18 Histoire mondiale de la France, Parigi, Éditions du Seuil, 2017.

    19 Andrea Di Michele, The Teaching of History in Schools in South Tyrol, from 1945 to the Present Day: From Promoting Identity to Building a Common History, in Piero S. Colla, Andrea Di Michele (a c. di) History Education at the Edge of the Nation. Political Autonomy, Educational Reforms, and Memory-shaping in European Periphery. Cham, Palgrave, 2023.

    20 Cfr. C. Svonni e L. Spjut, Swedish School Curricula and Sámi Self-Identification: The Syllabus from 1960s to 2011 in Colla, Di Michele, History Education at the Edge, cit.

    21 Dalla proclamazione del 23 agosto come Giornata europea della memoria, alla Risoluzione del 19.9.2019 sull’“Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, all’inaugurazione della Casa della Storia d’Europa, il calendario politico dell’istituzione democraticamente più “legittima” dell’UE testimonia di questa ricerca. Cfr. A. Sierp, Le politiche della memoria dell’Unione europea in “ Qualestoria ”, 2, 2021.

    22 L. Wirth, L’histoire du fait colonial dans l’enseignement secondaire. “ Hommes & Migrations ” 1, 2012. 

    23 Il 16 ottobre 2020 Samuel Paty, professore di storia e geografia in una scuola media della periferia di Parigi, fu decapitato con un’ascia per avere mostrato immagini giudicate blasfeme durante un corso di educazione civica. La denuncia di genitore di un’alunna fu all’origine dei fatti. Un altro attacco terroristico, con un morto e tre feriti, si verificò il 13 ottobre 2023, ad Arras, nel nord della Francia: i testimoni hanno riferito che l’aggressore si era lanciato all’assalto dei docenti gridando : “sei un professore di storia ? Sei un professore di storia” ? 

    24 F. Lantheaume e J. Létourneau (a c. di), Le récit du commun: l’histoire nationale racontée par les élèves, Lyon, Presses universitaires de Lyon, 2016.

    25 Emmanuel Brenner (a c. di), Les Territoires perdus de la République. Antisémitisme, racisme et sexisme en milieu scolaire, Paris, Mille et une nuits, 2002.

    26 B. Falaize, Territoires vivants de la République, Paris, La Découverte, 2018.

    27 Indicazioni nazionali e nuovi scenari, cit.

    28 La memoria collettiva, ‎ Milano, Unicopli, 2007 [1950].

  • Valditara, i dinosauri e l’ossessione identitaria

    di Antonio Brusa

    Immagine1  È diventata virale la dichiarazione del ministro Giuseppe Valditara sui dinosauri e sul fatto che questi – e le altre eccessive conoscenze previste nei programmi attuali - impediscono di concentraci sull’essenziale e, perciò, impongono l’urgente progettazione di nuovi programmi, più snelli e più adatti a capire il mondo contemporaneo. E così, i dinosauri sono diventati l’argomento principale di discussione in rete, forse anche nelle scuole, e ci accingiamo ad assistere a non so quanti talk show dove si discetterà sull’alternativa spinosa “dinosauri sì/dinosauri no”. Ora, fermo restando che sono totalmente d’accordo con quanto scrive Enrico Bucci, ricercatore presso la Federico II, su “Il Foglio”, e cioè che i dinosauri, se studiati bene, ci possono insegnare molte cose, alquanto utili anche per i nostri tempi, direi che, se vogliamo proprio parlarne, occorre farlo sulla base dei documenti.

    Veramente i programmi vigenti prescrivono lo studio dei dinosauri e sono ingolfati da una massa ingestibile di argomenti? Ecco il testo incriminato:

    “… il curricolo sarà articolato intorno ad alcuni snodi periodizzanti della vicenda umana quali: il processo di ominazione, la rivoluzione neolitica, la rivoluzione industriale e i processi di globalizzazione e di mondializzazione” (Indicazioni 2012).

    Dunque, i contenuti fondamentali del quinquennio che va dalla quarta primaria alla fine della secondaria di primo grado sono quattro/cinque. Mi sembra che l’essenziale quei programmi lo indichino con precisione. A questo nucleo obbligatorio segue un invito ad “aggiornare” gli altri argomenti soliti di una programmazione (e quindi a rivedere i manuali, cosa ahimè che non accade di frequente, vedi il caso della piramide feudale), ma che spetta al docente inserire in un progetto la cui stesura, stando ad un dettato costituzionale che nessun decreto ministeriale può intaccare, è di sua stretta competenza.

    Dunque: le Indicazioni del 2012 segnalano un nucleo solido, fatto di pochi argomenti, intorno al quale il docente può articolare il suo curricolo. E questa storia inizia col processo d’ominazione, ben sessanta milioni di anni dopo la scomparsa dell’ultimo dinosauro. Se il Ministro voleva un programma essenzializzato e senza dinosauri, ce l’ha già. Basterebbe farlo funzionare.
    Già, perché la pratica, come sovente accade nelle scuole, non ha molto a che vedere con la norma. E’ vero, perciò, che in molte scuole si disegnano dinosauri a più non posso (con grande soddisfazione dei bambini, riconosciamolo) e, soprattutto, che gli insegnanti si affannano, per esempio in quarta, a spiegare tutti i popoli del Vicino Oriente, facendosi un problema se hanno saltato gli Ittiti o non ce la fanno a spiegare i Micenei. Quindi, la domanda lecita è: da dove nascono queste abitudini, con le conseguenti angosce didattiche?

    I documenti ci danno una risposta precisa. Queste angosce vengono dalle Indicazioni programmatiche del 2004, promulgate dalla Ministra Letizia Moratti. Sono queste che annullano i “vecchi” programmi della Ministra Franca Falcucci (di tutt’altra pasta: e occorrerà parlarne), e introducono nel secondo biennio della primaria (dunque nelle classi seconda e terza) l’argomento “La terra prima degli uomini”, spalancando la porta ai dinosauri. E poi, se si ha la pazienza di leggere tutti gli allegati di quel lunghissimo testo, e contare gli argomenti di studio obbligatori, si vedrà che superano largamente il centinaio, bloccando in definitiva l’autonomia progettuale del docente.

    Quei programmi, almeno da questo punto di vista, piacquero tanto che – nonostante le correzioni dei due programmi successivi (Fioroni e Profumo) - i sussidiari hanno continuato a mettere la preistoria in terza (cosa non prevista dai programmi 2012) e a infarcirli degli argomenti soliti, dando al docente l’impressione che, in fondo, nulla era cambiato, nemmeno per i dinosauri.

    Se, perciò, il ministro vuole un programma essenzializzato senza dinosauri, può tenersi tranquillamente quello del 2012, e magari darsi da fare per eliminare le scorie lasciata dalla sua predecessora Moratti. 

     

    Immagine2  Dietro i dinosauri, la politica identitaria

    A meno che l’obiettivo sia un altro: quello di riprendere il lato “politico” di quei programmi. E, cioè, il fatto che erano programmi identitari, che ambivano a trasformare la scuola in una fabbrica di ragazzi dall’identità “giudaico-cristiana” (letterale). Un aspetto di quei programmi che le scuole avevano saggiamente messo da parte, e che ora Valditara vorrebbe imporre. I dinosauri (mi dispiace tanto per loro) sono solo un paravento. Dietro c’è l’obiettivo politico serio. Trasformare la storia da disciplina di studio a strumento identitario, come si apprende nel libro che Loredana Perla, presidente della Commissione di studio che dovrà redigere i nuovi programmi, ha scritto insieme a Galli della Loggia, e del quale si può leggere la recensione di Luigi Cajani su HL). Con le parole di Francesco Remotti, potremmo dire che è l’identità, e non i dinosauri, a ossessionare il Ministro. Ma anche su questo punto, i programmi del 2012 dicono qualcosa che è bene leggere ancora, per capire che il vero contraddittorio sarà fra un curricolo identitario di storia, orientato alla costruzione di una collettività di cittadini che si sentono italiani, quale che sia la loro origine, e un curricolo cognitivo/scientifico, nel quale la storia è uno strumento di comprensione della società che va “dato in dotazione” a tutti i cittadini, quale che sia la loro origine, se vogliamo che partecipino responsabilmente alla vita di una società democratica. Sono due obiettivi che nel discorso politico sono accettabili, per quanto rigorosamente opposti: ma non lo sono dal punto di vista scientifico. E questo è bene sottolinearlo. Nel primo modello di curricolo, infatti, la storia è asservita a uno scopo esterno alla disciplina; nel secondo, non può che essere utilizzata nella sua corretta natura di scienza sociale. Come scrisse Roger Cousinet, uno studioso di didattica storica molto noto nelle elementari di un tempo, “tutte le volte che insegnate la storia in nome di qualcosa di diverso, insegnate qualcosa di diverso”. Non la storia. Ma ecco il testo:

    Identità, memoria e cultura storica.

    Nei tempi più recenti, il passato, e, in particolare i temi della memoria, dell’identità e delle radici hanno fortemente caratterizzato il discorso pubblico e dei media sulla storia. Un insegnamento che promuova la padronanza degli strumenti critici permette di evitare che la storia sia usata strumentalmente, in modo improprio.

    Inoltre la formazione di una società multietnica e multiculturale porta con sé la tendenza a trasformare la storia da disciplina di studio a strumento di rappresentanza delle diverse identità, con il rischio di comprometterne il carattere scientifico e, conseguentemente, di diminuire l’efficacia formativa del curricolo.

    È opportuno sottolineare come la ricerca storica e il ragionamento critico sui fatti essenziali relativi alla storia italiana ed europea offrano una base per riflettere in modo articolato ed argomentato sulle diversità dei gruppi umani che hanno popolato il pianeta, a partire dall’unità del genere umano. Ricerca storica e ragionamento critico rafforzano altresì la possibilità di confronto e dialogo intorno alla complessità del passato e del presente fra le diverse componenti di una società multiculturale e multietnica. Per questo motivo, il curricolo sarà articolato intorno ad alcuni snodi periodizzanti della vicenda umana, quali: il processo di ominazione, la rivoluzione neolitica, la rivoluzione industriale e i processi di mondializzazione e di globalizzazione. 

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