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  • Guerrieri, mercanti, schiavi: antiche voci nel Mediterraneo

    Autore: Francesco Ulini

     

    Introduzione: il Mediterraneo

    Da sempre sono stato affascinato dal significato di “Mar Mediterraneo” cioè mare che sta in mezzo alle terre. E’ un mare che bagna diversi paesi, e quindi diversi popoli e culture. Dal punto di vista geografico separa e unisce l’Europa dall’Africa e dal Medioriente. Lo ha fatto, però, in modo sempre diverso a seconda dei tempi. Ad esempio, nell’Alto Medioevo, basti pensare all’impero bizantino che, tra VI e VIII secolo, controllava alcune zone costiere del centro e del sud Italia e l’Ifriqiya (l’odierna Tunisia) ed estese il suo potere fino alle coste delle Spagna; oppure si pensi all’impero musulmano che tra VII e VIII secolo andava dalla penisola arabica fino a quella iberica. Il Mediterraneo era una vasta pianura di acqua entro la quale navigava gente di ogni tipo, dai mercanti ebrei agli schiavi berberi, dai pellegrini cristiani a guerrieri saraceni.

     

    La Carta del mondo di Al Idrisi (1099-1166). Al centro la penisola arabica.

     

    Tra l’VIII e gli inizi del IX secolo, in un periodo in cui l’impero musulmano aveva raggiunto la massima espansione e i califfi abbassidi facevano fatica a controllare le dinastie del nord Africa e della Spagna, la pirateria rappresentò uno strumento di saccheggio delle isole della Sicilia, Sardegna, Corsica e Creta1. Le cronache dell’epoca ci hanno tramandato per lo più un’immagine negativa di questi guerrieri del mare provenienti da Est: i Saraceni2.

     

    Indice

    1. I saraceni
    2. Le spedizioni militari
    3. Sawdan, nuovo satana
    4. Sawdan, principe cortese
    5. Il pellegrino e gli schiavi


    1. I saraceni

    Come ci ricorda l’enciclopedia online della Treccani, ci sono diverse ipotesi circa l’origine etimologica della parola “saraceno”: esiste ad esempio un’attinenza semantica con il termine arabo “saraqa” (سرقة) che significa “rubare” e che richiama alla mente il loro modus vivendi da razziatori. Un’altra ipotesi che evidenzia invece la provenienza geografica dei Saraceni è legata ad un altro termine, ossia “as-sharqy” (الشرقي), “l’Oriente”. Ma il termine latino Saracenos (dal greco Sarakenoì, sing. Sarakenòs) fu introdotto da vari autori cristiani tra IV e V secolo d.C.: indicava quegli abitanti nomadi del deserto siriano e arabo, noti anche nell’Antico Testamento col nome di Madianiti, Ismaeliti e Agareni.

    Se inizialmente i Saraceni erano visti come “altri” perché nomadi della penisola arabica, con l’avvento dell’Islam la loro percezione mutò considerevolmente, perché furono considerati i nemici per antonomasia. Un teologo vissuto in Siria tra VII e VIII secolo, Giovanni Damasceno, fu il primo a descrivere il nuovo monoteismo musulmano come un’eresia cristiana, diffondendo la convinzione che Maometto fosse un eretico, un “falso profeta”, e non il fondatore di una nuova religione.

    Questa visione ostile verso ogni elemento esterno all'ortodossia venne successivamente amplificata da diversi cronisti di VIII e IX secolo nei loro racconti delle invasioni dei Saraceni nell’area del Mediterraneo. Negli scriptoria di diversi monasteri del sud Italia furono raccolte le complesse vicende dell’Italia longobarda che, durante tutto il IX secolo, conobbe la presenza di questi Saraceni. Questa produzione storiografica, seppur esigua, rappresenta l’unica testimonianza della visione cristiana degli arabi musulmani nell’Italia altomedievale. Autori come Erchemperto, l’Anonimo salernitano e l’Anonimo cassinese sono tra i più significativi per quanto riguarda la narrazione degli eventi. Essi costruiscono un’immagine omogenea del “nemico” saraceno attraverso una serie di epiteti: “crudelis et terribilis”, “perfidi et infedeles3, “iniusti et indisciplinati4. Avevano qualche ragione, dal momento che non si può negare che l’invasione di guerrieri musulmani fu un fenomeno devastante per il sud Italia, soprattutto per i monasteri dell’epoca e per la popolazione longobarda e bizantina che in molti casi venne ridotta in schiavitù.

     

    2. Le spedizioni militari

     

    L'assedio di Messina nell'843(Chronicle of John Skylitzes, cod. Vitr. 26-2, Madrid National Library, Fol. 214 r.)

     
    Le spedizioni militari dei Saraceni sulle nostre coste cominciarono nell’827 per iniziativa dell’emiro di Qairawan Ziyādat Allāh I (817-838). Facevano parte di un progetto  di conquista, condotto attraverso una serie di razzie sull’isola, con assalti alle roccaforti bizantine e ingenti bottini di schiavi. Solo dopo più di settant’anni di lotte e resistenze tra gli invasori e i bizantini, l’isola cadde sotto il controllo totale dell’emirato aghlabide dell’Ifriqiya ed ebbe una nuova capitale: Palermo.

    Qualche anno più tardi, mentre la Langobardia minor - cioè l’insieme di potentati longobardi, grandi e piccoli che si erano formati in Italia meridionale - viveva un momento difficile a causa dei conflitti interni fratricidi, fecero ingresso nella penisola italica orde di musulmani (Mauri andalusi, Berberi e nordafricani in genere, cretesi) che occuparono Brindisi nell’838 e Taranto nell’840. La prima a cadere fu Brindisi, importante centro marittimo dell’Adriatico. L’anonimo salernitano ci ricorda come lo scontro tra l’esercito longobardo di Sicardo e quello della “nefanda gens Agarenorum” andò proprio a favore di questi ultimi che, attraverso uno stratagemma, mostrarono tutta la loro astuzia facendoli cadere in una trappola e vincendo così sull’ingenuità dei cristiani. Due anni dopo toccò a Taranto che, già influente centro commerciale del Mediterraneo, diventò base di comunicazione marittima per i musulmani in Puglia. Stando alle parole di Giovanni Diacono - autore del X secolo della più antica opera di storiografia veneziana, il Chronicon Venetum - la flotta dei saraceni tarantini risalì l’Adriatico fino ad arrivare in Istria, con l’intento di saccheggiare i centri costieri bizantini5.

    In questo contesto di fragilità politica meridionale, i Saraceni si inserirono inizialmente come mercenari al soldo dei principi Radelchi di Benevento e Siconolfo di Salerno. Ma gli invasori non facevano parte di un fronte compatto. Infatti, Erchemperto, nel descrivere i mercenari, parla di Agarenos Libicos contra Hismaelitas Hispanos, dove gli Ismaeliti ispanici sono i Mauri, cioè Arabi dell’Andalusia6. Tra l’845 e 846, mentre Ostia e San Pietro venivano saccheggiate dagli aghlabidi di Sicilia e Sardegna7, l’ondata di devastazione saracena aveva colpito anche i monasteri di Monte Cassino e San Vincenzo al Volturno. In questi anni anche altre diocesi minori venivano spogliate, ma non dai Saraceni bensì dai signori longobardi in conflitto tra di loro, che da questi saccheggi ottenevano fondi necessari per pagare i loro temibili mercenari d’oltremare.

     

    3. Sawdan, nuovo satana

    Successivamente, quando nell’847 il capo banda Khalfun s’impossessò astutamente di Bari, ebbe inizio un periodo di dominazione stabile per i Saraceni in Puglia che fu reso ufficiale dal califfo di Samarra dall’863 all871, sotto il dominio del sāhib Sawdan. Quest’ultimo fu uno dei più spietati guerrieri musulmani secondo alcune cronaca altomedievali. Per Erchemperto era il “nequissimus ac sceleratissimus rex Hismahelitum8”, mentre l’Anonimo benedettino ricorda che il “nefandissimus Seodan rex9” aveva assaltato diverse aree della Campania come Capua, Conza, la Liburia, aveva devastato le abbazie di San Vincenzo al Volturno  e di Montecassino, depredandone le ricchezze.

    Un ulteriore epiteto venne rivolto dall’Anonimo salernitano a Sawdan,  detto anche Saugdan o Seodan. Il cronista cristiano lo aveva costruito per assonanza a “Satan”, in quanto lo considerava un infidelis10. Tuttavia, il rapporto fra salernitani e saraceni era molto più complesso di quanto lasci intendere questo soprannome diabolico. Lo dimostra un episodio ambivalente, raccontato sempre dal cronista salernitano nel quale si sottolinea l’esistenza di rapporti diplomatici e di convivenza fra salernitani e saraceni, e al tempo stesso se ne accentua l’odio verso gli infedeli. Protagonista di tale episodio fu un legato di Satan. Ecco le parole del cronista:

    “al tempo in cui governavano governano i salernitani Sicone e il suo tutore Pietro, accadde che un Agareno di grandissimo prestigio fosse inviato a Salerno dal suo signore Satan. Arrivato a Salerno, lo ricevettero con grande sfarzo; lo mandarono nell’episcopio affinché alloggiasse nel palazzo dove normalmente dimorava il vescovo Bernardo. Dopo questo episodio, il presule ne fu gravemente addolorato e […] proprio per tale provocazione subita dai quei principi, partì per Roma”11 .

    Dietro il nome di Satan si celava quindi un epiteto dalla connotazione religiosa, legato all’episodio del suddetto vescovo: dopo l’offesa nei confronti di Bernardo da parte del popolo salernitano complice di quello che considerava un sacrilegio, il presule si trasferì a Roma e ritornò a Salerno solo dopo aver ricevuto la conferma di una nuova abitazione. Prima però inviò una lettera al suo popolo e al clero dicendo:

    “Se mi volete tra voi, costruitemi un’altra casa in un altro posto, perché dopo quanto è accaduto io non abiterò mai più dove abitavo prima” 12.

    L’autore del Chronicon pare dunque che abbia voluto corrompere il nome di Sawdan nell’appellativo di Satan, in quanto sarebbe stato inammissibile per un vescovo, rappresentante della religione cristiana, dimorare nello stesso luogo contaminato da un uomo appartenente a coloro che «sunt natura callidi et prudentiores aliis in malum»13 (“per loro natura sono scaltri e più abili degli altri nel maneggiare le cose malvagie”).

     

    La Battaglia di Ostia di Raffaello Sanzio, Stanza dell'Incendio di Borgo, Musei Vaticani, 1514-1515
     

    L’appellativo si diffuse così nella Cristianità. Lo capiamo dal fatto che venne usato dal biografo di papa Leone IV, quando i Satane filii provarono ad assaltare Roma ma furono bloccati tra l’849-850 da una flotta campana che combatteva sotto l’egida del pontefice14. Quest’ultimo, sfruttando i musulmani fatti prigionieri, fortificò con mura di difesa tutto il quartiere intorno a S. Pietro, da Trastevere a Castel S. Angelo. Queste presero il nome di Mura leonine.

     

    4. Sawdan, principe cortese

    Se per l’Anonimo cassinese “non passava giorno che [Sawdan] non uccidesse cinquecento o più uomini e, sedendo sui mucchi di cadaveri, mangiava come un cane puzzolente”, esiste un’altra cronaca che dà una visione ben diversa del signore di Bari. Ahimaaz ben Paltiel, di Oria, nell’XI secolo fu autore del Libro della Genealogia, una storia degli antenati della sua famiglia ebraica. In quella città, infatti, che ospitava una delle più popolose e colte comunità ebraiche dell’Italia meridionale, visse un certo Aaron, un dotto che si recò a Bari tra l’863-865 e vi rimase, presso la corte di Sawdan, per 6 mesi. Durante questo tempo Sawdan fu catturato dalla sua profonda saggezza tanto da trattarlo con estrema cortesia. Da questa storia esce un altro profilo dell’identità di Sawdan: accogliente, rispettoso verso la comunità ebraica e pronto ad ascoltare i consigli del “maestro”. Insomma il crudelissimus Sawdan è anche un uomo colto e ospitale.

     

    5. Il pellegrino e gli schiavi

    Questo episodio di ospitalità e accoglienza fa il paio con un altro episodio, che leggiamo nel racconto di viaggio di Bernardo, monaco franco della Champagne, il quale, avendo ricevuto dal papa Niccolo I la benedizione e la “licentiam peragendi”, era partito intorno all'870 da Taranto per Gerusalemme. Dopo una sosta al santuario di San Michele sul Gargano, nell’867, passò per Bari, dove pagò una tassa a Sawdan che avrebbe dovuto permettergli di viaggiare nel cosiddetto dār al Islām, quindi in territorio musulmano. Ecco il suo racconto15:

    “Nell'anno dell'incarnazione di nostro Signore Gesù Cristo 867 […] Lasciando il monte Gargano viaggiammo per 150 miglia, ad una città in mano ai Saraceni, chiamata Bari che era formalmente soggetta a Benevento. E' posta sul mare ed è fortificata a sud da due grandi muri; a nord sporge alta sul mare. Qui ottenemmo dal principe della città, chiamato ‘Suldanum’, il necessario equipaggiamento per il viaggio, con due lettere di salvacondotto che descrivevano le nostre persone e l'oggetto del nostro viaggio al principe di Alessandria e al principe di Babilonia. Questi principi sono sotto la giurisdizione dell'Emir-al Mumenin,che governa su tutti i Saraceni e risiede a Bagdad e ad Axinarri (Samarra) che sono oltre Gerusalemme. Da Bari andammo al porto della città di Taranto, alla distanza di 90 miglia, dove trovammo sei navi che avevano a bordo 9000 schiavi cristiani di Benevento [«ambulavimus ad meridiem per XC miliaria usque ad portum Tarentinae civitatis ubi invenimus naves sex, in quibus erant novem millia captivorum de Beneventanis Christianis»]. In due navi che salpavano per prime e che erano dirette in Africa c'erano 3000 schiavi; nelle due seguenti che erano destinate a Tunisi ce ne erano altri 3000. Le ultime due che contenevano parimenti lo stesso numero di schiavi cristiani, ci portarono al porto di Alessandria dopo un viaggio di 30 giorni”.

    Cavaliere arabo del X secolo   

     

    Taranto era dunque un importante centro di smistamento di schiavi dell’Italia meridionale durante la metà del IX secolo e, insieme a Bari, condivideva i rapporti commerciali con l’emirato aghlabide e il califfato di Baghdad. Come ci attestano meglio le fonti latine, mentre Bari fu un covo di saccheggiatori delle terre longobarde, Taranto servì da base logistica per smistare gli schiavi catturati. Il commercio di schiavi quindi divenne una delle principali risorse economiche nella nostra penisola, la “Grande Terra” (Ard al- Kabirah) come la chiamava il cronista arabo al-Balādhuri16, dove gli abitanti venivano catturati e venduti sui mercati del Nord Africa. La guerra contro un nemico non musulmano legittimava l’acquisizione di schiavi e quindi la cattura avveniva nel cosiddetto territorio di guerra (il dār al harb17, in questo caso quello longobardo). Per questo i Saraceni, che avevano di fronte a sé un territorio non musulmano come la penisola italica, partendo dalla Calabria risalivano l’Appennino centro meridionale in cerca di preziose merci umane da vendere nei mercati dell’Ifriqiya, della Spagna o dell’Egitto.

     

    Note

    1. Tangheroni M., Commercio e navigazione nel Medioevo, Roma - Bari, Laterza, 1996, pp. 42-49; Vanoli A., La Sicilia musulmana, Bologna, il Mulino, 2012, pp.53-56.
    2. Per l’etimologia del termine si veda l'enciclopedia Treccani
    3. Anonimo Salernitano, Chronicon, a cura di Matarazzo R., Napoli, Arte Tipografica, 2002, p.172.
    4. Ivi, cap. 114, p.184.
    5. La cronaca veneziana del diacono Giovanni, in F.S.I., Cronache veneziane antichissime, a cura di Monticolo G., vol. I, Roma, 1890, pp.113-114.
    6. Musca G., L’emirato di Bari: 847-871, cit., p.23.
    7. Partner P., Il Dio degli eserciti. Islam e cristianesimo: le guerre sante, Torino, Einaudi, 1997, pp.64-65.
    8. Erchemperto, Storia dei Longobardi beneventani, a cura di Matarazzo R., Napoli, Arte Tipografica, 1999, cap. 29, p.64.
    9. Dalla Chronica S.Bened. Casin., cit., cap.18, p.477, citato in Musca G., L’emirato di Bari: 847-871, cit., pp.66-67, n.9.
    10. Date le sue costanti incursioni presso i luoghi di culto quali Montecassino e San Vincenzo al Volturno, Musca G., L’emirato di Bari: 847-871, cit., p.66; e S.Michele sul Gargano, Musca G., L’emirato di Bari: 847-871, cit., p.108.
    11. “Set cum sepissime legati Agarenorum Salernum venissent, (dum) iam dicto Sico Petroque rectore Salernitanis simul preessent, accidit, ut unum eminentissimum Agarenum fuisset missus a Satan domino Salernum. Sed cum Salernum venisset, cum magna sublimitate eum susceperunt; at episcopium illum miserunt, quatenus in domo, ubi Bernardus presul morare solitus, erat, degeret. Dum fuisset nimirum factum, ipso presul exinde mox valde ingemuit, atque ex intimo cordis anelitum trahens, tandem deintus vulnus foras erupit, et quasi pro causa dictis principibus Romam properavit”. Anonimo Salernitano, Chronicon, cit.,  cap.99, p.142.
    12. Cum namque Romam venisset, aliquod tempore ibidem moravit, et a papa qui tunc in tempore adherat, et ab omnibus Romanis nimio diligebatur affectu. Sed dum bis terque a predictis principibus per epistolam exflagitatus esset, quatenus propria remearent, ille vero diu redire distulit. Tandem exoratus ab omni populo Salernitano et plus nimirum a clero, illis epistolam in hunc modum misit: " Si illuc me habere cupitis, edem mihi aliam in loco alio edificate, quia post hec minime ubi moravi iam habito". Anonimo Salernitano, Chronicon, cit.,  cap.99, p.142.
    13. Berto L.A., I musulmani nelle cronache altomedievali dell’Italia meridionale (secolo IX-X), in Mediterraneo medievale: cristiani, musulmani ed eretici tra Europa e Oltremare (secoli IX-XIII), a cura di Meschini M., Milano, Vita e Pensiero, 2001, p.19; Erchemperto, Storia dei Longobardi beneventani, cit., cap.16, p.48.
    14. Musca G., L’emirato di Bari: 847-871, cit., p.43.
    15. Il passo è tradotto in Aureli M.E., Confronto tra la “Vita Willibaldi” e l' “Itinerarium Bernardi”: come due viaggi di pellegrinaggio rivelano i profondi cambiamenti avvenuti nelle comunicazioni e negli scambi nel Mediterraneo tra il 720 e l'870, Pisa, 2001, pp.1-5; Perta G., Mira Rotunditas, Il Santo Sepolcro nei racconti odeporici altomedievali, inAnnali della Pontificia insigne Accademia delle belle arti e lettere dei virtuosi al Pantheon IX, 2011, pp.443-455; Musca G., L’emirato di Bari: 847-871, cit., pp.72-74.
    16. Il cronista arabo al- Balādhuri visse presso la corte abbaside nella seconda metà del IX secolo.
    17. Al contrario, non potevano essere ridotti in schiavitù i non musulmani mentre si trovavano nel dār al Islām, cioè coloro che erano sotto la protezione della dhimma. Vercellin G., Istituzioni del mondo musulmano, Torino, Einaudi, 2002, pp.29-34 e pp.192-197

     

  • I bambini di Moshe. Un libro e un EAS (Episodio di Apprendimento Situato)*

     

    di Enrica Bricchetto

    I bambini di Moshe è un libro che serve a chi insegna per dare vita al discorso storico quotidiano. Raccontando storie, collocate in uno spazio–tempo ben preciso, con uomini e donne che hanno nomi e cognomi, compiono azioni, reagiscono o subiscono i colpi dell’ambiente in cui sono immersi, il docente riesce a dare più forza alla sua lezione. Compie meglio il processo di trasposizione didattica di quei nuclei fondanti, di quei concetti “base” della disciplina storica, senza i quali gli studenti non acquisiscono quadri interpretativi e non si orientano in quello che succede oggi tra le due sponde del Mediterraneo.

  • I Pacifici Celti Leghisti: Roma ladrona e la storia dell’antichità

    Autore: Mariangela Galatea Vaglio                                
     

    Introduzione

    La maestra aveva dato ai suoi allievi la consegna di immedesimarsi negli abitanti di un villaggio antico; e la bambina aveva scritto che ogni mattina si pettinava le lunghe trecce bionde e cantava con la cetra, nel suo villaggio celtico. Lessi questo compito su un sito, oggi irrintracciabile, di una scuola elementare friulana, negli anni ’90. Era una segno, minimo per quanto significativo a mio giudizio, dell’effetto che la propaganda politica della Lega cominciava ad avere nelle scuole. Sono passati pochi anni, già vediamo che molti adulti non ricordano più quei tempi e gli allievi delle scuole ci sorprendono del fatto che non ne sanno nulla. Così, quando ho letto la ricerca che Mariangela Galatea Vaglio - ricercatrice di storia antica, insegnante e scrittrice apprezzata (Didone, per esempio. Nuove storie dal passato, Castelvecchi editore) – aveva realizzato sull’uso politico della storia antica, le ho chiesto di condividere con il lettori di HL il capitolo dedicato ai Celti e la Lega. Non mi è mai sembrato, nemmeno negli anni caldi, un tema di storia folkloristica italiana. Per chi ha studiato i temi dell’invenzione della tradizione e dell’uso pubblico della storia (imprescindibili come dicono le Nuove Indicazioni anche per insegnare storia nella scuola di base) era evidente che si stava assistendo, quasi in diretta, ad un tentativo di invenzione della tradizione. Un fenomeno avvenuto dante nel passato. Ma questa volta, la novità era che la politica si appropriava in modo aperto del passato, e ne faceva un uso pubblico sfrontato, quasi si facesse beffe degli studiosi che, in contemporanea, mettevano in guardia i cittadini. Anche per questo è importante cominciare, fin d’ora, a costruire una memoria storica di quei tempi. (HL)

     

    I.    La Lega ed i Celti, un colpo di fulmine


     

    Tutti assieme in riva all’Eridano

    15 settembre 1996: sulle rive di un Po placido, indorato dal sole e filmato dalle televisioni di mezzo mondo si danno appuntamento per una grande catena umana i Leghisti di Umberto Bossi. Nei progetti del Senatùr il giorno dovrebbe segnare la nascita della Repubblica Federale di Padania, stato sovrano comprendente, grosso modo, Veneto, Sud Tirolo, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Trentino, Val d’Aosta, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Marche, Umbria e Toscana.

    Se sul piano della partecipazione reale la manifestazione non è un completo successo, l’eco che essa ottiene sui mezzi di informazione è enorme. Non c’è telegiornale o giornale che non mostri l’immagine di Bossi intento a raccogliere in un’ampolla di vetro la preziosa acqua della fonte del Po, l’antico Eridano, che viene versata poi in Laguna. Questo successo di pubblico è dovuto all’abilità con cui la Lega ha saputo orchestrare la campagna di lancio dell’iniziativa e l’innegabile senso teatrale che ha inspirato gli organizzatori della manifestazione stessa. A questo senso del teatro vanno certo ricondotta l’introduzione nell’immaginario leghista, appena qualche mese prima della programmazione della marcia sul Po, del ‘mito celtico’. Bossi proclama su giornali e tv che i leghisti sono diretti discendenti di quei “pacifici” Celti che, durante l’antichità, si erano stanziati nella pianura Padana ed erano stati poi travolti dalla conquista romana imperialista. La nuova simbologia celtica è il filo conduttore della Kermesse leghista. Il 15 settembre stesso Repubblica dedica a questo nuovo apparato mitologico un articolo dal titolo: “I riti presi dai Celti tra storia ed Asterix”.

    “Druidi ed ampolle. Il grande fiume che rigenera. La dea Sole - scrive Francesco Erbani, - Dovendo fondare uno Stato indipendente si hanno davanti due strade: ricostruire una storia cercando nelle sue pieghe il filo di un’identità oppure costruire una simbologia, un apparato di miti. Umberto Bossi ha imboccato ruvidamente la seconda. E ha scelto, per il battesimo padano, il repertorio rituale degli antichi Celti.”


     

     Druidi e ampolle.Qui l’articolo di Francesco Erbani

     

    Già, ma chi sono i Celti di Bossi ? E come mai compaiono proprio in questa forma e proprio in questo momento, materializzandosi pare quasi dal nulla sulla rive del Po ? L’antichista può certo sorridere davanti agli anacronismi di questi celti protoleghisti padani . La propaganda politica, però, come la pubblicità, ha regole forse capricciose ma serie. Bossi sceglie i Celti spinto di sicuro da qualcosa di più che un semplice colpo di sole, fosse pure delle Alpi. Cercare di comprenderle o almeno di individuarle aiuterà non solo a ridisegnare l’immagine dei Celti con maggiore acribia filologica, ma anche a conoscere meglio alcuni aspetti della Lega ed alcune eredità che essa ha raccolto lungo il suo cammino.


    Dal Carroccio al Sole delle Alpi.

    Quando nel 1989 la Lega  si affaccia alla ribalta nazionale il suo apparato propagandistico non contempla alcuna allusione ai Celti. Le due Leghe del Nord, cioè quella Lombarda e la Liga Veneta, si richiamavano esplicitamente non all’antichità, quanto piuttosto al Medioevo.

    Tutta la prima fase della Lega come partito di rilevanza nazionale è legata ad una propaganda che recupera le memorie dei liberi comuni contro il Barbarossa. Il simbolo della Lega diviene così Alberto da Giussano, che rimane nel logo del partito anche quando la denominazione del movimento cambia da Lega Lombarda a Lega Nord, ed orna i baveri delle giacche dei leghisti. Per i giornali Lega e Carroccio diventano sinonimi intercambiabili, lo stendardo dei comuni ribelli al Barbarossa diviene la bandiera ufficiale della Lega, le adunate del partito non possono che svolgersi a Pontida.

    Del resto già la Liga Veneta, che era presente da anni nel Veneto e aveva colto già nell’’83 significativi successi elettorali, raggiungendo, ad esempio, il 6% in provincia di Vicenza ed il 7% in quella di Treviso, si affidava anch’essa a memorie medievali, veneziane in particolare: il suo stendardo era il Leone di S. Marco, il suo riferimento storico la Serenissima. Essa era talmente affascinata da queste memorie che, in buona sostanza, prima della fusione con la Lombarda di Bossi, veniva ritenuta dai suoi stessi simpatizzanti come “una bizzarra congrega di persone impegnate a coltivare un dialetto (lingua, secondo loro) che i Veneti non riuscivano a capire e a lanciare invettive odiose contro il Sud .” 

    Nei primi tempi di successo sulla scena politica va sottolineato che forse nemmeno i bersagli della propaganda e i fini del movimento sono così chiari. La polemica si rivolge soprattutto contro il Sud e contro Roma ladrona, sede di ogni vizio in quanto sede della aborrita partitocrazia. La battaglia verte solo sul presente, al massimo sul passato prossimo, la prospettiva di recupero storico non interessa. Un certo interesse nei confronti dei Celti e dell’antico fiume-dio Eridano, tuttavia, doveva essersi sviluppato precocemente in Umberto Bossi e velocemente radicatosi, tanto da indurlo a battezzare il suo ultimo nato Eridano Sirio.

    Tuttavia fino alle elezioni del ’94 l’intero apparato propagandistico della Lega sembra rimanere nell’ambito della polemica antimeridionalista e antipartitocratica, con scarsissimi accenni a qualsivoglia recupero della storia passata. La svolta nella propaganda si verifica soltanto nel ‘96. Il mito dei Celti compare in contemporanea alle prime dichiarazioni secessioniste del movimento. Man mano che il Senatùr chiarisce, forse in primis a se stesso, quali siano i suoi obbiettivi politici, cioè man mano che si inizia a dichiarare da parte della Lega che il fine da raggiungere una è una vera e propria secessione dallo stato italiano, vi è la necessità di giustificare questo distacco dal resto dell’Italia non solo con motivi di ordine fiscale, ma con motivazioni di carattere etnico. Vi è in proposito una vera svolta ideologica: il movimento, a questo punto, si presenta come l’espressione di una etnia vessata per secoli da una dominazione straniera. La Lega mira insomma ad inserirsi nella grande tradizione di partiti politici a base regionale che rivendicano l’autonomia del loro territorio poiché esso è etnicamente e culturalmente diverso dai restanti territori dello Stato che li ingloba. La Padania diventa, nella visione leghista, comparabile al Quebec canadese, all’Irlanda del Nord o ai Paesi Baschi


    Un prontuario per la separazione

    Ma per portare avanti un discorso di separatismo su base etnica, è necessario prima convincere l’uditorio che gli abitanti del Nord Italia sono, appunto, appartenenti ad una etnia diversa da quelli del Centro Sud. Ed ecco che allora il richiamo alle antiche identità comunali del medioevo non basta più, dal momento che fin nei secoli più bui dell’evo medio, Milanesi e Palermitani (o per lo meno le élite dirigenti delle città in questione) comunque si sentivano tutti parte di una stessa cultura e cominciavano a riconoscersi in una lingua che, nata alla corte di Sicilia, era stata poi affinata dal toscano Dante e codificata dal veneziano Bembo. Il mito celtico dunque viene inventato in un momento in cui la Lega Nord per l’Indipendenza della Padania - questo il nome che il gruppo ha voluto assumere a Montecitorio - ha bisogno :

    •    Di un mito fondante che giustifichi il progetto separatista.
    •    Di una giustificazione etnica, non solo fiscale, del separatismo stesso.
    •    Di un mito che sia unificante anche di tutto il Nord, in un momento in cui i leghisti del Nord Est cominciano a voler a conquistare a loro volta una autonomia e si dimostrano insofferenti all'ipotesi di un centralismo ‘lombardo’ che si sostituisca a quello romano


     

    Ai piedi del grattacielo della regione, la Lega organizza unamostra di costumi medievali


    La scelta dunque dei Celti non è casuale, ma risponde invece ad una operazione di maquillage ideologico di notevole sapienza. I Celti e la revisione leghista della storia antica entrano in scena contemporaneamente all’annuncio della secessione. Per giustificare una scelta tanto drastica, infatti, non è più sufficiente tirare in ballo la Roma Ladrona della prima Repubblica. L’idea di separarsi da Roma, per il Nord viene presentata ormai come l’unica strada di salvezza. Roma non può essere sanata dai suoi difetti, né lo Stato unitario può essere ‘bonificato’ dalle infiltrazioni malavitose del Sud. Il malaffare romano non è un prodotto incidentale, ma un portato strutturale di Roma stessa, che fin dall’antichità ha vessato i pacifici popoli celtici del Nord. Li ha conquistati con la violenza, inglobati a forza, tassati e tartassati fin dalla notte dei tempi. Per liberarsi da questa secolare sanguisuga, i celtici popoli del Nord non possono più cercare un accordo pacifico, devono giungere alla secessione.


        
    II.    I Celti di Bossi : fra Braveheart, le Rune ed Asterix

    Da John Wayne a Mel Gibson

    L’immaginario leghista spesso a primo acchito a chi ci si avvicini dà l’impressione di un calderone, forse celtico, in cui si può trovare tutto ed il contrario di tutto. Nei pochi anni di ribalta politica, alle assemblee della Lega è capitato di vedere i gadget più inconsueti e di incrociare personaggi addobbati nelle fogge più inconsulte. Oltre al Carroccio e ad Alberto da Giussano, il mito americano contava non pochi cultori. L’America, del resto, era la grande patria del federalismo, nonché la terra nutrice di John Wayne, il cowboy cui molti leghisti si inspiravano fin nell’abbigliamento (qualcuno ricorda le cravatte alla texana dell’onorevole Francesco Speroni, ministro leghista delle Riforme Istituzionali nel governo Berlusconi?).

    Con il tramontare della scelta federalista anche i modelli di riferimento cambiano. Sono, curioso notarlo, sempre dei modelli legati al cinema, cosa non incomprensibile se si tiene conto che i leghisti, in genere, non mostrano una grande inclinazione per i libri, e ad una buona lettura preferiscono, Bossi in testa, un dvd. John Wayne, ad onta del suo berretto verde che si intonerebbe con le camicie del servizio d’ordine, entra presto nel dimenticatoio. Gli subentra Mel Gibson, regista ed interprete del film Braveheart (1995). La pellicola, storia di un ribelle scozzese che si batte contro il dominio inglese, folgora Umberto Bossi. Il Senatùr a più riprese si paragona in discorsi ed interviste a Gibson. Alle convention della Lega cominciano ad apparire figuranti con lunghi capelli scarmigliati, la faccia dipinta di blu, la cornamusa ed il kilt. Siamo all’anticamera del mito celtico.  

     

    Fondendo le varie “anime storiche” della Lega, da Alberico da Giussano a Bravehart, Renzo Martinelli realizza Barbarossa(2009, Rai Production)


    La nascita del mito celtico

    I Celti fanno capolino nella propaganda leghista proprio in occasione della grande manifestazione del 15 settembre 1996. L’evento, per stessa ammissione di rappresentanti leghisti, nasce all’inizio come una boutade polemica del Senatùr. Ma l’idea di ritrovarsi tutti assieme in riva al grande fiume conquista talmente la fantasia della base che le varie sezioni cominciano a darsi da fare per organizzare quello che i leghisti battezzano subito  il loro “Indipendence Day”. Il 5 agosto 1996 si ha una prova generale di secessione nelle acque liguri: Bossi fa immergere il fido Bobo Maroni nel golfo di S.Fruttuoso (GE). La Lega in questo momento è ancora tutta unita attorno al suo leader. Irene Pivetti, da sempre rappresentante dell’ala cattolica del movimento, non partecipa alla manifestazione di persona, ma si considera presente in spirito, anche se già ha espresso qualche riserva sull’operato dei colleghi. Bossi cita come modello per le future azioni secessioniste della Lega Ghandi e Martin Luther King. Ai Celti, padani o meno, nessun accenno.

    E’ soltanto a partire dal 10 agosto che si iniziano a trovare nei discorsi di Bossi i primi accenni ai Celti. Per la prima volta viene abbozzata quella che dovrebbe essere la futura bandiera dello stato padano, il cosiddetto “Sole delle Alpi”. Lo descrive in anteprima a Sebastiano Messina della Repubblica uno dei personaggi più folcloristici dello stato maggiore leghista, Erminio Boso, un trentino rotondo soprannominato, guarda caso, “Obelix”, come il guerriero celta di Uderzo: “Il tricolore non ci piace più, è una bandiera artificiale voluta dai massoni. Torniamo alla bandiera di S. Giorgio, quella bianca con la croce rossa, e aggiungiamo la ruota del Sole delle Alpi.”

    E’ curioso che l’introduzione di questo simbolo, che si richiama alla tradizione pagana ed i primi accenni ai Celti siano concomitanti con l’espulsione dal partito della cattolica Pivetti, datata proprio al 10 Agosto.

    Contemporaneamente alla messa a punto del mito celtico, la Lega si dichiara pronta a collaborazioni con i movimenti indipendentisti d’Europa: Alleanza Libera Europea, movimento che raggruppa i movimenti autonomisti, viene invitata ufficialmente a Venezia.

    La svolta paganeggiante di Bossi non sfugge alla Chiesa. Su Repubblica del 11/9/’96 appare un articolo non firmato, dal chiaro titolo “La Chiesa non perdona Umberto il pagano”, in cui Irene Pivetti definisce il suo ex leader : “adoratore pagano del Po....istigatore di una religiosità laica, naturalista e panteista”, mentre Roberto Cartocci, docente di metodologia delle scienze politiche e collaboratore della rivista cattolica Jesus, afferma che “sostanzialmente priva di avversari, la Lega ha trovato nella Chiesa l’unico ostacolo in grado di contrastarla.” La Pivetti ritornerà sull’argomento a manifestazione indipendentista conclusa, usando toni ancor più feroci: “Bossi sta trasformando la Lega in una setta religiosa. Non fa più un discorso politico ma pseudomistico: l’ampolla del dio Po, e tutte quelle sciocchezze, lui che si comporta come un capo religioso...una pagliacciata che non cancella la gravità dell’offesa ai cattolici”.

    Ma ormai i Celti bossiani sono sbarcati su Po, fra druidi, ampolle e telecamere.


    Asterix il Gallo

    La tre giorni leghista sulle rive del Po si svolge sotto gli occhi delle telecamere e, fortunatamente, senza incidenti di rilievo. Umberto Bossi preleva dalle fonti del fiume una ampolla di acqua, “sacra acqua del Po, acqua non mafiosa, acqua che è carne di tutti noi padani, acqua magica, cristallina e pura come l’acqua dei padani”

    Il recipiente degno di contenere tanta meraviglia è stato fatto soffiare appositamente a Murano, copiandolo da un vaso celtico esposto anni prima a Palazzo Grassi.

    L’apparire dei Celti nella propaganda leghista suscita immediatamente la curiosità dei giornalisti. Il 30 agosto, non appena comincia a prender forma il programma leghista per la giornata del 15 settembre e Celti e Dio Po entrano in scena, Roberto Bianchin intervista sulle pagine di Repubblica Andrea Vitali, collaboratore del medioevalista Franco Cardini, chiedendo lumi sui Celti.

    Lo studioso asserisce che la mitologia di Bossi risulta dal punto di vista simbolico assai efficace, riprendendo alcuni temi forti come “il mito dell’acqua portatrice di vita...Bossi ripete un rito antico, con l’acqua che purifica il territorio e lo separa da ciò che è impuro.... Eridano non è solo il nome del Po, ma anche del Rodano, tipico della cultura celtica, stava nel paese degli Iperborei, dove Apollo viveva sempre giovane.”

    Il giorno prima anche Giorgio Bocca, che la manifestazione leghista seguirà da inviato, aveva preso in esame la nuova ondata celtica del Bossi-pensiero. Secondo Bocca essa va considerata come un prodotto “della vasta ondata reazionaria, desiderio di medioevo, di antimodernismo, che hanno fatto un leader di uno “che non ha mai letto un libro”... uno che non sa nulla di nulla, né di storia, né di economia né di finanza”. Continua Bocca: “Non sarà un caso che il mondo dello spettacolo abbia quasi annullato la classicità, e produca decine di film su miti celtici e nibelungici. Non è un caso che il giullare Bossi sia passato dal Ruzzante ai riti ed ai simboli della tavola rotonda.  Bossi è un personaggio di grande fama e di piccola statura, ma ha un suo fiuto nel capire gli umori o i miasmi che salgono dal passato remoto...: un certo neopaganesimo, una dissacrazione pagana, celtica della Chiesa di Roma, che dà un fremito alle memorie del sangue dei dolmen e degli dei delle foreste. E’ una violenza di Brenno che può durare finché nessuno gli rompe in testa il suo spadone di cartapesta.”

    Il 15 Settembre, a preghiera all’Eridano avvenuta, Francesco Erbani interroga sull’argomento esperti nel tentativo di rintracciare fonti più precise per questa Celtic Renaissance padana.
    Franco Cardini si stupisce: “Mi meraviglia che abbiano adottato i Celti, la cui storia rimanda più all’idea di integrazione che non di secessione”. Enzo Pace, sociologo delle religioni, parla di un “pastone, assemblaggio di frammenti”: “Nella storia dei Celti non c’è solo l’epopea della ribellione a Roma. Si sofferma lì solo chi legge unicamente i fumetti di Asterix .” Pace, dopo aver rilevato che questo bagno di paganesimo avviene poco dopo l’espulsione della cattolica Pivetti, sottolinea il fatto che la Lega ha recuperato i Celti e non i Longobardi che “arrivati in Italia abbandonarono il retroterra europeo, quei rapporti oltre le Alpi che a Bossi servono e che i Celti assicurano.”


    Il paradosso della Chiesa italiana
     
    Come vedremo più avanti, probabilmente la molla che fa scattare il recupero celtico della Lega è leggermente diversa. In ogni caso già da questa prima panoramica ‘a caldo’ le fonti di Bossi sono chiare: agli osservatori i Celti leghisti si presentano come un assemblaggio di modelli tratti dal cinema e dai fumetti, che fa sorridere gli studiosi seri ed arrabbiare la Chiesa.

    Delle prese di posizione di Irene Pivetti, cattolicissima ex presidente della Camera, si è già detto. Ma poco tenera è anche la voce ufficiale della Chiesa. L’Osservatore Romano infatti bolla come eretica la secessione di Bossi e le sue idee neopagane. Contro Bossi si schierano apertamente il cardinal Martini, arcivescovo di Milano ed il cardinal Ruini.

    Gli ambienti cattolici non mancano di mettere in evidenza l’avversione della Lega verso il Vaticano.In questo blog vengono raccolte le espressioni  anticlericali più colorite delSenatùr

     

    Eugenio Scalfari nota il paradosso di una Chiesa che diviene così la sentinella dell’Unità d’Italia, quell’unità che lei stessa nell’Ottocento aveva tenacemente osteggiato: “La gerarchia ha fiutato puzza di razzismo...di ideologia anticristiana ed ha giudicato che toccava a lei intervenire per bloccare un movimento così radicalmente e pericolosamente antitetico alla dottrina... Se si predica la divinizzazione del fiume, e si disconosce la preghiera fondamentale della cattolicità..questo non riguarda più Cesare, ma Dio, perché ferisce al cuore la dottrina e la cristianità storicamente realizzata.”

    I Celti di Bossi quindi sarebbero nati da un incontro fortuito fra Asterix, Conan il Barbaro e la tendenza neopagana insita nella società moderna che la Chiesa combatte. Ma sarà proprio tutto qui?
     

    Celti, Camice verdi, Sole delle Alpi : la cultura esoterica e le radici del nazismo.

    Asterix, Conan il Barbaro, il diffuso interesse per il mondo delle leggende celtiche e germaniche non bastano da soli a chiarire perché la Lega, dovendosi scegliersi un mito fondante, ricorra proprio a quello celtico. Tale scelta lascia spiazzati, come abbiamo visto, autorevoli storici e sociologi, che la giustificano con la necessità di trovare un collante etnico che unifichi le popolazioni del nord Italia e le metta in relazione con quelle della Germania e del Nord Europa in generale. Ma i miti, persino quelli utilizzati nella propaganda politica, ben raramente vengono scelti sulla sola base di motivazioni utilitaristiche. I Celti di Bossi fin dal loro primo apparire non hanno mancato di far correre brividi di disagio lungo la schiena di molti. La Lega con la sua ampolla druidica, i riti pagani dell’acqua, le schiere di giovani camice verdi pronte a buttarsi nel fuoco per il loro leader carismatico hanno immediatamente richiamato alla memoria altre adunate, altre schiere di giovani, in camicia, però, bruna. L’ombra del Nazismo si è stesa sulla pianura Padana. C’è un collegamento diretto od intuibile fra la scelta di un certo apparato mitologico e la struttura che la Lega si sta dando? I collegamenti fra Lega e Nazismo sono solo il frutto di isterismo collettivo, voglia di demonizzazione dell’avversario o sono invece determinati dal fatto che entrambi i movimenti hanno una  qualche origine comune, una matrice che determina la presenza di talune affinità di comportamento ? E il recupero celtico non farà parte di questa matrice comune?

    Giorgio Bocca esclude ogni possibile rapporto di diretta filiazione o di contatto fra i due movimenti: “Come ideologia, come contesto storico, il paragone con il nazismo è privo di qualsiasi serietà. Ma sul piano del folklore, della cultura reazionaria, il paragone è pertinente e impressionante. Le parate della Lega, le feste della Lega sono simili per cattivo gusto, per l’improbabilità storica, per il cheap folkloristico a quelle della Germania del ‘36”.

    Il linguaggio, spesso violento della Lega e le immagini adoperate, che richiamano la propaganda politica delle dittature novecentesche, sono analizzati dal punto di vista linguistico in questo numero di “Storia culturale”

     

    Sostanzialmente concorde ma preoccupato anche Michele Serra: “Una crisi sociale ed economica grave ha fatto da innesco ad un inquietante movimento nazionalista... guidato da un classicissimo tipo paranoico che si crede davvero l’incarnazione dello Spirito del Nord....Quando avremo finito di ridere del dio Eridanio e di altre consimili fregnacce forse ci renderemo conto che i tedeschi, prima di Hitler, sapevano di essere ariani quanto i Lombardi ed i Veneti sanno di essere Celti. Pure, allora, ci hanno creduto a milioni.” Intervistato sul Corriere della Sera George Mosse dichiara: “La mitologia leghista messa in scena sul Po è quanto di più vicino ai rituali politici fascisti io abbia sentito dalla fine della guerra... Dal momento che non ha trovato un mito bell’e pronto (Bossi) si è messo a costruirlo. Il vecchio dio Po gli serve a farne nascere uno nuovo.” Dunque i richiami ai Celti di Bossi, il suo paragonare l’ampolla del Po al Santo Graal ricorderebbero la propaganda nazista, più ancora che quella fascista legata alla ripresa della romanità, per una pura convergenza casuale. Entrambi riprenderebbero l’immagine del medioevo come luogo barbarico:“Terra vergine di sentimenti elementari, al di fuori di ogni legge, dark age per eccellenza. Ma in quel buio si desidera vedere una luce “altra”. ..Esso è per vocazione a disposizione di ogni sogno di barbarie e di forza bruta trionfante, ed ecco perché viene sempre, da Wagner a Frazetta, sospettato di nazismo. E’ nazista ogni vagheggiamento di una forza che non sappia né leggere né scrivere.”

    Dunque il punto di contatto fra nazismo e Lega sarebbe proprio questo culto della forza fine a se stessa, contraria o sospettosa della cultura, ed i Celti risulterebbero scelti a caso tra i vari popoli barbari che avrebbero potuto candidarsi al ruolo di inspiratori.


    Nazisti inventati

    Ma andando un po’ più a fondo nello studio di testi propagandistici prodotti in seno alla Lega ci si rende conto che gli sviluppi simili di Lega e partito nazista potrebbero anche essere meno casuali di quanto sembra e la scelta dei Celti connessa ad un comune ambito di riferimento culturale, bazzicato sia dai nazisti degli anni ’30 sia da alcuni appartenenti alla Lega in periodi più recenti.

    Il 7 Ottobre ’96 viene pubblicato sul foglio Lega Nord - Padania indipendente n°37, organo ufficiale della Lega Nord, un articolo di Gilberto Oneto, ministro della Cultura nel Governo Sole della Padania, “Il Sole delle Alpi sorge sulla Padania”, apparso in parte già nel 1995 sul primo numero di Quaderni Padani, rivista che cura “lo studio e la promozione della cultura padanista, con testi sulla storia e sulle varie espressioni culturali dei popoli padano - alpini”.  

    Gilberto Oneto, Giuseppe Aloé e Davide Fiorini spiegano il significato del sole padano dalle pagine di“Quaderni Padani”

     

    L’articolo presenta il nuovo simbolo della bandiera padana, il Sole delle Alpi appunto, un cerchio in cui viene inscritto un fiore a sei petali “ radicato”, a detta di Oneto, “ nella memoria popolare ( ?) e famigliare (sic !) ad una intera comunità di popoli.” Il simbolo avrebbe radici celtiche “la Ruota solare o croce celtica” sarebbe “la personificazione mitologica del dio Lug... la cui immagine è all’origine di tutti i soli che sono comuni nell’iconografia dell’area alpina.” Il sole celtico avrebbe legami con la simbologia cristiana (Cristo ha l’epiteto di Sol Invictus) e collegato alle dottrine magiche che difendono dagli spiriti cattivi nonché alla simbologia alchemica. Non pago di ciò, Oneto continua : “Legato alla ruota è il significato di rotazione che accomuna una vastissima gamma di segni antichissimi, dal Triscele alla Svastica... risulta facile ed immediato il suo accostamento con il Chrismon, monogramma formato dalle iniziali del Cristo...questo somiglia e forse deriva dalla runa Hagal che significa contente il tutto” Oltre che il Chrismon, la cultura celtica avrebbe inventato anche il concetto di trinità, poi passato al cristianesimo.

    Fermiamoci qui. I concetti riportati nell’articolo, infatti, per quanto possano apparire farneticanti, non sono di certo nuovi. Essi sono tutti ripresi (assieme alla dea Sole parimenti citata nell’articolo in un passo non riportato) dall’antica tradizione ermetica iniziatica che, presente in Europa fin dal periodo rinascimentale, è riemersa con prepotenza durante gli ultimi anni dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento. In questo arco di anni fiorisce in Europa, specialmente in Inghilterra e Germania, una pletora “di associazioni e cenacoli la cui caratteristica consisteva nel ritenersi depositari di una antica sapienza primordiale che in alcune sue manifestazioni sfociava nell’esoterismo, nell’occultismo e nel magismo...Nel 1897 un gruppo di studenti liceali viennesi fonda una associazione che assumeva la denominazione Die Telyn, un’arpa i cui suoni paramagici esprimevano la creatività delle popolazioni celtiche del Galles meridionale” In questi cenacoli si incrociano ciarlatani, intellettuali, futuri arbitri della storia d’Europa, da Madame Blavansky a Yeats a Hitler. In essi Fabre d’Olivet, un famoso occultista, “elabora una staordinaria epopea, volta a dimostrare la prevalenza dei Celti su tutti gli altri popoli ed il valore esemplare dell’impero teocratico fondato dal druido Ram seimila anni prima di Cristo. Ram diviene Rama in India, Osiride in Egitto, Dioniso in Grecia.”

    In questa cultura i Celti, legati agli Iperborei ed al mito d’Atlantide, nonché alla leggenda del Santo Graal, sono una sorta di popolo eletto. Hitler e lo stato maggiore del nazismo si formano all’interno di questi circoli, così come Yeats, poeta vate dell’indipendenza della celtica Irlanda.

    Ora, è evidente che fra Bossi ed Hitler, la Lega ed il partito Nazionalsocialista non vi sono punti diretti di contatto. Tuttavia è interessante notare come i due movimenti, che presentano analogie di struttura e di organizzazione, abbiano alle spalle anche una cultura comune. Le rune a Hitler inspirarono il logo delle SS, a Bossi inspirano il simbolo del Sole delle Alpi, l’uno amava circondarsi di camice brune, l’altro verdi.

     

    Scene di lotta di classe a Ponte di Legno.

    Oltre ai legami con questo “sottofondo esoterico” che in qualche modo fu legato anche alla nascita della cultura nazista, l’articolo di Oneto risulta interessante per indagare altri aspetti della ricostruzione leghista dei Celti. Addirittura illuminante risulta a questo proposito un passaggio finale dello scritto: “Si può sicuramente affermare che si tratta del segno  (ossia: Il sole delle Alpi) più diffuso in Padania nella cultura subalterna, in quella cultura popolare contadina, montanara ed artigiana che è ancora radicata e ricca e che rappresenta il più forte e vitale tessuto connettivo del paese. Anche per questo non ci può essere simbolo migliore del Sol per rappresentare un paese che ha sempre mantenuto una unità culturale anche sotto secolari divisioni politiche e culture dominanti, spesso forestiere ed imposte con la forza o con l’inganno...ora questa terra sta faticosamente lottando per ritrovare la sua cultura più profonda e non può darsi un sigillo più antico, ricco e popolare di questo...ritorno eterno alla propria tradizione.”

    Ancor più duro era stato, qualche giorno prima, una altro articolo sempre uscito dalla penna del “ministro” Oneto, pubblicato nel primo numero del giornale Il Nord, quello diffuso, per intenderci, lungo il Po durante la tre giorni della secessione: “Esiste innanzitutto un’origine comune: la Padania è il paese dei Celti, dei Liguri e dei Veneti che la abitavano dall’inizio dei tempi... I nostri vecchi vivevano in una sorta di età dell’oro prima che sull’Appennino si affacciassero i Romani, con tutto il loro sopraffattorio parafernale...” quella celtica era una società modernissima, con una struttura democratica (i capi venivano eletti) e paritaria (donne e uomini, poveri e ricchi avevano gli stessi diritti)”, dove addirittura l’età dei Celti diviene un regno del Bengodi.

    Oneto stesso spiega : “Il Sol non ha mai avuto utilizzi nobili: esso non esiste nell’araldica nobiliare, e se ne trovano tracce solo insignificanti su manufatti aulici prodotti da culture dominanti. La sua diffusione è invece massiccia nell’arte e nell’iconografia popolare... con particolare rilevanza per tutti i manufatti che sono vitali per la vita della comunità.”


    L’Italia fondata dai Fenici

    La Lega dunque, questa Lega celtica, si presenta come un partito di lotta sociale, che difende gli interessi di un popolo antico, operoso e da sempre vessato da dominazioni straniere. E nella dominazione forestiera che con la forza o l’inganno ha tenuto sotto il suo potere gli sventurati Celti padani non occorre una gran fantasia nel riconoscere Roma, sede nell’antichità del violento impero centralista e in anni più recenti della partitocrazia malavitosa. Uno stato che, sono ancora parole dei Leghisti, è un mostro ignobile, pensato per stroncare i popoli celtici bonari ed operosi: “Ascoltatemi bene perché vi parlerò della morte del nostro popolo, il popolo celtico delle pianure del nord della Padania. Si chiama Stato Italiota - da un ceppo di Fenici. Stanziato nell’epoca preromana nell’attuale Calabria, dispregiato dagli Achei ed abiurato dai Romani, il più gelido dei mostri”.

    In questo ultimo passo (presentato come “Una libera reinterpretazione del Così parlò Zaratustra di Nietzche”), addirittura, lo stato italico non è neppure più un prodotto di Roma, ché almeno i Latini e gli Achei, in quanto indoeuropei di origine come i Celti, un po’ di rispetto se lo meriterebbero (sentenzia ispirato Erminio Boso: “Magari i veri Romani erano persone serie. Ma poi, le infiltrazioni...quando il sangue si tara...”) ma figlio bastardo di Fenici.

    I Celti Padani, vessati da Romani, appaiono quindi nell’immaginario leghista configurati come un popolo di artigiani, magari di piccoli imprenditori che si son fatti da soli, dediti al lavoro, dotati di senso pratico, alieni da ogni grillo per la testa, che non ha tempo da perdere con le fisime della burocrazia e degli intellettuali. Sono insomma la proiezione, in epoca antica, degli elettori tipo odierni della Lega, in lotta con i grandi industriali (la vera aristocrazia del nostro tempo) e con i burocrati ‘foresti’. Lo scontro fra gli interessi di classe si colora di sfumature epiche: non è più una questione di tasse, di riforme istituzionali e federaliste, ma una battaglia storica fra due blocchi contrapposti fin dalla notte dei tempi.


    Misteri del popolo

    Precedenti diretti di questa visione da scontro epico - etnico non si trovano nella propaganda di nessun partito politico del secondo dopoguerra. Di precedenti letterari se ne rintraccia solo uno, anche se non perfettamente coincidente, nel campo del romanzo d’appendice ottocentesco. Nel 1856 Eugéne Sue, il grande inventore del romanzo d’appendice ottocentesco, inizia I Misteri del Popolo, saga storica in cui una famiglia proletaria francese (i Lebrenn, che già dal nome appaiono legati al nome del capo celta Brenno) viene seguita attraverso i secoli e la secolare lotta con la famiglia antagonista dei Plouermel, via via feudatari, legittimisti, capitalisti.

    Sue scrive la saga dal punto di vista socialista, è amico di Mazzini che farà pubblicare I Misteri del Popolo in Svizzera. Tuttavia i suoi Celti proletari vessati rimangono l’unico precedente di questa lotta di classe etnica ambientata a Ponte di Legno, che la Lega ha inventato e diffonde. E’ impossibile determinare se Bossi o qualcuno del suo entourage abbia letto Sue. Di certo la trama e l’analisi delle implicazioni politiche del romanzo sono ricordate in un saggio di Umberto Eco, che ebbe negli anni ’70 vasto successo e circolazione. Non stupirebbe, a questo punto, se l’apparato della Lega, oltre ad Asterix, Conan il Barbaro,  Mel Gibson e l’esoterismo magico, comprendesse fra i suoi padri nobili anche il romanzo d’appendice dell’Ottocento.

     

    III.   La Lega, La Liga e l’assalto a S. Marco.

    Se una notte di maggio un campanile...

    Venezia, notte dell’8 maggio 1997. Al molo di S. Marco attracca un ferry boat proveniente dal Tronchetto. Ma a scendere dalla rampa, invece dei turisti d’uso, è un piccolo tanko militare che si dirige verso il campanile. I vigili in servizio sulla piazza pensano che si tratti della scena di un film. Invece a bordo vi sono otto componenti di un sedicente commando indipendentista, che si asserragliano nel campanile stesso. Il gruppetto tiene la città e l’Italia col fiato sospeso fino alla mattina successiva. Gli occupanti, che si proclamano combattenti della Serenissima, armati ed intenzionati a resistere, dichiarano al sindaco Massimo Cacciari, intervenuto per tentare una mediazione, di essere in attesa del loro ambasciatore ufficiale, Giuseppe Segato, in arrivo a Venezia da Borgoricco, paese in provincia di Padova.

    Segato non riesce ad arrivare in tempo, perché gli otto Serenissimi vengono arrestati grazie all’intervento delle squadre speciali dei Carabinieri. Lo stesso ‘ambasciatore’ viene incarcerato qualche giorno più tardi. Le indagini successive provano che gli otto sono responsabili anche dei proclami indipendentisti diramati attraverso la televisione alcune settimane prima nell’area di Venezia, attraverso un indebito inserimento nelle frequenze della Rai.

    L’assalto al campanile di san Marco non mancò di ottenere una certa risonanza internazionale, testimoniata da questo manga – Gunslinger Girl - che intrattenne i lettori giapponesi sul tanko e le imprese dei Serenissimi


    L’assalto al campanile scatena nell’opinione pubblica vive preoccupazioni, anche se poi, alla luce delle successive scoperte, più che un attentato eversivo sembra un atto inconsulto messo in piedi da un gruppetto di esagitati molto naïf. A rimanere spiazzato è, sulle prime, lo stesso Bossi. A caldo il Senatùr dichiara che gli otto del campanile sono addirittura degli agenti provocatori al soldo dei servizi segreti. Poi, sull’onda della simpatia istantanea che i Serenissimi suscitano nel popolo leghista, cambia parere e li qualifica come patrioti ed eroi. Gli altri partiti politici, dopo un momento di allarme in cui ci si interroga se nel Nordest non si rischi la nascita di nuove forme di terrorismo formato da schegge impazzite della Lega, presto dimenticano gli otto o si limitano a considerarli sempliciotti un po’ bacati.


    Segato, la storia veneta e l’elogio di Trasea Peto.

    Che i componenti del commando-ex operai del padovano che la sera si riunivano in conclavi clandestini per pianificare una fantomatica rinascita della antica Repubblica Veneta - non brillino per astuzia è un dato incontrovertibile. Più interessante invece è il preteso ambasciatore del gruppo, Giuseppe Segato, che dai Serenissimi veniva considerato l’ideologo ufficiale ed il punto di riferimento.

    Segato risulta infatti autore di un saggio stampato e diffuso a sue spese, intitolato Il mito dei Veneti dalle origini ai giorni nostri (Borgoricco, 1996). Il libro è molto utile per comprendere non solo da quale humus sia germinata la bislacca idea dell’assalto al Campanile, ma anche quale tipo di ricostruzione dell’antica storia veneta venga divulgata presso questi gruppuscoli indipendentisti da cui poi prendono origine o spunto, in molti casi, i movimenti politici più noti.

    Segato si propone di tracciare un disegno della storia veneta dalle origini ai giorni nostri. E che la sua prospettiva storica sia rigorosamente venetocentrica (e contrapposta totalmente alla ricostruzione ‘celtica’ della Lega di Bossi) è chiaro fin dalle prime pagine. I Veneti di Segato sono infatti il vero motore della storia d’Europa : “Da alcune aree veneto-indoeuropizzate nel 2° millennio emergeranno popoli quali i Celti, i Latini, i Germani ed i Veneti dell’alto adriatico” sentenzia infatti il nostro saggista a p.9, lasciando intendere che i Veneto-Indoeuropei sono il vero ed unico popolo originario, da cui discendono tutti gli altri.

    Il modello veneto è il motore della storia : (p.22) “Con il verificarsi della consistente penetrazione veneta centroeuropea vengono a fondersi gusti e stili di svariata provenienza nel nuovo aspetto etnico culturale della regione, che da allora ha preso una connotazione così marcata da essere in grado di reagire in modo dinamico e caratterizzante ad ogni impulso della storia.”

    E questo eden primigenio non è turbato da ingiustizie sociali che invece tormentano gli altri popoli coevi: “In contrasto con il mondo indoeuropeo e quanto andava maturando verso Sud (Roma) o verso Nord Ovest (Celti) non sorgeranno caste guerriere o sacerdotali o irreggimentazioni di tipo feudale e/o monarchico, con l’egemonia di una o poche famiglie, con il culto della personalità del singolo a scapito di quella della comunità, e aggressività verso l’esterno a gloria del singolo. (p.22)”  I Veneti di Segato spingono col loro esempio i popoli vicini sulla via della culturalizzazione. Gli Etruschi stessi si civilizzano grazie a questo vivificante contatto : “La civiltà etrusca annovera nella sua essenza anche importanti aspetti Veneto-indoeuropei... a partire dal VII secolo l’Etruria, molto ricca di risorse minerarie, si trova ad essere una regione molto fortunata, perché sotto lo stimolo di civiltà più progredite i suoi abitanti seppero sfruttarle (sic) dando il via ad attività artigianali e mercantili.”(p. 40).

    L’incontro con i Romani è pacifico perché i Romani riconoscono la relativa indipendenza del Veneto, che diviene uno dei centri economici dell’impero, ma ha in sé la forza morale di non abbandonarsi alla corruzione che invece distrugge Roma: “Con la pace augustea prese vita un gran dinamismo cui tutti parteciparono ed il Veneto in modo particolare.. il linguaggio equivoco della storiografia risorgimentale ha indotto a dedurre che la romanizzazione abbia comportato la fine dei Veneti...le alleate giungono a grandi destini, ma raggiunta la ricchezza seguono due vie diverse: Roma prende la via della dissoluzione morale, e cade nei tentacoli della corruzione, Padova conserva saldezza di principi e di costumi.” (p.53)

    Un esempio di questa saldezza di principi è proprio il senatore patavino Trasea Peto, che si batte contro la corruzione dell’Urbe, e di cui Segato tesse l’elogio: “Trasea assurge a simbolo dell’ideale repubblicano (connaturato nei Veneti) con la sua inflessibile opposizione alla vocazione assolutistica della monarchia.” (p.58).


    Sul cattivo uso di fonti buone

    Tralasciando gli svarioni storici, l’esame di questo testo è interessante per chiarire il tipo di mentalità che contraddistingue questo tentativo di storiografia politicizzata a fini secessionisti. Al contrario di quanto avviene con la propaganda leghista, che le radici e le tradizioni celtiche deve, come si è visto sopra, inventarle dal nulla, i Veneti possono contare su una forte identità culturale alle spalle. Quelle di Segato sono, in larga parte, farneticazioni estremistiche. Però le fonti da cui prende spunto per ricostruire la sua fantasiosa visione storica sono reali (effettivamente i Veneti ebbero rapporti buoni con gli Etruschi, pessimi con i Celti, ottimi con i Romani). Segato stesso cita come sue basi gli studi di esperti seri (ad esempio, lo storico Lorenzo Braccesi per la parte storica, e di Aldo Prosdocimi per quella linguistica), seppure travisandone completamente argomentazioni e conclusioni. Al contrario della propaganda leghista, che inventa di sana pianta, la propaganda ‘veneta’ può contare su un background storico alle sue spalle. Del resto che un afflato filologico pervadesse fin dall’inizio il movimento leghista veneto è testimoniato dal fatto che esso nasce ufficialmente per la prima volta come Società filologica veneta, e si prefigge come scopo lo studio, la diffusione del dialetto e della cultura veneta.

    Questa differenza di origini chiarisce anche in parte il perché della spaccatura avvenuta nel 1994 fra Liga Veneta e Lega Nord. Oltre al fattore economico (il Nordest è un’area troppo forte produttivamente per accontentarsi di accettare passivamente la politica decisa dai ‘padani’ di Milano, che spesso capisce poco quanto la vituperata Roma le esigenze reali del territorio), culturalmente il Veneto si trova ad avere una identità che, per quanto confusa, travisata e creata sulla base di fraintendimenti, è reale e diversa dalla vulgata ‘celtica’ che Bossi ha costruito. Non stupisce quindi che nelle farneticanti ricostruzioni ideologiche dei gruppi come quello di Segato, - che non sono ‘schegge impazzite’ della Lega, semmai piuttosto sono nuclei che preesistevano al fenomeno Lega e non si sono mai integrati con esso - la propaganda celtica di Bossi non trovi il minimo spazio, anzi l’immagine dei Veneti sia messa in antitesi con quella dei Celti pretesi precursori di Bossi. I Celti di Bossi, in questo caso, hanno fatto il calderone, ma il coperchio no.

     

    Celti in pensione: la svolta di Salvini

    Settembre 2010: nel Comune di Andro (BS) viene inaugurata una scuola elementare destinata ad assurgere immediatamente all'onore delle cronache nazionali. Nonostante si tratti di un edificio pubblico, il sindaco Oscar Lancini non solo l'ha voluta intitolare a Gianfranco Miglio, ideologo della Lega Nord, ma si è anche premurato di fornirla di arredi con sopra stampigliato ovunque il simbolo del Sole delle Alpi. Il logo campeggia sulle finestre, sui banchi, sui muri, dove per altro vi sono esposti anche dei crocefissi “imbullonati”, per evitare che qualcuno possa tentare di toglierli. «Li abbiamo fissati con le viti - precisa il sindaco Lancini - perché a nessuno venga in testa di toglierli o di coprirli. Viviamo in uno stato laico ma la nostra religione non si discute, neppure in una scuola frequentata per il 7% da immigrati».
    La vicenda finisce sui giornali, lo scandalo è enorme, e l'anno dopo il sindaco Lancini viene condannato dal tribunale alla rimozione di tutti i simboli, e al pagamento di 800 euro di spese legali, dopo un esposto presentato dalla CIGL per discriminazione sul luogo di lavoro.

    La trovata del sindaco leghista (per altro arrestato qualche tempo dopo perché coinvolto in una indagine su appalti truccati) rappresenta anche l'ultimo episodio in cui la simbologia celtica viene riproposta dal partito. Con il passare degli anni, infatti, i riferimenti al mito celtico ed alla simbologia pagana all'interno dello stesso partito vengono scemando: persino all'interno delle feste leghiste i gruppi di militanti in costume diventano sempre più sporadici e folkloristici, mentre i big del partito non fanno più riferimento nei loro discorsi alle origini celtiche del nord Italia.

    La Lega, infatti, ha deciso per un riposizionamento ideologico: da partito “identitario” del Nord e partito genericamente di centro-destra, che vuole pescare voti ed elettori al di là della loro provenienza geografica. In questo contesto, anche la propaganda è cambiata: da un lato si sottolinea non tanto la diversità etnica fra Italiani del Sud e del Nord, come nei primi tempi, ma fra Italiani ed immigrati. In questo già il sindaco di Andro si dimostra indicativo della svolta: sebbene legato all'immaginario del Sole delle Alpi, la sua politica era poi fortemente indirizzata contro gli stranieri, che nel paese erano stati esclusi con una delibera comunale (poi abrogata e considerata illegittima dal Tribunale) sia dai contributi per l'affitto della casa sia per il cosiddetto “bonus bebé”. Inoltre la svolta è chiara anche nella dichiarazione sui crocifissi: mentre nei primi anni la Lega si era messa in aperto conflitto con la Chiesa, vagheggiando quasi la fondazione di una “religione alternativa” che recuperasse i miti e i riti celtici, adesso invece i Leghisti si presentano come i guardiani della tradizione cattolica, pronti a difendere e ad imporre il crocifisso nei locali pubblici, in funzione antislamica.

    Il nuovo corso della Lega è sicuramente legato al passaggio della segreteria in mano a Matteo Salvini. Nonostante Salvini si sia speso in passato per difendere il simbolo del Sole della Alpila sua “fede” nei miti celtici è sempre apparsa piuttosto all'acqua di rose, ed il suo intento politico pare quello di affrancare la “sua” Lega da queste zavorre ideologiche celtiche, per trasformarla in un partito di destra sul modello di quello della Le Pen in Francia.

    La politica odierna mescola simboli appartenenti a tradizioni diverse; cambia la strategia, che ormai guarda a questioni che possono interessare l’intera popolazione italiana, come la polemica contro l’euro. Questo è l’invito al raduno di Pontida del 2014. L’immagine fa riferimento ai raduni nel “pratone” tradiziona. Il nuovo raduno si svolge in un’ “area feste”


    La Lega, insomma, si presenta come il partito della difesa della tradizione e della “razza” italiana: è antislamica, cristiana, aperta ad accogliere anche gli Italiani del Sud ed e di ogni origine geografica. I celti leghisti non sono dunque più funzionali alla sua propaganda, e infatti i simboli stessi fondanti della Lega delle origini (l'Alberto da Giussano ed il Sole delle Alpi) seppure restano nel simbolo elettorale passano in secondo piano rispetto al nome del segretario, Salvini, garante e propugnatore del “nuovo corso”.

    Gli intellettuali della prima ora, che avevano contribuito con i loro scritti a fondare il “mito celtico” risultano marginalizzati ed appannati. Gianfranco Miglio è morto, Gilberto Oneto molto marginalizzato. L'intero “circolo magico”, poi, che era cresciuto all'ombra di Bossi e che pareva coltivare interessi esoterici e collegati al mito celtico, è stato falcidiato dalle inchieste della magistratura e ha perso ogni ruolo chiave nel partito. Così i pacifici Celti leghisti sembrano destinati ad andare in pensione, silenziosamente, e ritirarsi negli antri di qualche museo, senza più occupare la ribalta della politica nazionale. Forse, per loro, è meglio così.

     La “festa dei Popoli Padani” del 2014 si svolge alla presenza degli uomini politici più importanti della Lega, da Bossi a Salvini, ma “La Padania”, che ne dà notizia, non fa cenno a Celti e a Tradizioni (termini peraltro scomparsi nell’indice analitico del giornale, insieme con Pontida e Alberto da Giussano), e illustra l’articolo con un Monviso, ritornato ad essere una semplice (e bella) montagna alpina
        

    Bibliografia

    ALFONSO, D. "Bossi al mare : la secessione nautica", in Repubblica 5/8/’96, p.10
    BIANCHIN, R. “ Così il dio Po divide i buoni dai cattivi” in Repubblica 30/8/’96, p. 8.
    BOCCA, G.”Solo adesso scopriamo che Bossi - Braveheart proviene dal medioevo” in Espresso, 29/8/’96, p.7
    BRUSADELLI, S : “I  Veneti alla prima crociata”, in Panorama del 14 / 11/ 1996, p. 65-66.
    ERBANI, F. “ I riti presi dai Celti tra storia ed Asterix” , da Repubblica, 15/9/’96, p. 7
    DEL FRATE, C -SPATOLA, G., La scuola appaltata alla Lega, http://www.corriere.it/cronache/10_settembre_12/scuola-appaltata-lega_2f751f96-be42-11df-b1cc-00144f02aabe.shtml
    FERTILLO, D. “Ricorda i Miti del totalitarismo” in Corriere della Sera, 15/9/’96, p. 3.
    FUCILLO, M. :”Da Ghandi a Feltrinelli”, in Repubblica 10/8/’96, p. 1
    GALLI, G. : Hitler ed il Nazismo magico, Milano, 1989
    LAGO, G. :“ Roma dorme, Bossi corre”, in Repubblica 9/8/’96, p. 1
    MESSINA, S. : “ Auto, barche ed aerei, così la Lega prepara la marcia sul Po”, in Repubblica 10/8/’96, p.2.
    ONETO, G. in Il Nord- padania Indipendente n.1 . Cfr Stella G. A. Dio Po, cit. pp. 211-214
    PASSALACQUA, G. “Pronta la nuova Lega”, in Repubblica 30/ 8/ ’96, p. 8
    PASSALACQUA, G. “Senatùr leader unico ma il partito lega ha mille facce” in Repubblica, 31/8/’96 p.8
    SCALFARI,  E. “I nuovi pagani del Po” in Repubblica, 15/9/’96, p.1
    SERRA, M. in Unità, 14/9/’96,p.1
    STELLA, G. .A., Dio Po, Baldini e Castoldi, Milano, 1996
    STELLA, G..A. “ l’acqua è la carne di noi padani”, in Corriere della Sera, 14/9/’96, p..3

  • Il fondamentalismo e l’Islam in Europa. Definizione e diffusione del fenomeno, con qualche riflessione didattica.

    Una ricerca sul fondamentalismo europeo

    Ruud Koopmans, ricercatore nel Dipartimento “Migration, Integration, Transnationalization” del Social Science Center di Berlino"  il più grande centro di ricerca sociale europeo non legato a una specifica università (presieduto fino a poco tempo fa dall’eminente storico tedesco Jürgen Kocka), è autore di una ricerca sul fondamentalismo islamico, presentata al XX convegno degli “Europeanists”, tenutosi ad Amsterdam nel 2013. Si tratta di uno studio di qualche anno fa, beninteso, svoltosi nei paesi nordeuropei. Ne riporto ampi stralci, con qualche mia osservazione, perché può essere utile per discutere, anche fra di noi in Italia, di questo fenomeno sulla base di dati e non solo di opinioni. Al termine, propongo alcune mie riflessioni didattiche. L’originaleè Fundamentalism and out-group hostility. Muslim immigrants and Christian natives in Western Europe .

     

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    Fig. 1 Nonostante le convinzioni diffuse, il fondamentalismo non è affatto un movimento esclusivamente musulmano, come illustra magnificamente questa vignetta di David Klein 

     


    La definizione dei dizionari

    Originariamente, è un termine che si riferisce a movimenti religiosi protestanti americani del principio del XX secolo. Secondo i dizionari inglesi (Merriam-Webster e Oxford) è un movimento, o una forma di religione, specialmente musulmana o cristiana, che spinge per una interpretazione letterale dei testi sacri. Tuttavia, si tratta di un termine che solo di recente è entrato nell’uso comune, come testimonia la mia edizione Zanichelli, del 1987, che, semplicemente, non ne fa cenno.
    Oggi, però, si può consultare con frutto la voce della Treccani, particolarmente analitica. Essa parte con la descrizione del fondamentalismo cristiano, informandoci che costituì la base religiosa dell’apartheid sudafricano, passa a parlare di quello ebraico, spiegandone i rapporti mutevoli col sionismo (al principio i fondamentalisti erano in forte opposizione al ritorno in Israele; cambiarono decisamente atteggiamento nel secondo dopoguerra). Poi fa la lunga storia del fondamentalismo islamico, collegato alla reazione araba contro l’ascesa occidentale della fine del XVIII secolo, al movimento salafita della seconda metà del XIX secolo, e, infine, ai fatti più recenti e noti.

     

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    Fig. 2 La “nube di parole” di Fundamentalism, nella rielaborazione artistica di Radiantskies 

     

    La definizione scientifica

    Secondo Altemayer e Hunsberger, Fondamentalismo è “credere che esiste un’insieme di insegnamenti religiosi che contengono chiaramente le verità fondamentali, primarie, intrinseche, essenziali, sull’umanità e la divinità; che a queste verità essenziali si oppongono forze del male che devono essere vigorosamente combattute; che devono essere seguite oggigiorno in accordo con le pratiche fondamentali e immodificabili del passato; e che coloro che credono e seguono questi insegnamenti fondamentali hanno uno speciale rapporto con la divinità.” (Religious fundamentalism scale, 1992, p. 92, tradotto qui )
    Il fondamentalismo non va confuso con l’ortodossia. Secondo Bryan Laythe (et al), questa consiste piuttosto in un particolare modo di considerare le credenze religiose, e va specificata religione per religione (Religious Fundamentalismas a Predictor of Prejudice: A Two-Component Model, in “Journal for the Scientific Studies of Religion”, 2002 ).
    Infine, ma conviene ricordarlo soprattutto ai nostri giorni, Koopmans sottolinea che il fondamentalismo non va assolutamente connesso con la legittimazione della violenza, per difendere o diffondere la propria credenza religiosa. Ne consegue che dobbiamo tenere per ferma la distinzione tra fondamentalismo, terrorismo e jihadismo. Infatti, gli studi sui profili dei terroristi, di cui oggi disponiamo, mostrano giovani in origine poco religiosi, che passano attraverso le fasi della radicalizzazione (rifiuto della cultura occidentale) e della conversione, prima di approdare alla decisione della lotta armata (il jihadismo) e del terrorismo suicida: così Francesco Cascini, un magistrato impegnato nel contrasto al terrorismo, disegna il percorso di formazione dei terroristi musulmani (Il fenomeno del proselitismo in carcere con riferimento ai detenuti stranieri di culto islamico,  pp. 24 ss)

     

    Le ricerche sul fondamentalismo


    Koopmans ci spiega che, fino agli anni ’90 del secolo scorso, gli studiosi si sono occupati principalmente del fondamentalismo cristiano. Hanno messo in evidenza come questo fenomeno sia una sorta di risposta alla secolarizzazione e alla modernizzazione, spesso associata con la marginalizzazione socioeconomica dei soggetti. Questo fenomeno, hanno spiegato ancora questi studi, è in forte connessione con l’autoritarismo dei gruppi di destra, e il rifiuto dei “diversi”, come gli omosessuali e i membri di altre religioni.
    In paragone, il fondamentalismo islamico, aggiunge Koopmans, è stato poco studiato. Ci si è concentrati sulla violenza e le organizzazioni musulmane fondamentaliste. Ma non si è affrontato in generale il rapporto fra gli individui, specialmente gli immigrati e questo aspetto religioso. Inoltre, mancano studi empirici che confrontino il fenomeno musulmano con le altre religioni.

     

    La ricerca in Europa


    La ricerca della quale parliamo si è svolta presso immigrati turchi e marocchini in Germania, Francia, Olanda, Belgio, Austria e Svezia, di prima e seconda generazione. I risultati sono stati comparati con le credenze professate dai “nativi cristiani” e anche confrontati con i dati relativi a coloro che vivono in Marocco e in Turchia. Il metodo seguito è stato quello delle interviste telefoniche. Gli intervistati sono stati 9000. Le domande miravano a stabilire il grado di adesione ad alcune convinzioni, considerate rivelatrici di un atteggiamento fondamentalista. Ecco una prima serie di item:


    - Il credente (musulmano o cristiano) vuole tornare alle radici della propria religione
    - Ritiene che esista una sola interpretazione del proprio libro sacro
    - Sostiene che le leggi contenute nel libro sacro siano superiori a quelle in vigore nello stato in cui vive
    Il confronto tra cristiani e musulmani mostra una forte incidenza di tali convinzioni presso questi ultimi. Ad esempio: oltre il 70% dei musulmani è convinto che esista una sola interpretazione della propria fede e oltre il 60% ritiene che le leggi religiose debbano prevalere su quelle civili (presso i cristiani le percentuali sono contenute tra il 20 e il 10%).

     

    L’ostilità fra gruppi

    Un secondo indizio di fondamentalismo è quello dell’ostilità nei confronti dei diversi. Ecco le affermazioni chiave:


    - Non voglio avere un amico omosessuale
    - Non si può avere fiducia negli ebrei
    - I musulmani (o i cristiani) vogliono distruggere la mia religione (cristiana o musulmana)


    Anche in questo caso, le risposte non lasciano dubbi. Oltre il 60% dei musulmani è intollerante verso gli omosessuali, il 45 % pensa che non ci si può fidare degli ebrei e che i cristiani nutrano la ferma determinazione di distruggere l’Islam. Fra i cristiani le percentuali sono del 13% (omosessuali), del 9% (ebrei) e del 23 % (musulmani).

     

    Possibili spiegazioni


    Gli alti livelli di fondamentalismo e di ostilità verso gli altri gruppi, riscontrati presso i credenti islamici in occidente, sono oggetto di diverse spiegazioni. Koopmans le elenca e le valuta così:


    - Marginalizzazione e esclusione sociale? No. L’educazione e il lavoro spiegano qualche variazione tra cristiani e musulmani, ma non la grande differenza riscontrata nella ricerca.

    - Alienazione e stress da acculturazione? No. I livelli di fondamentalismo sono molto simili a quelli riscontrati nelle terre di origine degli immigrati

    - Minori diritti religiosi dei musulmani in Europa occidentale? No. Non vi è una chiara correlazione tra le politiche di inclusione e il fondamentalismo.

    - Caratteristiche insite della religione islamica? No. Molti musulmani sunniti o alauiti hanno idee simili alla religione cristiana e non nutrono ostilità verso altri gruppi. E’ vero, però, che questi non sono considerati dai loro correligionari come “buoni musulmani”.

     

    La discussione


    Come tutte le ricerche, anche questa ha sollevato un dibattito e delle obiezioni. Si è criticato, ad esempio, il metodo delle interviste telefoniche, il concetto di “nativi cristiani”, il fatto che il campione sia limitato agli immigrati marocchini e turchi, laddove il mondo musulmano è molto più vasto e variegato. Si sono citate, infine, altre ricerche (in Spagna e in Germania) dalle quali risulta che i musulmani sono meno “occidentalofobi”, di quanto non appaia dallo studio di Ruud Koopmans .
    Più dettagliate, le critiche di Martjins  riguardano – fra l’altro - il campione selezionato e lo stesso questionario utilizzato. Ma non mettono in dubbio un elemento: quello della vastità del fenomeno presso il mondo musulmano e la sua ostilità diffusa verso “diversi” e “occidentali”. Martjins, però, è un antropologo. Il suo punto di vista si discosta da quello dello “studioso della teologia”, come definisce Koopmans. Egli parte – dice – esattamente da dove il collega termina, per interrogarsi sul modo con il quale le persone mettono in pratica le loro credenze, come le vivono e come le interpretano nella vita quotidiana. Sono persone, dice ancora, che vivono in un ambiente (il nord Europa) che ha conosciuto perfettamente il razzismo e l’odio verso gli altri e che può testimoniare quanto – nonostante gli sforzi di oltre mezzo secolo di “pedagogia pubblica” – sia difficile liberarsene.
    A corroborare questo argomento, si ricorda – sempre nella discussione in rete delle tesi di Koopmans - la grande diffusione, negli Usa, di alcune convinzioni, tipiche del fondamentalismo. Per esempio, la fede nell’interpretazione letterale del testo sacro ha, presso gli americani cristiani, una dimensione pari a quella musulmana americana, e comparabile a quella rilevata in Europa da Koopmans nell’ambiente musulmano.
    Bisogna infine tenere presente, questa è la conclusione di Koopmans, che i musulmani sono una minoranza in Europa, mentre, se considerata nei numeri assoluti, la diffusione di atteggiamenti fondamentalisti presso i nativi europei è impressionante. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, chiude il ricercatore citando una massima apprezzata da entrambe le religioni.

     

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    Fig. 3 Il grafico del Manos (un istituto che studia gli orientamenti dei musulmani in America, collegato con la Stanford University) mostra come la convinzione sulla letteralità della parola divina (uno degli indizi del fondamentalismo) sia abbastanza equamente ripartita fra cristiani e musulmani americani.

     

    Revisione di un’agenda interculturale datata?


    Il quadro mi sembra avere due elementi certi: il fondamentalismo, fenomeno già non marginale nel mondo occidentale, oggi si manifesta in modo imponente nelle minoranze musulmane. All’interno dell’universo fondamentalista operano soggetti politici e culturali - a volte ben strutturati, a volte informali - che, come sperimentiamo quotidianamente, inondano la rete di messaggi, di conoscenze sul passato e sulla contemporaneità, e lavorano attivamente sia nel campo sociale che in quello politico.
    Questi elementi dovrebbero essere sufficienti per ridiscutere una pedagogia interculturale che, elaborata (almeno per quanto riguarda l’Italia) nelle fasi aurorali del movimento migratorio attuale, era centrata principalmente sul problema dell’accoglienza (un tema, evidentemente, che resta comunque all’ordine del giorno). Il nostro compito, lo sintetizza così Brunetto Salvarani, parlando della scuola di fronte all’Islam, è quello di elaborare una pedagogia “mite, accogliente e narrativa” (L’Islam nella scuola, a cura di I. Siggillino, Franco Angeli 1999, p. 18). Le linee di questa pedagogia erano ben tracciate (e in qualche modo consolidate sulla falsariga della più generale “pedagogia dell’incontro”): analisi dei manuali; ricerca di buone pratiche; valorizzazione della cultura musulmana, e così via.
    La manchevolezza di questo approccio può essere visto in quel “riduttivismo culturalista”, secondo il quale, ciascuno di “noi-altri” è definito da una “cultura”. Di qui segue l’idea che il compito della scuola consista nel salvaguardare “le culture” e favorire la loro pacifica coesistenza. Un errore frutto, in buona sostanza, di quell’abuso del concetto di “cultura”, denunciato – per quanto riguarda il nostro paese - da Marco Aime (Eccessi di cultura, Einaudi 2004 ).
    Questo assunto culturalista è riduttivo, perché non tiene conto del fatto che il “fondamentalismo” propone un approccio al mondo (moderno e passato) che non è un “aspetto di una cultura popolare”, ma, al contrario è un prodotto intellettuale sofisticato, elaborato esplicitamente da soggetti di varia appartenenza etnica o religiosa. Non tiene conto del fatto che il compito della scuola è quello di avvicinare i giovani al sapere disciplinare, formarli attraverso il suo apprendimento e di fornire qualche strumento per contrastare, di conseguenza, le tante pseudoscienze circolanti. Non tiene conto del fatto che, al centro della riflessione didattica dovremmo sempre mettere il sapere che circola a scuola - i contenuti, gli obiettivi e le pratiche del suo insegnamento - e chiederci se questo ci mette in condizione di rielaborare i problemi che affrontiamo in classe.

     

    Antidoti storici

     

    L’esaltazione del ritorno alle origini o della interpretazione letterale del testo, per ricavare un esempio dai temi fondamentalisti, tirano in ballo alcune questioni disciplinari centrali nella storia e nelle discipline umanistiche: il mito delle origini, come denunciato da Marc Bloch; oppure l’intero armamentario che la filologia ha approntato, da un paio di secoli a questa parte, relativo ai temi della tradizione e interpretazione dei testi. La “vittimizzazione” è un nervo scoperto nei rapporti fra stati e comunità odierni, non solo un cavallo di battaglia del fondamentalismo. In passato ha fornito la trama narrativa di tutti i racconti nazionali, che, quindi, possono diventare una palestra formidabile nella quale esercitare le proprie capacità critiche.


    Il racconto fondamentalista islamico non chiama in causa solo approcci e modalità di ragionamento. Esso rende sensibili alcuni fatti del passato - dalla conquista islamica, alle crociate, allo schiavismo, alla colonizzazione e alla decolonizzazione - che quindi vanno ripresi e aggiornati, storiograficamente come didatticamente. Uno degli snodi della ricostruzione fondamentalista della storia consiste nello spettacolare declino del mondo islamico, dopo i fasti dell’età medievale. “Colpa dell’Occidente!”, è il mantra islamista. E’ proprio così? la ricerca storica attuale fornisce risposte ben differenti (per queste rimando aLa Méditerranée. Une histoire à partager, a c. di M. Hassani Idrissi, Bayard 2013).
    Infine, il fondamentalismo, essendo un fenomeno esploso negli ultimi decenni, obbligherebbe il docente che voglia aiutare gli allievi a capirne qualcosa, a considerare attentamente il fenomeno della globalizzazione.

     

    Eurocentrismo e storie autocentrate


    Nella vulgata interculturale, uno dei temi più accorsati è quello della critica all’eurocentrismo. Certamente, i manuali e i programmi occidentali non sono esenti da questo vizio scientifico. Ma un buon ragionamento interculturale non può non tenere conto del fatto che la visione “autocentrata” del passato è ormai comune ad ogni stato, e ne pervade, quindi, i discorsi politici e le ricostruzioni storiche. Questo fa sì che non esista un allievo straniero “storicamente ingenuo”, potenziale vittima, perciò, del nostro eurocentrismo. E’, anche lui, più o meno consapevolmente, un portatore di arabo-indo-sino-slavo-afro-centrismo. Osservato da questa angolazione, il fondamentalismo è una ricostruzione ossessivamente autocentrata del mondo.
    Se questa è la situazione generale, la prassi del “mettere a confronto le culture” mostra tutta la sua inutilità. Non si ottiene un buon risultato sommando o smussando visioni che sono in principio sbagliate. Occorre superarle sia attivando un approccio critico nei confronti del proprio sguardo sul mondo, sia proponendo una visione del passato nella quale tutti i soggetti si possano riconoscere come attori, quale che sia la loro origine familiare. Un passato mondiale, dunque. Il “noi”, oggi, è “presente e percepibile alla scala mondiale”, come dichiararono Nicole Lautier e Henri Moniot, due punti di riferimento della ricerca storico didattica internazionale, chiudendo un seminario sull’ “incontro fra le storie”, tenutosi a Rabat al principio di questo secolo (Penser “nous”, penser “les autres”, in Rencontre de l’Histoire et rencontre de l’autre. L’enseignement de l’histoire comme dialogue interculturel, a cura di M. Hassani Idrissi, in « Horizons universitaires », 2007, p. 416).
    In sostanza: nell’officina storico-umanistica ritroviamo una notevole quantità di “antidoti” al modo fondamentalista di conoscere e di raccontare il mondo. Oggi, potremmo dire, è venuto il momento di farli funzionare.

     

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    Fig. 4 I cattivi rapporti tra fondamentalismo e evoluzionismo

     

    L’evoluzione è una spia


    Tuttavia, non tutto si risolve nel dialogo fra allievi e professori, proprio perché non ci troviamo di fronte a “culture”, ma ad organizzazioni sociali. Lo intuiamo osservando la questione dell’evoluzione. Da noi se ne parla in terza elementare e in prima superiore. Occorrerebbe riprenderla alla fine del percorso formativo, dal momento che è diventata un tema sensibile, al confine tra scienza, filosofia, storia e religioni. I fondamentalisti di ogni colore, infatti, fanno della lotta al darwinismo un tratto distintivo. Il fondamentalismo islamico non è da meno. Lo testimoniano i numerosi libri dello scrittore turco Harun Yahya, le cui costosissime traduzioni italiane sono ben sostenute dalle comunità islamiche nazionali. In uno di questi - L’inganno dell’evoluzione. Il fallimento scientifico del darwinismo e del suo bagaglio ideologico, che nella sua bibliografia “scientifica” si rifà interamente a lavori fondamentalisti cristiani, trovo l’affermazione che gli attentatori delle Twin Towers sono dei darwinisti, perché i veri “ebrei, cristiani e musulmani” non possono essere terroristi (p. 15).
    In realtà, questo tema deve essere già stato affrontato nelle classi italiane, tanto è vero che qualche allievo musulmano chiede aiuto in rete. La rispostadel sito islamico mette in luce un risvolto della questione, che la pedagogia tradizionale non avrebbe mai sospettato, e che ci suggerisce ancora una volta di rivedere l’approccio interculturale sotto una luce “non culturalista”: “Personalmente ti consiglierei di evitare di fare lunghe polemiche con i tuoi insegnanti su questo argomento: studiala come una semplice teoria che i kuffar [gli infedeli] hanno inventato per cercare di darsi una spiegazione dell'esistenza della vita e di tutto ciò che esiste intorno a noi, e quando ti interrogano al riguardo riporta semplicemente quella che è la loro teoria; tra qualche anno non ne sentirai più parlare (a scuola, visto che il programma va' avanti; e magari nemmeno altrove)! :-)”

  • Il ghetto di Varsavia. Giornata di studio

     

    Lunedì 3 novembre la città di Ferrara sarà sede di un’importante giornata di studio aperta a tutta la cittadinanza sul ghetto di Varsavia, frutto della collaborazione avviata già da alcuni anni tra l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e il Mémorial de la Shoah di Parigi.

    Una lectio magistralis (lunedì 3 novembre ore 17.00 presso l'aula magna della Facoltà di economia) del Prof. Georges Bensoussan, storico e responsabile editoriale del Mémorial de la Shoah  di Parigi e la proiezione (lunedì 3 novembre ore 21- Sala Boldini) di “A Film Unfinished” della regista israeliana Yael Hersonski, rarissimo documentario con filmati di epoca nazista proprio sul ghetto,  saranno i momenti cardine di questa iniziativa (si veda il programma nei dettagli), realizzata grazie alla partecipazione del MEIS – Museo Nazionale dell’ebraismo italiano, con cui di recente la prestigiosa istituzione francese ha siglato un accordo di cooperazione culturale, con l’Istituto di Storia contemporanea di Ferrara e con il  Pitigliani Kolno’a Festival di Roma, e con il patrocinio di Comune, Provincia,  Università degli Studi e  Comunità Ebraica di Ferrara

  • Il Sessantotto. Un laboratorio didattico su un anno spartiacque*

    di Antonio Brusa

    PARTE PRIMA: L’EVENTO E LA MEMORIA

    1. Manifesti di un tempo passato

    I manifesti del Sessantotto erano stampati in stretta economia o disegnati, uno per uno, in stanze piene di fumo, dove si ragionava della rivoluzione del giorno dopo. Oggi sono venduti all’asta, a prezzi a volte esorbitanti. Quelli introvabili sono conservati nelle biblioteche, come i quattordici manifesti dai quali Marie Jamet ricava alcuni motivi di quella rivolta: la lotta contro l’autorità, per una informazione alternativa e dunque contro la censura, a sostegno della classe operaia, contro il conformismo.

    Ne riproduco solo due, prodotti dall’Atélier Populaire, un gruppo di artisti che si propose come “designer collettivo delle masse” (alcuni di loro fecero poi una bella carriera), perché ci mostrano - in solo un colpo d’occhio - la lontananza e la vicinanza di quell’evento. La fabbrica novecentesca col pugno alzato è l’icona di una lotta che, a dispetto dello slogan, “non è più continuata”. Invece, il “ritorno alla normalità”, contro il quale inneggia il secondo manifesto, non cesserà mai di attrarre adolescenti ansiosi di apparire anticonformisti, per quanto non sappiano nulla di quel periodo lontano, di quasi mezzo secolo fa, quando i loro coetanei si ribellarono.

    Questa duplicità va ricordata sia nell’analisi storico-didattica di quell’evento (scopo della prima parte di questo lavoro), sia nella elaborazione di proposte didattiche, che vedremo in seguito, nella seconda parte.

    2. «Perché questi studenti protestano?»

    Quella rivolta sorprese la politica e i mezzi di informazione del tempo. Il «Time Magazine», il settimanale più letto in America, quasi non sa che pesci pigliare, al principio di quel fatidico maggio del ’68. Fa sua la domanda che tutti si ponevano: «Perché questi studenti protestano?». Cerca di metterla sul paterno: «Certe volte questi studenti fanno perdere la pazienza anche ai santi», ma rivela tutto il suo disorientamento quando l’unico paragone che riesce a trovare risale a un lontanissimo giorno in cui sant’Agostino si incavolò di brutto con i suoi studenti, licenziosi e scostumati, e se ne andò sbattendo la porta (Per i pignoli, si trattava del 382 d.C: in «Time», 3 maggio 1968). Certo, quel maggio fu bollente nelle università di tutto il mondo. Con buona pace di sant’Agostino, la storia ci suggerisce un solo parallelo: il 1848. Con la differenza, di non poco conto, che le rivolte giovanili erano state, allora, soltanto europee.

    "DaLes révoltes des jeunes, Paris, 1968."/>

    4. Una rivolta mondiale

    Il Manuale degli anni ’60 (The Routledge Handbook of the Global Sixties. Between Protest and Nation Building, a cura di Chen Jan et al., N.Y, 2018, d’ora in poi RH) ci aiuta a inquadrare la dimensione spazio-temporale del fenomeno. Per quanto riguarda il tempo, la rivolta giovanile rappresenta l’emersione di un ribollire che covava da parecchio e non si esaurì col ’68. Gli studiosi americani tendono a far coincidere questo periodo di turbamenti con la guerra del Vietnam (dal 1954 al 1975, dunque). Quelli europei sono più sfumati, perché inseriscono l’evento nel quadro dei cambiamenti antropologici e culturali che caratterizzano “i lunghi anni ’60”. Analogamente, anche la dimensione spaziale pone dei problemi. Infatti, se guardiamo la cartina, vediamo che la rivolta tocca tutti i continenti. Certo, si addensa in Europa e negli Usa: ma dal sud Africa, all’Australia, all’Argentina, non ci sono università che restarono tranquille. Se, tuttavia, guardiamo ai motivi della rivolta, vediamo che questi non sempre coincidono. Tanto che, quando i giovani di tutto il mondo tentarono di costruire una piattaforma rivendicativa comune, la cosa fallì miseramente. Ciò che chiedevano gli studenti italiani contrastava con le attese dei loro coetanei cecoslovacchi, africani o statunitensi, come ci si rese conto nei grandi raduni giovanili che si tennero – proprio in quell’anno - a Lubiana, a Sofia e a New York (Martin Klimke e Mary Nolan, The Globalization of the Sixties, Introduzione a RH, p. 3).

    5. Ribelli diversi

    Ci si ribella ovunque e nello stesso tempo, ma per motivi diversi. Certamente: è difficile accettare l’idea di una simultaneità che coinvolga individui e gruppi sociali per motivi dissimili tra di loro. Tuttavia, è un fatto che quelle convergenze non furono trovate dai ragazzi di allora, e nemmeno sono state individuate dagli storici nei tempi successivi. Questa è la conclusione di Marcello Flores e Giovanni Gozzini nella loro recente opera di sintesi: 1968. Un anno spartiacque (Il Mulino, 2018: d’ora in poi FG). I due storici smontano, una per una, le diverse “cause unificanti” proposte dalla storiografia. Il raggiungimento dell’età adulta da parte della “baby boom generation” è una delle spiegazioni più diffuse. Secondo questa teoria, la fine della Seconda guerra mondiale rappresentò un momento di forte ripresa della natalità. Quei bambini del dopoguerra corrispondono ai giovani che animano le manifestazioni sessantottesche. Tuttavia, questa fascia giovanile, demograficamente preponderante, caratterizzò molte nazioni occidentali, ma non quelle dell’allora “terzo mondo”. Forse, continuano i due storici, l’aspetto più interessante è che questi giovani, ovunque essi fossero, facevano parte delle prime leve popolari di studenti universitari. Erano colti, leggevano, facevano progetti. Probabilmente percepivano con acutezza il contrasto fra ciò che studiavano e la realtà; fra le loro aspettative e la risposta che le Università riuscivano a dare. Erano progressisti, dunque? Non sempre. In Africa, per esempio, provenivano dai ceti più facoltosi, avversi alle riforme socialisteggianti che si tentavano nell’euforia di un’indipendenza appena raggiunta; e se la generazione del baby boom americana ed europea scendeva nelle piazze contro la guerra, quella israeliana “che non conosceva gli orrori della guerra, era pronta a difendere con le armi la propria nazione” (FG, p. 93). Laici e anticonformisti in molte nazioni occidentali, in altrettante parti del mondo musulmano molti giovani vedevano nella Sharià l’alternativa alle ideologie, che giudicavano oppressive, del comunismo e del capitalismo.

    6. Tanti inneschi per una sola rivolta

    Questa diversità è messa ben in evidenza dalle cause immediate, quelle che scatenarono materialmente le sommosse. Le riassumo in questo specchietto (FG, p. 18).

    CittàMotivo della protesta
    Praga Mancanza di riscaldamento
    New York Richiesta di apertura degli alloggi alle studentesse
    Parigi Richiesta di apertura degli alloggi alle studentesse
    Rio de Janeiro Condizioni fatiscenti degli alloggiamenti
    Città del Messico Presenza dell'esercito nell'Università
    Dacca Imposizione dell'urdu a una popolazione che parla il bengalese
    Chennay Imposizione dell’hindi a una popolazione che parla il tamil
    Ankara Divieto alle studentesse di portare il velo
    Addis Abeba Sfilata di moda occidentalizzante
    Cairo Esami di ammissione all'Università troppo difficili

    Sono motivi disparati. Qualcuno di questi ci appare un pretesto decisamente secondario. Nonostante ciò, i partecipanti a queste manifestazioni ebbero tutti la sensazione di condividere un’unica, fondamentale, rivoluzione.

    7. L’azione dei media

    Qui entrano in gioco i media. Il 10 luglio del 1962 era stato lanciato dalla base di Cape Canaveral il satellite Telstar. Permetteva di vedere in Europa una partita di football americano, e a tutto il mondo di guardare in diretta Kennedy che parlava ai suoi. Nasceva la mondovisione. I media introducevano nella storia umana una pratica della simultaneità, come nessuno mai l’aveva vissuta prima. Il Sessantotto rese contemporanei i giovani del mondo.

    “I media rappresentano una condizione indispensabile per la trasformazione delle agitazioni locali”. Senza di loro, queste “non avrebbero risonanza e il loro esempio non potrebbe diffondersi. Di più: i media, trasmettendo motivi e forme delle agitazioni, contribuiscono a dare nuovi significati ai contesti e a trasformare le identità personali e collettive” (FG, p. 17).

    I media giocano una parte rilevante, inoltre, in quell’ “effetto farfalla” con il quale Flores e Gozzini cercano di spiegare perché una quota così piccola di giovani (appena il 4% della loro generazione partecipò ai movimenti) ebbe una risonanza così estesa.

    8. Testimoni privilegiati e generazioni invisibili

    I media, dunque, non si limitano a comunicare i fatti, ma intervengono sull’evoluzione stessa del movimento. Contribuiscono, ancora, alla creazione dei “testimoni privilegiati”, quei personaggi che guidarono i movimenti o ne furono elementi di spicco e che, nei tempi successivi, attraverso la loro storia personale e le loro varie testimonianze, ne hanno costruito l’interpretazione egemone: quella di una baby generation che, occupate le posizioni apicali della società, ha spesso disinvoltamente messo da parte i valori per i quali combatté. Scrive impietosamente Julie Pagis sulle pagine di «Libération»: “La memoria del Maggio ’68 è stata largamente costruita (confiscata) da un pugno di porta-parola autoproclamati, che hanno fatto della loro vicenda singolare e non rappresentativa la storia di una sedicente generazione del ‘68”. Julie Pagis è una ricercatrice che ha cercato ostinatamente i “giovani comuni”, quelli che affollavano le assemblee e riempivano le strade, ma che non erano mai saliti sul palco, dalla parte del microfono. Li ha intervistati, ne ha ricostruito le biografie, la loro partecipazione al movimento, la loro condizione attuale.

    Copertina del libro di Julie Pagis

    Ha scoperto che la “generazione sessantottina”, così come è raccontata nel discorso comune, semplicemente non esiste. I giovani che parteciparono al movimento erano classificabili in un buon numero profili, dalle istanze sociali e politiche disomogenee. Ha smontato altri stereotipi, come quelli sulla “ribellione contro i padri” o sulla “distruzione della famiglia”. Al contrario – scrive la studiosa – quei giovani sono la prova del radicamento delle tradizioni. I figli di comunisti, per esempio, si focalizzano sulla questione algerina, allora un cavallo di battaglia della sinistra francese; quelli provenienti da famiglie cattoliche, invece, si aprono a un terzomondismo quasi missionario. Pur con queste differenze, vissero tutti quel maggio del ‘68 come un trionfo: avevano messo il governo con le spalle al muro. Addirittura lo avevano fatto cadere. Ma per tutti, a giugno, arrivò il naufragio (pavé). Nelle nuove elezioni, De Gaulle vinse con una maggioranza mai vista nella storia repubblicana.

    Per quanto limitato a una nazione, il caso francese potrebbe essere paradigmatico anche di altre realtà. Quei giovani persero, ma la loro vita cambiò. Tutti, ad esempio, diventati genitori, mandarono i loro figli in scuole che ritenevano innovative; tutti conservarono nel tempo una forte sensibilità ai problemi sociali. «Non essendo riusciti a cambiare la vita – conclude Julie Pagis – hanno cambiato la loro vita».

    Potremmo dire che la “generazione del ’68” nacque, paradossalmente, sulle ceneri del movimento.

    9. Il lungo post-sessantotto

    Se non ha prodotto i cambiamenti desiderati, l’azione simultanea di centinaia di migliaia di giovani non è stata effimera, né ha riguardato unicamente la loro vita personale.

    Gustavo Prado Alvarez (Pitin) <br>Le galline hanno il loro numero <br>(riferito all’obbiettivo cubano di produrre <br>60 milioni di uova ogni anno). <br>«Palante», 11 Giugno 1964.

    Ha inciso profondamente nella storia umana, lasciando tracce e cicatrici che sono ancora oggi visibili. Di queste siamo abituati a mettere in evidenza solo quelle che hanno scavato nella storia italiana: l’autunno caldo del 1969; le rivolte sociali e le conseguenti riforme (lo statuto dei lavoratori e il diritto di famiglia fra questi); la stagione triste del terrorismo; una sorta di cronicizzazione del ribellismo studentesco che si perpetuò, sempre più stancamente, nel rito delle occupazioni autunnali delle scuole. E, per restare nelle scuole italiane, il Sessantotto è diventato per alcuni commentatori il male assoluto, a partire dal quale la scuola ha intrapreso il suo percorso di discesa agli inferi (Per tutti, si veda E. Galli della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio, 2019)

    Ma se allarghiamo lo sguardo, osserveremo lasciti mondiali non secondari. Una parte di questi ebbe origine dai “paesi non allineati”, un gruppo di stati che, è bene tenerlo presente, operò quando il pianeta era spartito in due blocchi. Eman Morsi, studiosa di letteratura e culture postcoloniali, ne tratta un aspetto insolito, quello dei cambiamenti di dieta in Egitto e Cuba. È un caso solo apparentemente marginale, perché – in realtà – mette in evidenza il modo con il quale negli anni ’60 si concepiva il rapporto fra sviluppo e sottosviluppo. Cuba e Egitto, che vogliono incamminarsi lungo la strada dello sviluppo, promuovono – tra altre riforme sociali ed economiche – l’introduzione di proteine animali nell’alimentazione popolare. Come nei paesi ricchi. Perciò, mettono in atto un grande programma per incrementare la produzione di uova e di polli, e spingere la popolazione a nutrirsene (un’abitudine alimentare che, fra l’altro, è rimasta ed è attualmente interpretata come “tradizionale”).

    Come molti in quegli anni, Castro e Nasser pensano che la storia corra lungo un binario, e che il loro compito (la loro “rivoluzione”) consista nel raggiungere e superare chi sta davanti. Riflettono speranze e modi di vedere – tipici degli anni ’60 – che si trasformarono in disillusioni cocenti nel decennio successivo (E. Morsi, Let them eat Meat, in RH, pp. 565 ss).

    Othman Bahjat, Ecco che succede con Nasser!<br> Lui vuole che la gente mangi noi al posto delle fave!<br> 1963. Nasser Foundation.

    9. Messaggi al mondo

    Il Terzo mondo non parla solo a se stesso, ma lancia messaggi che ebbero una qualche influenza sia sul ’68, sia sulla storia culturale e politica mondiale successiva. Ne scrive Robert Young, studiando la conferenza dell’Avana del gennaio del 1966 (Disseminating the Tricontinental, in RH pp. 517 ss). In quell’occasione, si ritrovarono a Cuba i rappresentanti di 82 di stati, molti dei quali non allineati, tutti anti-occidentali. Vi parteciparono protagonisti delle rivoluzioni sociali e politiche del tempo, come Malcom X, Salvador Allende, Amilcar Cabral. Vi sarebbe andato Ben Barka, se non lo avessero fatto sparire i servizi segreti. Molti di questi avrebbero partecipato poi alla conferenza dell’anno successivo a Londra, con Herbert Marcuse, Régis Debray, Paul Sweezy, Allen Ginzborg, Angela Davis: l’intera biblioteca, potremmo dire, divorata dai ragazzi del ’68. «Questa grande umanità ha detto “Basta!” e ha cominciato a camminare». Questo fu lo slogan del Convegno dell’Avana, che, con l’altro, coniato per l’occasione da Che Guevara, su «due, tre, molti Vietnam», fu tra i più ripetuti nelle assemblee giovanili.

    Quarta di copertina della brochure di preparazione alla Conferenza Tricontinentale, La Avana 1966.

    A quella conferenza presero parte decine e decine di disegnatori, di artisti e di fotografi. Dalla foto di Che Guevara nelle vesti del “Guerrillero heroico”, scattata da Alberto Korda, alle rielaborazioni psichedeliche di volti di politici e cantanti, di film – come Yellow Submarine (1968) - ai poster e alle raffigurazioni stilizzate e astratte («il nostro nemico è l’imperialismo, non l’arte astratta» aveva detto Fidel Castro, mandando in frantumi la tradizione del realismo socialista) troviamo in quel convegno, e nelle pagine del «Magazine Tricontinental» che se ne fece portavoce, l’intero alfabeto iconico che innervò il Sessantotto, ma non morì con questo, perché fu adottato dalle culture alternative e pop fino ai giorni nostri.

    "“IlJohn Birch fu un missionario battista, reclutato dall’esercito americano e ucciso dai soldati comunisti cinesi nel 1945.
    La John Birch Society è un gruppo di estrema destra americano, ancora oggi attivo, considerato fra i grandi elettori di Trump."/>

    11. Globalizzazione alternativa e Liberazione

    La fortuna del “Tricontinental Style” è testimoniata dall’icona di Barak Obama, disegnata da Shepard Fayrey per la campagna elettorale del 2008, «la più efficace illustrazione politica dopo Uncle Sam Wants You», scrive Anne Garland Mayer. “Il nostro poster è un arma di guerra”, aveva gridato Olivio Martìnez, rivoluzionario e disegnatore del «Tricontinental Magazine». A distanza di mezzo secolo, Anne Garland Mayer ci avverte che quest’arma non ha mai cessato di essere usata. Essa è la spia della sopravvivenza di quelle idee dentro i nuovi movimenti del XXI secolo, come Occupy Wall Street, e della formazione della nuova coscienza di un “Sud Globale” (From the Tricontinental to Global South. Race. Radicalism and transnational Solidarity, Duke U.P., 2018, prefazione e capitolo V).

    – Shepard Fayrey, Poster “Obama Hope”, disegnato per la campagna presidenziale del 2008<br> – Alfredo Rostgaard-Alberto Korda, 1970 (da un’asta di Katawiki)

    L’idea di liberazione, che gli anni ’60 ci consegnano, resta per noi un modello assoluto di radicalismo utopico. La riassumo con le parole di Christian Connery: «Attraverso gli anni ’60, la liberazione è diventata l’obiettivo e l’unità di misura dell’attività radicale e rivoluzionaria. Liberazione nazionale, liberazione psichica, liberazione sessuale, liberazione economica, liberazione sociale, liberazione del desiderio: gli anni ’60 promisero la liberazione dai capi, dai padroni della terra, dai genitori, dagli uomini, dai colonizzatori, dalla società, la liberazione della propria personalità, dai sistemi – capitalisti, fascisti e del socialismo di stato – o dal regime del genere, della sessualità o della razza» (Ch. Connery, The Dialectics of Liberation. The Global 1960s and the Present, in HR, p. 575).


    * Questo articolo è lo sviluppo della prima parte della lezione che ho tenuto nel corso per insegnanti ticinesi a Bellinzona, dedicato appunto all’ “anno della rivolta”. Nella seconda parte, presenterò diverse proposte didattiche, a partire dal tentativo di considerare questo evento come un “laboratorio periodizzante”, nel quale un insegnante può esercitare i propri allievi a lavorare sulle temporalità, sui sistemi complessi, sui documenti, sulla capacità di discutere, sulle fonti orali ecc.

     

  • Il Sessantotto. Un laboratorio su un anno spartiacque (parte seconda)

    di Antonio Brusa

    Nove laboratori sulla contestualizzazione storica*

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    A. IL LABORATORIO DELLA CONTESTUALIZZAZIONE

    In questo gruppo di laboratori inserisco quelle attività che mirano ad analizzare il fatto storico “Sessantotto”. Sono laboratori che vorrei definire “top-down”. Vanno dall’insegnante all’allievo in un percorso abbastanza tradizionale. L’insegnante prepara i materiali (lezioni, schemi) e pone agli allievi delle questioni da risolvere.

    Il campo di indagine è quello della contestualizzazione storica. Lo organizzo in due parti. La prima si occupa della complessità. Comprende cinque attività che, a partire da un modello storiografico, cercheranno di collegare l’“evento Sessantotto” a un contesto più ampio. La seconda si occupa del tempo, con quattro proposte, attraverso le quali questo evento verrà inserito in contesti temporali diversi. Questo articolo, quindi, andrebbe inteso come una sorta di antologia dalla quale un insegnante può prelevare l’attività che pensa più utile alla sua classe. A questa antologia ne seguirà una seconda, in un prossimo intervento su HL, dedicata a un tipo di laboratorio diverso (e forse più consueto fra gli insegnanti esperti), cioè il laboratorio con i documenti. Si tratta di progetti che riguardano la secondaria superiore. Per quella inferiore andranno adattati. In ogni caso, questi progetti vanno considerati dei “semilavorati”, che il docente dovrà completare, con consegne o scalette di conversazione più dettagliate, con riferimenti al manuale, eventuali altri materiali.

    Ma torniamo ai laboratori sulla contestualizzazione dell’“evento Sessantotto”. Braudel scriveva che un evento assomiglia a un vulcano dal quale si sprigionano tutti i tempi della storia. Ciò vale, in particolare, quando l’evento è talmente pesante da “dividere i tempi”. “Un evento spartiacque”, si è detto del Sessantotto. Difatti, è esattamente a metà strada fra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine della Guerra fredda. Questa espressione, usata da James Chapman, è stata ripresa da Marcello Flores e Giovanni Gozzini nel loro 1968. Un anno spartiacque (Il Mulino 2018, d’ora in poi FG: qui è possibile leggerlo), uno studio dal quale ricavo i materiali per questi laboratori.

    Da questo punto di vista, questo lavoro vorrebbe (anche) suggerire agli insegnanti un metodo di lettura dei testi storici forse diverso dal solito. Un insegnante legge un libro di storia con la segreta speranza di poterlo raccontare in classe, magari trovare qualche spunto oppure, nell’insegnamento superiore, per inserirlo in un contesto critico. Si potrebbe, secondo me, aggiungere a queste modalità di lettura senz’altro meritorie, quelle del “libro-palestra-per-pensare”. Un buon libro di storia, per me, è esattamente come una palestra, all’interno della quale si trovano macchine per fare esercizi di tipo diverso. Quindi lo leggo non solo per trovare fatti o problemi da poter raccontare; ma anche per trovare meccanismi da smontare e rimontare, con i quali giocare e inventare esercizi: cose che, fuori di metafora, non sono altro che idee, ragionamenti e storie.

    B. IL LABORATORIO DELLA COMPLESSITÀ

    b1.Un modello complesso

    Chapman utilizzava il termine watershed/spartiacque discutendo il “libro più innovativo sul Sessantotto”: 1968. The World Transformed (a cura di Carole Fink, Philipp Gassert e Detlef Junker, N.Y., Cambridge University Press, 1998). Lo utilizzo per costruire una parte del modello per lo studio di quel periodo.

    Nella loro Introduzione (pp. 1-30), Fink, Gassert e Junker espongono gli elementi fondamentali di un modello basato sul fatto che le rivolte del Sessantotto furono mondiali. Quindi inseriscono i movimenti giovanili in un quadro contrassegnato da una doppia crisi planetaria, politica ed economica.

    Modello per lo studio del Sessantotto

    La prima – la crisi politica - si era manifestata in due eventi: l’offensiva del Tet (gennaio-marzo 1968), scatenata dalle truppe nord vietnamite e dai viet-cong contro gli Usa, nella quale questi ultimi, pur vincendo militarmente, avevano capito che avrebbero perso una guerra, per la prima volta nel corso del XX secolo. A questo smacco occidentale faceva da contraltare, nel mondo comunista, la Primavera di Praga (gennaio-agosto 1968) che, in modo analogo, opponeva alla vittoria militare dell’Urss la sua evidente sconfitta sul piano del consenso fra i cittadini del Patto di Varsavia. La seconda - la crisi economica - era iniziata dopo la Guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967), che aveva messo in dubbio la facilità con la quale, fino ad allora, l’Occidente si era approvvigionato di petrolio, e si era ingigantita a causa della crisi economica americana, che allora fu giudicata “la peggiore dalla Grande Depressione”.

    Queste due crisi indebolirono strutturalmente il blocco Est/Ovest, in particolare – per ciò che riguarda questo lavoro - dal punto di vista della capacità degli Usa e dell’Urss di esercitare il controllo sulle popolazioni, e dunque sui manifestanti. Questa debolezza si manifestò su due livelli. Quello ideologico, dell’attrattività dei sistemi capitalisti e comunisti quali modelli di vita; e quello del controllo sociale, che, di fatto, consentì una relativa tolleranza nei confronti di manifestazioni, che in tempi precedenti si sarebbero ostacolate con più efficacia. Mettendo insieme a questi elementi le questioni relative ai giovani (viste nella prima parte di questo lavoro, già pubblicata su HL), otteniamo questo modello per lo studio del Sessantotto. Si compone di due parti. Quella “soggettiva”, riguardante gli studenti (con i caratteri in blu), e quella “oggettiva”, riguardante la situazione mondiale (caratteri in nero).

    b2. Come si lavora con un modello

    a. Chiamerei la prima attività “Mettere le parole”. Uno schema (o come ormai è d’uso nelle scuole, una “mappa concettuale”) viene solitamente impiegato alla fine di un percorso di studi, come sintesi. Resta lì, quasi la foto degli apprendimenti realizzati. In realtà, se noi chiediamo agli allievi di verbalizzare lo schema, ne troveremo non pochi in difficoltà. Per prevenirla, suggerirei di far leggere loro questi brevi brani, tratti dal libro di Flores e Gozzini, per cercare in quali caselle dello schema andrebbero inseriti, e per spiegare come un certo elemento dello schema influisce sugli altri (quindi, riempiendo gli spazi con i punti interrogativi).

    I mass media sono il primo fattore del modello, il secondo è la fase nuova che gli eventi del 1968 aprono nella guerra fredda, il terzo è la “rete informale di comunicazione e collaborazione” che lega fra loro gli attivisti di ogni parte del mondo e infine la quarta è il collante ideologico che tiene insieme questi ultimi. Perché i protagonisti credevano in una causa comune. Lottarono in opposizione allo status quo interno e internazionale a Est e Ovest, a Nord e a Sud, in appoggio alla libertà, alla giustizia e alla autoderminazione (FG, p. 33).

    Il tempo della guerra fredda è un tempo “artificialmente” globalizzato dalle necessità di controllo delle due superpotenze. Questa storicamente inedita forma della politica internazionale stabilisce il quadro di riferimento unitario entro cui gli studenti si muovono. E li predispone di fatto al contagio, all’imitazione, alla risonanza, in qualsiasi continente si trovino (Ibidem).

    La simultaneità globale del Sessantotto si spiega con fattori soggettivi (accesso di massa alle università) ma anche con fattori oggettivi (il prepotente potere di Usa e Urss insieme ai segni della loro crisi in Vietnam e Cecoslovacchia) (Ibidem).

    I media rappresentano una condizione indispensabile per la trasformazione delle agitazioni locali. Senza di loro, queste non avrebbero risonanza e il loro esempio non potrebbe diffondersi. Di più: i media, trasmettendo motivi e forme delle agitazioni, contribuiscono a dare nuovi significati ai contesti e a trasformare le identità personali e collettive (FG, p. 17).

    b. Chiamerei una seconda attività “Arricchire il modello”. Questo modello non spiega tutto, come – del resto - qualsiasi modello scientifico. Il suo scopo è quello di mettere a fuoco un elemento fondamentale del Sessantotto: il fatto che fu una rivolta globale e simultanea. Bene: all’inizio della prima parte di questo articolo (qui su HL), si riportano i temi della rivolta, quali furono propagandati nei manifesti dei giovani parigini:

    • La lotta contro l’autorità
    • Per una informazione alternativa e contro la censura
    • A sostegno della classe operaia
    • Contro il conformismo

    Possiamo integrarli nel modello? Quali caselle, quali connessioni nuove dobbiamo immaginare? Il modello mette in relazione gli aspetti soggettivi della rivolta (in blu) con quelli oggettivi (in nero). Possiamo fare in modo che questo modello rappresenti e spieghi meglio gli aspetti soggettivi? Oppure il modello deve essere radicalmente cambiato, e ne dobbiamo immaginare uno nuovo?

    Per quanto riguarda gli aspetti soggettivi, non si può non ricordare che tra i portati fondamentali del Sessantotto vi sono la rivoluzione sessuale e la nascita del femminismo attuale (se ne parlerà in seguito). Flores e Gozzini ne danno ampie notizie (pp. 36-40). Quali modifiche ci suggerisce, quindi, la storia di genere?

    c. Una terza attività potrebbe essere “Mettere le date”. Un modello astrae dai fatti tendenze e problemi. Per questo, normalmente, non ha delle date. Ma possiamo introdurle. La crisi politica, per esempio, si riferisce alla guerra del Vietnam e alla Primavera di Praga (e a tanti altri eventi). Chiediamo agli allievi di cercarli sul manuale e di inserirli nello schema usando gli opportuni grafismi.

    Questa ricerca porta a interrogarci sull’insieme dei fatti che sono collegabili al nostro modello (quando scoppia la Guerra del Vietnam e per quali motivi? quando i media diventano globali? Quando e perché si forma una Boom Generation? Per quali motivi scoppia la crisi economica del 1968? C’entra in questa Bretton Wood? E così via). Alla fine, avrete bisogno di un poster abbastanza grande e complicato, nel quale potrete sintetizzare buona parte della storia dopo il ’45.

    d. Regionalizzare il modello. Il Sessantotto, per quanto globale e simultaneo, fu diverso nei singoli paesi. Questo suggerisce altre modifiche al modello, in modo da rappresentare:

    • La situazione italiana e francese nella quale avvenne una saldatura fra movimento studentesco e movimento operaio. Per quali motivi questa si verificò? E in che modo la possiamo integrare nel modello? (per questo punto e il successivo possono bastare le notizie riportate in un buon manuale).
    • La situazione dell’Europa Orientale. Qui, l’obiettivo principale dei giovani è quello della critica al modello comunista e la liberazione dal dominio dell’Urss.
    • La situazione Medio-orientale. La medesima rivolta prende quattro direzioni diverse. In Egitto è, da una parte, al Nakba (la Catastrofe): il desiderio di rivincita dopo la sconfitta nella Guerra dei Sei giorni, un movimento laico, socialisteggiante e modernizzante; dall’altra è la diffusione dei Fratelli Musulmani, uno dei primi movimenti fondamentalisti musulmani. In Palestina è Karameh (Dignità), dal nome di un paesino i cui abitanti risposero con le armi all’invasione israeliana. Da questo movimento nasce Al Fatah, il gruppo del quale Yasser Arafat divenne leader. In Israele fu un movimento di sostegno alla guerra dei Sei giorni, da parte di tanti giovani che si riconoscevano in Moshe Dayan, ministro della difesa (per informazioni più particolareggiate su questo punto: FG, pp. 91-98).

    e. Valutare l’evento. “Spartiacque” è un termine metaforico. Indica che quell’evento fa in modo che il tempo successivo sia diverso da quello precedente. Ma quanto sono profondi questi cambiamenti? Autorizzano, per esempio, a pensare che ci fu una rivoluzione? Occorre fare attenzione quando usiamo questo concetto, dal momento che è cambiato parecchio dai tempi di Robespierre e di Marx. Secondo Jack Goldstone, ci stiamo avviando verso una “quarta generazione di teorie rivoluzionarie”, nella quale gli studiosi preferiscono una definizione molto più estesa di quella ottocentesca. Possiamo discutere in classe, perciò, se il “Sessantotto” (i cui protagonisti agli occhi dei classici probabilmente non avrebbero passato l’esame del buon rivoluzionario) vi sia compreso, e cioè se sia un complesso di movimenti nel quale troviamo:

    • Delle spinte a cambiare il regime politico, basate su visioni antagonistiche di un ordine giusto.
    • Un notevole livello di mobilitazione di massa, formale o informale.
    • Delle spinte a forzare il cambiamento attraverso azioni non istituzionalizzate, come dimostrazioni di massa, proteste, scioperi o violenze.

    (FG, p. 35. Dall’originale J.A. Goldstone, Toward a Fourth Generation of Revolutionary theory, in «Annual Review of Political Science», 2001, p. 141 ss. si ricaveranno altri argomenti per una discussione epistemologico-storiografica).

    f. Raccontare l’evento. Questa non è un’attività separata, ma va considerata una conclusione, direi obbligata, di ciascuna delle attività descritte sopra (le quali, lo ricordo ancora, sono a scelta del docente). Il racconto, infatti, è lo strumento principale della memorizzazione. Serve per “racchiudere” il percorso svolto in un testo che abbia un senso e che, in un certo modo, ti puoi portare via. Occorre, quindi, trasformare la mappa dei concetti, che rappresenta in sincrono la complessità di un evento, in una sequenza nella quale i vari elementi dello schema siano disposti uno dopo l’altro. Possiamo seguire una strategia cronologica o una logica. Nel primo caso, estraiamo dallo schema i fatti, li datiamo (se il caso, approssimativamente) e poi li disponiamo su un cronogramma, che funzionerà da scaletta per il testo. Nel secondo, assegniamo un numero ad ogni elemento dello schema, partendo dal punto che giudichiamo più adatto, e costruiamo il racconto basandoci sulla sequenza numerica.

    C. IL LABORATORIO DEL TEMPO

    c1. Anche il tempo storico è complesso

    La critica che si oppone a questo genere di modelli è che non curano un aspetto particolarmente caro agli storici: il tempo. In effetti, occorrerebbe mettere in moto la complessità rappresentata, osservare come si è formata, quali erano gli antecedenti e quali gli sviluppi successivi. Anche in questo caso, Braudel aveva ragione, quando ci ha spiegato che una “società nel tempo” è, in realtà, un insieme di parti che mutano e, man mano, interagiscono fra di loro. Un intrico mobile che mette in seria difficoltà le nostre capacità di comprensione. Come sempre in didattica (ma non solo), dobbiamo semplificare. Prendiamo il modello base di analisi di un evento e applichiamolo al Sessantotto.

    Modello generale di un evento

    Ogni evento è frutto di un complesso di antecedenti che assumono una certa configurazione nel tempo x nel quale si verifica. Per rappresentare questo processo, collochiamo lungo l’asse temporale alcuni aspetti sui quali il Sessantotto incide in maniera molto evidente. Scelgo, sempre dal lavoro di Flores e Gozzini, tre aspetti:

    • la questione del terrorismo
    • la questione femminile
    • il problema dei diritti umani

    Sull’asse verticale, invece, segniamo quegli aspetti “spaziali” che riguardano lo scenario mondiale alla fine degli anni ’60: la globalizzazione, i mass media, la decolonizzazione e l’indebolimento dei blocchi, perché caratterizzano il Sessantotto come momento globale e simultaneo di rivolte giovanili. L’ideale sarebbe studiare come i fattori temporali coevolvono e, a un certo momento, reagiscono con quelli spaziali. La semplificazione didattica ci consiglia di prendere un fattore per volta, e vedere che rapporto ha con il Sessantotto. La scoperta finale sarà che, ogni volta che cambiamo i fattori, cambieranno anche tempi e periodizzazione.

    c2. Il tempo del terrorismo

    Siamo abituati ad una periodizzazione del terrorismo riferita allo spazio nazionale, accostato semmai a quello tedesco. In questo spazio ristretto, il Sessantotto diventa il punto di origine di una sequenza mortifera che ha insanguinato la nazione e che aveva come un unico precedente, non sempre ricordato, gli attentati separatisti dell’Alto Adige. Se allarghiamo lo sguardo, invece, vediamo che il terrorismo non è affatto una realtà originale italiana, ma ha una lunga storia internazionale alla quale il fenomeno italiano si collega. Ecco il cronogramma.

    Cronogramma del terrorismo

    Questa cronologia allontana il rischio di far coincidere l’immagine del Sessantotto italiano con quella del terrorismo e, per estensione, ci salvaguarda dallo stereotipo di un’altra “specificità italiana”, quegli “anni di piombo” che oscurano la più profonda stagione di riforme che la Repubblica abbia conosciuto. Ecco, dunque, i quattro cicli di terrorismo, quali li riconosciamo nell’età contemporanea, con le parole di Flores e Gozzini.

    Il primo ciclo è quello “anarchico” che, soprattutto nell’Europa dell’Ottocento e del primo Novecento prende a bersaglio uomini rappresentanti delle istituzioni e raggiunge il proprio acme nel 1914 a Sarajevo.

    Il secondo è quello “anticoloniale” che va dall’insurrezione irlandese del 1916 fino alla “battaglia di Algeri” del 1962.

    Il terzo è quello “della nuova sinistra” che negli anni Sessanta si collega alla guerriglia in Vietnam e in America Latina per diffondersi in Europa occidentale, America, Medio Oriente e Giappone.

    Il quarto è quello “religioso” che si apre con la rivoluzione iraniana del 1979, colpisce in Afghanistan, Medio Oriente, India, Algeria, Stati Uniti e Giappone negli anni Novanta per poi estendersi su scala globale negli anni Duemila (FG, p. 231)

    c3. Come si lavora con un cronogramma

    Succede che i cronogrammi patiscano la stessa sventura didattica delle mappe concettuali. Si fanno alla fine, come sintesi di ciò che si è studiato. Invece andrebbero considerati strutture mobili, che crescono e si modificano man mano che si studia. Nei cronogrammi che qui presento ci sono alcuni eventi. Nel manuale, come in altri testi, ce ne saranno altri che vi possono trovare posto. Nei rettangoli sotto la cronologia ho posto i “nomi” delle periodizzazioni. Non li farei vedere agli allievi, ma porrei il problema. Posto che il Sessantotto è un evento spartiacque, come chiamare il periodo precedente e come quello successivo? “Dare nome al tempo”, cioè “periodizzare”, è una delle operazioni più interessanti che la storia ci permette. Lanciamo la sfida. Chi trova il nome più adatto. Poi, discutiamo i nomi proposti: si vedrà che ognuno di questi implica una certa lettura del periodo.

    Confrontiamo i cronogrammi. Quello che abbiamo prodotto nel laboratorio con gli altri riportati sotto, anche se non sono stati studiati. Mettiamolo a confronto, anche, con la timeline di storia generale, eventualmente presentata dal manuale. Quali relazioni intravvediamo? Riusciamo a spiegarle?

    Infine, utilizziamo il cronogramma come base per un racconto. Mettiamo in evidenza gli eventi più importanti, quelli che andranno sottolineati. Teniamo presente che il testo deve anche far risaltare il ruolo del Sessantotto. Poi raccontiamo. Basta un testo breve, purché contenga i riferimenti precisi al cronogramma. La sintassi ci rivelerà il grado di maturazione degli allievi: chi troverà connessioni complesse e cercherà di spiegarle; chi, invece, non saprà andare oltre il “e poi”.

    c4. Il tempo delle donne

    Anche la storia contemporanea delle donne è divisa in quattro periodi. Ma qui il Sessantotto gioca un ruolo chiaramente fondamentale. Costituisce, infatti, il momento di passaggio fra la fase “evolutiva” e quella “rivoluzionaria” di questa storia. È Claudia Goldin che ha elaborato questa cronologia, nella quale la prima fase, che inizia alla fine del XIX secolo, vede giovani donne impegnate in lavori generalmente di bassa qualità, che devono però abbandonare una volta sposate. La Prima guerra mondiale genera la spinta verso la seconda fase, che inizia intorno agli anni venti, nella quale il lavoro diventa più facile per le donne. Quelle che hanno studiato possono accedere anche a posti di lavoro intellettuale, ma per tutte il momento del matrimonio coincide con il ritiro dalla vita produttiva. La Seconda guerra mondiale favorisce l’avvento di una terza fase, “di transizione”, con le donne che possono studiare, ritardare l’età del matrimonio, accedere a lavori più interessanti mentre comincia a perdere di forza il vincolo della gravidanza: molte, infatti, possono continuare a lavorare anche dopo il matrimonio.

    Cronogramma della storia delle donne

    Claudia Goldin definisce “evolutive” queste tre fasi perché – per quanto si noti un lento e continuo miglioramento - non comportano cambiamenti fondamentali nell’orizzonte di vita delle donne, nel loro senso di identità e nella capacità di controllare il proprio destino. Ma, giusto alla fine di questa terza fase, troviamo un momento che Goldin definisce di “rivoluzione rumorosa”. Esso è legato alle battaglie per i diritti civili, all’uso della pillola, alla rivoluzione sessuale. È, finalmente, il Sessantotto. Questo, in modo analogo alle guerre mondiali, introduce la fase attuale della storia delle donne, quella della “rivoluzione silenziosa”, nella quale masse di donne, pacificamente, si diffondono nella società, occupandone posti che, nei tempi precedenti, erano stati loro interdetti (FG, pp. 40-41; Claudia Goldin, The Quiet Revolution that transformed Women’s employment, Education and Family, 2006).

    c5. Il tempo dei diritti

    Quando il 10 dicembre del 1948 fu proclamata la Dichiarazione Universale dei Diritti umani, questa, “più che l’annuncio della nuova era, fu una corona funebre posta sulla tomba della guerra”. Con questa battuta pessimistica inizia L’ultima utopia, il libro che Samuel Moyn ha dedicato alla storia dei diritti umani (The Last Utopia, The Belknap Press of Harvard University Press Cambridge, Massachusetts and London, England 2010). Tuttavia, a quasi settant’anni di distanza, non possiamo negare che nel mondo è diffusa la convinzione che “agli esseri umani spetti di godere dei diritti umani” (FG 142). A dispetto dello scetticismo di Moyn, dunque, questa “utopia” ha avuto successo: in particolare dopo il 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, che inaugurò una stagione nella quale molti sperarono che, finalmente, non ci sarebbero stati più ostacoli nell’applicazione di quella Dichiarazione. Oggi i diritti umani si sono imposti come cultura universale, soprattutto nel confronto con le nuove guerre e i genocidi (FG, p. 120 s).

    Qui ci chiediamo se il Sessantotto abbia giocato un ruolo in questa vicenda e se sia stato un ruolo di “spartiacque”. E’ una questione controversa. Ma proprio questa difficoltà può dar luogo a un interessante laboratorio di discussione (l’argomento è spiegato dettagliatamente in un lungo capitolo di FG, pp. 127-145).

    Alcuni studiosi, come Moyn, sostengono che il Sessantotto non ha inciso nella storia dei diritti umani. Di parere diverso altri, come Flores e Gozzini. Al centro della contesa c’è la questione della decolonizzazione. Infatti, i nuovi stati indipendenti si erano distinti – in particolare negli anni ’60 – nella battaglia per il riconoscimento dei diritti umani. Secondo Moyn, però, fu una battaglia viziata dall’antioccidentalismo. Per quegli stati i diritti umani non erano altro che il proprio diritto di combattere contro il colonialismo.

    L’editto di Ciro il Grande, conservato al British Museum

    La Conferenza di Teheran, tenutasi nell’aprile-maggio del 1968, è significativa. Fu inaugurata dallo Shah Reza Pahlevi (non certo un campione dell’umanità) il quale iniziò il suo discorso ricordando l’editto di Ciro il Grande del 539 a.C, suo supposto antenato, considerato spesso il primo editto di tolleranza; ma poi mise ben in chiaro che lo scopo di quella riunione era di rinsaldare i legami e le attività anti-occidentali fra i paesi del Terzo mondo (con l’Urss spettatrice interessata). Quindi, conclude Moyn, il vero decennio dei diritti umani fu quello successivo, con la Conferenza di Helsinki del 1975. E, in ogni caso, fu a Vienna, nel 1993, a venticinque anni di distanza dalla convention di Teheran, che si svolse la prima conferenza delle Nazioni Unite sui Diritti umani.

    Flores e Gozzini non sono d’accordo sul giudizio di “insincerità” espresso nei confronti dell’azione dei paesi del Terzo mondo. Si basano sul lavoro di Steven Jensen, The Making of International Human Rights: The 1960s. Decolonization, and the Reconstruction of Global Values (Cambridge, Cambridge University Press, 2016. Qui Phillipp Kandler ce ne propone una recensione critica esauriente). Secondo Jensen, sono proprio i paesi decolonizzati che spingono per l’accettazione dei Diritti umani. Questi, infatti, sono figli di culture extra-europee (orientali o africane) che preferiscono al guadagno e alla sopraffazione i valori della vita comunitaria, dell’equilibrio e della pace. Ne consegue, prosegue Jensen, che il Sessantotto – nato in un ambiente universitario occidentale - non ebbe nulla a che vedere con i Diritti umani, argomento che non era nella cima dei pensieri dei giovani in rivolta.

    Ma su questo punto il disaccordo con Flores e Gozzini è totale. Ricordano che gli anni ’60 hanno visto il fiorire di manifestazioni contro il razzismo, il machismo, a favore dell’ambiente e per i diritti umani economici. Lo stesso antiautoritarismo, una delle costanti del movimento studentesco, fu un motore nella lotta a favore dei diritti umani, dal momento che i principali conculcatori di questi diritti erano proprio gli stati. E proprio il 1968 fu proclamato dalle Nazioni Unite il primo “Anno internazionale dei diritti umani” (Marcello Flores è autore di opere fondamentali su questo argomento. Qui ne possiamo ascoltare una sintesi.

    Cronogramma dei diritti umani

    c6. Costruire timeline

    Ci sono ancora cinque argomenti, nel nostro libro-palestra: l’Islam, la finanza, il lavoro, il digitale, la cultura. Di ciascuno di questi si può tracciare un cronogramma e interrogarsi sul ruolo del Sessantotto: se fu marginale o “spartiacque”. Si tratta di leggere selettivamente il testo. Sottolineare le date. Cercare quelle parti dove si parla di periodizzazione e, infine, elaborare una timeline. Qui ho usato un programma elementare (Frisechrono). Ma ce ne sono molti che permettono soluzioni più ricche e spettacolari. In ogni caso, sarebbe un buon esercizio di lettura/palestra per gli insegnanti. Se, poi, si riesce a elaborare una timeline che, in linea di principio, sia facilmente riproducibile da un allievo, allora la si proponga loro come esercitazione. Nel caso di una classe estremamente competente, poi, si assegneranno i capitoli a gruppi diversi con il compito di costruire una timeline e spiegarla ai colleghi.

    D. SUGGERIMENTI PER IL LAVORO

    d1. Il ruolo della lezione

    Nel loro insieme queste proposte disegnano un quadro abbastanza completo della vicenda storica. Prese singolarmente ne forniranno solo un pezzettino: ma questo è il destino obbligato per qualsiasi laboratorio che contempli un minimo di attività autonoma da parte degli allievi. Tutto ciò vuol dire che il compito di fornire un quadro generale e complessivo spetta al docente, attraverso la sua lezione. Questo fino a che i discenti non saranno in grado di costruire con una certa autonomia una visione generale di un determinato problema. Giunti a questo livello potrebbero intavolare con i loro professori un dialogo formativo: ma si tratterà di un momento di lavoro scolastico sofisticato, da escludere, a mio modo di vedere, nel segmento di scolarità al quale è diretto questo insieme di laboratori.

    In questo lavoro prevedo due tipi di lezione. La lezione introduttiva, molto breve (non si dovrebbe andare oltre i 15 minuti). Questa dà agli allievi qualche notizia del campo nel quale si lavorerà e cerca di motivarli. Per prepararla, il docente potrà usare come scaletta il modello di Sessantotto che qui ho presentato, mentre dalla prima parte dell’articolo ricaverà spunti narrativi e immagini.

    Il secondo tipo di lezione è quella conclusiva, al termine dell’attività laboratoriale. Più lunga, intorno ai trenta minuti, darà al docente la possibilità di fornire un quadro completo della vicenda, mostrando come i diversi elementi studiati si interrelano fra di loro, tenendo conto, al tempo stesso, dei problemi e degli interessi e delle difficoltà emerse nel corso del lavoro.

    d2. Un modello di unità di lavoro

    L’unità di lavoro, quindi, inizia con la messa a punto del quadro generale, fatta nella lezione introduttiva. A questo punto, il docente prende la prima decisione: lavorare sulla complessità o sul tempo? Sceglie il laboratorio che gli sembra più adatto. Per questo motivo ho disposto i laboratori in una scala latamente progressiva. Per esempio, l’attività sul terrorismo è più agevole di quella sui diritti umani, che richiede letture, comprensione di testi e capacità di discutere, mentre l’ultima attività libera è decisamente riservata a classi competenti.

    I lavori, tutti, prevedono sempre un ricorso ai testi. Infatti, i modelli e le cronologie sono degli strumenti per interrogare i testi, per leggerli selettivamente e cercare le notizie che di volta in volta sono necessarie. Qui ho riportato dei brani molto brevi: saranno sufficienti per un lavoro rapido. Per un lavoro più lungo e intenso, si daranno agli allievi le parti indicate del libro. Laddove possibile (come a volte ho indicato) si faccia ricorso al manuale.

    Terminata la fase della ricerca e del completamento del modello o del cronogramma, si passa alla fase della narrazione. Qui ho descritto brevemente come ricavare un racconto da uno schema (sopra, il punto f). Per il cronogramma è più facile. Basta seguire la linea del tempo, come abbiamo già visto. Per renderla più complicata (e in connessione con l’insegnamento della lingua), si proporranno delle varianti: fai una narrazione a ritroso, partendo dall’oggi; fai una narrazione ad anello, centrata sul Sessantotto. Questa parte del modulo potrà essere svolta a casa, individualmente (anche nel caso del lavoro di gruppo).

    Infatti, posto che questo lavoro si svolge in classe con le modalità di una lezione partecipata, si suggerisce anche la formula del lavoro a gruppi, soprattutto se si dispone di una classe competente. Per quanto riguarda il lavoro sulla complessità, l’insegnante mostra come si lavora su uno schema. Sviluppa questo esempio sul caso più difficile, lasciando agli allievi i casi più facili. Di seguito, assegna ad ogni gruppo uno schema. Per quanto riguarda il lavoro sul tempo, invece, dal momento che gli esempi che ho presentato sono tre, ne adopera uno per mostrare agli allievi “come si fa”, poi divide la classe in due (o quattro) gruppi, assegnando a questi i due cronogrammi rimanenti. Si è già detto che, nel caso di una classe molto competente, si assegnerà il lavoro “libero” sui capitoli del testo che qui non sono stati trattati.

    Il modulo di lavoro termina con la lezione frontale del docente, nel quale questi, tenendo conto dei lavori dei ragazzi, del livello di comprensione che questi hanno rivelato e dei problemi emersi, espone agli allievi la sua ricostruzione del periodo.

    Qui sopra il diagramma operativo. Suggerisco di progettare un modulo di due ore. Nella prima si apre con la lezione introduttiva e si lavora con lo schema (o con la cronologia). Si assegna il compito da svolgere a casa. Nella seconda, si continua a lavorare o si discute e, nell’ultima mezz’ora, si eroga la lezione conclusiva.

     


     

    * La prima parte “L’evento e la memoria” è stata già pubblicata su HL. La terza parte e la postilla conclusiva verranno pubblicate a breve.

  • Il valore del cibo nel Medioevo

    Autori: Marina Rosset e Alessandro Contino

    SOMMARIO

    UdL “Il valore del cibo nel Medioevo”

    Inquadramento del tema

    Metodologia didattica

    Declinazione dei contenuti, sviluppo e valutazione

    VERIFICA PER COMPETENZE

    RI-CONTESTUALIZZAZIONE

    DIAGRAMMA DELLE LEZIONI

    ALLEGATI

    BIBLIOGRAFIA

    APPENDICE INTERDISCIPLINARE

    Inquadramento del tema
    Alla base di questo progetto sta la volontà di allargare il percorso disciplinare di Storia di una classe prima di una SSPG a una storia sociale aperta e interdisciplinare, come prescritto dalle Indicazioni Nazionali. Si trattano perciò elementi di Storia dell’alimentazione in chiave culturale. Per cultura alimentare si intende un insieme di aspetti che fanno del cibo un elemento che caratterizza “la vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un gruppo etnico”1 .

    Lo spazio di riferimento è l’Europa, anche se in alcuni momenti le coordinate saranno allargate ad altre zone del bacino del Mediterraneo e al mondo arabo. I passaggi che verranno riletti sono: la nascita dei regni romano barbarici, la diffusione del monachesimo in Europa e la nascita dell’Islam, lo sviluppo comunale e il radicarsi della signoria territoriale. Questi temi sono riletti metaforicamente come: il cibo è incontro tra culture, il cibo è un precetto della religione, il cibo come ricchezza e povertà e il cibo come sogno.

    La prima fase rilegge l’incontro tra romani e barbari e sviluppa la caratteristica conviviale ed etnica della cucina che mette a contatto e amalgama popoli che vivono lo stesso territorio. Questo tipo di argomentazione porta a una riflessione sull’attualità e l’intercultura. Con i focus di Italiano, Geografia e Scienze si passa poi a una riflessione sui semi come metafora del rispetto della diversità e di tolleranza. Nella seconda fase, si trattano aspetti alimentari legati alle tre religioni monoteiste, partendo dalla diffusione del monachesimo e dalla nascita dell’Islam. In questa fase gli studenti di religione musulmana sono chiamati a un ruolo da protagonisti, diventando mediatori culturali. La terza fase si occupa di alcuni stereotipi: il contadino, il signore, il cittadino. Legata alla trattazione della società medievale, essa intende, attraverso l’analisi di testi storiografici e fonti, portare gli studenti a identificare le abitudini alimentari e quindi a fare inferenze sulle caratteristiche vere o presunte dei personaggi che abitano il basso Medioevo. Si riflette poi nella quarta fase sui giudizi che le fonti mediano, aprendo la discussione su stereotipi e pregiudizi sia nella storia che nella quotidianità, tema del focus di educazione alla cittadinanza. Nella quinta fase l’epoca del radicamento della signoria territoriale, con il rafforzamento del potere personale dei signori a scapito del contado spesso privato dei terreni comuni, viene riletta nella chiave dell’immaginario collettivo che porta al paese di Cuccagna. Si apre qui la discussione sulla fame, come argomento interdisciplinare.

    Metodologia didattica
    L’UdL punta soprattutto sulla didattica del fare, culminante col laboratorio storico sul modello proposto da Antonio Brusa. L’avvio è affidato a un lavoro in apprendimento di gruppi cooperativi  secondo l’approccio del group investigation2, che parte dalla domanda a cui le successive fasi dell’Unità daranno una risposta dal punto di vista storico-culturale. Ci sono anche altri lavori in gruppo, cooperativi e non, lezioni dialogate, dibattiti. Si punta inoltre sull’uso delle tecnologie per coinvolgere gli alunni che manifestano difficoltà di attenzione e/o di apprendimento e per stimolare un lavoro casalingo e un dialogo a distanza tra compagni e con l’insegnante. In particolare si fa uso della piattaforma virtuale dove sono anche somministrati i questionari di autovalutazione e viene gestita parte della metacognizione.

    Declinazione dei contenuti, sviluppo e valutazione
    Fase  1 (2 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Cos’è il cibo per l’uomo?

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTI:
    La domanda principale, gli ambiti per i gruppi (cibo come amicizia, cibo come religione, cibo come ricchezza e povertà, cibo come sogno), le linee guida con cui poter spiegare l’immagine, il supporto informatico (tablet o pc).

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI:
    Trovare un’immagine, darne la spiegazione scritta in base all’ambito assegnato, esporre alla classe, auto-valutare il proprio contributo.

    DESCRIZIONE DELL’ATTIVITA’:
    Gli alunni sono divisi in quattro gruppi da cinque alunni con ruoli diversi, hanno a disposizione due tablet (o pc) con i quali navigare in rete e trovare delle immagini relative agli ambiti. Scelgono un’immagine e costruiscono una spiegazione dell’immagine relativa che esporranno alla classe nella lezione successiva.

    SETTING DELL’AULA: isole di banchi

    VALUTAZIONE: l’insegnante valuta i gruppi e il prodotto dell’esposizione. Gli alunni si auto-valutano sulla piattaforma (vedi allegati).


    ALLEGATI: vedi allegati fase 1.


    Fase 2  (2 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Il cibo è occasione di incontro tra culture.

    PRECONOSCENZE: Migrazioni barbariche e caduta dell’Impero romano.

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTI:
    Testi storiografici dal testo “La fame e l’abbondanza” sull’alimentazione romana e sulla alimentazione delle popolazioni germaniche. Tabella con spazi vuoti per gli alunni BES.

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI:
    Produrre una mappa concettuale a partire dalle fonti, cercare e trascrivere la ricetta di famiglia, esporre la ricetta ad un compagno e riportare quella del compagno ad un’altra coppia.

    DESCRIZIONE DELL’ATTIVITA’:
    Prima lezione: gli alunni sono divisi in coppie e realizzano due mappe concettuali che riassumono i contenuti dei testi (l’alimentazione dei romani, l’alimentazione dei germani). Gli alunni con BES ricostruiscono i contenuti e completano una tabella. Successivamente per dare una cornice di senso più vicina agli studenti, viene assegnato come compito a casa la ricerca della ricetta di famiglia che viene impiegata nella lezione successiva per aprire un confronto culturale all’interno della classe. Seconda lezione: Una volta tornati in classe gli alunni vengono divisi in coppie, uno studente intervista il compagno sulla “ricetta di famiglia” e poi i ruoli si invertono; si uniscono due coppie (vengono quindi formati gruppi di quattro alunni) e i contenuti delle interviste vengono riportati oralmente dallo studente che ha fatto l’intervistatore (intervista a tre passi).

    SETTING DELL’AULA: standard.

    VALUTAZIONE: l’insegnante valuta gli elaborati (mappe concettuali, ricette). Gli studenti valutano le esposizioni delle ricette dei compagni.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 2 

    Fase 3: (4 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Il cibo come precetto religioso

    PRECONOSCENZE: La diffusione del monachesimo in Europa e la nascita dell’Islam.  

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTE: lettura di brani tratti dall’Antico Testamento, da regole monastiche, da “I gusti del Medioevo” di Massimo Montanari, una tabella per il confronto delle tipologie di fonti storiche.

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI: leggere e comprendere dei testi, completare delle tabelle riassuntive.

    DESCRIZIONE DELL’ATTIVITA’. Prima lezione: l’insegnante propone una serie di lezioni sul rapporto tra cibo e religione che faccia scoprire i precetti alimentari dettati dalle principali religioni monoteiste. L’insegnante legge i testi e ricorda alla classe la differenza tra fonte primaria e fonte secondaria. L’insegnante guida gli alunni a ricavare una tabella che illustri gli usi alimentari legati alla religione ebraica e a quella cristiana del periodo storico appena affrontato.

    Seconda lezione: sono presi in esame i precetti alimentari della religione musulmana attraverso testi e interventi di alunni musulmani concordati con l’insegnante. Anche in questo caso viene realizzata insieme una tabella. Segue un confronto con quella realizzata in precedenza.

    In queste due lezioni, gli alunni BES sono invitati a intervenire e sono coinvolti nella stesura pratica della tabella alla LIM, cercano immagini che illustrino i temi affrontati. I prodotti realizzati e i materiali valutati dall’insegnante verranno condivisi attraverso la piattaforma.

    Nella terza lezione l’insegnante predispone un lavoro a coppie che parte dall’analisi di un breve brano tratto da “Il riposo della polpetta” o da “Il pentolino magico”4, da un breve testo storiografico scelto tra quelli esaminati insieme nelle lezioni precedenti e da una fonte iconografica sul tema. Gli studenti sono chiamati a leggere e a interrogare il testo divulgativo di Montanari cercando informazioni richieste dall’insegnante (esercizio di allenamento verso l’interrogazione). Le informazioni vengono poi condivise con la guida dell’insegnante, completando una tabella (allegato 7).

    Nella quarta lezione  gli studenti vengono invitati a confrontare le informazioni del testo della lezione precedente con il testo storiografico. L’insegnante si offre come guida cercando di indirizzare il lavoro alla ricerca delle informazioni che sono più attinenti all’argomento, tralasciando i contenuti estranei. Nella seconda parte della lezione le coppie vengono invitate a realizzare un elaborato di 150 parole citando le fonti.

    SETTING DELL’AULA: standard

    VALUTAZIONE: vengono valutati gli interventi nelle lezioni dialogate e il prodotto finale del lavoro di coppie. Nell’ultima lezione viene lasciato spazio per un momento di autovalutazione dialogata.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 3

    Fase 4: (4 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Il cibo è anche una questione di ricchezza o povertà

    PRECONOSCENZE: società feudale e sviluppo comunale nel tardo Medioevo

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTE: una fonte scritta di Giovanni de Mussis (XIV secolo) con la descrizione dei banchetti di nozze di Piacenza5; materiali per il lavoro jigsaw (brani tratti dal manuale di storia e dai testi di Montanari e una novella in versi di Wernher der Gartenaere); griglia per il lavoro in jigsaw.

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI: analisi guidata di una fonte. compilazione di tabelle, creazione di mappe concettuali o mentali.

    DESCRIZIONE DELLE ATTIVITA’: nella prima lezione l’insegnante descrive gli aspetti dello stereotipo del contadino che fa da collegamento tra l’elemento storico generale e quello della storia della cultura alimentare costituto dallo stereotipo del contadino. Si passa all’analisi della fonte  di de Mussis condotta secondo il metodo think-pair-share, con la mediazione dell’insegnante attraverso domande stimolo: quanti giorni dura il banchetto? quante portate ci sono? quali tipi di alimenti sono prevalenti? Si delineano le idee di sfarzo e abbondanza dell’alimentazione dei signori. A casa la riflessione continua in piattaforma con un dibattito gestito dall’insegnante e stimolato da altre fonti quali la descrizione del matrimonio tra Isabella d’Este e Annibale Bentivoglio, organizzato nel 1487 a Bologna, descritto dal cronista Ghirarducci6 .

    La seconda e la terza lezione si concentrano sullo stereotipo del contadino attraverso fonti, testi storiografici e testi divulgativi. Viene utilizzata la struttura per l’apprendimento cooperativo jigsaw: la classe viene divisa in gruppi di tre; a ciascun gruppo viene assegnato un portfolio di documenti (l’insegnante assegna a ciascun membro i testi che ritiene adeguati alle capacità); i ragazzi leggono i propri brani poi si riuniscono in gruppi che hanno la stessa fonte e la interrogano; rientrati nel gruppo base, le informazioni vengono messe a confronto; agli studenti viene richiesto poi di fare delle inferenze che portano dalla dieta del contadino al suo stile di vita e alla considerazione che ne emerge dai testi.

    Al termine del lavoro di gruppo, si svolge una discussione in classe mediata dall’insegnante per raccogliere gli elementi dello stereotipo del contadino. Segue una discussione in piattaforma.

    La quarta lezione verte sulla differenza dei consumi tra città e campagna. L’insegnante legge alcuni brani tratti da Gusti nel Medioevo, chiedendo agli alunni di compilare una tabella di comprensione. Segue la realizzazione di una mappa concettuale condivisa in cui emergano le diverse caratteristiche dell’alimentazione del contadino, del signore e del cittadino. A uno degli alunni BES viene affidato il compito di stilare l’elaborato con un programma alla LIM. Agli alunni stranieri viene chiesto di realizzare una semplice mappa mentale per ciascun stereotipo.

    SETTING DELL’AULA: isole di banchi

    VALUTAZIONE: Attraverso una griglia di osservazione, concordata con gli studenti, vengono valutati gli interventi in classe e in piattaforma e le competenze sociali e civiche messe in atto nel lavoro di gruppo.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 4.

     

    Fase 5: (4 ore)
    TITOLO: il cibo come sogno “Il paese di Cuccagna”

    PRECONOSCENZE: lavoro sulle fonti svolto nelle fasi precedenti, le principali caratteristiche della signoria territoriale.

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTE: documenti per il laboratorio

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI: svolgere le fasi del laboratorio

    DESCRIZIONE DELLE ATTIVITA’:
    La quinta fase è un laboratorio storico, come teorizzato da Antonio Brusa7. Gli studenti sono chiamati a lavorare in autonomia, mettendo in pratica le competenze acquisite. Dopo aver affrontato le caratteristiche della signoria territoriale gli alunni sono chiamati a riflettere sulle conseguenze dell’ampliamento del potere signorile sulle campagne e sulla privazione di un’importante fonte di sostentamento, ovvero i terreni comuni. La fame infatti diviene un pensiero martellante, nella testa oltre che nello stomaco, creando nell’immaginario collettivo l’utopia alimentare del paese di Cuccagna. La classe viene divisa in gruppi di quattro ai quali l’insegnante assegna i ruoli di coordinatore, segretario e responsabile del materiale, mentre gli alunni con bisogni educativi speciali vengono inseriti come elementi osservatori, muniti di griglia, e gestori del gettone di parola. Ai gruppi viene affidato un portfolio contenente:
    -    un brano tratto da païs de Coquagne8 ;
    -    un breve brano storiografico tratto da Montanari9;
    -    un brano tratto da Il pentolino magico10;
    -    un’immagine del paese di Cuccagna;
    -    un intruso.
    Il lavoro è concentrato nelle prime tre lezioni, mentre la quarta è dedicata alle esposizioni. Gli elaborati finali vengono condivisi sulla piattaforma.

    SETTING DELL’AULA: isole di banchi

    VALUTAZIONE: la valutazione del lavoro di gruppo sulle diverse competenze trasversali (sociali e civiche, consapevolezza ed espressione culturale) viene effettuata durante il processo con griglie di osservazione, tenendo conto anche di quelle elaborate dagli studenti osservatori. Viene eseguita una valutazione in itinere attraverso i prodotti delle singole fasi e i feedback nel corso dell’attività in classe. Infine è valutato il prodotto finale.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 5

    VERIFICA PER COMPETENZE
    Alla fine dell’anno è prevista una verifica sommativa che richiede agli studenti di utilizzare in un contesto nuovo le competenze acquisite. Viene fornita loro una fonte (semplice per i BES) sulla quale rifare il laboratorio storico. E’ inoltre richiesto loro di correlare gli argomenti della presente UdL con quelli del percorso curricolare spiegando la relazione e mettendoli in una linea del tempo. Per valutare le conoscenze viene richiesto di legare attraverso dei concetti chiave il percorso tradizionale con quello sull’alimentazione, realizzando un breve testo su uno degli argomenti trattati.

    RI-CONTESTUALIZZAZIONE
    In questo lavoro si è prediletto l’aspetto interculturale, data la composizione etnicamente eterogenea del gruppo classe. Volendo riproporre il lavoro si può pensare di limitare l’aspetto culturale e lavorare di più su quello storico. Si può inoltre pensare a un approccio più locale con un laboratorio di fonti inerenti al proprio territorio.

    DIAGRAMMA DELLE LEZIONI


                                                                   
    ALLEGATI
    FASE 1: Che cos’è il cibo per l’uomo?
    ALLEGATO 1

    LINEE GUIDA PER LA DESCRIZIONE DELL’IMMAGINE:

    ●    Come è rappresentato il cibo?
    ●    Che tipo di cibo c’è nell’immagine?
    ●    Ci sono altre figure (oggetti, persone, animali) oltre al cibo?
    ●    Che relazione c’è fra il cibo e queste altre figure?
    ●    Quale significato dai a questa immagine?
    ●    Inventa uno slogan da mettere sotto l’immagine.

    ALLEGATO 2

    FASE 2: Il cibo come incontro
    ALLEGATO 1
    “I romani, stando a Plinio il Vecchio, non ebbero forni pubblici per la cottura del pane prima del II secolo avanti Cristo. In precedenza consumavano soprattutto zuppe, polente, focacce. Appresero poi l’arte del lievito e della panificazione, che, sembra, gli egiziani avevano messo a punto per primi, diffondendola tra le genti del Mediterraneo orientale”. (p. 60)
    da M. Montanari, Gusti del Medioevo, p. 60

    “L’ideologia alimentare romana si costruisce attorno a una triade di prodotti, il pane, il vino e l’olio, assunti - riprendendo la tradizione greca - a vero e proprio simbolo di una certa idea di “civiltà”, legata, nel mondo greco e romano, all’agricoltura come modo di produzione tipico dell’uomo, che, separandosi dal mondo della natura e delle bestie, costruisce la propria esistenza in modo per così dire artificiale, inventando tecniche di sfruttamento dell’ambiente naturale che finiscono per trasformarlo profondamente, disegnando un paesaggio nuovo, quello dei campi, delle vigne, degli alberi coltivati, da cui l’uomo, lui solo, riesce a ricavare dei prodotti che, a loro volta, trasformati secondo tecniche esse stesse esclusive dell’uomo, gli forniscono un cibo (il pane), una bevanda (il vino) e un grasso (l’olio) che non esistono allo stato naturale e per ciò stesso simboleggiano la capacità di ritagliarsi uno spazio “civile” in mezzo alla natura selvaggia [...]. Anche la pastorizia, anche la caccia rientrano fra le attività produttive; anche la carne compare - eccome - sulle tavole romane, per non parlare del formaggio, delle uova e di altri prodotti di origine animale. La carne stenta, tuttavia, a conquistare un’immagine alta, totalmente positiva, perché legata a forme di sfruttamento del territorio ritenute più “naturali”, meno “civili” [...]. La letteratura latina restituisce immagine che assegnano soprattutto ai cibi vegetali, a quelli prodotti con il lavoro dei campi, il ruolo di identificare il proprio modello di civiltà. I popoli che vivono soprattutto di caccia e pastorizia, dando alla carne un ruolo centrale nel loro regime alimentare, sono pertanto rappresentanti come “incivili” o “barbari” [...] Procopio scrive che i lapponi “non ricavano alcun cibo dalla terra… ma si dedicano solamente alla caccia”, e Giordane parla degli scandinavi che vivono “solamente di carni”.
    da M. Montanari, Gusti del Medioevo, p. 69-70

    “Anche quelli che un tempo si chiamavano <<barbari>>, legati a tradizioni di tipo pastorale più che agricolo, e a un modello alimentare prevalentemente carnivoro, subirono il fascino del nuovo modello alimentare e contribuirono in maniera decisiva alla diffusione nel continente della ‘cultura del pane’”.
    da M. Montanari, Gusti del Medioevo, p. 62

    Testi sono tratti da M. Montanari, La fame e l’abbondanza,pp. 12-14
    ROMANI:
    “[…] i latini chiamavano ager, l’insieme dei terreno coltivati, rigorosamente distinti dal saluto, la natura vergine, non-umana, non-civile, non-produttiva. […] l’economia del bosco e della palude erano […] realtà marginali”.

    “[…] agricoltura e arboricoltura erano il perno dell’economia e della cultura dei greci e dei romani […]. Grano, vite, ulivo ne erano i punti di forza: una triade di valori produttivi e culturali che quelle civiltà avevano assunto a simbolo della propria identità. «Ogni cosa che le mie figlie toccano si trasforma in grano, o in vino puro, o in oliva»: le parole di Anio, re e sacerdote di Delo, che Ovidio rappresenta in una delle Metamorfosi, la dicono lunga sulle abitudini e sui desideri alimentari (il mito di Anio non è anche un’utopia?) di questa gente. […] Accanto ad essi svolgevano un certo ruolo l’orticoltura (soprattutto) e la pastorizia ovina […]. Su queste realtà si disegnava un sistema di alimentazione - vogliamo chiamarlo ‘mediterraneo’? - a forte caratterizzazione vegetale, basato sulle farinate e sul pane, sul vino, sull’olio, sulle verdure: il tutto integrato da un po’ di carne e soprattutto un po’ di formaggio (pecore e capre si utilizzavano prevalentemente come bestie vive, per il latte e la lana)”.

    BARBARI:
    “Le popolazioni celtiche e germaniche, da secoli avvezze a percorrere le grandi foreste del Centro e del Nord Europa, avevano sviluppato una forte predilezione per lo sfruttamento della natura vergine e degli spazi incolti. La caccia e la pesca, la raccolta dei frutti selvatici, l’allevamento brado nei boschi (soprattutto maiali, ma anche equini e bovini) erano attività centrali e caratterizzanti del loro sistema di vita. […] la carne era il valore alimentare di primo grado. Non il vino si beveva (conosciuto solo nelle zone di confine dell’impero) ma il latte di giumenta e i liquidi acidi che se ne derivavano; o il sidro, tratto dalla fermentazione dei frutti selvatici; o la birra, là dove si coltivavano cereali nelle piccole radure sottratte alla foresta. Non l’olio si usava per ungere e per cucinare […] ma il burro e il lardo”.

    PUNTI DI UNIONE:
    “[…] anche i germani consumavano cereali, pappe d’avena o focacce d’orzo (non però pane di frumento, vero simbolo dell’alimentazione mediterranea); anche i romani mangiavano carne di porco (che gli imperatori facevano distribuire al popolo della capitale, assieme al pane)”.

    ALLEGATO 2
    GRIGLIA PER L’ATTIVITA’ DEGLI ALUNNI con BES:

     

    ALLEGATO 3
    COMPITO: Ricetta di famiglia
    Gli studenti sono invitati a chiedere ai propri genitori una ricetta significativa della “tradizione famigliare” della quale dovranno elaborare una descrizione seguendo i seguenti punti:

    1.    tradizione della ricetta (da quale ramo familiare giunge)
    2.    occasione particolare in cui il piatto viene proposto
    3.    ricetta
    4.    piccolo approfondimento sugli alimenti tipici che vengono utilizzati (se ad esempio derivano dalla cultura di un paese o una regione d’origine differente da quella in cui la famiglia risiede).


    ALLEGATO 4
    IL BUON MODELLO  PER LA RICETTA DI FAMIGLIA
    La domenica andavamo a pranzo dalla mamma di mia mamma, nonna Emma. Lei e sua nuora Lillina dal venerdì sera si alternavano presso la fiammella minima che asciugava il ragù, rraù, in lingua e palato locali. Il nostro arrivo a mezzogiorno in anticamera era accolto da un alleluia di ragù diritto nel naso. Quel sugo era l’applauso di uno stadio in piedi dopo un gol, era un abbraccio, un salto e una cascata dentro le narici. Mai più potrò riavere quell’arrembaggio al vertice dei sensi, che sta per me in qualche ghiandolina dell’olfatto. A tavola, condito con la pasta grossa, mi sedevo composto, ma dentro di me stavo in ginocchio di fronte alla scodella.

    È stata la mia porzione di manna, pane dei cieli, apparecchiata da due sacerdotesse dei fornelli, dai loro riti notturni. Erano bocconi che imponevano silenzio. A me si chiudevano anche gli occhi. Le forchette nei piatti raccoglievano il frutto della conoscenza. La bocca piena gorgheggiava una laude. Non ho temperamento mistico, ma quel poco che mi è toccato in sorte l’ho assaggiato, l’ho avuto sulla lingua durante le domeniche d’infanzia. Quella mensa estiva assume nel ricordo la forma di un altare.

    Da loro due, Emma e Lillina, ho poi ricevuto notizie dettagliate per la composizione della parmigiana di melanzane, piatto preferito dell’età adulta. La preparavano facendo passare il frutto per tre fuochi. Tagliate a fette le melanzane, le mettevano al sole, la fiamma più potente, ad asciugarsi dall’acqua e addensare il sapore. Poi le friggevano, indorando di festa la cucina. Ultimo fuoco il forno, dopo averle distese a strati, ognuno ricoperto di sugo, basilico, mozzarella e una manciata di formaggio parmigiano. Tre fuochi concorrevano alla pietanza che meglio coincide per me con la parola casa.
    Senza mamma pratico l’astinenza da quel cibo, un esilio alimentare. Il lutto si sconta alla tavola invece che al cimitero.
    Tratto da De Luca, E. Il più e il meno, pp. 18-19

    ALLEGATO 5
    ESEMPIO DI RICETTA MEDIEVALE
    Polenta di fave o “macco”
    Prendi fave infrante e scelte bene e quando le avrai bollite, tolta l’acqua, lava molto bene e rimettile nello stesso vaso con poca acqua tiepida e sale, in modo che siano ben coperte dall’acqua, e gira spesso col cucchiaio; quando saranno cotte, togli dal fuoco e schiaccia fortemente con un cucchiaio, poi lascia riposare un po’ e quando scodellerai aggiungi del miele o dell’olio soffritto con cipolle, e mangia.
    Montanari, M. Gusti del Medioevo, p. 188

    ALLEGATO 6


     FASE 3: Il cibo come precetto religioso
    ALLEGATO 1
    Alimentazione ebraica
    Letture dalla Bibbia:
    Poi il Signore Iddio piantò un giardino in Eden a oriente e quivi pose l’uomo che aveva formato. Il Signore Iddio fece germogliare dal suolo ogni specie di alberi piacevoli d’aspetto e buoni a mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino, e l’albero della conoscenza del bene e del mare. […] Il Signore Iddio prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, affinché lo coltivasse e lo custodisse, e dette all’uomo quest’ordine: “Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non mangiare! Poiché il giorno in cui ne mangiassi, di certo morresti”.
    Genesi (2, 8-17)


    “Il Signore disse a Mosè e ad Aronne: “Riferite agli Israeliti: Questi sono gli animali che potrete mangiare fra tutte le bestie che sono sulla terra. Potrete mangiare d'ogni quadrupede che ha l'unghia bipartita, divisa da una fessura, e che rumina. Ma fra i ruminanti e gli animali che hanno l'unghia divisa, non mangerete i seguenti: il cammello, perché rumina, ma non ha l'unghia divisa, lo considererete immondo; l'ìrace, perché rumina, ma non ha l'unghia divisa, lo considererete immondo; la lepre, perché rumina, ma non ha l'unghia divisa, la considererete immonda; il porco, perché ha l'unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, lo considererete immondo. Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri; li considererete immondi.
    Questi sono gli animali che potrete mangiare fra tutti quelli acquatici. Potrete mangiare quanti hanno pinne e squame, sia nei mari, sia nei fiumi. Ma di tutti gli animali, che si muovono o vivono nelle acque, nei mari e nei fiumi, quanti non hanno né pinne né squame, li terrete in abominio”.Levitico (11, 1-12)

    Ecco, il Signore degli eserciti preparerà su questo monte, a tutti i popoli, un convito di carni grasse, un banchetto di vini squisiti, di carni succulente, di vini pregiati. Anzi su questo monte egli stesso strapperà il velo del volto di tutti i popoli, e la coltre che copre tutte le nazioni, e distruggerà la morte per sempre. Il Signore asciugherà le lacrime su ogni volto e toglierà l’onta del suo popolo, la farà scomparire da tutta la terra, ché il signore ha parlato. Isaia (25, 6-8)

    IMMAGINE 1

      IMMAGINE 2
      IMMAGINE 3


    ALLEGATO 2
    L’alimentazione cristiana

    “Il pane di frumento si caratterizza per tutto il Medioevo come un prodotto di lusso, ed è proprio per rifiutare questo lusso che gli eremiti scelgono di privarsene, preferendogli il pane d’orzo con un chiaro intento penitenziale. [...] il vescovo di Lamgres Gregorio, che faceva penitenza con pani d’orzo, ma, per non apparire troppo presuntuoso, li mangiava di nascosto, tenendoli sotto il pane di frumento che offriva agli altri e che fingeva di consumare con loro”.
    Montanari, Gusti del Medioevo, p. 66


    “Nella cosiddetta “Regola del Maestro” (VI secolo) si prescrive che le micae panis, che dopo ogni pasto rimangono sulla tavola, siano raccolte con attenzione e conservate in un vaso. Ogni settimana, il sabato sera, i monaci le metteranno in padella con un po’ di uova e farina e ne faranno una piccola torta da mangiare tutti insieme, rendendo grazie a Dio prima dell’ultima coppa di bevanda calda che conclude la giornata”.
    Montanari, Gusti nel Medioevo, p. 68


    “Il cibo sia parco; lo si consumi alla sera, rifuggendo la sazietà e, nel bere, l’ubriachezza: esso sostenti senza nuocere. Sia costituito da ortaggi, legumi, farina impastata con acqua, assieme a una piccola pagnotta, perché non sia aggravato il ventre né appesantita la mente. Coloro che desiderano i premi eterni devono curarsi soltanto di ciò che è veramente utile e vantaggioso; pertanto ci si deve moderare sia nelle necessità materiali che nella fatica. Questo infatti è il vero discernimento: conservare integra la possibilità del progresso spirituale macerando la carne con l’astinenza; ma se l'astinenza oltrepasserà la misura, sarà non una virtù bensì un vizio: la virtù infatti custodisce e comprende molti beni. Si deve perciò digiunare tutti i giorni, così come tutti i giorni ci si deve ristorare; e mentre ogni giorno ci si deve nutrire, si deve gratificare il corpo poveramente e parcamente; infatti si deve mangiare ogni giorno, dato che ogni giorno si deve progredire, pregare, lavorare e leggere.
    Dalla regola di San Colombano III. Il cibo e la bevanda (V)
    fonte: http://ora-et-labora.net/regolacolombano.html

    Volendo tenere il debito conto delle necessità individuali, riteniamo che per il pranzo quotidiano fissato - a seconda delle stagioni - dopo Sesta o dopo Nona, siano sufficienti due pietanze cotte, in modo che chi eventualmente non fosse in condizioni di prenderne una, possa servirsi dell'altra.

    Dunque a tutti i fratelli devono bastare due pietanze cotte e se ci sarà la possibilità di procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se ne aggiunga una terza.

    Quanto al pane penso che basti un chilo abbondante al giorno, sia quando c'è un solo pasto, che quando c'è pranzo e cena.

    In quest'ultimo caso il cellerario ne metta da parte un terzo per distribuirlo a cena.

    “Nel caso che il lavoro quotidiano sia stato più gravoso del solito, se l'abate lo riterrà opportuno, avrà piena facoltà di aggiungere un piccolo supplemento, purché si eviti assolutamente ogni abuso e il monaco si guardi dall'ingordigia.

    Perché nulla è tanto sconveniente per un cristiano, quanto gli eccessi della tavola, come dice lo stesso nostro Signore: "State attenti che il vostro cuore non sia appesantito dal troppo cibo".
    Quanto poi ai ragazzi più piccoli, non si serva loro la medesima porzione, ma una quantità minore, salvaguardando in tutto la sobrietà.
    Tutti infine si astengano assolutamente dalla carne di quadrupedi, a eccezione dei malati molto deboli. Dalla regola di San Benedetto Capitolo XXXIX - La misura del cibo

    "<<Ciascuno ha da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro>> ed è questo il motivo per cui fissiamo la quantità del vitto altrui con una certa perplessità. Tuttavia, tenendo conto della cagionevole costituzione dei più gracili, crediamo che a tutti possa bastare un quarto di vino a testa. Quanto ai fratelli che hanno ricevuto da Dio la forza di astenersene completamente, sappiano che ne riceveranno una particolare ricompensa. Se però le esigenze locali o il lavoro o la calura estiva richiedessero una maggiore quantità, sia in facoltà del superiore concederla, badando sempre a evitare la sazietà e ancor più l'ubriachezza. Per quanto si legga che il vino non è fatto per i monaci, siccome oggi non è facile convincerli di questo, mettiamoci almeno d'accordo sulla necessità di non bere fino alla sazietà, ma più moderatamente, perché <<il vino fa apostatare i saggi>>. I monaci poi che risiedono in località nelle quali è impossibile procurarsi la suddetta misura, ma se ne trova solo una quantità molto minore o addirittura nulla, benedicano Dio e non mormorino: è questo soprattutto che mi preme di raccomandare, che si guardino dalla mormorazione.”
    Dalla regola di San Benedetto, Capitolo XL - La misura del vino
    Fonte: http://ora-et-labora.net/RSB_it.html#Cap39


     ALLEGATO 3
    Alimentazione islamica:
    “[...] da quanto, fra VII e VIII secolo, l’islam si impose sul versante meridionale del Mediterraneo, questo si trasformò da un grande lago comune - quale era in epoca romana - a un mare di confine. Ecco dunque fronteggiarsi, e magari incontrarsi, ma sempre per sponde opposte, due mondi diversi, due diverse civiltà, religioni, culture. Ed evidentemente il mondo, la civiltà del pane era quella della sponda settentrionale - o almeno, così si rappresentava: c’è una grande tensione ideologica tra gli scrittori cristiani che durante il periodo delle crociate rivendicavano il pane come segno della propria identità e qualificavano come “focacce mal cotte” il pane degli arabi, che a stento meritava quel nome”.
    Montanari, M.Gusti nel Medioevo, p. 62.

    “Vi son dunque proibiti gli animali morti, il sangue, la carne del porco, gli animali che sono stati macellati senza l’invocazione del nome di Dio, e quelli soffocati e uccisi a bastonate, o scapicollati o ammazzati a cornate e quelli in parte divorati dalle fiere, a meno che voi non li abbiate finiti sgozzandoli, e quelli sacrificati sugli altari idolatrici; e v’è anche proibito di distribuirvi fra voi a sorte gli oggetti: questo è un’empietà. Guai, oggi, a coloro che hanno apostatato dalla vostra religione: voi non temeteli, ma temete me! Oggi v’ho reso perfetta la vostra religione e ho compiuto su di voi i miei favori, e M’è piaciuto di darvi per religione l’Islam. Quanto poi a chi vi è costretto per fame o senza volontaria inclinazione al peccato, ebbene Dio è misericorde e pietoso.”
    Dal Corano (Sura della Mensa: V, 3)

    ALLEGATO 4
    Il pane: esempio di paragone tra cultura alimentare ebraica e cristiana.
    “Sicuramente la [l’arte del lievito e della panificazione] la conobbero gli ebrei, che tuttavia mantennero nei confronti del pane un atteggiamento ambiguo: da un lato esso rappresentava una fondamentale risorsa dell’alimentazione quotidiana; dall’altro era incluso - in quanto cibo fermentato, cioè “corrotto” rispetto alla purezza originaria della materia prima - fra i prodotti che non potevano godere dello statuto ideologico alto, sacrale. Il cristianesimo, invece, fece del pane - assieme al vino, altro prodotto fermentato - l’alimento sacro per eccellenza, lo strumento di comunione eucaristica con la divinità. Fu una scelta che consapevolmente significò la rottura con la tradizione ebraica: non a caso uno dei motivi di scontro fra la Chiesa latina e quella greca, ufficialmente separatesi nell’XI secolo, fu l’accusa, fatta dagli ortodossi ai cattolici, di avere abbandonato la “vera” tradizione cristiana del pane fermentato e di essersi avvicinati, con l’introduzione nel culto dell’ostia azzima, all’antico modello ebraico”.
    Montanari, M. Gusti del medioevo, p. 60

    ALLEGATO 5
    La melanzana: esempio di stereotipo che passa attraverso il cibo
    “Melanzana è una di quelle parole che si definiscono connotative perché contengono in sé il giudizio dell’oggetto rappresentato. L’etimologia non lascia spazio a equivoci: viene dal lontano mala insana, frutto insano pericoloso per la salute. La parola nacque sul finire del medioevo per qualificare negativamente il cibo che oggi tanto ci appassiona. Per catalogarlo fra le cose da evitare. Pomo sdegnoso lo chiama Bartolomeo Scappi, il cuoco più rappresentativo dell’Italia rinascimentale. Ma perché questo “sdegno”? per un pregiudizio sembrerebbe, di natura sociale: la melanzana diventò rapidamente una risorsa della cucina povera e fu perciò disdegnata dalla buona società. Come altre piante orientali la melanzana fu portata in Europa dagli arabi, che, ne l corso del Medioevo, la impiantarono in Sicilia e in Spagna. Già menzionata nei racconti del duecento Novellino, essa è rappresentata iconograficamente nei Tacuina sanitatis del Trecento.”
     Montanari M. Gusti del medioevo, p. 31


    ALLEGATO 7

                       

    FASE 4: Il cibo è anche una questione di ricchezza o povertà (o il cibo come status sociale)

    ALLEGATO 1
    “A sentire Giovanni de Mussis che scrive nel 1388, la città di Piacenza si era trasformata in una specie di paese di Bengodi: <<nel cibo tutti fanno meraviglie, soprattutto nei banchetti di nozze che per lo più seguono quest’ordine: vini bianchi e rossi per cominciare, ma prima di tutto confetti di zucchero. Come prima portata danno un cappone o due, e un grande pezzo di carne per ciascun tagliere è [=ogni due persone], cotto alla lampada con mandorle e zucchero e altre buone spezie. Poi danno carni arrostite in gran quantità, ossia capponi, polli, fagiani, pernici, lepri, cinghiali, caprioli o altro, secondo la stagione dell’anno. Poi danno torte giuncate, con confetti di zucchero sopra. Poi frutta. Infine, dopo aver lavate le mani, prima che si levino le tavole si dà a bere e un confetto di zucchero sopra. Infine, dopo aver lavate le mani, prima che si levino le tavole si dà da bere a un confetto di zucchero, e poi ancora da bere. Al posto delle torte e delle giuncate , alcuni danno all’inizio del pranzo delle torte fatte con uova, formaggio e latte, con sopra una buona quantità di zucchero. Per cena si danno, all’inverno, gelatine di carni selvatiche, di cappone, gallina o vitello o gelatine di pesci; poi arrosto di cappone e di vitello; poi frutta.”
    Montanari, M. La fame e l’abbondanza, p. 91

    ALLEGATO 2
    DESCRIZIONE DEL MATRIMONIO TRA ISABELLA D’ESTE E ANNIBALE BENTIVOGLIO
    “Il convito - simile a tanti altri di cui abbiamo notizia nelle cronache o nei trattati di cucina - durò sette ore, dalle 20 alle 3 di notte, durante le quali furono serviti: piccoli antipasti e cialde, con vino dolce di varie qualità; piccioni arrosto, fegatelli, tordi pernici <<con ulive confette et uva>>, e pane; un castello di zucchero <<con li merli e torri molto artificiosamente composto>>, pieno di uccelli vivi che, appena il piatto fu recato in sala uscirono fuori volando <<comn gan piacere e diletto de’ convitati>>; vennero po un capriolo e uno struzzo, attorniati da vari <<pastelletti>>, teste di vitello , capponi lessi, petti e lonze di vitello, capretti, salsicce, piccioni, con <<minestra et sapori>>, ossia salse; poi furono presentati pavoni, <<vestiti con le loro penne a guisa che facessero la ruota>>, uno per ciascuno signore invitato; poi mortadelle, lepri e caprioli cotti in guazzetto, ma rivestiti con la loro pelle in modo così perfetto <<che si mostravano vivi>>; dietro ad essi vennero tortore e fagiani, <<che dal becco loro ne uscivano fiamme e fuoco>> accompagnati con agrumi e varie salse. Poi torte di zucchero con mandorle, giuncate>> (forme di ricotta) e biscotti; e ancora teste di capretti e tortore, pernici arrosto, e un castello pieno di conigli che uscirono fuori correndo con gran divertimento dei convitati; indi <<pastelletti di coigli>>  e <<capponi vestiti>>.
    Montanari, M., La fame e l’abbondanza, pp.116-117

    NB: tutto il capitolo “Cucina ricca, cucina povera” (pp. 181-193) de Gusti del Medioevo di Massimo Montanari, ed. Laterza, 2012 si presta come approfondimento per questa fase. Qui sono scelti alcuni brani rappresentativi.

    NEGLI ALLEGATI 3, 4 e 5, i testi tratti da Montanari, M. Gusti nel Medioevo
    ALLEGATO 3
    LA CARNE
    CONTADINO: “Le carni erano bollite a lungo nella pentola appesa sul focolare di ogni casa contadina: a ciò portava la loro consistenza, particolarmente coriacea sia perché gli animali, liberi di muoversi in spazi aperti per gran parte della loro vita, sviluppavano una muscolatura soda e compatta, sia perché i contadini si cibavano spesso di animali vecchi, già sfruttati per il lavoro, o comunque cresciuti per più anni, per aumentarne il peso.” (p. 51)

    “Ai contadini, pur fra mille limitazioni, resterà il maiale attraverso gli usi residui del bosco comune o signorile, e in nuove forma di allevamento stabulare che negli ultimi secoli del Medioevo acquistano crescente importanza. Maiale cioè, soprattutto, carne conservata: è il sale, grande protagonista dell’alimentazione contadina, a consentire un po’ di dispensa per i mesi difficili, un minimo di sicurezza contro i capricci delle stagioni.” (p. 76)

    SIGNORE: “Se la carne è per eccellenza l’alimento che dà forza, esso sarà per eccellenza il cibo del potere, in virtù di un implicito passaggio intermedio (la forza come elemento primario del potere) che la cultura medievale dà in qualche modo per scontato. Il potente è il guerriero, colui che combatte meglio degli altri ed è in grado di batterli. La forza si costruisce in primo luogo con la carne. La carne è cibo del guerriero [...]. Nel IX secolo l’imperatore Lotario prescrive l’astinenza dal consumo di carne per coloro che si sono macchiati di grave colpa nei confronti del sovrano; contemporaneamente li obbliga a deporre le armi. [...] Infine i signori tengono a riservare a se stessi la pratica della caccia, che ha un ruolo essenziale nella definizione e della rappresentazione dell’identità nobiliare. ” (pp. 74-75)

    “Nel XIV e nel XV secolo nessuno sembra dubitare che le carni meglio convenienti alla dieta aristocratica siano quelle dei volatili: pernici, fagiani, quaglie. [...] I volatili esprimono infatti [...] un diverso ideale di vita e di alimentazione: la leggerezza. Il volatile vola e perciò è leggero [..]. La sua leggerezza vuol dire finezza, vuol dire carni delicate, adatte ad un’élite di cortigiani (o all’alta borghesia cittadina) che non rappresentano più la loro eccellenza in termini di forza muscolare, bensì di capacità intellettuale (politica, ndr).” (pp. 78-79)

    ALLEGATO 4
    IL PANE
    “[...] cominciò a caratterizzare e definire il regime alimentare “povero”, quello a cui si attenevano i contadini e più in generale i ceti subalterni. Per tutti costoro il consumo di pane rimase, per secoli, altissimo e decisivo: nei paesi europei, razioni giornalieri di 700-800 grammi, fino a un chilogrammo e più, sono attestate come normali nel Medioevo e oltre, almeno fino all’Ottocento. Questo alimento forniva la parte più consistente dell’apporto calorico quotidiano: dal 50 al 70% [...].” (p. 63)

    CONTADINO: “Nelle case contadine, il pane si mangiava - a Dio piacendo - tutti  i giorni: “come è costume dei rustici” (sicut mos rusticorum habet), un colono di cui racconta Gregorio di Tours riceveva ogni mattina dalla moglie un pane, e non cominciava a mangiarlo prima di averlo fatto benedire dal prete. Ma non dobbiamo pensare che il pane si facesse ogni giorno [...] i grandi pani della mensa contadina erano fatti per durare almeno una settimana.” (pp. 63-64)
    “[...] il pane dei poveri era scuro perché fatto - interamente o in parte - con cereali inferiori: segale, avena, orzo, spelta, miglio, panìco… una folla di prodotti che per secoli ha scandito il ritmo dell’alimentazione contadina.” (pp. 64-65)

    SIGNORE: “Nei banchetti principeschi, alle numerose carni si affiancava di regola il pane, distribuito in “ceste dorate” [...]. Solo che era un pane di qualità diversa. La differenza si coglieva a prima vista, in un dato di natura cromatica: il pane dei ricchi era bianco, perché fatto con frumento puro”. (p. 64)

    ALLEGATO 4
    FORMAGGIO VS CARNE
    “Un tipico prodotto della gastronomia povera, che la cultura medievale, come l’antica, associa soprattutto al mondo dei contadini e dei pastori, è il formaggio. Tuttavia anche in questo caso si avvia nel Medioevo un percorso di nobilitazione legato sia a fattori di gusto, sia all’immagine del formaggio come cibo “di magro”, sostitutivo della carne nei giorni di astinenza infrasettimanale e di vigilia e poi, dal XIV-XV secolo, anche in quaresima.” (p. 190).

    ALLEGATO 5
    IL CITTADINO e LA CARNE
    CITTADINO. “[...] il pubblico cittadino del pieno e del basso Medioevo non dà più la preferenza alla carne di maiale bensì a quella di bovino (in particolare vitello e vitella) o, addirittura, a quella di ovino, pecora o castrone, che i testi di dietetica considerano pessima. [...] In tutta Europa i consumi cittadini sembrano snobbare l’amato porco e puntare altrove. E’ anche una questione di peso: allevare un maiale, sacrificarlo e prepararlo a dovere, facendone prosciutti, salami e tranci salati, è operazione perfettamente congrua alle dimensioni e alla esigenze della famiglia contadina. Allevare e trattare un bovino è più un’operazione di mercato, dove qualcuno prepara e vende a molti.” (p. 77)

    CONFRONTO: “[...] è il sale,  grande protagonista dell’alimentazione contadina, a consentire un po’ di dispensa [...]. Le élites sociali, invece, amano la carne fresca, freschissima: l’uso medievale prevede talvolta la frollatura delle carni (soprattutto quelle di animali selvatici, più sode e coriacee)  ma spesso il consumo avviene subito dopo l’abbattimento della bestia. [...] Al contrasto signore/contadino (nei secoli centrali del Medioevo, ndr), ereditato dall’alto Medioevo, si aggiunge e si sovrappone quello fra cittadino e contadino. [...] (lo stile di alimentazione) del contadino rimane in prevalenza fondato sul consumo diretto, cioè sulle risorse che egli stesso riesce a produrre: fra le carni, soprattutto il maiale, pur se non mancano, fin dall’alto Medioevo, tracce significative di consumo di bovini (il bosco medievale nutriva anche questi) e, nelle regioni più ricche di prati naturali, ovini. Poi il pollame domestico: qualche gallina, oche, anatre. Il cittadino invece - si dice “il cittadino” senza aggettivi: il signore e il borghese di ceto, ma in qualche misura anche il popolo minuto - può contare, in condizioni di normalità, su un mercato ben rifornito e politicamente protetto: garantire il cibo alla comunità è il primo dovere di ogni pubblica amministrazione [...]. I banchi delle botteghe e del mercato debbono rispondere ad ogni richiesta [...]. In certe città saranno le stesse corporazioni a gestire il mercato della carne e quello del pesce, talora coesistenti ma più spesso alternati, nel corso delle settimane e dei mesi”. (pp.76-77)

    IL CITTADINO E IL PANE
    CITTADINO: “Nelle città anche i poveri mangiavano pane bianco - sempre che non vi fosse carestia: circostanza che, peraltro, si verificava con sconsolante regolarità.” (p. 65)

    ALLEGATO 6
    Nella Germania del XIII secolo, il vecchio contadino Helmbrecht (protagonista dell’omonima novella in versi di Wernher der Gartenaere) raccomanda a figlio la “sua” dieta di farinacei sostenendo che carne e pesce sono riservati ai signori: “Tu devi vivere di ciò che tua madre ti dà. Bevi acqua, caro figlio mio, piuttosto che comprare il vino con le ruberie [...]. Settimana dopo settimana tua madre ti cuoce la buona pappa di miglio: questa devi mangiare e ingozzarti piuttosto che dare un palafreno rubato in cambio di un’oca [...]. Figlio, mescola la segale con l’avena, piuttosto che mangiare pesce coprendoti di vergogna”. Ma il figlio non ci sta: “Beviti pure l’acqua, padre mio, io voglio bere il vino, e mangiati il polentone, io invece voglio mangiare quello che chiamano pollo arrosto”.
    Montanari, M., La fame e l’abbondanza, p. 73

    ALLEGATO 6
    TABELLA PER IL CONFRONTO DEI TESTI

    FASE 5: Il cibo come immaginario collettivo
    ALLEGATO 1
    "[...] di spigole, salmoni e aringhe sono fatti i muri di tutte le case; le capriate sono di storioni, i tetti di prosciutti e correnti di salsicce [...]. Di pezzi di carne arrosto e di spalle di maiale sono circondati tutti i campi di grano; per le strade si rosolano grasse oche che si girano da sole su se stesse, e da vicino sono seguite da candida salsa all'aglio; e vi dico che per ogni dove, per i sentieri e per le vie, si trovano tavole imbandite, con sopra candide tovaglie: tutti quelli che ne hanno voglia possono mangiare e bere liberamente; senza divieto né opposizione ciascuno prende ciò che desidera, pesce o carne, e chi volesse portarsene via un carro potrebbe farlo a suo piacimento [...]. Ed è sacrosanta verità che in quella contrada benedetta scorre un fiume di vino [...] per metà di vino rosso, del migliore che si possa trovare a Beaune o oltremare; per l'altra metà di vino bianco, del più generoso e prelibato che mai sia stato prodotto a Auxerre, a La Rochelle o a Tonnerre".
    Brano tratto da “Païs de Coquaigne”, Fabliau francese del XIII secolo.

    Il carattere elitario dei consumi cane si definirà anche in termini qualitativi: la selvaggina, in modi più o meno accentuati a seconda delle regioni, sarà riservata alle tavole “alte” della società. Pratiche sistematiche di delimitazione del territorio restringeranno a pochi l’uso della foresta, o proibiranno l’esercizio della caccia nelle «riserve». Figure leggendarie come quella di Robin Hood, che percorre la foresta in spregio ai divieti imposti dai nobili, sono anche «immagine utopica di un mondo in cui si potesse andare a caccia e mangiar carne» - come scrive Rodney Hilton. Analogamente, la carne - di ogni genere e specie, bell’e pronta e cucinata in tanti modi diversi - è la presenza più cospicua nei paesi di Cuccagna che l’immaginario popolare si raffigura forniti di ogni bendidio: un’utopia alimentare che si diffonde a iniziare dal XIII secolo e permane lungo tutta l’età moderna, svelando, come altra faccia di sé, il quotidiano paese della fame (o almeno dell’insoddisfazione).
    Da Montanari, M., Gusti del Medioevo, pp. 75 -76.

    Oppressi dalla paura della fame e insoddisfatti nel loro desiderio di mangiare molto e bene, gli uomini del Medioevo amarono sognare che vi fosse un paese benedetto in cui il cibo era sempre disponibile in abbondanza, senza neppure il bisogno di lavorare per procurarselo: un posto simile al Paradiso Terrestre della Bibbia dove, però, non si trovavano solo erbe e frutti deliziosi, ma soprattutto carni di ogni specie, succulente e ben condite. Mangiar carne a volontà, infatti, era il primo desiderio della povera gente, che nella vita reale, invece, mangiava in prevalenza cibi vegetali (cereali, legumi, verdure).

    Questo paese immaginario fu chiamato «Cuccagna» e fu descritto in numerosi testi, in molte lingue europee. Un poemetto francese del XII secolo ci assicura che tutti i campi sono recintati con pezzi di carne arrosto e spalle di maiale; per le strade, grosse oche si rigirano da sole sugli spiedi, cospargendosi di una saporita salsa all’aglio; ovunque, per i sentieri e per le vie, si incontrano tavole imbandite, elegantemente apparecchiate con candide tovaglie, e chiunque ne abbia voglia può sedersi a mangiare: carne di cervo o di uccelli, arrostita o lessata, ognuno prende ciò che desidera e può portarne via dei carri, se vuole. I muri delle case sono fatti di pesci squisiti (spigole, salmoni, aringhe); i tetti di storioni e di prosciutti; le cornici di salsicce. In mezzo alla campagna scorre un fiume di vino, per metà rosso, per metà bianco, dei più prelibati che si possano trovare.

    Chissà se qualcuno credeva davvero che simili fantasie… Certo è che nella letteratura medievale (e anche in quella moderna) vengono messi in scena personaggi ingenui e sempliciotti, a cui viene fatto credere che Cuccagna esista realmente. Così accade, ad esempio, in una novella di Giovanni Boccaccio - un celebre scrittore italiano del Trecento -, dove un gruppo di amici gioca uno scherzo a Calandrino, raccontandogli le meraviglie che sostengono di aver visto a Bengodi (così Boccaccio chiama il nostro paese): «vi era una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavano persone che non facevano altro che far gnocchi e ravioli e cuocerli in brodo di cappone, e poi li facevano rotolare giù, e chi più ne pigliava, più ne mangiava».

    In un testo spagnolo del Cinquecento, un’opera teatrale scritta da Lope de Rueda, due ladroni si prendono gioco del povero Mendrugo:
    - Siediti qui con noi, che ti raccontiamo delle meraviglie del paese di Cuccagna.
    - Di quale paese, signore?
    - Del paese in cui si frustano gli uomini che vogliono lavorare.
    - Oh, che bel paese! Raccontatemi, vi prego…
    - Avvicinati e ascolta. Nel paese di Cuccagna scorre un fiume di miele, e al suo fianco un fiume di latte. Fra i due fiumi c’è una sorgente da cui escono panini al burro e allo zucchero, bagnati in formaggio fresco.
    - Che posto straordinario! Non mi farò ripetere l’invito due volte.
    - Taci e ascolta: nel paese di Cuccagna, gli alberi hanno il tronco fatto di lardo; le foglie sono frittelle dolci, e i frutti sono bignè che, quando cadono nel fiume di miele, navigano dicendo: Màsticami! Màsticami!
    - E cosa c’è d’altro?
    - Le strade sono lastricate con rossi d’uova e tra un rosso e l’altro vi sono dei pasticci di carne con pezzetti di lardo.
    - Lardo arrostito?
    - Arrostito, certo; e che grida: Inghiottimi! Inghiottimi!
    - Mi pare già di averlo sulla lingua…
    - Ma ascolta ancora: nel paese di Cuccagna vi sono degli spiedi lunghi trecento piedi, tutti pieni di pollastri e capponi, di pernici, conigli e francolini.
    - Oh che acquolina in bocca!
    - E a fianco di ogni uccello c’è un maialino che attende solo di essere tagliato, e dice: Divorami! Divorami!
    - Ah, come vi ascolto volentieri! Starei tutto il giorno a sentir parlare di cose da mangiare…
    - Ma non è finita. Il paese di Cuccagna è tutto pieno di vasetti di marmellata, di confetture di zucca e di limone, di marzapani e di frutti canditi.
    - Piano, signore, raccontate piano…
    - Ci sono confetti e fiaschi di vino, e ogni cosa è lì che dice: Bevimi! Mangiami! Bevimi! Mangiami!
    - Mi pare quasi di avere già bevuto e mangiato…
    - E per finire, nel paese di Cuccagna ci sono pentolini di riso con le uova e il formaggio…
    - Come quello che ho qui con me?
    - Proprio così: come il pentolino che è arrivato pieno e che il diavolo si è portato via!
    Distratto dalla succulenta conversazione, il povero Mendrugo non si è accorto che anche la sua povera pignatta di riso si è svuotata. I due ladroni se la ridono sotto i baffi, per lui sarà un giorno di digiuno.
    da Montanari, M., Il pentolino magico, p. 77.

     
    Pieter Bruegel il Vecchio, Il paese della cuccagna, 1567, olio su tela.

     
    Jodocus van de Hamme, Abbondanza dei campi, 1650, Olio su tela.

    GRIGLIA UTILIZZABILE PER TUTTE LE FASI DEL LABORATORIO

     

    BIBLIOGRAFIA
    Brusa, A., Laboratorio di storia, La Nuova Italia, Firenze, 1991.

    Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza,  Roma-Bari, 1993

    Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola, Editori Laterza, Roma-Bari, 2012

    Il pentolino magico, Editori Laterza, Roma-Bari, 1995

    Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009

    Sharan, Y. e Sharan, S., Gli alunni fanno ricerca, Edizioni Erickson, Trento, 1998

    Shiva, V., Storia dei semi, Feltrinelli, Milano, 2013

    Zuin, E., I saperi disciplinari nel curricolo per competenze, Centro studi Erickson, Trento, 2013.


    Manuali per la SSPG:

    Brusa, A., Gurracino, S., De Bernardi, A., L’officina del tempo, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, Milano 2007.


    SUGGERIMENTI PER LE PIATTAFORME

    Per quanto riguarda le piattaforme si suggeriscono le seguenti:

    https://www.fidenia.com/

    http://www.edmodo.com

    https://www.schoology.com/

    https://myhomeworkapp.com/

    APPENDICE INTERDISCIPLINARE

    Si propongono dei collegamenti interdisciplinari allo scopo di arricchire e approfondire l’argomento dell’UDL.

    Focus di Italiano (fase 1): se si vuole legare l’attività con un momento interdisciplinare, la lettura accompagnata dal commento dei testi “Ciò che piace fa bene”, p. 117, “La pasta e gli italiani: un’identità una e molteplice”, p. 197 tratti da “Il riposo della polpetta” di Massimo Montanari11 , si prestano. Si tratta di articoli di giornale con taglio divulgativo caratterizzati dalla precisione nelle informazioni scientifiche propria di uno storico, ma stilisticamente abbastanza semplici così da essere fruibili da ragazzi di prima media.

    Focus di Italiano, Educazione alla cittadinanza e Scienze (fase 2): il tema è “semi come metafore della cultura: si incontrano ma senza prevaricazioni”, il che porta a una riflessione sull’importanza della biodiversità. Si propone la lettura del brano “C’è seme e seme” dal testo Storia dei semi di Vandana Shiva, con lettura e comprensione del testo invitando la classe a scrivere le proprie idee sulla piattaforma piattaforma per poi ridarne un testo collettivo. Per stimolare il dibattito l’insegnante può proporre sulla piattaforma o in classe la visione del frammento del film di Ermanno Olmi “Terra madre” in cui si parla della banca mondiale dei semi alle (delle) Isole Svalbard.  Il documento redatto insieme può essere stampato e messo in una cartella/portfolio che andrà ad alimentarsi nelle fasi successive e rimarrà a testimonianza del percorso trasversale fatto.
    A questo lavoro si aggancia un’ora di educazione alla cittadinanza che legge la storia dei semi in chiave metaforica e la interpreta alla luce dell’integrazione e della tolleranza, tornando così al discorso del cibo come incontro affrontato nell’ora di storia.

    Focus di Educazione alla cittadinanza (fase 4): una lezione dialogata simile a un dibattito, nei limiti delle competenze di una prima media. Proponendo come spunto la mappa concettuale finale, la discussione sarà indirizzata verso i conflitti sorti all’interno della classe e causati proprio dal dare etichette ai compagni perché “diversi”.

    Focus di attualità (fase 5): “La fame oggi”. Lezione dialogata sulle cause delle carestie in età medievale e collegamento con l'attualità prendendo spunto da materiali di approfondimento predisposti dall’insegnante (testi, filmati, documenti, carte e grafici).

    Focus di Arte e immagine (fase 5): laboratorio artistico con realizzazione di un albero della cuccagna in cui ciascuno studente mette il proprio oggetto del desiderio.

    NOTE

    1. Definizione del Devoto-Oli, Vocabolario della lingua italiana.
    2. Sharan, Y. e Sharan, S., Gli alunni fanno ricerca, Edizioni Erickson, Trento, 1998
    3. “La melanzana: cibo da gente basse e da ebrei”, p. 31, “La leggerezza del monaco”, p. 128, “Gastronomia monastica”, p. 132, “Silenzio di mangia”, p. 168, “La gola filosofale”, p.134, “Carnevale e quaresima”, p. 161, “Dieta quaresimale”, p. 163.
    4.“Il pane che viene dal cielo”, p. 11, “La religione del pane”, p. 52, “Il piacere e la rinuncia”, p. 67.
    5. Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 91-92.
    6. Dal materiale per il percorso tematico “Il pranzo è servito” della mostra Il cibo nell’arte, Capolavori dei grandi maestri dal Seicento a Warhol. In Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 116-117.
    7. Brusa, A., Laboratorio di storia, La Nuova Italia, Firenze, 1991.
    8. Netta versione offerta da Massimo Montanari, v. Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 119.
    9. Montanari, M., Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola, Editori Laterza, Roma-Bari, 2012, pp. 75-76.
    10. “Il paese di Cuccagna”, p. 77
    11.   In particolare, in questa parte si possono leggere, come spunto di riflessione sui significati del cibo e della cultura alimentare, “Ciò che piace fa bene”, p. 117, “La pasta e gli italiani: un’identità una e molteplice”, p. 197.

  • Il videoconcilio di Trento in Dad. Ovvero: se il Papa avesse avuto internet, sarebbe bastata una mezzoretta?*

    di Raffaele Guazzone

    Una premessa, doverosa, breve e (poco) polemica

    Per molti insegnanti la scuola è finita dopo le vacanze di carnevale. Per molti altri invece, è cominciato qualcosa di diverso. È arrivato quel momento terrorizzante ed eccitante in cui – per cause di forza maggiore – programmi, libri, verifiche ed interrogazioni restano nel cassetto, e bisogna inventarsi qualcosa di nuovo. Non so dire cosa resterà nel mondo della scuola di questi mesi complicati, così come non so ponderare le ricadute nel tempo di questa didattica a distanza.

    Vivo quotidianamente sulla mia pelle (e su quella dei miei ragazzi) le difficoltà della situazione, ma non ho nessuna intenzione di stare ad aspettare, di trincerarmi dietro ad un ovvio “non è lo stesso, se non siamo in classe: era meglio prima”. Un po’ perché non ci sono molte alternative alla didattica a distanza, e lo dico da docente, non da epidemiologo; un po’ perché non è che le cose andassero poi così bene nel mondo della scuola: i buchi enormi della didattica a distanza, leopardianamente, ci fanno dimenticare troppo rapidamente le criticità che abbiamo sperimentato fino a ieri.

    Distanze e tecnologie

    La chiusura delle scuole ha obbligato anche i docenti più refrattari a confrontarsi con le nuove tecnologie. Non è questa la sede per ripercorrere la cronistoria, ma confesso che ho riso e pianto tantissimo grazie ai commenti dei colleghi. Queste pagine hanno già ospitato alcune delle mie riflessioni (ad esempio a proposito del tablet o sulla didattica ludica), posso sintetizzare così il sugo di tutta la storia: secondo me la tecnologia deve permetterti di fare meglio quel che già fai in presenza, oppure permetterti di fare qualcosa che in classe non potresti fare.

    E ora che la classe, così come la conoscevamo, non c’è più, e che la tecnologia pervade la nostra quotidianità didattica, è fondamentale concentrarsi proprio su quest’ultimo aspetto: cosa puoi fare di diverso?

    Italia 2020: fuga dalla cameretta

    L’unità didattica che sto affrontando in Storia nelle mie classi terze riguarda Riforma e Controriforma.

    Papa Paolo III1 Sebastiano Ricci, <em>Papa Paolo III ha la visione del Concilio di Trento</em>. Olio su tela, 1687-1688,Piacenza, Musei Civici

    Per mia (piccola) esperienza le tesi di Lutero e più in generale le dispute teologiche non sono precisamente l’argomento più affine al sentire di un sedicenne medio, specie se ha scelto un professionale (insegno in un alberghiero), specie durante una pandemia. Ho deciso di portare comunque avanti parte del programma, partendo però da un intimo sentire che accomuna nel profondo sia me che i miei ragazzi: tutti vorremmo essere altrove, in questo momento. Vorremmo essere altro rispetto a ciò che ci detta la quotidianità.

    Solo il dove e il come ci separano veramente, e sta a me come docente, sceglierli per la mia classe: decido di portarli a Trento nel 1563 per portarli via dall’Italia del 2020, anche solo per un po’, e il compromesso mi pare accettabile sia dal punto di vista didattico che umano.

    L'attività

    Dopo un ciclo di sei video nei quali sintetizzo la questione della riforma luterana, la frattura col Papa, la scomoda posizione dell’Imperatore e le reazioni da parte di nobili e contadini tedeschi, chiudo la narrazione descrivendo i lavori e le decisioni prese dal Concilio di Trento. Affido poi alla classe due attività di approfondimento: la prima è una presentazione di gruppo online sugli altri riformatori, la seconda è un lavoro individuale di riflessione sul dibattito nato in seno alla Chiesa dopo lo strappo della protesta tedesca.

    Devo pensare però a qualcosa che obblighi i ragazzi a mettersi in gioco. Non voglio correre il rischio di leggere degli sterminati copincolla da Wikipedia: come ho già fatto diverse volte in classe, li obbligo ad interpretare un gioco di ruolo, costringendoli nello specifico ad immedesimarsi in un ipotetico partecipante al Concilio, che deve esprimersi pubblicamente davanti all’assemblea. Occorre studiare, scriversi un discorso (anche breve) e prepararsi al dibattito, sapendo che ci sarà parecchio da litigare, anche perché i lavori saranno presieduti dal Papa in persona, cioè da me.

    Questo è il testo che ho inviato in piattaforma, con la richiesta di produrre un elaborato scritto entro la data fissata per la videoconferenza nella quale avremmo fatto il gioco di ruolo.

    Simuleremo i lavori del Concilio di Trento, che vide i partecipanti dividersi e scontrarsi (anche animatamente) sulle varie proposte per reagire alla riforma luterana. Sarai chiamato ad interpretare uno dei partecipanti all'assemblea, e ad esprimerti pubblicamente sulla tua posizione in merito. Pertanto, devi prepararti come segue:

    1. Studia con attenzione la parte relativa alla situazione della chiesa nel '500
    2. Studia con attenzione la parte relativa alla dottrina di Lutero
    3. Studia con attenzione la parte relativa al Concilio di Trento
    4. Scrivi un breve discorso, ispirandoti a una delle tre seguenti linee di pensiero (prosegui la traccia che ti lascio come esempio):

    GLI INTRANSIGENTI: "Bruciamolo! La nostra santa Chiesa si è sempre comportata in maniera perfetta, perché... Lutero invece è un eretico che merita il rogo, perché..." (continua specificando perché il Papa ha ragione e Lutero torto, secondo te. Preparati a litigare con chi non sarà d'accordo). Se scegli questa posizione vestiti di NERO.

    I CONCILIANTI: "Lutero sbaglia nel suo modo di agire, ma ha ragione su molte cose, ad esempio... Il santo padre dovrebbe approfittare dell'occasione per aggiustare ciò che non funziona nella nostra Chiesa, ad esempio..." (Pur rimanendo fedele al Papa, devi indicare quali aspetti apprezzi del pensiero di Lutero e perché, oltre ad evidenziare i problemi della Chiesa, preparandoti a difenderti dagli attacchi di chi ti è contrario). Se scegli questa posizione, vestiti di BIANCO.

    GLI SCISMATICI: "Lutero ha assolutamente ragione! Era ora che qualcuno dicesse le cose come stanno, perché la Chiesa da troppo tempo ignora problemi come... Lutero invece propone risposte sicure, ad esempio..." (Sostieni le posizioni di Lutero criticando quelle del Papa e di chi lo sostiene.

    Puoi accusare duramente il pontefice e i suoi seguaci, che però non esiteranno a difendersi). Se scegli questa posizione, vestiti di ROSSO.

    Dopo aver scritto il discorso (non troppo schematico, ma nemmeno un poema! ricordati che dovrai leggerlo ad alta voce o comunque interpretarlo) caricalo in piattaforma.

    5. Prepara il tuo vestito da cardinale/vescovo/nobiluomo, utilizzando il colore della fazione che hai scelto di rappresentare. Basta anche una semplice maglietta o un asciugamano in testa, ma usa la fantasia. Ricchi premi per il costume più accurato. Per ogni dubbio, scrivimi pure. Buon lavoro.

    Il setting

    L’idea del lavoro non è semplicemente scrivere un discorso e interpretare un personaggio: è interagire, dibattere, litigare (cosa che ai miei ragazzi viene benissimo). In questo senso, il testo del Concilio di Trento diventa un pre-testo per far socializzare agli alunni sia le proprie conoscenze che le proprie capacità di comunicazione.

    Sono stato quindi particolarmente attento alla costruzione del setting, tra il serio e il faceto.

    Mi sono costruito un costume da Papa con tanto di tiara d’argento (pellicola d’alluminio, ovviamente), con quella cura meticolosa anche per le cose piccole che la quarantena ci sta finalmente insegnando ad avere, ho preparato un cartiglio ironico e una colonna sonora filologicamente accettabile per accogliere i miei alunni al momento della connessione, mi sono calato la maschera e disposto all’attesa.

    Quello che è successo lo potete vedere qui. Costume da Papa2. Il costume da Papa

    Il dibattito

    In sintesi, il dibattito è stato partecipato, serrato e divertente, anche perché la mia interpretazione spesso sopra le righe di papa Pio IV ha coinvolto i ragazzi e mantenuto saldo l’orizzonte della discussione.

    Ho dovuto fare alcune semplificazioni e forzature: nel gioco immaginiamo di essere all’ultima seduta del Concilio e parliamo di Lutero come fosse vivo, alludo all’imperatore Carlo V anche se ha abdicato da quasi dieci anni; spesso spingo sul tasto delle indulgenze come necessarie per il restauro di San Pietro, quando il cantiere era già avviato, infine la Missa Papae Marcelli di Palestrina che funge da sigla di apertura è di poco successiva alla chiusura del Concilio, ma mi piaceva cogliere l’occasione per ribadire le conseguenze della Controriforma anche in campo artistico.

    Rotta la timidezza iniziale e accettate le regole del gioco, i ragazzi si sono sciolti e hanno aperto pieghe inaspettate nella narrazione che abbiamo improvvisato insieme.

    Abbastanza inverosimile ad esempio la presenza di ortodossi al Concilio, ma il contributo dell’alunno bielorusso, che si improvvisa patriarca e fa notare a tutti come solo i cristiani orientali sappiano qual è la vera interpretazione del messaggio di Gesù, è un colpo di genio. Preziosa anche la presenza di un alunno di religione ebraica, che mi ha dato l’occasione per far riflettere i ragazzi sulle dinamiche di lungo periodo che stanno a monte dell’antisemitismo novecentesco, e per ragionare sul fatto che il desiderio di conciliare una frattura teologica sia distante anni luce dall’apertura ad una più generale tolleranza in materia religiosa.

    Papa Pio IV3. <em>Ritratto di Pio IV</em>, cerchia di Tiziano <br/>Cantalupo in Sabina (Rieti), Collezione Camuccini

    Manca il terzo monoteismo: non ho affrontato la questione della minaccia ottomana inserendo anche l’Islam nell’agone semplicemente perché non ho ancora toccato l’argomento nelle mie lezioni. Piuttosto improbabile infine la presenza di delegati luterani nella fase finale dei lavori; realistica invece la loro posizione di minoranza.

    Il debriefing

    Al termine del gioco di ruolo, ci siamo soffermati ad analizzare quanto era emerso dalla nostra discussione. Al netto delle semplificazioni operate da me per evitare la dispersione dei contributi e concentrare gli sforzi dei ragazzi verso la costruzione di un discorso coerente, il dibattito si è imperniato fondamentalmente sulla questione delle indulgenze e del ruolo delle opere, non tanto su temi dottrinali realmente al centro del Concilio di Trento. L’esito era piuttosto prevedibile, questi sono gli aspetti che maggiormente colpiscono i ragazzi quando in classe si affronta l’argomento della Riforma. In più, ho teatralizzato molto il ruolo di un papa attaccato ai soldi, semplicemente perché la cosa era divertente, e ridere aiuta ad entrare in quella dimensione di flusso che accomuna sia il gioco che lo spettacolo, come spiega l’antropologo Victor Turner (Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1982).

    La semplificazione è necessaria, per riconnettere il Concilio al più ampio gioco dei poteri politici dell’Europa cinquecentesca. Se è vero che a Trento si parla di teologia, è altrettanto vero che Riforma protestante e cattolica sono anche occasioni per prese di posizione politiche, che condizioneranno tutta la storia dell’Europa nell’età moderna: si pensi alle guerre di religione e alle motivazioni più profonde di tali conflitti.

    Il videodebriefing

    Aver registrato la videoconferenza infine fornisce uno strumento prezioso ai ragazzi: al di là del narcisismo sempre connesso quando si parla degli adolescenti e del rapporto con la dimensione pubblica della loro immagine, riascoltare la discussione è un buono strumento per valutare a posteriori la propria preparazione sui temi del dibattito, e per andare a cercare per differenza quali sono i contenuti mancanti (uno su tutti, i termini teologici della disputa fra Lutero e la Chiesa), sui quali è bene soffermarsi meglio in fase di studio individuale per la verifica finale.

    Copertina4. La copertina del libro di Victor Turner

    Quel che non puoi fare in classe

    Questa attività non sarebbe stata possibile in classe, almeno non in questa forma. Gli alunni coinvolti sono particolarmente collaborativi in linea generale, tra noi si è sviluppato un rapporto di fiducia e sono abituati ai miei istrionismi, così come alla dimensione ludica di alcune attività che ho proposto in precedenza. Ma difficilmente avrebbero accettato di camuffarsi, se fossero stati a scuola. Troppo pesante sulle spalle di un adolescente, il giudizio degli altri. Anche in un contesto accogliente come questa classe. Essere a casa, soli nella propria camera, sostanzialmente nascosti seppure visibili, ha creato invece le condizioni necessarie per rompere il tabù della vergogna.

    Quando ho proposto l’attività non ero certo che tutti avrebbero accettato di vestirsi a tema, anche se la richiesta era piuttosto semplice (indossa un capo del colore relativo alla fazione che intendi sostenere), eppure tutti hanno raccolto l’invito, sorprendendomi. Tutti hanno accettato di recitare una parte, senza remore eccessive.

    Dietro la maschera

    Indossare una maschera non è un gesto banale. Prevede, ad esempio di spogliarsi, mettere da parte la propria identità, anche solo un poco, mostrarsi nudo di fronte ai compagni, sapendo che sono nudi anche loro, perché tutti decidono di essere qualcosa che non sono. E quando ti ritrovi nudo in mezzo agli altri, inizi a mettere da parte differenze, a dimenticarti di molte cose superflue, a partire dal pesante giudizio di chi ti circonda. È un processo che in presenza costerebbe fatiche incredibili e comporterebbe tempi eterni, specie per dei ragazzi fondamentalmente fragili come gli adolescenti con cui lavoro. Ma nel recinto sicuro delle loro camerette qualcosa è successo, e una barriera è caduta: tutti, davvero tutti hanno partecipato. Anche i più timidi, i più imbranati, quelli che a parlare in pubblico vanno nel panico, quelli che appena li chiami in classe diventano paonazzi, quelli che ad interrogarli ti senti il Grande Inquisitore e devi rimandarli al posto tre o quattro volte prima di strappargli un numero di risposte sufficiente a stabilire una valutazione.

    Videoconferenza5. Uno screenshot della videoconferenza

    Questo virus ci ha chiuso in casa, ci tiene lontani, mina il nostro presente e il nostro futuro, ma apre anche piccole porte dentro di noi. C’è chi non ha il coraggio di affacciarsi, perché ha paura del vuoto; c’è chi invece sta oliando i cardini per far uscire il proprio sé – ancora nascosto, per il momento, dalla maschera di quel grande gioco di ruolo che in fondo è la scuola.

    Il teatro dentro la classe

    Ma non sono solo i ragazzi a spogliarsi, in questa attività. Ci sono anche io. Non credo di essermi dato in pasto ai loro commenti come giullare, ma ho cercato di essere una guida, una specie di master se il nostro fosse stato “solo” un gioco di ruolo. Per questo sono stato molto attento a creare un setting elaborato nei limiti delle possibilità del mio appartamento: il gioco chiede serietà e precisione per rompere la barriera dell’incredulità e coinvolgere i partecipanti. E per poter giocare a scuola – anche a distanza – la prima barriera che va infranta è proprio quella della quarta parete che separa la cattedra dai banchi. Spogliarsi delle nostre identità, mostrarsi nudi di fronte a quello che non è più pubblico, ma parte della compagnia di giro, indossare una maschera e cominciare la recita (non è un caso che l’inglese usi la stessa parola per definire le azioni della rappresentazione scenica e del gioco).

    Foto6. Bread and Puppet Circus, foto di Walter S. Wantman

    Non sto parlando del lavoro di gruppi della post-avanguardia come il Living Theater o Bread and Puppet sto parlando della scuola e di un paradigma da ridiscutere, utilizzando anche gli strumenti del teatro – o del cinema, se la distanza lo impone. E mai probabilmente avremo un’occasione, drammatica ma necessaria come quella che stiamo vivendo, per farlo davvero.

    Sopperite alle nostre deficienze
    con le risorse della vostra mente:
    moltiplicate per mille ogni uomo,
    e con l’aiuto della fantasia
    createvi un poderoso esercito.
    Quando udrete parlare di cavalli
    pensate di veder cavalli veri
    stampar l’orme dei lor superbi zoccoli
    sopra il molle terreno che le accoglie.
    Sarà così la vostra fantasia
    a vestire di sfarzo i nostri re,
    a menarli dall’uno all’altro luogo,
    saltellando sul tempo,
    e riducendo a un volger di clessidra
    gli eventi occorsi lungo diversi anni […]
    William Shakespeare, Enrico V

     

    * Esperienza realizzata nella classe 3ARP dell’Istituto di Istruzione Superiore “Luigi Cossa” di Pavia il 24 aprile 2020.

  • Insegnare la storia del mondo contemporaneo

    di Daniele Boschi

    Atomiche su Hiroshima e Nagasaki1. Le nuvole a forma di fungo causate dal lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Non è raro che i programmi di storia svolti nel quinto anno del Liceo si fermino alla fine della Seconda guerra mondiale e all’immediato dopoguerra.

    Sono passati più di quattro anni dall’appello che Cesare Grazioli rivolse ai docenti di storia delle scuole secondarie superiori affinché insegnassero la storia degli ultimi cento anni. Grazioli osservava che, vent’anni dopo l’emanazione del decreto Berlinguer, non era raro imbattersi in classi che arrivavano agli esami di Stato con programmi di storia che non andavano oltre la fine della Seconda guerra mondiale. Proprio a partire dalla constatazione che gran parte degli insegnanti non riesce ad inserire nel curricolo lo studio strutturato degli ultimi decenni, è nata l’iniziativa che ha portato alla creazione del Laboratorio del tempo presente e della rete LabSto21. Il Laboratorio e la rete mirano a promuovere un nuovo e diverso modo di affrontare la storia del ‘900 e degli inizi del nostro secolo, nel contesto di un generale ripensamento della struttura del curricolo, dalle scuole elementari alle superiori. Questo articolo vuole fornire un ulteriore contributo a questo itinerario di innovazione didattica, che coinvolge scuole e università. Mi riferirò esclusivamente all’insegnamento della storia nell’ultimo anno dei Licei, sia perché ho sempre insegnato nei Licei, sia perché tra le Indicazioni nazionali per i percorsi liceali e le Linee guida per gli Istituti tecnici e professionali vi sono notevoli differenze1.

    Lo svolgimento dei programmi di storia nell’ultimo anno dei Licei

    Qual è attualmente l’articolazione dei programmi di storia effettivamente svolti nell’ultimo anno dei Licei? L’esame di un piccolo campione dei documenti che i Consigli di classe preparano per le classi quinte in vista degli esami di Stato2 suggerisce che, anche se le classi che si fermano alla Seconda guerra mondiale rappresentano probabilmente un caso limite, gran parte delle energie e dell’attenzione dei docenti e degli studenti, nell’ultimo anno dei Licei, continuano ad essere focalizzati sulla storia della prima metà del ‘900, cosicché la storia davvero “contemporanea” – quella che comincia dagli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso - viene spesso trattata in modo superficiale e affrettato nelle ultime settimane dell’anno scolastico, oppure non viene trattata affatto.

      NUMERO DELLE CLASSI
    INDIRIZZOPrima metà dell'800Seconda metà dell'800Inizi del '900TOTALE CLASSI
    Classico 5 6 11
    Scientifico 1 16 12 29
    Linguistico 3 3 2 8
    Scienze umane 2 2 2 6
    Musicale 1 0 0 1
    TOTALE 7 26 22 55
    TABELLA 1
    Punto di partenza dei programmi di storia svolti nelle classi quinte di alcuni Licei romani nell’anno scolastico 2018-19

    Vale la pena analizzare più in dettaglio i dati del campione esaminato. Anzitutto, come si vede dalla Tabella 1, in gran parte delle classi il lavoro dell’ultimo anno non prende avvio dagli inizi del ‘900, come previsto dalle Indicazioni nazionali, ma dalla seconda metà dell’800, o addirittura dalla prima metà di questo secolo. C’è quindi, in molti casi, un “ritardo” che si verifica negli anni scolastici precedenti. Per studiarne i motivi bisognerebbe naturalmente esaminare i programmi di storia svolti nel primo e nel secondo biennio dei Licei, ma questo esula dalla ricerca che ho svolto. È interessante però notare che questo ritardo è presente, sebbene in minor misura, anche nel Liceo Classico, per il quale il piano di studi ministeriale prevede tre ore di lezione a settimana, sia nel secondo biennio che nell’ultimo anno, e non due ore soltanto come in tutti gli altri Licei.

    Per quanto riguarda invece il punto d’arrivo dei programmi, la Tabella 2 mostra che nella maggior parte dei casi non si va oltre gli anni Sessanta del ‘900. Soltanto 12 classi su 55 risultano essere arrivate agli anni Ottanta e al crollo del comunismo nei paesi dell’Europa orientale e nell’Urss, e 4 soltanto si sono spinte ancora oltre.

      NUMERO DELLE CLASSI
    INDIRIZZOFine della 2a guerra mondiale-
    immediato dopoguerra3
    Anni ‘50 del ‘900Anni ’60 del ‘900Anni ’70 del ‘900Anni ’80 del ‘900-
    inizio degli anni ’904
    Anni ’90 del ‘900 e oltre5
    Classico 0 2 3 0 4 2
    Scientifico 4 5 8 4 6 2
    Linguistico 6 0 0 1 1 0
    Scienze umane 4 0 1 0 1 0
    Musicale 1 0 0 0 0 0
    TOTALE 15 7 12 5 12 4
    TABELLA 2
    Punto di arrivo dei programmi di storia svolti nelle classi quinte di alcuni Licei romani nell’anno scolastico 2018-20196

    A ciò si deve aggiungere il fatto che, a prescindere dal “punto di arrivo” dei programmi, la storia della seconda metà del ‘900 viene spesso trattata in modo frammentario, lacunoso o molto sintetico nell’ultimissima parte dell’anno scolastico, a volte addirittura dopo il 15 maggio. Per esempio, il fatto che in alcune classi si arrivi a parlare dell’ultima fase della guerra fredda e della caduta del muro di Berlino non vuol dire affatto che siano stati trattati altri argomenti relativi alla storia degli anni Settanta e Ottanta del ‘900.

    A questo proposito è un indicatore significativo, a mio avviso, il rapporto tra il numero delle unità didattiche o moduli dedicati alla seconda metà del ‘900 e il loro numero complessivo. Come risulta dalla Tabella 3, ben 20 delle 40 classi che hanno trattato argomenti della seconda metà del ‘900 hanno dedicato ad essi meno di un quinto delle unità didattiche complessive; e soltanto 9 classi hanno dedicato alla seconda metà del ‘900 almeno un terzo del programma. Nessuna classe ha riservato alla seconda metà del ‘900 la metà (o più) delle unità didattiche, fatta eccezione per una classe di Liceo Linguistico che ha seguito il piano di studi EsaBac, che prevede un programma di storia maggiormente orientato verso la contemporaneità.

      NUMERO DELLE CLASSI
    INDIRIZZONessuna unitàMeno di 1/5Tra 1/5 e 1/3Tra 1/3 e la metàLa metà o piùTOTALE CLASSI
    Classico 0 5 4 2 0 11
    Scientifico 4 13 6 6 0 29
    Linguistico 6 0 1 0 1 8
    Scienze umane 4 2 0 0 0 6
    Musicale 1 0 0 0 0 1
    TOTALE 15 20 11 8 1 55
    TABELLA 3
    Distribuzione delle classi a seconda del numero di unità didattiche o moduli dedicati alla seconda metà del '900 (rispetto al numero complessivo delle unità)

    Anche se il campione esaminato non può avere ovviamente, per la sua esiguità, alcun valore statistico rispetto alla totalità dei Licei italiani, ritengo tuttavia che esso indichi una situazione abbastanza diffusa di “ritardo” e di affanno nello svolgimento dei programmi di storia.

    Questa situazione, a mio avviso, non nasce tanto da inerzia o pigrizia intellettuale, quanto da difficoltà oggettive che dipendono da problemi connaturati alla struttura stessa del sistema su cui è imperniato l’insegnamento della storia nel triennio dei Licei.

    Tali difficoltà dipendono in primo luogo dalla sproporzione esistente tra la quantità di argomenti previsti come obbligatori nelle Indicazioni nazionali e il monte ore annuo destinato all’insegnamento della storia; in secondo luogo dalla struttura, a maglie molto strette, dei manuali in uso nei Licei; in terzo luogo, da una prassi didattica ormai consolidata, prevalentemente incardinata sull’uso di quei manuali e da essi fortemente condizionata.

    Il monte ore annuo

    mMnifestazione di operai e studenti nel 19682. Una manifestazione di operai e studenti nel 1968. Quanti studenti italiani a scuola imparano qualcosa sul ’68?

    Come è noto il monte ore annuo di storia negli ultimi tre anni dei Licei, con la sola eccezione del Liceo Classico, è di 66 ore. Prenderò per semplicità come riferimento la situazione dei Licei diversi dal Classico, sia perché hanno – nel loro insieme - un numero molto maggiore di iscritti, sia perché buona parte delle mie riflessioni potranno poi essere facilmente applicate, con piccole modifiche dei parametri quantitativi, anche ai piani di lavoro dei Licei classici. Cominciamo col dire che le 66 ore previste dal piano di studi ministeriale sono puramente teoriche. Come sanno tutti i docenti, molte delle ore ad essi spettanti in base al curricolo nazionale sono di fatto destinate ad altre attività previste dalla normativa scolastica – come le assemblee di classe o di istituto – o deliberate dagli organi collegiali: uscite didattiche, viaggi di istruzione, conferenze, interventi di esperti, ecc. Altre ore vengono sottratte da scioperi, occupazioni, autogestioni. Il monte ore annuo effettivo – nei Licei diversi dal Classico - è dunque alquanto più basso delle 66 ore previste dalle Indicazioni nazionali. In base alla mia personale esperienza ritengo che una stima ragionevole sarebbe di 56 ore.

    Le verifiche

    Occorre anche tenere presente che, di queste 56 ore, una parte consistente viene naturalmente dedicata alle verifiche. Immaginiamo una situazione standard in cui il docente di storia scelga di fare due giri di interrogazioni orali, uno nel primo quadrimestre e uno nel secondo, e due prove scritte di un’ora ciascuna, una per ciascuno dei due periodi dell’anno scolastico. Immaginiamo anche una classe standard di 24 studenti. Se stimiamo che in un’ora quel docente interrogherà in media tre studenti, occorreranno ben 16 ore per effettuare i due giri di interrogazioni orali. Considerando poi che le due prove scritte vanno anche riconsegnate e discusse con gli studenti e questo porta via in genere un’altra ora di lezione per ciascuna prova, si arriverà a un totale di 20 ore necessarie nell’arco dell’anno per effettuare tutte le verifiche. Sottraendo questa cifra al monte ore annuo effettivo di 56 ore, si ottengono 36 ore disponibili per le lezioni vere e proprie.

    Che cosa prescrivono le Indicazioni nazionali per il quinto anno dei Licei

    Immaginiamo ora, per semplicità di analisi, che i contenuti prescritti come irrinunciabili dalle Indicazioni nazionali per il terzo e il quarto anno siano stati effettivamente trattati nei tempi previsti e che quindi l’insegnamento della storia nel quinto anno del Liceo abbia inizio dal principio del ‘9007.

    Qual è l’estensione dei contenuti che devono essere svolti obbligatoriamente in queste 36 ore nel quinto anno?

    Le Indicazioni Nazionali per i Licei ci dicono che “nella costruzione dei percorsi didattici non potranno essere tralasciati i seguenti nuclei tematici”:

    1. l’inizio della società di massa in Occidente;
    2. l’età giolittiana;
    3. la prima guerra mondiale;
    4. la rivoluzione russa e l’URSS da Lenin a Stalin;
    5. la crisi del dopoguerra;
    6. il fascismo;
    7. la crisi del ‘29 e le sue conseguenze negli Stati Uniti e nel mondo;
    8. il nazismo;
    9. la shoah e gli altri genocidi del XX secolo;
    10. la seconda guerra mondiale;
    11. l’Italia dal Fascismo alla Resistenza e le tappe di costruzione della democrazia repubblicana.

    Si aggiunge poi che “il quadro storico del secondo Novecento dovrà costruirsi attorno a tre linee fondamentali”:

    1. dalla “guerra fredda” alle svolte di fine Novecento:
      1. l’ONU,
      2. la questione tedesca,
      3. i due blocchi,
      4. l’età di Kruscev e Kennedy,
      5. il crollo del sistema sovietico,
      6. il processo di formazione dell’Unione Europea,
      7. i processi di globalizzazione,
      8. la rivoluzione informatica,
      9. le nuove conflittualità del mondo globale;
    2. la decolonizzazione e la lotta per lo sviluppo in Asia, Africa e America latina:
      1. la nascita dello stato d’ Israele e la questione palestinese,
      2. il movimento dei non-allineati,
      3. la rinascita della Cina e dell’India come potenze mondiali;
    3. la storia d’Italia nel secondo dopoguerra:
      1. la ricostruzione,
      2. il boom economico,
      3. le riforme degli anni Sessanta e Settanta,
      4. il terrorismo,
      5. Tangentopoli e la crisi del sistema politico all’inizio degli anni ‘90.

    È bene precisare che queste indicazioni valgono per tutti i Licei, indipendentemente dal loro indirizzo. In sintesi, esse prescrivono come obbligatori ben 11 nuclei tematici relativi alla storia della prima metà del Novecento e altri tre percorsi relativi alla seconda metà del secolo scorso, a loro volta articolati in ben 17 argomenti, alcuni dei quali (il crollo del sistema sovietico, il processo di formazione dell’Unione Europea, la globalizzazione, la nascita di Israele e la questione palestinese, Tangentopoli e la crisi del sistema politico italiano negli anni ‘90) sono talmente ampi e complessi da rappresentare in realtà altrettanti nuclei tematici a sé stanti. Accorpando tra loro, per quanto possibile, alcuni degli argomenti relativi al secondo Novecento, se ne potrebbero ricavare non meno di 11 nuclei tematici8, da aggiungere agli undici precedenti. I nuclei tematici sarebbero perciò in totale almeno 229.

    Una evidente sproporzione

    La caduta del muro di Berlino3. La caduta del muro di Berlino (novembre 1989). Il crollo del comunismo nei paesi dell’Europa orientale e nell’Urss è un elemento indispensabile alla comprensione del mondo di oggi.

    Avendo a disposizione per trattarli circa 36 ore di lezione effettive, noi dovremmo trattare ciascuno di essi in un’ora-due ore al massimo.

    Tralascio completamente, per ora, la questione dell’educazione civica perché al momento non è chiaro in quale misura se ne dovranno occupare i docenti di storia. È evidente comunque che l’obbligo di dedicare formalmente alcune ore di storia all’educazione civica (o di cederle ai colleghi di diritto) per un verso non fa che aggravare la situazione che sto illustrando, mentre, per un altro verso, potrebbe facilitare lo studio degli sviluppi storici del mondo contemporaneo. Infatti alcune delle tematiche indicate dalla legge che istituisce “l’insegnamento trasversale dell’educazione civica”, come ad esempio la Costituzione italiana e le istituzioni dello Stato italiano e dell'Unione europea, sono anche conoscenze storiche e concorrono indubbiamente ad una migliore comprensione del mondo contemporaneo.

    I manuali scolastici

    La difficoltà di affrontare in modo adeguato una gamma così ampia di contenuti in poche ore è accentuata inoltre dalle caratteristiche dei manuali in uso nei Licei, che in genere trattano tutti gli argomenti previsti dalle Indicazioni nazionali in modo assai analitico e uniforme. Di conseguenza è assai difficile per il docente trattare un argomento – poniamo la Prima guerra mondiale o il regime fascista – senza assegnare allo studente la lettura e lo studio di un cospicuo numero di pagine10.

    La prassi didattica

    L’attacco alle Torri Gemelle4. L’attacco alle Torri Gemelle (11 settembre 2001). Un evento di fondamentale importanza<br> nella storia degli anni Duemila.

    È comunque una prassi assai diffusa e radicata nei Licei quella di trattare tutti i principali argomenti relativi alla storia della prima metà del ‘900 in modo abbastanza analitico e omogeneo secondo un canone ormai consolidato, non di rado aggiungendo alla tradizionale lezione frontale anche la lettura e l’analisi di alcuni documenti.

    È quindi a causa di questo complesso insieme di fattori che la maggior parte dei docenti dei Licei conclude i programmi del quinto anno arrivando al massimo a trattare alcuni argomenti relativi agli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900.

    Perché non si può omettere di trattare la storia contemporanea

    Questo modo di procedere, sebbene da una parte possa apparire giustificato dall’incoerenza, o dalla scarsa chiarezza (come vedremo più avanti), delle Indicazioni Nazionali, dall’altra parte è, a mio avviso, assai insoddisfacente e criticabile, per molte ragioni, tra le quali la principale è, secondo me, la seguente: se lo studio della storia, a livello scolastico (ma non solo), ha tra le sue finalità principali e non eludibili la comprensione del presente, non è assurdo che a scuola ci si soffermi (relativamente) così a lungo sulla storia antica, medioevale e moderna, e non si tratti per nulla (o quasi per nulla) la storia contemporanea? Dove per storia contemporanea si dovrebbe ormai intendere quella che va dagli anni Sessanta-Settanta fino a oggi, perché non ha alcun senso considerare come nostri contemporanei gli uomini vissuti all’epoca della prima guerra mondiale o durante il ventennio fascista; non tanto per il tempo trascorso, quanto per le enormi, profonde trasformazioni politiche, economiche, sociali e culturali sopravvenute negli ultimi cinquanta-sessant’anni.

    Lo studio della storia veramente contemporanea è poi fondamentale ai fini dell’educazione alla cittadinanza, o educazione civica, come ora dovremmo tornare a chiamarla dopo l’approvazione della legge 20 agosto 2019. Lo studio della storia contemporanea è già, in se stesso, una forma di educazione civica. Inoltre, quale disciplina, se non la storia, può aiutare a inquadrare in una adeguata prospettiva storica temi e problemi dell’educazione civica, come quelli connessi all’intelaiatura costituzionale e legislativa del nostro Stato, dell’Unione Europea e degli organismi internazionali?

    Che cosa dicono effettivamente le Indicazioni Nazionali

    Le Indicazioni Nazionali, a onore del vero, non dicono che si devono trattare in modo approfondito i nuclei tematici sopra elencati, ma solo che non si possono “tralasciare”. Questa espressione ambigua può essere variamente interpretata, ma a me sembra del tutto legittimo interpretarla anche in questo modo: gli studenti alla fine del quinto anno non possono non sapere nulla della prima guerra mondiale, della rivoluzione russa, del fascismo, ecc., mentre potrebbero non conoscere affatto eventi particolari come, ad esempio, la battaglia della Somme, la NEP o il delitto Matteotti. Gli studenti devono sapere qualcosa riguardo ai temi indicati come imprescindibili, ma sta poi alla singola scuola e/o al singolo docente stabilire quale debba essere il grado di approfondimento di ciascun tema e se, oltre ai temi indicati, sia opportuno trattarne anche altri; e, soprattutto, spetta ai docenti fornire agli studenti le griglie e gli strumenti interpretativi che, a partire dagli eventi del passato, aiutino a comprendere il presente, mostrando agli studenti in modo concreto e attraverso esempi significativi in che modo questa operazione può avvenire.

    Un pregiudizio cronologico-storicistico

    Mi pare inoltre che la prassi didattica in uso nei Licei derivi anche da un pregiudizio di origine storicistica, ovvero dalla radicata convinzione che solo dopo aver studiato a fondo una determinata epoca storica si possa comprendere quella successiva. Questa convinzione non è, ovviamente, priva di fondamento. Infatti, non c’è dubbio che uno studente che non sapesse assolutamente nulla del fascismo, della rivoluzione russa e della seconda guerra mondiale, avrebbe difficoltà a comprendere la guerra fredda. Ma può benissimo comprenderla anche se non ha studiato, o non ricorda bene, la legge Acerbo, la notte dei lunghi coltelli o la battaglia delle isole Midway. Inoltre alcune preconoscenze indispensabili allo studio di un determinato argomento possono essere fornite, o richiamate, quando si introduce quell’argomento o mentre lo si svolge.

    Come risolvere il problema: anzitutto dividere in tre periodi gli ultimi cento anni

    Shanghai5. Shanghai, città simbolo del boom economico cinese degli ultimi decenni. La rinascita della Cina e dell’India come potenze mondiali è uno degli argomenti prescritti come obbligatori nelle Indicazioni nazionali per i Licei.

    Fatte queste premesse, a me pare che sia possibile e opportuno dare maggiore spazio alla storia degli ultimi cinquanta - sessant’anni. A mio avviso si potrebbe procedere in questo modo. Occorre anzitutto dividere il monte ore annuo effettivo in modo da destinare più o meno lo stesso numero di ore ai tre principali periodi in cui larga parte della storiografia suddivide la storia del Novecento e del primo ventennio del nostro secolo11. Nelle parole di Cesare Grazioli «nella storia degli ultimi cent’anni ci sono state tre epoche distinte:

    1. il trentennio compreso tra le due guerre mondiali, che fu anche l’epoca del colonialismo, della Grande Depressione e dei totalitarismi;
    2. il trentennio post-bellico, fino ai primi anni ’70: quello della prima guerra fredda, della decolonizzazione e della “bomba demografica”, della “età dell’oro” per l’Occidente e del sistema di Bretton Woods;
    3. l’epoca attuale, cioè il mondo globalizzato, i cui tratti divennero ben visibili negli anni ’80 e alla cui formazione contribuirono fatti e processi diversi, distribuiti tra i primi anni ’70 e i primi ’90: la fine di Bretton Woods e le crisi petrolifere, le rivoluzioni tecnologiche della Silicon Valley, la deregulation, la finanziarizzazione e la delocalizzazione dell’economia, le “Quattro modernizzazioni” di Deng Xiaoping in Cina (e poi quelle indiane) e l’implosione del mondo sovietico, l’Unione europea …».12

    Considerando però che i primi due nuclei concettuali previsti dalle Indicazioni nazionali (l’inizio della società di massa in Occidente; l’età giolittiana) non rientrano nella storia degli ultimi cento anni e che essi posso essere trattati in modo abbastanza rapido all’inizio dell’anno scolastico, il monte ore annuo effettivo potrebbe essere suddiviso in questo modo:

    1. l’inizio della società di massa, l’età giolittiana: 3 ore;
    2. il periodo 1914-45: 11 ore;
    3. il periodo 1945-73: 11 ore;
    4. il periodo 1973-tempo presente: 11 ore.

    In pratica, questo equivale a dire che l’articolazione del piano di lavoro del docente nell’arco dell’anno dovrebbe essere più o meno la seguente:

    • settembre-dicembre: periodo 1900-1945;
    • gennaio-febbraio: periodo 1945-73;
    • marzo-aprile: periodo 1973-tempo presente (dando per scontato che il mese di maggio sarà dedicato prevalentemente alle verifiche di fine anno e al ripasso in vista degli esami).

    Se il piano di lavoro del docente avesse fin dall’inizio questi vincoli, e ad essi ci si attenesse in modo abbastanza rigoroso, vi sarebbero buone probabilità di poter offrire alla propria classe una soddisfacente ed equilibrata visione d’insieme della storia degli ultimi cento anni.

    Due (o tre) strategie possibili

    Naturalmente il problema è come riuscire a trattare in modo adeguato e significativo in poco tempo una mole di contenuti di per se stessi assai ampi, complessi e problematici. A mio avviso le strategie possibili, in linea teorica, sono due (o al massimo tre).

    La prima strategia

    Nulla vieta di svolgere un piano di lavoro, impostato come sopra si è detto, in modo abbastanza tradizionale, con lezioni frontali accompagnate da approfondimenti che gli studenti svolgerebbero in modo autonomo, a casa, utilizzando prevalentemente il libro di testo. Se le pagine del libro di testo sono troppe, è possibile saltarne alcune parti, o meglio ancora ricorrere per alcuni argomenti alle sintesi proposte alla fine di ogni capitolo o unità didattica, oppure a testi sintetici prodotti dal docente stesso. Se a questo lavoro aggiungessimo la lettura di qualche ulteriore testo di approfondimento, alla fine dell’anno scolastico avremmo probabilmente fornito agli studenti le conoscenze indispensabili per affrontare l’esame di Stato e per orientarsi in modo abbastanza adeguato rispetto alle problematiche e alle prospettive del mondo attuale.

    La seconda strategia

    Se però volessimo sviluppare in modo più specifico e più sostanziale le abilità e le competenze legate all’acquisizione e all’utilizzo delle conoscenze storiche, potremmo anche seguire un approccio alternativo. Potremmo infatti, da un lato, trattare in modo estremamente sintetico tutti i nuclei tematici prescritti dalle Indicazioni Nazionali, e dall’altro lato approfondire - per ciascuno dei tre periodi principali sopra indicati - due o tre argomenti al massimo. Andremmo quindi a trattare in modo approfondito da sei a nove argomenti l’anno. Gli approfondimenti potrebbero comprendere attività laboratoriali, studio di fonti e documenti storici, visione di documentari, discussioni su problemi storiografici o legati all’attualità. Nei limiti del possibile, questi moduli di approfondimento dovrebbero essere organizzati in modo da dare spazio a ricerche autonome degli studenti, da svolgere sul libro di testo o eventualmente su altri materiali indicati o predisposti dal docente.

    Lo scopo di questo tipo di attività sarebbe naturalmente quello di indurre gli studenti a fare qualcosa di diverso dalla pura e semplice memorizzazione ed esposizione orale o scritta dei contenuti proposti dal libro di testo o dal docente. Gli studenti dovrebbero essere sollecitati a ragionare in modo autonomo sulle cose che leggono, creando collegamenti tra i fatti del passato e i problemi o i dibattiti attuali. Dovrebbero insomma essere educati a “pensare storicamente”.

    Ogni docente potrebbe scegliere e impostare i propri approfondimenti in totale autonomia, oppure in collaborazione col proprio Consiglio di classe, o con altri colleghi della stessa materia.

    Una strategia intermedia

    Nulla vieta naturalmente di seguire una strada intermedia tra le due che ho proposto come alternative, ad esempio inserendo una sola attività di approfondimento in ciascuno dei tre moduli di undici ore. Qualunque altra combinazione potrebbe andar bene se pensata dal docente all’interno di un piano di lavoro dotato di organicità e coerenza.

    Conclusione

    Il modello che propongo è estremamente aperto e flessibile. L’unico suo punto fermo è la divisione in tre porzioni uguali della parte del monte ore annuo dedicata agli ultimi cento anni, in modo tale che sia trattata adeguatamente anche la storia dell’ultima parte del Novecento e degli inizi del nostro secolo.

    Il principale ostacolo alla realizzazione di questo approccio sta nella difficoltà di progettare in anticipo un piano di lavoro alternativo a quello tradizionale e nella necessità di reperire o produrre materiali didattici diversi da quelli proposti dal libro di testo (specialmente se si adotta la seconda strategia o quella intermedia). Oltre alla collaborazione tra docenti, le suggestioni, i materiali, i percorsi didattici offerti dalle moltissime pubblicazioni, riviste e siti di didattica della storia fornirebbero senz’altro un valido supporto: a cominciare naturalmente dal contributo offerto da “Historia ludens” e dalla rete di scopo LabSto21. E non trascurerei il fatto che, come tutte le ricerche dimostrano, la storia contemporanea suscita di per se stessa maggiore interesse – e quindi anche maggiore collaborazione e partecipazione - da parte degli studenti. Varrebbe la pena almeno di provare …

    NOTE

    1. Infatti, mentre le Indicazioni Nazionali riguardanti gli Obiettivi Specifici di Apprendimento per i Licei indicano, e scandiscono cronologicamente, una serie di eventi e argomenti canonici della storia del Novecento da trattare obbligatoriamente, nulla di simile avviene nelle Linee Guida per il passaggio al nuovo ordinamento degli Istituti Tecnici e Professionali, nelle quali si invitano i docenti a trattare la storia del Novecento con un approccio tematico del tutto svincolato dalla successione cronologica dei principali fatti storici (si vedano gli allegati al testo delle due Direttive emanate dal MIUR in data 16 gennaio 2012, rispettivamente per gli Istituti Tecnici e per gli Istituti Professionali).

    2. Ho esaminato i Documenti di presentazione delle classi quinte alle Commissioni d’esame per l’anno scolastico 2018-19 di sei diversi Licei romani per un totale di 55 classi, appartenenti a diversi indirizzi (classico, scientifico, linguistico, scienze umane, musicale).

    3. Per non complicare eccessivamente la presentazione dei dati, ho inserito in questa colonna anche due classi che si sono fermate al ventennio fascista, senza trattare la seconda guerra mondiale.

    4. Fino alla dissoluzione dell’Urss nel 1991.

    5. Dal 1992 in avanti.

    6. I dati della Tabella 2 si riferiscono agli argomenti trattati, in sequenza cronologica, nei programmi di storia. Non sono stati presi in considerazione gli argomenti trattati sotto la voce “Cittadinanza e costituzione”, sia perché facenti parte di un percorso che si aggiunge e si affianca a quello più propriamente storico e non è sempre affidato al docente di storia, sia perché in ogni caso tali argomenti non si possono agevolmente inserire nello schema proposto nella Tabella 2. È evidente infatti che l’aver trattato, ad esempio, le istituzioni dell’Unione Europea nell’ambito di “Cittadinanza e costituzione” non significa necessariamente che la classe è arrivata col suo programma di storia alla fine del ‘900.

    7. In realtà questa situazione ottimale, come abbiamo già visto, in parecchi casi non si verifica. Nel campione da me esaminato, oltre la metà delle classi (33 su 55) sono partite dalla prima o dalla seconda metà dell’800 piuttosto che dagli inizi del ‘900 (vedi la Tabella 1).

    8. Si potrebbero infatti accorpare tra loro gli argomenti alle lettere a-b, c-d, h-i del primo percorso, gli argomenti b-c del secondo percorso, e gli argomenti a-b, c-d del terzo percorso.

    9. Anzi probabilmente sarebbero anche di più, perché non si capisce come si possa affrontare un tema complesso e importante come quello della decolonizzazione facendo riferimento soltanto alla nascita di Israele, alla questione palestinese e al movimento dei non-allineati, senza trattare l’argomento anche in termini generali e senza menzionare affatto vicende come la conquista dell’indipendenza da parte dell’India, del Vietnam, o dell’Algeria. La stessa cosa si potrebbe dire riguardo alla “lotta per lo sviluppo in Asia, Africa e America latina” che non riguarda soltanto l’India e la Cina.

    10. Sui manuali recenti si vedano gli articoli ad hoc pubblicati in Pensare storicamente. Didattica, laboratori e formazione, a cura di Salvatore Adorno, Luigi Ambrosi e Margherita Angelini, Franco Angeli, 2020.

    11 Sono molti ormai gli studi storici che insistono sull’importanza degli anni Settanta-Ottanta del Novecento come momento di svolta fondamentale nella storia contemporanea. Oltre che nel Secolo breve di Eric Hobsbawm, questa linea di pensiero è presente anche in Tommaso Detti-Giovanni Gozzini, L’età del disordine. Storia del mondo attuale. 1968-2017, Bari-Roma, Laterza, 2018; Fulvio Cammarano – Giulia Guazzaloca – Maria Serena Piretti, Storia contemporanea. Dal XIX al XXI secolo, Milano, Mondadori, 2015; Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani, 2014 (ed. orig.: Le capital au XXIesiècle, Editions du Seuil, 2013).

     

    12. Questa suddivisione è abbastanza simile a quella proposta recentemente da Antonio Brusa, che però è inserita in una più generale rimodulazione del curricolo delle scuole superiori e prevede un quarto modulo dedicato al tempo presente.

    Fonti fotografie

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  • L'Atlas global

    Si può rappresentare tutto con le carte: la felicità, la bellezza, i paesi spazzatura, il sovrappeso. E, naturalmente, i fatti politici, economici, demografici. Per chi ha problemi di geostoria, ecco lo strumento ideale, curato da Christian Grataloup, che gli insegnanti italiani hanno imparato ad apprezzare al convegno su storia e intercultura di Senigallia, e del quale possono leggere il bell'articolo su Novecento.org. l'Atlante globale è scritto da un'équipe di ricercatori di storia e di geografia e si avvale della collaborazione dei disegnatori di carte di Le monde e di Alexandre Nicholas, autore de Le dessus de Cartes (HL)

  • L’antico Israele. Una storia controversa e il pensiero unico dei manuali.

    Appunti da Mario Liverani

    Autore: Antonio Brusa

    Indice
    L’antico Israele nei media e nella rete
    La storia d’Israele a scuola
    Il modello della vulgata
    Un piccolo prontuario di stereotipi
    Avvertenze per l’uso
    Che fare con i bambini?
    Una nuova vulgata
    Un aggiornamento storico-didattico
    Il dibattito storiografico è uno strumento per insegnare
    Lo spazio palestinese
    Cronologia essenziale

     

    L’antico Israele nei media e nella rete

    Compaiono periodicamente sulla stampa notizie sugli scavi archeologici in Palestina. Sono notizie di fascino, perché alludono a fatti che abbiamo letto, ascoltato o visto al cinema. Ogni scoperta suscita la domanda: “allora, la Bibbia aveva ragione?”. Se la pongono in tanti, e ha dato origine a molti libri. E molti pensano, laici o credenti, che la risposta rafforzerà le ragioni degli uni o degli altri. Perciò, per la legge ferrea dei media, è questa la DOMANDA che, sottotraccia, guida la mano del giornalista. Lui ha sentito che i gebusei erano un popolo palestinese, di quelli che gli ebrei combatterono quando giunsero in Palestina? ha sentito che Davide conquistò Gerusalemme e ne fece la capitale di Israele? Bene, il suo articolo accennerà a questi, e a tutti gli altri fatti che, secondo lui, appartengono alla vulgata posseduta da tutti, e che, perciò, possono corredare il suo pezzo dell’appeal indispensabile.

     
    Nel quartiere arabo di Silwan, in una zona chiamata “città di Davide”, uno scavo rivela delle incisioni “antichissime”. Si tratterà di stampi per la fusione, di simboli, o delle prime lettere dell’alfabeto, magari protoebraico?http://xmx.forumcommunity.net/?t=49163336

     

    Se vi viene un dubbio, e volete verificare su internet, allora cominciano i guai. Al terzo-quarto sito avete già perso la bussola. Prendiamo, ad esempio, la recente scoperta di una muraglia megalitica, costruita quasi 3700 anni fa a Gerusalemme. Ripresa da molti giornali, la vado a rileggere su un sito in genere sicuro, quello di “Archeo. Vi si descrive la muraglia, vi si dice che fu eretta dai “gebusei (cananei)”, e che si trova nella “città di Davide”. L’articolo è chiaro e preciso, ma al non  esperto spuntano un paio di dubbi. Erano gebusei o cananei? E se la costruzione era del II millennio a.C, come fa a trovarsi nella città di Davide, notoriamente vissuto al principio del I millennio? Niente paura, passiamo al sito successivo. Ma questo ha un titolo minaccioso “le bugie hanno le gambe corte” , e non va tanto per il sottile. Riporta, fra le altre, questa frase di Ikrima Sabri, mufti di Gerusalemme:

    Non vi è il più piccolo indizio dell’esistenza di un tempio ebraico in questo luogo, nel passato. In tutta la città, non c’è nemmeno una sola pietra che indica la storia ebraica. Il nostro diritto, d’altra parte, è molto chiaro. Questo luogo appartiene a noi da 1500 anni.

    Gli archeologi e gli storici israeliani si sono inventati tutto. Quel sito era gebuseo, non c’entrano gli ebrei. Dunque, appartiene a noi, dicono i palestinesi.

     

     
      Com’era il tempio di Salomone/Erode? In rete uno specimen della fantasia dei ricostruttori

     

    E’ un problema noto nella storiografia e nell’archeologia di quell’area. Lì, le risposte alla DOMANDA hanno immediate ricadute politiche. Non solo religioso-ideologiche, come da noi. Quindi, la pressione sulla ricerca è fortissima. Sul ciglio degli scavi si assiepano leader politici, ambasciatori e seguaci di questo o quel gruppo; e, non di rado, lo stesso ricercatore è embedded, convinto anche lui che il suo lavoro darà un  potente aiuto alla sua parte politica. Se leggete questo articolo di Giulio Meotti, avendo cura di fare la tara delle sue propensioni, troverete una schiera di gente nota, da Abramovich, a Laura Bush a John Voigt (sì, l’”uomo del marciapiede”), della quale nessuno avrebbe mai sospettato gli interessi storiografici, e scoprirete che Clinton e Arafat ebbero il tempo, a Camp David, di litigare sulla esistenza o no del tempio di Salomone.


    Dal conflitto nel Vicino Oriente, poi, questo invadente e oppressivo uso pubblico della storia riecheggia dalle parti nostre e nella regione italofona della rete. Anche da noi, carica le risposte di valenze politiche a volte aggressive.


    La storia di Israele a scuola

    Nelle scuole italiane, inoltre, la presenza di allievi provenienti dal mondo arabo-musulmano è consistente. E questo contribuisce ad aumentare la temperatura di questa storia. Per quanto antica, dunque, essa diventa un’autentica “Questione Socialmente Viva”. Una questione sensibile, che richiede una cura particolare. Questa si dovrebbe articolare intorno a due capisaldi: una vulgata (racconto semplice e facilmente comprensibile) affidabile, in grado di fornire agli allievi un piccolo, ma sicuro, pacchetto di conoscenze, che gli varrebbero da primo orientamento nella enciclopedia della rete; e, insieme con quella, un elenco essenziale di “avvertenze per l’uso”, che dovrebbero metterlo in grado di capire in che modo quelle conoscenze vengono usate e rielaborate nel dibattito pubblico e, magari, in che modo andrebbero maneggiate secondo gli storici. Tutto ciò (per una volta potremmo essere contenti di qualcosa in Italia) è perfino previsto dai programmi per la scuola di base: un po’ meno per quelli delle superiori, ma, pazienza, la Gelmini non è che sentisse tanto questo problema.


    Il modello della vulgata

    Limitiamoci, perciò, alla scuola di base. Da alcuni anni, disponiamo di una fonte impagabile. Si tratta di quei “bignamini” che ogni editore si sente in obbligo di anteporre al libro di prima media, nell’illusione, più o meno in buona fede,  che queste sintesi estreme possano essere di qualche aiuto ai docenti. Ma proprio questa necessità di sintesi è l’ideale per costringere l’autore a redigere una vulgata. Ve ne propongo una, tratta da un manuale che andrà in adozione quest’anno. E’ anonima (non voglio fare qui un’analisi dei libri di testo). Per la conoscenza che ho dei manuali in circolazione (e passati), ve la propongo come un modello. Ognuno di voi potrà confrontarla con i manuali a disposizione.

    Gli ebrei furono il primo popolo monoteista dell’antichità, e l’unico che abbia tramandato in modo ordinato e completo, nel suo libro sacro chiamato Bibbia (dal greco biblia = i libri).
    Gli ebrei erano in origine pastori che intorno al 2000 a.C, guidati dal patriarca Abramo, giunsero in Palestina, nella terra chiamata Israele che secondo la tradizione era stata promessa loro da Dio. Qui divennero sedentari, impararono a coltivare la terra e a lavorare i metalli, ma non abbandonarono mai del tutto il nomadismo. Forse a causa di una grave carestia, intorno al 1700 una parte della popolazione si trasferì in Egitto, dove lavorò al servizio del faraone, finché le dure condizioni di vita non la spinsero a ritornare in Palestina sotto la guida di Mosè. Alla fine del II millennio gli ebrei unificarono le dodici tribù in cui erano divisi e fondarono il regno di Israele, che nel VI secolo sarà conquistato dai babilonesi.


    Un piccolo prontuario di stereotipi

    Le sottolineature non sono redazionali. Sono mie. Mettono in evidenza le affermazioni sbagliate o problematiche. In pratica, fatta eccezione per l’etimologia di “Bibbia”, l’intero testo prende per oro colato il sapere diffuso e ignora i portati della ricerca storica attuale. Se questa è la vulgata proposta dalla scuola, non ha la minima possibilità di diventare uno strumento critico per contrastare, mettere in dubbio, discutere quella di riferimento nel dibattito pubblico. Si comporta esattamente come quei giornalisti che, per ottenere successo, occhieggiano a “quello che tutti sanno”.
    Conviene rendersi ben conto di questi stereotipi. Per questo ho preparato un elenco, aggiungendo a quelli  riportati in questo sunto manualistico, altri, riscontrabili anche in testi più completi e distesi. Li discuto sulla base del libro di Mario Liverani (Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza, Bari 2003).

    Il primo popolo monoteista: non lo furono sempre. Erano politeisti; poi adottarono un dio nazionale, come tutti i popoli della regione. Yahweh per Giuda e Israele, Kemosh per Mo‘ab, Qaus per Edom, Milkom per ‘Ammon, Hadad per Damasco, Ba‘al/Melkart per Tiro (p. 158). Lentamente, la corrente sacerdotale yahwista riuscì a prendere il sopravvento nei due regni ebraici: ma questo accadde dopo le aggressioni assire e babilonesi. Ancora dopo la cattività babilonese, quindi in età persiana, è testimoniata la compresenza di culti di altre divinità.

    La Bibbia è un libro ordinato e completo: non lo fu, per il semplice motivo che si tratta di una “biblioteca” (di qui l’etimologia) composta fra VIII e I secolo a.C, sotto la spinta di obiettivi, momenti culturali, e progetti politici e religiosi diversi; la ricerca, come vedremo distesamente nel corso di questo articolo, mostra come il passato fosse stato rielaborato, in forme a volte molto diverse, da un libro all’altro (per questo e altri concetti “generali”, si veda l’introduzione, pp. VII-XI e la conclusione alle pp. 401-407).

    Gli ebrei erano in origine pastori: la regione era a insediamento misto. Si può ammettere che ci fosse, sull’altopiano centrale, dove si formarono i regni di Giuda e di Israele, una prevalenza di pastori. Ciò non toglie che, fin dalle prime attestazioni, i due regni ebraici si costituiscono intorno a due città, capofila di una rete urbana (cap. 3).

    Intorno al 2000, il patriarca Abramo li condusse nella regione: si tratta di una rielaborazione del passato effettuata in epoca post-esilica. Non esistono attestazioni di ebrei prima della grande crisi del XII secolo. Il terminehabiru , che spesso viene citato come nome dei proto-ebrei, ha un valore generico e non etnico, dal momento che indica i fuggiaschi (“i banditi”), che cercavano scampo dalle terribili condizioni di vita alle quali erano sottoposti gli abitanti dei regni cantonali della regione. Si tratta, dunque, di un tipico “mito di fondazione” (pp. 283-287).

    Il “patriarca” Abramo e i “giudici”: i due periodi, quello dei patriarchi, relativo al primo insediamento, e quello dei giudici, successivo alla conquista di Giosuè, sono frutto della mitopoiesi postesilica (cap. 15: Uno stato senza re: l’invenzione dei giudici).

    I gebusei (e gli altri popoli “cananei”): la dizione “cananea” è quella adoperata nel secondo millennio per indicare in primo luogo la regione siro-palestinese; in secondo luogo i suoi  abitanti. Nella ricostruzione biblica, i gebusei fanno parte di un insieme di popoli che furono interamente sterminati dagli eserciti di Yahweh. Trattandosi appunto di popoli scomparsi, conveniva “inventarli”. Fra questi, infatti, troviamo gli ‘anaquim (i giganti), i perizziti, che vuol dire semplicemente “contadini” o i refaiti, che erano addirittura gli spiriti dei morti (pp. 302-304).

    Gli ebrei divennero sedentari ma non abbandonarono mai del tutto il nomadismo: nel corso dei secoli successivi alla crisi del XII secolo, la regione fu a maggioranza pastorale o agricola, a periodi alternati (cap. 2).

    La terra chiamata “Israele”: nelle fonti egizie compare una volta questa parola (XIV sec), per indicare una valle della regione (vedi la cartina in fondo). Probabilmente il termine fa riferimento a qualche gruppo umano, scomparso nel tempo, ma del quale rimase il toponimo. Intorno al XII secolo, rileviamo dei gruppi che prendono a chiamarsi “israeliti”, probabilmente circoscritti alle terre dell’altopiano centrale (p. 71).

    A causa di una grave carestia gli ebrei migrarono in Egitto: durante l’età del bronzo, l’intera regione, fino a Qadesh, nel sud della Siria, era sotto il dominio dell’impero egizio, la cui influenza continuò fino all’invasione assira (VIII secolo). La valle del Nilo costituiva per quelle popolazioni la risorsa ultima, nelle frequenti carestie. Quindi si trattava di migrazioni temporanee e continuate. La storia di Giuseppe (migrato fortunosamente in Egitto, dove fece fortuna) è un mito di fondazione, tipico, come quello del Diluvio universale, o di Mosé (cap. 13, specialmente pp. 285 e ss).

    Mosé: la figura di Mosé viene costruita sull’archetipo di Sargon e di altri grandi re della regione. Dunque, risale al periodo postesilico (L’esodo e Mosè: pp. 305-312).

    Giosuè: “la narrazione biblica della conquista “fondante” è notoriamente un costrutto artificioso, inteso a sottolineare l’unità di azione di tutte e dodici le tribù” (p. 313); “il paradigma adottano nel libro di Giosué è quello della “guerra santa” di chiara matrice deuteronomica ma dotato di profonde radici nell’ideologia siro-palestinese sin dai secoli della pressione assira” (pp. 314 s).

    Unificazione delle tribù: anche le dodici tribù sono frutto una rielaborazione tardiva, che vede la sua fase compiuta nei decenni successivi al ritorno dall’esilio babilonese (dunque in età persiana). Dopo una lunga vicenda di formazione, successiva alla crisi del XII secolo, nacquero due regni contemporanei – Israele e Giuda – accomunati dalla fede nell’identico dio nazionale, Yahweh. Il primo con capitale Sichem (poi Samaria),che riuniva alcune tribù dell’altopiano, fra le quali Efraim e Manasse. Il secondo, il regno di Giuda, era costituito dalle tribù di Giuda e Beniamino. La formazione e la consistenza di altre tribù, come Dan e Levi, è molto dubbia. Questi regni restarono separati e distinti fino all’invasione assira e alle relative deportazioni (capp. 4,5,6).

    Assiri e babilonesi: le misconcezioni che riguardano questi popoli riguardano l’intera storia dell’area, e non solo il capitolo sugli ebrei. Gli assiri adottarono un metodo di conquista violento, con una grande esibizione di forza e di crudeltà, a cui succedeva un sistema di governo pacifico molto attento allo sviluppo economico delle provincie. Tentavano di distruggere l’identità dei popoli conquistati, attraverso deportazioni massicce, ma, una volta re-insediate, queste popolazioni avevano la possibilità di riprendersi demograficamente ed economicamente. Al contrario, i babilonesi, che si presentavano come i liberatori dal dominio assiro, in realtà li superavano in violenza e non curavano affatto la gestione dei territori, interessati come erano solo alla cura della capitale e delle località centrali.

    Di conseguenza, la dominazione assira trasformò la regione siro-palestinese, mescolandone le basi etniche e rendendole irriconoscibili rispetto al passato, ma inaugurando un periodo di prosperità. Gli ebrei deportati probabilmente si fusero con le popolazioni ospiti, mentre in Palestina si avviarono processi di commistione interetnica e interculturale fra nuovi e vecchi abitanti. La dominazione babilonese, invece, genera “la catastrofe” della regione. Si salvano solo le città costiere. Le zone dell’altopiano sono spopolate e povere. Gli ebrei deportati (le élites, questa volta, e gruppi di contadini) conservano a Babilonia la loro identità. Quando tornano avviano programmi di rigorismo religioso (unicità di Dio) ed etnico (proibizione di matrimoni misti) (capp. 7 e 9) .

    I palestinesi. Fra i palestinesi di quei tempi e quelli di oggi i rapporti sono esilissimi. I philistim erano i “popoli del mare” che, sconfitti dagli egizi, si insediarono nella regione. Da loro deriva il nome “Palestina”. Erano probabilmente indoeuropei. La regione, per conto suo, era già uno scenario demografico estremamente composito: apporti arabi, moabiti, egizi, amorrei e di tanti altri, ai quali vanno aggiunti i famosihabiru. A più riprese, inoltre, la regione subisce traumi demografici con successivi ripopolamenti. Difficile per chiunque, oggi, proclamare un diritto di discendenza da quelle antiche popolazioni.


    Avvertenze per l’uso

    Scorrendo la critica degli stereotipi si nota facilmente come essi non siano altro che quelle conoscenze prodotte dagli scribi ebrei a partire da Giosia (640-609), con un opera di riscrittura che, col passare del tempo, si fece sempre più intensa. Molto di quello che abbiamo esaminato, infatti, è frutto di discussioni, di ricerche e di problemi dell’età persiana: dal VI secolo in poi. Quindi non è fonte degli eventi più antichi, quanto piuttosto di quelli contemporanei alla elaborazione dei testi.

    La storia antica degli ebrei pone in primo piano il problema della sua fonte principale: la Bibbia. Essa è (rispetto ai fatti che racconta) un testo tardivo che produce un’immagine distorta del passato, perché frutto della cultura e del modo di vedere dei contemporanei. Noi, però, vediamo quell’immagine. Quindi, per usarla, dobbiamo essere in grado di correggerla, un po’ come fanno gli astronomi con le lenti gravitazionali, per restituirci la visione di galassie lontanissime. Dobbiamo confrontarla con altre fonti. Dobbiamo tenere conto di come si comportano altri popoli, quando affrontano il problema delle loro origini.
    Questo principio non è oggetto di discussione, quando affrontiamo il problema dell’origine dei Goti, o quella dei Romani o dei Greci. E non è facile, come sanno tutti i docenti, parlarne in classe. Nel caso degli ebrei, il problema aggiuntivo è costituito dal fatto che la conoscenza sociale è talmente modellata sul racconto biblico, che nessuno mette in dubbio i cosiddetti “elementi storici” che ne vengono ricavati.


    Che fare con i bambini?


    Non so in che modo si possa affrontare questo problema epistemologico con bambini di quarta elementare (diverso sarebbe affrontarlo con ragazzi più grandi, e magari con qualche esperienza laboratoriale). Ma qui siamo agli inizi. Con i bambini, il dilemma didattico si pone nei suoi termini crudi:
    -    Conviene raccontare la storia tradizionale, poi col tempo si penseranno ai risvolti critici?
    -    Conviene insegnare la storia, quella prodotta dalla ricerca, e poi col tempo si studieranno anche le sue interpretazioni tradizionali?
    Stando al programma, non ci sono dubbi. Va insegnata la storia. E questa va distinta dal suo uso pubblico. Quindi, il testo manualistico dal quale siamo partiti dovrebbe essere fuorilegge. Ma ciò sarebbe vero anche se il programma non ce lo imponesse. Non si da un insegnante di storia che non insegni “la storia”, o che preferisca a questa “la tradizione storica”.


    Una nuova vulgata

    Il rinnovamento della didattica non può non passare dalla elaborazione di una nuova vulgata. Un nuovo racconto semplice, facilmente leggibile, breve, che metta al corrente gli allievi dei tratti essenziali della vicenda di quel popolo. Con tutti i rischi che questo comporta, provo a scriverne una, della stessa lunghezza di quella che abbiamo esaminato.

    Nel XII secolo, scoppiò una crisi eccezionale. Invasori, carestie, ribellioni sconvolsero tutto il Vicino Oriente. Caddero gli imperi che vi dominavano. Si crearono regioni nelle quali non governava più nessuno. Una di queste fu la Palestina. I villaggi e le tribù di pastori cominciarono a organizzarsi per governarsi da soli. Molte tribù si allearono fra di loro. Nacquero dei piccoli regni. Erano formati da una città capitale e da un nugolo di villaggi. Fra questi ce ne furono due: Israele e Giuda. Ma, ecco che tornarono i dominatori dall’esterno.
    Sono passati quattro secoli. Siamo nell’VIII secolo. Gli assiri prima e i babilonesi dopo si impadroniscono della regione, abbattono i regni, deportano le popolazioni. Ma vengono abbattuti a loro volta da un impero più potente, quello persiano. Siamo nel  VI secolo. Gli ebrei, che erano stati deportati, tornano in patria. Il nuovo impero è più tollerante. Gli ebrei possono costruirsi la loro vita, la loro politica, seguire le loro credenze. Fu in questo periodo che scrissero la loro storia, quella che noi leggiamo nella Bibbia.

    Non è una proposta didattica, ma solo un espediente, per mostrare “sul vivo”, alcune questioni per come si pongono nelle scuole. Infatti, ridotto così, ai suoi minimi termini, il racconto mostra un problema che si oppone come un macigno al rinnovamento della didattica. L’insegnante che leggesse questo racconto, non lo riconoscerebbe. Mentre il primo, quello tradizionale, gli appare “pieno di fatti e di personaggi”, questo gli appare vuoto. Quello tradizionale ha un senso (è la storia del popolo eletto, coi suoi protagonisti). In contrasto, gli sembra priva di senso questo, che è la storia di un popolo. Non gli dice nulla. Non lo sa spiegare: nei termini correnti, non conosce altri fatti, altri particolari, non trova altri aggettivi, con i quali arricchire il testo e renderlo più gradevole o comprensibile nella sua lezione. Non lo sa valutare (“non so come interrogare gli allievi, con questo testo”). Non capendola lui, l’insegnante concluderà. “E’ una storia troppo difficile per i miei allievi”.
    Per essere credibile, dunque, una “nuova vulgata” non deve solo avere doti di comprensibilità, affidabilità scientifica e funzionalità didattica: deve essere supportata da un vigoroso aggiornamento storico e storiografico.


    Un aggiornamento storico-didattico

    E, accanto a questo, si richiederebbe un altrettanto potente aggiornamento storico-didattico, che metta in grado l’insegnante di dominare alcuni problemi e alcuni concetti ricorrenti, utili quindi non solo in questo caso. Fra i tanti, ne segnalo tre:

    -    Il concetto di popolo. Per noi indica un insieme organizzato di individui che condividono lingua, costumi, religione. Era così anche nel passato? Se osserviamo i “popoli” della regione, vediamo che spesso non era così. Spesso, un territorio era abitato da genti che parlavano lingue diverse, credevano in dei diversi, ma obbedivano a uno stesso re. A volte, invece, la situazione assomiglia parecchio alla nostra idea. Per gli egizi, ad esempio: dicevano di essere il popolo benedetto da Dio; gli altri erano impuri (perciò si lavavano quando venivano a contatto con loro). Per gli ebrei lo divenne nel periodo postesilico.

    -    Il concetto di etnogenesi. Come nasce un popolo? E’ una domanda che si posero fin dall’antichità, ma alla quale sappiamo dare una risposta solo ora. Nell’antichità, immaginavano che i “popoli” nascessero belli e fatti. E siccome non riuscivano a trovarne le origini nel luogo dove si viveva, erano convinti che venissero da altrove. Romani, ebrei, etruschi e popoli barbarici adottarono questa prospettiva. Il mito dell’esodo e della migrazione. Oppure, raccontavano che i popoli nascevano miracolosamente dalla terra che occupavano: ma questo, il mito dell’autoctonia, lo riservarono a sé gli Ateniesi, che si ritennero speciali fra gli umani.

    Noi, al contrario, sappiamo che i popoli si formano attraverso un processo, che non finisce mai. Gli ebrei, come tanti altri, “si formarono” attraverso scambi, commistioni, migrazioni e immigrazioni. E non cessarono mai di modificarsi.

    -    Il concetto di invenzione della tradizione. I miti (molti dei miti che si studiano a scuola), servono per costruire una comunità. Dunque, anche per costruire un popolo. Per costruire un “mito storico” solitamente si prendono pezzi di storia, residui del passato e li si rielaborano. Una tradizione parla del passato dunque, ma è fonte per la conoscenza del presente, nel quale fu elaborata.

    Direi che quando l’allievo avesse raggiunto queste consapevolezze, potrebbe affrontare la questione della Bibbia come fonte storica e dare un senso accettabile alla DOMANDA. E se la Bibbia avesse ragione? Certo, come tutte le fonti ha ragione. Ci fa capire in modo vivo i tormenti che lacerarono Israele, dopo la Catastrofe babilonese. Cosa fare per evitare il suo ripetersi? Il Nuovo Patto con Dio fu, per quel popolo, la garanzia che essa non sarebbe più tornata. Il passato che allora venne inventato è lo “strumento didattico” con il quale il Patto venne insegnato e reso credibile. Era il racconto di un amore fra dio e il suo popolo, continuamente rinnovato e continuamente tradito. Una storia, come ci hanno insegnato i tempi successivi, destinata ad altre catastrofi e ad altri pensieri laceranti.


    Il dibattito storiografico è uno strumento per insegnare

    In chiusura del suo libro Mario Liverani descrive lo spazio storiografico all’interno del quale il docente deve imparare a muoversi (pp. 404-407). Spiega che oggi  ci sono tre modi di guardare alla storia antica di Israele.

    Da una parte vi è l’approccio tradizionalista. Non può negare i risultati della ricerca moderna. Cerca allora di renderli inoffensivi. Elabora una nuova narrazione che segue il filo della vicenda biblica, corredandola (a mo’ di commento) delle nuove risultanze storiografiche. Queste narrazioni avranno tutte “un capitolo sui Patriarchi, magari per negarne la storicità, ma non sapendo rinunciare a un’età patriarcale (leggendaria o storica che sia) in testa alla vicenda di Israele. Tutte avranno un capitolo sull’Esodo e su Mosé, magari per affermarne la tardività, ma senza compiere il passo essenziale di dislocarne l’analisi all’epoca di pertinenza … E poi tutte avranno un’età dei Giudici e un’età della monarchia unita.”

    Di contro si batte l’approccio critico, che “drasticamente rifiuta di accettare come fonti autentiche le rielaborazioni tarde, e si ritrova in mano una storia dell’Israele pre-esilico talmente impoverita da rendere plausibile interrogarsi se sia davvero possibile scrivere una storia dell’Israele antico.”

    Il terzo approccio parte dalla considerazione che occorre tenere “nel dovuto conto il fatto che le retrospezioni tarde di norma conferiscono veste ideologica moderna a un materiale antico”. Il lavoro storico, dunque, è quello di usare la fonte biblica, non per chiedersi se avesse ragione o  meno, ma per indagare quali aspetti, quali fatti o problemi essa rielaborò. Per leggere “come in un palinsesto la vicenda antica sotto quella ricreata”.

    Liverani divide la storia di Israele in due periodi. Il primo è quello della “storia normale”, quello messo in luce dalla ricerca archeologica e storica moderne. Il secondo è quello della “storia inventata”, quello elaborato dagli scribi. La sfida per lo storico odierno è quella di “farle dialogare”. Di capire come si illuminano a vicenda, e da questa operazione ricavare il nuovo racconto dell’antico Israele. Questa operazione si effettua oggi, nel nostro mondo, con i nostri strumenti culturali. Domani, darà altri risultati.
    “Questo libro, conclude Liverani, è stato scritto nel 2001-2002, da un autore nato nel 1939 e la cui metodologia storica si è formata negli anni 1965-75. Sarebbe diverso se queste date slittassero indietro o in avanti di cinque o dieci anni”.

    Il dramma della didattica è che la vulgata manualistica è identica da decine e decine di anni. Ho ripreso una mia rapida indagine su questo argomento, svolta nel 1990. Undici manuali di media, scritti da autori di ideologia diversa, da quello in odore di eresia al cattolico tradizionalista. Tutti si attengono alla “storia inventata”, anche il manuale così laico, da ignorare quasi completamente l’argomento “ebrei”, se non fosse per le poche righe che dedica loro, ma rigorosamente legate alla versione tradizionale (Il manuale di storia, La Nuova Italia, Firenze 1991, pp. 39 s). Eppure, già da una decina di anni, circolava la prima messa a punto storiografica di Liverani (Le “origini” d’Israele. Progetto irrealizzabile di ricerca etnogenetica, in “Rivista Biblica Italiana”, XXVIII, 1980, pp. 9-32).

    Quindi – oggi - da almeno 35 anni sono disponibili versioni alternative a quelle tradizionali. Per giunta, non sono nemmeno marcate da controversie ideologiche. Presentando quell’articolo ai lettori della rivista biblica, prevalentemente di ambito religioso, il curatore spiegò che per quanto strana ai loro occhi, si trattava di una prospettiva storica nuova, che occorreva conoscere. E, oggi, al primo posto fra i ringraziamenti, Mario Liverani colloca il Pontificio Istituto Biblico.
    Dunque, un altro racconto è possibile. Mi piacerebbe che lo diventasse anche nelle scuole. Credo che sia la condizione ineludibile perché la storia imparata in classe possa diventare uno strumento critico, a disposizione dei cittadini.

     

    Lo spazio palestinese
     

    Lo scenario della vicenda biblica. A ovest del Mar Morto c’è la regione dell’altopiano centrale. Il monte di Giuda corrisponde grosso modo all’omonimo regno, che confina a sud con il deserto del Negev; mentre il monte di Efraim corrisponde al regno d’Israele; a nord, all’altezza del monte Carmelo e della baia di Akko, sfocia la valle di Yezre‘el, uno dei primi toponimi che alluderebbero a Israele.

     

    Cronologia essenziale

    Età del Bronzo: la regione palestinese fa parte dell’impero egizio. Non vi è traccia di popoli ebraici o proto-ebraici
    XIII-XII secolo: la crisi economica, climatica e bellica (i popoli del mare) distrugge gli Ittiti e fa arretrare i confini dell’impero egizio. Si produce una sorta di vuoto di potere nella regione siro-palestinese.
    1150-1050: la regione palestinese è a insediamento misto. Popolata da cananei e da filistei (che sono probabilmente di provenienza balcanica o vengono “dalle isole”, come scrivono le fonti); da pastori e da agricoltori. Si costituiscono le prime leghe intertribali. Si formano regni cantonali medio-piccoli
    1050-930: negli altopiani centrali (regione povera, rispetto alle coste e alle vallate fertili), si formano il regno di Saul, a Nord (il regno di Israele), con capitale Sichem, e quello di Davide a Sud, con capitale Gerusalemme. Dopo feroci lotte, Salomone assume il trono di Davide. E’ probabile che, sotto la sua guida, il regno di Giuda abbia ampliato la sua estensione. Tuttavia sembra una ricostruzione mitica quella dell’unificazione dei due regni. E’ dubbio ancora, se Salomone abbia eretto o no, il famoso tempio, che (in ogni caso) doveva essere di dimensioni assai modeste.
    925: a chiudere questa prima stagione regale, interviene il faraone Sheshonq. Dalla lista dei territori conquistati dal faraone, sembra chiaro che i regni ebraici sono separati, distinti e di piccole dimensioni.
    930-740: il regno di Israele si sviluppa intorno alla capitale Samaria. In una prima fase, questo regno privilegia i rapporti con la Fenicia e attua una politica militare vincente, dal momento che si ingrandisce vistosamente verso il nord. In una seconda fase, prende il sopravvento il partito favorevole a Damasco. Jehu uccide i membri della famiglia regnante e si insedia da usurpatore. Promuove una politica religiosa rigorista, volta a eliminare i fedeli di Ba’al. La storia di Israele finisce con Tiglat-pileser, sovrano assiro, che assale il regno e ne deporta gli abitanti
    930-720: il regno di Giuda è retto dalla “casata di Davide”. Anch’esso è scosso da sanguinose vicende di successione. Riesce a resistere più di Israele all’aggressione assira, accettandone l’autorità. Ma, pochi anni dopo, a seguito di una ribellione, viene anch’esso distrutto e annesso all’impero.
    740-640: il secolo di dominazione assira vede le deportazioni degli ebrei verso l’Assiria, e viceversa, dalla regione mediorientale verso la Palestina. L’economia riprende. Si impone il modello di una “divinità regale”, sul modello imperiale assiro.
    640-610: durante il suo ultimo periodo, gli assiri allentano la loro presa sulla regione. Questa recupera una fortissima indipendenza. E’ il tempo di Giosia, re di Giuda, e del cosiddetto ritrovamento della Legge nel Tempio. Giosia, nel suo lunghissimo regno (640-609), è il promotore di una politica di estensione territoriale, basata sulla guerra santa e protetta da Yahweh, dio unico nazionale.
    610-585: asservimento e distruzione seguono l’aggressione babilonese. Deportazioni delle élites e di gruppi contadini a Babilonia. Crollo demografico e culturale in Palestina.
    538 -446: fra l’editto di Ciro e l’impero di Artaserse, diversi gruppi rientrano in Palestina e avviano una politica rigorista, che ha due direzioni: verso il passato, con la riscrittura delle storie di fondazione (da Abramo, al Diluvio, al’Esodo, a Giosué e alla formazione di un regno unito yahwista). Verso il presente-futuro, con la costruzione di una società fermamente legata al culto di Yahweh, dio nazionale/universale, e all’obiettivo di dar vita a un regno di Israele, unito e indipendente.

  • L’Editto di Costantino o della gestione del passato

    Autore: Antonio Brusa

    Indice

    1. Le certezze
    2. E le certezze distrutte
    3. Che dicono i manuali stranieri
    4. Il Cosiddetto
    5. Wikipedia o a ciascuno il suo Editto
    6. Conoscere o commemorare?
    7. Costantino, 313. La mostra
    8. Le cose importanti. I valori e le radici.
    9. Ma se sei secchione e pignolo
    10. Il messaggio della mostra
    11. Troppo complesso

     

    1 - Le certezze

    Quelle sull’Editto di Costantino, Arnaldo Marcone ce le elenca con chiarezza. Quattro certezze fondamentali. Leggetele. Aprono un problema che non riguarda soltanto la questione dell’Editto, ma il rapporto più generale fra ricerca storica e divulgazione, fra ricerca e didattica e, forse, il senso stesso del nostro mestiere.

    Eccole:

    • Il documento che è consuetudine chiamare “Editto di Milano” non è un editto
    • Tale documento non fu promulgato a Milano
    • L’autore del documento non è Costantino, ma Licinio
    • I cristiani non ottennero la tolleranza attraverso quel documento perché l’avevano già ottenuta due anni prima in virtù dell’editto di Galerio dell’aprile 311.

    Marcone sottolinea che si tratta di “conclusioni inoppugnabili” stabilite da Otto Seeck, studioso tedesco di quelli che è bene non mettere in discussione a cuor leggero, pubblicate per giunta qualche tempo fa, nel 1891.

    Dunque è più di un secolo che si sa con certezza che Costantino e Licinio non si videro a Milano, la capitale occidentale del nuovo impero disegnato da Diocleziano, per emanare il famoso decreto, ma tutt’al più discussero sul perché quello vecchio (appunto emanato da Galerio) non venisse messo in pratica ovunque. In quell’occasione, probabilmente, decisero di inviare delle lettere per sollecitarne l’applicazione, cosa che fu fatta da Licinio, una volta tornato a Nicomedia, la capitale orientale. Dunque, è più di un secolo che si sa che quella vicenda, per come la conosciamo, è una invenzione. Dunque, è più di un secolo che la frase “Costantino emanò l’Editto di Tolleranza a Milano nel 313 d. C” è falsa; ed è più di un secolo che, invece, la scriviamo nei manuali, la insegniamo come verità scontata e ci facciamo su, come vedremo, tante altre belle operazioni.

     

    2 - E le certezze distrutte

    Da subito debbo confessare la mia crisi, di autore e di insegnante. Lo sapevo dell’Editto come tutti. Certo, ne conoscevo letture critiche. Ma in fondo, che i due Augusti, nel momento del loro accordo, avessero licenziato quel documento mi sembrava una cosa scontata, una tipica conoscenza manualistica. Insomma, ero convinto che fosse doveroso indagare sulle cause dell’Editto, le sue conseguenze, la sua filosofia e il contesto nel quale venne scritto, ma non sul fatto.

    Perciò, troverete quella frase anche nel mio manuale. Ora so che avrei dovuto scrivere, invece, una frase di questo genere: “Il 30 aprile del 311, Galerio emanò a Serdica, l’attuale Sofia, capitale della Bulgaria, l’Editto con il quale si concedeva libertà di culto ai cristiani”. Lo farò, non appena ne avrò l’occasione, come ho fatto in tutti i casi analoghi (dalla donazione di Sutri, ai servi della gleba, alle Crociate o alla Piramide feudale: sono un medievista e queste cose mi riescono meglio per quel periodo). Ma so che quando consegnerò il nuovo testo, il redattore farà un balzo sulla sedia e correrà dall’editore, che mi prenderà amichevolmente sottobraccio: “caro Tonio, il libro lo dobbiamo vendere, cerca di smorzare un po’ i toni, sai gli insegnanti non la prendono bene”.

    E mi dirà. Se proprio ci tieni tanto, fai così. Lascia la frase tradizionale sull’Editto, perché se l’aspettano tutti. Poi, a lato, ci piazziamo una finestra. Un “per saperne di più” o un “cosa dice lo storico”. Guarda, fanno così anche i tuoi colleghi di antichistica. Eva Cantarella, ad esempio, parla di Costantino, di Milano e del 313 con il relativo Editto, e rimanda all’approfondimento accanto (Corso di Storia Antica, Einaudi, Torino 1995). Una scheda lunga e articolata che inizia con queste parole: “Il primo atto formale che permise ai fedeli della religione cristiana di praticare liberamente il proprio culto è quello di Galerio”. E’ la prassi manualistica. Ragazzi, imparatevi l’Editto, poi ai pignoli e ai secchioni gli diciamo la verità, o un qualcosa che le si avvicini. Tanto, la scheda di approfondimento la si può sempre togliere, come – in questo caso - accade nell’edizione successiva del 2001 (Le tracce della storia, Einaudi, Torino).

     

    3 - Che dicono i manuali stranieri

    Ma prima di andare avanti, è necessaria un’avvertenza. Non voglio mettere sotto accusa i manuali e nemmeno i bravissimi colleghi che li scrivono. D’altra parte, mi sono messo io, per primo, nella schiera dei peccatori. Né vorrei che si pensasse ad un’ulteriore polemica sull’arretratezza della scuola italiana. Per questo motivo, con l’aiuto di Luigi Cajani, con il quale ho ragionato su questo argomento, mi sono andato a vedere dei manuali tedeschi. Più o meno sono come i nostri. Forse solo più sintetici e, perciò, più assertivi. Ad esempio, Martin e Zwoelfer scrivono che Costantino “pagò il suo debito con il Cristianesimo, stabilendo a Milano, con il suo collega Licinio, che i Cristiani e tutti gli altri avrebbero avuto la possibilità di praticare il loro culto”. (Geschichtsbuch 1, Cornelsen, Berlino 1987), p. 145. Oppure Askani e Wagener citano il “cosiddetto Editto di tolleranza”.  (Anno 1, Band 1, Westermann, Braunschweig 1994, p. 182).

     

     

    Certamente, uno di noi coglie in queste espressioni il filo di ironia, la presa di distanza. Ma, come sappiamo tutti, guai a cercare di far comprendere agli allievi, anche se sono tedeschi, queste sfumature, senza passare per professori pedanti e rompi-qualcosa.

     

    4 - Il Cosiddetto

    In realtà, la presa di distanza è obbligatoria, come ammonisce Laura Franco, nel catalogo della Mostra dedicata all’Editto. “Si aggiunge in genere l’aggettivo “cosiddetto”, quando si parla dell’Editto di Milano”, osserva nel suo contributo Costantino nelle fonti letterarie fra storia e mito, in Costantino 313 a.C, p. 58. Ma non c’è bisogno di ricorrere ai manuali di leggibilità, per sapere che questi “cosiddetti”, che noi studiosi amiamo tanto, per limare, specificare, prendere le distanze, sono un macigno nella comprensione diffusa. Il lettore medio li salta, perché non ne capisce bene la ragione. Ma lo fa anche lo storico non specialista. Ad  esempio Jerry Bentley, il grande storico americano scomparso di recente, scrive nel suo affascinante manuale di storia Traditions and Encounters. A Global Perspective on the Past, Mc Graw Hill, N.Y, 2009, p. 308 che Costantino fece una cosa grandissima con il suo Editto (senza virgolette). E, come lui, tantissimi colleghi, fra i quali la maggior parte degli studiosi che scrivono sul catalogo.

     

    5 - Wikipedia o a ciascuno il suo Editto

    Wikipedia è probabilmente lo specchio di una battaglia delle virgolette, diventata ormai internazionale.

    L’edizione tedesca è precisa. Cita subito l’autorità imprescindibile, quell’Otto Seecks che abbiamo visto sopra, e mette in chiaro la cronologia: prima Galerio, autore delToleranzedikt, che vuol dire Editto di Tolleranza, senza virgolette,poi la battaglia contro Massenzio, e buoni ultimi Costantino e Licinio, dei quali si specifica che non emanarono un Editto. Ma i tedeschi sono gli unici (potenza di Otto Seecks?).

    La stessa cronologia è ripresa dall’edizione latina, che non ha dubbi: “Edictum tolerationis Galerii est finis persecutionum religionis Christianae in Imperio Romano”, dice in un latino, così chiaro che lo capisce anche chi non lo sa. A scanso di equivoci, qualche riga sotto si ribadisce che quello di Milano non fece che confermare ciò che già era stato stabilito da Galerio. Questo alla voce dedicata a Galerio. La voce sull’Editto di Milano, specifica che si trattò di una riunione in seguito alla quale vennero mandate delle lettere che possono essere intese come un complemento dell’editto di Galerio.

    L’edizione francese è sconcertante. Riporta tutte e due le versioni. Prima quella sbagliata e poi quella giusta. Senza un’avvertenza al lettore. Insomma: questo è quello che si dice, fate un po’ voi.

    La versione polacca dice che l’Editto è stato pronunciato dai due imperatori (…) nel 313 a Milano, uniti dalla fede nell’impero romano. Prosegue affermando “da questo momento, il cristianesimo non ebbe più ostacoli. In base a questo editto furono restituite alle comunità cristiane palazzi e terre di proprietà ecclesiastici”. Cita, a supporto, il resoconto di Lattanzio, che vedremo subito, spacciato (ma è una prassi consueta nella rete) come testo dell’Editto.

    L’edizione spagnola distingue fraLa tolerancia del Cristianismo, così viene chiamato l’ Editto di Milano, del quale si racconta la versione tradizionale, el’Edicto de Tolerancia de Nicomedia, che sarebbe quello di Galerio, declassato a “antecedente”.

    L’edizione finlandese spinge per una interpretazione progressiva, secondo la quale l’Editto di Milano fu un perfezionamento di quello di Serdica.Lo dice sulla base di una fonte vecchiotta, per quanto informatissima, Philip Schaff, il teologo e storico protestante svizzero, che scrisse nel 1800 unaStoria della Chiesa, il quale sostenne che con l’Editto di Milano si passò da una neutralità negativa a una positiva, che apriva le porte all’adozione del Cristianesimo come religione ufficiale. L’opera è in inglesee forse per affinità linguistica anche gli ungheresi adottano un’interpretazione simile.

    Chi vuole chiudere questo giretto con un po’ di divertimento, vada a consultare l’edizione italiana, per la quale l’Editto ci fu, ed  è presentato come quello vero, ma non era il primo, perché ce ne fu un altro, sempre di tolleranza, nel quale però venne concessa ai cristiani solo un’indulgenza: e qui l’equivoco con la prassi penitenziale cristiana è inevitabile come le virgolette, da spargere a piene mani (Se riuscirete a capirci qualcosa, non vorrà dire che siete bravi, ma solo che siete perfettamente inseriti nello schema di funzionamento di questa nazione).

     

    6 - Conoscere o commemorare?

    Virgolette, dunque, ma decisive, quando si parla della creazione di un evento, come le celebrazioni costantiniane. Ecco come vengono presentate dal giornale della diocesi ambrosiana.

    Ebbene, per commemorare dal punto di vista scientifico tale centenario e per discutere tutti gli aspetti problematici connessi a quello che per l’appunto definiamo convenzionalmente come “editto” (…)

    Dunque, che sia un Editto è una convenzione, non una realtà storica. Però questa convenzione è indispensabile sia per fissare l’anniversario (che si celebra solitamente per qualcosa che è realmente avvenuto), sia per designare la città – luogo reale - dove commemorarlo (vi figurate i milanesi che festeggiano l’ “Editto Bulgaro di Tolleranza”?). Ma questo imbroglio fra realtà e invenzione, cede sicuramente il passo a quella perla della “commemorazione scientifica”, che avrete sicuramente notato, e sulla quale gli studiosi dei rapporti tra storia e memoria potrebbero scrivere libri.

     

    7 - Costantino, 313. La mostra

    E siamo arrivati alla mostra. Ci dovevamo tornare perché il bello dello stereotipo dell’Editto è che l’articolo di Marcone, che me lo ha svelato, è pubblicato proprio nel catalogo della mostraCostantino 313, svoltasi a Milano in occasione del suo 1700 anniversario, e ora aperta a Roma, al Colosseo Editto di Milano: dalle persecuzioni alla tolleranza, pp. 42-47.

    Questa esposizione si apre con il famoso brano di Lattanzio, quello da cui prende il via l’invenzione dell’Editto. Tu entri e ti accoglie la prosa familiare del grande scrittore cristiano.

     

     

    Pensi. Come sono simpatici questi due imperatori, che si vedono a Milano, chiacchierano come due tipi qualunque, e a un certo punto fanno: ma perché non li lasciamo liberi, questi benedetti cristiani? Qui, però, la nota erudita me la dovete concedere, perché serve a spiegare almeno una parte della confusione. Noi non possediamo il testo di quel documento che chiamiamo “Editto di Milano”. Oltre ad una versione ridotta di Eusebio di Cesarea, disponiamo solo dell’ampio resoconto di Lattanzio, autore decisamente schierato a favore di Costantino, e da questi assunto come precettore del figlio Crispo (en passant, Costantino spese veramente male i soldi per la sua istruzione, dal momento che lo fece ammazzare). Sappiamo, dunque, che le precauzioni interpretative sono obbligatorie, in situazioni come questa (nella mia piccola ricerca su Internet, ho trovato perfino il racconto di Lattanzio suddiviso in paragrafi numerati “come se fosse” un documento legislativo.

    Quindi ti aggiri fra i pezzi (belli; emozionanti). Scopri un impero dalle tante religioni. Vedi la mano di Sabazio – dio della nascita e della morte – la mano con le tre dita distese, alla quale si ispirò il gesto cristiano della benedizione. Ammiri un bassorilievo raffigurante Mitra, con i resti della colorazione originale (il dio ha il volto dorato e il mantello rosso). E poi Iside, Giove Dolicheno, il Sol Invictus (accanto al quale Costantino amava farsi raffigurare nelle sue monete d’oro) e tanti altri.

     

     

    La convivenza di questa moltitudine di culti era garantita dall’imperatore, anche prima del nostro Editto. Certo, si sentiva nell’aria una “ricerca del monoteismo”, si premurano di avvertirci i curatori, che evidentemente dispongono di speciali fonti di informazione; per quanto, curiosamente, proprio dopo la legalizzazione completa del Cristianesimo (appunto dopo l’Editto), questa pacchia libertaria finì, dal momento che gli imperatori cristiani si dettero a vigorose campagne di repressione di ogni religione che non fosse quella cristiana, per giunta nella versione che di volta in volta ritenevano ortodossa. I curatori della mostra non mancano di rilevare, infatti, che da subito Costantino impose “qualche limitazione” a questa tolleranza. Un eufemismo si direbbe, visto che appena l’anno successivo al nostro Editto di Tolleranza, si celebrò il concilio di Arles, con la condanna dei donatisti; sei anni dopo vennero proibiti i sacrifici pagani e, da allora, seguì un crescendo ininterrotto di repressioni dall’alto e di violenze dal basso, che portò alla scomparsa di quella varietà di religioni che ci affascina visitando questa mostra. Nella quale, per contro, si racconta con dettagli delle persecuzioni contro i cristiani, illustrate con immagini efficaci di condannatiad beluas , che sfortunatamente non si riferiscono mai a martiri. Non lo può essere, ad esempio, questa scena nella quale un orso sta per sbranare una ragazza legata ad un palo (la si riconosce a destra nella mia pessima foto), troppo sensuale e svestita per essere una santa da venerare.

     

     

    8 - Le cose importanti. I valori e le radici.

    Ma non cavilliamo, dice la mostra. Qui si parla di cose più importanti e attuali. Di tolleranza e di convivenza dei diversi. E, naturalmente, delle radici cristiane di tutto ciò. Questo è il succo che il visitatore comune deve ricavare dalla sua visita. Inoltre, se sei quello che ne vuol sapere di più (e ti senti anche di spendere qualche euro in più), eccoti il catalogo. La sua apertura, di autorità e sponsor, ti incoraggerà in questa interpretazione, come rivela questa rapida antologia.

     

    Ci sono date che partono da una città e arrivano al mondo. Nel 313 Milano proclama “ai Cristiani e a tutti gli uomini la libertà di seguire la religione che ciascuno crede”  (Giuliano Pisapia, sindaco di Milano)

     

    Il rescritto, a firma dei due Augusti Costantino e Licinio, segna la fine delle persecuzioni contro i cristiani e l’atto di nascita della libertà religiosa, ben diversa dalla semplice tolleranza” (Angelo Scola, cardinale)

     

    La celebrazione dell’Editto di Costantino ci ricorda di un antico primato di Milano, da sempre storico crocevia di esperienze e laboratorio civile di sviluppo” (Stefano Boeri, assessore alla cultura di Milano)

     

    Con quella rivoluzionaria decisione Milano divenne il luogo simbolo dell’integrazione e della convivenza di fedi ed etnie diverse” (Diana Bracco, Presidente della Fondazione Bracco)

     

    9 - Ma se sei secchione e pignolo

    E lo devi essere proprio, perché non ti devi fermare alla visita, né ti devi limitare a sfogliarne il bel catalogo e a leggiucchiarne un articolo qua e là. Devi individuare proprio quello di Marcone, e giungere sino alla fine, quando lo storico elenca le certezze che già sapete.

    Ma se lo farete anche voi, capirete che non è una questione di date né di pedanteria erudita. Infatti: un conto è sapere che quell’Editto fu promulgato da Galerio, imperatore talmente pagano e talmente mal visto dai cristiani (fu proprio lui che spinse Diocleziano a iniziare la sua persecuzione), che Lattanzio lo fece crepare tra le sofferenze nel suo De mortibus persecutorum; un conto, ancora, è sapere che perfino l’”Editto cosiddetto”, o il “rescritto” come puntualizza il cardinale Scola,  fu promulgato da Licinio, che era quello pagano della coppia di Augusti. E un conto totalmente diverso è essere convinti che quell’Editto fu opera dell’imperatore che era, o che sarebbe diventato cristiano. Se, infatti, furono gli imperatori pagani a promulgarlo, vuol dire che esso venne pensato per ragioni che per loro erano di “buon governo”. Probabilmente si convinsero che era quello che ci voleva per andare avanti, e si comportarono di conseguenza. Nel caso contrario, come sappiamo tutti, quell’Editto si inscrive in un percorso destinato a portare alla vittoria del Cristianesimo. E ci suggerisce che noi siamo tali (tolleranti e aperti) proprio perché siamo inseriti in quel percorso.

    Che i cristiani potessero liberamente celebrare i loro culti, dunque, era già un fatto acquisito nel 313. Certamente, c’era chi si opponeva (come Massimino Daia, il Cesare che fu sconfitto da Licinio). Ma certamente non Massenzio o qualcuno degli altri pretendenti al trono, che Costantino fece fuori, uno dopo l’altro. E questo forse ci obbliga a guardare da una prospettiva diversa anche la faccenda del Ponte Milvio.

    Cambia totalmente anche la questione del rapporto fra Editto e celebrazione della Tolleranza. Infatti, se è vero che pochi anni dopo la sua promulgazione, Costantino e il suo nuovo entourage cristiano dettero il via a delle pratiche restrittorie della libertà religiosa, allora ne dovremmo trarre la conseguenza che la stagione della tolleranza fu brevissima, e che Costantino, in luogo di inaugurarla, fu quello che la chiuse.

     

    10 - Il messaggio della mostra

    Uno spostamento di due anni (311/313), e il messaggio della mostra si rovescia. Oggi il messaggio è: “il bene della tolleranza ha le sue radici in Costantino, e dunque nell’avvento del Cristianesimo. Dura dunque da 1700 anni, e perciò lo celebriamo tutti, laici e cristiani e di qualsiasi religione”. Potrebbe essere, invece: “Quella che consideri “tolleranza” durò una manciata di anni, e poi scomparve rapidamente. E’ un bene fragilissimo, ci dicono quel periodo e quegli eventi, che pure consideriamo fondanti. Perciò datti da fare se ci tieni veramente”.

    E mi sembra che Arnaldo Marcone non lasci alternative, quando conclude che è alquanto improprio parlare di “tolleranza” e di “persecuzione” per quei tempi. Si trattava, dice, di un fluttuare di situazioni, mai generali e mai durature e mai, soprattutto, nette. Questa mostra, dunque, dovrebbe aiutarci a prendere le distanze, piuttosto che esaltare fieramente i quarti di nobiltà della tradizione occidentale.

     

    11 - Troppo complesso

    E’ quello che ti dicono, quando ti chiamano a organizzare una mostra, a scrivere un manuale o, come mi è capitato anche, a redigere dei programmi di studio. La gente non capirebbe. Bisogna essere chiari e semplici, e tu fai sempre dei problemi. Be’, proprio questa mostra ci insegna che si tratta di un alibi e che il “farsi capire da tutti” è proprio l’ultima delle preoccupazioni. Guardate queste foto. Sono alcune didascalie di oggetti presentati nella mostra. Ecco questa “Alzata frammentaria di coperchio di sarcofago con pastore crioforo”. Uno moderatamente ignorante come me deve smanettare con lo smartphone, per capire che “moscoforo” e “crioforo” sono più o meno la stessa cosa. Più o meno, ma non sottilizziamo. Altrimenti, senza dare nell’occhio, allunga lo sguardo alla versione inglese. Anche a saperne poco, quello shepherd carrying a lamb, lo guida alla soluzione. “Il buon pastore”. Ah. Fortunatamente sono di quelli che non hanno problemi con l’“alzata frammentaria di sarcofago”.

     


    E l’inglese mi salva anche per capire che cos’è questo oggetto, che a prima vista penserei fosse uno stravagante “portatore di tavola”.Trapezoforo, infatti, recita minacciosa la didascalia, mentre la traduzione mi rassicura. E’ la gamba di un tavolino. Ma a quella successiva ci dobbiamo arrendere tutti, gli italiani sfortunati e gli inglesi (che, come avrete notato, sono trattati più umanamente dai curatori della mostra). La “lucerna bilicne”, infatti, ci rimette tutti al nostro posto.

    Se veramente il “farsi capire” fosse il motore delle scelte e delle semplificazioni, allora avrebbero scritto “Buon Pastore, “Gamba di tavolino”, “Lucerna a due luci”. Senza trascurare, ovviamente, il termine tecnico. Quello ci vuole, e chi è bravo e vuole veramente farsi comprendere, sa anche dove e come metterlo. E riesce anche a valorizzarne l’importanza (a far intendere anche quella, infine).

    No, ci dice questa mostra. No, ci dicono “gli approfondimenti”. No, ci dicono queste didascalie e queste virgolette. Il capire è un qualcosa di pochi. Degli esageratamente pignoli. Gli altri, la gente, si accontenti delle storie facili, quelle che già circolano e alle quali è abituata. Si limiti a quelle “spiegazioni semplicistiche e riduzionistiche, secondo le quali fu Costantino, facendo del cristianesimo la religione ufficiale dell'impero, a determinarne definitivamente il successo" (Questa frase, di Andrew M. Greely, un prete irlandese, sociologo e giornalista, l’ho trovata nel sito curato da Andrea Nicolotti, al quale rinvio per chi voglia continuare a informarsi su questo genere di argomenti).

     

  • L’Immaginario della Shoah e della guerra

    Autore: Claudio Monopoli

    Continua il percorso inaugurato tre anni fa dall'Università di Bari sulla storia e la didattica della Shoah. L'insegnamento e la formazione attraverso un'equilibrata strategia didattica e fuori da ogni distorsione retorica e demagogica, sono gli obiettivi che lo hanno accompagnato fin dall’inizio. Il tema di quest’anno è stato L'immaginario della Shoah e della guerra (17 e 18 ottobre 2014). Se è vero che la nostra epoca è definibile "età delle immagini", è altrettanto vero che i metodi di comunicazione e di didattica storica sono obbligati ad affrontare questo argomento.

     

    Gli aspetti teorici

    Introducendo i lavori, Francesca R. Recchia Luciani ha esaminato il problema dell'effettiva rappresentabilità della Shoah. La cultura oggettivo-visuale e artistica ha fatto spesso ricorso a strategie di trasmissione e riproduzione di sentimenti e stati d'animo, con l'obiettivo di permettere un "transfer" emotivo nell’osservatore. Una volta aperta l'epoca "del trauma senza trauma" (D. Giglioli), la pratica della riproduzione della sofferenza, tuttavia, ha richiesto l’uso di immagini sempre più forti e spettacolari per far fronte alla perdita degli effetti emozionali che la loro estrema diffusione ha provocato, rendendo non scontato il processo di empatia. In un simile contesto, per non smettere di comprendere il dramma della sofferenza, di Auschwitz, non è più l'immagine in sé ad aiutarci, ma l'immaginazione che, richiamandosi alle nostre esperienze corporali, permette la condivisione partendo dalla constatazione della comune appartenenza al genere umano.

    Nel campo della didattica e della formazione, spesso non è facile trattare adeguatamente i temi "violenti" della storia. Ma è anche vero che non si possono escluderli dal curriculum. Partendo da questa necessità, Antonio Brusa ha proposto l’istituzione di un “laboratorio del tempo presente”. Muovendo dalle "questioni sensibili", ovvero dagli eventi angoscianti odierni, l'insegnante può sempre aprire delle "finestre didattiche" sul mondo contemporaneo. E’ fondamentale non abbandonare tali questioni alle commemorazioni e alle celebrazioni, oppure riservare loro unicamente gli ultimi istanti della programmazione. Il progetto di Laboratorio del tempo presente ha dunque l'obiettivo di costruire capacità e metodi di analisi su tematiche che attraversano l’intero racconto storico (immigrazione, malattie, guerra, ecc.) e di saggiare le capacità dei ragazzi nell’interpretarle. Il racconto scolastico, perciò, deve guardarsi dalle eccessive semplificazioni; si deve aprire al dibattito. Nel caso della guerra, deve accogliere le diverse “configurazioni” di questo evento: dall'alto, dal basso e quella culturalista (Prost e Winter). Dal canto loro, anche le immagini rischiano continuamente la banalizzazione. A questa si oppone il metodo storico: chiedersi i contesti nei quali l’immagine è prodotta, gli scopi dell’autore, i mezzi di produzione dell’immagine e, infine, la sua circolazione e il pubblico dei suoi fruitori. Questo vale tanto per un bassorilievo assiro, come per le foto delle atrocità naziste.

    Offrendo la sua preziosa testimonianza, Pino Bruno, reporter di guerra dal 1990 al 1994, ha illustrato come vengono realizzate le immagini di guerra e quali fattori influiscono sulla sua divulgazione. La stessa figura del giornalista di guerra di oggi, non più soldato come nel periodo antecedente alla guerra in Vietnam, implica una selezione all'origine dell’immagine. Un giornalista embedded, al seguito dell'esercito è obbligato a riprendere solo determinate scene, mentre i giornalisti “liberi” sono costretti a riprendere immagini lontano dalle zone di guerra. Non solo: diversi programmi di elaborazione grafica intervengono oggi sull'immagine finale, destinata alla diffusione, con la finalità di evidenziare o eliminare determinati elementi, a volte trasformando il senso complessivo dell'immagine.


    Il lavoro pratico

    I lavori della prima giornata hanno compreso un secondo blocco tematico, inaugurato dall'intervento di Elena Musci, sul tema della visita come proposta didattica. Il luogo storico si presenta come un insieme di dati materiali e simbolici in grado di richiamare eventi o figure. E’ una fonte stratificata nel tempo e "muta" se non vengono create le condizioni necessarie metterla in relazione con gli eventi passati. Per possedere le chiavi di comprensione di un luogo storico, è pertanto necessario raccontare questi raccordi e lavorare con le fonti. La visita didattica, supportata anche da mezzi digitali, può essere impostata interattivamente. Nello specifico, la Casa Rossa di Alberobello, meta della seconda giornata del corso, si presta ad un accurato lavoro di decostruzione, proprio a causa delle diverse funzioni che essa ha ricoperto a partire dal 1887.

    La Casa Rossa di Alberobello non è l'unico luogo utilizzato in Puglia come campo di concentramento. Nel suo intervento, Sergio Chiaffaratta ha illustrato questo aspetto di storia pugliese. Proprio all'indomani della guerra in Libia del 1911, circa quattromila libici vennero trasferiti nelle colonie penitenziarie delle Isole Tremiti, Gaeta, Ustica, Ponza, Caserta e Favignana. Anche durante la Grande Guerra, che aveva trasformato l’Adriatico in un fronte di battaglia, vennero istituiti numerosi campi di concentramento per i prigionieri austro-ungarici in diverse zone della Puglia e della Basilicata. Con l'emanazione delle leggi fasciste del 1926, molti dei luoghi già utilizzati nelle guerre citate furono impiegati come luoghi di confino, come ad esempio le isole Tremiti, che ospitarono diversi prigionieri omosessuali. Un altro importante passo è rappresentato delle leggi razziali del '38, che spinsero molti cittadini ebrei ad imbarcarsi dal porto di Brindisi verso la Palestina; e nel 1940 (fino al 1943) vennero istituiti numerosissimi campi di concentramento in tutt'Italia e in Puglia Fra questi: i campi di Pisticci (primo campo di concentramento italiano), Ferramonti di Tarsia, Isole Tremiti, Manfredonia, Gioia del Colle, ed ovviamente la casa Rossa di Alberobello. Con la liberazione di Bari del 1943, infine, vennero istituiti numerosi campi profughi e di transito, convertendo anche i vecchi campi di prigionia, come ad esempio i campi di Torre Tresca, Altamura e Santa Maria al Bagno.

    I lavori della prima giornata si sono conclusi con l'intervento di Raffaele Pellegrino, sul tema della Musica al servizio del Terzo Reich. Il singolare esempio preso in analisi è stato quello del campo di Terezin, situato a 60 km da Praga. In questo campo si realizzò il progetto nazista di creare un'immagine di fittizia del campo, presentato come fucina artistica e culturale. Internando musicisti ed esponenti del mondo culturale ebraico, i nazisti hanno mascherato gli orrori del campo di concentramento. La musica, inoltre, fu utilizzata nel sistema di potere del Terzo Reich come strumento di propaganda, filtrata dai nazisti attraverso la censura, i quali innalzavano a loro vessillo opere di autori da loro considerati rappresentanti della cultura ariana, come Wagner, Bach, Bruckner e Beethoven.

    La seconda parte del corso, la mattina del 18 ottobre, è consistita nella visita della Casa Rossa di Alberobello, a cura da Francesco Terzulli, autore di La casa rossa. Un campo di concentramento ad Alberobello e Una stella fra i trulli. Impiegata dal 1887 (data di fondazione) al 1939 come Scuola Agraria, fu utilizzata prima dai fascisti come campo di concentramento fino al 1943 per sudditi inglesi, ebrei stranieri, ex jugoslavi ed ebrei italiani; poi dal governo italiano come campo di prigionia per i fascisti fino al 1946; e successivamente, in età repubblicana fino al 1949, la Casa ospitò donne straniere di tutta Europa ex-collaborazioniste o prostitute o sbandate, bambini, profughi di tutta Europa, e non solo. La Casa, nel corso del tempo, ha conosciuto l’intera varietà della detenzione bellica: campo di internamento, prigionia, confino, concentramento, transito e per profughi.

     

     

  • L’insegnamento della storia e il suo rapporto con la verità. Da Gradara alle Fosse Ardeatine

    Autore: Charles Heimberg


    Charles Heimberg insegna Didattica della storia e dell’educazione civica a Ginevra ed è coordinatore di «Le cartable de Clio» (consultabile sui siti dell'Università di Ginevra e dell'APRIDH), la rivista che negli ultimi anni si è imposta all’attenzione degli studiosi di didattica e ai professori di storia di lingua francese. Ci fa il regalo, a noi di HL, dell’editoriale dell’ultimo numero, dedicato alla questione del falso. Un tema che ci interessa da vicino. Abbiamo spesso parlato di stereotipi e conoscenze storiche erronee, soprattutto per quanto riguarda il Medioevo, e abbiamo condotto molte battaglie sui falsi costruiti intorno a luoghi e figure, come Federico II e Castel del Monte. In questo testo, a partire dall’analisi di alcuni aspetti della retorica del falso, Charles pone un dilemma che interessa storici e insegnanti: se il nostro compito sia solo quello di svelare gli inganni, oppure anche quello di introdurre i «non storici» nel difficile mondo delle «verità storiche». Difficile perché è un mondo sempre complesso. (HL)

     

     

    Indice

    • Storia e turismo
    • Didattica del falso
    • La storia come deposito di leggende
    • Lo storico e il poliziotto

    La rocca di Gradara. Tutte le immagini, escluso quella delle « sala delle torture » sono tratte dal sito ufficiale

     

    Storia e turismo
    Fra Rimini e Ancona, proprio sul confine settentrionale delle Marche, il borgo fortificato di Gradara si staglia maestoso con le sue mura, dall’alto di una collina. Le guide turistiche gli consacrano molte stelle e foto a tutta pagina.

    Citiamo da una di queste: il castello regala «un intenso tuffo nel passato, grazie al suo ottimo stato di conservazione e all’accurata opera di ricostruzione. Varcata una delle imponenti porte, ci si ritrova così nel Duecento, quando, a seguito di lotte di possesso, i Malatesta, con il capostipite Giovanni, riuscirono a imporsi su una zona così strategica per i loro contrasti con i Montefeltro. Iniziò così la costruzione della Rocca, a partire dalla vecchia torre quadrata, innalzata alla metà del secolo precedente per volontà dei signori locali Pietro e Rodolfo Griffo. Questa divenne l’imponente e robusto mastio con la sua corona merlata, da cui si aprono i quattro lati della costruzione a pianta quadrilatera legati da tre forti torri poligonali. Fu Pandolfo Malatesta a portare a termine la costruzione (1307-1324), con i cammini di ronda coperti, lungo le cortine e le torri d’angolo poligonali»1.

    Un’altra guida, ancora più diffusa, racconta dell’«incanto di un angolo di Medioevo incontaminato», non senza precisare, fra parentesi, che lo si deve anche « ai restauri condotti nel 1923 ». Il testo di questa descrizione è scandito da una successione di date che ne suggeriscono la grande antichità: «In effetti, molto tempo è passato da quando nel 1032 – così riporta un documento ufficiale – si ha testimonianza del primo insediamento su questo colle in riva destra del Tavollo; e, da quando, nel ‘200, si mise mano alla costruzione del fortilizio. Nel secolo successivo si colloca l’erezione della cortina difensiva, per volere dei Malatesta che del centro furono signori sino al 1463; a loro si sostituirono gli Sforza, i Della Rovere e, dopo il 1631, il governo diretto della Chiesa» 2.

    Tuttavia, la realtà di Gradara è moto diversa. In effetti, i luoghi non erano altro che un ammasso di rovine, nel momento della loro ricostruzione integrale, iniziata nel 1923. Certamente, tutto è stato tentato per assicurare una certa verosimiglianza a questa ricostruzione e al suo aspetto medievale. Questo non toglie che si tratti di una ricostruzione, che non ha nulla di autentico.

    Ma c’è un altro elemento, che costituisce la particolarità di questo luogo, questa volta del tutto leggendario. Una tradizione pretende che la celebre tragedia, narrata nel V canto dell’Inferno, si sia svolta a Gradara, in una delle stanze della fortezza: l’assassinio compiuto da Gianciotto Malatesta, marito geloso e podestà di Pesaro verso la fine del XIII secolo, nei confronti di Paolo Malatesta e della cognata, Francesca da Rimini, due amanti in preda ad una passione bruciante.

     

    Didattica del falso
    Qualche anno fa, Antonio Brusa ha coordinato la redazione di un gioco, destinato alle scuole, nel corso del quale, camminando per il borgo, gli allievi scoprivano dei documenti storici che li conducevano a scoprire che stavano visitando una ricostruzione recente3. Questo procedimento ludico-didattico si smarca fortemente dalla messa in scena del falso, ossia dalla «Didattica del Falso», che caratterizza oggi la fortezza di Gradara e le didascalie che si leggono sui pannelli, apposti lungo il percorso di visita.
    Nella corte centrale del castello, su un muro che non è molto visibile da tutti i visitatori, si trova questa targa, affissa dalla municipalità :

     

     

     

    Ecco, in un solo colpo abbiamo una delle principali chiavi interpretative del sito: questo era in rovina e “risorse” nel 1923. Tuttavia, durante il percorso della visita, tutto viene fatto per richiamarla il più discretamente possibile. La lettura attenta del dispositivo narrativo-museale si rivela molto significativa. Prendiamone rapidamente qualche esempio.
    La prima sala è presentata come la Camera della tortura. Un pannello spiega che doveva trattarsi di un magazzino, ma che l’iscrizione Improbatis Antidotum (Rimedio alla Cattiveria), incisa sulla pietra esterna della finestra, significa senza dubbio che fu utilizzata come prigione. Degli strumenti di tortura, molto eloquenti, sono, d’altra parte, inchiodati alle pareti.

     

    Strumenti di tortura, aggiunti alla cosiddetta “sala delle torture” del castello di Gradara

     

    Il pannello esplicativo della Sala di Sigismondo e Isotta è particolarmente rivelatore. In effetti, spiega con precisione il significato dei motivi decorativi, legati alla simbologia araldica dei Malatesta. Ma è solo nell’ultimo paragrafo che si viene informati della data di queste decorazioni: «Nel soffitto di legno, anche questo decorato negli anni venti con dei falsi cassetti, i motivi araldici sopramenzionati riappaiono in miniatura». Piazzata in fondo al pannello, la frase «anche questo decorato negli anni venti» permette così di non occultare la verità, ma senza metterla in evidenza, per riservarla al solo visitatore attento o a colui che conosce già la natura reale del sito.

    Nella Sala del Cardinale, al contrario, si fa subito allusione alla ricostruzione degli anni venti, ma solo per sviluppare dopo una serie di osservazioni sul baldacchino del XVII secolo. Lo stesso procedimento è adottato in altre occasioni: le pitture e gli oggetti antichi, conservati e esposti nelle sale ricostruite, sono oggetto di commenti dettagliati sulla loro epoca e sul loro aspetto, e tutto ciò contribuisce fortemente all’illusione di un luogo autenticamente antico.

     

     

     

    In storia, i miti e le leggende sono spesso presi per autentici, o sono confusi ad arte con il vero, la maggior parte delle volte a sostegno di qualche interesse del presente, che non ha nulla a che vedere con la scienza storica. Ma il falso, parziale o totale, porta qualche volta dei vantaggi economici. L’illusione del contesto medievale di Gradara è ottenuta non solo attraverso la ricostruzione delle strutture, ma anche attraverso una strategia didattica costruita da una parte su oggetti realmente antichi e dall’altra su un racconto che mette in rilievo ogni genere di informazione sul passato, neutralizzando in questo modo l’informazione sulla natura reale del sito. E’ perfettamente visibile nel sito promozionale4 . Ed è certamente, un'efficace valorizzazione della dimensione turistica di Gradara.  

     

    La storia come deposito di leggende
    Proprio accanto al castello, il borgo fortificato di Gradara, con il suo piccolo museo del Medioevo, degno di Disneyland, i suoi falsi strumenti di tortura e le sue passeggiate pittoresche, incrementa la sensazione, certo superficiale, di un tuffo nei tempi del Medioevo. Osservando i visitatori, e in particolare i bambini, l’idea di fare il guastafeste, svelando il falso e la realtà del luogo, non è del tutto scontata. Da un certo punto di vista, questi sono venuti per vedere qualcosa di medievale, si offre loro ciò che si aspettano, e tutti, perciò, dovrebbero essere contenti …

     

    Gradara: rievocazione di una battaglia tardo-medievale

     

    Gli esempi di volgarizzazione della storia che nascono dalla stessa logica non mancano nello spazio pubblico, e in particolare in quello mediatico. Costituiscono, d’altra parte, un potenziale e potente strumento di propaganda. «E’ nella certezza che il pubblico non ha né il tempo né le capacità critiche, che i maestri dell’inganno si impadroniscono del passato, del racconto del passato, per trasformarlo in un'arma di guerra politica, in un gioco che distrae e orienta, o in un gadget commerciale», afferma lo storico Nicolas Offenstadt5 .
    Ma ci sono delle altre trappole. Nel campo della storia, e nell’intero campo telematico suscettibile di interessare gli insegnanti di storia, le contro-verità abbondano. Alcune, fra le più clamorose, sono molto conosciute. Bruno Grosjean, alias Binjamin Wilkomirski, ha per esempio, fatto credere ai lettori di un libro molto ben scritto6, e validato da specialisti della questione, che fu un bambino ebreo sfuggito ai campi di morte, lui che fu, in realtà, un bambino svizzero abbandonato dalla madre, di Bienne. Enric Marco è stato uno degli ultimi, quanto efficace, presidente dell’Amicale de Mauthausen, per quanto non fosse mai stato internato e avesse in realtà raggiunto la Germania come lavoratore volontario. La sua soperchieria fu denunciata appena in tempo, nel 2005, prima della cerimonia commemorativa della liberazione del campo. Più recentemente, un eroe fabbricato dalla polizia italiana, Giovanni Palatucci, che era stato presentato come salvatore di centinaia di ebrei di Fiume (oggi Rijeka in Croazia), è stato smascherato come zelante poliziotto italiano, in una città contrassegnata da un elevato tasso di deportati ebrei. E, se fu deportato a Dachau, dove morì, ciò avvenne per i suoi contatti con gli Inglesi. Di recente, a seguito dell’inchiesta condotta dal Centro Primo Levi di New York, il suo nome è stato cassato da un’esposizione del Museo dell’Olocausto di Washington e il suo caso è sotto indagine presso lo Yad Washem, dal momento che fu insignito del titolo di «Giusto fra le Nazioni».

    La storia, come costruzione di un’intellegibilità del passato, si sforza di distinguere il vero dal falso, di reinterrogare senza sosta le nostre conoscenze, ivi comprese, a volte, le nostre certezze. Come a Gradara, e in molte altre situazioni, la storia critica e la sua didattica giocano talvolta il ruolo di guastafeste, perché prendono in considerazione gli agenti del «presente del passato» nella pluralità delle loro identità e dei loro atteggiamenti, senza mai rinchiuderli in categorizzazioni riduttive.

     

    Lo storico e il poliziotto
    Nella «parte teorica» di una Guide pour l’enseignement 1-2 de la Géographie, de l'Histoire et des Sciences de la nature, pubblicata nel 2012 sotto l’egida della Conferenza intercantonale dell’Istruzione pubblica della Svizzera Romanda e del Ticino (la CIIP), si sottolinea che il nuovo Piano di studi Romanzo (PER), valido per tutti i cantoni francofoni «ha fatto la scelta di una storia-problema che cosidera la storia come una procedura d’inchiesta». Una notizia da salutare con favore, se non fosse per il fatto che l’«inchiesta storica » di cui si parla,  viene paragonata a quella che un « ispettore di polizia» esegue dopo un incidente stradale. Ora, Il giudice e lo storico di Carlo Ginzburg ci ha da tempo avvertito della necessità di distinguere il lavoro dello storico da quello del poliziotto o del giudice: l’inchiesta storica, in effetti, non cerca dei colpevoli a tutti i costi, ma vuole ristabilire i fatti nel loro contesto e nella loro complessità. «Uno storico, ci dice Ginzburg, ha il diritto di trovare un problema, laddove un giudice non trova che un non luogo a procedere. Là c’è una divergenza importante, che suppone tuttavia un elemento che può collegare giudici e storici: l’uso della prova7».  A patto, certamente, che sia possibile trovarla.
    Le nozioni di verità e di prova sono in effetti più complesse di quello che sembra. Sappiamo che una diceria, per quanto inesatta, finisce per diventare un fatto storico, per quanto di quella natura particolare che caratterizza le credenze e le rappresentazioni collettive. E’ il caso, fra gli altri, di quella idea erronea, ma ripetuta ossessivamente fino ad oggi, secondo la quale se gli autori dell’attentato di via Rasella si fossero consegnati ai tedeschi, il massacro sanguinoso delle Fosse Ardeatine non sarebbe avvenuto il 24 marzo del 1944. Come è stato dimostrato, fra gli altri da Alessandro Portelli, le esecuzioni avvennero subito dopo l’attentato, e la cittadinanza venne avvisata a fatto compiuto della rappresaglia, ordinata da Hitler, con un manifesto che si concludeva con la celebre affermazione “l’ordine è stato eseguito”8 . Tuttavia, il ristabilimento della verità dei fatti (i manifesti nazisti vennero apposti dopo l’eccidio) non è bastato, nemmeno a distanza di tanto tempo, per neutralizzare l’effetto di una propaganda che ha stigmatizzato i partigiani.
    La questione del vero e del falso, del rapporto fra la storia insegnata e la verità, dunque, non può essere intesa come un semplice, per quanto doveroso, «disvelamento dell’imbroglio», quanto piuttosto come l’invito a integrare la nozione della complessità nelle pratiche scolastiche.

     

    Note:

    1. Marche in tasca. Castelli da scoprire nelle Marche, Fabriano, Claudio Ciabochi Editore, 2013, pp. 5-6.
    2. Quello del Touring Club Italiano per le Marche, di cui la Regione Marche. Assessorato al Turismo é coeditrice.  Milan, Touring Editore, 2001, pp. 71-72.
    3. Il gioco – Gradara Tantastoria - fu disegnato e realizzato da Elena de Feo e Ernesto Cecalupo, allora studenti di Didattica della Storia, presso l’Università di Bari. La prima sperimentazione fu fatta da due classi della scuola media «Michelangelo» di Bari, condotte da Luciana Bresil, durante una manifestazione di «Gradara Ludens», manifestazione organizzata da Bibo Cecchini, che nel corso degli anni ’90 fu il luogo principale di discussioni ludologiche in Italia. Ringrazio Brusa per avermi fatto conoscere il sito di Gradara.
    4. Consultato il 10 ottobre 2013.
    5. Nella sua prefazione a William Blanc, Aurore Chéry et Christophe Naudin, Les historiens de garde. De Lorànt Deutsch à Patrick Buisson, la résurgence du roman national, Paris, Inculte Essai, 2013, p. 7.
    6. Fragments. Une Enfance, 1939-1948, Paris, Calmann-Lévy, 1996.
    7. Carlo Ginzburg, Le juge et l’historien. Considérations en marge du procès Sofri, Lagrasse, Verdier, 1997 (1991), p. 23 (ed. Italiana: Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Feltrinelli, Milano 2006.
    8. E’ una questione affrontata in modo magistrale in una ricerca critica di storia orale nel bellissimo libro di Alessandro Portelli, pubblicato nel 1999 e ripubblicato di recente in edizione tascabile: L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Milano, Feltrinelli, 2012. E’ veramente deplorevole che questo libro non sia stato tradotto in francese.
  • L’insegnamento della Storia e la scuola di domani: ripensare il curriculum, ridefinire gli obiettivi

    Roma, venerdì 20 febbraio 2015
    Sala della Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea
    Palazzo Mattei di Giove - via Caetani, 32


    Seminario organizzato dalla Società italiana per la storia dell’età moderna  (SISEM), in collaborazione con l’Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea e con la Biblioteca di Storia moderna e contemporanea.

    Sono passati dieci anni dalla riforma del primo ciclo d’istruzione e alcuni anni dall’avvio della riforma della scuola secondaria di primo grado e, per quanto riguarda l’insegnamento e apprendimento della Storia, il bilancio appare decisamente sconfortante. Prevalgono in larga parte della scuola italiana gli strumenti didattici tradizionali, la ripetizione identica dei contenuti nei due cicli scolastici, mancano percorsi di approfondimento tematico e pluridisciplinare, la storia di genere rimane largamente sconosciuta agli insegnanti prima che agli studenti. Il programma e il manuale sono ancora troppo spesso, come cent’anni fa, l’alfa e l’omega della “Storia a scuola”.

    Mentre si discute di ‘buona scuola’, di riordino del ciclo superiore e della formazione e del reclutamento del personale docente c’è urgenza di riaprire anche il dossier sul curriculum della Storia lungo l’intero percorso di formazione. C’è la necessità di riconsiderare i tempi, i modi e i contenuti dell’insegnamento e apprendimento di questa disciplina fondamentale per la creazione di una cittadinanza attiva. Il seminario “L’insegnamento della Storia e la scuola di domani: ripensare il curriculum, ridefinire gli obiettivi” vuole rilanciare agli insegnanti, agli storici e a tutto il mondo della scuola questa questione fondamentale. Perché il passato torni a dialogare con il presente, nelle aule scolastiche, ogni giorno.

    Programma dei lavori

    0re 14
    Saluti del Presidente della Giunta Centrale per gli Studi Storici, Andrea Giardina e del Presidente della Sisem, Marcello Verga.

    Ore 14,30
    Introduzione: Andrea Zannini, Le ragioni di una riflessione

    Ore 15,00 – 16, 15
    Luigi Cajani, L’insegnamento della Storia in Italia e in Europa
    Elvira Valleri, La visione di genere nell’insegnamento della storia
    Camilla Hermanin e Lavinia Pinzarrone: L’insegnamento della storia nella realtà della scuola italiana

    Coffee break

    Ore 16,30
    Tavola rotonda Riforma della scuola e qualità dell’insegnamento
    Interventi di: on. Luigi Berlinguer, Marina Boscaino, Antonio Brusa, Mauro Piras, on. Milena Santerini
    Introduce: Maria Pia Donato
    Coordina: Giorgio Zanchini

    Ore 18.30
    Conclusioni: Walter Panciera, Una proposta degli storici modernisti per il curriculum verticale di Storia

    Interverranno inoltre il Presidente della Società italiana di Storia medievale (Sismed), Giuseppe Petralia, il Presidente della Società italiana di Storia contemporanea (Sissco), Agostino Giovagnoli, la Presidente della Società italiana delle storiche, (Sis) Isabelle Chabot.

  • La battaglia di Marignano e le origini della neutralità elvetica

    Autore: Michele Maria Rabà

    Non se l’era fatta sfuggire, “Repubblica”, l’occasione di commemorare la battaglia di Marignano. Scomparsa dall’orizzonte delle medie e periclitante in quello delle superiori, un tempo primeggiava fra le battaglie cinquecentesche, quelle che ebbero come teatro principale l’Italia. Perché, allora la commemorazione? Il motivo è che, secondo una vulgata, diffusissima in Svizzera, ma conosciuta anche in Italia, gli Svizzeri persero, e fu allora che cominciarono a prendere in considerazione l’idea di fare i neutrali. Una battaglia mitica, che i nostri vicini aggiungono alla leggenda di Guglielmo Tell e al giuramento dei Tre Cantoni, che, secondo la tradizione, smentita dalla storia quanto riconfermata ad ogni pié sospinto dai gestori pubblici della memoria storica, ha costituito il fondamento della Confederazione. Michele Maria Rabà ci aiuta a capire che cosa successe veramente in quei primi decenni del XVI secolo. (HL)

    La battaglia di Marignano, dettaglio. Attribuito a Maître à la Ratière


    Per gli storici non ci sono battaglie decisive

    Lunghi secoli di storiografia cosiddetta evenemenziale – fondata cioè sul ricordo di eventi, più che sulla ricostruzione di fenomeni – non potevano non lasciare la loro traccia nel tipo oggi più comune di approccio al passato, che consiste nell’interpretarlo, appunto, come una catena di fatti, alcuni irrilevanti, altri determinanti. Ecco perché tutte le guerre che non hanno partorito almeno una ‘grande battaglia’ – l’evento per antonomasia, capace più di ogni altro di condizionare l’immaginario, coinvolgendo il lettore di storia nel senso più emozionale e favorendone l’immedesimazione con i combattenti – sono rimaste anche senza memoria. Ecco perché, ancora oggi, pur avendo la letteratura scientifica in larga parte superato tali orientamenti, l’idea che l’esito di una sola battaglia possa condizionare in modo assoluto il corso della storia è quanto mai dura a morire.


    La battaglia di Marignano

    La battaglia di Marignano (combattuta ferocemente tra il 13 ed il 14 settembre 1515 da 20.000 svizzeri, 31.000 fanti e cavalieri del re di Francia, Francesco I di Valois, e da 12.000 veneziani al comando di Bartolomeo d’Alviano) fu indubbiamente uno scontro di dimensioni rilevanti per il periodo, sia per le cifre dei feriti e dei caduti che per l’accanimento degli eserciti in campo. Nella storia della Penisola e della Lombardia, tuttavia, quei due giorni di scontri sanguinosi significarono ben poco: per la seconda volta un re di Francia strappò ad uno Sforza – Massimiliano, protetto dall’imperatore di Germania, dal papa e dai Cantoni Svizzeri – il Ducato di Milano (il primo a riuscirci era stato il suo predecessore, re Luigi XII di Valois, che nel 1500 aveva sconfitto a Novara e fatto prigioniero il padre di Massimiliano, Ludovico il Moro), il cui possesso gli venne confermato l’anno dopo, con il trattato di Noyon, ma che perdette in meno di sei anni, quando a scendere in campo contro di lui fu il nuovo imperatore e re di Spagna, Carlo V (battaglie della Bicocca, 1522, e di Pavia, 1525).

    Ritratto giovanile di Massimiliano Sforza, Giovanni Ambrogio de Predis (1455 circa-dopo il 1508)


    Alcune domande

    Quale significato dobbiamo attribuire dunque alla battaglia nell’economia della storia svizzera? Fu davvero, come sovente si è argomentato, lo spartiacque tra un’età ‘eroica’, segnata dall’aggressivo protagonismo elvetico negli equilibri europei, e l’inizio del ripiegamento dei Cantoni e della loro vocazione alla neutralità, se non l’origine di tale ripiegamento? Di certo la periodizzazione tradizionale ha individuato nello scontro del 14-15 settembre 1515 il momento conclusivo di una fase di prorompente espansionismo, da collocarsi nel quarantennio compreso tra le Guerre burgundiche (1474-1477) e la sconfitta subita in Lombardia, al termine della quale la Confederazione originaria di otto cantoni (Achtörtige Eidgenossenschaft) arrivò a ricomprenderne 13 (Dreizehnörtige Eidgenossenschaft). Com’è noto, l’istituzione di raccordo centrale tra gli associati, la Dieta, venne sovente rallentata e persino ostacolata nell’esercizio delle proprie funzioni dai dissidi interni tra i singoli Cantoni e dall’attitudine dei più ricchi e dinamici (soprattutto Berna e Zurigo) a perseguire obiettivi politici autonomi e, talora, antitetici. Ma è altrettanto noto che, se l’indipendenza della regione dai poteri forti che la circondavano (gli Asburgo, a nord e ad est, la Francia ed il Ducato di Borgogna ad ovest, Milano a sud) venne garantita dalla natura montagnosa del suolo – che ne faceva una preda poco appetibile sul piano economico e costosissima da conquistare e controllare sotto il profilo militare –, l’aggressività degli elvetici verso l’esterno fu l’espressione di una fortissima volontà politica comune, alimentata dal dato, ancora una volta prettamente economico e demografico, del rapporto sfavorevole tra una terra avara ed una popolazione in continuo aumento. La diffusa consapevolezza di questo dato di fatto sta all’origine della creazione di uno strumento di guerra particolarmente originale e temuto, il quadrato di picchieri, massa mastodontica e organizzata di uomini estesa per chilometri, che si muoveva senza un capo, capace di respingere gli attacchi ripetuti della cavalleria pesante e persino le piogge di frecce lanciate dagli arcieri, grazie alla siepe di picche lunghe tra i quattro ed i cinque metri e lo spirito comunitario dei fanti.

     

    Geopolitica europea e mercenariato nel XV secolo

    Nello scenario geopolitico europeo della seconda metà del XV secolo, fortemente polarizzato dall’espansionismo su larga scala del Regno di Francia, vittorioso nella Guerra dei Cento anni, la spettacolare forza d’urto del quadrato trovò alcuni lungimiranti imitatori – che addestrarono alla nuova tattica i propri sudditi –, tra cui Massimiliano d’Asburgo, ‘inventore’ dei Lanzichenecchi, e, più tardi, i capitani spagnoli impegnati nelle Guerre d’Italia (che organizzarono i propri uomini nella formazione più tardi detta tercio). Ma soprattutto trovò dei facoltosi arruolatori, disposti a pagare forti somme per ottenere i servigi dei fanti elvetici: il mercenariato, in un certo senso, risolveva il problema della scarsità delle risorse grazie al flusso costante di denaro dall’estero –infatti, tra i mercenari del tempo, gli svizzeri erano i più temibili quando le paghe tardavano –, soprattutto dal re di Francia, che non disponeva ancora di una buona fanteria e che pertanto, in questo settore, dipendeva in toto dai mercenari della Confederazione.

    La battaglia di Marignano, acquaforte di Urs Graf, mercenario svizzero, 1521


    Le Guerre d’Italia

    Furono soprattutto le Guerre d’Italia, a partire dall’attacco mosso da Carlo VIII di Valois contro il Regno di Napoli (1494), ad alimentare la domanda di braccia per la guerra, con incommensurabili profitti per la Confederazione, cui tuttavia corrisposero anche non pochi inconvenienti. In primo luogo il reclutamento dei militari da parte degli emissari del re di Francia seguiva due binari. Il primo, legale, passava attraverso l’autorizzazione della Dieta e delle autorità cantonali, che fissavano il numero delle reclute, l’ammontare delle paghe, la durata e le condizioni del servizio. A prosperare era tuttavia soprattutto un diffuso arruolamento clandestino, grazie alla cooperazione tra gli agenti del Valois, coordinati dallo stesso ambasciatore francese presso la Dieta, ed una sterminata lista di notabili locali, cui la Francia versava cospicue pensioni perché chiudessero entrambi gli occhi sulla partenza ed il passaggio degli arruolati. Alla preoccupazione di ampi settori dell’opinione pubblica per la corruzione dilagante e per la delegittimazione di un’istituzione, la Dieta, che nel bene e nel male aveva garantito l’indipendenza dei Cantoni tanto dagli Asburgo quanto dai duchi di Borgogna, si unirono ben presto considerazioni di carattere etico e patriottico, dal momento che l’intensificarsi della competizione politico-militare nella Penisola italiana sottraeva alle comunità elvetiche i maschi più robusti ed intraprendenti per porli al servizio di potenze straniere, sulla cui amicizia dubitavano in molti. Quando poi i Valois, con la battaglia di Agnadello (1509), acquisirono le province, allora venete, di Bergamo e Brescia, il timore di venire circondati da una potenza già egemone in Italia settentrionale aprì la strada all’azione politica dell’emissario papale Matteo Schiner, vescovo di Sion e più tardi cardinale, che coinvolse i Cantoni nell’offensiva anti-francese orchestrata da papa Giulio II (la cosiddetta Lega Santa, 1 ottobre 1511), offrendo, quale ricompensa, la ghiotta preda di Milano e della sua cospicua produzione agricola.

     

    La battaglia di Marignano: svolta o episodio?

    Dunque l’ingresso della Confederazione nelle Guerre d’Italia come potenza belligerante rispose ad esigenze economiche e di sicurezza, che non mutarono dopo la battaglia di Marignano, ma che trovarono semplicemente una diversa risposta, anche in questo caso, militare e politica. L’atteggiamento di Francesco I verso la Dieta risultò, a partire dal 1515, molto più rispettoso di quello del predecessore Luigi XII, mentre il ritorno degli Sforza alla guida del Ducato di Milano (1522) e la sua successiva acquisizione da parte degli Asburgo (1535) riequilibrarono l’assetto dei poteri nell’arco alpino, spingendo gli svizzeri verso una neutralità orientata all’amicizia con la Francia. D’altra parte tutti i nuovi signori di Milano, a partire da Francesco I, furono molto scrupolosi nel mantenere intatti i privilegi di esportazione dei prodotti agricoli dalla Lombardia alla Svizzera, che garantirono un costante e abbondante afflusso di derrate senza pagamento di alcuna tassa o dazio (e nella quantità richiesta) e, con esso, la neutralità della Dieta.

    Il che non impedì agli svizzeri, nonostante i dissidi interni per ragioni religiose che tuttavia non incrinarono mai la comune intesa verso l’esterno, di acquistare significative posizioni a spese dei vicini anche dopo Marignano – soprattutto a danno del Duca di Savoia che dovette cedere il Vaud al cantone di Berna e mollare la presa sull’evangelica Ginevra (marzo-aprile 1536) – e di preparare, protetti dall’alleanza con la Francia, spedizioni contro la Borgogna di Carlo V, che l’establishment asburgico evitò al prezzo di nuove concessioni di franchigie sui commerci di materie prime. In altre parole, anche dopo Marignano gli svizzeri realizzarono gli obiettivi condivisi a breve e lungo termine, ora attraverso la guerra, ora attraverso la neutralità, ad un costo molto inferiore di quello economico ed organizzativo necessario a mantenere una presenza stabile nel Ducato di Milano.

    Francesco I durante la battaglia di Marignano Ignoto - André Castelot, François Ier, Perrin 1999

     

    La fama dopo il “declino”

    Certamente la battaglia di Marignano sancì il declino della supremazia militare del quadrato di picchieri, sempre più evidente a mano a mano che l’innovazione tecnologica perfezionava le artiglierie pesanti da campo, ma va pure detto che gli svizzeri combatterono in inferiorità numerica (rapporto 1:2) ed a restare impresse nella memoria dei testimoni dell’evento (e nel re avversario per primo) furono più che altro la straordinaria tenacia e disciplina di una truppa che aveva deciso autonomamente di attaccare, aveva resistito agli assalti della cavalleria ed ai vuoti aperti dal fuoco dei cannoni nemici, aveva dormito una notte all’addiaccio, per poi riattaccare il giorno dopo, sempre senza ricevere alcun ordine. Già a Cerignola, nel 1503, Consalvo di Cordoba aveva dimostrato che una palizzata ben difesa con armi da fuoco poteva frenare l’impeto dei giganteschi quadrati. Nella battaglia della Bicocca (1522) il copione si sarebbe ripetuto. A Ceresole d’Alba (1544) gli svizzeri e francesi di Re Francesco I sconfissero i quadrati di spagnoli e lanzichenecchi grazie all’uso combinato di archibugieri, picchieri e cavalieri pesanti, mentre nella famosa battaglia di San Quintino (1557) Emanuele Filiberto di Savoia avrebbe fatto ricorso alla sola cavalleria coordinata con l’artiglieria per annientare la fanteria in quadrato. La fama dei picchieri svizzeri, ed il prezzo del loro arruolamento, restarono nondimeno immutati.

    Il cardinale Matteo Schiner di Sion, legato papale in Lombardia,
    percorre a cavallo il campo di battaglia di Marignano incitando le truppe al combattimento

     

    Riferimenti:


    John McCormack, One Million Mercenaries. Swiss Soldiers in the Armies of the World, London, Leo Cooper 1993
    Marco Pellegrini, Le guerre d’Italia 1491-1530, Bologna, il Mulino, 2009

  • La caduta dell’impero romano e gli ultimi imperatori (2)

    Autore: Antonio Brusa


    Ovvero, gli imperatori sfigati

    Parte II: Materiale per gli allievi

     

    1.    Schema dell’attività

    Destinatari: allievi di prima media o di prima/seconda superiore

    Tempo: 4 ore

    Obiettivi principali:
    •    conoscere le vicende relative alla caduta dell’Impero romano;

    •    riflettere sulle cause di quell’evento;

    •    riflettere sul rapporto fra biografia e storia ( … )

    Fasi di lavoro
    Aprite con il dossier di immagini. Va trattato in modo molto leggero e rapido, altrimenti se ne va via troppo tempo. Serve per introdurre il tema e raccogliere le idee e i preconcetti degli allievi.

    Assegnate le 14 biografie. Lasciate agli allievi il tempo per studiare la recitazione. Date le istruzioni perché interpretino il personaggio al meglio. Agli altri allievi assegnate il compito di fare “gli storici”. Ascoltano e giudicano (se volete possono fare domande). Voi sarete l’intervistatore. Li chiamate, con il dovuto rispetto, in ordine cronologico. Si vota e si elegge il più sfigato e il più fortunato (o bravo).

    Al termine (o anche in un altro momento, purché non troppo distante) avviate una riflessione sul momento storico, mettendo in evidenza i temi esposti nel dossier per gli insegnanti: la provincializzazione dell’impero, il ruolo dei barbari, l’impresa di cartagine, l’attività degli imperatori. Si potrebbero sfruttare anche le monete, riportate per ogni biografia.


    2.    Dossier di immagini
    Con un breve commento introduttivo, presentiamo in classe le immagini. Sono tutte dell’Ottocento anglo-francese. La tecnica può essere la seguente: leggiamo le prime due (quelle delle galline di Onorio), facendo vedere come sia importante soffermarsi sui particolari, e che è bene elencarli tutti, prima di fare ipotesi sul loro significato. Poi, possiamo lasciare le altre alla lettura d ei ragazzi, collettiva o per piccoli gruppi. Alla fine, chiediamo ai ragazzi di esprimere le loro opinioni sulla caduta dell’impero romano.

      J. W. Waterhouse, Dolce far niente, 1879

     Lawrence Alma-Tadema (1836-1912), Le rose di Eliogabalo, 1888

     

      Jean-Paul Laurens (1838-1921), Onorio,1890; Joseph Noël Sylvestre (1847-1926), Il sacco di Roma, 1890

    Thomas Cole (1847-1926), Il sacco di Roma, 1890
     

    3.    Imperatori sfigati. Dramatis personae

    Ecco finalmente le biografie. Sono corredate dalla riproduzione di solidi aurei (con due eccezioni “barbariche”: le monete di Ricimero, nella quale si riproduce il monograma RM  e di Odoacre, ritratto con i baffi, come mai un imperatore avrebbe accettato).

    Qualche suggerimento per la loro lettura. L’imperatore si fa ritrarre di profilo (alla moda classica dell’impero) o frontale, secondo uno schema tardo e bizantino. Importante osservare com’è abbigliato: tunica oppure armature. Il suo copricapo: corona, elmo, oppure ghirlanda di foglie. Osservate se ha armi, scudi. A volte esibisce il Chrismòn. Il retro è ugualmente interessante. VI viene raffigurata una croce, oppure la vittoria, mezzo pagana (le ali) e mezzo cristiana (la croce). Oppure lo stesso imperatore trionfante. Notare anche la scritta COMOB, sempre sul retro: è la garanzia imperiale che si tratta di una moneta di oro fino.

    Sono la testimonianza che l’impero durò fino alla fine, e anche dopo, dal momento che sia Odoacre che Teodorico coniarono monete (solidi o tremissi bizantini), spesso con l’effige dell’imperatore bizantino in carica.

     

    Galla Placidia (380-450)

    Sono cattolicissima. Questo lo sapete tutti, perché tutti avete visto il mio mausoleo a Ravenna. Quello che non sapete è che sono una “donna dello Stato”. Per me, la repubblica, come noi romani chiamiamo l’impero, viene prima di tutto. Anche di mia sorella. Tanto è vero che la feci condannare a morte, quando venne accusata col marito Stilicone di aver favorito i goti, che erano venuti ad assediare Roma.

    E, invece, mio fratello Onorio non mi va a dare in ostaggio proprio a loro, ai goti? Vado in Gallia, sposo Ataulfo, il re goto (voi li chiamate visigoti). Gli faccio un figlio. E’ un possibile successore all’impero. Avevo allora ventidue anni.

    A mio fratello questa prospettiva non piace. Fa guerra ai goti, vince, e io torno in patria. Lui, inesauribile, ha pronta un’altra sorpresa: mi fa sposare Costanzo. Bravo generale, nulla da dire. Ma brutto. Accetto (e poi non dite che non sono una “donna dello Stato”). Faccio due figli.

    Finalmente, ecco l’erede: Valentiniano III.

    Finalmente, Onorio muore e Costanzo diventa imperatore. E io imperatrice.

    E FINALMENTE, anche Costanzo si toglie di mezzo. Il figlio è troppo piccolo. Dunque governo io. DA SOLA. Una donna a capo dell’impero di Occidente.

    Purtroppo i maschi è difficile farli andare d’accordo. Bonifacio, Felice e Ezio. Tre generali magnifici. Roma non ha mai avuto tanti generali, così bravi, contemporaneamente. Ma sempre a litigare fra di loro. Mando Ezio in Pannonia (per voi è l’Ungheria). Così se la vede con Attila, il più cattivo dei barbari. Felice lo spedisco in Gallia, contro i goti e Bonifacio in Africa, dove era tutto tranquillo.

    I maschi e i loro pasticci. Bonifacio diventa ariano. Un eretico. Non posso sopportarlo, perché sono cattolica e gli tolgo il comando. Che ti fa lui? Va a chiamare Genserico, il re dei vandali che, fino a quel momento se ne era stato buono buono in Spagna.

    Un guaio. Quello viene e conquista l’Africa.

    E Enzo? Certo era il più bravo e io l’ho sempre appoggiato. Diventa amico di Attila, gli promette mia figlia in sposa. E Attila chiede metà impero come dote.

    Ovviamente, Valentiniano (che nel frattempo è diventato maggiorenne) dice di no.

    E qui cominciano i disastri che sapete:  le invasioni, i saccheggi, le guerre. Non faccio a tempo a vederli, però, perché muoio nel 451, dopo aver guidato un impero e fatto politica per quasi mezzo secolo.

    Vi devo confessare, però, che il mio vanto maggiore è la mia fede. Sono una ferrea cattolica. Non per nulla ho fatto uccidere Libanio. Sapete, quel filosofo pagano che si diceva facesse pure miracoli? Una nullità, tanto è vero che non lo studiate manco a scuola.
     


    Petronio Anicio Massimio (455)

    Valentiniano, questo non lo doveva fare. Passi che ha ucciso a coltellate Enzo, il miglior Primo generale dell’impero. Ma farsi mia moglie, con tutte le donne che poteva avere. Uno sfregio.

    E io l’ho fatto ammazzare.

    E poi mi sono fatto nominare imperatore.

    E poi mi sono preso sua moglie. Eudocia, la donna più bella di Roma.

    Solo che questa *** per vendicarsi ha chiamato Genserico, il re dei vandali. Quello, che aveva conquistato l’Africa,  non si è fatto pregare. Ha preso la flotta ed è venuto in Italia. Ha assediato Roma e l’ha saccheggiata.

    Quello che non capisco è perché il popolo romano se l’è presa con me. Dice che è tutta colpa mia. E, quando ho cercato di scappare (attenzione: non per paura, ma per salvare la dignità imperiale!), mi hanno preso a sassate e mi hanno ucciso.

    Per Ercole! (lasciatemi dire questa imprecazione pagana), ho regnato per appena tre mesi!
     


    Avito Marco Mecilio Flavio Eparchio (455-456)

    Vivevo in Gallia, in una villa da favola, con giardini, cascate, giochi d’acqua, boschetti.

    Quando i Visigoti, che stavano in Gallia, aiutarono i Romani a sconfiggere Attila, nella battaglia “mondiale” dei Campi Catalauni, decisero che era il momento di avere un imperatore amico loro. E io lo ero. Quindi, mi convinsero a prendere il posto di Petronio Massimo, morto ammazzato.

    Ho nominato subito Flavio Ricimero a Primo Generale dell’impero. Un bravo generale. Se la vide alla grande contro i Vandali, in Sicilia.
    E’ un tipo sveglio. Forse troppo. Infatti, quando i Vandali con la loro flotta bloccarono i rifornimenti di grano a Roma, e la popolazione si ribellò, lui ne approfittò e mi depose. Diceva che avevo perso la fiducia del popolo e che occorreva un nuovo imperatore.

    Mi fece vescovo di Piacenza.

    VESCOVO AL POSTO DI IMPERATORE! Non mi va. Me ne scappo nella mia Gallia per rimettermi con i miei amici, i nobili gallo-romani e i visigoti.

    Ma quello – Ricimero - mi raggiunge e mi fa uccidere.
     


    Flavio Giulio Valerio Majorino (457-461)

    Erano tutti contenti di me. Senatori, proprietari terrieri, il popolo, le città. Li ho difesi dai nemici, ho ridotto le tasse, ho permesso alle città di autogovernarsi, ho dato una calmata agli esattori fiscali (erano veramente troppo violenti, lo riconosco).

    Per una volta tanto, gli storici della vostra età giudicano bene un imperatore!

    Poi ho tentato la grande impresa. Ho armato una flotta di 300 navi, per liberare finalmente i mari dai Vandali, e restituirlo a Roma. Ma Genserico, il re dei Vandali, quella volpe, mi ha colto di sorpresa. Ha distrutto la mia flotta.

    Questo è bastato a Ricimero, che pure era un mio vecchio amico, a fargli pensare che ero ormai un cavallo perdente. E mi ha fatto uccidere.
     


    Libio Severo Serpenzio (461-465)

    Io lo capisco Ricimero. Troppo astuto, bravo. Doveva essere lui l’imperatore, e invece non poteva, perché era un barbaro svevo.

    Aveva tolto di mezzo Maioriano, perché limitava il suo raggio di azione, e ha voluto me. Il patto era che l’avrei dovuto lasciar fare. Ma di qui a dire che ero un “sovrano fantoccio” – come scrivono certi storici -  ce ne vuole.

    Io, per conto mio, me ne sarei stato tranquillo nelle mie tenute in Lucania. E ho fatto, onestamente, la mia parte di imperatore. Solo che il mio collega di Oriente aveva altre idee. Era lui, che voleva mettere le mani su Roma, attraverso un suo fantoccio.

    Così, Leone Il Grande, l’imperatore di Costantinopoli, si è messo d’accordo con Ricimero, e mi hanno fatto fuori. Hanno detto che ero morto naturalmente. See. Mi hanno avvelenato.


     
    Antemio Procopio (462-472)

    Ci fu una specie di accordo internazionale, fra Genserico, re dei Vandali, Leone il Grande, imperatore d’Oriente e Ricimero, il Primo Generale dell’impero d’Occidente. E io ero il garante di questo accordo. Sono un greco, e perciò un uomo di fiducia di Leone il Grande. Oltretutto, ero suo genero.

    Mi designarono al posto di Libio Severo, quel vecchio incapace, e diventai imperatore.

    Era un doppio gioco internazionale. Tutta una manovra per attaccare in forze i Vandali. Abbiamo raccattato – io e Leone il Grande - tutto l’oro e l’argento che si riuscì a trovare in Occidente e in Oriente. 40 tonnellate d’oro. Varammo la più grande flotta mai messa in mare dall’impero romano in tutta la sua storia. 1300 navi e 100 mila soldati. Abbiamo fatto vela per l’Africa e abbiamo attaccato Cartagine, la capitale dei Vandali.

    Altro che decadenza, come dite voi storici.

    Voi storici la fate facile. Era una “invincibilis armata”, scrivete paragonandola ad un’altra flotta di un altro imperatore che non conosco, un certo Filippo II mi pare. Fatto sta che Genserico ci ha attaccato con le navi incendiarie, i brulotti, e ci ha sconfitti.

    Voi che contate gli anni dalla nascita di nostro signore, direste che è il 468 d. C. Per noi romani è il settimo anno del mio impero, 1220 anni dopo la fondazione di Roma. Cartagine si è vendicata. Segnatevi questa data.

    Quella sconfitta fu una vera disgrazia. Le cose cominciarono a andar male. Ricimero mi dette la caccia. Cercai di scappare. Mi travestii da mendicante, ma mi hanno preso e mi hanno tagliato la testa.

    Lo so, è la legge di Roma. Chi perde paga, soprattutto quando è un imperatore.
     


    Olibrio (472)

    La mia fortuna fu anche la mia disgrazia. Ora posso dirlo. Avevo sposato Placidia, la figlia di Licinia Eudocia (ricordate? la bellissima moglie di Valentiniano, quella che Genserico aveva portato a Cartagine come ostaggio). Perciò, quando sposo Placidia, entro in “quota Genserico”, e siccome me ne ero scappato a Costantinopoli, sono anche in “quota impero d’Oriente”.

    Lui, Genserico, dopo aver distrutto la flotta di Antemio e di Leone,  pretende di avere il suo imperatore. E così eccomi qua, a Roma.
    Questa è stata la mia fortuna. Finalmente posso attuare la mia politica. SONO MOLTO RELIGIOSO, erigo chiese, voglio la salvezza del mondo. E poi, sotto il mio regno, muore Ricimero (altra fortuna).

    Bah, per quanto religioso, forse cedevo troppo ai piaceri della tavola. Ero malato di idropisia e questa mi ha ucciso. A meno che a farlo non sia stato il mio successore. Ma lo so. E’ un incidente spiacevole che può accadere a un imperatore romano.
     
    Flavio Ricimero (455-472)

     
    Me ne hanno dette di cotte e di crude. E mica solo i miei contemporanei. Anche voi storici vi siete sciacquati la bocca. E vai con la maldicenza che sono crudele, che faccio intrighi, che manovro imperatori come fantocci, che penso solo ai fatti miei e ad arricchirmi, che non appena uno diventa troppo potente, lo faccio ammazzare.

    Insomma. BASTA.

    Il grande Costantino (che sia sempre lodata la sua memoria) che cosa faceva? E Onorio? E la tenera Galla Placidia? E lasciamo stare Valentiniano III, che quando non andava a donne o a caccia, faceva ammazzare questo e quello.

    Tutto per non ammettere che, in questa massa di gente che complotta per il potere, io sono il più bravo. Ben quattro imperatori sono riuscito a far eleggere: Majorino, Libio, Antemio e Olibrio. Sono riuscito a tenere a bada Vandali, Visigoti, Burgundi, Svevi. Ora mi alleavo con uno, ora con l’altro. Certo: se mi alleo con i Vandali, è chiaro che bisogna far fuori l’imperatore appoggiato dai Visigoti. E poi, vi pare poco riuscire ad avere buoni rapporti con l’imperatore d’Oriente? E se lui e Antemio fanno quella figuraccia contro i Vandali, mica me ne posso stare con le mani in mano?

    Provate a pensare: quando sono morto (di malattia o avvelenato? boh), dopo di me è cominciato lo sfacelo.
     


    Glicerio (473-474)

    Ero il capo della guardia imperiale, quando Olibrio è morto improvvisamente. Ho dalla mia le truppe germaniche. Il Nord, finalmente. Tutti stanchi di queste intromissioni di Costantinopoli.

    Quale occasione migliore? Ho colto la palla al balzo e sono diventato imperatore. Ma non ho fatto in tempo a spiegare che volevo riportare Roma alla sua gloria passata, che Leone Il Grande, imperatore di Bisanzio, passa al contrattacco e manda il suo imperatore di fiducia, Giulio Nepote.

    Insomma, ho dovuto fare le valigie.

    Mi hanno offerto di diventare vescovo di Valona, in Dalmazia (oggi la chiamate Albania).

    Un vescovado in cambio dell’impero! Quei pidocchiosi. Ma gliel’ho fatta pagare, a Giulio. Chiedetelo a lui.
     


    Giulio Nepote (474-475)

    Arrivo in Italia pieno di speranze e con un grande compito. Far abbassare la cresta a Visigoti e Vandali insieme. Forse esagerato, visto che non ho un grande esercito e che l’impero, dopo il disastro della flotta a Cartagine di otto anni fa, non ha più un solido.

    Così devo cedere la Provenza, la regione più ricca della Gallia, ai Visigoti. E ai Vandali devo consegnare la Sicilia, la Corsica e la Sardegna.

    Non mi resta che appoggiarmi al partito degli Unni. Perciò chiamo Oreste, che fu segretario di Attila, e lo nomino Primo Generale.
    Mi è andata male. Quello mi depone, e mi manda in esilio, e mi nomina vescovo.

    E così, anche io, da imperatore mi ritrovo vescovo. Ma non è finita qui. Dove mi manda? Proprio a Valona, dove mi aspettava Glicerio.
    Ragionate:  quando mi hanno ammazzato, chi volete che fosse il mandante? Odoacre (come ha scritto qualche storico) o lui – Glicerio - l’imperatore che io avevo detronizzato e che covava vendetta?

    Ma scrivetelo nei vostri libri. Romolo Augustolo, che Oreste mise al posto mio,  non fu mai riconosciuto dall’imperatore d’Oriente. Dunque, SONO IO L’ULTIMO IMPERATORE, e sono morto nel 480. E toglietelo una buona volta, questo 476, che non significa nulla!
     


    Romolo Augusto (475-476)

    Vorrei pregarvi, cortesemente, di finirla con questa storia di Augustolo. Leggete bene il nome scritto sulle mie monete: Romolo Augusto Pio Felice Augusto. E’ quello il nome dell’ultimo imperatore d’Occidente.  Il MIO nome.

    Il diminutivo se lo sono inventati i goti e i bizantini. Non mi potevano vedere, perché io vengo daAquincum, che sarebbe la vostra Budapest, la città di Attila, l’indimenticabile re degli unni. E mio padre era stato il suo segretario.

    Certo, io sono Romolo Augusto. E’ il nome con cui sono stato battezzato. Imperatore a sedici anni.

    Odoacre mi depose, dopo appena un anno di governo. Uccise mio padre, ma mi risparmiò.

    Mi mandò in una villa bellissima sul mare. Avete presente quella che si era fatta costruire Lucullo, quel tipo ricchissimo, che faceva feste grandiose quando l’impero viveva i suoi tempi d’oro? Quella. Sul promontorio Miseno, in Campania, vicino Napoli.

    E mi dette pure un vitalizio di seimila solidi d’oro l’anno, la normale pensione dei senatori (mi pare che questa usanza duri ancora ai vostri giorni, o’ vero?), (ho preso un po’ di accento campano).

    Ricordo ancora l’incoronazione. Fu legale, nonostante quella malalingua di Nepote. Lessero un panegirico, un discorso di lode in mio onore, dicendo che a Roma stava per iniziare la nuova età dell’oro. Che ironia. Ma chi lo poteva immaginare?

    Attenzione: non furono i barbari a farmi cadere. Furono i senatori, che non vedevano l’ora di liberarsi dell’imperatore, per farsi gli affari propri. Si misero d’accordo con Odoacre e fecero il colpo di stato. Magari pensavano che, con Zenone che se ne stava lontano a Costantinopoli, le cose sarebbero andate meglio per loro.

    Non si rendevano conto che non facevano cadere me, ma l’impero. Ma chi lo pensava allora?

    Quanti anni ho? Sono vicino ai sessanta, che ai miei tempi è come dire “cento anni”. E morirò nel mio letto. Mica sono come quegli sfigati dei colleghi che mi hanno preceduto, che sono tutti morti ammazzati.
     


    Flavius Odovacar (Odoacre) (472-490)

    IO SAREI IL BARBARO CHE ABBATTE’ L’IMPERO? Certo, sono figlio di un re sciro, che combattè nelle truppe di Attila, il re unno. Ma io, l’accordo l’ho fatto col Senato romano. E avevano ragione, questi senatori italici. Ora comanda uno che tiene per Costantinopoli, ora uno che tiene per i Vandali o per i Visigoti. E per gli italici nessuno?

    Così, ho deposto Romolo Augustolo (e chiamatelo con questo nome, per favore) e l’ho mandato in una bella villa. Poi ho mandato le insegne imperiali a Bisanzio e gliel’ho cantata chiara: tenetevelo là l’imperatore. Lontano dall’Italia. Qui bastiamo noi. L’Italia agli italici (compresi gli Sciri, gli Eruli, i Rugi, i miei amici barbari, a cui ho distribuito le terre in premio. Naturalmente).

    Vatti a fidare dell’imperatore d’Oriente. Ne sa una più del diavolo. Fa finta di accettare, e prepara invece una contromossa. Quello, Zenone, si mette d’accordo con un re goto, Teoderico Amal, gli da i carri, i cavalli, gli permette di radunare un grande esercito e me lo lancia contro.

    Teoderico mi ha ammazzato, con tutta la mia famiglia. Ma il mandante fu Zenone.
     


    Zenone (474-491)

    Ebbene sì, cari colleghi romani, IO SONO BARBARO.
    Mio padre era un capo-tribù isaurico, una popolazione che abita vicino al confine turco. Il mio vero nome è Taracosicodissa. Però sono bravo, ho cambiato nome e sono diventato imperatore. 

    Voi, invece, romani con la puzza sotto il naso, se uno è barbaro o greco non lo volete al comando dell’impero. So io quello che abbiamo dovuto penare per farvi accettare Antemio. Voi lo chiamavate “greculus”, “il grecuccio”, per disprezzo.

    Non vi accorgete che, con questo vostro atteggiamento, vi fate sfuggire i migliori?

    Pensateci. Ricimero non poteva fare l’imperatore lui, al posto di mandare avanti gente come Olibrio o Glicerio [rivolgendosi a loro: senza offesa, è un ragionamento storico quello che faccio]. E no. Ricimero è svevo. Al massimo, può diventare Primo Generale. E l’ammuina di Oreste, che deve nominare suo figlio perché lui è figlio di barbari e non può fare l’imperatore, dove la mettete?

    Se il vostro senato fosse veramente intelligente, chi meglio di Genserico? E’ bravo, sa governare, guida gli eserciti come un dio. E lo so bene io, che mi ha fatto fuori tutta la flotta.

    Dice: ma è vandalo. E io sono isaurico. Ed è a me – l’imperatore barbaro - che avete mandato le vostre insegne imperiali. Ben vi sta.

     
    Aelia Verina (457-484)

    Tutti maschi, gli storici. E tutti prevenuti. Se parlate di un imperatore, allora tutti a dire “la sua abilità politica, la sua capacità di fare alleanze” bla bla. Se un imperatrice fa le stesse cose, allora lei trama, complotta, lavora nelle alcove, è assetata di potere.

    Be’. Io sono stata la moglie di Leone il Grande, l’imperatore di Costantinopoli. Poi lui mi va a morire. Che devo fare per garantire la successione di mio figlio? Normale: do l’altra figlia in sposa a uno, Zenone, il barbaro che diventò imperatore. Bravino ma niente di che. Così mi tiene il trono in caldo, per quando il figlioletto cresce.

    E non mi va a morire anche lui, mio figlio piccolo? E pensare che lo avevamo già chiamato Leone II!

    E allora mi do da fare. Con il mio amante Patrizio (avete qualcosa da dire?), mi metto d’accordo con Illo, un generale veramente bravo, poi con Teoderico Strabone, un re goto. Insomma, con tutti quelli che potevano darmi la garanzia di dare il trono all’altro figlio, Marciano.
    Guardate, che per tramare bisogna essere capaci. Fare alleanze, ascoltare, insinuare, far balenare delle speranze, raccogliere consensi fra i potenti. E io sono brava. A un certo punto, sono riuscita a mandare via Zenone e a far nominare – pensate !!! – Basilisco. Si proprio lui, mio fratello, quello così scemo da perdere la flotta a Cartagine.

    E quando Zenone torna, riesco a farmi perdonare e ricomincio. Mi mandano in galera. Ma anche da lì sono capace di organizzare un altro colpo di stato, con mio figlio Marciano, che nel frattempo è cresciuto. Mi alleo con Illo, e continuo, continuo …

    Alla fine, Zenone mi manda in esilio, nella sua terra d’origine, l’Isauria. Ormai sono vecchia. Giusto il tempo per morire.

    Sconfitta io? Se lo pensate, trovatemi un’altra persona, capace di fare la politica imperiale per trentacinque anni di fila.

  • La caduta dell’impero romano e gli ultimi imperatori.

    Autore: Antonio Brusa


    Ovvero, gli Imperatori sfigati: una drammatizzazione soft, per raccontare una storia che si studia poco, ma che ci interessa da vicino


    Parte Prima (docenti)

    “Gli amori sono come gli imperi, quando sparisce l’idea sulla quale sono fondati, spariscono anche loro”
    Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere

    “Io penso anche che una visione del passato che si prefigga esplicitamente di eliminare ogni crisi, ogni declino, rappresenti un reale pericolo per il giorno d’oggi. La fine dell’Occidente romano vide orrori  e disordini quali io spero sinceramente di non dover mai sperimentare, oltre a distruggere una complessa civiltà, facendo retrocedere gli abitanti dell’Occidente a un livello tipico della preistoria. Prima della caduta di Roma, i Romani erano sicuri quanto lo siamo noi oggi che il loro mondo sarebbe continuato per sempre, senza sostanziali mutamenti. Non saremmo saggi a imitare la loro sicumera”.
    Bryan Ward-Perkins, La caduta di Roma e la fine della civiltà

     
    J.W. Waterhouse (1849-1917), Le favorite dell’imperatore (studio), 1883

     

    Introduzione
    L’intervista impossibile è un espediente ben consolidato. Chi ha una certa età, ricorda quelle di Umberto Eco alla radio. Vecchie storie, sempre belle. Raffaele Licinio ha avuto l’idea di rinverdirla. E da quella sono nati questi Imperatori sfigati. Sfortunati per vari motivi. Il primo è che, come vedrete, intrigarono e uccisero per conquistare il potere. Ma quando l’ottennero, l’impero si squagliò.

    Il secondo è che tutti ne pensano male. Ressero l’impero alla sua fine, dunque ne furono responsabili. Non è del tutto vero. In alcuni casi per nulla. Erano anche bravi, sicuramente non peggiori di quelli di prima. Il terzo, è che non se li fila più nessuno. Avete mai sentito parlare di Olibrio, di Glicerio, di Libio Severo detto Serpentio? O di Majorino, del quale, pure, Gibbon scrisse meraviglie?

    E che dire del povero Romolo Augusto? Lo ascolterete. Ci terrà a dirvi che si chiamava così, non con quel ridicolo diminutivo, appiccicatogli da storici malevoli.

    L’unica donna che si cita nei manuali è Galla Placidia. Già. Il mausoleo, i mosaici, Ravenna. Fu una straordinaria Donna di Stato (possiamo usare finalmente questa espressione?), come Elia Verina, che non conoscete, ma che ammirerete senza alcun dubbio. Donne potentissime, quanto jellate anche loro nella memoria storica, non solo dei contemporanei.

    Imperatori sventurati, perché questa benedetta caduta dell’impero mi sembra che non la studi più nessuno. Eppure, come ci dice Bryan Ward-Perkins, si tratta di un evento che ci permette di fare molte riflessioni sul momento storico che viviamo. 

    Scalognati, infine, perché gli eventi e le biografie, nemmeno quelli, non li cura più nessuno.

    Perciò, vorrei mostrare che anche delle piccole biografie permettono di ricostruire la complessità di un evento, di capire il funzionamento della grande macchina imperiale e di farsi qualche idea non peregrina sul suo disfacimento (attenzione, non equivocate: piccole biografie, non “la notizia dell’esistenza di tizio o caio”, come solitamente troviamo nei manuali).

    Ho provato questa piccola drammatizzazione nella libreria Zaum, a Bari. Pubblico misto. Allievi antichi e recenti, colleghi, clienti della libreria. Ad alcuni ho consegnato il testo qualche giorno prima; ad altri pochi minuti prima. Quasi zero istruzioni. Si tratta di un’attività soft, da condursi con mano leggera e senza nessuna preparazione. Non una di quelle fatiche mostruose a cui a volte si sottopongono i colleghi (LA DRAMMATIZZAZIONE E LA STORIA). Nel pubblico c’erano vari insegnanti, di media e di superiore. Mi hanno detto che la proveranno in classe. La pubblico dunque per loro, e per chi di voi voglia imitarli. Questo è il testo riservato ai docenti. Seguirà l’unità di lavoro per la classe, con i materiali.

     

    Indice
    •    Un preambolo tutto di immagini
    •    Nel caso si apra una discussione
    •    Intermezzo ludico, giusto per scaldarsi
    •    Gli imperatori sfigati
    •    Dopo il gioco si riflette sulla storia
    •    La vendetta di Cartagine
    •    Bibliografia
    •    Cronologia

     

    1.    Un preambolo tutto di immagini
    Racconta quella malalingua di Procopio, storico bizantino, che Onorio, figlio di Teodosio e imperatore d’Occidente,  accudiva amorevolmente delle galline nel suo palazzo di Ravenna, dove aveva trasferito la corte, nel 403, per paura dei Goti. La gallina preferita si chiamava Roma. Ne era talmente preso che, quando gli comunicarono che Alarico si era impadronito di Roma, pensò con terrore a lei, prima di realizzare che si trattava della vecchia capitale, conquistata in quell’anno 410.

    Aprirei in classe l’attività Gli imperatori sfigati proprio con questo episodio, illustrato da John William Waterhouse, pittore inglese amante della romanità. Proietterei sia lo schizzo preparatorio, sia il quadro definitivo, Le favorite dell’imperatore. Nello schizzo, il pittore sembra avvicinarsi con difficoltà alla storiella della gallina. Onorio siede sui gradini, su un tappeto sghembo, i cortigiani lo guardano perplessi mentre lui nutre i pennuti. E’ l’immagine di una follia personale. Nel quadro definitivo, invece, l’imperatore siede sul trono. I cortigiani si inchinano timorosi, uno schiavo regge il labaro imperiale; i funzionari perplessi sono relegati sullo sfondo, vicino alla porta. Ecco lo sfascio di un impero.

     
    J.W. Waterhouse, Le favorite dell’imperatore (1883)

    Il tema della decadenza imperiale fu particolarmente amato nell’Ottocento, soprattutto dai pompiers, quei pittori realistici, destinati a soccombere anche loro di fronte all’avanzata furiosa dei barbari impressionisti. Nonostante il giudizio negativo di tanti libri di storia dell’arte, adoro Jean-Paul Laurens, loro magnifico rappresentante. Il suo Onorio racconta la tragedia di quel periodo. Un bambino. Pelle scura (suo padre era spagnolo). E’ come inghiottito dal trono imponente. I suoi piedi non toccano terra. Il globo, simbolo dell’universalità del potere imperiale, è sfacciatamente grande (quello reale era molto più piccolo). Gli imperatori veri reggevano uno scettro. Laurens mette in mano al piccolo una spata sproporzionata. (nel dossier troverete le altre immagini)

    Questo è Onorio, l’imperatore che aprì il V secolo. Potrebbe essere Romolo Augusto,  il ragazzo che lo chiuse.

    Due aspetti sembrano attrarre quegli artisti. Da una parte, la vita lussuosa. Coinvolge Caligola, Nerone, Eliogabalo, e – dunque – l’intera vicenda dell’impero, non solo la sua fine. Il “dolce far niente” di Waterhouse e le svenevolezze di Eliogabao, di Alma-Tadema. Marmi, tappeti, vino, cibo, triclini, cetre e donne discinte sono le icone di uno sperpero eccessivo. Dall’altra, il terrore e le distruzioni dei barbari. Il crollo politico e militare.
    Vediamo i goti di Alarico che tirano giù la statua dell’imperatore. Sono nudi, come gli eroi classici. Abbattono un sovrano o un tiranno? (come a molti, mi vengono in testa i marines che sradicavano con le funi le statue di Saddam Hussein: le fiamme e le distruzioni sullo sfondo mi confermano nell’analogia).

    Mi colpisce il dipinto di Thomas Cole, quella che Laterza ha scelto per illustrare il libro di Bryan Ward-Perkins. La folla fugge dalla città in fiamme. I barbari si gettano sui civili. Dal ponte che crolla la gente precipita in un mare agitato. Sulla destra, un eroe colossale. Non è un soldato, anche se imbraccia uno scudo. E’ lo scudo tondo degli opliti, non quello lungo delle legioni. Rappresenta la civiltà classica, diremmo. Sbreccata, come lo scudo. Indifesa, perché la mano che avrebbe impugnato la spada è troncata. E priva di testa.

    Queste rappresentazioni parlano facilmente. Non occorre conoscere molti particolari della vicenda reale, per farsi coinvolgere dal dramma. Per questo motivo, si prestano magnificamente a introdurre questa attività. Basta sapere del “crollo di un grande impero”. Perché  avvenne? I quadri funzionano come catalizzatori di congetture. Le raccogliamo: barbari, lusso, ozio, incapacità di difendersi, stupidità dei governanti. Ci bastano a tratteggiare lo scenario che farà da sfondo ai nostri “imperatori sfigati”. Eviterei di appesantire l’attività con una lezione vera e propria (magari la farete alla fine). Per giocare, basterà aggiungere qualche informazione.

    - che l'impero romano era diviso in due parti, Oriente e Occidente, ciascuna con un suo imperatore

    -  che l’impero d’Occidente era diviso in province: Italia, Gallia, Iberia, Africa, Pannonia, Illirico (uso i nomi più comuni). Aiutatevi con una carta geografica. Importante: localizzate Roma, Costantinopoli e Cartagine  

    - che vi erano delle popolazioni barbariche: i goti, i vandali, gli unni, i germani.

    - e che siamo nel V secolo, l’ultimo di vita dell’impero romano d’Occidente.


    2.    Nel caso si apra una discussione
    Probabilmente non sarà possibile in classe chiedersi perché quei pittori erano così affascinati dall’impero e dalla sua caduta. Il crollo dei tentativi napoleonidi fu certamente un motivo di attrazione. Ma restavano vivissimi tre grandi imperi europei: il russo, l’asburgico e l’inglese. La storia di Roma, questo è evidente, svolgeva il triplice ruolo di modello, di ammonimento ma anche di luogo onirico della sregolatezza.

    Sarà più interessante ancora chiedersi perché questo evento è così presente nella memoria pubblica odierna, e in particolare in quella americana. Certamente, gli allievi ne sapranno poco. Ma non è detto che alcuni degli argomenti e delle spiegazioni circolanti non siano arrivati alle loro orecchie. Il confronto fra Usa e Roma è ovvio, quanto assai praticato dalla storiografia. Erfried Munkler ci ha spiegato perché nel suo Imperi. Il dominio del mondo dall’antica Roma agli Stati Uniti (Il Mulino, 2008).

    Trovo di qualche utilità l’analisi proposta da Jean-Laurent Cassely, un giornalista francese specializzato nel seguire le vicende culturali. Ci aiuta a scoprire quanto “uso politico della storia” si celi nelle ipotesi, solo apparentemente spontanee, fatte dagli allievi. Il giornalista, infatti, ci avverte che il confronto fra caduta di Roma e crisi degli Usa è uno dei cavalli di battaglia della destra americana e del Tea Party. Argomenti di questo confronto sono le libertà sessuali (ah, i gay!), ma soprattutto le analogie politico-economiche. Al tempo della Repubblica, si sostiene in America (ma potremmo dire non solo), vi era la prevalenza dell’iniziativa individuale. Al tempo dell’Impero, predominarono invece stato e burocrazia.

    I paralleli fra Roma e Usa sono inquietanti, aggiunge severo Lawrence Reed, presidente della Foundation for Economic Education: il debito, la politica estera, l’arroganza del potere politico.

     

    3.    Intermezzo ludico, giusto per riscaldarsi
    Tornando al clima leggero, più consono con questa attività, ecco un giochino da farsi fra colleghi (non so quanto proponibile agli allievi), che potrà introdurre una discussione eventuale sull’uso politico di questi temi. Alexander Demandt (1984) ha raccolto 210 spiegazioni della Caduta dell’Impero: economiche, politiche, sociali, climatiche, biologiche, morali e etiche. Le trovate sinteticamente elencate qui.  Ne propongo uno stralcio.

    Voi cercate, per ognuna di esse, il politico italiano che la sosterrebbe con più energia. Se vi sembrano assurde e strane, leggetevi l’elenco completo nel sito (ne troverete di più curiose ancora), oppure fatevi coraggio e sorbitevi il tedesco accademico di Demandt, che avrà il pregio di rassicurarvi come tutte vantino una qualche nobile origine scientifica:


    Anarchia
    Mentalità anti-germanica
    Apatia
    Arretramento delle scienze
    Bolscevizzazione/Comunismo
    Capitalismo
    Cristianesimo
    Corruzione
    Cosmopolitismo
    Declino del carattere nordico della popolazione
    Distruzione dell’ambiente
    Disarmo e pacifismo
    Eccessiva presenza di stranieri
    Troppa libertà
    Troppe tasse
    Omosessualità
    Influenza ebraica
    Perdita della dignità maschile
    Economia monetaria
    Razionalismo
    Stagnazione
    Usurpazione dei poteri da parte dello stato

     

    4.    Gli imperatori sfigati
    Sono quattordici brevissime autobiografie. Gli otto imperatori che governarono negli ultimi trent’anni dell’impero; un barbaro, Odoacre, che non può mancare per spiegare le ragioni del suo gesto; Zenone, l’imperatore d’Oriente; e due donne, ad aprire e chiudere la sfilata. Galla Placidia riassume, con la sua vita intensissima e lunga, le vicende della prima metà del secolo; Elia Verina, la moglie di Leone il Grande, imperatore di Costantinopoli, apre uno spiraglio sui modi di governare del tempo, sul ruolo delle donne e permetterebbe qualche riflessione critica sulle fonti (tutte maschili e, quindi, poco propense a valorizzare il ruolo politico femminile).
    I fatti raccontati nelle biografie sono tutti verificati, nella storiografia e nelle fonti. Ovviamente, il “carattere”, che emerge dal testo, è mio. Ho cercato un linguaggio “basso”, colloquiale, quasi da Spoon River (si minima licet …). Non ho messo molte indicazioni sulla recitazione, proprio per rimarcare il carattere soft di questa drammatizzazione.

    I testi vanno letti con espressione, ma senza esagerare. A gusto dell’interprete. Ho rimarcato con il maiuscolo (seguendo lo stile imperante nel web) alcune espressioni. Andrebbero lette con voce più alta. Il resto, spetta all’interprete. Naturalmente, il docente potrà eliminare espressioni, o cambiarle se gli sembreranno troppo difficili.

    Consegnerei i testi il giorno prima, chiedendo agli interpreti di preparare una lettura espressiva. Una cura particolare per le imperatrici: andrebbero affidate alle due ragazze più spigliate. Alcune biografie sono centrali, per capire il meccanismo di funzionamento dell’impero: quella di Ricimero ad esempio. Questi fu il Primo generale (ho tradotto con questa espressione, che per quanto da Guerre Stellari è precisa, il termine Magister Militum Presentalis). Era una sorta di Primo ministro. Vi consiglierei, dunque, di assegnare le biografie ai ragazzi che, a vostro giudizio, si prestano meglio a interpretarne il carattere.

    Suggerite agli interpreti di rivolgersi al pubblico degli storici (vedi dopo), per chiedere consenso o per convincerli della loro bravura. E, quando il testo lo richiede, di rivolgersi a qualche collega imperatore (ad esempio, Giulio Nepote se la può prendere con Glicerio, che lo fece fuori). Avvertirete, in ogni caso, che i testi vanno letti. Non imparati a memoria.

    Agli altri allievi assegnerete il ruolo degli storici odierni. Loro sono la giuria. Ascoltano e giudicheranno. Potremmo assegnare due titoli: il secondo premio al più bravo (o al più fortunato), e il primo andrà al più sfigato.

    Voi svolgerete il ruolo dell’intervistatore. Questo vi permetterà di aiutare lo studente, nel caso si impappini nella lettura. Oppure, se avete bisogno di ravvivare la scena, potete intavolare una discussione con l’imperatore di turno. Li chiamerete in ordine cronologico. Ovviamente avrete una copia delle biografie, che terrete costantemente d’occhio. Abbiate cura di non fare i professori. Se volete aggiungere particolari o precisazioni, introduceteli con espressioni del tipo: “da altre fonti di informazione mi risulta”, “i servizi segreti ci hanno comunicato confidenzialmente”, “qualche pettegolo insinua”, “facciamo un po’ di gossip”.

    Insomma, state al gioco e  divertitevi voi per primi.

     

    5.    Dopo il gioco, si riflette sulla storia.
    Questa citazione di Gibbon è stato il mio primo campanello di allarme: [La figura di Maggioriano] presenta la gradita scoperta di un grande ed eroico personaggio, quali talvolta appaiono, nelle epoche degenerate, per vendicare l'onore della specie umana. [...] Le leggi di Maggioriano rivelano il desiderio di fornire rimedi ponderati ed efficaci al disordine della vita pubblica; le sue imprese militari gettano l'ultima effusione di gloria sulle declinanti fortune dei Romani. (Storia della decadenza e caduta dell'Impero Romano, capitolo xxxvi, §4, s.a. 457)

    Per me erano stati sempre degli inetti, gli imperatori occidentali del V secolo. Gibbon mi metteva una pulce nell’orecchio. Così, mi sono messo a leggere le loro vite e a sfogliare gli studi dei colleghi. Certamente, le opinioni sono contrastanti. Ma gli imperatori “buoni” non mancarono. Su Maggioriano (o Majorinus) basti Gibbon. Ma che dire di Antemio? Era un greco disprezzato dai romani per i suoi natali. Seppe conquistarseli perché contribuì col suo patrimonio alla costruzione della flotta più grande, mai allestita dall’impero romano. Un impresa sfortunata, la sua, quanto generosissima. E Ricimero? Presentato da molti come un intrallazzatore riprovevole, sotto altri punti di vista fu un abilissimo politico. Avito, Glicerio, Libio Severo (imperatori fantocci, secondo molti) anche loro cercano di dare un indirizzo politico alla barca dello stato.

    Il libro, però, che mi ha fatto cambiare idea è 428 dopo Cristo, scritto da Giusto Traina. Racconta un anno della decadenza. Un anno anonimo nel quale non successe nulla di ciò che leggiamo nei manuali. Mostra, dunque, come funzionava la corte, la complessità di un governo che doveva tenere conto, contemporaneamente, di situazioni diversissime e lontane. Mostra la solidarietà fra Oriente e Occidente, fra Nord e Sud. Chi governava (l’imperatore o i suoi consiglieri), non poteva essere un inetto.

    Avevo letto di corti travolte dal vizio e dal lusso, perennemente occupate in complotti. Peter Heater ci informa che vi lavoravano degli “analisti”. Usa proprio il termine che ci è diventato familiare attraverso decine di film sulla Cia. Non lasciamoci ingannare, quindi, dagli stuoli di eunuchi e di amanti. A corte vi era gente capace di studiare la realtà geopolitica, di individuare strategie internazionali, di valutare l’impatto di decisioni economiche e l’umore della popolazione.

    Indubbiamente quegli imperatori avevano conquistato il potere uccidendo i rivali, e furono a loro volta uccisi. Non era anormale. Anzi, a leggere Paul Veyne, era proprio quello il sistema di selezione sul quale l’impero si basò nel corso della sua esistenza secolare. Una novantina di imperatori, scrive, quasi tutti morti ammazzati. Funzionava così la lotta fra le grandi famiglie, un migliaio circa, che gestivano il territorio e le sue ricchezze.

    Questa contesa per il trono ci obbliga a notare che ogni famiglia esprime un radicamento territoriale. L’impero è un dominio composito e variegato, nel quale le diverse regioni fanno sentire la loro voce. Lo fanno nel senato, attraverso le famiglie provinciali e italiche, i cui rampolli scalano in competizione il cursus imperiale, oppure attraverso le legioni e i loro generali. Da questo punto di vista, la dinamica del V secolo è comparabile a quella di altri secoli più felici. La differenza fondamentale è che, ora, a rappresentare gli interessi regionali sono i barbari: i goti in Gallia e in parte della Iberia; gli Svevi e i Vandali in Iberia; in Africa i Vandali; i Germani, i Franchi e i Burgundi nelle terre galliche e del Nord, e gli Unni in Pannonia. Ogni imperatore fa riferimento a un partito regionale, dunque a un sovrano barbaro.

    I sovrani barbari le tentano tutte pur di accedere al potere. Come i generali romani  vanno all’assalto dell’Italia, assediano Roma (l’assedio più sanguinoso non fu né quello di Alarico, né quello di Genserico, ma quello che portò sul trono l’imperatore Olibrio, nel 472) e cercano di eliminare gli altri pretendenti. Chiedono e ottengono principesse di sangue reale in sposa, per sé o per i figli. Alcuni, come Attila, pretendono doti territoriali esagerate (metà dell’impero!); altri, si limitano ad ottenere la legittimazione del loro dominio regionale. Tutti sanno, però (compresi Ricimero, lo svevo,  Gundobado, il burgundo che gli successe nella carica di Primo generale, e Oreste, il padre di Romolo Augusto), che nessuno di loro potrà diventare imperatore. Certo, pensare Genserico imperatore fa senso, per quanto il re barbaro fosse un grande. Ma questa repulsione valeva solo per l’Occidente. In Oriente, l’integrazione dei barbari fu completa, come testimonia il fatto che Zenone, un barbaro, era l’imperatore al quale Odoacre consegnò le insegne imperiali.

     

    6.    La vendetta di Cartagine
    Nessuna paura: non allungheremo la lista di Demandt con questa attività. Tanto più che, per questioni cronologiche, lo storico tedesco non poteva conoscere lo studio di Chris Wickham, che fornisce il quadro esplicativo che considero di riferimento. Wickham parte proprio dall’idea che l’impero è un complesso di regioni, molto diverse tra di loro, che si tengono insieme per il reciproco interesse. Fino a che dura questa solidarietà, l’impero resiste ad ogni tempesta. Quando questa viene a mancare, crolla. E’ proprio quello che capitò quando Genserico si impadronì della provincia d’Africa, la grande fornitrice di cereali della parte occidentale del Mediterraneo. Quindi, la data del 439 (conquista di Cartagine) può essere considerata centrale in un processo dissolutivo indubbiamente complesso.

    In questo contesto, assume una straordinaria importanza la sfortunata spedizione navale del 468, frutto dell’azione combinata dei due imperatori, Antemio e Leone Magno. Heater la paragona alla vicenda dell’Invencible Armada. Un’analogia facile. Oriente e Occidente allestirono una flotta immensa. Quasi 1300 navi e centomila soldati. Almeno questo dicono le fonti, che parlano anche di una raccolta di oro pari a 40 tonnellate. E’ vero: le navi da guerra (i dromoni a remi) erano poche e la maggior parte delle imbarcazioni erano da carico. Ma, a conti fatti, fu la più grande flotta mai allestita dall’impero romano.

    Le due Rome andarono all’assalto di Cartagine per ripristinare il flusso vitale di cereali. La gestione della spedizione fu tragica. Basilisco, il generale romano, si rivelò indeciso. Genserico, invece, adoperò con abilità i brulotti, navi incendiarie che, lanciate contro le navi romane (rivestite di pece e quindi infiammabilissime), fecero una strage. Fu la stessa tattica che gli inglesi adoperarono, la notte del 7 agosto 1588, contro gli spagnoli.

    Procopio, per una volta storico serio, ce ne lascia una descrizione efficace:
    “Quando furono più vicini, i vandali diedero fuoco alle barche che si erano trascinati dietro, e non appena il vento ne gonfiò le vele le lasciarono andare verso la flotta romana. E siccome in quel punto si era riunito un gran numero di navi, le barche appiccarono facilmente il fuoco a tutto ciò che toccarono”
    Così terminò l’ultimo sforzo congiunto delle due parti dell’impero. Se avesse avuto successo, commentiamo noi oggi, la distribuzione di cereali in Occidente avrebbe ripreso, e, forse le cose sarebbero andate diversamente. Altre volte, infatti, l’impero era stato messo quasi alle corde e si era risollevato; e, nei secoli successivi, altre volte l’impero d’Oriente sembrò ridotto al lumicino, e si riscattò brillantemente. La realtà volle  che, dopo appena otto anni da quell’ultimo e inutile conato, l’impero di Occidente svanì. Quella sconfitta non toccò invece l’impero d’Oriente, che poteva contare ancora sull’asse granario Egitto-Costantinopoli, e quindi sul “collante” che resse il complesso sistema alimentare e fiscale dell’impero, fino all’arrivo degli arabi. Poi, la storia cambiò, anche per l’impero romano d’Oriente.

     

    7.    Bibliografia
    Michael Grant, Gli imperatori romani. Storia e segreti, Newton Compton, Roma 1984
    Peter Brown, Potere e cristianesimo nella tarda antichità, Laterza, Bari 1995
    Paul Veyne, L’empire gréco-romain, Seuil, Paris 2005
    Giusto Traina, 428 dopo Cristo. Storia di un anno, Laterza, Bari  2007
    Peter Heather, La caduta dell’impero romano. Una nuova storia, Garzanti, Milano 2008
    Chris Wickham, Le società dell’alto medioevo. Europa e Mediterraneo secoli V-VIII, Viella, Roma 2009
    Peter Heather, L’impero e i barbari. Le grandi migrazioni e la nascita dell’Europa, Garzanti, Milano 2010
    Bryan Ward-Perkins, La caduta di Roma e la fine della civiltà, Laterza, Bari 2011
    Giorgio Ravegnani, La caduta dell’impero romano, Il mulino, Bologna, 2012
    Umberto Roberto, Roma Capta. Il Sacco della città dai Galli ai Lanzichenecchi, Laterza, Bari 2012

    http://www.lesdiagonalesdutemps.com/article-l-histoire-romaine-a-travers-la-peinture-115992304.html
    http://www.histoire-fr.com/rome_empire_occident_2.htm
    http://www.luc.edu/roman-emperors(Curate da Ralph Matisen, le biografie degli imperatori sono perfette e ricche di fonti)

     

    8.    Cronologia
    401-403 Prima invasione in Italia dei goti, guidati da Alarico
    410 Sacco di Roma, da parte di Alarico
    421 Costanzo eletto imperatore, muore
    423 Muore Onorio
    425 Valentiniano III, all’età di 6 anni viene eletto imperatore
    435 I vandali, sotto la guida di Genserico ottengono terre in Africa
    439 Cartagine è conquistata da Genserico
    440-453: Attila re degli Unni
    451 Campi Catalauni, in Gallia: Attila viene sconfitto da una coalizione gotico-romana, guidata da Ezio
    454 Valentiniano III uccide Ezio
    455 Petronio Massimo fa uccidere Valentiniano III
    457 Majorino diventa imperatore. Ricimero diventa Magister Militum Presentalis
    461 Libio Severo imperatore
    467 Antemio Imperatore
    468 Antemio e Leone Magno attaccano Cartagine
    472 Olibrio imperatore, dopo il sacco di Roma, durante il quale viene ucciso Antemio. Olibrio muore nello stesso anno. Muore Ricimero. Gundobado nuovo Magister Militum.
    473 Glicerio Imperatore
    474 Giulio Nepote depone Glicerio e viene eletto imperatore
    475 Oreste depone Giulio Nepote e elegge suo figlio Romolo Augusto
    476 Romolo Augusto viene deposto da Odoacre
    489 Teoderico Amal conquista l’Italia in nome dell’impero d’Oriente

  • La Cupola di Hiroshima. Un fotoracconto della bomba

    Autore: Ilaria Sabbatini


    Il mattino del 6 agosto 1945, alle 8:15, l’Aeronautica militare statunitense sganciò la bomba atomica “Little Boy” sulla città giapponese di Hiroshima, seguita tre giorni dopo dal lancio dell’ordigno “Fat Man” su Nagasaki.

    Genbaku Dome, ossia Cupola della bomba atomica, era nata nel 1915 come edificio per ospitare la Fiera commerciale della prefettura di Hiroshima. La  Sala espositiva dei prodotti della prefettura di Hiroshima era stata progettata dall’architetto ceco Jan Letzel, che aveva realizzato la struttura in stile occidentale, usando mattoni e cemento. Il palazzo, sul lato sud, si apriva su un giardino anch’esso tipicamente all’occidentale e la cupola, oggi sventrata, aveva una copertura in rame. Nel 1933 il nome fu cambiato in  Sala promozionale dell’industria della prefettura di Hiroshima e nel 1944, a causa della guerra, l’edificio venne adibito a uffici governativi.

    Il 6 agosto 1945 l’esplosione nucleare avvenne ad appena 150 metri di distanza dall’edificio. Gli occupanti morirono all’istante mentre la struttura prendeva lentamente fuoco. Al momento dell’esplosione, avvenuta a un’altezza di circa 580 metri dal suolo, tutte le costruzioni in legno, tipiche dell’urbanistica giapponese, vennero spazzate via. Le foto aeree successive all’esplosione mostrano un panorama completamente piatto, quasi vuoto. Spiccano soltanto alcuni edifici di mattoni che, pur gravemente danneggiati, sopravvissero alla bomba. Tra le strutture che resistettero alla bomba, quella della fiera era la più vicina all’ipocentro. Essa rimane tutt’oggi nello stesso stato in cui si trovava subito dopo l’attacco atomico.
     
    La posizione dell’ex Palazzo della Fiera di Hiroshima si può vedere su Google Map

    Si può fare un tour virtuale dentro la Cupola della bomba atomica

    Questa è la visione dall’esterno della Cupola della bomba atomica

    Ecco una collezione di fotografie contemporanee, che risulta interessantissima per comprendere come oggi viene vissuta la memoria di Genbaku Dome

    Quivengono documentate le prime attività di soccorso, quelle in cui si cominciano a rilevare le proporzioni degli effetti della bomba

    A questo link dell’Hiroshima Peace Memorial Museum si possono vede una serie di di fotografie degli effetti dell’esplosionesu vari oggetti conservati

     

    Il palazzo della Fiera di Hiroshima in costruzione, completato nel 1915 su progetto dell’architetto ceco Jan Letzel

     


     Il palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima sul lato sinistro del fiume Motoyatsu, uno dei sette rami dell’estuario del fiume Ota

     

     
    Hiroshima Prefectural Industrial Promotion Hall seen from the west end of Motoyasu Bridge. 1933. Taken by Masao Okuno / Courtesy of Katsuhiko Okuno
     


    Il palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima vicino al Ponte Motoyatsu, sulla biforcazione tra il fiume Ota e il fiume Motoyatsu
     


    Il ponte Motoyatsu sulla biforcazione tra il fiume Ota e il suo effluente Motoyatsu

     

     

    Il palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima dopo l’esplosione atomica, 8 settembre 1945


     
    ll palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima dopo l’esplosione atomica

     


     Enola gay, bombardiere B-29 Superfortress, l’aereo che sganciò la bomba il 6 agosto 1945. Enola Gay era il nome della madre del pilota Paul Tibbets.
     


    Little Boy, la bomba Mk.1, la seconda atomica costruita nell’ambito del Progetto Manhattan, è la prima arma nucleare della storia a essere stata utilizzata in un conflitto. Si tratta dell’ordigno originale prima dell’esplosione.


    Little boy, usata su Hiroshima, era la seconda bomba atomica realizzata mentre Fat man, usata su Nagasaki, era la terza. La prima nucleare era una bomba a implosione che venne fatta esplodere nel Nuovo Messico, vicino a Sonora, il 16 luglio 1945 nel Trinity test.

     

    Il fungo atomico sopra Hiroshima circa un’ora dopo l’esplosione, 6 agosto 1945


    Si incontra un problema nella ricostruzione per immagini delle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Spesso è difficile stabilire a quale luogo si riferiscano i rispettivi funghi di fallout. In alcuni video, non sufficientemente curati, Nagasaki va sotto il titolo di Hiroshima e viceversa. Altri usano addirittura il Trinity test o l’esplosione di Bikini.

    Le foto che seguono si riferiscono alle due esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Nel caso di Hiroshima la foto è avallata dal Museo della Memoria di Hiroshima, nel caso di Nagasaky dal Museo della Bomba Atomica di Nagasaky.

           Hiroshima                                Nagasaki  

                                                           

    La foto di sinistra è Hiroshima. È stata presa da un aereo che accompagnava Enola Gay con lo scopo di scattare fotografie. La foto di destra è Nagasaki, scattata il 9 agosto1945 da Charles Levy da uno degli aerei che accompagnavano l’attacco.


      Questa foto ricognizione del 1945, fornita dal Museo della Seconda Guerra Mondiale di Boston, mostra le informazioni di targeting per la missione di bombardamento atomico di Hiroshima.L’esplosione, che coinvolse il palazzo della fiera, avvenne sulla verticale dell’ospedale. Sotto il numero 22 si vede il ponte Motoyatsu sulla biforcazione tra il fiume Ota e il suo effluente Motoyatsu


     
    Diorama dell’esplosione di Little Boy. La prospettiva è con le spalle alla sorgente del fiume Ota che, dopo la prima triforcazione, a sinistra si biforca ulteriormente. Il ramo sinistro della seconda biforcazione è il fiume Motayatsu. Dopo il ponte sulla biforcazione, sulla riva sinistra, è collocato l’edificio della Fiera di Hiroshima.
     
     
    Diorama dell’esplosione di Little Boy. Sotto, a 150 metri di distanza dall’ipocentro, sulla riva sinistra del ramo sinistro dell’effluente Motayatsu (individuabile dal ponte), si trovava l’edificio della Fiera di Hiroshima, uno dei pochi a rimanere in piedi (vedi foto successiva)


     
    Sulla riva sinistra del ramo sinistro dell’effluente Motayatsu (individuabile dal ponte), si trovava l’edificio della Fiera di Hiroshima

     

     

    Vicino al ground zero, prima dell’esplosione

    Vicino al ground zero, dopo l’esplosione

     

     

     

     

    L’orario dell’esplosione, fissato da un orologio da polso esposto agli effetti della bomba


     
    L’effetto ombra creatosi durante l’esplosione

     

     
    Ragazze con le mascherine nelle strade di Hiroshima, 6 ottobre 1945

     


    Genbaku Dome, la Cupola della bomba atomica, oggi
     


    Genbaku Dome, la Cupola della bomba atomica, dall’alto, oggi

     

     

     

     

     

     

    Foto rare scattate nei giorni successivi all’evento

     

     

    Il racconto di Sunao Tsuboi sopravvissuto all’esplosione



     

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