di Enrica Bricchetto
INDICE
Parte prima: il libro
1. Premessa 2. Le storie 3. Struttura narrativa, voci e volti 4. Adam Wexler 5. Sciesopoli 6. L’Alyah di Adam
Parte seconda: l’EAS (Episodio di Apprendimento Situato)
1. Modello di lezione 2. Condizioni di realizzazione 3. Come ci siamo preparati 4. Bambini da un altro pianeta. A casa 5. Bambini da un altro pianeta. In classe 6. Spunti per valutare 7. Trasferibilità 8. Competenze di storia e mediali
Appendice 1. Testo EAS Bambini da un altro pianeta Appendice 2. Tabella fase operatoria EAS Appendice 3. Tabella per il Debriefing Appendice 4. link al sito del workshop di didattica della storia e del discorso argomentativo Ricostruire e argomentare (Bologna, 23–24 febbraio 2018).
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PARTE PRIMA
1. Premessa
I bambini di Moshe di Sergio Luzzatto si legge come un romanzo, ma non c’è fatto che non sia documentato da “una più rigida ricerca” per citare Alex, “coprotagonista” di Ogni cosa è illuminata, il film del 2005 tratto dal romanzo di Jonathan Safran Foer.
È un libro che serve a chi insegna per dare vita al discorso storico quotidiano. Raccontando storie di uomini e donne che agiscono in uno spazio tempo ben preciso, il docente riesce a compiere meglio il processo di trasposizione didattica dei nuclei fondanti della disciplina storica, senza i quali gli studenti non acquisiscono quadri interpretativi e non si orientano in quello che succede oggi tra le due sponde del Mediterraneo.
Il libro di Luzzatto affronta molti concetti storici base del piano di lavoro dell’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado: antisemitismo, hassidismo, sionismo, kibbutzismo, insediamento, rivolte, leggi razziali, guerre (mondiale, d’indipendenza, civile), persecuzione, deportazione, emigrazione illegale (degli ebrei verso la Palestina), fondazione di uno stato (Israele). In realtà, si tratta di concetti che a scuola possono essere “seguiti” per tutto il corso di studi e non trattati soltanto in quinta.
Soprattutto se tali concetti sono illuminati da vicende umane realmente accadute, da storie di chi reagisce al male del suo momento storico, un male che spezza le famiglie e inghiotte le comunità. Luzzatto lo racconta da dentro – questo male – perché di quelle donne, di quegli uomini e dei loro bambini sa tutto, non solo quello che hanno fatto e dove si sono spostati o dove li hanno mandati, ma anche chi amano e chi perdono, che cosa pensano e cosa provano e qual è la loro idea di futuro: sono persone che in realtà diventano personaggi.
2. Le storie
Ne I bambini di Moshe si parla più di tutti di Moshe Kleiner, che nasce nel 1914 in uno shtetl della Galizia, in Polonia. Come in tutti gli shtetl dell’Europa orientale – piccole borgate abitate soprattutto da famiglie ebraiche osservanti – Moshe cresce in una comunità di lingua yiddish, isolata, in condizioni rese difficili dalla povertà e dall’antisemitismo che dilaga in Polonia a metà degli anni Trenta. Insieme a molti altri giovani – ragazze e ragazzi – Moshe reagisce a questa condizione abbracciando il progetto sionista che, in quegli anni, concretizza la speranza della Terra Promessa. A Leopoli studia teatro e impara il mestiere di carpentiere. Nel 1934 fa alyah, la “salita” verso la Palestina. Vive l’esperienza del pioniere, che mette tutto se stesso nel costruire una società nuova e sana in una terra che pensa gli spetti di diritto e che, soprattutto, sente sua. Condivide sogni e aspettative con la moglie Yehudit, compagna di vita.
L’ alyah, capiamo da questa storia, non è per famiglie ma per giovani, che, partendo da soli, arrivano in Palestina praticamente orfani e si ritrovano nella famiglia allargata dei kibbutz. Per chi resta a casa i figli si trasformano in lettere che raccontano un mondo nuovo.
Quando l’Europa orientale viene messa a ferro e fuoco dalla persecuzione e dallo sterminio dei nazisti, Moshe non riesce a guardare da lontano, sente di dover dare il suo contributo, di dover salvare gli ebrei del suo vecchio mondo. Dal kibbutz a Rehovot, vicino a Tel Aviv, torna così alle terre della Diaspora, volontario nell’esercito inglese, per partecipare alla guerra.
Insieme a Moshe, i personaggi principali di questa storia sono sei bambini con le loro famiglie, anche loro ebrei polacchi: Adela e Inda Liebermann, Avraham Lipkunski, Adam e Dov Wexler e Suti Weisz. Con Moshe condividono la provenienza, shtetl o piccole città polacche – dalla Volinia, ai confini con l’Ungheria o con la Germania, alla Lituania. Qualcuno ha fratelli o sorelle più grandi che aderiscono al movimento sionista ma loro sono troppo piccoli e i loro genitori troppo attaccati alle tradizioni, troppo poveri per lasciare la Polonia.
I sei bambini e le loro famiglie declinano così quasi tutte le tragiche possibilità riservate a una famiglia ebraica dell’Europa orientale durante la guerra, tutti i pericoli, tutti gli orrori, tutto il dolore: anche nel caso di Avraham, uno dei bambini che diventa un partigiano, come Il partigiano Edmond di Aaron Appenfeld (e non conosce il lager). Adela e Inda, dopo aver assistito alla liquidazione del ghetto di Rovno e al massacro della foresta di Sosenki, grazie a una contadina polacca che dà loro degli abiti adatti, si arruolano in Germania volontarie per il Reich, e sopravvivono, facendo le lavapiatti. Mentre Adam e Dov, finiscono a Auschwitz–Birkenau, dove arriva anche Suti, con un convoglio in tutto e per tutto simile a quello documentato nell’Album Auschwitz (Torino, Einaudi, 2008).
Quando Moshe – che in Palestina ha mutato vita e cognome, da Kleiner a Zeiri – a guerra finita, incontra i primi orfani giunti a Milano «avanzi del lager che sono già stati dall’altra parte», gli rimane un’ “impressione indelebile” (p. 164) e decide che a loro serve una casa.
La comunità ebraica, i partigiani di Milano e le associazioni sionistiche internazionali consentono a Moshe Zeiri di avviare un progetto che ha come fine quello di riportare alla vita i bambini che ce l’hanno fatta, cioè di “ri–salvarli”.
Moshe, a Selvino, nella Bergamasca, inizia la sua opera di raccolta, accoglienza e preparazione dei bambini sopravvissuti alla Shoah verso una nuova vita. L’edificio, usato durante il fascismo come casa di vacanze con il nome di Sciesopoli, diventa la casa dell’Alyah giovanile: chi si trova lì è in transito verso la Terra Promessa.
Da questo punto – siamo quasi oltre la metà del libro – la storia di Moshe e dei bambini si congiunge e diventa storia comune, fino alla fondazione dello stato di Israele.
3. Struttura narrativa, voci e volti
L’alternanza della voce dello storico in prima persona che informa sulla ricerca (chi ha incontrato e quando, che cosa ha letto e che cosa ha scoperto) alla terza persona, sempre focalizzata sui personaggi, trasporta il lettore in un mondo che attraversa il tempo, in un’atmosfera viva, animata dai volti e dalle voci.
Quelle di Moshe e di Yehudit emergono chiare, nella sofferenza della separazione, da un epistolario, ininterrotto, di due lettere alla settimana, scambiate tra 1943 e il 1946. Fitto di informazioni e racconti della guerra e dell’ esperienza centrale di Selvino da parte di lui, l’epistolario racconta le difficoltà di vivere da sola, nel kibbutz, con una bambina piccola, da parte di lei. Moshe e Yehudit si amano molto e se lo scrivono sempre. È un epistolario amoroso tenero e commovente. Un’altra dimensione narrativa di questo libro.
Le voci “vere” dei bambini, invece, si sentono perché Luzzatto li ha incontrati, ormai anziani, o perchè ha letto le loro memorie o perché ha parlato con i loro figli. I volti li vediamo quasi tutti nelle fotografie “integrate” nel testo. Sono parte della narrazione e quindi senza didascalie.
Nella prima parte del libro, quella più complessa, perché racconta il mondo di ieri, ci sono foto in posa, usate nella loro prima funzione: danno informazioni su chi vi è ritratto per lo sfondo, per chi ha scattato la foto, per come sono vestiti e per quanti anni ha chi vi è ritratto. Famiglie ebraiche – a volte mancanti di padri – della Polonia degli anni ‘30. Ci sono anche foto di documenti che declinano generalità, di oggetti che raccontano storie.
Sono fotografie che “si ergono” nella pagina scritta, perché sono sopravvissute alla Shoah delle cose: insieme ai corpi e alle anime lo sterminio nazista ha cancellato foto, oggetti, lettere. Tutto, insomma. Così scrive Luzzatto:
«Più o meno direttamente, fotografie scampate alla Shoah, se è vero che la Soluzione finale ha annichilito, oltre alle persone, le cose, comprese quelle specialissime cose che sono le immagini delle persone e delle cose. Per cui una storia della distruzione degli ebrei d’Europa che voglia essere anche – come questa – una storia della loro salvazione e della loro redenzione non può che essere, anche, una storia di fotografie. Quando pure da ciascuna di quelle foto emani il “gemito di disperazione”». (p.16)
Nella seconda parte del libro ci sono le foto dei bambini a Selvino, foto di persone che vivono.
Dove mancano le fonti dirette, lo storico usa la letteratura. Il confine è sempre chiaro e ribadito e, quindi, alcuni vuoti nelle biografie dei personaggi vengono riempiti da sequenze di romanzi. Tutta la storia è costellata di riferimenti letterari sostitutivi ma carichi di significato, che trasportano il lettore sempre più dentro la storia, soprattutto di quella dello shtetl e del kibbutz: opere di Agnon, di Singer, di Amos Oz, di Appenfeld sono usate per ricreare un mondo perduto e un mondo che sta per nascere. Su un altro piano, le corrispondenze di Curzio Malaparte, pubblicate sul «Corriere della Sera» nel 1941-42, descrivono invece la Polonia dei ghetti rastrellati, abitati da fantasmi, gli stessi che registra Dawid Sierakowiak, nei suoi quaderni scritti nel ghetto di Lodz. Il lettore si trova così nel mondo che era di Moshe da piccolo e che i suoi bambini ricordano a mala pena.
L’apparato di note in fondo al libro, con i riferimenti agli archivi italiani e israeliani, in particolare all’archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme, restituisce la dimensione di una ricerca in cui tutte le possibili tracce sono state indagate. Carte, glossario e elenco dei personaggi principali e di quelli più significativi danno le coordinate del racconto.
Per invogliare alla lettura de I bambini di Moshe – soprattutto per chi di mestiere fa l’insegnante – ho scelto di raccontare la storia di un solo bambino. Deve essere immaginata intrecciata alle altre perché da qualsiasi punto si voglia iniziare a dar conto di questo libro, sembra sempre di lasciare indietro qualcosa, di ridurne la portata storica e narrativa. Colpiscono, per esempio, gli squarci di Tel Aviv di prima della guerra o quelli di Napoli nel 1944, di Milano, dopo piazzale Loreto, o del paese di Selvino e del modo in cui i suoi abitanti guardano i ragazzi ebrei che vivono a Sciesopoli ma anche del racconto della prima rivolta araba del 1936. Colpisce il ruolo delle donne, sempre madri, attive e protagoniste, dalle yiddish mame alle lavoratrici del kibbutz, alle giovani impegnate nell’immediato dopoguerra. Persone comuni entrano in relazione con nomi importanti della politica italiana e delle organizzazioni sioniste. Ogni storia ha in sé un riflesso delle altre.
4. Adam Wexler
Adam Wexler è uno dei bambini di Moshe. Ha una biografia esemplare per la storia dell’ebraismo e del sionismo nel Novecento. È uno dei cinquantamila ebrei polacchi su tre milioni che sopravvivono alla Shoah. Abbandona il suo shtetl a Janowo, nella Polonia settentrionale, insieme alla sua famiglia, nel 1935, quando vengono emanate le leggi razziali. Da quando la Germania invade la Polonia vive nel ghetto di Lodz, con altre centocinquantamila persone, in quattro chilometri quadrati.
Nella famiglia Wexler il sionismo entra attraverso i fratelli più grandi, Yosef – che muore nell’epidemia di tifo nel ghetto – e Shaya, sionisti del Betar, organizzazione paramilitare giovanile fondata da Z. Jabotinsky. Proprio Shaya ha messo in piedi una stazione di ascolto. A casa di un vicino di suo zio, in via Niecala, c’è una radio. Luzzatto ce la descrive così:
«Una delle rarissime postazioni clandestine che verranno mai attivate in quel ghetto troppo isolato, troppo ermeticamente chiuso per rendere praticabili forme efficaci di resistenza. Sicché la radio dei Wexler sarebbe passata alla storia della Shoah come un tentativo fra i pochi, pateticamente coraggioso, di sfidare dal ghetto di Lodz signori della guerra del Reich millenario». (p. 81)
È da quella radio che Adam, con i suoi fratelli, il padre e gli zii, ascolta la rivolta del ghetto di Varsavia da metà aprile a metà maggio del 1944. Adam lavora, a 13 anni, in una calzoleria del ghetto che produce scarponi imbottiti per i soldati tedeschi. Non capisce che cosa gli sta succedendo intorno fino a quando, dopo aver ascoltato l’annuncio dello sbarco in Normandia, il 7 giugno 1944, i coraggiosi di via Niecala vengono arrestati dalla Kripo, la Polizia Criminale, per una soffiata: Adam non vedrà mai più il fratello Shaya, il padre e lo zio. La radio, che il padre era riuscito a nascondere, Dov e Adam la mettono in salvo. Oggi si trova nel museo della Shoah in Galilea.
Quando comincia la liquidazione del ghetto di Lodz, parte dei 76.701 abitanti del ghetto vivi il 1 giugno 1944 vanno a Chelmno, parte a Auschwitz–Birkenau. Tra questi ultimi ci sono Adam, suo fratello Dov e la madre Mindel. All’arrivo si separano. Mindel viene gasata subito.
Adam ha 13 anni appunto e, nonostante i parametri anagrafici della Soluzione finale mandassero dritti alle pseudodocce chi era intorno a quell'età, non viene selezionato e, insieme al fratello, assegnato a una fabbrica di munizioni in cui lavorano operai specializzati con molti privilegi, soprattutto più cibo e più pause. Questo è il motivo per cui sopravvivono.
A gennaio del 1945, Adam e Dov partecipano alla marcia della morte che da Auschwitz-Birkenau trasferisce chi ha la forza di stare in piedi verso il centro della Germania. Arrivano in treno a Mauthausen e poi al campo di Gusen, dove regna una violenza indicibile. Un tedesco li fa passare per polacchi cristiani. Nei loro occhi si imprimono cumuli di cadaveri.
Da Gusen, Adam e Dov peregrinano per mesi per l’Europa dove vedono «il mondo e il sottomondo della fine della guerra» e toccano con mano quanto la liberazione dalla Shoah non sia un evento ma un processo. Chi è rimasto vivo ha delle ferite profonde, ha dei vuoti fisici e psicologici, ha delle domande urgenti (perché sono vivo?), non ha più nessuno del suo mondo di prima perché il suo mondo di prima è stato spazzato via dalla scure nazista, in sostanza è, come scrive Luzzatto, un orfano integrale.
5. Sciesopoli
Il ritorno a casa per i sopravvissuti dai lager, soprattutto dalle terre di sangue, non è facile. Non hanno più case, non hanno più parenti, non hanno nulla, parlano una lingua, lo yiddish, che ormai non capisce nessuno, perché tutti quelli che lo parlavano sono stati uccisi. E Adam, insieme al fratello Dov, vaga fino a giungere a Selvino, nella Bergamasca, dove ad accoglierlo, trova Moshe Zeiri, che dirige la Casa dell’Aliyah giovanile appunto, l’ ex colonia fascista di Sciesopoli, in cui si diceva che avesse dormito Mussolini, e tanti altri ragazzi come lui.
Adam entra così nella “repubblica degli orfani” che Moshe ha organizzato, ispirandosi ai principi del dottor Janusz Korczak, medico e intellettuale molto noto già all’epoca, fondatore della Casa dell’Orfano di Varsavia. Una sorta di comunità autogestita in cui ognuno ha i suoi compiti e sa cosa deve fare: sveglia, ginnastica, alzabandiera, studio di tutte le discipline e soprattutto della lingua ebraica, corvées in cucina, esercitazioni paramilitari. Moshe sa che la vita nella Palestina del Mandato non è facile per chi è debole perché lacerato dall’esperienza della persecuzione, il motto del sionismo “costruire per essere costruiti” richiede determinazione e preparazione. Per questo Moshe tiene tutto sotto controllo.
È a Sciesopoli che Adam incontra gli altri bambini di cui Luzzatto racconta la storia.
E insieme a Avraham, scampato al lager perché diventato partigiano, spesso tiene testa a Moshe, che non sempre comprende – lui che non è stato perseguitato o deportato – le necessità più profonde di ragazzi le cui notti sono tormentate dagli incubi. Per esempio la fame: Moshe cerca di disciplinarli ma la loro fame non dà tregua, è insaziabile, va oltre le razioni stabilite. Oppure l’attaccamento al proprio nome che Moshe vorrebbe cambiato con un nome ebraico: per i bambini è quel che resta della loro vita di prima, una traccia del loro passato.
Come Moshe dirige la scuola, quanto ci metta del suo per far fronte a un compito reso sempre più gravoso dai continui arrivi e da difficoltà economiche, lo rende una figura straordinaria, un vero eroe. Luzzatto ci racconta anche il suo sacrificio personale che lo tiene lontano dalla moglie e dalla figlia. È il papà di tanti bambini ma non vede la sua - Nitza - fino al 1946, quando, insieme alla mamma Yehudit arriva a Selvino: la bimba ha tre anni.
6. L’Aliyah di Adam
Nell’inverno del 1946 gli orfani cominciano a partire illegalmente verso la Palestina, l’unico modo possibile. Sulla Enzo Sereni circa trenta dei novecento clandestini del mare sono bambini di Moshe. Tra questi c’è Dov e non c’è Adam: subiscono, dopo tutto quello che hanno vissuto, anche il trauma del distacco.
Adam parte con il terzo gruppo, con la nave Ulua.
Come è già successo ad altre navi e anche alla famosa Exodus, la Royal Navy le respinge, non le fa attraccare al porto di Haifa. Costringe chi sta a bordo a provare a opporsi. È inutile. I britannici portano i passeggeri, tutti ebrei scampati alla Shoah, in un campo di internamento a Cipro, dove - come scrive Luzzatto- dall'estate del 1946 all'inverno 1948-49 saranno cinquantamila gli ebrei internati, ottomila i giovani tra dodici e diciotto anni e seimila gli orfani.
Quindi come è successo a Avraham, ad Adela e Inda che erano sulla nave Katriel Jaffe, anche Adam e Suti, si trovano in un campo con il filo spinato senza poter uscire per un periodo che decidono gli inglesi. Dopo quello che molti di loro avevano vissuto, sembrava impossibile tornare in prigionia. Eppure quasi tutti passano da Cipro, dopo aver attraversato il mare su barconi precari e illegali.
La scelta del termine “barcone” che l'autore fa ha una forte connotazione e conduce il lettore a fare un confronto con la stretta attualità: fa pensare ai barconi di oggi che hanno una direzione diversa ma approdi sempre difficili e, per analogia, all'impossibile convivenza tra gli ebrei israeliani e i palestinesi.
Appena finita la guerra, chi arriva in Palestina dall’Europa, non è accolto bene. I Sabra, gli ebrei emigrati prima della guerra o nati lì, disprezzano gli ebrei del vecchio mondo perché, in fondo, pensano che si siano fatti ammazzare come pecore, non si siano difesi. È un fardello in più per le vite spezzate che approdano in Palestina e che rende difficile, ai nostri occhi moderni, comprendere come sia possibile che ancora oggi non esista la pace in quella terra.
Moshe allora, nel 1947, va in Palestina perché ha paura che i suoi bambini non ce la facciano in una società che richiede forza fisica e psicologica e che è in guerra. Moshe sa che hanno bisogno di aiuto e di essere rimessi insieme. Li raduna, cerca di capire se può essere fondato un kibbutz, in cui si viva come a Sciesopoli, il Kibbutz Selvino dove, chi ha in comune quella terribile esperienza, possa riconoscersi.
Moshe non riesce a costruire il kibbutz Selvino. Ma Adam, come gli altri, trova il modo di riscattarsi agli occhi dei Sabra. La guerra di indipendenza contro gli inglesi coinvolge tutti gli ebrei di Israele, inclusi i bambini di Moshe, che, mostrandosi validi guerrieri, contribuiscono alla fondazione di Israele e da quel momento non smetteranno mai di proteggere i loro figli.
Alcuni bambini di Moshe, tra cui Dov e Adam, si trasferiscono in kibbutz di confine e difendono la loro terra nella guerra contro gli arabi. La difesa di Israele, quindi, li tiene insieme e fa sì che condividano quella mancanza di comprensione verso i loro vicini di casa, che forse sono anche padroni di metà della casa, che li porta alla guerra perpetua, all’ aumento degli insediamenti e all’impossibilità della pace.
È il 1948, l’anno della fondazione dello stato di Israele e Luzzatto pone questo come termine della storia che vuole raccontarci.
PARTE SECONDA: L’EAS (EPISODIO DI APPRENDIMENTO SITUATO)
Il modo in cui Luzzatto ha costruito il racconto fa sentire la storia quasi in diretta. Quando ho pensato di costruirci una lezione – intorno al Giorno della Memoria – ho cercato di riprodurre questo, di entrare direttamente in quelle vicende umane per far conoscere agli studenti le caratteristiche dell’ebraismo orientale, le comunità di Ostjuden di cui loro ignoravano addirittura l’esistenza: il mondo di ieri, praticamente annientato dalla Soluzione finale.
Sulle questioni legate al popolo ebraico gli studenti continuano a confondersi, non riescono a capire perché si parla di una famiglia ebraica polacca, russa, francese, italiana o etiope, spesso faticano a pensare che ci fossero ebrei poveri, alimentando stereotipi resistenti. Lo stretto legame con la religione e la mancanza – da un certo punto e fino a un certo punto – di una terra e di una compagine statale rendono tutto complesso così come il rapporto con il cristianesimo, che ha alimentato da sempre l’antiebraismo.
In questo quadro si inserisce l’antisemitismo di ritorno di cui abbiamo notizie sempre più frequenti. C’è bisogno quindi di distinguere i piani. La guerra in atto tra Israele e Palestina ha delle cause che si possono capire soltanto se si hanno alcune informazioni storiche precise.
Ho quindi progettato una lezione con l’intenzione di avvicinare gli studenti alle condizioni in cui vivevano gli ebrei della Diaspora, praticamente annientati dal progetto nazista, e al momento in cui il sionismo era non solo un piano per fuggire ma un sogno da realizzare. Fino a portare il discorso sull’oggi.
Il fatto di far riferimento a un libro appena uscito, in un momento particolare come quello del 27 gennaio, ha reso più “vivente” l’attività. Mi è sembrato di offrire agli studenti la possibilità di una riflessione ampia e attuale, che potesse davvero coinvolgerli.
Questo EAS può essere collocato in una prospettiva che non veda il 27 gennaio come un’iniziativa isolata, ma lo collochi al centro di un’attività didattica più distesa e allargata, da svolgere in un periodo più lungo, oppure che diventi un tema su cui tornare, magari sollecitati dall’attualità. È la visione del Giorno della Memoria che Piotr Cywińsky – il direttore del Museo di Auschwitz – ha riproposto nell’appello agli insegnanti uscito su «Repubblica», proprio il 27 gennaio 2018. Non solo intervento “spot” – che io considero comunque utile nell’immediato – ma intervento costante di educazione alla memoria.
1. Modello di lezione
Il modello EAS (Episodi di Apprendimento Situato), messo a punto da Pier Cesare Rivoltella, studioso di didattica e di sistemi dell'istruzione, tra i primi in Italia a occuparsi di Mediaeducation, ha una sua bibliografia. Per averne un’idea chiara, in termini generali, consiglio di leggere almeno Che cos’è un EAS. L’idea, il metodo, la didattica (Brescia, La Scuola, 2016), il terzo e ultimo libro di Rivoltella sul metodo e di dare uno sguardo alla nuova rivista «Essere a scuola» che costituisce il cantiere aperto sul metodo. Un esempio di Eas in storia, è il mio Fare storia con gli EAS. A lezione di Mediterraneo (Brescia, Els–La Scuola, 2016), sul quale HL ha pubblicato la recensione di Fabio Fiore.
Qui riprendo, in estrema sintesi, le caratteristiche proprie di questo modello. Realizzare un EAS significa costruire un'attività didattica circoscritta, con una parte da fare prima, a casa, che anticipa e fa scoprire allo studente il lavoro su cui ci si concentra in classe. Questo comincia con una raccolta di impressioni su quello che gli studenti hanno fatto individualmente, a casa, e poi si articola in un Framework (cornice, intervento frontale del docente, che recupera gli elementi già acquisiti dagli studenti a casa, aggiunge e approfondisce), un videostimolo che induce gli studenti a immaginare, un’attività "operatoria" da svolgere in classe e un momento di riflessione finale. Questo schema, se “riempito” bene porta alla realizzazione di una lezione dinamica, varia, che costringe gli studenti ad attivarsi perché cambiano ruolo, li avvicina a tanti contenuti, aprendo anche alla riflessione.
2. Condizioni di realizzazione
Ho realizzato l’Eas, Bambini da un altro pianeta, in due lezioni, cioè in 4 ore circa – in tempi scolastici tre ore e mezza – nella 2B “Informatici” della mia scuola, l’I.I.S. “Avogadro” di Torino. In classe ho a disposizione il computer con il videoproiettore e la lavagna con i pennarelli. Ho lavorato in modalità BYOD (Bring Your Own Device, “porta il tuo dispositivo”) perché posso contare su una buona connessione.
Inoltre la scuola ha la Gsuite di Google Education. Gli studenti, a loro volta, sono tutti iscritti a Classroom, l’applicazione cloud che consente al docente di costruire corsi. In Classroom ho creato un corso di storia. Posso quindi distribuire materiale in forma di file e link, condividere testi sui quali gli studenti scrivono e io intervengo, posso fare domande, dare compiti e valutarli, possiamo discutere con la funzione “commenta”, posso dare feedback individuali o alla classe.
Tutti gli studenti accedono con lo smartphone alle seguenti applicazioni: Drive, Googledoc, GooglePresentazioni, GoogleFogli e GoogleClassroom.
A casa, oltre allo smartphone, alcuni di loro usano il computer. Tutti sono in grado di usare Classroom dalla loro parte, cioè: sanno allegare documenti, sanno scrivere in quelli che metto io, sanno condividere e discutere, rispondono alle domande e commentano.
La classe 2BI, completamente maschile e quindi piuttosto vivace, è composta da studenti in buona parte interessati e reattivi, con qualche elemento meno coinvolto. Ci sono cinque ragazzi non di origine italiana con livello L2 avanzato. Due studenti Dsa, che in questa modalità, lavorano senza problemi. Come siamo soliti dire noi insegnanti, si tratta di una classe abbastanza buona.
Tuttavia non nascondo che l’uso dello smartphone in modalità didattica, come suggeriscono le 10 regole appena presentate dal Miur, crei qualche problema legato all’irresistibile tentazione degli studenti di passare dal lavoro didattico ai loro ambienti di gioco e di relazione, e alla velocità con cui si spostano da un mondo all’altro. Per questo l’uso dello smartphone – per avere un vero senso didattico – dovrebbe essere oggetto di un patto di responsabilità accettato dalle varie componenti della scuola e dalla famiglia, così come previsto nel Curriculum di educazione civica digitale. Un nuovo e più complesso scenario che una lezione come questa prefigura soltanto.
3. Come ci siamo preparati
L’Eas non è una lezione isolata ma, come tutte le altre, si inserisce in un percorso didattico. Prima dell’EAS, ho costruito il quadro storico di riferimento. Ho proposto la storia del popolo ebraico, utilizzando una Presentazione di Drive, che ho preparato io. Una sorta di percorso, diacronico, che attraversa il tempo e che io considero parte di un nucleo fondante della storia che trattiamo nei cinque anni, quello del rapporto tra le comunità e la divinità, cioè le varie espressioni religiose.
La Presentazione di Drive è servita per riprendere quello che era stato fatto l’anno precedente, in prima – la storia del popolo ebraico coeva agli egizi, assiri, babilonesi, ai persiani e ai greci – e quello che stavamo facendo in seconda, cioè la Palestina romana e la diffusione del cristianesimo. Ho poi ragionato sulla Diaspora e sulla condizione di “separatezza” che poi diventa discriminazione del popolo ebraico per i secoli successivi. In questa fase ho cercato di recuperare quali informazioni gli studenti avessero già e di chiarire la differenza tra antiebraismo e antisemitismo.
Poi abbiamo guardato insieme il film Defiance. I giorni del coraggio del 2008 di E.Zwick, con Daniel Craig. Analizzando i personaggi e la vicenda ci siamo costruiti un discreto vocabolario sulla cultura, sulla religione ebraica e sulla Shoah selvaggia, quella del 1941. Il film, di grande impatto, è tratto da una ricerca di storia orale della sociologa Nechama Tec, che ha intervistato i sopravvissuti dell’otriad Bielski e ne ha ricostruito la storia in un libro pubblicato in Italia nel 2001. I fratelli Bielski salvano migliaia di ebrei nascondendosi nella foresta bielorussa. Creano una comunità con regole da rispettare e combattono contro i nazisti, insomma anche loro ebrei che salvano e si salvano.
Il film è piaciuto molto. È stato come aprire una porta.
4. Bambini da un altro pianeta. A casa
Come si evince dal testo dell’EAS presente nell’Appendice 1 il lavoro comincia a casa, dove ho cercato di far fissare alcune informazioni. Ho riutilizzato la mia Presentazione di Drive sui caratteri e i movimenti del popolo ebraico. Con Classroom è possibile dare una copia della Presentazione a ogni allievo. Hanno aggiunto due slide e, alcuni, l’hanno rielaborata (hanno cambiato colori, caratteri, aggiunto foto). In questo modo si sono appropriati delle conoscenze essenziali.
Ho anche chiesto di scrivere un testo sulla vicenda di Liliana Segre, da poco senatrice a vita, che, oltreché commossi – l’hanno seguita in tutte le apparizioni successive, fino a quella a Che tempo che fa, di domenica 28 gennaio 2018 – li ha portati ad avvicinarsi all’universo dei bambini. Liliana Segre ha 13 anni quando arriva ad Auschwitz–Birkenau e quando ne esce – come ha più volte raccontato – è una ragazza orfana, tormentata, per lei è difficile rapportarsi con gli altri: non è diversa dai bambini che accoglie Moshe Zeiri, soltanto che lei – orfana – ha dei parenti con cui stare. Il testo lo hanno scritto in un file (hanno messo il link nella Presentazione).
Infine entrare nel sito per gli insegnanti della casa editrice Einaudi, Lo struzzo a scuola, e cercare le recensioni li ha messi in contatto con l’uscita del libro di Sergio Luzzatto, con il fatto che se ne sia parlato in molti modi e su vari media (radio, tv, giornali, siti).
5. Bambini da un altro pianeta. In classe
Il brainstorming con il quale si è aperta la parte di lavoro in classe, è servito per far tirare fuori agli studenti ciò che risultava loro poco chiaro ma anche per capire che cosa li aveva colpiti di più.
Abbiamo aggregato i termini in 4 campi:
- parole riguardanti la religione
- parole riguardanti la persecuzione
- parole riguardanti la cultura ebraica
- altre parole
Sono venuti fuori molti termini interessanti e appropriati.
Per il Framework – cioè la lezione frontale – ho scelto di raccontare la storia di Moshe. Qui ho cercato davvero la dimensione narrativa. Ho provato a imitare l’autore del libro. La vita di Moshe è quasi letteratura. Ho ancorato il racconto ai punti di forza del libro – il modo di raccontare e la documentazione e – mi sono soffermata sugli episodi “utili” a chiarire il mondo di Moshe, lo shtetl, il suo trasferimento a Leopoli, come è venuto in contatto con il sionismo e il valore del teatro per diffondere le idee e gli episodi di antisemitismo.
Attraverso una biografia ho “messo a disposizione” degli studenti molti concetti e molti temi, li ho resi veri.
Al termine di questa storia, ho proiettato il videostimolo, il trailer del film su Fania Oz di Nathalie Portman – Vivere è sognare – dal quale i ragazzi hanno ricavato qualche immagine del sionismo degli anni ‘30 - quando i genitori di Oz sono emigrati - quello degli ebrei “muscolosi”, virili, che costruiscono una nuova società. Dalla scena iniziale del film Train de vie, hanno in ricavato l’immagine dello shtetl.
A questo punto, secondo il modello dell’Eas, spettava a loro lavorare. Il cuore dell’attività operatoria , in questo caso, è stato il primo capitolo de I bambini di Moshe che potevano leggere dal loro telefono. Avevo mandato a tutti il link all’estratto Kindle.
Ognuno, individualmente, doveva leggersi la biografia di uno dei bambini. Poi li ho riuniti in gruppi – che avevo organizzato in precedenza – composti da chi aveva letto la stessa parte e hanno cominciato a compilare la scheda (vedi Appendice 2). Tale scheda serviva a capire chi era o erano i bambini in questione ma anche a mettere a fuoco la vita che facevano, quanto erano osservanti e se erano stati oggetto di discriminazione. Inoltre alcune richieste erano legate alle fonti usate da Luzzatto.
Tale attività ha funzionato bene, perché il testo da leggere non era molto lungo e hanno potuto confrontarsi.
Al termine dell’attività ho posto loro alcune domande in ordine alle difficoltà che avevano trovato.
Poi, nella parte di Debriefing, la compilazione collettiva delle schede ha consentito di conoscere meglio i bambini. Un portavoce ha letto la scheda compilata e chi aveva lo stesso bambino ha aggiunto informazioni.
In questa operazione ho limitato i miei interventi, anche laddove non riuscivano a trovare tutte le informazioni. Ho invece chiarito i dubbi, facendo vedere una scheda che avevo preparato io di esempio (vedi Appendice 3). Si sono confrontati con il mio lavoro. È servito per discutere sul perché non erano riusciti spiegare alcune parti – come l’uso delle fonti – o a capire che, dove l’autore non aveva fonti dirette, aveva usato la letteratura.
Sull’antisemitismo che caratterizza la vita di tutti i bambini abbiamo ragionato e siamo tornati ai temi tipici dell’ebraismo della Diaspora, della difficoltà di convivere, della diversità attribuita agli ebrei e della costruzione dei ghetti. A questo punto, quando di alcuni concetti e alcune informazioni si erano appropriati, il discorso è passato all’oggi: al perché ci sono episodi allarmanti contro gli ebrei ma anche alle ragioni del conflitto tra Israele e Palestina; al perché i palestinesi, oggi, siano vittime di vittime.
Non è stato un discorso lungo e neppure esaustivo ma è servito, forse, per distinguere l’antisemitismo storico da quello di oggi e a chiarire che esiste l’antisionismo.
Nella lezione a posteriori, quando ho ripreso la parola, mi sono soffermata sulla Shoah delle cose. Il progetto nazista ha cancellato un popolo e la sua cultura e anche le immagini e gli oggetti. Poche immagini sono sopravvissute.
Siamo tornati con gli occhi su quegli oggetti collegandoci al sito della mostra itinerante Auschwitz. Not long ago. Not far away che è la più grande mostra itinerante mai dedicata a Auschwitz e alla storia della Shoah, attualmente a Madrid e guardato il video di presentazione. Abbiamo, cioè, guardato le cose che sono rimaste.
Infine pochi minuti di un video sulla Casa dell’Aliyah giovanile, l’orfanotrofio di Moshe a Selvino, in cui compare proprio lui, con i bambini ha concluso il nostro lavoro.
6. Spunti per valutare
Le lezioni Eas possono essere valutate in due modi. Di per sè l’Eas ha la valutazione “incorporata”, nel senso che si hanno molti momenti, durante la realizzazione, per valutare gli studenti. Creando un’apposita tabella, si possono inserire valutazioni relative al lavoro fatto a casa, agli interventi in classe, al lavoro di gruppo. Non per tutti gli studenti, in un Eas, è possibile acquisire tutti questi elementi di valutazione ma, con più Eas, si può includere l’intera classe. Altrimenti, gli elementi di conoscenze e di competenze acquisiti, possono essere valutati in una verifica sul percorso di cui l’Eas fa parte.
7. Trasferibilità
Ritengo che l’Eas sui bambini di Moshe possa essere proposta in classe anche senza che il docente legga l’intero libro. Può utilizzare la prima parte di questo articolo o altre recensioni che si trovano nel sito Lo struzzo a scuola per raccontare la storia di Moshe. L’autore è stato anche ospite della trasmissione Quante storie di Corrado Augias (Raiplay, 26 gennaio) e Petrarca (Raiplay, 27 gennaio). È stato intervistato alla radio, nella trasmissione Farehneit (Radioplay, 23 gennaio). Non è difficile per un adulto farsi un’idea del libro, quanto basta per raccontare la storia di Moshe.
Inoltre la lettura integrale del primo capitolo (nell’estratto gratuito di Kindle) presenta già molti dei temi che servono per la lezione. Su questo aggiungo che gli estratti dei libri sono molto utili a lezione e consentono agli studenti di avvicinarsi in modo soft ai libri da leggere. Amazon dà di solito almeno un capitolo intero di un saggio o di un libro oppure interi racconti. È così possibile attingere e formarsi una biblioteca personale che, chissà, potrebbe anche portare alla lettura dell’intero libro proposto.
8. Competenze di storia e mediali
Lavorare sul libro di Sergio Luzzatto, applicando il modello di lezione EAS, mi ha consentito di toccare temi, raccontare storie, far lavorare gli studenti sulla monografia di uno storico, sulle fonti che utilizza e sul mondo che ricostruisce. In verità l’EAS come modello di lezione può soddisfare, senza dubbio, le sei competenze storiche, elencate da Wolfgang Hasberg dell’università di Colonia, che Antonio Brusa cita in un recente articolo su Novecento.org: saper fare domande storiche; riorganizzare conoscenze storiche; ricostruire e decostruire storie; orientarsi nel tempo e riflettere sul proprio modo di pensare la storia.
In piccolo l’EAS che ho proposto ai miei studenti va in questa direzione.
Sul piano delle competenze mediali, invece, ho potuto metterli di fronte a diversi linguaggi, passando dalla narrazione letteraria ai trailer, alla ricerca sul web, che, in questo caso offre molti apporti utili.
Per l’EAS Bambini da un altro pianeta, gli studenti si sono mossi in modi diversi e hanno appreso, come sostiene la studiosa inglese Diane Laurillard, in molti modi: attraverso la ricerca, la collaborazione, la discussione. Queste tre modalità mi pare che abbiano determinato l’appropriazione di alcuni concetti importanti. C’è una dinamicità in questo modo di far lezione che la rende davvero efficace. L’EAS – a patto di circoscrivere il tema che si vuole proporre e costruire un’attività mirata – porta agli studenti apporti vari, approfonditi e interessanti. Per il docente la sensazione è che aumenti l’interesse, l’impegno e la partecipazione, in alcuni casi, gli studenti seguono la strada indicata, arrivando molto più lontano.
* Il libro: Sergio Luzzatto, I bambini di Moshe. Gli orfani della Shoah e la nascita di Israele, Einaudi, Torino 2018