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  • “Decolonizzare” la scuola e l’università in un mondo post-coloniale. Storici e insegnanti di tutto il mondo ne discutono a Pretoria

    di Daniele Boschi

    L’eredità del colonialismo e l’appello alla “decolonizzazione” dei curricoli universitari e scolastici

    L’eredità lasciata dal colonialismo nelle società post-coloniali è stata al centro di riflessioni e dibattiti molto vivaci, che hanno coinvolto anche gli storici e l’insegnamento della storia. Tanto nei paesi del “global North” quanto in quelli del “global South”, si sono sviluppate critiche riguardo alla passività e all’immobilismo (a volte veri e a volte solo presunti) delle istituzioni educative di fronte alle sfide poste dagli effetti del passato coloniale sulle società di oggi. Molte voci hanno evidenziato l’esigenza di “decolonizzare” i curricoli scolastici e universitari, per porre fine al predominio delle tradizioni epistemologiche e delle narrazioni tipiche del mondo occidentale, impropriamente elevate al rango di conoscenze universali.

    Cecil Rhodes, Primo Ministro della Colonia del Capo dal 1890 al 1896 e figura simbolo del colonialismo britannico1. Cecil Rhodes, Primo Ministro della Colonia del Capo dal 1890 al 1896 e figura simbolo del colonialismo britannico

    Studiosi e attivisti hanno denunciato il fatto che, sebbene in molti paesi vi siano politiche e progetti che mirano a innovare le pratiche didattiche, queste ultime rimangono spesso ancorate a schemi e a pregiudizi eurocentrici, che risalgono in ultima analisi all’età del colonialismo e sono radicati in culture istituzionali che si sono rivelate assai resistenti al cambiamento. Secondo il loro punto di vista, queste pratiche educative contribuiscono a perpetuare strutture di potere basate sulla discriminazione etnica e culturale, sia all’interno che all’esterno delle aule scolastiche e universitarie. Occorrerebbe invece dare maggiore spazio alla voce dei gruppi subalterni e alle culture locali (e “glocali”), in modo da rappresentare in modo adeguato la diversità e il pluralismo che caratterizzano le nostre società.

    Il seminario di Pretoria

    Per affrontare questi temi, si terrà a Pretoria in Sudafrica un seminario sul tema “Verso la decolonizzazione dell’insegnamento e della ricerca: prospettive ed esperienze nella didattica della storia e delle scienze sociali”. La giornata di studi è stata organizzata dalla “African Association for History Education” (AHE-Afrika) e dalla “International Research Association for History and Social Sciences Education” (IRAHSSE), in collaborazione con l’Università di Pretoria, e si svolgerà il prossimo 25 settembre 2019 (qui potete leggere il Call for Papers).

    Questo seminario si propone di sviluppare l’analisi degli obiettivi, dei discorsi e delle pratiche inerenti alla decolonizzazione dell’insegnamento della storia e delle scienze sociali: esso mira, da un lato, a identificare i protagonisti di questo processo a livello locale, regionale e globale; dall’altro lato, a evidenziare i fattori strutturali che stanno agevolando o ostacolando questa trasformazione. Si propone inoltre di chiarire i legami tra le pratiche educative, del presente e del passato, e le idee riguardanti il potere, l’identità, l’eredità culturale, la memoria, ma anche lo spazio, i confini e le migrazioni, per verificare in che modo tali legami riflettano o mettano in discussione gli orizzonti del colonialismo.

    I movimenti di studenti e giovani per la “decolonizzazione” dell’istruzione: il caso del Sudafrica

    L’interesse e la rilevanza di queste tematiche nascono anche dal fatto che, negli ultimi anni, studenti e attivisti appartenenti a minoranze etniche o a gruppi tradizionalmente subalterni hanno richiesto con forza la “decolonizzazione” del sistema scolastico e universitario.

    Gli studenti dell’Università di Città del Capo in Sudafrica chiedono la rimozione della statua di Cecil Rhodes dal loro campus2. Gli studenti dell’Università di Città del Capo in Sudafrica chiedono la rimozione della statua di Cecil Rhodes dal loro campus

    Proprio in Sudafrica si è sviluppato, tra il 2015 e il 2016, un movimento di studenti che aveva tra i suoi obiettivi l’abbattimento dell’eredità culturale del colonialismo e dell’apartheid. La mobilitazione è cominciata nei mesi di marzo e aprile del 2015, quando alcuni studenti dell’Università di Città del Capo hanno chiesto e ottenuto la rimozione dal loro campus della statua di Cecil Rhodes, assunto come simbolo del colonialismo britannico. Il movimento, che ha assunto anche forme violente, si è poi esteso ad altre università del Sudafrica ed i suoi obiettivi sono stati meglio chiariti: gli studenti neri chiedevano la “decolonizzazione” dell’istruzione e la fine del “razzismo istituzionale” e delle discriminazioni nei confronti di studenti e ricercatori di colore all’interno delle università.

    L’estensione della protesta alla Gran Bretagna

    La protesta, subito identificata dall’hashtag “Rhodes must fall”, si è allargata in seguito alla Gran Bretagna. In particolare, gli studenti di Oxford, emulando i loro colleghi di Città del Capo, hanno chiesto la rimozione della statua di Cecil Rhodes dall’Oriel College. Analoghi obiettivi sono stati portati avanti a Londra con la campagna “Why is my curriculum white?”. Ha scritto in proposito Mariya Hussain, studentessa del King’s College di Londra e giornalista della National Union of Students: «Gli studenti neri e appartenenti alle minoranze etniche si trovano ad essere non rappresentati, la loro storia e le loro culture sono completamente ignorate in ambito accademico, perché per molti anni la letteratura e la storia dei bianchi hanno goduto di un maggiore prestigio, e le università continuano a trasmettere l’idea che certi testi debbano avere uno statuto privilegiato a livello accademico»1.

    La statua di Cecil Rhodes all’Oriel College di Oxford3. La statua di Cecil Rhodes all’Oriel College di Oxford

    La Gran Bretagna ha fatto davvero i conti con il suo passato coloniale?

    Diversamente da quanto era accaduto a Città del Capo, la statua di Cecil Rhodes non è stata rimossa dalla High Street di Oxford, ma – come ha riconosciuto Timothy Garton Ash – «il movimento di protesta degli studenti ha dato vita a un importante dibattito riguardo al modo in cui la Gran Bretagna tratta il suo passato coloniale». Dopo aver ricordato che suo nonno lavorò al servizio dell’amministrazione britannica in India, Garton Ash ha aggiunto queste riflessioni: «Ho passato molto tempo a studiare il modo in cui paesi come la Germania fanno i conti con il loro difficile passato, non importa se fascista o comunista. Solo recentemente ho cominciato a chiedermi se non ci fosse qualcosa di simile da fare, in piccolo, anche all’interno della mia stessa famiglia. Naturalmente, io ero consapevole che gli imperialisti britannici hanno fatto cose cattive. Ma penso sia vero che si può studiare la storia in Gran Bretagna e vivere qui come cittadini politicamente consapevoli, senza essere costretti a confrontarsi con questa eredità. La memoria britannica dell’Impero è, io credo, alquanto confusa – e questo significa che essa è anche autoindulgente. A differenza dei tedeschi, noi non ci tormentiamo molto per ciò che i nostri nonni potrebbero aver fatto. Con stile perfettamente britannico evitiamo semplicemente di parlarne».

    Il contributo di intellettuali e ricercatori a questo dibattito

    Non soltanto Timothy Garton Ash, ma anche altri intellettuali, ricercatori e analisti hanno appoggiato le idee e le rivendicazioni che hanno trovato espressione nelle proteste studentesche.

    Per quanto riguarda in particolare il Sudafrica, Savo Heleta, sopravvissuto alla guerra di Bosnia e ricercatore presso la Nelson Mandela University a Port Elizabeth, ha scritto un lungo e documentato articolo, nel quale ha sostenuto che «dopo la fine del sistema oppressivo e razzista dell’apartheid nel 1994, l’epistemologia e i sistemi conoscitivi nella maggior delle università del Sudafrica non sono cambiati in modo rilevante; essi rimangono radicati nelle visioni del mondo e nelle tradizioni epistemologiche tipiche del colonialismo, dell’apartheid e dell’Occidente. Il curricolo rimane in gran parte eurocentrico e continua a rafforzare il dominio e i privilegi dei bianchi e degli Occidentali».

    In Gran Bretagna, le ricerche di Katy Sian, docente di sociologia all’Università di York, hanno posto in evidenza le sottili e insidiose forme di razzismo che si nascondono dietro il liberalismo e la tolleranza soltanto di facciata che contraddistinguono oggi le università britanniche. La situazione di disagio sperimentata da molti accademici appartenenti a minoranze etniche spinge Sian a sostenere che è necessario «che le università prendano sul serio gli appelli per la decolonizzazione del curricolo come mezzo per smantellare i discorsi e le pratiche che riaffermano la superiorità dei bianchi. Attualmente i programmi delle università britanniche tendono a perpetuare una prospettiva angusta e autoreferenziale che rafforza la logica dell’Orientalismo (ovvero l’inclinazione dell’Occidente a considerare le società dell’Oriente come società esotiche, primitive e inferiori)».

    D’altra parte, Harriet Swain, in un articolo pubblicato recentemente dal “Guardian”, ha riferito che diversi dipartimenti di università inglesi hanno cominciato a modificare i propri curricoli per venire incontro alle istanze di movimenti come #Rhodes must fall. Così sta accadendo per esempio nelle Università di Cambridge e di Birmingham e nella London School of Economics, con il supporto di istituzioni come “Advance Higher Education” (Advance HE) e la School of Oriental and African Studies (SOAS). La Open University ha inserito la decolonizzazione del curricolo tra le dieci principali innovazioni verso le quali tenderà l’insegnamento nei prossimi dieci anni.

    Posizioni e osservazioni critiche

    Ma, in concreto, in che cosa consiste e in che modo dovrebbe essere realizzata la “decolonizzazione” delle università e dei curricoli? Non sono mancate nel mondo accademico, sia nel “global North” che nel “global South”, posizioni e osservazioni critiche riguardo al modo in cui questo processo sta avvenendo o dovrebbe avvenire.

    Cheryl Hudson, docente di storia americana all’Università di Liverpool, ha osservato che la campagna #Rhodesmustfall a Oxford ha portato a una semplificazione e a un appiattimento del significato da attribuire a eventi e a personaggi storici, dei quali andrebbe piuttosto compresa la complessità. La storia non è una “morality play” nella quale si possano schierare da una parte i “buoni” e dall’altra i “cattivi”, e la conoscenza del passato non mira a produrre unguenti terapeutici per combattere i torti e le ingiustizie del mondo presente. Rhodes è stato un campione dell’imperialismo e del razzismo britannico, ma ha anche istituito un fondo grazie al quale migliaia di studenti provenienti da tutto il mondo – tra i quali Ntokozo Qwabe, uno dei leader del movimento #Rhodesmustfall – hanno potuto studiare a Oxford2.

    All’altro capo del mondo, Shadreck Chirikure, docente di archeologia all’Università di Città del Capo, ha ricordato che la battaglia per la decolonizzazione dei curricoli universitari nel “global South” ha una lunga storia alle spalle, dato che alcuni dei migliori intellettuali del continente africano hanno combattuto per decenni per la decolonizzazione della conoscenza, dei curricoli e della mente degli africani. Perché dunque questa decolonizzazione non è avvenuta? Secondo Chirikure ciò è dovuto al fatto che le migliori risorse - database, archivi, riviste, centri di ricerca, fondi, ecc. - per studiare il continente africano si trovano ancora oggi nel “global North” e dunque la maggior parte delle ricerche sul continente africano continuano ad essere impostate in base agli interessi e alle categorie mentali tipiche degli studiosi del “global North”. La decolonizzazione della cultura africana potrà avvenire solo se gli africani riusciranno a produrre conoscenze in modo autonomo, a partire dai reali interessi e problemi del proprio continente.

    A Pretoria storici e studiosi di scienze sociali porteranno il loro contributo

    Anche alla luce di interventi, iniziative e dibattiti come quelli che abbiamo appena illustrato, sarà dunque estremamente interessante ascoltare o esaminare i contributi che verranno forniti dagli storici e dagli studiosi delle scienze sociali che parteciperanno al seminario di Pretoria.

    Segnaliamo anche il fatto che questo seminario sarà il primo di due eventi strettamente collegati: sarà immediatamente seguito infatti da una conferenza organizzata congiuntamente dalla “African Association for History Education” (AHE-Afrika) e dalla “South African Society for History Teaching” (SASHT), che avrà luogo presso la stessa Università di Pretoria il 26 e il 27 settembre 2019 sul tema “L’educazione storica e lo Stato”.

     

    Note

    1. NdR: tutti i brani riportati tra virgolette, a cominciare da questo, sono stati tradotti dall’inglese in italiano dall’autore dell’articolo.

    2. Peraltro le borse di studio elargite sulla base del testamento di Rhodes erano destinate in origine soltanto ai bianchi. Gli studenti di colore hanno avuto accesso a queste borse di studio soltanto a partire dagli anni Sessanta e Settanta del ‘900.

     

    Fonti immagini

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  • “E se Alessandro avesse combattuto contro i romani?”

    Autore: Antonio Brusa


    Problemi teorici e pratici di didattica controfattuale


     E se a Iwo Jima avessero vinto i giapponesi?

    Indice
    1.    Contro la storia controfattuale
    2.    Tito Livio, l’alternativo
    3.    Lo sviluppo ineguale della didattica controfattuale
    4.    Culture storiche in alternativa
    5.    Una visione critica della controfattualità
    6.    Un profilo professionale moderno
    Bibliografia


    1.    Contro la storia controfattuale

    “Stronzata antistorica”. Non è molto fine la versione italiana del tedesco Geschichtswissenschlopff, ma è proprio questa l’espressione, con la quale Marx bollò le speculazioni di Proudhon, e che E.P. Thompson riutilizzò per liquidare l’emergere, negli anni ’70 del secolo scorso, della storia controfattuale. Thompson era un punto di riferimento della storia marxista inglese, perennemente in lite con M. Oakeshott, filosofo e storico conservatore. Ma sulla storia controfattuale i due ragionavano all’unisono: unhistorical shit.

    Sulla stessa linea si muove oggi Richard J. Evans, per il quale la storia controfattuale è poco più di un gioco di società. Il suo successo, argomenta, è frutto della crisi delle grandi visioni storiche progressiste, il marxismo in primis, con la conseguente ricerca nostalgica di passati alternativi, tipica dei pensatori di destra. E’ figlio del postmodernismo e del predominio mondiale della storia culturale. E’ in stretta relazione con l’invasione di fiction e di giochi che saccheggiano alla storia scenari, protagonisti e avventure. Il suo recentissimo libro non è stato tradotto in Italia, ma ne potete già vedere le ampie recensioni in rete di Cass R. Sunstein(dal quale ho ricavato la notizia dell’epiteto anglo-tedesco) e di Howen Hatherley.

    “ E se i cinesi fossero sbarcati sulla Luna?” ipotizza la copertina del libro di Richard J. Evans,The altered Past. Counterfactuals in History

     

    Questa vicenda storiografica è oggetto della trattazione di Luigi Cajani, che riproporremo presto su HL; mentre in Gioco e Creatività, sempre su HL, abbiamo raccontato i primi accenni di “conversione” alla controfattualità della storiografia italiana. Dalla tradizionale avversione storiografica parte anche Juliàn Pelegrìn, nell’ultimo numero di “Iber”, rivista spagnola di didattica della storia, in un intervento che affronta la questione dell’uso didattico di questo genere storiografico, e che costituisce la traccia di questo intervento.

    Come molti, Juliàn Pelegrìn ricorda i padri nobili della storia alternativa: Erodoto, Tucidide, Tacito e Tito Livio. Mi sembra utile impostare un ragionamento didattico cominciando da quest’ultimo e dalla sua ipotesi controfattuale: “e se Alessandro Magno avesse combattuto contro i romani?”.

    La leggiamo nel nono libro delle sue storie (par. 13-19).


    2.    Tito Livio, l’alternativo

    Dopo aver raccontato l’umiliazione delle forche caudine, nella seconda guerra sannitica,  Tito Livio passa a parlare della vendetta che i romani si presero nel 315 a Lucera, dove i sanniti si erano asserragliati con i 600 ostaggi che avevano ottenuto a Caudio. Papirio li sconfigge, libera i prigionieri romani e poi costringe i sanniti all’identico disonore: sfilare disarmati e nudi fra due ali di nemici che li sbeffeggiano e,se osano alzare gli occhi, li colpiscono a morte.

    Lucio Papirio Cursore era una sorta di Achille piè veloce, come sottolinea il soprannome. Per i suoi concittadini fu l’eroe della riscossa romana. Ancora dopo tre secoli, la soddisfazione per la sua impresa era talmente viva, che Tito Livio si lasciò scappare il  paragone: “Papirio sarebbe stato pari a Alessandro Magno, solo se questi avesse deciso di invadere l’Europa, dopo aver domato l’Asia”. E di lì, l’appetito vien mangiando, si gettò in un autentico racconto controfattuale, perché immaginò un passato diverso, in cui Alessandro sarebbe venuto in Italia con il suo esercito, e fece sua quella domanda, che – ne sono convinto - molti a Roma si facevano: “Come sarebbe finito lo scontro fra il Grande Macedone e i romani?"

    Bella domanda. Mi ricorda certi vecchi b movies, nei quali si mettevano contro eroi di saghe diverse (Ercole contro Maciste, o Zorro contro D’Artagnan). Appunto: unhistorical shit. Ma Livio faceva sul serio, e decideva l’esito di questa storia alternativa sulla base del confronto analitico delle forze. I romani avrebbero schierato 150 mila uomini; Alessandro ne aveva appena poche decine di migliaia, per giunta soldati vecchi e prostrati da un viaggio lunghissimo. I romani potevano mettere in campo contemporaneamente cinque eserciti; Alessandro uno solo. Lui fu il più grande e il più lodato, d’accordo. Ma fu l’unico, mentre i romani ne avevano a bizzeffe, di grandi generali che potevano fargli fronte. Livio li elenca, a partire appunto da quel Papirio Cursore che aveva appena finito di malmenare i sanniti. E, infine, se si fosse azzardato a sbarcare in Italia, Alessandro non avrebbe trovato di fronte a sé un impero di gente rammollita dalle ricchezze, ma una penisola abitata da popoli indomiti. E quelli che non erano già alleati dei romani (aumentando la loro già grande forza), anche se fossero passati dalla parte sua, sarebbero stati indeboliti dalle lunghe guerre contro Roma, come in effetti era accaduto ai sanniti. Tirando le somme, non ci sarebbe stata partita.

    E’ vero, per i romani la storia era opus rhetoricum maximum; l’idea che avevano dei persiani era quella malevola costruita dai greci, e non guasta ricordare che Livio non perde occasione per celebrare l’Urbe. Ma questa volta lo fa con lo stratagemma del passato alternativo, che sviluppa con gusto e applicazione per qualche pagina. Questa soluzione gli permette di elaborare un ragionamento analitico e di giungere a una conclusione motivata. Roma non è soltanto la grande potenza del presente. E’ la potenza più grande mai esistita. Questo giudizio è il frutto di una sorta di esperimento mentale limite: mettere a confronto la forza romana con ciò che, in quel momento, tutti ritenevano il soggetto invicibile per antonomasia. Una sorta di “stress storiografico” che è cosiderato un metodo accettabile, anche da storici avversi alla controfattualità, come Evans.

    Ma c’è un altro dato che lo storico ci insegna. Livio non immagina che Alessandro si confronti con la Roma del I secolo, quella che aveva già sbaragliato qualsiasi rivale nell’area mediterranea. Pone il raffronto nel passato, al tempo delle guerre sannitiche. Ci illustra, con un’evidenza viva, che già a quel tempo Roma era la potenza più temibile dell’ecumene. Perciò, mentre Alessandro conquistava l’impero persiano, in Europa si era già formata una realtà politica, sociale e militare che gli poteva tenere testa. E questa, certamente, sarebbe una bella scoperta nelle nostre scuole, dove la storia greca e quella romana si insegnano in anni distinti, diffondendo fra gli studenti la convinzione che appartengano a due epoche diverse  e che, al tempo di Alessandro e dei regni ellenistici, Roma era una potenza regionale, “limitata alla penisola”.

      In questaucronia Alessandro Magno sopravvive alla febbre che lo uccise a Babilonia e consolida il suo impero. Poi, a differenza di quanto ipotizzava Alexander Demandt, storico antichista tedesco, non conquista l’India e non contribuisce perciò a diffondere il buddismo in Occidente; al contrario, i suoi discendenti, scacciati da nomadi asiatici, si rifanno sull’Occidente che conquistano. Nel frattempo, la potenza cartaginese si sviluppa. Lo scontro fra le due superpotenze occidentali avviene, come di prammatica, a Zama, nel 202.


    3.    Lo sviluppo ineguale della didattica controfattuale

    Le scuole anglosassoni hanno intuito ben presto l’utilità didattica della storia controfattuale. Peregrìn racconta come, fin dal 1969, Wayne Dumas riconoscesse il suo potere “inusualmente stimolante”, la sua capacità di coinvolgere gli allievi in ricerche attive, “a fare qualcosa con la storia”, di mostrare relazioni di causa-effetto, di stabilire relazioni fra passato e presente e di immaginare il futuro. Come si vede, fin dall’inizio fu chiaro e appetibile il quadro dei vantaggi didattici: un complesso di obiettivi che resterà sostanzialmente inalterato nei decenni successivi.

    L’Italia era lì, a ruota. Basti pensare al manuale, scritto da Franco di Tondo e da Giorgio Guadagni (La storia e i suoi problemi, Loescher, Torino 1970),  uno dei più diffusi a quel tempo, che introdusse fra le attività didattiche un esercizio del tipo “Se tu fossi un mercante fenicio…”, un primo e audacissimo, per i tempi, abbozzo di storia empatica. Al principio degli anni ’80 risale “Il gioco della storia”, la mostra itinerante organizzata dal Cidi di Bari, con i primi giochi che sperimentavamo nelle scuole medie e che raccolsi successivamente in Guida al manuale di storia(Editori Riuniti, Roma 1985), fra i quali vi erano dei piccoli esperimenti di storia controfattuale, a partire dalla celebre ipotesi di Erodoto (“E se il Nilo non sfociasse nel Mediterraneo…?”).

    In una ipotesi alternativa della storia scolastica italiana, il nostro paese reggerebbe il passo, se quelli (ed altri) spunti individuali fossero stati sorretti dall’investimento istituzionale, sia nella ricerca teorica, sia nella formazione dei professori, sia nella produzione di materiali di insegnamento. Non essendo accaduto nulla di tutto ciò, la didattica controfattuale (come tanti altri aspetti della formazione professionale del docente di storia) resta una risorsa per minoranze. Induce a queste riflessioni l’articolo di Peregrìn, nel quale si mostra come la Spagna, pur iniziando questo percorso molto più tardi, intorno agli anni ’90, ha messo in campo una nutrita batteria di ricercatori universitari, che in soli due decenni hanno accumulato un’attrezzatura teorica e pratica al servizio del docente, in buona misura disponibile anche online.

    Al di là dell’amarezza per un’ennesima occasione persa, questa vicenda mostra come sia particolarmente ardua, oggi, la questione del ringiovanimento delle pratiche di insegnamentoe della formazione culturale dei docenti. Le tecniche didattiche, infatti, superano agevolmente frontiere e arretratezze istituzionali. Irrompono nelle aule senza chiedere permessi. Perciò, non è inconsueto che allievi italiani vengano invitati a calarsi nei panni di un dato personaggio storico, o a ipotizzare esiti diversi di una determinata vicenda studiata nel manuale. Spesso sotto le vesti della “didattica creativa”, frammenti e suggestioni di didattica controfattuale circolano ampiamente nel nostro paese. La domanda è: come vengono usati?


    4.    Culture storiche in alternativa

    Ci dobbiamo chiedere se si sia diffusa con la stessa facilità la cultura necessaria per gestire correttamente tali pratiche."Once you let the counterfactual genie out of the bag, anything can happen", avverte Evans. Se il genio della controfattualità esce dalla lampada, tutto può succedere. Ecco il primo problema: il professore deve avere la capacità di costruire “campi recintati”, all’interno dei quali gli allievi possano muoversi con libertà, senza combinare troppi pasticci. E questo vuol dire, in partenza, fissare i vincoli storici del gioco controfattuale; nel corso del lavoro, guidare gli allievi lungo ipotesi accettabili, e, alla fine, valutare la congruità degli elaborati. Tutto ciò è possibile soltanto se il professore possiede una buona cultura storica, non solo intorno ai fatti specifici, ma soprattutto sul modo di pensare storicamente.

    Luigi Cajani sottolinea la differenza profonda fra una storiografia cresciuta all’ombra di Benedetto Croce, che promoveva appunto lo slogan “La storia non si fa con i se”, e quella che fa riferimento a una folta schiera di storici, da Toynbee a Braudel. Alexander Demandt, che abbiamo già visto a proposito di Alessandro Magno, è lo studioso che, ricorda ancora Cajani, con più convinzione ha sostenuto la necessità del pensiero ipotetico “per evitare ogni appiattimento deterministico o storicistico, e per rimettere in discussione una serie di luoghi comuni sul peso di questo o quel fattore nello sviluppo degli eventi, soprattutto quando si analizzano le cosiddette fasi di transizione o si valuta l'influenza dei personaggi storici”.

    Sono due modi di pensare storicamente abbastanza antitetici. Perciò, non sarà senza conseguenze – per il corpo docente - l’aver studiato il passato nel suo svolgimento, cercando di capire nessi e documentazione, o, invece, sforzandosi (anche) di pensare le alternative, chiedendosi continuamente “cosa sarebbe successo se…?”. Questo secondo modo non solo sarebbe più corretto, perché più vicino al modo di ragionare dello storico, ma avrebbe l’altro, decisivo, effetto di formare un personale che, essendo abituato a considerare la storia come una ricostruzione ipotetica del passato, sarebbe più preparato a gestire i tentativi di apprendimento degli allievi, e – nel nostro caso - a guidare i loro ragionamenti controfattuali.


    5.    Una visione critica della controfattualità

    Due osservazioni di Evans, tra loro collegate, ci lasciano intuire un secondo problema didattico. La prima riguarda il fatto che una controfattualità non ben elaborata induce l’allievo a costruire relazioni di un determinismo povero e lineare. Si cambia un evento, un fattore, una scelta e “tutta la storia” successiva prende una piega diversa. La seconda riguarda il fatto che questa nuova traiettoria viene disegnata in funzione di un “desiderio” dell’allievo, spesso un desiderio scolasticamente sollecitato (cambi un fattore e la guerra non scoppia, oppure il debole vince o un sopruso non si compie). Insomma, la storia viene modificata in funzione di un teleologismo altrettanto povero ed elementare.
    A queste condizioni, è evidente che il valore formativo di questa strategia è nullo, dal momento che non viene messo in crisi quell’appiattimento deterministico, denunciato da Demandt, né verranno messi in discussione i luoghi comuni della vulgata storica.Più in generale, proprio perché riformula stereotipi correnti sotto le vesti dell’ “alternatività”, non è da sottovalutare il rischio che questo tipo di controfattualità si presti ad essere facile strumento di un uso “populistico” della storia.

    Questa ucronia ripete il luogo comune della “tenaglia araba”: i musulmani vincono a Poitiers, poco dopo si impadroniscono di Costantinopoli e dilagano in Europa, che entra - perciò - a far parte della Umma. Franco Cardini ha avuto buon gioco a smontare questa sorta di domino, ricordando che Costantinopoli è realmente caduta in mano musulmana, ma l’Europa è rimasta cristiana. La storiografia, d’altra parte (come racconta qualsiasi manuale), spiega che la vittoria franca non fermò affatto le scorrerie musulmane (come voleva la propaganda carolingia), che continuarono fino a tutto il X secolo.

     

    Questa controfattualità banale richiama alla mente una delle misconoscenze più diffuse nella storia scolastica tradizionale: quella che riguarda gli “eventi miracolosi”. Un esempio notissimo è costituito dalla battaglia di Poitiers (732). L’importanza della vittoria di Carlo Martello, infatti, è dimostrata tradizionalmente con un “gioco del se" antichissimo, quanto occulto: “se avessero vinto gli arabi, la storia euromediterranea sarebbe totalmente diversa”. Giuseppe Sergiha smantellato la connessione rozza, che lega abusivamente una vittoria, decisiva solo per la futura dinastia carolingia, al destino di un continente.

    Tale è l’”evento miracoloso”, così lo definisce Sergi: una vittoria, l’uso della staffa, l’adozione dell’aratro pesante, e la storia cambia il suo corso. Una misconoscenza, appunto, che va combattuta lavorando sulla visione complessa  e problematica del passato: sia nell’insegnamento tradizionale, sia in quello che incorpora tecniche innovative.
    Ecco un’altra storia alternativapiù critica della precedente, perché non tiene conto soltanto del punto di vista occidentale, ma di ciò che succede nel campo musulmano. Gli arabi vincono a Poitiers. Carlo viene mandato come ostaggio in Egitto, ma la vittoria è la scintilla che fa esplodere la rivolta berbera, contribuendo a frantumare ulteriormente il mondo musulmano. Le armate della mezzaluna avanzano, comunque, fino a Parigi, la più grande città occidentale (con Roma), dove Pipino, che in questa storia alternativa non ha potuto sfruttare il volano ideologico della vittoria e quindi governa solo una parte del regno franco, riesce a organizzare la resistenza e a respingerle. Da questa vittoria riporta l’epiteto, col quale verrà studiato nelle scuole del mondo parallelo: “Pipino Martello”.

     

    Il contrasto fra l’irriproducibile complessità della storia e la relativa linearità della vicenda alternativa (come spesso viene immaginata dagli allievi) è ambivalente. E’ del tutto negativo, se il professore non lo avverte e non apre su questo la discussione, proprio per i motivi che abbiamo appena visto. Al contrario, diventa una risorsa eccellente, se lo scarto può essere messo in evidenza nel corso del debriefing. Questa operazione è facilitata dal fatto che si lavora sulle esperienze degli allievi, che possono essere guidati a ragionare sul problema che nella realtà storica esiste sempre qualche variabile che non è stata presa in considerazione. Il gioco controfattuale, quindi, può diventare l’occasione per una riflessione epistemologica sulla storia, perché riuscirebbe a rendere concreta una tematica che normalmente viene percepita dagli allievi come un’astrazione inafferrabile.

    Ecco, dunque, un secondo buon risultato di questa didattica, da aggiungere alla critica alle visioni stereotipate: affrontare in classe gli aspetti teorici del pensiero storico. Concludendo un report sulle sue esperienze scolastiche, Deborah Vess scrive: “lo sforzo di calarsi nel punto di vista del passato costringe gli studenti ad assumere un ruolo attivo e creativo nello studio della storia, nel quale se la devono vedere con i più sottili problemi della filosofia della storia”.


    6.    Un profilo professionale moderno

    Un errore diffuso è quello di caricare un dato strumento didattico di ogni sorta di beneficio. Vale anche per la didattica controfattuale. Da sola non darà gli obiettivi che abbiamo citato sopra. Essa fa parte di un complesso di pratiche innovative, il cui scopo comune è quello di avviare l’allievo al “pensare storicamente” (un obiettivo che, è bene chiarirlo ogni volta, non può prescindere dall’acquisizione delle conoscenze storiche). Queste strategie, elaborate nella loro maggioranza nell’ultimo mezzo secolo, disegnano un profilo professionale alquanto diverso da quello che convenzionalmente consideriamo “tradizionale”, e al quale le nostre Università sono legate. Rachel G. Ragland, parlando dei cambiamenti dei punti di vista degli insegnanti di secondaria americani,  ne elenca alcune. Le riporto solo a titolo di esempio: la controfattualità è una delle tante strategie. Queste, peraltro, non sono delle novità per il docente italiano, e questo non è nemmeno l’elenco completo delle strategie che, sulla scorta della ricerca didattica attuale, si possono realizzare in classe.

    Il fatto nuovo, probabilmente, è un docente che le consideri normali, e ne faccia un uso quotidiano.

    1.    Usare fonti
    2.    Analizzare artefatti storici
    3.    Mettere in campo attività del “fare storia” (interpretare, presentare una o più cause di eventi, argomentare sulla base di fonti, ecc.)
    4.    Ricerche tematiche su materiali vari
    5.    Schemi concettuali per organizzare la lettura di materiali diversi
    6.    Uso di organizzatori grafici e mappe concettuali
    7.    Uso di media e multimedia
    8.    Approccio controfattuale
    9.    Approcci narrativi
    10.   Giochi e giochi di ruolo
    11.   Uso di risorse dell’ambiente


    Bibliografia

    Antonio Brusa, Guida al manuale di storia, Editori Riuniti, Roma 1985
    Deborah Vess, Creative Writing and the Historian: An Active Learning Model for Teaching the Craft of History, in “The History Teacher”, Vol. 30, No. 1 (Nov., 1996), pp. 45-53
    Luigi Cajani, Die Zeitmaschine: Anmerkungen zu einem Benutzer handbuch, in Was Wäre Wenn: Alternativ- und Parallelgeschichte. Brücken zwischen Phantasie und Wirklichkeit, edited by Michael Salewski,  Stuttgart, Steiner, 1999, pp. 54-63
    Luigi Cajani, Immagini del futuro, in "I viaggi di Erodoto", anno 5, numero 13, aprile 1991, pp. 86-98.
    Rachel G. Ragland, Changing Secondary Teachers' Views of Teaching American History, in “The History Teacher”, Vol. 40, No. 2 (Feb., 2007), pp. 219-246
    Giuseppe Sergi, La staffa: invenzione o adozione progressiva?, in “Nuvole”, n. 25, http://www.nuvole.it/arretrati/numero25/pdf/06e-Sergi-Staffa.pdf
    Juliàn Pelegrín, La historia alternativa como herramienta didáctica: una revisión historiográfica, Proyecto CLIO, 36. ISSN: 1139-6237. http://clio.rediris.es
    Juliàn Pelegrìn, Historia contrafàctica y didàctica de la historia, in “Iber”, 78, 2014, pp. 53-69
    Richard J. Evans, Altered Pasts: Counterfactuals in History (The Menahem Stern Jerusalem Lectures), Brandeis 2014

  • A scuola di futuri paesaggi

    Ci sono gli effetti speciali, per chiudere il ciclo delle Summer School sul Paesaggio Storico, che si tengono a Gattatico, presso Reggio Emilia, ormai da cinque anni. Siamo partiti con la preistoria e, quest’anno, giungiamo agli ultimi decenni. Di qui ci proietteremo verso il futuro. Gli effetti speciali? Eccoli: l’ultimo giorno di questa Summer, Bibo Cecchini (dell’Università di Alghero), con il suo staff e la collaborazione di colleghi della Bicocca, prepara un programma di simulazione. I partecipanti al seminario immagineranno i cambiamenti che, secondo loro, sono idonei ad affrontare i nostri problemi e magari a superarli. Il programma ce ne farà vedere gli effetti nel futuro.

     

    Sotto elezioni, uno direbbe, ne avremmo proprio bisogno di un “laboratorio creativo” di questo genere. Ma per il momento, ne potrà godere solo chi verrà alla Summer. Per chi ne avesse già voglia, il programma, in sintesi, è questo. Si inizia con una ripresa del passato. Una rapida scorsa dalla preistoria a oggi, giusto per fissare le basi del discorso più approfondito (organizzato da Rossano Pazzagli) sulla realtà del paesaggio agrario di oggi: le nuove tecniche, i nuovi mercati, l’abbandono delle campagne e la distruzione dei suoli, la loro rigenerazione. Una giornata di lavoro, al termine della quale ci si comincerà a orientarsi verso il domani. Lo faremo in modo non del tutto convenzionale. Ci penserà, infatti, Luigi Cajani a introdurci all’immaginazione del futuro, parlandoci della “terra formazione”, quella branca di romanzi di fantascienza nella quale si ipotizza che gli uomini colonizzano un esopianeta e lo trasformano in modo che assomigli alla Terra. Un viaggio nella fantasia – ma non troppo: siamo sempre storici  e insegnanti – rafforzato dalla visione di Avatar. Quindi ci sarà un’escursione sul territorio: una località di montagna, per chiedersi che ne è dei nostri boschi; e una di pianura, in visita in una realtà agricola d’avanguardia. Il sabato, in chiusura, gli effetti speciali di cui sopra.

     

    Questo ricco programma è inaugurato  e chiuso da due presenze eccezionali. In apertura, Simone Neri Serneri, dell’Università di Siena, disegnerà il quadro complessivo, entro il quale si articoleranno le relazioni e i lavori della Summer. In chiusura Sergio Rizzo, autore con Gian Antonio Stella di Vandali. L’assalto alle bellezze d’Italia, ci permetterà di collegare i temi scientifici e didattici, affrontati nella scuola con quelli necessari della cittadinanza e della politica.

     

    La Summer School “Emilio Sereni”, si svolgerà fra il 28 e il 31 agosto. La Biblioteca “Emilio Sereni” si trova presso l’istituto Cervi. E’ un luogo straordinario, per il richiamo ideale, per il paesaggio, le capacità organizzative dei suoi dirigenti e degli operatori, per l’incredibile biblioteca di Emilio Sereni e – non ultimo – per la bravura della sua cuoca calabro-emiliana. Quindi: non appena esce il bando sul sito, andate a vedere il programma in dettaglio e arrivederci a Gattatico!

  • Alessandro the best

    Autore: Antonio Brusa

    Problemi teorici e pratici di didattica controfattuale  

    E se aIwo Jima avessero vinto i giapponesi?

     

    Indice
    1. Contro la storia controfattuale
    2. Tito Livio, l’alternativo
    3. Lo sviluppo ineguale della didattica controfattuale
    4. Culture storiche in alternativa
    5. Una visione critica della controfattualità
    6. Un profilo professionale moderno
    Bibliografia


    1. Contro la storia controfattuale

    “Stronzata antistorica”. Non è molto fine la versione italiana del tedesco Geschichtswissenschlopff, ma è proprio questa l’espressione, con la quale Marx bollò le speculazioni di Proudhon, e che E.P. Thompson riutilizzò per liquidare l’emergere, negli anni ’70 del secolo scorso, della storia controfattuale. Thompson era un punto di riferimento della storia marxista inglese, perennemente in lite con M. Oakeshott, filosofo e storico conservatore. Ma sulla storia controfattuale i due ragionavano all’unisono: unhistorical shit.

    Sulla stessa linea si muove oggi Richard J. Evans, per il quale la storia controfattuale è poco più di un gioco di società. Il suo successo, argomenta, è frutto della crisi delle grandi visioni storiche progressiste, il marxismo in primis, con la conseguente ricerca nostalgica di passati alternativi, tipica dei pensatori di destra. E’ figlio del postmodernismo e del predominio mondiale della storia culturale. E’ in stretta relazione con l’invasione di fiction e di giochi che saccheggiano alla storia scenari, protagonisti e avventure. Il suo recentissimo libro non è stato tradotto in Italia, ma ne potete già vedere le ampie recensioni in rete di Cass R. Sunstein (dal quale ho ricavato la notizia dell’epiteto anglo-tedesco) e di Howen Hatherley .

     

    “ E se i cinesi fossero sbarcati sulla Luna?” ipotizza la copertina del libro di Richard J. Evans , The altered Past. Counterfactuals in History


     
    Questa vicenda storiografica è oggetto della trattazione di Luigi Cajani, che riproporremo presto su HL; mentre in Gioco e Creatività, sempre su HL, abbiamo raccontato i primi accenni di “conversione” alla controfattualità della storiografia italiana. Dalla tradizionale avversione storiografica parte anche Juliàn Pelegrìn, nell’ultimo numero di “Iber”, rivista spagnola di didattica della storia, in un intervento che affronta la questione dell’uso didattico di questo genere storiografico, e che costituisce la traccia di questo intervento.

    Come molti, Juliàn Pelegrìn, ricorda i padri nobili della storia alternativa: Erodoto, Tucidide, Tacito e Tito Livio. Mi sembra utile impostare un ragionamento didattico cominciando da quest’ultimo e dalla sua ipotesi controfattuale: “e se Alessandro Magno avesse combattuto contro i romani?”
    La leggiamo nel nono libro delle sue storie (par. 13-19).

     

     
    2. Tito Livio, l’alternativo

     

    Dopo aver raccontato l’umiliazione delle forche caudine, nella seconda guerra sannitica,  Tito Livio passa a parlare della vendetta che i romani si presero nel 315 a Lucera, dove  i sanniti si erano asserragliati con i 600 ostaggi che avevano ottenuto a Caudio. Papirio li sconfigge, libera i prigionieri romani e poi costringe i sanniti all’identico disonore: sfilare disarmati e nudi fra due ali di nemici che li sbeffeggiano e, se osano alzare gli occhi, li colpiscono a morte.

    Lucio Papirio Cursore  era una sorta di Achille piè veloce, come sottolinea il soprannome. Per i suoi concittadini fu l’eroe della riscossa romana. Ancora dopo tre secoli, la soddisfazione per la sua impresa era talmente viva, che Tito Livio si lasciò scappare il  paragone: “Papirio sarebbe stato pari a Alessandro Magno, solo se questi avesse deciso di invadere l’Europa, dopo aver domato l’Asia”. E di lì, l’appetito vien mangiando, si gettò in un autentico racconto controfattuale, perché immaginò un passato diverso,  in cui Alessandro sarebbe venuto in Italia con il suo esercito, e fece sua quella domanda, che – ne sono convinto - molti a Roma si facevano: “Come sarebbe finito lo scontro fra il Grande Macedone e i romani?

    Bella domanda. Mi ricorda certi vecchi bmovies, nei quali si mettevano contro eroi di saghe diverse (Ercole contro Maciste, o Zorro contro D’Artagnan). Appunto: unhistorical shit. Ma Livio faceva sul serio, e decideva l’esito di questa storia alternativa sulla base del confronto analitico delle forze. I romani avrebbero schierato 150mila uomini; Alessandro ne aveva appena poche decine di migliaia, per giunta soldati vecchi e prostrati da un viaggio lunghissimo. I romani potevano mettere in campo contemporaneamente cinque eserciti; Alessandro uno solo. Lui fu il più grande e il più lodato, d’accordo. Ma fu l’unico, mentre i romani ne avevano a bizzeffe, di grandi generali che potevano fargli fronte. Livio li elenca, a partire appunto da quel Papirio Cursore che aveva appena finito di malmenare i sanniti. E, infine, se si fosse azzardato a sbarcare in Italia, Alessandro non avrebbe trovato di fronte a sé un impero di gente rammollita dalle ricchezze, ma una penisola abitata da popoli indomiti. E quelli che non erano già alleati dei romani (aumentando la loro già grande forza), anche se fossero passati dalla parte sua, sarebbero stati indeboliti dalle lunghe guerre contro Roma, come in effetti era accaduto ai sanniti. Tirando le somme, non ci sarebbe stata partita.

    E’ vero, per i romani la storia era opus rhetoricum maximum; l’idea che avevano dei persiani era quella malevola costruita dai greci, e non guasta ricordare che Livio non perde occasione per celebrare l’Urbe. Ma questa volta lo fa con lo stratagemma del passato alternativo, che sviluppa con gusto e applicazione per qualche pagina. Questa soluzione gli permette di elaborare un ragionamento analitico e di giungere a una conclusione motivata. Roma non è soltanto la grande potenza del presente. E’ la potenza più grande mai esistita. Questo giudizio è il frutto di una sorta di esperimento mentale limite: mettere a confronto la forza romana con ciò che, in quel momento, tutti ritenevano il soggetto invicibile per antonomasia. Una sorta di “stress storiografico” che è cosiderato un metodo accettabile, anche da storici avversi alla controfattualità, come Evans.

    Ma c’è un altro dato che lo storico ci insegna. Livio non immagina che Alessandro si confronti con la Roma del I secolo, quella che aveva già sbaragliato qualsiasi rivale nell’area mediterranea. Pone il raffronto nel passato, al tempo delle guerre sannitiche. Ci illustra, con un’evidenza viva,  che già a quel tempo Roma era la potenza più temibile dell’ecumene. Perciò, mentre Alessandro conquistava l’impero persiano, in Europa si era già formata una realtà politica, sociale e militare che gli poteva tenere testa. E questa, certamente, sarebbe una bella scoperta nelle nostre scuole, dove la storia greca e quella romana si insegnano in anni distinti, diffondendo fra gli studenti la convinzione che appartengano a due epoche diverse  e che, al tempo di Alessandro e dei regni ellenistici, Roma era una potenza regionale, “limitata alla penisola”.

     


    In questa ucroniaAlessandro Magno sopravvive alla febbre che lo uccise a Babilonia e consolida il suo impero. Poi, a differenza di quanto ipotizzava Alexander Demandt, storico antichista tedesco, non conquista l’India e non contribuisce perciò a diffondere il buddismo in Occidente; al contrario, i suoi discendenti, scacciati da nomadi asiatici, si rifanno sull’Occidente che conquistano. Nel frattempo, la potenza cartaginese si sviluppa. Lo scontro fra le due superpotenze occidentali avviene, come di prammatica, a Zama, nel 202.

     

     


    3. Lo sviluppo ineguale della didattica controfattuale

     

     

    Le scuole anglosassoni hanno intuito ben presto l’utilità didattica della storia controfattuale. Peregrìn racconta come, fin dal 1969, Wayne Dumas riconoscesse il suo potere “inusualmente stimolante”, la sua capacità di coinvolgere gli allievi in ricerche attive, “a fare qualcosa con la storia”, di mostrare relazioni di causa-effetto, di stabilire relazioni fra passato e presente e di immaginare il futuro. Come si vede, fin dall’inizio fu chiaro e appetibile il quadro dei vantaggi didattici: un complesso di obiettivi che resterà sostanzialmente inalterato nei decenni successivi.

    L’Italia era lì, a ruota. Basti pensare al manuale, scritto da Franco di Tondo e da Giorgio Guadagni (La storia e i suoi problemi, Loescher, Torino 1970),  uno dei più diffusi a quel tempo, che introdusse fra le attività didattiche un esercizio del tipo “Se tu fossi un mercante fenicio…”, un primo e audacissimo, per i tempi, abbozzo di storia empatica. Al principio degli anni ’80 risale “Il gioco della storia”, la mostra itinerante organizzata dal Cidi di Bari, con i primi giochi che sperimentavamo nelle scuole medie e che raccolsi successivamente in Guida al manuale di storia (Editori Riuniti, Roma 1985), fra i quali vi erano dei piccoli esperimenti di storia controfattuale, a partire dalla celebre ipotesi di Erodoto (“E se il Nilo non sfociasse nel Mediterraneo…?”).

    In una ipotesi alternativa della storia scolastica italiana, il nostro paese reggerebbe il passo, se quelli (ed altri) spunti individuali fossero stati sorretti dall’investimento istituzionale, sia nella ricerca teorica, sia nella formazione dei professori, sia nella produzione di materiali di insegnamento. Non essendo accaduto nulla di tutto ciò, la didattica controfattuale (come tanti altri aspetti della formazione professionale del docente di storia) resta una risorsa per minoranze. Induce a queste riflessioni l’articolo di Peregrìn, nel quale si mostra come la Spagna, pur iniziando questo percorso molto più tardi, intorno agli anni ’90, ha messo in campo una nutrita batteria di ricercatori universitari, che in soli due decenni hanno accumulato un’attrezzatura teorica e pratica al servizio del docente, in buona misura disponibile anche online.

    Al di là dell’amarezza per un’ennesima occasione persa, questa vicenda mostra come sia particolarmente ardua, oggi, la questione del ringiovanimento delle pratiche di insegnamento e della formazione culturale dei docenti. Le tecniche didattiche, infatti, superano agevolmente frontiere e arretratezze istituzionali. Irrompono nelle aule senza chiedere permessi. Perciò, non è inconsueto che allievi italiani vengano invitati a calarsi nei panni di un dato personaggio storico, o a ipotizzare esiti diversi di una determinata vicenda studiata nel manuale. Spesso sotto le vesti della “didattica creativa”, frammenti e suggestioni di didattica controfattuale circolano ampiamente nel nostro paese. La domanda è: come vengono usati?


    4. Culture storiche in alternativa

    Ci dobbiamo chiedere se si sia diffusa con la stessa facilità la cultura necessaria per gestire correttamente tali pratiche.  "Once you let the counterfactual genie out of the bag, anything can happen", avverte Evans. Se il genio della controfattualità esce dalla lampada, tutto può succedere. Ecco il primo problema: il professore deve avere la capacità di costruire “campi recintati”, all’interno dei quali gli allievi possano muoversi con libertà, senza combinare troppi pasticci. E questo vuol dire, in partenza, fissare i vincoli storici del gioco controfattuale; nel corso del lavoro, guidare gli allievi lungo ipotesi accettabili, e, alla fine, valutare la congruità degli elaborati. Tutto ciò è possibile soltanto se il professore possiede una buona cultura storica, non solo intorno ai fatti specifici, ma soprattutto sul modo di pensare storicamente.
    Luigi Cajani sottolinea la differenza profonda fra una storiografia cresciuta all’ombra di Benedetto Croce, che promoveva appunto lo slogan “La storia non si fa con i se”, e quella che fa riferimento a una folta schiera di storici, da Toynbee a Braudel. Alexander Demandt, che abbiamo già visto a proposito di Alessandro Magno, è lo studioso che, ricorda ancora Cajani, con più convinzione ha sostenuto la necessità del pensiero ipotetico “per evitare ogni appiattimento deterministico o storicistico, e per rimettere in discussione una serie di luoghi comuni sul peso di questo o quel fattore nello sviluppo degli eventi, soprattutto quando si analizzano le cosiddette fasi di transizione o si valuta l'influenza dei personaggi storici”.
    Sono due modi di pensare storicamente abbastanza antitetici. Perciò, non sarà senza conseguenze – per il corpo docente - l’aver studiato il passato nel suo svolgimento, cercando di capire nessi e documentazione, o, invece, sforzandosi (anche) di pensare le alternative, chiedendosi continuamente “cosa sarebbe successo se…?”. Questo secondo modo non solo sarebbe più corretto, perché più vicino al modo di ragionare dello storico, ma avrebbe l’altro, decisivo, effetto di formare un personale che, essendo abituato a considerare la storia come una ricostruzione ipotetica del passato, sarebbe più preparato a gestire i tentativi di apprendimento degli allievi, e in – nel nostro caso - a guidare i loro ragionamenti controfattuali.


    5. Una visione critica della controfattualità

    Due osservazioni di Evans, tra loro collegate, ci lasciano intuire un secondo problema didattico. La prima riguarda il fatto che una controfattualità non ben elaborata induce l’allievo a costruire relazioni di un determinismo povero e lineare. Si cambia un evento, un fattore, una scelta e “tutta la storia” successiva prende una piega diversa.  La seconda riguarda il fatto che questa nuova traiettoria viene disegnata in funzione di un “desiderio” dell’allievo, spesso un desiderio scolasticamente sollecitato (cambi un fattore e la guerra non scoppia, oppure il debole vince o un sopruso non si compie). Insomma, la storia viene modificata in funzione di un teleologismo altrettanto povero ed elementare.
    A queste condizioni, è evidente che il valore formativo di questa strategia è nullo, dal momento che non viene messo in crisi quell’appiattimento deterministico, denunciato da Demandt, né verranno messi in discussione i luoghi comuni della vulgata storica. Più in generale, proprio perché riformula stereotipi correnti sotto le vesti dell’ “alternatività”, non è da sottovalutare il rischio che questo tipo di controfattualità si presti ad essere facile strumento di un uso “populistico” della storia.


    Questa ucronia ripete il luogo comune della “tenaglia araba” http://www.fmboschetto.it/Utopiaucronia/califfato_d_Italia.htm: i musulmani vincono a Poitiers, poco dopo si impadroniscono di Costantinopoli e dilagano in Europa, che entra - perciò - a far parte della Umma. Franco Cardini ha avuto buon gioco a smontare questa sorta di domino, ricordando che Costantinopoli è realmente caduta in mano musulmana, ma l’Europa è rimasta cristiana. La storiografia, d’altra parte (come racconta qualsiasi manuale), spiega che la vittoria franca non fermò affatto le scorrerie musulmane (come voleva la propaganda carolingia), che continuarono fino a tutto il X secolo.

    Questa controfattualità banale richiama alla mente una delle misconoscenze più diffuse nella storia scolastica tradizionale: quella che riguarda gli “eventi miracolosi”.  Un esempio notissimo è costituito dalla battaglia di Poitiers (732). L’importanza della vittoria di Carlo Martello, infatti, è dimostrata tradizionalmente con un “gioco del se” antichissimo, quanto occulto: “se avessero vinto gli arabi, la storia euromediterranea sarebbe totalmente diversa”. Giuseppe Sergi ha smantellato la connessione rozza, che lega abusivamente una vittoria, decisiva solo per la futura dinastia carolingia, al destino di un continente http://www.nuvole.it/arretrati/numero25/pdf/06e-Sergi-Staffa.pdf .
    Tale è l’ ”evento miracoloso”, così lo definisce Sergi: una vittoria, l’uso della staffa, l’adozione dell’aratro pesante, e la storia cambia il suo corso. Una misconoscenza, appunto, che va combattuta lavorando sulla visione complessa  e problematica del passato: sia nell’insegnamento tradizionale, sia in quello che incorpora tecniche innovative.
    Inserisci qui l’immagine allegata
    Ecco un’altra storia alternativa http://es.althistory.wikia.com/wiki/Poitiers_732?file=Eu_occ_en_747.png più critica della precedente, perché non tiene conto soltanto del punto di vista occidentale, ma di ciò che succede nel campo musulmano. Gli arabi vincono a Poitiers. Carlo viene mandato come ostaggio in Egitto, ma la vittoria è la scintilla che fa esplodere la rivolta berbera, contribuendo a frantumare ulteriormente il mondo musulmano. Le armate della mezzaluna avanzano, comunque, fino a Parigi, la più grande città occidentale (con Roma), dove Pipino, che in questa storia alternativa non ha potuto sfruttare il volano ideologico della vittoria e quindi governa solo una parte del regno franco, riesce a organizzare la resistenza e a respingerle. Da questa vittoria riporta l’epiteto, col quale verrà studiato nelle scuole del mondo parallelo: “Pipino Martello”.

    Il contrasto fra l’irriproducibile complessità della storia e la relativa linearità della vicenda alternativa (come spesso viene immaginata dagli allievi)  è ambivalente. E’ del tutto negativo, se il professore non lo avverte e non apre su questo la discussione, proprio per i motivi che abbiamo appena visto. Al contrario, diventa una risorsa eccellente, se lo scarto può essere messo in evidenza nel corso del debriefing. Questa operazione è facilitata dal fatto che si lavora sulle esperienze degli allievi, che possono essere guidati a ragionare sul problema che nella realtà storica esiste sempre qualche variabile che non è stata presa in considerazione. Il gioco controfattuale, quindi, può diventare l’occasione per una riflessione epistemologica sulla storia, perché riuscirebbe a rendere concreta una tematica che normalmente viene percepita dagli allievi come un’astrazione inafferrabile.
    Ecco, dunque, un secondo buon risultato di questa didattica, da aggiungere alla critica alle visioni stereotipate: affrontare in classe gli aspetti teorici del pensiero storico. Concludendo un report sulle sue esperienze scolastiche, Deborah Vess http://www.jstor.org/stable/494219 dichiara:  “lo sforzo di calarsi nel punto di vista del passato costringe gli studenti ad assumere un ruolo attivo e creativo nello studio della storia, nel quale se la devono vedere con i più sottili problemi della filosofia della storia”


    6. Un profilo professionale moderno

    Un errore diffuso è quello di caricare un dato strumento didattico di ogni sorta di beneficio. Vale anche per la didattica controfattuale. Da sola non darà gli obiettivi che abbiamo citato sopra. Essa fa parte di un complesso di pratiche innovative, il cui scopo comune è quello di avviare l’allievo al “pensare storicamente” (un obiettivo che, è bene chiarirlo ogni volta, non può prescindere dall’acquisizione delle conoscenze storiche). Queste strategie, elaborate nella loro maggioranza nell’ultimo mezzo secolo, disegnano un profilo professionale alquanto diverso da quello che convenzionalmente consideriamo “tradizionale”, e al quale le nostre Università sono legate. Rachel G. Ragland http://www.jstor.org/stable/30036989 , parlando dei cambiamenti dei punti di vista degli insegnanti di secondaria americani,  ne elenca alcune. Le riporto solo a titolo di esempio: la controfattualità è una delle tante strategie. Queste, peraltro, non sono delle novità per il docente italiano, e questo non è nemmeno l’elenco completo delle strategie che, sulla scorta della ricerca didattica attuale, si possono realizzare in classe.
    Il fatto nuovo, probabilmente, è un docente che le consideri normali, e ne faccia un uso quotidiano.
    1. Usare fonti
    2. Analizzare artefatti storici
    3. Mettere in campo attività del “fare storia” (interpretare, presentare una o più cause di eventi, argomentare sulla base di fonti, ecc.)
    4. Ricerche tematiche su materiali vari
    5. Schemi concettuali per organizzare la lettura di materiali diversi
    6. Uso di organizzatori grafici e mappe concettuali
    7. Uso di media e multimedia
    8. Approccio controfattuale
    9. Approcci narrativi
    10. Giochi e giochi di ruolo
    11. Uso di risorse dell’ambiente


    Bibliografia

    Antonio Brusa, Guida al manuale di storia, Editori Riuniti, Roma 1985
    Deborah Vess, Creative Writing and the Historian: An Active Learning Model for Teaching the Craft of History, in “The History Teacher”, Vol. 30, No. 1 (Nov., 1996), pp. 45-53
    Luigi Cajani, Die Zeitmaschine: Anmerkungen zu einem Benutzerhandbuch, in Was Wäre Wenn: Alternativ- und Parallelgeschichte. Brücken zwischen Phantasie und Wirklichkeit, edited by Michael Salewski,  Stuttgart, Steiner, 1999, pp. 54-63
    Luigi Cajani, Immagini del futuro, in "I viaggi di Erodoto", anno 5, numero 13, aprile 1991, pp. 86-98.
    Rachel G. Ragland, Changing Secondary Teachers' Views of Teaching American History, in “The History Teacher”, Vol. 40, No. 2 (Feb., 2007), pp. 219-246
    Giuseppe Sergi, La staffa: invenzione o adozione progressiva?, in “Nuvole”, n. 25, http://www.nuvole.it/arretrati/numero25/pdf/06e-Sergi-Staffa.pdf
    Juliàn Pelegrín, La historia alternativa como herramienta didáctica: una revisión historiográfica, Proyecto CLIO, 36. ISSN: 1139-6237. http://clio.rediris.es
    Juliàn Pelegrìn, Historia contrafàctica y didàctica de la historia, in “Iber”, 78, 2014, pp. 53-69
    Richard J. Evans, Altered Pasts: Counterfactuals in History (The Menahem Stern Jerusalem Lectures), Brandeis 2014

  • Cambiare i programmi? Le buone proposte che possono diventare cattive

    di Antonio Brusa

    1. Una buona idea: aumentiamo le ore di storia.

    Insegnare è difficileInsegnare è difficile

    Delle tre proposte di riforma dell’insegnamento storico, che Mariangela Caprara formula su “il Mulino” di settembre, la seconda è quella da sottoscrivere senza esitazione. Questa: «L’incremento delle ore settimanali di storia, distinta dalla geografia (sul cui insegnamento sarebbe auspicabile una seria riflessione a parte), sempre fino alla conclusione dell’obbligo scolastico, è il secondo passo indispensabile. Un numero di ore adeguato è necessario non già per trasmettere una grande quantità di informazioni/nozioni, ma per consentire lo svolgimento della didattica anche in forma laboratoriale e collegata con le realtà territoriali (musei, biblioteche, archeoclub, associazioni)».

     

    Quante ore in più? Mi accontenterei di tornare agli assetti pre-riforma Moratti: con gli insegnanti di area storico-geografica delle elementari che potevano gestire 9 ore settimanali; gli insegnanti delle medie che usufruivano di quattro ore la settimana, con un “bonus” di 30 ore per quelli di terza, per insegnare Educazione Civica, e con il reintegro degli orari specifici delle superiori. Certamente: ricordo molto bene le lamentele dei colleghi degli anni ’80-’90 (che il tempo non bastava, che il programma era troppo vasto ecc.). Ma i tagli che a quegli orari sono stati operati dal duo Moratti-Gelmini (la prima li ha pensati, la seconda realizzati), sono talmente disastrosi che sarei soddisfatto se tornassimo alle dotazioni di venti anni fa. Si è perso da un terzo a oltre la metà del vecchio curricolo di studi, col trucchetto della geostoria, l’abolizione dei moduli nelle elementari e l’introduzione di un’Educazione alla Cittadinanza che, in qualche istituto, porta la Storia, la Geografia e l’Educazione Civica a materie da un’ora la settimana.

    Scrissi allora che Gelmini, volendo introdurre una nuova disciplina, ne stava eliminando tre. È quello che sta, purtroppo, accadendo.

    Credo che qualsiasi discorso sullo stato della conoscenza storica nelle nostre scuole non possa che transitare da queste forche caudine: avete diminuito le ore. Come potete pensare che l’insegnamento non tenda a peggiorare?

    2. Può andar peggio? Sì

    In realtà, il fondo non è stato raggiunto e possiamo ancora peggiorare. E un potente incentivo a farlo viene involontariamente, proprio dai buoni propositi di alcuni colleghi. Ne è un esempio la prima, delle proposte di Mariangela Caprara. Eccola:

    «Che fare? Innanzitutto, va ripristinato il sistema “a spirale” dell’apprendimento dei contenuti, con la ripetizione di tutto il percorso cronologico dalla preistoria all’età contemporanea in 5 (scuola primaria) + 5 (medie + biennio = assolvimento dell’obbligo scolastico) + 3 anni, tenendo conto del limite attuale dell’obbligo scolastico, ossia i 16 anni».

    Attenzione: non conviene invertire i tempi. PRIMA occorre la certezza della restituzione delle ore; DOPO si può pensare ad una diversa distribuzione della materia. Prendiamo il caso della primaria. Attualmente, la storia generale inizia in quarta (e non in terza, come scrive Caprara) e si completa con la secondaria di primo grado. Se, come si suggerisce, si tornasse al vecchio programma SENZA l’incremento di ore corrispondente, gli insegnanti di primaria dovrebbero svolgere l’intera storia generale, avendo a disposizione una o due ore la settimana (si varia a seconda degli istituti). Se già al tempo della ministra Falcucci (metà degli anni ’80), l’insegnante elementare, pur disponendo di un numero di ore molto maggiore, si lamentava del fatto che non riusciva a “terminare il programma”, in quali condizioni lo metterebbe il compito di lavorare su tutta la storia, con il risicato monte ore di cui dispone oggi?

    3. Il male minore, purtroppo.

    Quindi: INNANZITUTTO, restituite a storia/geografia le ore perse. Poi battaglieremo su che storia insegnare e come insegnarla. Altrimenti, la soluzione che a suo tempo fu elaborata da Moratti, cioè quella di “spalmare” il vecchio programma triennale della media in cinque anni, resta la via d’uscita meno dolorosa. Non conviene invertire i tempi nemmeno per quanto riguarda gli assetti strutturali. Oggi, il grande problema del primo ciclo è la difficoltà di saldare il lavoro dei maestri con quello dei professori. È denunciato da molti, ma si fa poco per suggerire proposte (e realizzarle). Eppure, nella maggior parte dei casi, entrambi lavorano nel medesimo istituto comprensivo. Nella proposta di Caprara, di un ciclo composto da medie+biennio (perdonatemi le vecchie definizioni, ma sono enormemente più veloci), si pensa che il collegamento fra i due gradi, corrispondenti a istituti che spesso non hanno nulla in comune, sia più facile?

    Probabilmente, la collega Caprara, pur insegnando in un Liceo Classico, non ha presente la realtà degli insegnanti del biennio, che si trovano una classe composta da allievi che provengono da istituti i più disparati. Come faranno, quei docenti, ad “agganciarsi” all’insegnamento precedente, se non a partire da una “comprensivizzazione” (passatemi il termine) di media e biennio? E quando questa venisse prospettata, quale sarebbe il destino del liceo classico?

    È il caso di ricordare che il timore di mettere mano all’assetto quinquennale della secondaria superiore è di quelli che immediatamente fanno scattare proteste corali, guidate spesso proprio dai sostenitori del Liceo Classico.

    4. La terza proposta di Caprara

    «Il terzo passo è il più difficile, perché è il più rivoluzionario: affidare l’insegnamento della storia esclusivamente a laureati in storia, chiudendo così la stagione, non proprio felice, della storia insegnata insieme all’italiano e alla filosofia da laureati in discipline non storiche, sia alle medie sia alle superiori».

    Si tratta di una delle richieste più antiche dei colleghi storici, e la questione di apparentamenti disciplinari che penalizzano la Storia è un topos di quasi tutti gli interventi didattici del dopoguerra.

    Confesso che, quando facevo parte della Commissione De Mauro, e vi si ragionava di un’area geo-storico-sociale, pensai realmente che fossimo vicini alla soluzione di questo annoso problema. Forse sognavo: due ore di storia, due di geografia e una di scienze sociali/educazione civica. Cinque ore la settimana lungo tutto il curricolo. Ne viene una cattedra che sta su tre/quattro classi. Gestibile dal docente, che si avvantaggia di una “presenza” in aula significativa e rispettata dall’allievo.

    Erano tempi nei quali si poteva pensare anche ad una formazione coerente tra i vari gradi di scolarità. Infatti, ne parlai con i colleghi della mia Facoltà e in poco tempo varammo un corso di laurea in Storia e Scienze Sociali. In tante altre Facoltà non si pensò diversamente. Certamente, non si trattava del professore di “sola storia”. Ma la compagnia delle scienze sociali e della geografia è indubbiamente più consona al nostro mestiere di quella, pur rispettabile, dei letterati e dei filosofi.

    StoriaStoria

    Finì come sapete. O forse no. Forse tutti conoscono le traversie universitarie, il crollo dei corsi di laurea. Ma non è altrettanto noto che ci sono istituti scolastici nei quali un insegnante combina nella sua cattedra nove ore di geografia, o nove di educazione alla cittadinanza in nove classi diverse. 270 allievi: di che qualità dell’insegnamento possiamo parlare?

    Né è più appagante la cattedra di chi entra in classe per due ore la settimana. Il fatto è che, con l’autonomia, di insegnanti di “sola storia” ce ne sono già in giro, e non sembrano gli insegnanti più felici del mondo. Chi insegna, sa quanto “vale” agli occhi del discente un insegnante da un’ora/due la settimana, per quanto questi possa essere uno “specialista della disciplina”.

    Conti della serva, conti penosi. È vero. Ma se non li teniamo presenti, rischiamo di produrre degli specialisti condannati a essere professori ben oltre l’orlo della crisi di nervi.

    5. Tempi di riforma

    Si avvicinano i tempi della riforma dei programmi. Non so se questo è stato il motivo che ha sollecitato «Il Mulino» a pubblicare l’articolo di Caprara (che peraltro interviene frequentemente sia questa rivista, sia sul blog Le parole e le cose, molto attento alle questioni scolastiche). Ma sono abbastanza sicuro che, non appena si cominceranno a conoscere i risultati dei lavori delle Commissioni, che credo già all’opera, a questo articolo (e a qualcun altro che nel frattempo è già apparso) ne seguiranno degli altri.

    Spero che la discussione pubblica non perda di vista il contesto nel quale le riforme si debbono realizzare, e lasci perdere principi astratti, per nulla supportati da riscontri scientifici (come la pretesa superiorità dell’insegnamento ciclico a spirale). Per quanto mi riguarda, non ho nulla contro l’idea di fare del blocco media+biennio il cuore del curricolo verticale di storia, che credo di essere stato il primo a formulare in Italia alla fine degli anni ’90 (quando ne scrissi, i burocrati del Ministero inventarono, per descriverla, il termine “scavalco”, fortunatamente andato in disuso).

    Ma perché questa riforma sia fattibile, occorrono altre condizioni. Allora, con il primo governo Prodi, pensammo che si potessero ottenere. Ci eravamo sbagliati. Ma possiamo ritenere da quegli errori la consapevolezza che mettere in atto un dispositivo formativo verticale, senza avere la garanzia di precisi collegamenti fra i gradi scolastici che lo debbono mettere in pratica, non sia un’operazione saggia.

    Se si volesse andare indietro negli anni, e cercare che cosa non ha funzionato, alcuni elementi balzano agli occhi con evidenza tale, da non poter essere trascurati. Il primo è la mancanza di aggiornamento sui programmi della scuola di base, pur essendosi questi auto-presentati come innovativi. Il fondo che ha finanziato, per esempio, l’aggiornamento del programma Profumo è stato così irrisorio da giustificare la diffusa ignoranza del dettato legislativo. Ne è una prova autorevole la stessa Caprara che non sa che la storia generale inizia in quarta, che non sa che NON è per nulla suggerito di studiare i dinosauri in terza (come aveva invece prescritto la Moratti) e che le attività propedeutiche del primo triennio elementare devono avere precisi caratteri storici (quindi vi si può proporre lo studio della storia, anche contemporanea). Ma la prova più evidente di questa disattenzione generale è che i manuali sono costruiti in omaggio a un senso comune diffusissimo nelle scuole, che è appunto quello di una terza elementare concepita come un kindergarten della preistoria.

    Il secondo è che i programmi che attualmente sono in vigore nella secondaria superiore, a differenza della scuola di base, si presentano come restaurativi. Riprendono, a volte quasi alla lettera come per la parte Medievale, le indicazioni dei programmi del 1960. Programmi allora innovativi, oggi nati vecchi di mezzo secolo.

    Questi fatti (insisto: fatti) presentano al legislatore due problemi. Il primo è quello di armonizzare un curricolo discontinuo. Deve decidere, e deve affrontare su una base chiara il confronto con la scuola. Il secondo è che (vuoi per la mancanza di aggiornamento disciplinare nella scuola di base, vuoi per la volontà politica nelle superiori), lo zoccolo duro dell’insegnamento storico italiano è ancora quello tradizionale. Se si vuole cambiare per migliorare le cose, è lì che bisogna agire.

     

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  • Cinque competenze per evitare un naufragio

    Autore: Antonio Brusa


    Il Mediterraneo e il Laboratorio del Tempo presente.

    Indice
    Introduzione: Naufragi didattici
    Competenza n.1:  Mettere in prospettiva storica
    Competenza n. 2: Usare i concetti storici in modo appropriato
    Competenza n.3:  Contestualizzare
    Competenza n. 4: Comprendere la complessità dei fatti storici
    Competenza n. 5: Comprendere i processi storici
    Il laboratorio del tempo presente


    Introduzione
    Naufragi didattici

    Tanti rischi di naufragio, quando si progetta di trasformare il Mediterraneo odierno in un oggetto di studio storico. Il primo riguarda proprio l’oggetto “Mediterraneo contemporaneo”.  Ormai tutti ci hanno fatto l’abitudine. Fino al 1500, il Mediterraneo è al centro della storia insegnata. Greci, romani, medioevo, Repubbliche marinare, Venezia e i turchi. Fino a Lepanto. E’ comprensibile che, stressata da tanto navigare, la storia se ne fugga verso Nord. E tutti noi, appresso a lei, cominciamo a parlare in classe di Inghilterra, Francia e Germania. Il Novecento?  Storia europea e mondiale. L’Italia giusto perché viviamo qui. Ma che la nostra sia la penisola centrale del Grande Mare (come dicevano i romani, perché Mare Nostrum è un’invenzione post risorgimentale) è un fatto solo geografico. Il buon Metternich, alla lunga, ha convinto anche noi.

    Il secondo naufragio nasce per opposizione a questo occultamento. E’ la vendetta della “storia molto contemporanea”, quella che dai media si riversa direttamente nelle nostre coscienze: gli sbarchi dei migranti, le rivolte arabe, le guerre e gli ammazzamenti quotidiani, per non parlare delle questioni dell’inquinamento e dello sfruttamento delle risorse marine. Dal tempo della Rivoluzione dei Gelsomini, Tunisia 2010, il Mediterraneo occupa stabilmente le prime pagine. Ne vorremmo parlare in classe. Ma come trasformare questa valanga di notizie in un “oggetto insegnabile”?

    In senso più largo, poi, il naufragio può riguardare quel progetto, contemplato dai programmi in vigore nella scuola di base, ma perfettamente realizzabile in quello delle superiori, che potremmo chiamare Laboratorio del Tempo presente, uno strumento ideale proprio per rispondere alla domanda di sopra. E’ possibile costruire un laboratorio siffatto? Con quali contenuti e con quali operazioni verrà riempito? E quando programmarlo? Solo nei due anni terminali dei cicli, cioé in terza media o in quinta superiore? E la primaria? Continuerà a lamentarsi di essere stata espropriata dal mondo contemporaneo?

     In una accezione ancora più estesa, un naufragio inevitabile attende  sfortunatamente quei docenti che sono alle prese con le liste infinite di competenze, alle quali il Miur e le Direzioni Regionali sacrificano i pochissimi soldi dell’aggiornamento. Se quegli insegnanti temono di impazzire in un lavoro inutile,  e vorrebbero riportare tutto alla concretezza della storia, questo scritto – che riassume le lezioni e i lavori della Summer School Mediterraneo contemporaneo, organizzata a Venezia 2014 dall’Insmli - è per loro.


    Competenza n.1

    Mettere in prospettiva storica

    Tutti noi percepiamo naturalmente (dotate questo avverbio di tutte le virgolette che ci vogliono) una dimensione temporale dei fatti che conosciamo. Risparmiatemi le citazioni, di Nietzche, Foucault e di tanti altri, che ci hanno insegnato come qualsiasi cosa, nella nostra società, è circondata da una sorta di “alone di storia”. A volte, questo è come una pellicola sottilissima. Quasi impercettibile. Ci spinge a sentenziare che quel dato fenomeno  “è appiattito sul presente”. Un esempio di tutti i giorni: il contrasto fra mondo occidentale e Islam, a proposito della separazione fra il potere secolare e quello religioso. Da noi le due sfere sono separate (più o meno bene); da loro, invece, si sovrappongono. Oppure, il diverso modo di concepire la donna: garantita dai diritti nel mondo occidentale, priva di diritti in quello islamico. Che profondità storica vediamo in queste due differenze? Nessuna. L’Islam è così.  E’ tale da sempre. Come il mondo occidentale. Diversi per natura.

    Tre stereotipi temporali

    Ma ecco un esempio opposto: la lacerazione del Mediterraneo fra mondo cristiano e mondo islamico. Il Nord e il Sud. Qui una profondità storica si vede. Perlomeno, chi sa che gli Arabi un giorno, tanto tempo fa, invasero il Mediterraneo, sa pure che in quel momento il mare si divise in due. E chi ne sa qualcosa in più, riesce a dire che questa spartizione avvenne fra VII e VIII secolo. Chi ne sa molto di più, aggiungerà che, in effetti, si tratta della famosa Tesi di Pirenne, lo studioso belga che – un po’ prima della seconda guerra mondiale  –  stabilì che con l’arrivo degli Arabi finì il lungo periodo di unità del Mediterraneo, garantita dall’impero romano, ma costruitasi lentamente con i traffici di uomini, cose e idee di Greci e Fenici. Nel VII secolo il Sud prese una sua strada, allontanandosi verso Est, mentre il Nord si ritirò sempre di più verso il Settentrione dell’Europa. Nacquero, così, il Medioevo e l’Età moderna e – nella lotta acerrima contro l’Islam – si temprò la civiltà cristiana (qui potete leggere l’edizione originale di Maometto e Carlo Magno).

    Sono stereotipi, dobbiamo sottolineare con forza, dando a questo termine il significato di conoscenza diffusa e condivisa al punto tale da non essere più messa in discussione.

    “A regola d’arte”, o il mestiere di storico

    I primi due sono stereotipi del quotidiano. Non c’è bisogno di aver studiato, per essere convinti che le cose stanno in un certo modo. Il terzo no. E’ uno stereotipo colto (per questo lo ritroviamo nella manualistica). Deriva da una conoscenza nata in ambito accademico e di lì diffusa nella società, al punto tale da essere considerata una realtà indiscutibile, per quanto da oltre mezzo secolo sia stata smentita e dichiarata in larga misura inattendibile.

    Questi stereotipi permettono ad un soggetto qualsiasi, dunque anche ad un nostro allievo, di mettere in prospettiva temporale cose e problemi. Nel nostro caso presiedono al nostro modo di guardare a ciò che accade nella riva Sud del Mediterraneo. Cos’è - allora - la “competenza storica”? Direi che la competenza esiste quando facciamo l’identica operazione (mettere in prospettiva temporale qualcosa), ma la facciamo “a regola d’arte”.

    Questa espressione è tipica di alcune professioni, come quelle del piastrellista o dell’idraulico, che - per quanto pagate profumatamente - sono relegate nel comparto dei “lavori manuali”. Ma se ciò vi appare uno svilimento del ragionamento storico, ricordate il celebre manuale di metodologia, scritto da Marc Bloch, che aveva come sottotitolo “il mestiere di storico”. Il lavoro storico ha una certa sua “artigianalità”. Mi sembra, perciò, straordinariamente bello chiamare in causa il più grande storico del secolo scorso, per precisare un termine pedagogico così inflazionato, e proprio per questo pericoloso. Diremo perciò che quando lo fa a regola d’arte, allora uno possiede (in gradi diversi) la competenza “Mettere in prospettiva storica”.

    Cosa occorre per possedere una competenza storica

    Ma che vuol dire, nel nostro caso, “a regola d’arte”? Ahimè: qui non si sfugge allo studio e alle tanto vituperate “nozioni”. Occorre possedere qualche conoscenza storica precisa. Riprendiamo i nostri esempi.

    Nel primo caso, quello della separazione dei poteri, può essere sufficiente sapere, e rifletterci su, che in Italia la difesa del potere temporale da parte della Chiesa caratterizzò tutta la prima parte della storia unitaria, fino al 1929, quando il Fascismo riuscì a trovare un accordo di delimitazione dei campi (molti direbbero che, a guardar bene, questa separazione è abbastanza difettosa).

    Nel secondo caso, quello dei diritti delle donne, può essere sufficiente sapere che la Costituzione, che Habib Bourghiba promulgò nel 1959, attribuiva alle donne tunisine la facoltà di divorziare e  decretò la potestà parentale, mentre nell’Italia “dei diritti”, si dovette attendere il 1974 per il divorzio, e solo con il nuovo codice della famiglia, dell’anno successivo, la “patria potestà” venne sostituita con la parità dei poteri genitoriali (potestà parentale). E’ ben vero che il partito islamista, giunto recentemente al potere, ha promulgato una nuova Costituzione: ma le donne hanno difeso coi denti le loro conquiste e quella parità, che in quello stato musulmano godono da un tempo più lungo che da noi.

    Nel terzo caso, quello della divisione del Mediterraneo, occorre fare qualche ragionamento e un po’ di studio in più, che portino alla consapevolezza che questa divisione – nelle forme che conosciamo e che ci preoccupano tanto - fu una delle conseguenze traumatiche del processo di colonizzazione, e non dell’arrivo degli arabi nel Medioevo. La colonizzazione (come vedremo meglio subito) è un lungo processo, che interessò la vicenda mediterranea dal 1830 al 1983. Fu proprio durante questo lasso di tempo  che si aprì un solco lacerante tra la riva dell’Occidente cristiano e laico – la sponda dei dominatori - e quella islamica -  la terra dei dominati - gente inferiore, da sfruttare e da educare alla civiltà. Nei secoli precedenti, nonostante guerre e piraterie di ogni sorta, le due rive si erano guardate con un salutare rispetto, pur desiderando l’una le ricchezze dell’altra. Solo negli ultimi due secoli, dunque,  la riva Nord cominciò a considerarsi “naturalmente” superiore all’altra, che venne pensata come “naturalmente” diversa.

    Potremmo dire, per concludere con una nota storiografica, che Pirenne dette dignità scientifica al senso comune nato nell’Europa coloniale, quello della differenza sostanziale fra le due sponde, inaugurando perciò un errore di prospettiva storica. Retrodatava al passato medievale quello che era in realtà un fenomeno recente.

    Sapere non basta

    Ovviamente, non basta “possedere una determinata conoscenza storica”. Ad esempio “sapere che Pirenne scrisse Maometto e Carlomagno nel 1937”, o “che la Costituzione tunisina fu promulgata nel  1959” non è sufficiente per raggiungere la nostra competenza. Occorre – come abbiamo visto - accostare questa conoscenza a un certo fatto e a una certa affermazione, e ricavarne le conseguenze opportune.  Se è vero che la divisione traumatica del Mediterraneo è così recente, allora dobbiamo ritenere falsi quei ragionamenti e quelle convinzioni che fanno risalire alcuni aspetti della realtà attuale a tempi immemorabili, a crociate sanguinose e a scorrerie di schiavisti, quando non alla “essenza” di una determinata religione. La prospettiva storica ci aiuta a capire che questa opposizione insanabile – fra Nord e Sud – ha cause che devono cercarsi in qualcosa che sta vicino a noi, e non a remotissime, e dunque inattaccabili, tradizioni.

    Al fondo di nuovi ragionamenti, ai quali la conoscenza della storia ci può condurre, c’è una distinzione fondamentale fra la “forma” che i concetti, i giudizi, i punti di vista assumono nell’uso comune, e quella alla quale il ragionamento scientifico ci deve abituare. Nel discorso storico diffuso, infatti, si è portati a “essenzializzare”. Con questo termine si intende quel modo di considerare cose astratte o immateriali (come una cultura, una religione, un modo di pensare ecc) come degli oggetti fisici, solidi. Dunque immutabili. Se, invece, riusciamo a mettere questi oggetti in prospettiva storica, siamo portati a “relativizzarli”. Con questo termine non si allude affatto a frasi come “perdita di certezze”, oppure “tutte le cose hanno lo stesso valore” (anche in questo caso si tratta di accezioni di senso comune dalle quali occorre liberarsi). “Relativizzare” significa, invece, capire che le cose della storia hanno cause individuabili, nascono e vivono in contesti riconoscibili, che sono anch’essi mutevoli nel tempo. Sono, per dirla in un linguaggio – questa volta comune sia alla scienza sia al quotidiano – un “prodotto degli uomini”. Sono costrutti sociali passibili di cambiamenti.


    Competenza n.2
    Usare i concetti storici in modo appropriato

    Il ragionamento per questa nuova competenza è identico. Nel linguaggio comune usiamo continuamente dei concetti storici. La competenza è saperli usare “a regola d’arte”, cioè in modo appropriato (come giustamente dicono i programmi).

    Per capire che cosa tutto ciò voglia dire, concentriamoci su un paio di termini che abbiamo già citato: Colonizzazione e il suo opposto Decolonizzazione.

    Il significato comune di colonizzazione

    Nel discorso quotidiano, colonizzazione è usato in due accezioni:

    - Un significato largo, metaforico. E’ una qualsivoglia dipendenza da un soggetto esterno. Economica, mentale, culturale, politica. Un soggetto prevale su un altro? Lo sta “colonizzando”. E’ sufficiente, dunque, una qualsiasi asimmetria in un rapporto perché noi ci si senta legittimati a usare questa parola.

    - Un significato soggettivo. “Io mi sento colonizzato”. Sean Connery, per quanto viva nella ricca Scozia e non abbia nessun motivo per lamentarsi, si sente colonizzato dall’Inghilterra (non farò esempi più casalinghi, per quanto ugualmente calzanti). Magari, guardando dall’esterno, uno gli potrebbe dire che non è così vero. Ma è un fatto che lui sia convinto di questa asimmetria dei rapporti.

    L’accezione scientifica di colonizzazione

    Nel linguaggio scientifico, il termine ha un uso assai più circoscritto: colonizzazione è il dominio esterno su un determinato territorio.

    In realtà, la storiografia ci obbliga a distinzioni  un po’ più raffinate. Per esempio, ci mette in guardia sul termine “colonia”, che noi adoperiamo, senza pensarci su troppo, per la storia greca, quella romana e quella moderno-contemporanea. In ognuno di questi contesti il termine designa fenomeni diversi. Nel mondo greco, è la fondazione della apoikìa, la “casa lontana”, la reduplicazione della “città madre”, la metròpolis. Nel mondo romano è prima un insediamento agricolo in terre conquistate e poi una città. A partire dal 1400, con l’avvio dell’impero portoghese, è la conquista di un territorio (che lo si metta a coltura o no poco importa, e naturalmente, senza la minima voglia di reduplicare Lisbona in terra straniera).

    Analogamente, occorre fare attenzione al termine correlato – Impero. Gli imperi coloniali sono molto diversi da quello romano. Metterli tutti nello stesso calderone (addirittura con quello di Carlo Magno) non aiuta molto a capire. Basti un solo esempio per consigliare prudenza: nel 248 d.C, un imperatore di origine araba e dal nome greco, Filippo, celebrò i Ludi del Millenario di Roma. Trovatemi un nativo africano, sudamericano, o indiano, che abbiano rivestito per un solo giorno l’ermellino imperiale in Portogallo, Spagna o Inghilterra.

    Un’eventualità impossibile, anche solo a pensarla. E, per quanto riguarda l’Italia, ci viene da sorridere al pensiero che Mussolini non si rese affatto conto che il suo progetto di rimettere in vita l’impero romano avrebbe aperto un giorno le porte del Quirinale a un negus etiopico o a uno sceicco libico.

    Decolonizzazione

    Si dirà: la solita meticolosità dei ricercatori. Che non sia così, lo apprendiamo osservando l’opposto di colonizzazione. Decolonizzazione. Per chi ne conosce solo l’accezione comune, questo termine non può che voler dire “liberazione”. Il colonizzato è uno schiavo. Il decolonizzato è uno libero. Non è così per lo storico: la decolonizzazione si avvera quando “si crea uno stato indipendente”.

    Una bella differenza, che apre scenari nuovi di comprensione e ci aiuta a evitare gli equivoci. Un esempio che riguarda il Mediterraneo. Presentare la lotta per la decolonizzazione come “lotta per la libertà” è in stridente contrasto con il fatto che quella lotta portò – nel Mediterraneo - alla costituzione di stati autoritari o dittatoriali (con la sola eccezione del Libano). Certamente: nel corso del processo indipendentista, la lotta viene sempre propagandata come “guerra per la libertà”. Ne sappiamo qualcosa noi, avvezzi a studiare la retorica risorgimentale. Ma in sostanza, questa punta alla nascita di uno stato, che potrà essere democratico o autoritario. Ma ciò avverrà non in ragione della “decolonizzazione”, quanto per altri motivi (chi vorrà, potrà metterli a fuoco comparando le vicende mediterranee con quanto accadde nelle colonie latino-americane, o in quelle inglesi).


    Le competenze non sono isolate

    Poiché gli equivoci didattici sono sempre dietro l’angolo, immagino che qualche lettore stia già pensando che tutto si risolverebbe facendo studiare le definizioni precise dei termini storici, come vuole una pratica antica, spesso ricorrente. Purtroppo questa fatica servirebbe a poco, se gli allievi non li sapessero usare in modo appropriato. Non sarebbe una “competenza”.

    Un modo sorprendente di uso – insieme storiografico e didattico – è quello di intrecciare questa con la competenza cronologica. In pratica, se “applichiamo il concetto al tempo”, vediamo che “colonizzazione/decolonizzazione” sono due termini che “creano un tempo”. La colonizzazione ritaglia, nella cronologia europea e mondiale, un tempo lunghissimo, che va dal 1415, data in cui i portoghesi cominciarono a lanciarsi alla conquista delle terre africane, per aggirare i domini musulmani, fino al 1984, quando, con la restituzione alla Cina di Hong Kong, si ritiene generalmente conclusa la fase del dominio europeo del mondo.

    Se poi applichiamo lo stesso procedimento alla cronologia mediterranea, vediamo che il tempo della colonizzazione si sposta in avanti, verso i nostri giorni, perché inizia nel 1830, con l’avvio della conquista algerina da parte della Francia.

    Analogo fenomeno succede adoperando come strumento di periodizzazione il concetto di decolonizzazione. Vedremo che nel mondo questa comincia a metà Ottocento, con le guerre delle colonie sudamericane contro il dominio spagnolo, mentre nel Mediterraneo si avvia solo molto tardi, dopo la seconda guerra mondiale.

    Alcune conseguenze didattiche

    Il processo di colonizzazione, dunque, è un periodo lunghissimo, di circa mezzo millennio. Il che vuol dire che presenta molte diversità. Un conto è la colonizzazione ai suoi esordi, un conto nei tempi successivi. La violenza della primissima colonizzazione non è per nulla comparabile a quella successiva. Il Mediterraneo ha avuto la “fortuna” (qui le virgolette ci vogliono) di essere colonizzato tardi: pensate se la conquista algerina o quella libica avessero prodotto una catastrofe demografica simile a quella che seguì le imprese di Cortez e di Pizzarro. Allo stesso modo, anche la decolonizzazione propone situazioni diverse. Un conto è creare uno stato indipendente nell’Ottocento, quando la forma di governo statale appariva vincente; un altro conto riuscire a crearlo nel secondo dopoguerra, se non addirittura dopo la fine della guerra fredda, al tempo del declino dello stato nazionale.

    Di questo lungo processo, quindi, il Mediterraneo vive la parte finale. Per quasi tutto l’Ottocento, solo una parte del Maghreb è colonizzata dalla Francia. E’ a partire dal Novecento che inizia la grande divisione del mare. Comincia l’Italia, aggredendo la Libia. Poi, con il crollo dell’impero turco, ci si lancia alla conquista delle sue terre. Inghilterra e Francia fanno la parte del leone, mettendo le mani sul Vicino oriente, dalla Persia fino all’Egitto. All’Italia toccano le briciole di una vittoria che le apparve mutilata. Solo la Turchia riuscì a salvarsi dall’avidità dei vincitori europei. La colonizzazione della riva sud è un fatto recentissimo, così come le guerre o le lotte per acquistare l’indipendenza. Noi – specialmente in Italia – abbiamo rimosso tutto: ma come possiamo pensare che nel Sud questo fenomeno sia stato dimenticato?

    Queste avvertenze ci aiutano a rivedere a diffusi, giudizi cristallizzati. Ci dicono che ciò che è importante capire, in questi processi così lunghi, è proprio la loro profondità temporale. Non si tratta di fenomeni puntuali, dei quali è sufficiente stabilire una data di conquista o quella dell’indipendenza. In tempi così lunghi, si creano abitudini, si mescolano culture e genti, si sedimentano odi e passioni, che diventa difficile dimenticare o sradicare. E, per converso, alcuni fenomeni (la colonizzazione del Mediterraneo) sono così recenti che non è pensabile che non pesino ancora sui fatti della contemporaneità.

    Una pratica insegnante da rivedere

    C’è, in questa dimensione temporale lunga, anche un invito a rivedere delle pratiche insegnanti. Stando ai programmi, ciò che accade al principio del XV secolo si insegna in prima media o in prima superiore. La fine del Novecento, invece, è argomento dell’anno terminale. E’ legittimo chiedersi in che modo l’allievo riuscirà a “tenere insieme” in un unico racconto mentale fatti e problemi che apprende separatamente, a anni di distanza. Noi smembriamo in decine di pezzi il processo della colonizzazione/decolonizzazione, poi pretendiamo che gli allievi lo comprendano.
    Facciamo il conto delle conoscenze scolastiche relative a questo processo e proviamo a situarle in una programmazione standard. Si parte in prima (o in terza superiore) con le imprese portoghesi, segue la conquista dell’America. L’anno successivo, spieghiamo le vicende delle compagnie olandesi e inglesi. Non dovrebbero mancare la Guerra dei sette anni e il trattato di Parigi del 1767, con il quale Francia e Inghilterra cominciarono a spartirsi il pianeta e la tratta degli schiavi. Finalmente, all’inizio dell’Ottocento, si da il via alla conquista della riva sud del Mediterraneo, con l’assalto al mondo delle potenze europee, sancito dalla Conferenza di Berlino del 1884. Il Novecento (siamo arrivati all’ultimo anno) si apre con la conquista della Libia da parte dell’Italia, e – dopo la prima guerra mondiale –  continua con la definitiva colonizzazione del Mediterraneo. Infine, se ci rimane tempo, inseriamo una rapida trattazione del periodo della decolonizzazione successiva alla seconda guerra mondiale.
    Se, come diciamo ad ogni occasione, il presente è frutto di lunghe sedimentazioni, è evidente che questa pratica insegnante è un ostacolo insormontabile per la sua comprensione.


    Competenza n.3
    Contestualizzare

    Ogni oggetto storico è immerso in una rete spazio-temporale molto complessa.  Esso è “contestualizzato”. La contestualizzazione, però, non si vede. Occorre ricostruirla mentalmente. Per questo è una competenza: “saper contestualizzare”.

    Proviamola su un problema attuale: le donne velate. Negli anni ’60,  il cosiddetto “svelamento” ebbe il valore di “liberazione delle donne”. Ma in determinati regimi dittatoriali, quando lo svelamento venne imposto, molte donne, anche laiche, decisero di velarsi – proprio per manifestare la ribellione contro un sopruso. Dopo l’attentato delle Torri gemelle, in molte parti del mondo le donne  musulmane, sentendo la loro religione messa ingiustamente sotto accusa, hanno preso a velarsi in segno di orgoglio e di difesa della propria identità. Insomma: nel senso comune occidentale le donne musulmane velate significano unicamente oppressione femminile. L’analisi storica ci obbliga a diversificare questo giudizio. In certe occasioni è vero. In altre, paradossalmente, è esattamente il contrario. Per distinguere e capire, occorre “saper contestualizzare”.

    Un altro esempio, questa volta di storia generale. Noi contestualizziamo la Prima guerra mondiale generalmente in uno spazio-tempo settentrionale: gli Alleati (Francia e Inghilterra, con l’Italia a rimorchio), combattono contro le potenze centrali dell’Europa: Austria e Germania. E’ proprio così? Al momento della guerra, la Germania ha da tempo stabilito un filo diretto con la Turchia e l’Austria è ancora una realtà balcanica. La guerra, infine, scoppia nei Balcani, cioè in una penisola mediterranea.

    E’ la guerra delle trincee. Giusto. Ma si combatte anche nel mare. L’Adriatico è un fronte caldissimo: tanto è vero che il giorno dopo l’entrata in guerra dell’Italia, gli austriaci non persero tempo a bombardare le coste pugliesi. E uno dei primi caduti fu un povero ragazzo di Bari, centrato da una bomba lasciata cadere da un aereo, partito dalle coste montenegrine (questa storia è raccontata da Sergio Chiaffarata nel prossimo numero di “Mundus”).

    Sulle coste turche, a Gallipoli, si combatte una delle battaglie più sanguinose della seconda guerra mondiale. Vede fronteggiarsi i turchi, guidati da Mostafà Kemal, e decine di migliaia di ragazzi neozelandesi e australiani, mandati al macello da insipienti generali inglesi. Quella vittoria fu per Kemal il trampolino di lancio, per conquistare il potere e creare la Repubblica turca. Nell’altra parte del mondo, Australia e Nuova Zelanda, hanno fondato su quell’eccidio di giovani vite le basi della loro identità nazionale.

    Fra le conseguenze più rilevanti della guerra c’è la distruzione dell’impero turco. L’ assetto del mare, raggiunto nel lontano XVI secolo, si sconvolge in pochi anni. Francia e Inghilterra si accaparrano le spoglie imperiali e pongono le basi, con la loro dissennata politica spartitoria, della odierna catastrofe mediorientale.  E’ con la guerra che il Mediterraneo diventa un mare interamente colonizzato.

    Tutto questo si vede molto bene, a patto di contestualizzare l’evento guerra in uno spazio-tempo centro-meridionale.  Questo nuovo contesto pone le basi per mettere in prospettiva storica gli eventi dell’oggi. Se, invece,  come siamo abituati a fare, ci irrigidiamo in una contestualizzazione centro-settentrionale, i fatti del Vicino Oriente tenderanno ad apparire fastidiosamente inspiegabili. Motivati magari da una connaturata propensione alla violenza di quelle popolazioni.


    Competenza n. 4
    Riconoscere la complessità storica dei fatti

    Un fatto storico è una specie di cellula: se lo guardiamo al microscopio si rivela un sistema di innumerevoli componenti intrecciate fra di loro. E questo sia se si tratti di un fatto macro, come una guerra o una crisi mondiale, sia che si tratti della biografia di un individuo o di un evento minimo di storia locale. I fatti si presentano apparentemente come “cose solide”. Fa parte essenziale della formazione storica insegnare agli allievi che occorre analizzarli, per riconoscere la loro complessità.

    Fernand Braudel ci ha insegnato che ogni fatto storico risulta dalla sedimentazione di tanti tempi. Per spiegarle questo concetto, ha usato una metafora celebre, quanto mai pertinente in tema di Mediterraneo: i fatti sono come il mare. In profondità ci sono le acque quasi immobili, poi le lente correnti marine e in superficie le onde.

    E’ un modello di analisi facile, un buon avvio per insegnare a leggere la complessità dei fatti mediterranei.  Uno dei miei primi esperimenti con i ragazzi riguardò la battaglia di Lepanto. Invitavo gli allievi a scomporla in tanti elementi, servendomi di un’immagine: le navi, le vele, i remi, i cannoni, le bandiere con le insegne religiose.  Ognuno di questi elementi ha un suo tempo, che non è difficile stabilire. A questo punto invitavo gli allievi a costruire una “piramide dei tempi”: in basso i tempi più antichi (la navigazione e le vele); poi quelli intermedi: le religioni; poi quella della costituzione dei soggetti che combattevano (Impero turco, Venezia, Malta, Regno di Napoli,ecc.); infine quelli delle armi.

    E’ una pratica didattica molto semplice, che si basa su tre operazioni: la prima di analisi (scomporre l’evento nella maggior parte di elementi che si riesce); la seconda di datazione degli elementi trovati (approssimata, o precisa a seconda delle possibilità); la terza di costruzione di uno schema cronologico (una infografica, diremmo oggi). Il risultato è, da una parte, una sorta di “impronta cronologica” dell’evento. La chiamo così, perché ogni evento ha una sua impronta particolare. La seconda è un avvio alla percezione della complessità del fatto storico.


    Competenza n. 5
    Comprendere i processi

    Il tempo storico non è una linea. La pratica sempre più diffusa delle “rette cronologiche” tende a consolidare la confusione fra il tempo storico e la cronologia. Credo che la “piramide dei tempi”, vista sopra, sia un cronogramma molto più ricco e vicino all’analisi storica, di una retta diritta e sottile. 

    I tempi storici più interessanti riguardano i processi. Potremmo definirli, al termine di questa carrellata sulle competenze, con una semplice formula:

    Contestualizzazione + Complessità + Prospettiva storica = processo

    Nella mentalità diffusa il tempo storico è come una serie di biglie, una colpisce l’altra muovendo dal passato verso il futuro. Nell’analisi storica, il processo è il fluire nel tempo di un insieme complesso, le cui componenti viaggiano a velocità diverse, interagendo fra di loro e con il loro contesto.

    Proprio perché complesso, il processo storico può essere letto da tante angolazioni. Difficilmente lo sarà in modo esaustivo. Molte letture risulteranno compatibili. La possibilità di guardarlo da punti di vista diversi aiuterà spesso la sua comprensione. Quasi mai un processo permette giudizi univoci (positivo o negativo). Spesso convivono aspetti che ci appaiono di natura diversa. Spesso gli effetti dei processi sono sorprendenti rispetto alle premesse. Diciamo allora che sono “controintuitivi”. I combattenti per la libertà dei popoli colonizzati del mediterraneo si batterono sinceramente per i loro ideali. Chi avrebbe mai potuto sospettare che, una volta al potere, avrebbero dato vita a governi autoritari o dittatoriali? Quanto di “controintuitivo” c’è nella storia delle Primavere arabe? Il grande impero turco, come quello austroungarico, era percepito come oppressivo dai molti sudditi, e questo favorì anche la sua rapida caduta. Ma (esattamente come l’impero austroungarico) esso ha garantito la convivenza di popoli e di religioni diverse come non accadde nei tempi successivi, di stati liberi e indipendenti. Molti superstiti delle persecuzioni naziste e dei pogrom europei dettero vita allo stato di Israele: chi avrebbe mai detto che avrebbero dato vita a uno stato con le preoccupanti caratteristiche dell’apartheid? Dal canto suo, il mondo palestinese si presenta con una complessità di soggetti che non consentono letture univoche.

    Nella mentalità comune ci si attende che i cambiamenti siano definitivi e radicali. Ci si attende che i suoi protagonisti siano “buoni o cattivi”. Che ci sia chi ha ragione e chi ha torto. La storia ci abitua a fare i conti con cose che hanno una pluralità di letture. Ci dovrebbe insegnare che non esistono gesti, e personaggi, taumaturgici, ma pazienti opere di governo della complessità.


    Il laboratorio del tempo presente

    •    Didattica ingenua: fare una ricerca, informarsi, discutere, portare i giornali in classe, ecc

    •    Didattica esperta: sottoporre un determinato fatto  all’analisi operata con gli strumenti storici a disposizione in quel momento scolastico

    Le scuole sono piene dei relitti della didattica ingenua. Un evento colpisce la sensibilità dei ragazzi? Ecco pronta la ricerca su Internet; gli articoli di giornali e la diatriba mediatica riprodotta in classe. L’interesse dei ragazzi è assicurato. Ma qual è il vantaggio formativo che ne ottengono? Cosa imparano rappresentando in classe la dinamica di un talk show? E per quale motivo si dovrebbero confrontare in classe le opinioni di giornalisti (se va bene), quando non di oscuri commentatori della rete?

    Un laboratorio del Tempo presente, a mio modo di vedere, dovrebbe essere il luogo dove si prova l’efficacia delle capacità operative, messe a punto nel corso della programmazione. E’ il luogo – per riprendere il tema di questo intervento – dove si sperimenta quanto l’allievo sia competente nell’analizzare un dato fatto. Man mano che si impadronisce – studiando la storia - di questa o di quella competenza, saggerà le sue capacità nell’analisi di fatti della contemporaneità. Certamente, alla fine del suo percorso formativo dovrebbe disporre di una capacità di analisi e di interrogazione più raffinata e completa. Ma non è detto che, nel corso del curricolo, possa sperimentare la capacità di scomporre un evento; o di provare a metterlo in prospettiva storica; o di contestualizzarlo.

    Appartiene a un modo ingenuo di considerare l’insegnamento storico quello di riservare alla fine del percorso l’analisi dei temi caldi della storia immediata. Una didattica esperta, invece, suggerisce al docente di non perdere l’occasione che la storia gli offre e di aprire, di tanto in tanto, una finestra su quello che sta accadendo, in modo da offrire all’allievo la possibilità concreta di convincersi che la storia che studia, per quanto riguardi fatti lontani, ci attrezza ad una lettura sempre più approfondita del presente.

    Riferimenti

    Gli esempi di questo intervento sono tratti dalle relazioni tenute alla Summer School “Laboratorio del Tempo presente”, organizzata dall’Insmli a Venezia dal 25 al 27 agosto 2014, e dedicata a Mediterraneo contemporaneo. In particolare, debbo a Giulia Albanese i riferimenti al fascismo e al Concordato del 1929; a Nicola Labanca quelli al tema della Colonizzazione/decolonizzazione, mentre Leila el Houssi mi ha dato gli spunti sulla condizione femminile nel mondo islamico. Ho seguito, infine, il quadro cronologico tracciato da Mostafà Hassani Idrissi. Queste relazioni, insieme con i quindici studi di caso preparati dai tutor della scuola, verranno pubblicati su “Novecento.org”. La storia completa del Mediterraneo, diretta ai docenti del Mediterraneo, è:  Mostafa Hassani Idrissi (dir.), Méditerranée. Une histoire à partager, Bayard, Parigi 2013, della quale si possono leggere brani, studi di caso e materiali multimediali sul sito. Spero che quanto prima questo volume possa essere tradotto in italiano.

  • Cinque verifiche per la classe quarta. A distanza e in presenza*

    di Cesare Grazioli

    Introduzione
    In un intervento parallelo a questo, sulla classe quinta, pubblicato su HL, ho sottolineato le opportunità che, assieme ai molti problemi, la didattica a distanza offre all’insegnamento, in particolare su un aspetto che a molti appare come il più critico: le prove di verifica e le forme di valutazione. La didattica a distanza accelera una necessità che è anche della didattica in presenza: quella di progettare verifiche “a prova di copiatura”, cioè prove di verifica della competenza degli allievi, nelle quali gli “aiuti esterni” risultino ininfluenti oppure, in alcuni casi, siano già “inclusi nelle regole del gioco”.

    E’ in questa direzione che mi sono mosso per costruire, anche per la classe quarta, verifiche e attività didattiche, individuali o di gruppo, concluse da forme di valutazione.

    foto1

    Fig. 1 Jean Bertaux, La prise du palais des Tuileries, (1793), MUSÉE NATIONAL DU CHÂTEAU DE VERSAILLES

     

    Quattro percorsi di lavoro sulla rivoluzione francese
    Tra quelle che qui presento, ben quattro su cinque riguardano la Rivoluzione francese. Non propongo di svolgerle tutte quattro, bensì di sceglierne una o due. Resta però legittima la domanda: perché tanto spazio alla rivoluzione francese? La risposta è che ho sempre considerato questo argomento impossibile (o inutile) da fare imparare nel senso tradizionale del termine, data l’enorme complessità e densità delle sue vicende, che è velleitario cercare di fare memorizzare agli studenti. Al tempo stesso, lo trovo straordinariamente utile ed efficace se usato come “laboratorio” di indagine del conflitto sociale-politico-ideologico, in quanto luogo di nascita del linguaggio e dei concetti della politica moderna.

    In questo senso è un laboratorio di educazione storica alla cittadinanza, nel quale la Rivoluzione francese diventa per gli studenti un oggetto da “smontare e rimontare” in tanti modi diversi, con metodi e procedure che chiamano in causa molteplici competenze.

    Per lo stesso motivo, tutte queste attività le ho costruite come lavori di gruppo, in modo da rafforzare la dimensione comunicativa e attingere alla ricchezza che, in situazioni di apprendimento per problemi, il confronto nel gruppo di lavoro offre.

     

     1. I soggetti collettivi della Rivoluzione francese, ovvero l’analisi del conflitto politico-sociale. Il manuale come laboratorio di ricerca.

    Consegne per il lavoro dei gruppi:

    A. Si può affermare che nella primavera-estate del 1789 la rivoluzione fu la risultante di “tre rivoluzioni in una”, portate avanti da altrettanti soggetti collettivi:
    • Il Terzo Stato (o più esattamente della sua élite, la borghesia, rappresentata nell’assemblea degli Stati generali, che si autoproclamò Assemblea nazionale);
    • gli strati popolari urbani, soprattutto parigini, che presero d’assalto la Bastiglia;
    • le masse contadine, con la rivolta antifeudale di quelle settimane.

    Individuate sulle pagine del libro di testo e spiegate (per iscritto):
    1) quali erano, inizialmente (cioè alla vigilia della convocazione degli Stati Generali), gli obiettivi di ciascuno di questi tre soggetti collettivi;
    2) che cosa essi fecero (metodi) per realizzare quegli obiettivi, e quali risultati essi raggiunsero;
    3) quali furono gli obiettivi e i metodi degli altri due soggetti collettivi in campo, cioè gli aristocratici e il clero (considerati nell’insieme, come “gli ordini privilegiati”);
    4) che cosa fece il re, dalla convocazione degli Stati generali fino alla caduta della monarchia.

    B. Spostate l’analisi al periodo tra la proclamazione della repubblica (ma tenendo conto anche di ciò che accadde nei mesi precedenti, dall’aprile del 1792) e la caduta di Robespierre. Individuate e spiegate:

    5) quali divisioni emersero all’interno del Terzo Stato, soprattutto tra Giacobini e Girondini, ovvero quali obiettivi avevano questi due gruppi (che ora consideriamo come due soggetti distinti), con quali metodi per realizzarli, e di quali interessi e valori erano portatori;
    6) quando, come e perché le “tre rivoluzioni in una” di cui si è detto all’inizio presero strade diverse, in qualche caso divaricate.

    C. Spostate ancora in avanti nel tempo l’analisi, al periodo tra il 1795 e il 1799. Individuate e spiegate:

    7) di quali interessi e valori era portatore il Direttorio, che prese il potere dopo la caduta di Robespierre e inaugurò di fatto una “terza fase” della rivoluzione, dopo quella monarchico-costituzionale e quella repubblicano-radicale;
    8) quali fattori portarono al potere di Napoleone Bonaparte, e di quali interessi e valori egli fu interprete.

    Il senso e il significato di questo percorso didattico
    La serie delle consegne per il lavoro dei gruppi può essere considerata una forma di lezione rovesciata, nella quale gli allievi ricercano sul testo gli elementi che, in una forma più tradizionale, sarebbero stati loro comunicati dal professore nella sua lezione. Questa, in realtà, si effettua durante la fase di consegna della prova, quando si leggono e si commentano in classe. E’ in questa fase, dunque, a valle e non a monte dell’attività degli studenti, che si colloca l’intervento dell’insegnante, che corregge, integra, puntualizza e alla fine di ciascuna delle tre fasi tira le somme del lavoro svolto. E’ evidente che la valutazione può avvenire, a discrezione del docente, su ciascuna delle otto attività assegnate, oppure al termine delle tre fasi, oppure, forse più opportunamente, a partire dalla fase b (cioè dall’attività 5), considerando come “approccio per imparare” gli esercizi della fase a).

    Va sottolineato che il percorso cancella la distinzione tra fase di apprendimento e fase di valutazione del lavoro degli studenti, ovviamente a patto di assumere come elementi di valutazione il prodotto della ricerca degli studenti (le loro risposte alle domande sopra indicate). Consiglierei, infatti, di rinunciare a svolgere, alla fine delle attività qui indicate, una verifica tradizionale sulla conoscenza fattuale della rivoluzione francese (orale o scritta che sia): questa infatti significherebbe “versare il vino nuovo in otri vecchi”, e tradire davanti agli studenti il “patto” implicito o esplicito su cui si basa l’itinerario.

    Questo “patto” con gli studenti mi pare così riassumibile: “qui non dovrete “imparare”, nel senso di memorizzare, fatti, nomi, date della rivoluzione; dovrete invece usare il libro di testo come una banca-dati o un archivio da cui estrarre i dati per i ragionamenti che vi sono richiesti, finalizzati a impadronirvi di (cioè a sapere usare) un modello di analisi del conflitto sociale e politico.

    Secondo tale modello, i fatti storico-politici sono la risultante della interazione di soggetti collettivi (qui: Terzo Stato, masse popolari urbane, ecc., poi Girondini e Giacobini, ecc.) ciascuno dei quali è portatore di determinati interessi e valori, ha (consapevolmente o no, non è decisivo) determinati obiettivi, usa certi metodi (cioè modi per ottenere quegli obiettivi), arriva a determinati risultati, tutto questo in costante relazione di alleanza o di conflitto con gli altri soggetti in campo.

    Questo modello di analisi, beninteso, lo apprendete ora lavorando sulla Rivoluzione francese, ma vi servirà per analizzare e capire qualunque conflitto sociale e politico, dall’Italia dell’Ottocento al presente della nostra Repubblica.”

    Oltre a questo, l’indagine che gli studenti sono chiamati a fare si basa su una operazione fondamentale per gli storici, la periodizzazione, che è sempre, al contempo, una tematizzazione, ovvero una individuazione degli aspetti più rilevanti che marcano lo spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. In questo caso, un evento complesso come la Rivoluzione francese è stato periodizzato, cioè diviso, in tre fasi, nelle quali cambiano i soggetti del conflitto socio-politico:
    1 la fase monarchico-liberale, dalla primavera 1879 alla caduta della monarchia;
    2. la fase repubblicana radicale, fino alla caduta di Robespierre;
    3. la fase repubblicana moderata, dal Direttorio al consolato.

     

     2. La rivoluzione francese e la nascita del linguaggio politico. Lavoro sui termini.
    Questa seconda proposta, molto più breve della precedente, è successiva all’esplorazione della Rivoluzione francese, svolta con il primo percorso appena descritto, o con qualunque altro approccio. Questa è la sequenza delle operazioni.

    1. Inizio spiegando in pochi minuti che i termini “Destra”, “Sinistra”, e poi anche “Centro” come area intermedia tra le due precedenti, nacquero durante rivoluzione francese, come moltissimi altri concetti del linguaggio politico.
    2. Sollecito la classe a completare così l’arco delle collocazioni politiche, e a visualizzarlo alla lavagna (e sui quaderni):
    Sinistra, Centro-sinistra, Centro, Centro-destra, Destra
    3. Chiedo agli allievi di far corrispondere a tali collocazioni le seguenti definizioni politiche, e di spiegare che cosa significano questi aggettivi, riferiti alla politica:
    moderato, rivoluzionario, progressista, reazionario, conservatore, riformista, radicale
    4. Chiedo di concentrarsi sul periodo storico tra l’estate del 1789 e la fine del 1791, e in questo individuare la corrispondenza tra le cinque collocazioni politiche sopra indicate e i seguenti soggetti della rivoluzione, individuali o collettivi:
    La Fayette – i Girondini – Danton – Robespierre – i Foglianti – la maggior parte degli aristocratici
    5. Chiedo, infine, spiegare se e come, sotto l’incalzare tumultuoso degli eventi, dalla fine del 1791 in poi cambiò la collocazione politica di questi soggetti individuali o collettivi.

    Il senso e il significato di questo percorso didattico
    Ho usato questo esercizio alla fine del percorso precedente, perché permette un’agile attività di discussione collettiva in classe, nei punti 2 e 3, seguita da una riflessione individuale o a coppie, tradotta in risposte scritte, negli esercizi 4 e 5. Si riflette su temi e termini del linguaggio politico che diamo spesso per scontati. In questo caso non se ne studia la definizione formale, ma li si studia, per così dire, in situazione.

     

     3. Esercizio interdisciplinare di Storia-Filosofia sulla Rivoluzione francese. La finta intervista
    Questo percorso di ricerca è stato interamente svolto a gruppi (come lavoro domestico, a distanza, ma era già stato proposto negli anni scorsi in presenza). E’ stato progettato per valorizzare la possibilità di intrecciare i punti fondamentali del modulo di Filosofia, appena concluso (sulle teorie politiche da Hobbes all’Illuminismo), con il tema della Rivoluzione francese. In classi non liceali, che non fanno Filosofia, potrebbe essere ugualmente svolto, dato ci si occupa comunque delle teorie politiche dell’età dell’Illminismo. Se necessario, si può sostituire Locke con Montesquieu.
    Dividete la classe in gruppi di quattro allievi ciascuno. Dovranno immaginare di impersonare tre grandi filosofi del XVIII secolo e rispondere alle domande che un ipotetico giornalista rivolge loro. Segui questo esempio:

    - Mr. Locke, come giudica l’attuale situazione politica della Francia, dopo l’entrata in vigore della Costituzione?
    «Ora che è entrata in vigore la Costituzione elaborata dall’Assemblea nazionale, posso dare un giudizio molto favorevole su quanto è accaduto alla Francia in questi anni tumultuosi. Ora questo grande Paese si è finalmente lasciato alle spalle l’assolutismo, sistema politico arcaico e inefficiente, ed è diventata una monarchia costituzionale di ispirazione politica liberale, abbastanza simile al sistema vigente da quasi un secolo nel mio Paese, l’Inghilterra. C’è infatti la divisione dei poteri tra quello esecutivo, di cui è titolare il re che nomina un primo ministro, e quello legislativo affidato all’Assemblea nazionale. Positivo è anche il sistema di suffragio ristretto su base censitaria stabilito dalla Costituzione per le imminenti elezioni, e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del cittadino, approvata già nell’agosto ’89, che riconosce i fondamentali diritti individuali, tra i quali la proprietà privata. Non mi piace invece la legge che istituisce la Costituzione civile del clero, che anziché separare Stato e Chiesa, li avvicina ancora di più, trasformando vescovi e preti in funzionari dello Stato (e non a caso ha trovato il netto rifiuto del cosiddetto “clero refrattario”).»

    riv.grazioli

    Fig.2 François Pascal Simon Gérard, Disegno preparatorio per il quadroLe Peuple français demandant la destitution du tyran à la journée du 10 août, 1794

    Domande a John Locke
    - Mr. Locke, in Francia hanno appena convocato gli Stati Generali. Siamo nel gennaio del 1989: come vede la situazione di quel paese, e quali sono i suoi principali problemi?
    - Mr.Locke, in questo anno fatidico, 1794, Danton è stato appena ghigliottinato. Secondo lei, che cosa sta succedendo veramente in Francia?

    Domande a Jean-Jacques Rousseau
    - Mr. Rousseau, come giudica la situazione francese dopo la promulgazione della Costituzione, in questo autunno del 1791?
    - Mr. Rousseau, sono ormai molti anni che in Francia è in atto la Rivoluzione. Siamo arrivati all’autunno del 1793: come descriverebbe la situazione oggi, e come la giudicherebbe?

    Domande a Adam Smith
    - Mr. Smith, a voi inglesi dovrebbe far piacere il fatto che i francesi hanno finalmente una Costituzione. Come la giudica? (siamo nell’autunno del 1791)
    - Mr. Smith, come vede la situazione politica e economica in Francia, dopo la morte di Marat e la presa di potere da parte di Robespierre?

    NB: Locke, Rousseau e Smith sono consapevoli che, per esigenze giornalistiche, le loro risposte devono essere contenute in non più di 10-12 righe per ciascuna delle domande loro rivolte.
    Le risposte saranno scritte con le stesse caratteristiche tipografiche (formato, carattere, spaziatura, dimensione cartelle…) utilizzate in questa pagina, possibilmente in word (.docx o .doc)

    Traccia di correzione

    John Locke all’inizio del 1789
    «La Francia è un grande Paese, popoloso e potente, ma è bloccato da un sistema politico del tutto inadeguato. Infatti il suo assolutismo scontenta tutti, perché il Terzo Stato, e in particolare la sua parte più dinamica, la borghesia, si sente oppresso e totalmente escluso dalla vita politica; e perché gli ordini privilegiati pretenderebbero di ridimensionare il potere di più una monarchia che già si è molto indebolita dai tempi del Re Sole, e di mantenere quei loro privilegi fiscali che sono la causa principale dell’enorme debito pubblico francese. Sembra che sia imminente la convocazione degli Stati generali, imposta al sovrano proprio dagli ordini privilegiati, ma questi organismi, con la loro rappresentanza per ordini, sono totalmente anacronistici, così come lo è il sistema giuridico dell’ineguaglianza del diritto, che moltiplica esenzioni, privilegi e ingiustizie. Perciò non mi aspetto nulla di nuovo e prevedo l’ennesimo fallimento, dopo quelli dei ministri riformatori che il re in questi anni ha prima assunto e poi dovuto licenziare per l’opposizione dei ceti privilegiati. »

    John Locke nel giugno 1794
    «Dopo un periodo molto promettente, quello tra l’estate del 1989 e il 1791, in cui la Francia sembrava avviata a costruire una monarchia costituzionale di impronta liberale, la situazione è degenerata. Questo è accaduto dopo la proclamazione della repubblica, nel settembre 1792, ma forse già dalla decisione di muovere guerra alle altre potenze europee, che ha estremizzato il clima. Si è infatti arrivati all’instaurazione di una vera e propria dittatura, esercitata dal Comitato di Salute pubblica sotto guida di Robespierre. Di fatto è venuto meno quella divisione dei poteri tra esecutivo e legislativo che è alla base di un corretto funzionamento dello Stato, perché la Convenzione si limita ad approvare passivamente tutto quanto deciso dal Comitato. Ancora più grave è la legge sui sospetti, che viola i diritti naturali dell’individuo, e i decreti sul maximum dei prezzi che, imponendo la consegna dei prodotti agricoli a prezzi amministrati, viola di fatto il diritto di proprietà perché impedisce ai produttori di disporre liberamente di quanto da essi prodotto. Questa tirannide, che colpisce soprattutto gli esponenti delle classi altolocate, si sta dimostrando ancora peggiore della monarchia assoluta contro cui si è fatta la rivoluzione. »

    Jean Jacques Rousseau nell’autunno 1791
    «In questi due anni la nazione francese si è finalmente svegliata, sembra avere preso in mano il suo destino, abbattendo il giogo della tirannia, cioè della monarchia assoluta. Nella dichiarazione dei diritti dell’estate del 1789 l’Assemblea nazionale aveva affermato il principio fondamentale che la sovranità risiede nella nazione, e che la legge è l’espressione della volontà generale. Sia i contadini sia il popolo di Parigi hanno assunto un ruolo di protagonisti, impegnandosi per affermare i loro diritti. Ora, però, questo processo si è bloccato, in un compromesso con la monarchia che impedisce di affermare la migliore forma di stato, cioè la repubblica democratica; e in una costituzione che limita la partecipazione diretta solo a pochi, mentre l’assemblea, espressione della volontà generale, dovrebbe rappresentare tutti i cittadini francesi. »

    Jean Jacques Rousseau nell’autunno 1793
    «La situazione mi appare contraddittoria. Infatti, da una parte il popolo francese ha abbattuto la monarchia e ha finalmente instaurato la repubblica, unico sistema che consente di realizzare il contratto sociale come io lo intendo; inoltre, la Convenzione repubblicana quest’anno ha emanato una nuova Costituzione, realmente democratica. Date le enormi dimensioni di questo paese, non è pensabile realizzare la democrazia diretta, ma almeno c’è il suffragio universale che garantisce a tutti i cittadini di essere depositari della sovranità. Dall’altra parte, però, la Convenzione, che eliminata la monarchia doveva essere il luogo ove si manifestava la volontà generale, affidando ai Comitati un mero ruolo di esecutori delle sue deliberazioni, sembra avere invece lasciato troppo potere a questa specie di governo di fatto che è il Comitato di Salute Pubblica. E’ vero, d’altronde, che nell’attuale situazione di emergenza (militare, politica ed economica), la volontà generale può essere diversa dalla somma delle volontà individuali di tutti, soprattutto se incarnata in uomini come Robespierre, di sicuri principi democratici e di grandi virtù repubblicane.»

    Adam Smith nell’autunno 1791
    «Questo paese fino al 1789 era debole perché il ceto più moderno, la borghesia industriale, aveva poco spazio: infatti non aveva alcun potere politico in un sistema assolutistico, ed era soffocato dagli interessi feudali dei ceti privilegiati. Però in questi due anni la Francia ha fatto grandi progressi, anche se per realizzarli ha dovuto percorrere la pericolosa via della rivoluzione. Le riforme amministrative hanno razionalizzato la società, con l’abolizione di dazi e dogane interne, e la legge di Le Chapelier, che abolisce le corporazioni dei lavoratori e il diritto di sciopero, consente agli imprenditori di avere mano libera nei rapporti di lavoro, e perciò di sviluppare un moderno sistema industriale, basato sul lavoro salariato e sulla divisione del lavoro. Inoltre il nuovo governo girondino, di indirizzo liberista in economia, sembra favorevole agli interessi della borghesia industriale, sia perché ha indebolito l’aristocrazia agraria, sia perché non interferisce con il libero mercato. Con il suffragio censitario adottato dalla Costituzione appena entrata in vigore, non c’è il rischio che il popolo minuto prenda il sopravvento, come ha fatto più volte nel 1789, e invochi misure di regolamentazione e di controllo dei prezzi, che ostacolerebbero il libero mercato e sarebbero dannosissime per l’economia. »

    Adam Smith nell’autunno 1793
    «Il precipitare degli eventi, nella direzione che mi sembrava scongiurata due anni fa, sembra essere la “dimostrazione per assurdo” dei miei principi. Se la pace è il fondamento dei liberi commerci, e il mercato autoregolato è il fondamento della ricchezza delle nazioni, della loro prosperità e libertà, in Francia sta accadendo proprio l’opposto: la guerra ha portato all’emergenza economica, e questa, per i cedimenti alle richieste del popolo minuto, ha generato la regolamentazione economica e la politica del calmiere: cioè il contrario della linea del libero scambio da me sostenuta. Ma l’invasione del governo, cioè dello stato, nell’economia, ha provocato solo danni economici (inflazione, mercato nero, penuria di beni) e una ancor più grave invasione nel campo dei diritti civili, con le leggi sui sospetti e l’instaurazione di una nuova tirannide, il Terrore. Quando chi governa, cioè Robespierre e il Comitato di Salute Pubblica, si appoggia agli umori della piazza (ed estromette con la forza della piazza i rappresentanti dei ceti imprenditoriali, cioè i Girondini), non ci si può aspettare nulla di buono, né in economia né in politica! »

    Sull’esito del lavoro a distanza
    Il lavoro è stato significativo, e certamente “al riparo da copiature”, quanto meno per quanto riguarda gli “aiutini” da internet. L’inconveniente è stato invece il fatto, riscontrato in un caso, di tre gruppi che si sono passati il lavoro l’uno all’altro, come si capiva chiaramente dagli elaborati consegnati. Sono emerse differenze rilevanti tra gruppi che hanno lavorato bene, entrando pienamente nella logica proposta dal percorso, e altri che invece hanno realizzato prodotti molto riduttivi o poco pertinenti. Da segnalare le grosse difficoltà incontrate a proposito di Adam Smith, di cui ovviamente non si era vista una vera e propria teoria politica, per il quale si trattava di inferire dalla sua teoria economica le implicazioni politiche (vedi correttore): capacità, questa, rivelatasi al di sopra di quanto ci si poteva attendere dai gruppi.

    Siccome il lavoro di gruppo si è rivelato piuttosto impegnativo, ho somministrato la seguente RUBRIC, come strumento di autovalutazione del lavoro, che ciascuno studente ha compilato individualmente e mi ha inviato, e che ha consentito di raccogliere preziose informazioni a me, oltre che rappresentare un’attività meta cognitiva, di autovalutazione per gli studenti.

    Da COMPILARE da parte di ogni studente e da RISPEDIRE al prof
    RUBRICA di AUTOVALUTAZIONE FINALE (parziale, su due aspetti) sul lavoro di gruppo su RIVOLUZIONE FRANCESE
    Nome e Cognome ………………………………..

    Secondo me:

    p. 0

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    p.4

    p.6

    PUNTI

    sul COMPITO

    Mi sento frustrato/a

    o deluso/a del risultato del lavoro svolto

    Mi sento sufficientemente soddisfatto/a  dei risultati del lavoro svolto

    Mi sento abbastanza soddisfatto/a  del risultato del lavoro svolto

    Mi sento pienamente soddisfatto/a  del risultato del lavoro svolto

    sul GRUPPO

    Nel gruppo è del tutto mancata la collaborazione

    Alcuni membri hanno parteci-pato poco, altri hanno dovuto fare anche il lavoro altrui

    Il livello di collaborazione è stato nel complesso abba- stanza soddisfacente

    L’attività è stata svolta con un contributo attivo e costruttivo di tutti

                               Totale punti, in 12esimi:

    Altre considerazioni personali sul lavoro di gruppo assegnato: (non obbligatorio farle, del tutto libere)


     

    4. Debate sulla Rivoluzione francese

    I gruppi estraggono a sorte la relazione A o quella B e la redigono seguendo la traccia di lavoro, le cui fasi sono numerate sotto.
    Nella versione in presenza, si seguono le indicazioni date sotto. In quella a distanza, il punto C sarà scritto; il punto D verrà sostituito dall’invio ai compagni e al prof della relazione; il punto E sarà svolto online.

    1. Porta argomenti ed esempi a favore della seguente tesi storiografica:
    “Nella fase del Terrore la rivoluzione francese degenerò in una tirannide e in un bagno di sangue, e così facendo rinnegò e stravolse gli obiettivi e gli ideali dell’ ‘89. I responsabili morali e politici di tali esiti furono i Giacobini con il loro estremismo, ed in particolare Robespierre e gli altri membri del Comitato di Salute Pubblica”

    2. Fai ora la stessa operazione per la seguente tesi storiografica:
    “Non ha senso criminalizzare Robespierre e il Comitato di Salute Pubblica per le violenze del cosiddetto Terrore. Le loro decisioni furono infatti in gran parte inevitabili, dettate dalle condizioni di assoluta emergenza in cui essi si trovarono ad operare; e in parte quelle decisioni derivarono da scelte di governi precedenti, di cui non erano responsabili”

    3. Scrivi la relazione
    Per costruire la tua relazione, serviti di almeno sette argomenti, che selezionerai nella lista seguente (vedi punto F). Controlla sul tuo manuale i dati di fatto ai quali si riferiscono. Nella lista troverai argomenti favorevoli e contrari alla tua tesi. Puoi selezionarli a tua scelta, secondo il tipo di argomentazione che vuoi sostenere. Se farai una relazione coerente e ben argomentata questa verrà ben valutata (da 1 a 5).
    Per questa fase verrà assegnato un tempo congruo. La relazione (breve) potrà essere redatta in presenza o a casa.

    4. Leggi la relazione
    Tieni presente che devi convincere un pubblico. Usa toni appropriati, vivaci, evita di essere monotono e di annoiare. Il modo con cui farai la tua orazione sarà valutato da 1 a 5

    5. Discuti la relazione
    Mentre ascolti la relazione avversaria, prendi nota degli eventuali errori, delle informazioni che sono state fraintese o trattate male, delle informazioni, presenti nella lista, che il tuo avversario non ha utilizzato, sbagliando. Ogni osservazione che verrà accettata dalla giuria, o alla quale l’avversario non avrà saputo rispondere, ti varrà un punto.

    6. Lista degli argomenti

    1. La guerra non era stata voluta da Robespierre, che anzi si era opposto invano ad essa, bensì dai girondini e dal re, che erano perciò i veri responsabili della esasperazione e della radica-lizzazione della rivoluzione.
    2. La rivoluzione francese aveva già ottenuto le sue più importanti conquiste nel 1789: aveva di fatto creato una monarchia costituzionale, di impronta liberale, basata sull’uguaglianza del diritto e sull’abrogazione dei privilegi feudali. Robespierre e il Comitato di Salute Pubblica, che erano l’avanguardia della corrente giacobina, affossarono tutte quelle grandi conquiste, che sarebbero state alla base dei sistemi liberali ottocenteschi.
    3. Si susseguivano le sconfitte e i tradimenti dei generali (spesso di orientamento girondino), col rischio che il paese fosse invaso e la rivoluzione repressa nel sangue dagli eserciti stranieri.
    4. Con la legge sui sospetti e i processi sommari eliminarono la liberà di stampa e di opinione.
    5. Instaurarono una dittatura, fondata su un controllo poliziesco, sull’arbitrio e sulla concentrazione dei poteri nelle loro mani, sulla sistematica utilizzazione della ghigliottina come strumento di lotta politica, per terrorizzare ed eliminare gli avversari politici.
    6. Erano intolleranti, incapaci di accettare la dialettica tra posizioni diverse come prassi normale nella vita politica, e di conseguenza l’assolutamente insensibili verso i diritti delle minoranze.
    7. Poiché i contadini che avevano cessato di avere un ruolo attivo (e anzi in Vandea avevano preso le armi contro il governo rivoluzionario), i giacobini, che pure erano di estrazione borghese, dovettero allearsi agli strati popolari urbani e accogliere le loro richieste di rigida regolamentazione economica.
    8. Nell’estate del ’93, quando Robespierre e il Comitato di Salute pubblica si trovarono alla guida politica della rivoluzione, la Francia era in una drammatica emergenza economica, politica e militare: sul piano economico, c’era una forte inflazione, che svalutava gli assegnati ed esasperava gli strati popolari urbani per l’aumento dei prezzi dei beni.
    9. La controrivoluzione contadina in Vandea e in altre regioni, spesso organizzata dal clero refrattario aveva reso difficile la vita politica della Francia.
    10. I membri dell’Assemblea eliminarono le garanzie costituzionali (infatti la costituzione del ’93 di fatto non entrò mai in vigore), con le tutele dei cittadini contro l’arbitrio del potere;
    11. Di fronte a questa triplice emergenza – economica, politica e militare - le scelte drastiche compiute dal Comitato di Salute Pubblica guidato da Robespierre erano inevitabili, soprattutto la regolamentazione economica (il calmiere dei prezzi e i controlli capillari per farlo rispettare) cioè l’imposizione di una durissima disciplina economica, di cui il cosiddetto Terrore fu l’altrettanto inevitabile risvolto politico.
    12. I membri dell’Assemblea instaurarono una dittatura, fondata su un controllo poliziesco, sull’arbitrio e sulla concentrazione dei poteri nelle loro mani, sulla sistematica utilizzazione della ghigliottina come strumento di lotta politica, per terrorizzare ed eliminare gli avversari politici.
    13. Erano dei fanatici dottrinari, convinti di rappresentare la Volontà generale. Pensavano di essere i virtuosi e che dovessero combattere contro il vizio dei controrivoluzionari.
    14. L’emergenza bellica imponeva una straordinaria mobilitazione sia ideologica sia di mezzi umani e materiali, con la leva di massa.

    Traccia di correzione

    TESI A 1. La rivoluzione francese aveva già ottenuto le sue più importanti conquiste nel 1789: aveva di fatto creato una monarchia costituzionale, di impronta liberale, basata sull’uguaglianza del diritto e sull’abrogazione dei privilegi feudali. 2. Robespierre e il Comitato di Salute Pubblica, che erano l’avanguardia della corrente giacobina, affossarono tutte quelle grandi conquiste, che sarebbero state alla base dei sistemi liberali ottocenteschi. 3. Essi cancellarono: la divisione dei poteri (perché controllavano il Tribunale rivoluzionario e manipolavano la Convenzione, cioè l’assemblea legislativa); 4. la libertà di stampa e di opinione (con la legge sui sospetti e i processi sommari). 5. Così facendo, essi instaurarono una dittatura, fondata su un controllo poliziesco, sull’arbitrio e sulla concentrazione dei poteri nelle loro mani, sulla sistematica utilizzazione della ghigliottina come strumento di lotta politica, per terrorizzare ed eliminare gli avversari politici. 6. Alla base di questo c’erano il loro fanatismo dottrinario (la convinzione di rappresentare la Volontà generale, e la virtù rivoluzionaria contro il vizio dei controrivoluzionari), e 7. l’intolleranza, cioè la loro incapacità di accettare la dialettica tra posizioni diverse come prassi normale nella vita politica, e di conseguenza l’assoluta insensibilità per i diritti delle minoranze.

    TESI B 1. Nell’estate del ’93, quando Robespierre e il Comitato di Salute pubblica si trovarono alla guida politica della rivoluzione, la Francia era in una drammatica emergenza economica, politica e militare: sul piano economico, c’era una forte inflazione, che svalutava gli assegnati ed esasperava gli strati popolari urbani per l’aumento dei prezzi dei beni; 2. sul piano della politica interna, era in corso una vera e propria controrivoluzione contadina in Vandea e in altre regioni, spesso organizzata dal clero refrattario; 3. sul piano militare, si susseguivano le sconfitte e i tradimenti dei generali (spesso di orientamento girondino), col rischio che il paese fosse invaso e la rivoluzione repressa nel sangue dagli eserciti stranieri. 4. Di fronte a questa triplice emergenza, le scelte drastiche compiute dal Comitato di Salute Pubblica guidato da Robespierre erano inevitabili, soprattutto la regolamentazione economica (il calmiere dei prezzi e i controlli capillari per farlo rispettare) cioè l’imposizione di una durissima disciplina economica, di cui il cosiddetto Terrore fu l’altrettanto inevitabile risvolto politico: 5. infatti, con i contadini che avevano cessato di avere un ruolo attivo (e che anzi in Vandea avevano preso le armi contro il governo rivoluzionario), i giacobini, che pure erano di estrazione borghese, dovettero allearsi agli strati popolari urbani (i sanculotti) e accogliere le loro richieste di regolamentazione economica. 6. L’emergenza bellica, inoltre, imponeva una straordinaria mobilitazione sia ideologica sia di mezzi umani e materiali, con la leva di massa. 7. D’altra parte, a decidere la guerra, nel ’92, non era stato Robespierre, che anzi si era opposto invano ad essa, bensì i girondini e il re, che erano perciò i veri responsabili della esasperazione e radicalizzazione della rivoluzione.

    7. Lezione finale conclusiva: l’insegnante tira le somme del dibattito, presenta le tesi storiograficamente accreditate

    (Non posso commentare l’esito di questo Debate perché, a differenza delle precedenti attività, non l’ho ancora provata in classe).


    foto3

    Fig. 3 Pottier-Degeyter, spartito dell’Internazionale, 1871

     5. Verifica sulle ideologie politiche dell’Ottocento. Definire e conoscere termini.

    Già da alcuni anni utilizzo questo modello di verifica, come conclusione di un percorso didattico, agile, realizzato con la dispensa qui di seguito riprodotta, che riassume le sette ideologie politiche emerse nel corso dell’Ottocento.

    Dopo la spiegazione della dispensa, ho utilizzato nel corso degli anni strategie didattiche diverse per favorirne la comprensione: da un dibattito con la classe divisa in sette gruppi, uno per ogni ideologia, incaricato di presentare positivamente la propria e di criticare le altre; a un veloce esercizio di individuazione di due o tre parole-chiave caratteristiche di ciascuna ideologia.

    Quest’anno, in situazione di didattica a distanza, ero dubbioso se continuare a somministrare una verifica di questo tipo, che come si vede è molto diversa dalle altre forme di valutazione finora presentate. Diversa in tutto, ma non in un aspetto, decisivo: costringe a pensare, a ragionare, e solo un risultato positivo dimostra di avere capito tali ideologie. L’ho somministrata il 17 aprile e i suoi risultati, in termini di attendibilità e significatività, sono andati anche oltre alle mie aspettative. Sapevo, dalle esperienze precedenti, che il livello di soglia per definire accettabili i risultati erano 16 punti (su 22, cioè 7/10), e così è accaduto anche quest’anno, con risultati buoni o accettabili nella maggior parte dei casi, ma anche con cinque insufficienze, su 25 studenti. Ecco qui a seguire la dispensa studiata dagli studenti prima della suddetta verifica.
    Consegne per gli studenti

    Attribuisci ciascuna delle seguenti parole, o frasi, o espressioni-chiave, alla ideologia politica ottocentesca di cui è maggiormente caratterizzante [NB: una sola, meglio se usando le sigle (in rosso) tra queste: REAZIONARIA, LIBERALE, DEMOCRATICA, SOCIALISTA, ANARCHICA, CATTOLICO-SOCIALE, NAZIONALISTA] Tempo disponibile: 25’

     

    parola, frase o espressione-chiave IDEOLOGIA
     patria   .............................................
    corporazione  .............................................
     stato di diritto  .............................................
     sovranità popolare   .............................................
     alleanza trono-altare  .............................................
     suffragio universale  .............................................
     divisione dei poteri  .............................................
     la proprietà privata è e deve essere inviolabile  .............................................
     la tradizione è il fondamento delle istituzioni  ..............................................
     tutti i cittadini devono avere uguali opportunità   .............................................
     il salario deve corrispondere alla “giusta mercede”  .............................................
     lo stato e la religione devono essere eliminati  .............................................
     l'ingiustizia sociale deriva dalla proprietà privata  .............................................
     per risolvere la questione sociale ci vuole la concordia tra le classi  .............................................
     lo stato è l’espressione della dittatura della classe borghese   .............................................
     l'interesse dello stato-nazione è superiore a qualunque altro interesse   .............................................
     la rivoluzione deriverà dall’ insurrezione spontanea delle masse  .............................................
     la società è gerarchicamente ordinata secondo le differenze naturali  .............................................
     la religione appartiene alla sfera privata della libertà di coscienza  .............................................
     la società deve essere una libera associazione, senza istituzioni e burocrazia  .............................................
     il sangue, la lingua, la storia comuni sono i più importanti legami tra i cittadini  ..............................................
    il proletariato industriale deve organizzarsi per rovesciare i rapporti di produzione  .............................................

     

    CORRETTORE   TOTALE 22
    parola, frase o espressione-chiave   ideologia
       
    patria 1...nazionalista
    corporazione 2...cattolico-sociale
    stato di diritto 3…liberale
    sovranità popolare 4...democratica
    alleanza trono-altare 5...reazionaria
    suffragio universale 6...democratica
    divisione dei poteri 7…liberale
    la proprietà privata è inviolabile 8....liberale
    la tradizione è il fondamento delle istituzioni 9... reazionaria
    tutti i cittadini devono avere uguali opportunità 10...democratica
    il salario deve corrispondere alla “giusta mercede” 11..cattolico-sociale 
    lo stato e la religione devono essere eliminati 12...anarchica
    l'ingiustizia sociale deriva dalla proprietà privata 13...socialista
    necessaria la concordia tra le classi per risolvere la questione sociale 14...cattolico-sociale
    lo stato è espressione della dittatura di classe della borghesia 15...socialista
    l'interesse dello stato-nazione è superiore a qualunque altro 16...nazionalista
    la rivoluzione deriverà dall' insurrezione spontanea delle masse 17...anarchica
    la società è gerarchicamente ordinata secondo le differenze naturali 18...reazionaria
    la religione appartiene alla sfera privata della libertà di coscienza 19...liberale
    la società deve essere una libera associazione, senza istituzioni e burocrazia 20...anarchica
    il sangue, la lingua, la storia comuni sono i più importanti legami tra i cittadini 21…nazionalista
    il proletariato industriale deve organizzarsi per rovesciare i rapporti di produzione 22…socialista

     Dispensa sulle IDEOLOGIE POLITICHE DELL’OTTOCENTO
    Come premessa, definiamo i due significati del termine IDEOLOGIA:

    a) neutro, o "debole": insieme di idee e di valori riguardante l'ordine politico (ovvero, la rappresentazione dei rapporti tra individui, società e stato) con la funzione di guidare i comportamenti collettivi. Oppure: sistema di idee connesse con l'azione, cioè un'interpretazione della realtà (passata, presente, futura) comprendente un programma e una strategia per la sua attuazione, al fine di cambiare - o difendere - l'ordine politico esistente.

    b) negativo, o "forte": falsa credenza, ovvero concezione che, deliberatamente o meno, rappresenta la realtà in modo mistificato, rovesciato, unilaterale, al di fuori di una analisi pragmatica, e/o in funzione di valori /interessi /situazioni di potere particolari da difendere.

    Qui di seguito ci riferiremo al primo significato sopra indicato

    Ideologia LIBERALE Principale erede della tradizione illuminista francese (soprattutto di Montesquieu e Voltaire) e del giusnaturalismo inglese (Locke), si basa sulla distinzione tra sfera privata dell'individuo nella società, e quella pubblica, propria dello Stato, e sulla salvaguardia della prima dall'ingerenza del secondo. Il liberalismo crede nel progresso, che si realizza se si sviluppa la libertà individuale in tutti i campi: nell'economia con la proprietà privata; nella società con i "diritti civili" (libertà personale, di opinione e di stampa, religiosa, di associazione, ecc); nella politica con il dibattito delle idee e con il controllo della pubblica opinione sullo stato. Lo stato liberale deve basarsi sulla certezza del diritto (sancito da una costituzione scritta), per cui si parla anche di “stato di diritto”, nel quale cioè tutti sono sottoposti alla sovranità della legge; e sulla divisione dei poteri, in particolare tra governo (potere esecutivo) e parlamento (potere legislativo), quest'ultimo eletto da quanti godono della pienezza dei diritti politici (cioè di voto), in base al censo e/o all'istruzione.

    Ideologia DEMOCRATICA Erede anch'essa della tradizione illuminista (soprattutto di Rousseau) e dei "Sacri Principi dell''89", tra i quali però mette l'accento sulla egalité, e talora sulla fraternité, mentre l'id. liberale privilegia la liberté. Pertanto le sua idee-forza sono la sovranità popolare e il suffragio universale come espressione degli uguali diritti politici di tutti i cittadini. Soprattutto in Francia – meno in Mazzini, anch’egli uno dei massimi esponenti democratici – si preoccupa di dare contenuti sociali (fraternité) all'uguaglianza politica, fornendo a tutti "pari opportunità" con l'istruzione, la "libertà dal bisogno", l'effettivo esercizio del diritto di voto: sia quello attivo (con l’organizzazione dei partiti, che consentono la partecipazione politica), sia quello passivo (=eleggibilità, possibilità di essere eletti) tramite la retribuzione ai parlamentari. Con l'estensione del suffragio, nel '900, le differenze fra le ideologie liberale e democratica tenderanno a sfumare, ed emerge una ideologia LIBERAL-DEMOCRATICA attraversata da differenze, talora profonde, tra liberal-moderati (o conservatori) e liberal-progressisti (o radicali, o democratici, negli Usa "liberal")

    Ideologia REAZIONARIA Nasce come reazione alla rivoluzione francese, della quale rifiuta i principi essenziali; auspica un ritorno al passato, alla tradizione, ed è contraria all'idea di progresso. Le leggi non devono essere scritte ma consuetudinarie, il "diritto divino" e non la sovranità popolare è alla base del potere statuale, che non può pertanto essere diviso. La società deve basarsi sul principio di autorità, le differenze tra individui (di censo, stato, istruzione) sono "naturali" e non modificabili, quindi le teorie sulla libertà e sull'uguaglianza tra gli uomini sono pericolose. L'Ideologia reazionaria, che in epoche successive assumerà contenuti diversi secondo i differenti contesti, all'inizio dell'Ottocento contrappone alla laicità dello stato la difesa della religione e l'alleanza "trono-altare" come baluardo dell'ordine sociale (es: J.De Maistre). A metà del secolo (1864), un totale rifiuto teorico di tutte le teorie moderne viene espresso dalla Chiesa cattolica col Sillabo di papa Pio IX.

    Ideologie RIVOLUZIONARIE Nell'Ottocento, ci sono teorie diverse, accomunate dall'esigenza di dare voce a quel "quarto stato" (il proletariato industriale) che è prodotto e al contempo vittima dell’industrializzazione: teorie che propugnano la rivoluzione, ovvero la radicale trasformazione dell'ordine esistente, al fine di realizzare la giustizia, intesa come uguaglianza sociale. Tra le diverse correnti, è necessario distinguere le due principali:
    a) SOCIALISTA; b) ANARCHICA

    a) Ideologia SOCIALISTA Si presenta dapprima – come teoria ma anche come forma di organizzazione (cooperativa, sindacale o politica) del proletariato industriale – nelle diverse versioni del cosiddetto socialismo utopistico o "romantico", in Inghilterra (Owen) e in Francia (Fourier, Blanc, Proudhon). Poi si afferma nella versione che avrà maggiore rilievo sia teorico sia politico-organizzativo: il marxismo. Secondo Karl Marx il capitalismo industriale è la più moderna ed efficiente forma di sfruttamento dei produttori (i proletari) da parte dei detentori dei mezzi di produzione (i capitalisti). Nel capitalismo, però, c'è la contraddizione tra l'enorme sviluppo delle forze produttive, reso possibile dall' industrialismo, e l'appropriazione del prodotto sociale da parte di una minoranza sempre più ristretta, la borghesia. Su tale contraddizione potrà fare leva il proletariato, prendendo coscienza del suo sfruttamento e organizzandosi politicamente, al fine di abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione e la divisione in classi. Per fare ciò è necessaria una rivoluzione, che deve abbattere le istituzioni liberali (finzione giuridica dietro cui si cela la dittatura della borghesia), sostituendole con la dittatura del proletariato, via intermedia alla futura società comunista.
    Verso la fine del secolo prevale però, a partire dal più forte partito socialista europeo, quello tedesco (SPD), una posizione riformista, che tende a eliminare o a rimandare in un futuro indeterminato la prospettiva rivoluzionaria, a favore di un’azione politica tesa a ottenere riforme, soprattutto attraverso le forme elettorale e parlamentare.

    b) Ideologia ANARCHICA Teorizzata dal russo Michail Bakunin, sostiene che l'origine dello sfruttamento e delle ingiustizie sociali non è la classe dei capitalisti, ma lo stato, e con esso la religione. Anche l'ideologia anarchica, come quella marxista, vuole eliminare la proprietà privata, ma tramite una rivoluzione che abolisca ogni forma di autorità statuale, favorendo la libera organizzazione collettiva dei produttori in forme cooperative. L'anarchismo rifiuta la forma organizzativa del partito, e con esso la lotta politica e parlamentare, e punta all'azione insurrezionale diretta delle masse. Più che tra il proletariato di fabbrica, questa ideologia trovò seguito tra le masse contadine, specie nei paesi meno industrializzati come l’Italia e la Spagna.

    Ideologia SOCIALE CRISTIANA (o cattolico-sociale) Basata sull’enciclica Rerum Novarum di papa Leone XIII (1891), vuole fornire alle "questione sociale" soluzioni diverse sia dal liberalismo che dal socialismo, ambedue visti negativamente. Nel governo dell’economia e dei rapporti sociali, infatti, respinge tanto la lotta di classe quanto il primato delle leggi del mercato. Afferma che il salario deve essere regolato secondo il principio etico della "giusta mercede", e che lo stato deve intervenire nelle questioni sociali come regolatore e mediatore dei conflitti. Il principio basilare deve essere la solidarietà tra le classi, per cui l'organizzazione ottimale è quella di libere corporazioni, ma si accettano anche associazioni solo operaie, invitando i lavoratori cristiani a organizzarsi in forma sindacale e cooperativa. Nei paesi di cultura cattolica, tra fine '800 e il '900 nascono su questa base partiti e sindacati di ispirazione cristiana, e trovano consenso soprattutto nel mondo contadino.

    Ideologia NAZIONALISTA Nasce nella prima metà dell' '800 dall'idea romantica di Patria come stato-nazione, secondo cui lo stato deve coincidere con la nazione, intesa come comunità di storia, lingua, tradizioni, etnia (talora anche religione). Da metà ‘800, negli stati europei la "nazionalizzazione delle masse" è il lungo processo che mira ad integrare le masse nello stato, a creare/rafforzare l'identità e il senso di appartenenza nazionale, attraverso molteplici canali: la scolarizzazione e la propaganda mediata dai programmi scolastici, la leva militare, le feste patriottiche e la "invenzione" di molteplici tradizioni. Tra fine '800 e inizio '900, nell'età dell'imperialismo, nasce una nuova ideologia nazionalista che si basa sul primato del proprio stato-nazione, in competizione con gli altri, in una logica di prestigio e di potenza internazionale; per il superiore interesse dello stato-nazione tutti i conflitti interni devono essere disciplinati, soprattutto quelli tra le classi, che vanno armonizzati all'interno di organismi corporativi subordinati allo stato.

     

    *Insegno nell’I.I.S. “Blaise Pascal” di Reggio Emilia, un Istituto con quattro indirizzi, due liceali e due tecnici: nel mio caso, nei due licei, uno dei quali artistico ad indirizzo grafico, l’altro scientifico (Scienze Applicate). Quest’anno ho una classe quarta di indirizzo grafico ed è a questa che si riferiscono le esperienze qui descritte.

  • Circolare seminario sulla Shoàh

    Ecco la circolare del seminario sulla Shoàh, che si terrà all'Università di Bari il 17 e 18 ottobre prossimi.

     

  • Competenze e mal di scuola

    Autore: Antonio Brusa


    Rinverdita dal riferimento alla “Buona Scuola”, ecco l’ennesima invettiva sulla scuola-che-non-funziona. Questa volta, dice Salvatore Settis, non funziona per colpa delle competenze. Nella scuola italiana, afferma lo studioso in un’intervista apparsa sull’ “Huffington Post”, queste hanno tolto di mezzo le conoscenze:
    “Ecco, è un’idea perversa sostituire la parola “conoscenza” con “competenza”, come è stato fatto dai pedagogisti alla nostrana, consultati da Berlinguer e dalla Moratti in poi per le loro pessime riforme scolastiche. Abbiamo bisogno di persone con uno sguardo generale. Non bastano le conoscenze specialistiche, approfondite quanto si vuole. Ci vuole una visione collegata col senso della comunità (come del resto è scritto nella nostra Costituzione, che stiamo via via dimenticando)”.

    Da una parte le “competenze”. Cioè le specializzazioni e gli approfondimenti (come si legge dopo, legate al mondo del lavoro, subalterne al mercato: e così via). Dall’altra le “conoscenze”, che invece sono generali, di ampio respiro e, come si legge oltre, anche critiche (e così via). La crisi della scuola deriva dal fatto che queste (le conoscenze) sono state sostituite da quelle (le competenze).

    Sarà vero? Mi limito al mio campo, quello della storia. Berlinguer, dal quale si sarebbe originato il disastro della sostituzione, ha reso possibile lo studio del Novecento (quindi ha sollecitato una “conoscenza”) e lo ha fatto sia per ragioni scientifiche (credo del tutto evidenti, parlando di un programma di storia) e sia per ragioni sociali, ben dichiarate nei decreti che accompagnarono quella riforma del 1996.

    Poi, se si vanno a spulciare i programmi successivi, si vede che le conoscenze ci sono, sono elencate, si spiega sommariamente come vadano studiate, o come vadano scelte, visto che il Miur non può che emanare Indicazioni per la costruzione di curricoli, la cui progettazione compete agli istituti (e questo per una legge Costituzionale). E questo, nonostante i “pedagogisti nostrani”, che furono di volta in volta consultati da Berlinguer, da Moratti o da Gelmini, abbiano premuto per l’introduzione di una “didattica per competenze”.

    Gli argomenti di studio sono citati, in storia come nelle altre discipline. Li si possono criticare, si può discutere il sistema di scelta dei contenuti. Non si può sostenere, però, che sono stati sostituiti dalle competenze, intese come conoscenze specializzate subordinate al mercato del lavoro. In molti paesi, nei quali si è rinunciato ad insegnare una “storia generale”, i programmi prescrivono lo studio di pochi momenti specifici. Non è il caso dell’Italia, nella quale governi di destra e di sinistra hanno tenuto ferma la barra proprio sulle “conoscenze generali”.

    Allora le competenze. Nei proclami che aprono i programmi se ne parla a lungo. Condivido il fastidio che la loro lettura ingenera in molti professori. So, per contro, che queste prolusioni sono la fonte inesauribile di corsi di aggiornamento organizzati dalle scuole. Ma se vado a controllare le parti disciplinari, le cose non sono così nette, come vorrebbe Settis. Ad esempio, ecco le competenze finali del programma della scuola di base attuale

    •    Comprende aspetti, processi e avvenimenti fondamentali della storia italiana dalle forme di insediamento e di potere medievali alla formazione dello stato unitario fino alla nascita della Repubblica, anche con possibilità di aperture e confronti con il mondo antico.
    •    Conosce aspetti e processi fondamentali della storia europea medievale, moderna e contemporanea, anche con possibilità di aperture e confronti con il mondo antico.
    •    Conosce aspetti e processi fondamentali della storia mondiale, dalla civilizzazione neolitica alla rivoluzione industriale, alla globalizzazione.
    •    Conosce aspetti e processi essenziali della storia del suo ambiente.
    •    Conosce aspetti del patrimonio culturale, italiano e dell’umanità e li sa mettere in relazione con i fenomeni storici studiati.

    A leggerlo tutto, l’elenco è piuttosto lungo, certamente disuguale. Si può discutere se fosse meglio quello precedente, più stringato, o quello della Moratti, infinito. Si può dibattere se sia addirittura necessario. Se ne possono mettere in evidenza errori o impostazione. Ma che queste competenze siano “conoscenze approfondite e specifiche”, o che siano “subalterne al mercato”, e su questa idea basare la propria diagnosi dei mali della scuola, no. Questo è semplicemente sbagliato.

    Certamente, il tema delle competenze, insieme con altri, fra i quali il tema delle “educazioni” (all’intercultura, alla legalità, all’ambiente, alla finanza ecc), entra in quel vasto progetto di “de-disciplinare” la formazione scolastica, che trova già esempi internazionali ben pubblicizzati dai media. E’ vero. In questo processo si vuole stemperare il potenziale critico del sapere disciplinare, a favore di una duttilità indefinita (fra l’altro, non mi sembra che l’intervistatore abbia capito molto, quando insinua la domanda: “Competenza vuol dire possedere oggetti conoscitivi e capacità. Conoscenza vuol dire farsi modificare dalle cose che si incontrano, giusto?”).

    Si tratta di un tema strategico, che si sta imponendo sottobanco, in sordina. Con un sospiro, la scuola lo accetta come l’ennesimo ukase ministeriale. Lo sopporta di malavoglia, ma non riesce a tematizzarlo come un segno dei cambiamenti del rapporto fra scuola e società, che va discusso con urgenza e approfonditamente; sul quale deve teneralta l’attenzione, o la guardia,  come si diceva ai tempi. 

    Ma se vogliamo analizzare la realtà attuale, il risultato più evidente della “didattica per competenze” (nei limiti di quello che vedo nelle scuole) è un fardello fastidiosissimo di carte e di corsi di aggiornamento, questo sì, opportunamente denunciato da Settis. Ma dire che abbia sconvolto il lavoro di classe, così radicalmente da aver provocato la crisi, mi sembra un’affermazione semplicemente non provata. Sfogliando i Piani formativi delle scuole, gli elenchi di competenze si accavallano. Ogni volta che entro in qualche istituto, la domanda è “come ci regoliamo con le competenze?”. Me la rivolgono insegnanti terrorizzati dall’incombente “certificazione delle competenze”, anche loro convinti di vivere ormai in questa strana e nuova “scuola delle competenze”.

    Poi, quando vado a guardare quello che scrivono nei loro programmi, assolte le ritualità del pedagogese,scopro ciò che questi formalismi ricoprono. Il fatto che la storia che si spiega è sempre quella. Trovo fenici raccontati, quando va bene, come se si fosse ancora ai tempi di Sabatino Moscati; cretesi che continuano ad andare per mare, nonostante gli studi che ci informano che preferivano di gran lunga l’agricoltura; dori, eoli e joni che si ostinano a invadere la Grecia, per quanto  gli studiosi dei processi etnogenetici ci avvertano che le cose andarono in un altro modo. Per non parlare della storia medievale, che conosco un po’ meglio, dove imperversano indistruttibili piramidi feudali, insensibili alla battaglia quarantennale, condotta con passione da Giuseppe Sergi (e da tanti altri). Qualcosa vorrà pur dire il fatto che i testi più adottati nelle superiori (parlo di storia e filosofia) siano quelli antichi di decenni, con la sola differenza che sono stati abbondantemente sfrondati, a volte corredati a margine dalle novità del giorno, come un tempo gli amanuensi facevano con i disegnini stravaganti. Se dobbiamo interrogarci sulle cause della crisi attuale della scuola, più che incolpare competenze (che al peggio produrranno danni in futuro, ma nel presente sono di carta) non converrebbe soffermarsi sulla inerzia, a volte secolare, delle conoscenze scolastiche? Non sarebbe necessario mettere sotto inchiesta la trafila formativa dei docenti e il sistema di produzione della cultura scolastica, campi nei quali l’Università è pesantemente responsabile?

    Quel che lascia disorientati, è che vi è un ceto intellettuale che, quando interviene sulla scuola lo fa senza conoscerla. Ragiona su principi astratti e situazioni inesistenti. Per Settis, le competenze sono troppo specialistiche; per Ferroni sono troppo generali; per Lucio Russo sono figlie della degenerazione del ’68.  Per la maggior parte, sono nefaste perché sono state proposte da una banda di folli pedagogisti o solo perché “nuove”. Alla fine si giunge lì, alla “potenza rivoluzionaria del passato” e al messaggio, mica tanto subliminale, che la scuola di una volta, quella sì che sarebbe lo strumento per affrontare la questione della formazione dei cittadini nel XXI secolo. Alla fine, gli unici che pagano, temo, sono quelli che vorrebbero liberarsi dalle pastoie di quel vecchio modello di insegnamento, quelli che hanno capito che per sopravvivere occorre innovare sia i contenuti che i metodi, e si trovano, invece, soffocati tra futurologia pedagogistica e passatismo disciplinarista.

  • Comunità in guerra sull’Appennino.

    La Linea Gotica tra storia e politiche della memoria, 1944-2014
    Rimini, 20-22 novembre 2014

    Nell'ambito delle commemorazioni del 70° anniversario della resistenza, il convegno si propone di affrontare il contesto del fronte italiano tra l'autunno 1944 e la primavera 1945, imperniato sulla cosiddetta “Linea Gotica”,  la struttura più lunga e più stabile dell'apparato difensivo tedesco,  vera e propria “cicatrice” dell'Italia in guerra.

    Ne sono promotori l’Istituto per la storia e le memorie del ‘900 Parri ER, l’Istituto storico della Resistenza di Rimini, la rete degli istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea dell’Emilia-Romagna e l’Insmli.

    Rispetto agli storici convegni del 1984 e 1990, l'attenzione sarà posta sulla vita delle comunità in quel contesto, e sulle elaborazioni memoriali e storiografiche che, sul piano nazionale e internazionale, ne hanno caratterizzato la successiva rappresentazione.

    Si partirà dalla vicenda della Linea Gotica collocata nei quadri generali offerti dalla più recente storiografia sulla seconda guerra mondiale, con particolare ma non esclusiva attenzione per la storia militare; e dalle ricerche sulla resistenza italiana ed europea dell'ultimo decennio.

    Si darà poi spazio, secondo le indicazioni della Commissione storica italo-tedesca, alle storia delle esperienze del fronte, proprie dei soldati dei diversi schieramenti, dei partigiani e dei civili.

    Una sezione del convegno affronterà le dinamiche di riconfigurazione reciproca tra i molteplici poteri presenti sul territorio nell'inverno 1944-1945, superando le visioni localistiche, incrociando gli sguardi provenienti dai due lati del fronte e chiarendo le sovrapposizioni tra azione amministrativa e azione repressiva.
     
    Si analizzeranno quindi nuove dimensioni della vita sociale nell'area considerata, approfondendo i fenomeni più originali e i processi più innovativi, con particolare attenzione alle questioni di genere e generazione.

    Si darà infine rilievo alla “Linea Gotica” come nodo della public history italiana, censendo le numerose iniziative sviluppate su questo tema, proponendone una analisi critica e comparata con altre esperienze europee,  avanzando nuovi progetti di valorizzazione territoriale.

    Il convegno vero e proprio sarà accompagnato da altri eventi di rilievo, ad esso strutturalmente collegati: in particolare una tavola rotonda sulle politiche della memoria nell'area; alcuni momenti spettacolari; e un progetto di traduzione didattica delle proposte storiografiche emerse.

    Nel complesso, è nostra intenzione offrire uno sguardo di sintesi sul tema, che possa recepire e organizzare i risultati prodotti dagli istituti storici negli ultimi anni; e insieme fornire nuovi spunti di riflessione che, anche grazie allo stimolo offerto da uno sguardo internazionale,  possano far procedere ulteriormente il lavoro di ricerca e le pratiche di divulgazione.

    Qui il programma del Convegno

  • CORSO DI STORIA E DIDATTICA DELLA SHOAH

    IIIa edizione

    17-18 ottobre 2014

     

     

    Come posso trasmettere la Shoah alle generazioni del futuro?
    E come posso farlo in modo equilibrato, nel rispetto cioè della sostanza storica ma al tempo stesso tenendo a distanza la retorica e la facile demagogia?
    Infine: quali fra le molte iniziative possibili offrono i migliori benefici sul piano didattico e formativo?

     

    Per rispondere a queste domande l’Università di Bari “Aldo Moro”, per il terzo anno, istituisce venerdì 17 e sabato 18 ottobre 2014 un Corso di Storia e didattica della Shoah. Il Corso si svolge in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Regionale per la Puglia, la FLC CGIL Puglia e la Fondazione Casa Rossa di Alberobello.
    La responsabilità scientifica è a cura della Prof.ssa Francesca R. Recchia Luciani (Docente di Filosofie contemporanee, Dpt. FLESS-UniBA) il Corso si avvale dei contributi didattici del Prof. Antonio Brusa (Commissione didattica INSMLI- Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, docente di Didattica della storia, Dpt. FLESS-UniBA) e dei Dott. Pino Bruno (Giornalista e Direttore Responsabile presso Tom's Hardware Italia), Elena Musci (Docente a contratto di Educazione al patrimonio-Università della Basilicata), Sergio Chiaffarata (Presidente dell’Associazione del Centro Studi Normanno-Svevi) e Raffaele Pellegrino (Ricercatore IPSAIC Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia meridionale). La visita alla Casa Rossa di Alberobello sarà guidata dal Prof. Francesco Terzulli (Dirigente scolastico Istituto di Istruzione Secondaria Superiore “Pacinotti” di Taranto, Fondazione Casa Rossa).

     

    Il Corso dell’Università di Bari “Aldo Moro” è uno dei sedici organizzati negli stessi giorni dalla Rete Universitaria per il Giorno della Memoria in altrettanti atenei del Paese e in due atenei europei, in Polonia e in Croazia, con il patrocinio del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, delle Ambasciate d’Israele, di Polonia e di Croazia in Italia e dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

     

    Qui trovate il programma completo e la scheda di adesione

     

  • Dopo le discussioni sulla prova di storia. In attesa della tempesta perfetta?

    di Antonio Brusa

    “Non rubiamo il passato ai ragazzi”

    Se le proteste per reintrodurre la prova di storia (la vecchia tipologia C della prima prova) avessero un qualche riscontro, politico o anche solo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, sarebbe una bella vittoria per una disciplina che sta patendo un processo di marginalizzazione disastroso, ormai di livello mondiale.

    È, dunque, una buona battaglia quella lanciata da “Repubblica”, forte dell’appello della senatrice Liliana Segre, al quale hanno aderito storici, scrittori, artisti, giornalisti e tanti cittadini. I molti giovani che hanno risposto al questionario sulla reintroduzione della prova, e i moltissimi che hanno aggiunto considerazioni sull’utilità dello studio della storia, col loro numero incoraggiano tutti quelli che amano questa disciplina e ne ritengono indispensabile il portato formativo.

    Come si ricorderà, il dibattito è stato avviato dall’allarme lanciato dal Coordinamento della Giunta centrale per gli studi storici e delle Società degli storici (Cusgr, Sis, Sisem, Sisi, Sismed, Sissco), a seguito delle modifiche della prova di esame di stato (Circolare MIUR n. 3050 del 4 ottobre 2018). Su «Historia Ludens» abbiamo dato ampiamente conto dei numerosi interventi.

    Storia sotto attacco. Gran BretagnaStoria sotto attacco. Gran Bretagna

    A quella mobilitazione il ministro Marco Bussetti ha riposto con dei fatti. Aveva promesso che la storia non sarebbe scomparsa, e ha mantenuto la parola. La storia è stata presente direttamente in una delle tracce proposte, quella sul brano di Claudio Pavone, e, indirettamente, sia nella traccia su Pascoli (Patria), sia in quella sui diritti civili e soprattutto su La Storia di Elsa Morante. Dunque: la storia come disciplina importante e, per questo, trasversale, come il ministro non ha mai smesso di dichiarare. In aggiunta, Bussetti ha sottolineato che, con questo sistema, la storia è uscita dal dimenticatoio studentesco, registrando un numero di scelte superiore al passato, dal momento che gli studenti “non si sono polarizzati su una prova”. Pensando allo 0,6%, registrato dal tema sulle Foibe, assegnato al tempo della Gelmini, gli si dovrebbe dar ragione, per quanto l’instant poll di Skuola.net ci faccia temere che, comunque, la traccia di “storia-storia” sia l’ultima delle sette in lizza.

    Un dibattito acceso e una certa varietà di opinioni

    Questi “fatti” del ministro non hanno accontentato Andrea Giardina e con lui molti altri, storici e no, che li hanno considerati insufficienti a ridare alla storia quel ruolo centrale nell’impianto formativo, del quale la prova di storia era, per così dire, il sigillo.

    Tuttavia, occorre notare che il fronte delle opinioni è molto diversificato. Uno specchio di questa varietà è dato dalla rapida indagine presso i dirigenti scolastici, svolta da “AdnKronos”, nella quale, accanto a chi attribuisce la scelta del ministro al deprecabile e ulteriore allontanamento della scuola dalla visione gentiliana (!), vi è chi, come Tina Gesmundo, preside di uno dei più attivi licei di Bari, afferma che "l'eliminazione della traccia di storia fa parte di un grande disegno che va a picconare i fondamentali della nostra cultura umanistica ", al contrario di Chiara Alpestre, preside dello storico “D’Azeglio” di Torino, per la quale si tratta di "una falsa polemica”, dal momento che, se “è vero che il tema storico non viene più esplicitato” e che la Storia viene “diluita all'interno di altre tipologie”, non si può negare che “l'attenzione per tutte le dimensioni di competenza dell'allievo sia rimasta".

    La contesa potrebbe continuare: sarà vero che la trovata del ministro è “ideologica” come accusa Giardina? e che, più che eliminare una traccia poco accorsata, si sarebbe dovuto intervenire per renderla più appetibile? Si potrebbe aggiungere, per rinfocolare la polemica, che il ministro è stato abbastanza astuto, scegliendo tracce ampie, che potevano essere svolte anche conoscendo poca storia ma sapendone ben parlare, e che ha, altrettanto saggiamente, evitato il nodo degli ultimi settant’anni, quel buco nero della conoscenza storica nelle nostre scuole, messo in luce agli esami di questi ultimi due decenni (su questo vedi ancora «Historia Ludens»). Si potrebbe, anche, rinfacciare al ministro una perdita di dignità della storia, ridotta a disputare una prova di esame alle altre discipline, come lamenta il documento della SISLav, la società degli storici del lavoro.

    Quale che sia il giudizio che diamo di questo dibattito, e quali che ne siano gli esiti ultimi, tutti dovremmo riflettere sul fatto che i problemi che questo dibattito ha fatto emergere resteranno, e sono talmente gravi che dovrebbero accomunare i contendenti in uno sforzo comune. Sarebbe l’ennesima beffa, ammonisce Marco Campione, se, spentisi i fuochi della polemica, la storia tornasse nel dimenticatoio pubblico, in attesa della diatriba successiva, sull’educazione civica, o il bullismo o una qualsiasi altra disfunzione. (L’articolo, pubblicato da «Italia Oggi» può essere letto qui, in una versione leggermente diversa).

    È il caso, quindi, di tornare sulle questioni messe in luce dal dibattito, di analizzarle nella loro complessità e nei soggetti coinvolti. Occorre che tutti capiscano che ruolo vi hanno giocato, e, ciascuno per la propria parte, prendano le decisioni opportune, nella speranza che “la sveglia non sia suonata troppo tardi”, come teme Jacopo Frey, ripercorrendo la vicenda di una degradazione della disciplina, che negli ultimi venti anni è apparsa inarrestabile.

    La diminuzione delle ore di storia

    Che la ministra Gelmini abbia operato un “pesante taglio delle ore di insegnamento” è notizia ormai da Wikipedia. Nascoste nelle pieghe di una delle tante leggi per la semplificazione e il risparmio (burocraticamente: Legge 133/2008) vi erano le norme per la semplificazione scolastica, con le quali la ministra, “con il pretesto di creare uno zoccolo duro di apprendimenti”, sfalciava gli orari, con un particolare riguardo per la storia. A 10 anni di distanza, Mariangela Caprara a buon diritto segnala quella, come la data d’inizio del naufragio.

    Storia sotto attacco. Stati UnitiStoria sotto attacco. Stati Uniti

    Tuttavia, a sfogliare le agenzie del tempo, ci sorprende la flebilità delle proteste (confrontate, per dirne una, a quelle attuali). Una scuola più “leggera” fa risparmiare e questo – a molti della maggioranza come dell’opposizione – non dovette apparire un danno irreparabile; e una scuola “più semplificata” forse non dispiacque a tanti storici, per i quali le complicazioni didattiche sono volentieri il sintomo di un qualche sconfinamento pedagogico. Si levarono lamenti per la sparizione della geografia; parecchi gridarono alla cancellazione della storia dell’arte (un’accusa alla Gelmini che si rivelò non del tutto fondata.). Ma gli allarmi reali, quelli che avrebbero dovuto risuonare al cospetto della frana della storia, tacquero. Né ebbero una minima eco le denunce lanciate da «Mundus», la rivista di didattica della storia che l’editore Palumbo ha pubblicato per qualche anno (n. 5-6, 2007, Editoriale).

    Passati sotto silenzio allora, è indispensabile ricordare quei tagli oggi, per apprezzarne correttamente la gravità. Può aiutare questo prospetto orario, calcolato sui due cicli dei programmi attuali (con l’avvertenza che il conto è necessariamente approssimato, dal momento che è molto difficile valutare l’incidenza dell’autonomia negli orari effettivi adottati dai singoli istituti).

     

      Prima della GelminiDopo la Gelmini
    Primaria L’insegnante dell’area geo-storico-sociale disponeva di 9 ore settimanali.
    La pratica di fare “molta storia” era abbastanza diffusa
    Dalle 3 alle 7 ore settimanali
    Nell’ultimo biennio, quindi, da 268 ore in su.
    2 ore/1 ora
    Nell’ultimo biennio fra le 132 e le 66 ore
    Secondaria di primo grado L’insegnante disponeva di 2 ore di storia e altrettante di geografia. In terza aggiungeva 30 ore di educazione civica. Gelmini abolisce queste ultime e introduce geo-storia con 3 ore settimanali 68 ore annuali. 234, totali nel triennio, comprese quelle di educazione civica. 51 ore annuali
    153 ore nel triennio
    Secondaria di secondo grado Ad eccezione liceo classico, che propone 3 ore settimanali, tutti gli altri istituti hanno la storia a due ore, che diventano 4 con geografia. Geostoria riduce di un quarto queste ore. 340 ore nel quinquennio 265 ore
    Tutto il curricolo di storia L’autonomia fa sì che i totali varino da istituto a istituto 840 (e oltre)
    (da aumentare, a seconda delle scelte degli insegnanti della primaria)
    550 (spesso anche meno)
    (calcolando un programma di 132 ore nella primaria)
    Perdita approssimativa nell’intero curricolo: almeno 289 ore

     

    Quanto incide l’autonomia sulle ore di storia?

    Molto, dovremmo dire, per quanto sia estremamente complicato acquisire dati certi per tutto il territorio nazionale. Una frequentazione piuttosto assidua delle scuole mi ha fatto conoscere una vasta tipologia di comportamenti. Vi sono primarie nelle quali, giocando con orari e spostamenti di personale, si è riusciti a mantenere un assetto comparabile a quello dell’ “età d’oro” della Falcucci; altre, invece, nelle quali le tre ore delle scienze geo-storico-sociali sono state divise equamente fra Storia, Geografia e Cittadinanza e Costituzione. Lo stesso ventaglio trovo nelle secondarie di primo grado: qui, accanto al decadimento delle discipline geo-storico-sociali a materie da un’ora la settimana, sappiamo di calendari alternanti (una settimana alla storia, l’altra alla geografia); mentre non mancano istituti virtuosi, dove, recuperando “l’ora di approfondimento”, si ripristina il monte ore pre-Gelmini.

    A questa varietà di comportamenti corrisponde un'organizzazione lavorativa altrettanto diversificata: mi è capitato di conoscere insegnanti, prossimi apparentemente al suicidio, la cui cattedra era composta da 9 ore di lavoro in un corso, e da altrettante da spendere in nove classi diverse. Immagino che una ricognizione capillare ci riserverebbe altre sorprese.

    Il disastro delle professionali. Un caso di studio della marginalizzazione della storia

    Nel loro documento di protesta, gli storici citano, a riprova della volontà politica di marginalizzazione della storia, la questione del biennio delle professionali, dove la storia è diventata materia da un’ora la settimana. A mio modo di vedere, si tratta un perfetto caso di studio nel quale analizzare la complessità del problema e le diverse responsabilità dei soggetti coinvolti.

    Storia sotto attacco. ItaliaStoria sotto attacco. Italia <br> (Targa esposta nei negozi Feltrinelli)

    Cominciamo dal Miur. Nell’aprile del 2017 la ministra Valeria Fedeli varò il decreto di riordino degli istituti professionali. Nei quadri orari (riportati nell’Allegato 3) leggiamo che all’ “asse storico-sociale” del biennio sono assegnate 264 ore, esattamente quante vengono assegnate all’italiano e all’asse scientifico. L’asse storico-sociale è, di fatto, uno dei tre pilastri della formazione di base. Questa, nel suo complesso, gode di 1188 ore, un gruzzolo orario ben superiore a quello destinato al comparto professionalizzante (di 914 ore). L’accusa che la politica culturale del Miur è antiumanista e, in particolare, tesa alla svalorizzazione della storia non coglie nel segno: almeno fino a questo momento, e per quanto riguarda le professionali.

    Come si arriva al dimezzamento della storia

    Tradizionalmente, di quel monte ore ne venivano assegnate due alla storia e due a economia e diritto. Quindi la storia nelle professionali aveva 66 ore annue, quante nelle altre secondarie superiori (con l’eccezione del Classico, ovviamente). Mancava la geografia, che, finalmente nel 2018/19, ha cominciato a vedere i frutti delle sue lunghe battaglie per entrare nei curricoli. Lo annuncia trionfalmente Paola Pepe, dalle colonne della rivista online dell’Aiig (Associazione degli insegnanti di geografia), avvisando gli iscritti che la loro disciplina potrà avvalersi di un’ora, se non due, la settimana («l’insegnamento di geografia non deve necessariamente essere di un’ora settimanale, potrebbe essere anche di due ore o più»). Il punto è: dove si prendono queste ore? Come Pepe ricorda in quello stesso articolo, l’introduzione della geografia è una tipica riforma “senza oneri aggiuntivi”. Il monte ore resta quello. Per farsi spazio, la nuova deve cannibalizzare (mi si passi il termine) le discipline che c’erano prima.

    Se queste 264 ore vengono ripartite al modo di Salomone, generano quattro materie da un’ora la settimana. Come sanno bene gli insegnanti, e in particolare quelli delle professionali, per gli allievi diventano quattro materie di importanza trascurabile; ai professori prospettano un lavoro per nulla entusiasmante. Che programma di studi si può realizzare con sole 33 ore l’anno?

    264 ore. La politica italiana (precedente al governo in carica) ha fatto un investimento culturale notevole negli istituti professionali. Un investimento che stiamo sprecando, dobbiamo concludere con tristezza.

    Un disastro non necessario

    Ma è ineluttabile questo modello di ripartizione oraria? Niente affatto. Certo, bisogna farsi largo fra i rovi del buropedagoghese ministeriale per capire come. Ma, con un po’ di pazienza, si scopre che nelle intenzioni del legislatore le quattro discipline sono da vedere quanto più possibile legate fra di loro. Sono “aggregate”, si dice più volte (artt. 2 e 5), mentre si sottolinea che vanno privilegiati i progetti e i momenti interdisciplinari (art. 5, commi b, c).

    Non compare in nessuna parte del testo la norma che il monte ore vada suddiviso in parti uguali. La parola che ricorre spesso è “flessibilità”. Se ne danno anche dei parametri: ogni disciplina può “perdere fino al 20%” del tempo assegnato (che è poi una stranezza, visto che questo tempo non è mai definito); si dice, ancora, che si può modificare fino al 40% dell’orario. Vi è, ancora, una riserva di 264 ore da destinare a progetti individualizzanti, che nessuno vieta che vengano utilizzate a supporto di questo o quell’apprendimento. Per non parlare, infine, di quella marea di progetti (PON e altri) che, invece di disperdere l’attenzione degli allievi in mille rivoli, potrebbe essere finalizzata a una meritoria integrazione disciplinare.

    Si potrebbe fare qualcosa nelle scuole?

    I mezzi, almeno per limitare dei danni, ci sarebbero. Vista la gravità della situazione, ci attenderemmo che venissero attivati (nelle scuole e nel Miur, che potrebbe riservare a questo tema qualcuna delle sue incessanti direttive). Si può lavorare con le compresenze, col personale di potenziamento; si potrebbero discutere scelte anche dolorose, per salvare una disciplina e non perderle tutte e quattro. E, poi, perché non creare, come prescrive la norma, momenti integrati di lavoro storico-geografico o di storia e diritto, e perché non provare a mettere economia con storia o con geografia?

    Storia sotto attacco. AustraliaStoria sotto attacco. Australia

    Indubbiamente questa ri-organizzazione del lavoro crea problemi: orari magari non facili per i docenti, e non solo di quelli dell’asse storico-sociale; spostamenti di personale; fastidiose revisioni di abitudini; questioni sindacali; una progettazione didattica laboriosa; richieste di aggiornamento specifiche; un’azione pressante negli organi collegiali per sensibilizzare colleghi e dirigenti. Il tutto aggravato – probabilmente - da una certa inconsapevolezza delle opportunità che l’autonomia offre. È una miriade di ostacoli, della struttura e delle persone, per superare i quali occorrerebbe che la comunità scolastica condividesse un po’ di quella passione per la storia e per la sua utilità civile, che gli intervenuti al dibattito dichiarano sui media. Forse questa vicenda ci sta raccontando che questa condivisione non è molto diffusa, nelle nostre scuole.

    Disastri prossimi venturi

    Un tempo la geografia economica regnava nelle scuole tecniche e professionali. Fatta fuori da sciagurate riforme passate, è giusto che i colleghi di geografia le provino tutte per cercare di reintrodurla. Ma, come abbiamo visto, la combinazione fra la non volontà di spendere (“senza oneri aggiuntivi”) e l’incapacità delle scuole di rimodulare gli insegnamenti, porta a risultati spiacevoli per tutti, geografi compresi.

    Storia sotto attacco. Nuova ZelandaStoria sotto attacco. Nuova Zelanda

    Non saranno gli ultimi. Forti del successo nei bienni e dell’endorsement di Bussetti, i colleghi di geografia si dicono sicuri di entrare nei trienni delle professionali, dove non ci sono gli assi, ma c’è solo storia; chiedono con insistenza che il voto di “geostoria” sia disgiunto in tutti i bienni: il che potrebbe voler dire suddividere le tre ore attuali e riassegnarle in parti uguali, magari con insegnanti diversi.

    Dietro l’angolo c’è l’Educazione civica. Vantando un sorprendente sostegno trasversale, che va dall’Anci alla Lega (la proposta di legge è dei deputati brianzoli Capitanio e Centemero), accenderà di sicuro una nuova discussione mediatica sulla scuola, il cyberbullismo, i consumi giovanili di droghe e, come annunciò Salvini, sui professori che non vengono più rispettati. Nella proposta di legge, i dati che ci devono preoccupare ci sono tutti. La materia sarà di 33 ore, insegnata dai professori di storia e geografia nella scuola di base e da quelli di diritto e economia nella scuola superiore, con voto separato e prova d’esame, e, dulcis in fundo, con la clausola di “invarianza finanziaria”: senza oneri aggiuntivi e con il personale attualmente in servizio (art.4).

    Aspettiamo l’esito delle proteste per l’introduzione di Storia dell’Arte, e siamo curiosi di capire come e con quante ore verrà introdotta la Storia regionale, promessa per il momento da Bussetti al solo Zaia, governatore della Regione Veneto.

    Non discuto, qui, le intenzioni dei proponenti. Sottolineo il fatto che, se la scuola non riuscirà a sfruttare le opportunità dell’autonomia, il palazzo di via Trastevere continuerà a essere la borsa degli stakeholder della didattica, e le discipline universitarie continueranno a pensare che, trasformandosi in lobbies, risolveranno i loro problemi didattici, è certo che il peggio deve ancora venire.

    Quando, e di quanto, si scenderà ovunque sotto l’ora di storia settimanale?

    Poche ore, molta didattica

    “Più diminuiscono le ore, più la didattica della storia è necessaria”. Con queste parole Alessandro Cavalli sintetizza i lavori dell’ultima assemblea (2017) degli studiosi di didattica della storia tedeschi. Infatti, se in Italia si piange, in Germania non si ride: qui la storia è già, in diverse situazioni, materia da un’ora la settimana. Non c’è spazio per errori e perdite di tempo, quando l’orario è così ridotto all’osso. Tutto deve essere ben studiato: la formazione dei prof, la scelta degli argomenti, le modalità di studio, il rapporto fra sapere esperto e materia di insegnamento. Questo compito impegna ben 320 specialisti, tanti risultano dai dati della loro associazione. La loro competenza è considerata necessaria per la conduzione della macchina della formazione storica nazionale.

    È indispensabile, poi, anche per i dibattiti che scoppiano periodicamente a proposito della storia. Infatti, queste discussioni pubbliche, prive come sono di riferimenti solidi, poggiati su corpose ricerche universitarie, diventano facilmente l’arena dove si scontrano opinioni, anche autorevoli, ma con scarsi fondamenti professionali. Inoltre, se guardiamo la cosa dal punto di vista della politica, è di vitale importanza che i decisori usufruiscano di quadri costruiti su dati di ricerca, che non siano solo il frutto di predilezioni e di esperienze personali.

    Così pensano in Germania: la situazione italiana è sotto i nostri occhi.

    320 a 0. Questo potrebbe essere l’esito del confronto fra Italia e Germania, dal momento gli storici italiani che si occupano di didattica si contano sulle dita di una mano, mentre non ci sono (in servizio) studiosi specializzati in questa disciplina. Luigi Cajani ci spiega in che modo, e perché, la storiografia italiana sia giunta a questi risultati, in una relazione presentata al convegno sulle prospettive della didattica della storia in Italia, organizzato da Walter Panciera, il coordinatore della sezione didattica della Sisem (Le vicende della didattica della storia in Italia, in E. Valseriati (a cura di), Prospettive per la didattica della storia in Italia e in Europa, Palermo, 2019, pp. 121-130).

    Storia sotto attacco. GiapponeStoria sotto attacco. Giappone

    La conclusione che ricaviamo è inesorabile. La comunità degli storici non è in grado di intervenire in questo dibattito se non con delle opinioni. Qualificate per quanto si voglia, ma sempre opinioni.

    Per giunta, la mancanza di una seria ricerca storico-didattica non consente ai colleghi storici di collaborare professionalmente alla soluzione di quei problemi che la discussione sull’esame ha messo in evidenza, e che sono stati ripresi in una vasta gamma di interventi, da Gianni Oliva, storico e preside, fino a «Wired» rivista di innovazione digitale, ma preoccupata, in questa occasione, delle sorti della conoscenza storica: come riconfigurare il programma di studi, in modo da permettere al docente di affrontare gli ultimi settant’anni? Quali sono le letture storiche di questo periodo didatticamente più efficaci? In che modo far sì che la disciplina storica diventi un po’ più attraente? Quali sono gli approcci più sicuri per affrontare l’integrazione fra storia le altre discipline sociali e geografiche? In che modo includere nella trattazione storica quegli elementi che consentono di svolgere anche temi di educazione alla cittadinanza?

    Di fronte a queste richieste, l’accademia italiana non è in grado di offrire una solida ricerca didattica. L’insegnante deve continuare a sbrigarsela da solo. Le case editrici hanno mano libera per produrre proposte di dubbia consistenza (è palmare nel caso della geostoria). E, nella prospettiva della revisione dei programmi (anche questa una minaccia dietro l’angolo), il Miur non avrà nessun progetto, discusso e validato dagli storici, con il quale confrontarsi.

    La “Questione didattica”

    In realtà, negli ultimi due anni le Società degli Storici sembravano essersi rese conto della gravità della situazione e avevano cominciato a mettere a fuoco il fatto che esiste una “questione didattica” italiana. Avevano organizzato un buon numero di convegni, messo in cantiere qualche master di didattica della storia (che mi auguro vengano effettivamente attivati), ma – soprattutto – lanciato al Miur l’idea di un centro nazionale per lo studio della didattica storica.

    Il nuovo governo non appare molto interessato a questa prospettiva e le stesse associazioni degli storici sembrano aver abbandonato questa idea, forse attratte dalle scintillanti promesse didattiche della Public History. Questa prospettiva, suggerita da Andrea Giardina a ridosso delle dichiarazioni ministeriali, è stata successivamente ripresa da David Bidussa.

    La Public History, si sostiene, vanta modalità di comunicazione efficaci e attraenti: film, documentari, fiction seriali, tridimensionalità, spettacolarizzazione, gamification, reenactement. È ciò che serve per modificare la percezione di una disciplina noiosa e per disincagliarla dalle secche della sua marginalizzazione.

    Ma è una semplificazione inaccettabile quella «che porta a identificare la Public History come la soluzione alla marginalizzazione della storia» (Agostino Bistarelli). Non si tiene presente, argomentando in questo modo, che la Public History, come qualsiasi altra branca della storiografia dalla quale si vogliano prendere materiali da portare in classe, deve diventare essa stessa un oggetto della didattica storica (lo ricorda Luigi Cajani sulle pagine di Public History Weekly), se vogliamo che venga trattata con maestria professionale. È questa, che mette in grado il docente di fornire, «attraverso un lavoro pluriennale, competenze storiche che permettano di destreggiarsi tra le narrazioni del passato che l’odierna società globale ci propone». Così si esprime Salvo Adorno, coordinatore della sezione didattica della Sissco.

    La Public History non sostituisce la didattica, ma ne acuisce, se mai ce ne fosse bisogno, il problema della mancanza

    La tempesta perfetta

    È tipico dei dibattiti sulla scuola l’individuazione della politica come l’unico nemico da battere. A questa regola non ha fatto eccezione la querelle sulla prova di storia. La pur rapida analisi, che qui ho proposto, spero abbia messo in evidenza come molti siano i padri delle disfunzioni lamentate.

    C’è l’Università che, incapace di produrre una proposta culturale che costringa il Miur a confrontarsi, si sfrangia in lobbies, ciascuna delle quali attiva sue strategie di vittoria; c’è la comunità degli storici, che non ha mai preso in considerazione l’indispensabilità di una solida didattica disciplinare; c’è la scuola che, incapace di usare al meglio gli strumenti dell’autonomia, ottiene spesso il risultato di peggiorare direttive, già nate male di suo. C’è il Miur, che interpreta la sua azione di governo della formazione dei cittadini unicamente come mediazione dei diversi interessi (didattici e no). Ci sono i media, che rinunciano all’analisi per ridursi a eco delle rimostranze. C’è un pubblico, infine, propenso a premiare chi, fra tutti questi, si lamenta più credibilmente.

    Gli ingredienti di una tempesta perfetta ci sono tutti. Non se ne esce, temo, se ciascuno dei suoi protagonisti non comincia a rendersi conto delle sue responsabilità, e della parte di problema che gli tocca affrontare.

     

    Immagini

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  • E per ultimo arrivò Colombo.

    Autore: Antonio Brusa

    Dei musulmani e dei numerosi altri scopritori dell’America

     

    Indice

    •    La storia fra politica e radiologia
    •    Il metodo degli scopritori
    •    Come nasce una storia inventata
    •    Uso politico della “parastoria”
    •    Un obiettivo che fa gola a molti
    •    Una saga ammonitrice

    Erdogan fra i rappresentanti delle comunità musulmane nell’America Latina

     

    La storia, fra politica e radiologia

    Quando igiornali di tutto il mondo ci informarono che Recep Tayyip Erdogan, presidente della Turchia, aveva dichiarato al “Primo summit dei leader dell’Islam in Sudamerica” (15 nov. 2014) che i musulmani erano arrivati in America ben prima di Colombo, sorpreso come molti, ho provato a cercare la fonte di questa scoperta. Il punto di partenza della ricerca era offerto da quegli stessi giornali: un sito dell’As-Sunna Foundation. E’ un sito americano, prevalentemente dedicato a fatti religiosi, ma provvisto anche di una sezione storica, in fondo alla quale si trova una rubrica dedicata ai musulmani americani, il cui primo articolo era appunto quello della Scoperta Islamica, a firma diShaykh Gibril Fouad Haddad As-Sunnah Foundation of America. Un paio di giorni dopo, l’articolo venne rimosso (siete liberi di immaginarne i motivi). Fortunatamente, Luigi Cajani, che mi aiutava in questa ricerca, l’aveva già scaricato. Così, non ci ho messo molto a ritrovarlo, pubblicato sotto un altro nome, quello di Youssef Mroueh, a tutta vista il suo vero autore. E', infatti, lo scritto che questi redasse per la celebrazione del millenario dell’arrivo dei musulmani in America (996-1996). Mi è parso l’autorità indiscutibile in questo campo, il riferimento obbligato dei sostenitori della tesi islamista. Per la “Washington Post”, Mroueh è uno storico. Per altri, meno condiscendenti, è un rispettabile studioso di radiologia.

     

    Il metodo degli scopritori

    Il nostro storico-radiologo si dimostra padrone di quella forma di ragionamento che potremmo nominare “sillogismo alla Giacobbo”, un dispositivo argomentativo che permette di transitare da una dubitativa iniziale (“delle evidenze suggeriscono che”, “sembra plausibile che”, “tutto lascia pensare che”), a una dubitativa secondaria, che consiste nell’insinuare qualche sospetto sul sapere acquisito, per chiudere con una certezza finale, alla quale segue normalmente la postilla sconsolata sulla scienza ufficiale che ostacolerebbe la scoperta della verità.

    La seconda arma a disposizione di questi scopritori di scopritori, consiste nell’uso sfrenato dell’analogia. Ci sono delle statue americane che somigliano a statue africane? Ci sono petroglifi del Great Basin che richiamano caratteri libici? Toponimi americani dalle sonorità arabe? Anfore scoperte in prossimità del Brasile dalla silhouette simile a quelle mediterranee? Parole di nativi americani (algonchine, caraibiche o quecha, fa lo stesso) che sembrano uscite dal Corano? Colline il cui profilo ripete quello di una moschea (questa analogia, peraltro, fu suggerita dallo stesso Colombo)? per non parlare delle piramidi centroamericane che non poterono che essere costruite a imitazione di quelle egizie. Sommate le somiglianze, avrete la prova irrefutabile della frequenza dei traffici che, all’insaputa di tutti, hanno legato per millenni Africa e America.


    Testa colossale olmeca


    Il terzo genere di prove è francamente sorprendente, perché consiste in testimonianze orali, rese da nativi americani che rammenterebbero tradizioni islamiche precolombiane. Se volete cimentarvi con la lettura completa delle prove a supporto della letteratura “before Columbus”, leggetevi illungo testo di Abdullah Hakim Quick, studioso di radici islamiche del mondo caraibico.

    Trovo che questo incipit di Yahia Zeghoudi, Maître de Conférencedel Centre Universitaire de Ghardaia, costituisca un esempio plastico di questa retorica argomentativa. Si comincia dalle ipotesi “pochi studiosi e molti musulmani sospettano”. Si mette in dubbio il sapere consolidato con l’uso delle virgolette, quando si parla della “scoperta” di Colombo e degli “indiani”, che a questo punto sarebbero poco nativi e molto discendenti di genti musulmane. Si inserisce l’analogia fra l’espressione Mandinka, della quale si riporta il significato in caratteri arabi, e il nome caraibico di San Salvador; e, alla fine, giunge la rivelazione che nessuno avrebbe mai potuto sospettare. Colombo fu proprio l’ultimo.

    Few scholars and ordinary Muslim people suspect the arrival of
    Muslims at the Americas a long time before the “discovery” of
    Christopher Columbus of the San Salvador Island in 1492. By the way,
    this island was called by the natives “Indians” Guana Hani, a Mandinka
    word meaning( الإخوانهانئ). Probably, no one could have dreamt of the
    idea of a Muslim presence on the American continent. However, new
    theories based on archaeological findings tend to point in this direction.
    This means that Columbus was the “last” to arrive, and not the
    discoverer.

     

    Come nasce una storia inventata

    I documenti scritti utilizzati in queste argomentazioni sono brani tratti da geografi arabi medievali, come Al-Masudi e vari altri. Alcuni di questi fanno colpo per la loro notorietà: Idrissi e Piri Reis. Ma, non essendo un arabista, e nemmeno un radiologo, non mi azzardo nella loro esegesi, affidandomi agli specialisti che se ne sono occupati.
     

    Piri Reis: particolare dell’Atlante e ritratto, da unsito turco, nel quale ci si chiede se questa non sia la mappa di un tesoro, nascosto a Gallipoli

     

    Fra le innumerevoli contestazioni, mi sembra particolarmente impressionante quella che riguarda Piri Reis. Il suo Atlante, redatto a Istanbul al principio del 1500, è considerato dai modernisti di tutto il mondo una fonte preziosissima per la cultura geografica e per la storia del Mediterraneo. Tale è anche per Abdullah Hakim Quick, che lo definisce:“the most conclusive pieces of hard evidence to show the validity of Muslim exploration in the Western hemisphere”. Lo studioso islamista ricava questa certezza da Ivan van Sertima, che nel 1991 affermò che Piri Reis “mostra senza ombra di dubbio che gli Africani attraversarono l’Atlantico in tempi antichissimi”. A sua volta, van Sertima ottiene la sua convinzione da Charles Hapgood, che nel 1966 scoprì che Piri Reis aveva copiato la sua mappa da un originale, disegnato ben 10 mila anni fa da una civiltà superiore, a Cuiculco, in Messico. Col tempo – aveva spiegato Hapgood - questo esemplare era andato perduto, ma le sue tracce sono ben visibili (diceva sempre Hapgood) nelle culture egizie, mesopotamiche e cinesi. D’altra parte, poteva godere del sostegno di Erich von Daniken, secondo il quale era fuori di dubbio che queste carte erano ricavate da foto aeree scattate da alieni.

    Questa genealogia di argomentazioni l’ho trovata in un saggio di Bernard Ortiz de Montellano, Gabriel Haslip-Viera e Warren Barbour, They where NOT Here before Columbus. Afrocentric Hyperdiffusionism in the 1990 (“Etnohistory”, 44, 2, pp. 1997, pp. 199-234, 207). In questo saggio si racconta una vicenda interpretativa che inizia nel lontano 1862, quando la scoperta di sculture ciclopiche olmeche portò alcuni ad ipotizzare una loro derivazione da sculture africane, a causa di caratteri identificati come “negroidi”. Ha un punto di svolta nel 1922, data di pubblicazione di  Africa and the Discovery of America, di Leo Wiener, professore di filologia slava negli Usa, che in tre volumi eruditissimi (e altrettanto criticati) lanciò la teoria che i primi scopritori dell’America furono africani. E, poiché alcuni di questi erano musulmani (o avrebbero potuto esserlo), su questa tradizione fu agevole, nel clima della decolonizzazione postbellica e della rivendicazione dei diritti civili, innestare la storia della scoperta islamica (Richard Francaviglia, “Far Beyond the Western Sea of the Arabs...”: Reinterpreting Claims about Pre-Columbian Muslims in the Americas, in “Terraeincognitae”, 46, 2, pp. 103-138).

     

    Uso politico della “parastoria”

    Con l’avvento di internet, questa genealogia lineare – di lettori che leggono libri di altri lettori – diventa una nuvola intricatissima di rimandi che più cresce, più si autoconferma. Una sorta di “parastoria”, che adopera sistemi di verifica e di argomentazione simili a quelli della storia: un fenomeno ben conosciuto, in particolare dagli studiosi del negazionismo. Questa parastoria, essendo totalmente autoreferente, risulta inattaccabile a critiche, che oltretutto tende a catalogare come frutto di avversione ideologica, quando non di pregiudizio eurocentrico (per leggere alcune di queste critiche, basta sfogliare la rivista online history news networks.org, e leggere gli interventi di Rebecca Fachner e David Yeagley).

    E’ una nuvola non neutra politicamente. Audrey Shabbas ha curato un libro di oltre cinquecento pagine - Arab World Studies Notebook - per insegnare nelle scuole che i musulmani hanno scoperto l’America e che, perciò, i nativi americani sono loro discendenti (e ovviamente tanto altro soprattutto sul ruolo degli arabi nel mondo contemporaneo). Trovate la notizia del libro sul suo sito, con i moduli per le donazioni (ma il link al libro non si apre). Ho letto, in un intervento di Rebecca Fachner, che l’autrice, sottoposta a un fuoco di fila di critiche – a quanto pare i nativi americani non gradiscono molto l’imposizione di questa ascendenza -  ha declinato l’invito a mostrare le prove a supporto della sua teoria.

    La posta in gioco è altissima. Secondo Richard Francaviglia, direttore del Center for Greater Southwestern Studies presso l’Università del Texas, questo racconto storico ha tre scopi. Il primo è quello di mostrare come l’esplorazione islamica fu più imponente di quella cristiana; il secondo, quello di dipingere l’Islam gentile con i nativi, al contrario dei cristiani; il terzo, quello di definire bigotti tutti coloro che si oppongono a questa tesi. In questo modo, l’Islam viene trasformato in una fede radicata in America e la Umma, la comunità dei credenti, si estende sul pianeta. E’, senza alcun dubbio (continua Francaviglia), un modo per alimentare la guerra fra le culture (Brad Petter).

     

    Un obiettivo che fa gola a molti

    Diventare “scopritore dell’America”, dunque, è diventato qualcosa di più che rivendicare un titolo di nobiltà. E’, nel mondo globalizzato, affermare la propria centralità planetaria.Questo è il senso dell’intervento di Erdogan, studiato con cura per una importante occasione pubblica. E’ un obiettivo quanto mai appetibile e, come mostra lo specchietto che segue, con tanti aspiranti. Ecco, quindi, l’elenco, temo incompleto, di coloro che si sono proposti come scopritori, con le relative evidenze “scientifiche. Se, scorrendolo, resterete delusi della scarsità delle prove a supporto degli scopritori dell’Antica Roma (un’anfora poi rivelatasi del XVII secolo e un falso, scolpito da uno studente), consolatevi con la recente fatica di  Elio Cadelo, giornalista della Rai, che, con dovizia di citazioni di Virgilio, Tito Livio e tanti altri, sostiene che, avendo l’Impero Romano la capacità di scoprire l’America, l’ha fatto sicuramente.

    Una saga ammonitrice

    Barry Fells è un archeologo marino neozelandese molto utilizzato in questo genere di scritti. La sua prima opera America BC(1976) era stata demolita dagli storici senza pietà. Qualche anno dopo, ha ritentato con Saga America (1980), un libro massiccio, dove si trovano le interpretazioni dei petroglifi del Great Basin, alle quali ho accennato sopra. Anche questa opera, dice David Hurst Thomas, recensendola sul “Journal of California and Great Basin Archaeology”, andrebbe screditata con la stessa severità. Ma, continua, si tratta di un’opera elogiata dalla Casa Bianca, che ha trovato un editore di prestigio e che piace al grande pubblico. Questa diffusione, perciò, ci suggerisce qualche riflessione in più: “Chiunque pensi che gli archeologi dovrebbe adottare una politica di “benigna ignoranza” verso questa archeologia un po’ picchiatella, probabilmente scherza. Libri come questo devono essere un barometro per misurare quanto poco siamo riusciti a spiegare l’archeologia al pubblico americano”.

    Possiamo far nostra anche noi, insegnanti di storia europei, questa conclusione.

  • Facciamo l’Italia!

    Autore: Laura Gussago

    Gioco sul Risorgimento

    Introduzione

    Bezzecca, scuola media. Forse non c’era luogo più adatto, per inventare questo gioco, che nasce da un adattamento de “Gli imperatori sfigati” (che troverete su HL) e riguarda le teorie politiche alla vigilia del Risorgimento. E’ un gioco realizzato con informazioni fornite dal manuale in adozione. Perciò, lo considero una bella dimostrazione di “didattica povera”. I materiali che si hanno, due ore in classe, un po’ di tecnica ludica, e il gioco è fatto.

    Le fasi dell’attività sono quelle descritte su HL. Qui le richiamo brevemente. Si scelgono – segretamente - i ragazzi e le ragazze che devono impersonare i protagonisti (sono cinque: Gioberti, Balbo, D’Azeglio, Cattaneo e Mazzini). Si passano loro le biografie che reciteranno. Basta farlo il giorno prima (a me è capitato di farlo anche un quarto d’ora prima). Non le devono imparare a memoria. Possono recitare guardando il testo. Devono solo metterci un po’ di passione intepretativa. E, ovviamente, non dovranno parlarne coi compagni.

    Il gioco viene introdotto dal prof, che sceglierà per sé la parte dello storico, del cronista o dell’intervistatore (quella che gli viene meglio). Una presentazione rapida (Oggi non siete la seconda A, siete un gruppo di simpatizzanti dell’Unità d’Italia, vi siete incontrati di nascosto in una villa di campagna. E’ un momento decisivo, perché dovete decidere come si farà l’Unità d’Italia). I ragazzi-attori sono mescolati nel pubblico. Nessuno sa chi siano. Perciò, quando voi chiederete  se c’è qualcuno che vuole parlare, si alzerà per primo Vincenzo Gioberti. Gli altri si alzeranno nell’ordine che avrete concordato in precedenza, suscitando un po’ di sopresa nella classe.

    Il ragazzo, o la ragazza si presenta e fa la sua proposta. Se si inceppa, voi lo indirizzate con domande o integrazioni (“mi hanno detto che”, “mi conferma quello che ho sentito”, “ho letto che”, “i suoi nemici sostengono”, “il governo austriaco ha fatto sapere”). E’ importante dare del “lei” e usare un tono formale. Quando l’allievo ha finito, sollecitate qualcun altro a intervenire. Si alzerà Cesare Balbo e via di seguito gli altri.

    Alla fine si apre la discussione. Può essere semplicemente una dichiarazione individuale di voto. Oppure, si può chiedere alla classe di dividersi in gruppi, di concordare una dichiarazione e di leggerla. Un semplice lavoro di sintesi (una tabella, per esempio) può chiudere l’unità di lavoro. Sarà, infine, il caso di prendere nota dei termini che vi sembreranno meritevoli di una spiegazione successiva, come confederazione, federazione,  ecc.

    Di seguito troverete le biografie da consegnare agli allievi, e un piccolo identikit di caratteri, ai quali l’attore o l’attrice potrebbero ispirarsi. E’ solo un suggerimento, ma potrebbe servire a dare un pizzico di humor alla rappresentazione. Per i più esperti, potrà anche essere un momento per concordare, con gli allievi, il carattere del personaggio, e modificarlo a piacimento. Nella realizzazione, poi, consiglio di dare uno sguardo al proprio manuale, e modificare i testi, in modo da far interagire il gioco con  ciò che dovranno studiare. E dove scopriranno come sono andate effettivamente le cose.Ovviamente, non sono  necessari travestimenti e parrucche, ma se un allievo o un’allieva tirassero fuori all’ultimo momento un paio di lunettes, o si mettesse un paio di baffi, farebbe il suo effetto. (HL)

     

    I materiali del gioco

     

    1.    Vincenzo Gioberti

    Veramente, sono un prete, non un politico. Ma amo troppo l’Italia e voglio dare una  mano per costruirla. Mi chiamo Vincenzo Gioberti. Ecco quello che ho pensato: noi italiani siamo deboli, perché siamo spezzettati in tanti stati. Siamo molto diversi uno dall’altro: la lingua, le usanze, le città, i governanti. Solo una cosa è comune: la fede!

    Basta con le lotte, vi dico. Possiamo creare l’Unità d’Italia in modo pacifico. Facciamo una Confederazione, nella quale ogni Stato conserverà il suo governo. Ognuno resterà al suo posto, così sarà contento. Ma a capo ci sarà il Papa. Lui sarà la nostra guida. Solo il Pontefice può tenere insieme tanti popoli, così diversi e litigiosi. Ma se volete saperne di più, allora leggetevi il mio libro Del Primato morale e civile degli italiani, e vi convincerete.

     

    2.    Cesare Balbo

    Io sono Cesare Balbo. Uno storico e un nobile. Anch’io ho scritto un libro. Si chiama Le speranze degli Italiani. E vi consiglio i non essere così ingenui, come sostiene Gioberti. Solo un prete può pensare che l’Austria acconsentirebbe alla creazione di una Confederazione guidata dal papa. Lascerebbe i suoi possedimenti così, senza dire E SENZA FARE nulla?

    Statemi a sentire bene. Ci sono solo due possibilità: o l’Austria accetta di entrare nella Confederazione, e allora continuerebbe a spadroneggiare come prima; oppure decide di restarne fuori. Ma allora, senza il Lombardo- Veneto, che sono le regioni che ora essa possiede, che Italia unita sarebbe?

    Cari miei, svegliatevi! L’Austria non se ne andrà mai, se non con la forza. E, per piacere, basta con questi “moti” che non servono a nulla. Qui ci vuole la guerra. E chi ha un esercito per combatterla? Solo i Savoia! Carlo Alberto, il re di Sardegna e del Piemonte: lui solo può essere il promotore di questa Confederazione.

     

    3.    Massimo D’Azeglio

    Sono perfettamente d’accordo! Ci vuole la guerra contro l’Austria e la sua arroganza. Io sono un artista. Sono Massimo d’Azeglio, scrivo libri e dipingo quadri. E’ vero che sono torinese. Ma questa cosa l’hanno capita tutti ormai: Il Piemonte è l’unica forza militare in grado di scacciare l’Austria!

    Vi dico chiaramente: ci vuole una Confederazione, ma deve essere governata da un re vero, non da un papa. L’Italia deve essere uno stato solo. Basta con le divisioni. Viva l’Italia unita e monarchica!

     

    4.    Carlo Cattaneo

    Parlate di eserciti, di sovrani, di papi: ma il popolo? Dove mettete il popolo?

    Anche il popolo deve partecipare! Non può essere lasciato fuori!

    Voi pensate che l’unificazione italiana sia un opera da affidare alla buona volontà dei sovrani? Non è così. La lotta contro i dominatori stranieri deve essere condotta da tutto il popolo! Ma come può il popolo ribellarsi, se vive nella miseria più nera?

    Deve avere un grande obiettivo. La repubblica. Così, il popolo sarà libero e avrà il potere nelle sue mani. Ascoltatemi:  l’Italia non deve essere governata da un re, ma deve essere repubblicana!

    Sono Carlo Cattaneo, professore e rivoluzionario. E so che Giuseppe Mazzini sarà d’accordo con me!

     

    5.    Giuseppe Mazzini

    Voi mi conoscete. Sono un politico, uno di quelli che faceva “i moti”, che d’Azeglio dice che sono inutili. Sono Giuseppe Mazzini. Ho fatto il carbonaro, poi ho fondato la Giovane Italia, perché credo che il programma politico non deve essere segreto (come dicevano i carbonari) ma deve essere conosciuto da tutti.
    Contadini, operai e artigiani capiranno tutti che la lotta politica significa anche la rivoluzione per migliorare le condizioni di vita. Non è solo conquista della libertà e dell’Unità.

    Il re non è il padrone dello Stato. Io voglio una Repubblica, perché questa è la sola forma di governo nella quale tutti sono uguali. Ma anche la borghesia e i ricchi saranno d’accordo! Perché solo l’unificazione italiana può garantire la possibilità di far circolare le merci su tutta la penisola, senza pagare dazi, ogni volta che si entra in un nuovo staterello.

    Tutti, dunque, devono essere d’accordo: i poveri, perché la Repubblica considera tutti uguali, e i ricchi, perché lo stato unitario permetterà agli imprenditori di accrescere le proprie ricchezze.

     

    Identikit (suggerimenti)

    A.    Sorride sempre mentre parla. Un tono dolce, insinuante. Non alza la voce. Tiene gli occhi bassi e le  mani al petto
    B.    Impettito. Voce stentorea. Pieno di sé. Si guarda intorno mentre parla. Pause a effetto.
    C.    Gentile. Magari con la r arrotata. Agita la mano come se fosse un ventaglio. Un po’ snob.
    D.    Serio e deciso. Sa quello che vuole. Non alza la voce. Guarda negli occhi le persone.
    E.    Parla come un profeta. Tono appassionato. Voce alta. Agita le braccia e guarda spesso in alto.

  • Gli arabi in Italia meridionale. Appunti da Marco di Branco

    Autore: Antonio Brusa

     

    Marco Di Branco lavora all’Istituto Italo-Germanico. Studia gli arabi in Italia meridionale. Sono andato a sentirlo a Foggia, l’8 maggio scorso. Ecco i miei appunti. Forse saranno utili ai colleghi, e non solo dell’Italia meridionale, desiderosi di informarsi. Dalla relazione di Marco, infatti, mi sono accorto che occorre rivedere qualche conoscenza manualistica.

     

    Indice:

    1. Revisione storica
    2. La cronologia
    3. Fonti musulmane e documentazione
    4. Letteratura

     

    a. Revisione storica

    Gli emirati, innanzitutto. Spesso si parla di tre emirati: Bari, Taranto e Amantea, L’unico attestato è quello di Bari. Gli altri sono delle invenzioni successive (alle quali ho creduto anch’io, ahimé).

    Il Garigliano. Ho trovato spesso che il forte musulmano era situato sulla foce del fiume omonimo. In realtà era su di un monte all’interno, presso il porto fluviale di Montecassino (il Liri era navigabile per tutto il medioevo).

    Le scorrerie. E’ diffusa la “retorica della scorreria”, cioè un modo di vedere la frequentazione musulmana come unicamente motivata dalla predazione. E’ uno stereotipo “colto”, dovremmo dire, dal momento che risale alla ricostruzione di Nicola Cilento, grande storico dell’Università di Napoli. Dall’analisi attenta delle fonti, e soprattutto dalla comparazione con le altre invasioni musulmane, si ricava un modello generale, al quale sottostà anche la vicenda arabo-italiana. Secondo questo modello, vi è una fase iniziale di scorrerie effettive, ma mai del tutto scoordinate; a questa succede un insediamento, solitamente una piazzaforte militare spesso separata dalla popolazione; successivamente ancora iniziano i processi di arabizzazione e di islamizzazione, che, come sappiamo ormai dalla letteratura, sono ben distinti dalla fase della conquista. Secondo questo modello, in Italia meridionale si verificarono sicuramente le prime due fasi, mentre la terza fu bloccata dall’arrivo delle truppe imperiali. Dunque, non si trattava di scorrerie, effettuate da gruppi indipendenti e scoordinati, quanto piuttosto di un piano che rispondeva a una visione politica complessiva.

    Il gihàd. Sul significato di questo termine ormai è stato detto molto. Che non significhi guerra totale e alla morte, contro un nemico da distruggere, quanto piuttosto “sforzo per la conquista del paradiso” credo sia riportato da tutti i manuali informati. Dopo l’XI secolo si aggiunge al vecchio significato bellico anche un’interpretazione religiosa, dal momento che si dice che questo sforzo poteva essere realizzato sia con la guerra, sia con la preghiera e il buon comportamento religioso.

    I rapporti cristiano-musulmani. Lo stereotipo del gihàd (e del corrispettivo “crociata”), però, continua ancora a funzionare, quando  ci porta a immaginare come impossibili i rapporti fra gli appartenenti a religioni diverse. Non era così. Arabi o cristiani non facevano blocco sempre. Anzi, molte volte troviamo musulmani e cristiani alleati fra di loro, contro i rispettivi confratelli. Ad esempio: quando i musulmani iniziano la loro conquista siciliana, trovano come alleati dei bizantini, ribelli all’imperatore. Napoli e Gaeta, nel IX secolo, sono spesso alleate dei musulmani, nella loro lotta perenne contro gli altri potentati longobardi. Quando il Garigliano viene assediato dai cristiani, sono i Gaetani che aiutano i musulmani a salvarsi. Messina, nel IX secolo, viene attaccata da Musulmani e Napoletani coalizzati (eccetera eccetera).

    I Berberi. Sembra che l’emirato di Bari non sia stato conquistato da truppe berbere, quanto piuttosto Yemenite. Gli yemeniti, infatti, erano truppe scelte delle armate musulmane. E Sawdan el Mawri, ultimo emiro di Bari, sembra provenire da una famiglia yemenita. In generale, berberi della tunisia, libici e cretesi erano in competizione fra di loro.

    Signori di fatto. Esattamente come accadeva in occidente, i signori musulmani prima conquistavano il potere, e poi ne chiedevano la legittimazione, ad un’autorità costituita. E’ quello che accade a Bari, dove Sawdan  richiede all’imam del Cairo (e per lui al Califfo, in quel momento di Samarra) la nomina a emiro.

     

    b. La cronologia

    I Fase: ‘scorrerie’

    • Metà VII secolo: attacchi alla Sicilia e alla Sardegna
    • 703-710: spedizioni di Mūsà ibn Nuṣayr
    • 720-752: spedizioni dei governatori della provincia di Ifrīqiya (Tunisia) contro Sicilia e Sardegna.
    • 800: FONDAZIONE DELLA DINASTIA AGHLABIDE in Tunisia
    • Tregua (hudna) con la Sicilia bizantina, verso la fine dell’emirato di Abū ’l-’Abbās: è il tempo del grande califfo Harun al-Rashid (786-809)

    II Fase: offensiva aghlabide

    • 821/22: attacco alla Sardegna
    • 827. Crisi bizantina, causata dalla rivolta di Tommaso lo Slavo. Gli Aghlabidi decidono di non rispettare la tregua e effettuano la prima spedizione in Sicilia
    • 835: Napoli: il console Andrea chiama i musulmani Sicilia contro Sicardo (832-839) principe di Benevento (Giovanni Diacono, Chron. Episcoporum , in RIS, I, p. 314).
    • 838/9: attacco a Brindisi, sbarchi in Calabria, attacco a Ancona e Adria. Le truppe provengono dall’Ifriqyia  e da Creta (questi sono ommayadi di Spagna) e dalla Sicilia
    • 840: Apolofar, proveniente da Creta, attacca Taranto
    • 840/1: Ḥayah in Ibn al-Aṯīr attacca Bari, ma non riesce a conquistarla
    • 842/43: Messina. I musulmani e i napoletani attaccano la città
    • 846/49: attacchi a Roma, Taranto, Ponza e Miseno. Battaglia di Ostia.
    • 847-61: Ḫalfūn al-Barbarī conquista Bari e altre 24 piazzeforti. Gli succede Mufarraǧ ibn Sallām che chiede al Ministro della Posta egizio la possibilità di costruire una moschea. Viene ucciso in una sommossa dei suoi soldati
    • 861-863: Gli succede Sawdan, che chiede la legittimazione del suo potere all’Emiro dei Credenti.
    • 871, 2 febbraio: “Sawdān al-Māwrī, signore di Bāra”, viene catturato dai Franchi (le truppe imperiali di Ludovico II). Abd  Allāh sbarca a Taranto: nuova campagna militare.
    • 872: musulmani sconfitti a Salerno
    • 883-915: Insediamento musulmano a Mons Garilianus

     

    c. Fonti Musulmane e documentazione*

     

    1. Bala¯d u¯ rı¯, Futu¯h. al-bulda¯n, p. 233 ed. de Goeje. Cfr. Ibn al-Atı¯r, Al-Ka¯mil fı¯ ’l-ta’rı¯h, VI, pp. 370-371 ed. Tornberg:


    Prese poi il potere un certo Mufarragˇ b. Sa¯ lim, che si impadronì di ventiquattro piazzeforti da lui custodite. Poi, annunciò le sue conquiste al Governatore dell’Egitto, dicendogli che lui e i suoi seguaci non avrebbero potuto guidare la preghiera senza che l’ima¯m lo confermasse sul distretto e lo facesse governatore, cosicché non potesse essereincluso nella categoria degli usurpatori. Mufarragˇ eresse una moschea congregazionale. Alla fine i suoi uomini insorsero contro di lui e lo uccisero. A lui successe Sura¯n che inviò il suo messaggero ad al-Mutawakkil, l’Emiro dei Credenti, che richiedeva una conferma e una lettera di incarico quale governatore. Tuttavia, al-Mutawakkil morì prima che il suo messaggero partisse con il messaggio per Sura¯n. Al-Muntas.ir-Billa¯h morì dopo aver esercitato il califfato persei mesi. Poi venne al-Musta‘ı¯n Billa¯h Ah.mad ibn Muh. ammad ibn al-Mut‘as.im, che ordinò al suo ‘a¯mil sul Magrib, U¯ ta¯misˇ, un liberto dell’Emiro dei Credenti, di confermare Sura¯n. Ma non appena il messaggero del califfo partì da Surraman-ra’a, U¯ ta¯misˇ fu trucidato. La regione fu allora governata da Wası¯f, un liberto del califfo, che confermò Sura¯n nella sua posizione.


    2. Kita¯b al-‘uyu¯n wa ’l-h. ada¯ ’iq fı¯ ahba¯r al-h. aqa¯’iq, ed. Saïdi, I, pp. 26 e 98:

     

    (872) In quell’anno i Franchi catturarono Sawda¯n al-Ma¯wrı¯, signore di Ba¯ ra. (902) Successivamente Ibra¯h. ı¯m bin Ah. mad invitò la gente al gˇiha¯d e uscì con l’esercito dalla città di Susa per la conquista dirigendosi verso Nubah, lunedì, primo giorno di Gˇ uma¯dà al-’u¯ là, e raggiunse la Sicilia il tre di Ragˇab. Poi egli andò a Taormina, che conquistò di
    domenica, 9 notti prima della fine di Sˇ a‘ba¯n (1 agosto 902). Egli morì nel paese dei Ru¯m in un luogo detto Cosenza che dista nove giorni dalla Sicilia. La sua morte avvenne di lunedì, ma alcuni dicono di sabato, tredici notti prima della fine del mese di Du¯ ’l-Qa‘dah (23 ottobre 902).

     

    3. Ibn al-Atı¯r, Al-Ka¯mil fı¯ ’l-ta’rı¯h, VI, pp. 370-371 ed. Tornberg:

     

    Nel Magrib si trova una terra nota come al-ard al-kabı¯rah, sita a una distanza di più o meno 15 giorni da Barqah. In questa terra c’è una città sulla costa chiamata Ba¯ rah, i cui
    abitanti erano cristiani ma non appartenenti ai Ru¯ m. Questa città fu invasa daHayah, il liberto di al-Aglab, che non riuscì a conquistarla, poi da Halfu¯ n al-Barbarı¯ (probabilmente un affiliato dei Rabı¯‘ah), che la conquistò durante ilprimo periodo del califfato di al-Mutawakkil»

    * I segni di lunga vanno riportati sopra la vocale precedente

     

    d. Letteratura

    Marco Di Branco, Due notizie concernenti l’Italia meridionale dal KITA¯ B AL-‘UYU¯ N WA ’L-H. ADA¯ ’IQ FI¯ AHBA¯ R AL-H. AQA¯ ’IQ (LIBRO DELLE FONTI E DEI GIARDINI RIGUARDO LA STORIA DEI FATTI VERIDICI,)

    F. Marazzi, Ita ut facta videatur Neapolis, Panormus vel Africa. Geopolitica della presenza islamica nei domini di Napoli, Gaeta, Salerno e Benevento, in “Schede Medievali”, 2007, pp. 159-202

     

  • Guerre vecchie e guerre nuove. I concetti per capire le nuove guerre

    Autore: Antonio Brusa

     

    Appunti da Yves Michaud

     

    Indice

    Introduzione
    Le domande sulle nuove guerre
    I concetti tradizionali della guerra
    Un prontuario di nuovi concetti
    Uno scenario nuovo
    Uno scenario in movimento

    Introduzione
    Nell’ottica di un Laboratorio del tempo presente, avere un prontuario di concetti sulla guerra è essenziale. Lo ricavo da Yves Michaud, che  insegna filosofia presso l’Università di Rouen.  Negli anni ’80 pubblicò un libretto sulla violenza per la collana “Que sais-je?”, quell’eccezionale canale di cultura di massa che in Italia non si è mai riusciti a riprodurre, nonostante i molti tentativi di imitazione. L’ultima edizione è aggiornata al 2012. In questo testo seguo abbastanza fedelmente il brano di Michaud. Poche volte lo riassumo o lo integro. L’ho suddiviso e titolato in modo che sia un testo consultabile a scuola. Come sempre, invito il lettore volenteroso, o che volesse citarlo a leggere la fonte: Yves Michaud, La violence, Puf, Paris 2012, pp. 55-67. Dello stesso autore segnalo: Changement dans la violence. Essai sur la bienveillance universelle et la peur, Odile Jacob, Paris 2002. Inoltre, sulle vecchie e nuove guerre si veda la rapida messa a punto di Nicola Labanca, sullaTreccani online(Atlante-Geopolitico).  (HL)

      Carta mondiale dei conflitti

    Le domande sulle  nuove guerre

    Conflitti interni o esterni?
    In molte occasioni è difficile distinguerli. In Africa, per esempio, quando si scontrano etnie di confine, si mettono in moto subito attori internazionali e i paesi confinanti, col risultato immediato dell’internazionalizzazione del conflitto. Una mondializzazione che spesso è moltiplicata dallo stesso intervento internazionale per ristabilire la pace

    Quali sono i nuovi campi di battaglia?
    Questi spesso non sono più delimitati e identificabili. Si possono trovare nel cuore delle popolazioni civili, lontano dai luoghi dove risiedono i contendenti, nelle zone turistiche o in mezzo alle città. I contendenti, spesso, non sono degli stati, ma aspirano a divenirlo: palestinesi, minoranze dell’ex-Unione sovietica, movimenti autonomisti o indipendentisti, musulmani di Bosnia, macedoni, albanesi del Kosovo, curdi della Turchia o dell’Iran, tamil di Ceylon ecc. Altri, invece, non aspirano nemmeno a diventare stati: fra questi i movimenti terroristi, come al-Qaida o i movimenti altermondialisti.

    In quali regioni scoppiano questi conflitti?
    Sia che esplodano, sia che covino sotto la cenere, spesso questi conflitti nascono dalla decomposizione di antiche unità politiche, come l’Urss o la Jugoslavia. Altri nascono in zone conflittuali “congelate” dall’equilibrio della guerra fredda e suscettibili di nuove riorganizzazioni: gli Emirati arabi e il Quwait, il corno d’Africa, le coste del Mediterraneo, la Cina e Taiwan, la maggior parte dei confini territoriali della Cina.  Altri ancora risalgono ad antichi conflitti di civilizzazione.

    Perché si mondializzano?
    Tutti questi conflitti sono abbondantemente mediatizzati. Mettono in gioco le organizzazioni internazionali e le Ong che si occupano di assistenza umanitaria. I flussi migratori, infine, contribuiscono a internazionalizzare i conflitti, trasferendoli dalle regioni di partenza dei migranti a quelle di arrivo: un esempio è la ripresa dell’antisemitismo in Francia, dovuta in buona parte all’esportazione del conflitto israelo-palestinese.


    I concetti tradizionali della guerra

    Il sistema della guerra
    Nel corso dei millenni, le società umane hanno elaborato un complesso sistema per regolare la violenza fra gruppi, o per cercare di regolarla. Le basi di questo sistema sono:

    -    La dichiarazione di guerra o la guerra-sorpresa
    -    La pace solenne
    -    La distruzione totale dell’avversario
    -    Le leggi del combattimento
    -    I modi di soccorso dei feriti e il recupero dei caduti

    La razionalità della guerra
    Nel XIX secolo, questo sistema giunge ad una regolamentazione rigorosa, che viene sistematizzata daKarl von Clausewitz. Questa si riassume nella celebre affermazione: “la guerra è la continuazione della diplomazia con altri mezzi”. Questa affermazione suppone che i soggetti che fanno la guerra siano “razionali”. Come la diplomazia cerca di ottenere dei vantaggi o di minimizzare degli svantaggi, allo stesso modo la guerra cerca di ottenere vantaggi (un guadagno territoriale, economico, commerciale) o di limitare le perdite.

    E’ il sistema di regole o “il modo di considerare la guerra” al quale siamo abituati. Questo sistema presuppone che gli attori siano degli stati sovrani, con eserciti a comando centralizzato, in forte relazione col mondo politico e a forte inerzia: quando la macchina bellica si mette in moto, è difficile arrestarla. In questo mondo di regole si sono svolti i conflitti europei, e le guerre per la divisione del mondo fra stati europei e imperi americano e sovietico.

    Lo stato sovrano
    “Stato sovrano” vuol dire che ogni stato giudica la legittimità della violenza al proprio interno. Ma quando si tratta di uno scontro fra stati, non esiste un’autorità superiore, che possa imporre regole e il loro rispetto. Ci si deve accontentare del diritto internazionale: una “stabilizzazione relativa e sempre temporanea di regole fra stati”, fermo restando che ogni stato resta giudice della legittimità del proprio intervento. Lo stesso diritto, perciò, può diventare occasione di guerra, quando, ad esempio, si dichiara di far rispettare una frontiera violata, o un trattato precedentemente violato.

    Internazionalizzazione della guerra
    Il dispositivo giuridico, poi, deve fare i conti con l’enorme capacità di uccisione, raggiunta dalla macchina bellica negli ultimi due secoli. Questa ha condotto gli stati e le società a ragionare sulle alleanze, sulla cooperazione internazionale, a fare attenzione all’equilibrio fra le forze e ha portato, ancora, allo sviluppo di una coscienza umanitaria internazionale e al bisogno di pace, indispensabile per l’economia e per l’industria.
    Ai nostri giorni, i vecchi concetti di von Clausewitz non bastano più per capire il dispiegamento della violenza internazionale contemporanea. Occorrono nuovi concetti.

     

    Un prontuario di nuovi concetti

    Genocidio
    Lo potremmo intendere come una forma di guerra diretta contro uno o più gruppi umani, piuttosto che contro qualche stato, con l’intenzione di sterminarli. Conosciamo molti esempi di genocidio: da quello degli harare in sud africa, perpetrato dai tedeschi al principio del novecento, a quello degli armeni, condotto dai turchi (ben coadiuvati dai curdi) durante la prima guerra mondiale; nella seconda guerra conosciamo quello contro gli ebrei e i rom e, nel secondo dopoguerra sono ancora nella nostra memoria il genocidio del Rwanda, contro i tutzi, quello compiuto dai khmer rossi in Cambogia e quelli balcanici. A questi esempi potremmo aggiungerne molti altri.

    Al genocidio in quanto tale va assimilata la “pulizia etnica”, che consiste nell’impiego della violenza e del terrore al fine di eliminare la presenza di alcune minoranze, in un determinato territorio, uccidendole o costringendole alla fuga.

    I genocidi non sono una particolarità del XX secolo (e del nostro). La specificità, invece, consiste nella sistematicità della persecuzione. Il fatto che sia spesso uno stato ad essere l’autore del genocidio forse è legato alla difficoltà di conservare l’unità territoriale o al tentativo di superare una forte crisi. Gli iniziatori di un genocidio utilizzano il loro obiettivo come un capro espiatorio dei problemi nazionali.

    Iperterrorismo
    Fino alla seconda metà del XIX secolo, il terrorismo faceva parte di una politica mirante all’acquisizione del potere o a esercitare una pressione sul potere politico, attraverso assassini di personalità politiche o ad attentati mirati. Il cambiamento fondamentale è avvenuto quando il terrorismo è diventato internazionale e si è trasformato in “guerra durante la pace”. I fattori che hanno favorito questo cambiamento sono: la facilità dei trasporti, la copertura mediatica mondiale, la vulnerabilità degli obiettivi possibili (gruppi di turisti, ambasciate, rappresentanze commerciali, mezzi di trasporto ecc.), le armi potenti, facili da nascondere, spostare o montare, ma anche le armi facili da inventare, come dimostra l’attentato delle Torri gemelle, compiuto con due aerei di linea, trasformati in missili.

    La nozione di iperterrorismo fa riferimento al carattere mondiale dell’azione, sulla sua natura spettacolare, e sugli effetti militari e politici che questa raggiunge. E’ una nuova forma di guerra, a causa di una logistica nuova, della natura degli obiettivi e dei protagonisti. Un piccolo gruppo di terroristi può condurre una “guerra liquida”, imprevedibile, ottenere successi notevoli e obbligare l’avversario a adottare misure di precauzione, dalle conseguenze psicologiche, economiche e politiche numerose e costose.

    L’iperterrorismo rientra nel quadro razionale di von Clausewitz, se guardiamo i suoi effetti: in realtà si tratta di imporre la propria volontà a un soggetto nemico, a costringerlo, per esempio a modificare la sua politica. Lo si è visto con gli attentati di Atocha, in Spagna (2004), che influirono sui risultati elettorali al punto da far vincere gli avversari del governo in carica.

    Se guardiamo la natura dei soggetti, invece, l’iperterrorismo non rientra più nel canone di von Clausewitz, perché in genere non è condotto da stati (con alcune eccezioni degli anni ’90 dello scorso secolo, quando fu diretto da Libia, Siria e Iran). L’iperterrorismo è condotto piuttosto da una sorta di nebulosa, da una sorta di multinazionale (politica o religiosa) in guerra contro gli stati.

    L’efficacia di questa azione è notevole, dal momento che è una guerra condotta durante la pace, in un territorio retto da regole di pace, approfittando dei benefici dello stato di diritto.

    Guerra asimmetrica
    La guerra è asimmetrica quando è condotta da due protagonisti che rispettano regole diverse, usano armi diverse e hanno campi diversi di battaglia. Un esempio è la guerra che al-Qaida conduce contro gli Usa, a partire dall’attentato delle Torri Gemelle: il campo di battaglia è mobile e vario e la componente della comunicazione è essenziale. Anche la risposta americana rientra nel campo delle guerre asimmetriche: si svolge con un controllo della rete di comunicazione, uso di forze speciali e di materiali innovativi.

    Ci sono molti motivi per ritenere che una delle cause della guerra asimmetrica si trova nella superiorità assoluta raggiunta dagli Stati, sia nel campo della guerra convenzionale che in quello nucleare. Questa superiorità, spinge gli avversari a cercare altri terreni e altre forme di scontro. Si tratta di abbandonare quei terreni, nei quali la superiorità avversaria è insuperabile, e crearne altri, nei quali il nemico si trovi in difficoltà.

    Guerra preventiva
    Dopo gli attentati dell’11 settembre, diventa una forma di guerra sempre più invocata. Con un termine inglese è detta anche preemption war. Gli stati la invocano per difendersi da altri stati, definiti “canaglia” (in inglese rogue nations). Il pericolo rappresentato dalle armi nucleari della Corea del Nord o dell’Iran, o dalle armi biologiche, che si ipotizzava possedesse Saddam Hussein, dittatore irakeno, il sostegno che la Siria ha fornito all’iperterrorismo, hanno giustificato – agli occhi degli stati occidentali – il ricorso ad azioni preventive. Lo scopo dichiarato era quello di impedire che la capacità distruttrice di questi gruppi raggiungesse una soglia irreversibile, tale da minacciare gli stati più forti e da costringerli ad una logica di mutua dissuasione.

    L’idea della guerra preventiva si basa su questo schema: da una parte ci sono gli stati “imprevedibili”, dotati di armi potenzialmente di distruzione di massa (nucleari, biologiche, chimiche); dall’altra gli stati “razionali”, dotati di capacità di dissuasione. Questo schema impone che la guerra preventiva non possa essere dichiarata da un solo stato, dal momento che apparirebbe come un intervento imperialista, o un terrorismo di stato; essa necessita, dunque, l’intervento di una coalizione.

    Guerra umanitaria
    Oppure, eufemisticamente, “ingerenza umanitaria”. Si ha quando si interviene in un territorio per evitare dei disastri come la carestia, il genocidio, la pulizia etnica, le guerre civili lunghissime, le violazioni sistematiche dei Diritti dell’Umanità.

    La casistica di questa guerra è varia. Ci sono gli interventi per proteggere l’azione di organizzazioni non militari, come in Sierra Leone, Liberia, Rwanda; per separare i contendenti, come in Bosnia o in Costa d’Avorio; per reprimere una delle parti, considerata fomentatrice della guerra, come quando si è intervenuti contro la Serbia nella crisi del Kosovo, contro l’Irak, nella prima guerra del Golfo, contro la famiglia del colonnello Ghaddafi, in Libia.

    Anche in questo caso, è indispensabile che l’intervento sia approvato dalla comunità internazionale, altrimenti verrebbe interpretato come un’ingerenza imperiale o neocolonialista.

    Occorre, è appena il caso di dirlo, riconoscere che, al di là dei buoni sentimenti, la nozione di guerra umanitaria è ambigua. Sa una parte, gli agenti non governativi, come certe Ong, possono lucrare vantaggi dalla situazione di guerra, attirare simpatie o raccogliere finanziamenti. Dall’altra, l’intervento umanitario rischia di estendere e prolungare il conflitto, dal momento che immette sul campo di battaglia risorse che alimentano gli stessi contendenti (attraverso l’imposizione di tasse, o attraverso la loro rivendita). In questo modo, accade che chi vuole placare la crisi contribuisce a renderla cronica.

    Infine, i campi di rifugiati, sotto l’ombrello delle organizzazioni umanitarie, possono destabilizzare l’economia di una regione, introducendo una seconda economia artificiale.

    Guerra giusta
    Era una nozione di età medievale, quando ci si interrogava sulle cause che potevano giustificare un’azione violenta (ma non bisogna dimenticare che questo strumento giuridico era molto usato dai romani). In pratica, si invoca un principio di ordine superiore, in base al quale si giustifica l’intervento militare.
    E’ indubbio che questo appello al giudizio di dio, o a qualche altro valore trascendentale, apre la porta alla variante della guerra giusta, che è costituita dalla “guerra santa”, combattuta contro coloro che hanno una credenza religiosa (o politica) diversa.

    Società civile internazionale
    Alcuni autori, come Michael Ignatieff  o  Mary Kaldor, autrice di un testo fondamentale sulle nuove guerre, sostengono la tesi della nascita di una comunità di cittadini del mondo, che si sforzerebbero di pesare sulla gestione delle relazioni internazionali, sia quando ci sono dei conflitti, sia quando si tratta di sostenere cause umanitarie, sanitarie o ambientali. Ricavano questa idea dal fatto che esiste una comunità internazionale, che si sta sviluppando un diritto penale internazionale, che si moltiplicano le istituzioni internazionali che si battono per la cooperazione e per la pace, che ci sono organizzazioni non governative che vanno in soccorso di popolazioni in difficoltà.

    Fanno parte dei “cittadini del mondo”, coloro che si occupano professionalmente dei problemi umanitari, gli uomini dalla “grande coscienza”, le associazioni che rappresentano – dal canto loro – soggetti collettivi (Greenpeace, WWF, Attac, i gruppi altermondialisti ecc.). Questi soggetti agiscono per influire sulle decisioni degli organismi internazionali e sull’azione politica dei diversi stati.

    E’ importante notare che – contrariamente a quanto si pensa in Italia e in Francia – nozione di “società civile” non si oppone a quella di “mondo politico”. Nella sua idea originaria, nata dal pensiero di Locke e di Kant, la società civile implica, per contropartita (almeno come orizzonte finale) la costituzione di uno Stato mondiale cosmopolita. Quindi, al posto di opporsi al mondo politico, la società civile lo prefigura.

     

    Uno scenario nuovo

    Nessuna di queste nozioni è totalmente nuova. La novità consiste nel fatto che esse sono necessarie, tutte insieme, per comprendere lo scenario attuale. Uno scenario totalmente nuovo.

    Le guerriglie, un tempo nazionali o confinate in determinati territori, sono diventate internazionali. Si può dire che esiste un terrorismo globalizzato, che trova le sue radici nella diffusione degli armamenti nucleari, e nel quale gli stessi genocidi si sono banalizzati.

    Il mondo non è più governato da una o due superpotenze. E’ multipolare. Localmente ci sono superpotenze in grado di esercitare una forte influenza sulla porzione di mondo circostante (India, Cina, Nigeria, Sud Africa, Australia ecc).

    Aumentano gli stati che non sono in grado di gestire con efficacia i conflitti interni (come la Russia), gli stati nei quali si diffondono movimenti autonomistici o indipendentisti (Italia, Spagna).

    Si diffonde l’aspirazione alla “sovranità nazionale”, ma, al tempo stesso, questa si svuota progressivamente, a causa di trattati internazionali, o a causa dell’impossibilità di una sola nazione di gestire un conflitto, dal momento che questo si internazionalizza rapidamente.

     

    Uno scenario in movimento

    Certamente, la proliferazione delle organizzazioni internazionali, per quanto esse non riescano ad essere sempre efficaci come si vorrebbe, testimonia quanto sia diffusa la volontà di non ripetere l’incubo della seconda guerra mondiale.

    Questo desiderio nasce in uno scenario che vede lo sviluppo di due tendenze opposte: da una parte, la frammentazione del mondo, che sempre di più sembra costituito da stati sovrani, in una situazione potenziale di guerra; dall’altra l’incremento della solidarietà internazionale e dell’interdipendenza.

    A questa seconda tendenza fanno riferimento due nuovi processi. Il primo è la diffusione dell’idea dei “diritti umani”, accettati da moltissimi (anche se l’accettazione è spesso solo di facciata); dall’altra, la lenta costituzione di un diritto internazionale, di un sistema di pene che valga per tutti, esercitato da comunità internazionali. Indubbiamente non si tratta della comunità cosmopolita vagheggiata da Kant. E’ un codice di leggi in progress, fatto di aggiustamenti, di decisioni parziali, spesso stipulate fra singoli soggetti. Tuttavia progredisce, e lascia sperare che si stia costruendo un nuovo ordine internazionale.

  • Guerrieri, mercanti, schiavi: antiche voci nel Mediterraneo

    Autore: Francesco Ulini

     

    Introduzione: il Mediterraneo

    Da sempre sono stato affascinato dal significato di “Mar Mediterraneo” cioè mare che sta in mezzo alle terre. E’ un mare che bagna diversi paesi, e quindi diversi popoli e culture. Dal punto di vista geografico separa e unisce l’Europa dall’Africa e dal Medioriente. Lo ha fatto, però, in modo sempre diverso a seconda dei tempi. Ad esempio, nell’Alto Medioevo, basti pensare all’impero bizantino che, tra VI e VIII secolo, controllava alcune zone costiere del centro e del sud Italia e l’Ifriqiya (l’odierna Tunisia) ed estese il suo potere fino alle coste delle Spagna; oppure si pensi all’impero musulmano che tra VII e VIII secolo andava dalla penisola arabica fino a quella iberica. Il Mediterraneo era una vasta pianura di acqua entro la quale navigava gente di ogni tipo, dai mercanti ebrei agli schiavi berberi, dai pellegrini cristiani a guerrieri saraceni.

     

    La Carta del mondo di Al Idrisi (1099-1166). Al centro la penisola arabica.

     

    Tra l’VIII e gli inizi del IX secolo, in un periodo in cui l’impero musulmano aveva raggiunto la massima espansione e i califfi abbassidi facevano fatica a controllare le dinastie del nord Africa e della Spagna, la pirateria rappresentò uno strumento di saccheggio delle isole della Sicilia, Sardegna, Corsica e Creta1. Le cronache dell’epoca ci hanno tramandato per lo più un’immagine negativa di questi guerrieri del mare provenienti da Est: i Saraceni2.

     

    Indice

    1. I saraceni
    2. Le spedizioni militari
    3. Sawdan, nuovo satana
    4. Sawdan, principe cortese
    5. Il pellegrino e gli schiavi


    1. I saraceni

    Come ci ricorda l’enciclopedia online della Treccani, ci sono diverse ipotesi circa l’origine etimologica della parola “saraceno”: esiste ad esempio un’attinenza semantica con il termine arabo “saraqa” (سرقة) che significa “rubare” e che richiama alla mente il loro modus vivendi da razziatori. Un’altra ipotesi che evidenzia invece la provenienza geografica dei Saraceni è legata ad un altro termine, ossia “as-sharqy” (الشرقي), “l’Oriente”. Ma il termine latino Saracenos (dal greco Sarakenoì, sing. Sarakenòs) fu introdotto da vari autori cristiani tra IV e V secolo d.C.: indicava quegli abitanti nomadi del deserto siriano e arabo, noti anche nell’Antico Testamento col nome di Madianiti, Ismaeliti e Agareni.

    Se inizialmente i Saraceni erano visti come “altri” perché nomadi della penisola arabica, con l’avvento dell’Islam la loro percezione mutò considerevolmente, perché furono considerati i nemici per antonomasia. Un teologo vissuto in Siria tra VII e VIII secolo, Giovanni Damasceno, fu il primo a descrivere il nuovo monoteismo musulmano come un’eresia cristiana, diffondendo la convinzione che Maometto fosse un eretico, un “falso profeta”, e non il fondatore di una nuova religione.

    Questa visione ostile verso ogni elemento esterno all'ortodossia venne successivamente amplificata da diversi cronisti di VIII e IX secolo nei loro racconti delle invasioni dei Saraceni nell’area del Mediterraneo. Negli scriptoria di diversi monasteri del sud Italia furono raccolte le complesse vicende dell’Italia longobarda che, durante tutto il IX secolo, conobbe la presenza di questi Saraceni. Questa produzione storiografica, seppur esigua, rappresenta l’unica testimonianza della visione cristiana degli arabi musulmani nell’Italia altomedievale. Autori come Erchemperto, l’Anonimo salernitano e l’Anonimo cassinese sono tra i più significativi per quanto riguarda la narrazione degli eventi. Essi costruiscono un’immagine omogenea del “nemico” saraceno attraverso una serie di epiteti: “crudelis et terribilis”, “perfidi et infedeles3, “iniusti et indisciplinati4. Avevano qualche ragione, dal momento che non si può negare che l’invasione di guerrieri musulmani fu un fenomeno devastante per il sud Italia, soprattutto per i monasteri dell’epoca e per la popolazione longobarda e bizantina che in molti casi venne ridotta in schiavitù.

     

    2. Le spedizioni militari

     

    L'assedio di Messina nell'843(Chronicle of John Skylitzes, cod. Vitr. 26-2, Madrid National Library, Fol. 214 r.)

     
    Le spedizioni militari dei Saraceni sulle nostre coste cominciarono nell’827 per iniziativa dell’emiro di Qairawan Ziyādat Allāh I (817-838). Facevano parte di un progetto  di conquista, condotto attraverso una serie di razzie sull’isola, con assalti alle roccaforti bizantine e ingenti bottini di schiavi. Solo dopo più di settant’anni di lotte e resistenze tra gli invasori e i bizantini, l’isola cadde sotto il controllo totale dell’emirato aghlabide dell’Ifriqiya ed ebbe una nuova capitale: Palermo.

    Qualche anno più tardi, mentre la Langobardia minor - cioè l’insieme di potentati longobardi, grandi e piccoli che si erano formati in Italia meridionale - viveva un momento difficile a causa dei conflitti interni fratricidi, fecero ingresso nella penisola italica orde di musulmani (Mauri andalusi, Berberi e nordafricani in genere, cretesi) che occuparono Brindisi nell’838 e Taranto nell’840. La prima a cadere fu Brindisi, importante centro marittimo dell’Adriatico. L’anonimo salernitano ci ricorda come lo scontro tra l’esercito longobardo di Sicardo e quello della “nefanda gens Agarenorum” andò proprio a favore di questi ultimi che, attraverso uno stratagemma, mostrarono tutta la loro astuzia facendoli cadere in una trappola e vincendo così sull’ingenuità dei cristiani. Due anni dopo toccò a Taranto che, già influente centro commerciale del Mediterraneo, diventò base di comunicazione marittima per i musulmani in Puglia. Stando alle parole di Giovanni Diacono - autore del X secolo della più antica opera di storiografia veneziana, il Chronicon Venetum - la flotta dei saraceni tarantini risalì l’Adriatico fino ad arrivare in Istria, con l’intento di saccheggiare i centri costieri bizantini5.

    In questo contesto di fragilità politica meridionale, i Saraceni si inserirono inizialmente come mercenari al soldo dei principi Radelchi di Benevento e Siconolfo di Salerno. Ma gli invasori non facevano parte di un fronte compatto. Infatti, Erchemperto, nel descrivere i mercenari, parla di Agarenos Libicos contra Hismaelitas Hispanos, dove gli Ismaeliti ispanici sono i Mauri, cioè Arabi dell’Andalusia6. Tra l’845 e 846, mentre Ostia e San Pietro venivano saccheggiate dagli aghlabidi di Sicilia e Sardegna7, l’ondata di devastazione saracena aveva colpito anche i monasteri di Monte Cassino e San Vincenzo al Volturno. In questi anni anche altre diocesi minori venivano spogliate, ma non dai Saraceni bensì dai signori longobardi in conflitto tra di loro, che da questi saccheggi ottenevano fondi necessari per pagare i loro temibili mercenari d’oltremare.

     

    3. Sawdan, nuovo satana

    Successivamente, quando nell’847 il capo banda Khalfun s’impossessò astutamente di Bari, ebbe inizio un periodo di dominazione stabile per i Saraceni in Puglia che fu reso ufficiale dal califfo di Samarra dall’863 all871, sotto il dominio del sāhib Sawdan. Quest’ultimo fu uno dei più spietati guerrieri musulmani secondo alcune cronaca altomedievali. Per Erchemperto era il “nequissimus ac sceleratissimus rex Hismahelitum8”, mentre l’Anonimo benedettino ricorda che il “nefandissimus Seodan rex9” aveva assaltato diverse aree della Campania come Capua, Conza, la Liburia, aveva devastato le abbazie di San Vincenzo al Volturno  e di Montecassino, depredandone le ricchezze.

    Un ulteriore epiteto venne rivolto dall’Anonimo salernitano a Sawdan,  detto anche Saugdan o Seodan. Il cronista cristiano lo aveva costruito per assonanza a “Satan”, in quanto lo considerava un infidelis10. Tuttavia, il rapporto fra salernitani e saraceni era molto più complesso di quanto lasci intendere questo soprannome diabolico. Lo dimostra un episodio ambivalente, raccontato sempre dal cronista salernitano nel quale si sottolinea l’esistenza di rapporti diplomatici e di convivenza fra salernitani e saraceni, e al tempo stesso se ne accentua l’odio verso gli infedeli. Protagonista di tale episodio fu un legato di Satan. Ecco le parole del cronista:

    “al tempo in cui governavano governano i salernitani Sicone e il suo tutore Pietro, accadde che un Agareno di grandissimo prestigio fosse inviato a Salerno dal suo signore Satan. Arrivato a Salerno, lo ricevettero con grande sfarzo; lo mandarono nell’episcopio affinché alloggiasse nel palazzo dove normalmente dimorava il vescovo Bernardo. Dopo questo episodio, il presule ne fu gravemente addolorato e […] proprio per tale provocazione subita dai quei principi, partì per Roma”11 .

    Dietro il nome di Satan si celava quindi un epiteto dalla connotazione religiosa, legato all’episodio del suddetto vescovo: dopo l’offesa nei confronti di Bernardo da parte del popolo salernitano complice di quello che considerava un sacrilegio, il presule si trasferì a Roma e ritornò a Salerno solo dopo aver ricevuto la conferma di una nuova abitazione. Prima però inviò una lettera al suo popolo e al clero dicendo:

    “Se mi volete tra voi, costruitemi un’altra casa in un altro posto, perché dopo quanto è accaduto io non abiterò mai più dove abitavo prima” 12.

    L’autore del Chronicon pare dunque che abbia voluto corrompere il nome di Sawdan nell’appellativo di Satan, in quanto sarebbe stato inammissibile per un vescovo, rappresentante della religione cristiana, dimorare nello stesso luogo contaminato da un uomo appartenente a coloro che «sunt natura callidi et prudentiores aliis in malum»13 (“per loro natura sono scaltri e più abili degli altri nel maneggiare le cose malvagie”).

     

    La Battaglia di Ostia di Raffaello Sanzio, Stanza dell'Incendio di Borgo, Musei Vaticani, 1514-1515
     

    L’appellativo si diffuse così nella Cristianità. Lo capiamo dal fatto che venne usato dal biografo di papa Leone IV, quando i Satane filii provarono ad assaltare Roma ma furono bloccati tra l’849-850 da una flotta campana che combatteva sotto l’egida del pontefice14. Quest’ultimo, sfruttando i musulmani fatti prigionieri, fortificò con mura di difesa tutto il quartiere intorno a S. Pietro, da Trastevere a Castel S. Angelo. Queste presero il nome di Mura leonine.

     

    4. Sawdan, principe cortese

    Se per l’Anonimo cassinese “non passava giorno che [Sawdan] non uccidesse cinquecento o più uomini e, sedendo sui mucchi di cadaveri, mangiava come un cane puzzolente”, esiste un’altra cronaca che dà una visione ben diversa del signore di Bari. Ahimaaz ben Paltiel, di Oria, nell’XI secolo fu autore del Libro della Genealogia, una storia degli antenati della sua famiglia ebraica. In quella città, infatti, che ospitava una delle più popolose e colte comunità ebraiche dell’Italia meridionale, visse un certo Aaron, un dotto che si recò a Bari tra l’863-865 e vi rimase, presso la corte di Sawdan, per 6 mesi. Durante questo tempo Sawdan fu catturato dalla sua profonda saggezza tanto da trattarlo con estrema cortesia. Da questa storia esce un altro profilo dell’identità di Sawdan: accogliente, rispettoso verso la comunità ebraica e pronto ad ascoltare i consigli del “maestro”. Insomma il crudelissimus Sawdan è anche un uomo colto e ospitale.

     

    5. Il pellegrino e gli schiavi

    Questo episodio di ospitalità e accoglienza fa il paio con un altro episodio, che leggiamo nel racconto di viaggio di Bernardo, monaco franco della Champagne, il quale, avendo ricevuto dal papa Niccolo I la benedizione e la “licentiam peragendi”, era partito intorno all'870 da Taranto per Gerusalemme. Dopo una sosta al santuario di San Michele sul Gargano, nell’867, passò per Bari, dove pagò una tassa a Sawdan che avrebbe dovuto permettergli di viaggiare nel cosiddetto dār al Islām, quindi in territorio musulmano. Ecco il suo racconto15:

    “Nell'anno dell'incarnazione di nostro Signore Gesù Cristo 867 […] Lasciando il monte Gargano viaggiammo per 150 miglia, ad una città in mano ai Saraceni, chiamata Bari che era formalmente soggetta a Benevento. E' posta sul mare ed è fortificata a sud da due grandi muri; a nord sporge alta sul mare. Qui ottenemmo dal principe della città, chiamato ‘Suldanum’, il necessario equipaggiamento per il viaggio, con due lettere di salvacondotto che descrivevano le nostre persone e l'oggetto del nostro viaggio al principe di Alessandria e al principe di Babilonia. Questi principi sono sotto la giurisdizione dell'Emir-al Mumenin,che governa su tutti i Saraceni e risiede a Bagdad e ad Axinarri (Samarra) che sono oltre Gerusalemme. Da Bari andammo al porto della città di Taranto, alla distanza di 90 miglia, dove trovammo sei navi che avevano a bordo 9000 schiavi cristiani di Benevento [«ambulavimus ad meridiem per XC miliaria usque ad portum Tarentinae civitatis ubi invenimus naves sex, in quibus erant novem millia captivorum de Beneventanis Christianis»]. In due navi che salpavano per prime e che erano dirette in Africa c'erano 3000 schiavi; nelle due seguenti che erano destinate a Tunisi ce ne erano altri 3000. Le ultime due che contenevano parimenti lo stesso numero di schiavi cristiani, ci portarono al porto di Alessandria dopo un viaggio di 30 giorni”.

    Cavaliere arabo del X secolo   

     

    Taranto era dunque un importante centro di smistamento di schiavi dell’Italia meridionale durante la metà del IX secolo e, insieme a Bari, condivideva i rapporti commerciali con l’emirato aghlabide e il califfato di Baghdad. Come ci attestano meglio le fonti latine, mentre Bari fu un covo di saccheggiatori delle terre longobarde, Taranto servì da base logistica per smistare gli schiavi catturati. Il commercio di schiavi quindi divenne una delle principali risorse economiche nella nostra penisola, la “Grande Terra” (Ard al- Kabirah) come la chiamava il cronista arabo al-Balādhuri16, dove gli abitanti venivano catturati e venduti sui mercati del Nord Africa. La guerra contro un nemico non musulmano legittimava l’acquisizione di schiavi e quindi la cattura avveniva nel cosiddetto territorio di guerra (il dār al harb17, in questo caso quello longobardo). Per questo i Saraceni, che avevano di fronte a sé un territorio non musulmano come la penisola italica, partendo dalla Calabria risalivano l’Appennino centro meridionale in cerca di preziose merci umane da vendere nei mercati dell’Ifriqiya, della Spagna o dell’Egitto.

     

    Note

    1. Tangheroni M., Commercio e navigazione nel Medioevo, Roma - Bari, Laterza, 1996, pp. 42-49; Vanoli A., La Sicilia musulmana, Bologna, il Mulino, 2012, pp.53-56.
    2. Per l’etimologia del termine si veda l'enciclopedia Treccani
    3. Anonimo Salernitano, Chronicon, a cura di Matarazzo R., Napoli, Arte Tipografica, 2002, p.172.
    4. Ivi, cap. 114, p.184.
    5. La cronaca veneziana del diacono Giovanni, in F.S.I., Cronache veneziane antichissime, a cura di Monticolo G., vol. I, Roma, 1890, pp.113-114.
    6. Musca G., L’emirato di Bari: 847-871, cit., p.23.
    7. Partner P., Il Dio degli eserciti. Islam e cristianesimo: le guerre sante, Torino, Einaudi, 1997, pp.64-65.
    8. Erchemperto, Storia dei Longobardi beneventani, a cura di Matarazzo R., Napoli, Arte Tipografica, 1999, cap. 29, p.64.
    9. Dalla Chronica S.Bened. Casin., cit., cap.18, p.477, citato in Musca G., L’emirato di Bari: 847-871, cit., pp.66-67, n.9.
    10. Date le sue costanti incursioni presso i luoghi di culto quali Montecassino e San Vincenzo al Volturno, Musca G., L’emirato di Bari: 847-871, cit., p.66; e S.Michele sul Gargano, Musca G., L’emirato di Bari: 847-871, cit., p.108.
    11. “Set cum sepissime legati Agarenorum Salernum venissent, (dum) iam dicto Sico Petroque rectore Salernitanis simul preessent, accidit, ut unum eminentissimum Agarenum fuisset missus a Satan domino Salernum. Sed cum Salernum venisset, cum magna sublimitate eum susceperunt; at episcopium illum miserunt, quatenus in domo, ubi Bernardus presul morare solitus, erat, degeret. Dum fuisset nimirum factum, ipso presul exinde mox valde ingemuit, atque ex intimo cordis anelitum trahens, tandem deintus vulnus foras erupit, et quasi pro causa dictis principibus Romam properavit”. Anonimo Salernitano, Chronicon, cit.,  cap.99, p.142.
    12. Cum namque Romam venisset, aliquod tempore ibidem moravit, et a papa qui tunc in tempore adherat, et ab omnibus Romanis nimio diligebatur affectu. Sed dum bis terque a predictis principibus per epistolam exflagitatus esset, quatenus propria remearent, ille vero diu redire distulit. Tandem exoratus ab omni populo Salernitano et plus nimirum a clero, illis epistolam in hunc modum misit: " Si illuc me habere cupitis, edem mihi aliam in loco alio edificate, quia post hec minime ubi moravi iam habito". Anonimo Salernitano, Chronicon, cit.,  cap.99, p.142.
    13. Berto L.A., I musulmani nelle cronache altomedievali dell’Italia meridionale (secolo IX-X), in Mediterraneo medievale: cristiani, musulmani ed eretici tra Europa e Oltremare (secoli IX-XIII), a cura di Meschini M., Milano, Vita e Pensiero, 2001, p.19; Erchemperto, Storia dei Longobardi beneventani, cit., cap.16, p.48.
    14. Musca G., L’emirato di Bari: 847-871, cit., p.43.
    15. Il passo è tradotto in Aureli M.E., Confronto tra la “Vita Willibaldi” e l' “Itinerarium Bernardi”: come due viaggi di pellegrinaggio rivelano i profondi cambiamenti avvenuti nelle comunicazioni e negli scambi nel Mediterraneo tra il 720 e l'870, Pisa, 2001, pp.1-5; Perta G., Mira Rotunditas, Il Santo Sepolcro nei racconti odeporici altomedievali, inAnnali della Pontificia insigne Accademia delle belle arti e lettere dei virtuosi al Pantheon IX, 2011, pp.443-455; Musca G., L’emirato di Bari: 847-871, cit., pp.72-74.
    16. Il cronista arabo al- Balādhuri visse presso la corte abbaside nella seconda metà del IX secolo.
    17. Al contrario, non potevano essere ridotti in schiavitù i non musulmani mentre si trovavano nel dār al Islām, cioè coloro che erano sotto la protezione della dhimma. Vercellin G., Istituzioni del mondo musulmano, Torino, Einaudi, 2002, pp.29-34 e pp.192-197

     

  • I bambini di Moshe. Un libro e un EAS (Episodio di Apprendimento Situato)*

     

    di Enrica Bricchetto

    I bambini di Moshe è un libro che serve a chi insegna per dare vita al discorso storico quotidiano. Raccontando storie, collocate in uno spazio–tempo ben preciso, con uomini e donne che hanno nomi e cognomi, compiono azioni, reagiscono o subiscono i colpi dell’ambiente in cui sono immersi, il docente riesce a dare più forza alla sua lezione. Compie meglio il processo di trasposizione didattica di quei nuclei fondanti, di quei concetti “base” della disciplina storica, senza i quali gli studenti non acquisiscono quadri interpretativi e non si orientano in quello che succede oggi tra le due sponde del Mediterraneo.

  • I Pacifici Celti Leghisti: Roma ladrona e la storia dell’antichità

    Autore: Mariangela Galatea Vaglio                                
     

    Introduzione

    La maestra aveva dato ai suoi allievi la consegna di immedesimarsi negli abitanti di un villaggio antico; e la bambina aveva scritto che ogni mattina si pettinava le lunghe trecce bionde e cantava con la cetra, nel suo villaggio celtico. Lessi questo compito su un sito, oggi irrintracciabile, di una scuola elementare friulana, negli anni ’90. Era una segno, minimo per quanto significativo a mio giudizio, dell’effetto che la propaganda politica della Lega cominciava ad avere nelle scuole. Sono passati pochi anni, già vediamo che molti adulti non ricordano più quei tempi e gli allievi delle scuole ci sorprendono del fatto che non ne sanno nulla. Così, quando ho letto la ricerca che Mariangela Galatea Vaglio - ricercatrice di storia antica, insegnante e scrittrice apprezzata (Didone, per esempio. Nuove storie dal passato, Castelvecchi editore) – aveva realizzato sull’uso politico della storia antica, le ho chiesto di condividere con il lettori di HL il capitolo dedicato ai Celti e la Lega. Non mi è mai sembrato, nemmeno negli anni caldi, un tema di storia folkloristica italiana. Per chi ha studiato i temi dell’invenzione della tradizione e dell’uso pubblico della storia (imprescindibili come dicono le Nuove Indicazioni anche per insegnare storia nella scuola di base) era evidente che si stava assistendo, quasi in diretta, ad un tentativo di invenzione della tradizione. Un fenomeno avvenuto dante nel passato. Ma questa volta, la novità era che la politica si appropriava in modo aperto del passato, e ne faceva un uso pubblico sfrontato, quasi si facesse beffe degli studiosi che, in contemporanea, mettevano in guardia i cittadini. Anche per questo è importante cominciare, fin d’ora, a costruire una memoria storica di quei tempi. (HL)

     

    I.    La Lega ed i Celti, un colpo di fulmine


     

    Tutti assieme in riva all’Eridano

    15 settembre 1996: sulle rive di un Po placido, indorato dal sole e filmato dalle televisioni di mezzo mondo si danno appuntamento per una grande catena umana i Leghisti di Umberto Bossi. Nei progetti del Senatùr il giorno dovrebbe segnare la nascita della Repubblica Federale di Padania, stato sovrano comprendente, grosso modo, Veneto, Sud Tirolo, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Trentino, Val d’Aosta, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Marche, Umbria e Toscana.

    Se sul piano della partecipazione reale la manifestazione non è un completo successo, l’eco che essa ottiene sui mezzi di informazione è enorme. Non c’è telegiornale o giornale che non mostri l’immagine di Bossi intento a raccogliere in un’ampolla di vetro la preziosa acqua della fonte del Po, l’antico Eridano, che viene versata poi in Laguna. Questo successo di pubblico è dovuto all’abilità con cui la Lega ha saputo orchestrare la campagna di lancio dell’iniziativa e l’innegabile senso teatrale che ha inspirato gli organizzatori della manifestazione stessa. A questo senso del teatro vanno certo ricondotta l’introduzione nell’immaginario leghista, appena qualche mese prima della programmazione della marcia sul Po, del ‘mito celtico’. Bossi proclama su giornali e tv che i leghisti sono diretti discendenti di quei “pacifici” Celti che, durante l’antichità, si erano stanziati nella pianura Padana ed erano stati poi travolti dalla conquista romana imperialista. La nuova simbologia celtica è il filo conduttore della Kermesse leghista. Il 15 settembre stesso Repubblica dedica a questo nuovo apparato mitologico un articolo dal titolo: “I riti presi dai Celti tra storia ed Asterix”.

    “Druidi ed ampolle. Il grande fiume che rigenera. La dea Sole - scrive Francesco Erbani, - Dovendo fondare uno Stato indipendente si hanno davanti due strade: ricostruire una storia cercando nelle sue pieghe il filo di un’identità oppure costruire una simbologia, un apparato di miti. Umberto Bossi ha imboccato ruvidamente la seconda. E ha scelto, per il battesimo padano, il repertorio rituale degli antichi Celti.”


     

     Druidi e ampolle.Qui l’articolo di Francesco Erbani

     

    Già, ma chi sono i Celti di Bossi ? E come mai compaiono proprio in questa forma e proprio in questo momento, materializzandosi pare quasi dal nulla sulla rive del Po ? L’antichista può certo sorridere davanti agli anacronismi di questi celti protoleghisti padani . La propaganda politica, però, come la pubblicità, ha regole forse capricciose ma serie. Bossi sceglie i Celti spinto di sicuro da qualcosa di più che un semplice colpo di sole, fosse pure delle Alpi. Cercare di comprenderle o almeno di individuarle aiuterà non solo a ridisegnare l’immagine dei Celti con maggiore acribia filologica, ma anche a conoscere meglio alcuni aspetti della Lega ed alcune eredità che essa ha raccolto lungo il suo cammino.


    Dal Carroccio al Sole delle Alpi.

    Quando nel 1989 la Lega  si affaccia alla ribalta nazionale il suo apparato propagandistico non contempla alcuna allusione ai Celti. Le due Leghe del Nord, cioè quella Lombarda e la Liga Veneta, si richiamavano esplicitamente non all’antichità, quanto piuttosto al Medioevo.

    Tutta la prima fase della Lega come partito di rilevanza nazionale è legata ad una propaganda che recupera le memorie dei liberi comuni contro il Barbarossa. Il simbolo della Lega diviene così Alberto da Giussano, che rimane nel logo del partito anche quando la denominazione del movimento cambia da Lega Lombarda a Lega Nord, ed orna i baveri delle giacche dei leghisti. Per i giornali Lega e Carroccio diventano sinonimi intercambiabili, lo stendardo dei comuni ribelli al Barbarossa diviene la bandiera ufficiale della Lega, le adunate del partito non possono che svolgersi a Pontida.

    Del resto già la Liga Veneta, che era presente da anni nel Veneto e aveva colto già nell’’83 significativi successi elettorali, raggiungendo, ad esempio, il 6% in provincia di Vicenza ed il 7% in quella di Treviso, si affidava anch’essa a memorie medievali, veneziane in particolare: il suo stendardo era il Leone di S. Marco, il suo riferimento storico la Serenissima. Essa era talmente affascinata da queste memorie che, in buona sostanza, prima della fusione con la Lombarda di Bossi, veniva ritenuta dai suoi stessi simpatizzanti come “una bizzarra congrega di persone impegnate a coltivare un dialetto (lingua, secondo loro) che i Veneti non riuscivano a capire e a lanciare invettive odiose contro il Sud .” 

    Nei primi tempi di successo sulla scena politica va sottolineato che forse nemmeno i bersagli della propaganda e i fini del movimento sono così chiari. La polemica si rivolge soprattutto contro il Sud e contro Roma ladrona, sede di ogni vizio in quanto sede della aborrita partitocrazia. La battaglia verte solo sul presente, al massimo sul passato prossimo, la prospettiva di recupero storico non interessa. Un certo interesse nei confronti dei Celti e dell’antico fiume-dio Eridano, tuttavia, doveva essersi sviluppato precocemente in Umberto Bossi e velocemente radicatosi, tanto da indurlo a battezzare il suo ultimo nato Eridano Sirio.

    Tuttavia fino alle elezioni del ’94 l’intero apparato propagandistico della Lega sembra rimanere nell’ambito della polemica antimeridionalista e antipartitocratica, con scarsissimi accenni a qualsivoglia recupero della storia passata. La svolta nella propaganda si verifica soltanto nel ‘96. Il mito dei Celti compare in contemporanea alle prime dichiarazioni secessioniste del movimento. Man mano che il Senatùr chiarisce, forse in primis a se stesso, quali siano i suoi obbiettivi politici, cioè man mano che si inizia a dichiarare da parte della Lega che il fine da raggiungere una è una vera e propria secessione dallo stato italiano, vi è la necessità di giustificare questo distacco dal resto dell’Italia non solo con motivi di ordine fiscale, ma con motivazioni di carattere etnico. Vi è in proposito una vera svolta ideologica: il movimento, a questo punto, si presenta come l’espressione di una etnia vessata per secoli da una dominazione straniera. La Lega mira insomma ad inserirsi nella grande tradizione di partiti politici a base regionale che rivendicano l’autonomia del loro territorio poiché esso è etnicamente e culturalmente diverso dai restanti territori dello Stato che li ingloba. La Padania diventa, nella visione leghista, comparabile al Quebec canadese, all’Irlanda del Nord o ai Paesi Baschi


    Un prontuario per la separazione

    Ma per portare avanti un discorso di separatismo su base etnica, è necessario prima convincere l’uditorio che gli abitanti del Nord Italia sono, appunto, appartenenti ad una etnia diversa da quelli del Centro Sud. Ed ecco che allora il richiamo alle antiche identità comunali del medioevo non basta più, dal momento che fin nei secoli più bui dell’evo medio, Milanesi e Palermitani (o per lo meno le élite dirigenti delle città in questione) comunque si sentivano tutti parte di una stessa cultura e cominciavano a riconoscersi in una lingua che, nata alla corte di Sicilia, era stata poi affinata dal toscano Dante e codificata dal veneziano Bembo. Il mito celtico dunque viene inventato in un momento in cui la Lega Nord per l’Indipendenza della Padania - questo il nome che il gruppo ha voluto assumere a Montecitorio - ha bisogno :

    •    Di un mito fondante che giustifichi il progetto separatista.
    •    Di una giustificazione etnica, non solo fiscale, del separatismo stesso.
    •    Di un mito che sia unificante anche di tutto il Nord, in un momento in cui i leghisti del Nord Est cominciano a voler a conquistare a loro volta una autonomia e si dimostrano insofferenti all'ipotesi di un centralismo ‘lombardo’ che si sostituisca a quello romano


     

    Ai piedi del grattacielo della regione, la Lega organizza unamostra di costumi medievali


    La scelta dunque dei Celti non è casuale, ma risponde invece ad una operazione di maquillage ideologico di notevole sapienza. I Celti e la revisione leghista della storia antica entrano in scena contemporaneamente all’annuncio della secessione. Per giustificare una scelta tanto drastica, infatti, non è più sufficiente tirare in ballo la Roma Ladrona della prima Repubblica. L’idea di separarsi da Roma, per il Nord viene presentata ormai come l’unica strada di salvezza. Roma non può essere sanata dai suoi difetti, né lo Stato unitario può essere ‘bonificato’ dalle infiltrazioni malavitose del Sud. Il malaffare romano non è un prodotto incidentale, ma un portato strutturale di Roma stessa, che fin dall’antichità ha vessato i pacifici popoli celtici del Nord. Li ha conquistati con la violenza, inglobati a forza, tassati e tartassati fin dalla notte dei tempi. Per liberarsi da questa secolare sanguisuga, i celtici popoli del Nord non possono più cercare un accordo pacifico, devono giungere alla secessione.


        
    II.    I Celti di Bossi : fra Braveheart, le Rune ed Asterix

    Da John Wayne a Mel Gibson

    L’immaginario leghista spesso a primo acchito a chi ci si avvicini dà l’impressione di un calderone, forse celtico, in cui si può trovare tutto ed il contrario di tutto. Nei pochi anni di ribalta politica, alle assemblee della Lega è capitato di vedere i gadget più inconsueti e di incrociare personaggi addobbati nelle fogge più inconsulte. Oltre al Carroccio e ad Alberto da Giussano, il mito americano contava non pochi cultori. L’America, del resto, era la grande patria del federalismo, nonché la terra nutrice di John Wayne, il cowboy cui molti leghisti si inspiravano fin nell’abbigliamento (qualcuno ricorda le cravatte alla texana dell’onorevole Francesco Speroni, ministro leghista delle Riforme Istituzionali nel governo Berlusconi?).

    Con il tramontare della scelta federalista anche i modelli di riferimento cambiano. Sono, curioso notarlo, sempre dei modelli legati al cinema, cosa non incomprensibile se si tiene conto che i leghisti, in genere, non mostrano una grande inclinazione per i libri, e ad una buona lettura preferiscono, Bossi in testa, un dvd. John Wayne, ad onta del suo berretto verde che si intonerebbe con le camicie del servizio d’ordine, entra presto nel dimenticatoio. Gli subentra Mel Gibson, regista ed interprete del film Braveheart (1995). La pellicola, storia di un ribelle scozzese che si batte contro il dominio inglese, folgora Umberto Bossi. Il Senatùr a più riprese si paragona in discorsi ed interviste a Gibson. Alle convention della Lega cominciano ad apparire figuranti con lunghi capelli scarmigliati, la faccia dipinta di blu, la cornamusa ed il kilt. Siamo all’anticamera del mito celtico.  

     

    Fondendo le varie “anime storiche” della Lega, da Alberico da Giussano a Bravehart, Renzo Martinelli realizza Barbarossa(2009, Rai Production)


    La nascita del mito celtico

    I Celti fanno capolino nella propaganda leghista proprio in occasione della grande manifestazione del 15 settembre 1996. L’evento, per stessa ammissione di rappresentanti leghisti, nasce all’inizio come una boutade polemica del Senatùr. Ma l’idea di ritrovarsi tutti assieme in riva al grande fiume conquista talmente la fantasia della base che le varie sezioni cominciano a darsi da fare per organizzare quello che i leghisti battezzano subito  il loro “Indipendence Day”. Il 5 agosto 1996 si ha una prova generale di secessione nelle acque liguri: Bossi fa immergere il fido Bobo Maroni nel golfo di S.Fruttuoso (GE). La Lega in questo momento è ancora tutta unita attorno al suo leader. Irene Pivetti, da sempre rappresentante dell’ala cattolica del movimento, non partecipa alla manifestazione di persona, ma si considera presente in spirito, anche se già ha espresso qualche riserva sull’operato dei colleghi. Bossi cita come modello per le future azioni secessioniste della Lega Ghandi e Martin Luther King. Ai Celti, padani o meno, nessun accenno.

    E’ soltanto a partire dal 10 agosto che si iniziano a trovare nei discorsi di Bossi i primi accenni ai Celti. Per la prima volta viene abbozzata quella che dovrebbe essere la futura bandiera dello stato padano, il cosiddetto “Sole delle Alpi”. Lo descrive in anteprima a Sebastiano Messina della Repubblica uno dei personaggi più folcloristici dello stato maggiore leghista, Erminio Boso, un trentino rotondo soprannominato, guarda caso, “Obelix”, come il guerriero celta di Uderzo: “Il tricolore non ci piace più, è una bandiera artificiale voluta dai massoni. Torniamo alla bandiera di S. Giorgio, quella bianca con la croce rossa, e aggiungiamo la ruota del Sole delle Alpi.”

    E’ curioso che l’introduzione di questo simbolo, che si richiama alla tradizione pagana ed i primi accenni ai Celti siano concomitanti con l’espulsione dal partito della cattolica Pivetti, datata proprio al 10 Agosto.

    Contemporaneamente alla messa a punto del mito celtico, la Lega si dichiara pronta a collaborazioni con i movimenti indipendentisti d’Europa: Alleanza Libera Europea, movimento che raggruppa i movimenti autonomisti, viene invitata ufficialmente a Venezia.

    La svolta paganeggiante di Bossi non sfugge alla Chiesa. Su Repubblica del 11/9/’96 appare un articolo non firmato, dal chiaro titolo “La Chiesa non perdona Umberto il pagano”, in cui Irene Pivetti definisce il suo ex leader : “adoratore pagano del Po....istigatore di una religiosità laica, naturalista e panteista”, mentre Roberto Cartocci, docente di metodologia delle scienze politiche e collaboratore della rivista cattolica Jesus, afferma che “sostanzialmente priva di avversari, la Lega ha trovato nella Chiesa l’unico ostacolo in grado di contrastarla.” La Pivetti ritornerà sull’argomento a manifestazione indipendentista conclusa, usando toni ancor più feroci: “Bossi sta trasformando la Lega in una setta religiosa. Non fa più un discorso politico ma pseudomistico: l’ampolla del dio Po, e tutte quelle sciocchezze, lui che si comporta come un capo religioso...una pagliacciata che non cancella la gravità dell’offesa ai cattolici”.

    Ma ormai i Celti bossiani sono sbarcati su Po, fra druidi, ampolle e telecamere.


    Asterix il Gallo

    La tre giorni leghista sulle rive del Po si svolge sotto gli occhi delle telecamere e, fortunatamente, senza incidenti di rilievo. Umberto Bossi preleva dalle fonti del fiume una ampolla di acqua, “sacra acqua del Po, acqua non mafiosa, acqua che è carne di tutti noi padani, acqua magica, cristallina e pura come l’acqua dei padani”

    Il recipiente degno di contenere tanta meraviglia è stato fatto soffiare appositamente a Murano, copiandolo da un vaso celtico esposto anni prima a Palazzo Grassi.

    L’apparire dei Celti nella propaganda leghista suscita immediatamente la curiosità dei giornalisti. Il 30 agosto, non appena comincia a prender forma il programma leghista per la giornata del 15 settembre e Celti e Dio Po entrano in scena, Roberto Bianchin intervista sulle pagine di Repubblica Andrea Vitali, collaboratore del medioevalista Franco Cardini, chiedendo lumi sui Celti.

    Lo studioso asserisce che la mitologia di Bossi risulta dal punto di vista simbolico assai efficace, riprendendo alcuni temi forti come “il mito dell’acqua portatrice di vita...Bossi ripete un rito antico, con l’acqua che purifica il territorio e lo separa da ciò che è impuro.... Eridano non è solo il nome del Po, ma anche del Rodano, tipico della cultura celtica, stava nel paese degli Iperborei, dove Apollo viveva sempre giovane.”

    Il giorno prima anche Giorgio Bocca, che la manifestazione leghista seguirà da inviato, aveva preso in esame la nuova ondata celtica del Bossi-pensiero. Secondo Bocca essa va considerata come un prodotto “della vasta ondata reazionaria, desiderio di medioevo, di antimodernismo, che hanno fatto un leader di uno “che non ha mai letto un libro”... uno che non sa nulla di nulla, né di storia, né di economia né di finanza”. Continua Bocca: “Non sarà un caso che il mondo dello spettacolo abbia quasi annullato la classicità, e produca decine di film su miti celtici e nibelungici. Non è un caso che il giullare Bossi sia passato dal Ruzzante ai riti ed ai simboli della tavola rotonda.  Bossi è un personaggio di grande fama e di piccola statura, ma ha un suo fiuto nel capire gli umori o i miasmi che salgono dal passato remoto...: un certo neopaganesimo, una dissacrazione pagana, celtica della Chiesa di Roma, che dà un fremito alle memorie del sangue dei dolmen e degli dei delle foreste. E’ una violenza di Brenno che può durare finché nessuno gli rompe in testa il suo spadone di cartapesta.”

    Il 15 Settembre, a preghiera all’Eridano avvenuta, Francesco Erbani interroga sull’argomento esperti nel tentativo di rintracciare fonti più precise per questa Celtic Renaissance padana.
    Franco Cardini si stupisce: “Mi meraviglia che abbiano adottato i Celti, la cui storia rimanda più all’idea di integrazione che non di secessione”. Enzo Pace, sociologo delle religioni, parla di un “pastone, assemblaggio di frammenti”: “Nella storia dei Celti non c’è solo l’epopea della ribellione a Roma. Si sofferma lì solo chi legge unicamente i fumetti di Asterix .” Pace, dopo aver rilevato che questo bagno di paganesimo avviene poco dopo l’espulsione della cattolica Pivetti, sottolinea il fatto che la Lega ha recuperato i Celti e non i Longobardi che “arrivati in Italia abbandonarono il retroterra europeo, quei rapporti oltre le Alpi che a Bossi servono e che i Celti assicurano.”


    Il paradosso della Chiesa italiana
     
    Come vedremo più avanti, probabilmente la molla che fa scattare il recupero celtico della Lega è leggermente diversa. In ogni caso già da questa prima panoramica ‘a caldo’ le fonti di Bossi sono chiare: agli osservatori i Celti leghisti si presentano come un assemblaggio di modelli tratti dal cinema e dai fumetti, che fa sorridere gli studiosi seri ed arrabbiare la Chiesa.

    Delle prese di posizione di Irene Pivetti, cattolicissima ex presidente della Camera, si è già detto. Ma poco tenera è anche la voce ufficiale della Chiesa. L’Osservatore Romano infatti bolla come eretica la secessione di Bossi e le sue idee neopagane. Contro Bossi si schierano apertamente il cardinal Martini, arcivescovo di Milano ed il cardinal Ruini.

    Gli ambienti cattolici non mancano di mettere in evidenza l’avversione della Lega verso il Vaticano.In questo blog vengono raccolte le espressioni  anticlericali più colorite delSenatùr

     

    Eugenio Scalfari nota il paradosso di una Chiesa che diviene così la sentinella dell’Unità d’Italia, quell’unità che lei stessa nell’Ottocento aveva tenacemente osteggiato: “La gerarchia ha fiutato puzza di razzismo...di ideologia anticristiana ed ha giudicato che toccava a lei intervenire per bloccare un movimento così radicalmente e pericolosamente antitetico alla dottrina... Se si predica la divinizzazione del fiume, e si disconosce la preghiera fondamentale della cattolicità..questo non riguarda più Cesare, ma Dio, perché ferisce al cuore la dottrina e la cristianità storicamente realizzata.”

    I Celti di Bossi quindi sarebbero nati da un incontro fortuito fra Asterix, Conan il Barbaro e la tendenza neopagana insita nella società moderna che la Chiesa combatte. Ma sarà proprio tutto qui?
     

    Celti, Camice verdi, Sole delle Alpi : la cultura esoterica e le radici del nazismo.

    Asterix, Conan il Barbaro, il diffuso interesse per il mondo delle leggende celtiche e germaniche non bastano da soli a chiarire perché la Lega, dovendosi scegliersi un mito fondante, ricorra proprio a quello celtico. Tale scelta lascia spiazzati, come abbiamo visto, autorevoli storici e sociologi, che la giustificano con la necessità di trovare un collante etnico che unifichi le popolazioni del nord Italia e le metta in relazione con quelle della Germania e del Nord Europa in generale. Ma i miti, persino quelli utilizzati nella propaganda politica, ben raramente vengono scelti sulla sola base di motivazioni utilitaristiche. I Celti di Bossi fin dal loro primo apparire non hanno mancato di far correre brividi di disagio lungo la schiena di molti. La Lega con la sua ampolla druidica, i riti pagani dell’acqua, le schiere di giovani camice verdi pronte a buttarsi nel fuoco per il loro leader carismatico hanno immediatamente richiamato alla memoria altre adunate, altre schiere di giovani, in camicia, però, bruna. L’ombra del Nazismo si è stesa sulla pianura Padana. C’è un collegamento diretto od intuibile fra la scelta di un certo apparato mitologico e la struttura che la Lega si sta dando? I collegamenti fra Lega e Nazismo sono solo il frutto di isterismo collettivo, voglia di demonizzazione dell’avversario o sono invece determinati dal fatto che entrambi i movimenti hanno una  qualche origine comune, una matrice che determina la presenza di talune affinità di comportamento ? E il recupero celtico non farà parte di questa matrice comune?

    Giorgio Bocca esclude ogni possibile rapporto di diretta filiazione o di contatto fra i due movimenti: “Come ideologia, come contesto storico, il paragone con il nazismo è privo di qualsiasi serietà. Ma sul piano del folklore, della cultura reazionaria, il paragone è pertinente e impressionante. Le parate della Lega, le feste della Lega sono simili per cattivo gusto, per l’improbabilità storica, per il cheap folkloristico a quelle della Germania del ‘36”.

    Il linguaggio, spesso violento della Lega e le immagini adoperate, che richiamano la propaganda politica delle dittature novecentesche, sono analizzati dal punto di vista linguistico in questo numero di “Storia culturale”

     

    Sostanzialmente concorde ma preoccupato anche Michele Serra: “Una crisi sociale ed economica grave ha fatto da innesco ad un inquietante movimento nazionalista... guidato da un classicissimo tipo paranoico che si crede davvero l’incarnazione dello Spirito del Nord....Quando avremo finito di ridere del dio Eridanio e di altre consimili fregnacce forse ci renderemo conto che i tedeschi, prima di Hitler, sapevano di essere ariani quanto i Lombardi ed i Veneti sanno di essere Celti. Pure, allora, ci hanno creduto a milioni.” Intervistato sul Corriere della Sera George Mosse dichiara: “La mitologia leghista messa in scena sul Po è quanto di più vicino ai rituali politici fascisti io abbia sentito dalla fine della guerra... Dal momento che non ha trovato un mito bell’e pronto (Bossi) si è messo a costruirlo. Il vecchio dio Po gli serve a farne nascere uno nuovo.” Dunque i richiami ai Celti di Bossi, il suo paragonare l’ampolla del Po al Santo Graal ricorderebbero la propaganda nazista, più ancora che quella fascista legata alla ripresa della romanità, per una pura convergenza casuale. Entrambi riprenderebbero l’immagine del medioevo come luogo barbarico:“Terra vergine di sentimenti elementari, al di fuori di ogni legge, dark age per eccellenza. Ma in quel buio si desidera vedere una luce “altra”. ..Esso è per vocazione a disposizione di ogni sogno di barbarie e di forza bruta trionfante, ed ecco perché viene sempre, da Wagner a Frazetta, sospettato di nazismo. E’ nazista ogni vagheggiamento di una forza che non sappia né leggere né scrivere.”

    Dunque il punto di contatto fra nazismo e Lega sarebbe proprio questo culto della forza fine a se stessa, contraria o sospettosa della cultura, ed i Celti risulterebbero scelti a caso tra i vari popoli barbari che avrebbero potuto candidarsi al ruolo di inspiratori.


    Nazisti inventati

    Ma andando un po’ più a fondo nello studio di testi propagandistici prodotti in seno alla Lega ci si rende conto che gli sviluppi simili di Lega e partito nazista potrebbero anche essere meno casuali di quanto sembra e la scelta dei Celti connessa ad un comune ambito di riferimento culturale, bazzicato sia dai nazisti degli anni ’30 sia da alcuni appartenenti alla Lega in periodi più recenti.

    Il 7 Ottobre ’96 viene pubblicato sul foglio Lega Nord - Padania indipendente n°37, organo ufficiale della Lega Nord, un articolo di Gilberto Oneto, ministro della Cultura nel Governo Sole della Padania, “Il Sole delle Alpi sorge sulla Padania”, apparso in parte già nel 1995 sul primo numero di Quaderni Padani, rivista che cura “lo studio e la promozione della cultura padanista, con testi sulla storia e sulle varie espressioni culturali dei popoli padano - alpini”.  

    Gilberto Oneto, Giuseppe Aloé e Davide Fiorini spiegano il significato del sole padano dalle pagine di“Quaderni Padani”

     

    L’articolo presenta il nuovo simbolo della bandiera padana, il Sole delle Alpi appunto, un cerchio in cui viene inscritto un fiore a sei petali “ radicato”, a detta di Oneto, “ nella memoria popolare ( ?) e famigliare (sic !) ad una intera comunità di popoli.” Il simbolo avrebbe radici celtiche “la Ruota solare o croce celtica” sarebbe “la personificazione mitologica del dio Lug... la cui immagine è all’origine di tutti i soli che sono comuni nell’iconografia dell’area alpina.” Il sole celtico avrebbe legami con la simbologia cristiana (Cristo ha l’epiteto di Sol Invictus) e collegato alle dottrine magiche che difendono dagli spiriti cattivi nonché alla simbologia alchemica. Non pago di ciò, Oneto continua : “Legato alla ruota è il significato di rotazione che accomuna una vastissima gamma di segni antichissimi, dal Triscele alla Svastica... risulta facile ed immediato il suo accostamento con il Chrismon, monogramma formato dalle iniziali del Cristo...questo somiglia e forse deriva dalla runa Hagal che significa contente il tutto” Oltre che il Chrismon, la cultura celtica avrebbe inventato anche il concetto di trinità, poi passato al cristianesimo.

    Fermiamoci qui. I concetti riportati nell’articolo, infatti, per quanto possano apparire farneticanti, non sono di certo nuovi. Essi sono tutti ripresi (assieme alla dea Sole parimenti citata nell’articolo in un passo non riportato) dall’antica tradizione ermetica iniziatica che, presente in Europa fin dal periodo rinascimentale, è riemersa con prepotenza durante gli ultimi anni dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento. In questo arco di anni fiorisce in Europa, specialmente in Inghilterra e Germania, una pletora “di associazioni e cenacoli la cui caratteristica consisteva nel ritenersi depositari di una antica sapienza primordiale che in alcune sue manifestazioni sfociava nell’esoterismo, nell’occultismo e nel magismo...Nel 1897 un gruppo di studenti liceali viennesi fonda una associazione che assumeva la denominazione Die Telyn, un’arpa i cui suoni paramagici esprimevano la creatività delle popolazioni celtiche del Galles meridionale” In questi cenacoli si incrociano ciarlatani, intellettuali, futuri arbitri della storia d’Europa, da Madame Blavansky a Yeats a Hitler. In essi Fabre d’Olivet, un famoso occultista, “elabora una staordinaria epopea, volta a dimostrare la prevalenza dei Celti su tutti gli altri popoli ed il valore esemplare dell’impero teocratico fondato dal druido Ram seimila anni prima di Cristo. Ram diviene Rama in India, Osiride in Egitto, Dioniso in Grecia.”

    In questa cultura i Celti, legati agli Iperborei ed al mito d’Atlantide, nonché alla leggenda del Santo Graal, sono una sorta di popolo eletto. Hitler e lo stato maggiore del nazismo si formano all’interno di questi circoli, così come Yeats, poeta vate dell’indipendenza della celtica Irlanda.

    Ora, è evidente che fra Bossi ed Hitler, la Lega ed il partito Nazionalsocialista non vi sono punti diretti di contatto. Tuttavia è interessante notare come i due movimenti, che presentano analogie di struttura e di organizzazione, abbiano alle spalle anche una cultura comune. Le rune a Hitler inspirarono il logo delle SS, a Bossi inspirano il simbolo del Sole delle Alpi, l’uno amava circondarsi di camice brune, l’altro verdi.

     

    Scene di lotta di classe a Ponte di Legno.

    Oltre ai legami con questo “sottofondo esoterico” che in qualche modo fu legato anche alla nascita della cultura nazista, l’articolo di Oneto risulta interessante per indagare altri aspetti della ricostruzione leghista dei Celti. Addirittura illuminante risulta a questo proposito un passaggio finale dello scritto: “Si può sicuramente affermare che si tratta del segno  (ossia: Il sole delle Alpi) più diffuso in Padania nella cultura subalterna, in quella cultura popolare contadina, montanara ed artigiana che è ancora radicata e ricca e che rappresenta il più forte e vitale tessuto connettivo del paese. Anche per questo non ci può essere simbolo migliore del Sol per rappresentare un paese che ha sempre mantenuto una unità culturale anche sotto secolari divisioni politiche e culture dominanti, spesso forestiere ed imposte con la forza o con l’inganno...ora questa terra sta faticosamente lottando per ritrovare la sua cultura più profonda e non può darsi un sigillo più antico, ricco e popolare di questo...ritorno eterno alla propria tradizione.”

    Ancor più duro era stato, qualche giorno prima, una altro articolo sempre uscito dalla penna del “ministro” Oneto, pubblicato nel primo numero del giornale Il Nord, quello diffuso, per intenderci, lungo il Po durante la tre giorni della secessione: “Esiste innanzitutto un’origine comune: la Padania è il paese dei Celti, dei Liguri e dei Veneti che la abitavano dall’inizio dei tempi... I nostri vecchi vivevano in una sorta di età dell’oro prima che sull’Appennino si affacciassero i Romani, con tutto il loro sopraffattorio parafernale...” quella celtica era una società modernissima, con una struttura democratica (i capi venivano eletti) e paritaria (donne e uomini, poveri e ricchi avevano gli stessi diritti)”, dove addirittura l’età dei Celti diviene un regno del Bengodi.

    Oneto stesso spiega : “Il Sol non ha mai avuto utilizzi nobili: esso non esiste nell’araldica nobiliare, e se ne trovano tracce solo insignificanti su manufatti aulici prodotti da culture dominanti. La sua diffusione è invece massiccia nell’arte e nell’iconografia popolare... con particolare rilevanza per tutti i manufatti che sono vitali per la vita della comunità.”


    L’Italia fondata dai Fenici

    La Lega dunque, questa Lega celtica, si presenta come un partito di lotta sociale, che difende gli interessi di un popolo antico, operoso e da sempre vessato da dominazioni straniere. E nella dominazione forestiera che con la forza o l’inganno ha tenuto sotto il suo potere gli sventurati Celti padani non occorre una gran fantasia nel riconoscere Roma, sede nell’antichità del violento impero centralista e in anni più recenti della partitocrazia malavitosa. Uno stato che, sono ancora parole dei Leghisti, è un mostro ignobile, pensato per stroncare i popoli celtici bonari ed operosi: “Ascoltatemi bene perché vi parlerò della morte del nostro popolo, il popolo celtico delle pianure del nord della Padania. Si chiama Stato Italiota - da un ceppo di Fenici. Stanziato nell’epoca preromana nell’attuale Calabria, dispregiato dagli Achei ed abiurato dai Romani, il più gelido dei mostri”.

    In questo ultimo passo (presentato come “Una libera reinterpretazione del Così parlò Zaratustra di Nietzche”), addirittura, lo stato italico non è neppure più un prodotto di Roma, ché almeno i Latini e gli Achei, in quanto indoeuropei di origine come i Celti, un po’ di rispetto se lo meriterebbero (sentenzia ispirato Erminio Boso: “Magari i veri Romani erano persone serie. Ma poi, le infiltrazioni...quando il sangue si tara...”) ma figlio bastardo di Fenici.

    I Celti Padani, vessati da Romani, appaiono quindi nell’immaginario leghista configurati come un popolo di artigiani, magari di piccoli imprenditori che si son fatti da soli, dediti al lavoro, dotati di senso pratico, alieni da ogni grillo per la testa, che non ha tempo da perdere con le fisime della burocrazia e degli intellettuali. Sono insomma la proiezione, in epoca antica, degli elettori tipo odierni della Lega, in lotta con i grandi industriali (la vera aristocrazia del nostro tempo) e con i burocrati ‘foresti’. Lo scontro fra gli interessi di classe si colora di sfumature epiche: non è più una questione di tasse, di riforme istituzionali e federaliste, ma una battaglia storica fra due blocchi contrapposti fin dalla notte dei tempi.


    Misteri del popolo

    Precedenti diretti di questa visione da scontro epico - etnico non si trovano nella propaganda di nessun partito politico del secondo dopoguerra. Di precedenti letterari se ne rintraccia solo uno, anche se non perfettamente coincidente, nel campo del romanzo d’appendice ottocentesco. Nel 1856 Eugéne Sue, il grande inventore del romanzo d’appendice ottocentesco, inizia I Misteri del Popolo, saga storica in cui una famiglia proletaria francese (i Lebrenn, che già dal nome appaiono legati al nome del capo celta Brenno) viene seguita attraverso i secoli e la secolare lotta con la famiglia antagonista dei Plouermel, via via feudatari, legittimisti, capitalisti.

    Sue scrive la saga dal punto di vista socialista, è amico di Mazzini che farà pubblicare I Misteri del Popolo in Svizzera. Tuttavia i suoi Celti proletari vessati rimangono l’unico precedente di questa lotta di classe etnica ambientata a Ponte di Legno, che la Lega ha inventato e diffonde. E’ impossibile determinare se Bossi o qualcuno del suo entourage abbia letto Sue. Di certo la trama e l’analisi delle implicazioni politiche del romanzo sono ricordate in un saggio di Umberto Eco, che ebbe negli anni ’70 vasto successo e circolazione. Non stupirebbe, a questo punto, se l’apparato della Lega, oltre ad Asterix, Conan il Barbaro,  Mel Gibson e l’esoterismo magico, comprendesse fra i suoi padri nobili anche il romanzo d’appendice dell’Ottocento.

     

    III.   La Lega, La Liga e l’assalto a S. Marco.

    Se una notte di maggio un campanile...

    Venezia, notte dell’8 maggio 1997. Al molo di S. Marco attracca un ferry boat proveniente dal Tronchetto. Ma a scendere dalla rampa, invece dei turisti d’uso, è un piccolo tanko militare che si dirige verso il campanile. I vigili in servizio sulla piazza pensano che si tratti della scena di un film. Invece a bordo vi sono otto componenti di un sedicente commando indipendentista, che si asserragliano nel campanile stesso. Il gruppetto tiene la città e l’Italia col fiato sospeso fino alla mattina successiva. Gli occupanti, che si proclamano combattenti della Serenissima, armati ed intenzionati a resistere, dichiarano al sindaco Massimo Cacciari, intervenuto per tentare una mediazione, di essere in attesa del loro ambasciatore ufficiale, Giuseppe Segato, in arrivo a Venezia da Borgoricco, paese in provincia di Padova.

    Segato non riesce ad arrivare in tempo, perché gli otto Serenissimi vengono arrestati grazie all’intervento delle squadre speciali dei Carabinieri. Lo stesso ‘ambasciatore’ viene incarcerato qualche giorno più tardi. Le indagini successive provano che gli otto sono responsabili anche dei proclami indipendentisti diramati attraverso la televisione alcune settimane prima nell’area di Venezia, attraverso un indebito inserimento nelle frequenze della Rai.

    L’assalto al campanile di san Marco non mancò di ottenere una certa risonanza internazionale, testimoniata da questo manga – Gunslinger Girl - che intrattenne i lettori giapponesi sul tanko e le imprese dei Serenissimi


    L’assalto al campanile scatena nell’opinione pubblica vive preoccupazioni, anche se poi, alla luce delle successive scoperte, più che un attentato eversivo sembra un atto inconsulto messo in piedi da un gruppetto di esagitati molto naïf. A rimanere spiazzato è, sulle prime, lo stesso Bossi. A caldo il Senatùr dichiara che gli otto del campanile sono addirittura degli agenti provocatori al soldo dei servizi segreti. Poi, sull’onda della simpatia istantanea che i Serenissimi suscitano nel popolo leghista, cambia parere e li qualifica come patrioti ed eroi. Gli altri partiti politici, dopo un momento di allarme in cui ci si interroga se nel Nordest non si rischi la nascita di nuove forme di terrorismo formato da schegge impazzite della Lega, presto dimenticano gli otto o si limitano a considerarli sempliciotti un po’ bacati.


    Segato, la storia veneta e l’elogio di Trasea Peto.

    Che i componenti del commando-ex operai del padovano che la sera si riunivano in conclavi clandestini per pianificare una fantomatica rinascita della antica Repubblica Veneta - non brillino per astuzia è un dato incontrovertibile. Più interessante invece è il preteso ambasciatore del gruppo, Giuseppe Segato, che dai Serenissimi veniva considerato l’ideologo ufficiale ed il punto di riferimento.

    Segato risulta infatti autore di un saggio stampato e diffuso a sue spese, intitolato Il mito dei Veneti dalle origini ai giorni nostri (Borgoricco, 1996). Il libro è molto utile per comprendere non solo da quale humus sia germinata la bislacca idea dell’assalto al Campanile, ma anche quale tipo di ricostruzione dell’antica storia veneta venga divulgata presso questi gruppuscoli indipendentisti da cui poi prendono origine o spunto, in molti casi, i movimenti politici più noti.

    Segato si propone di tracciare un disegno della storia veneta dalle origini ai giorni nostri. E che la sua prospettiva storica sia rigorosamente venetocentrica (e contrapposta totalmente alla ricostruzione ‘celtica’ della Lega di Bossi) è chiaro fin dalle prime pagine. I Veneti di Segato sono infatti il vero motore della storia d’Europa : “Da alcune aree veneto-indoeuropizzate nel 2° millennio emergeranno popoli quali i Celti, i Latini, i Germani ed i Veneti dell’alto adriatico” sentenzia infatti il nostro saggista a p.9, lasciando intendere che i Veneto-Indoeuropei sono il vero ed unico popolo originario, da cui discendono tutti gli altri.

    Il modello veneto è il motore della storia : (p.22) “Con il verificarsi della consistente penetrazione veneta centroeuropea vengono a fondersi gusti e stili di svariata provenienza nel nuovo aspetto etnico culturale della regione, che da allora ha preso una connotazione così marcata da essere in grado di reagire in modo dinamico e caratterizzante ad ogni impulso della storia.”

    E questo eden primigenio non è turbato da ingiustizie sociali che invece tormentano gli altri popoli coevi: “In contrasto con il mondo indoeuropeo e quanto andava maturando verso Sud (Roma) o verso Nord Ovest (Celti) non sorgeranno caste guerriere o sacerdotali o irreggimentazioni di tipo feudale e/o monarchico, con l’egemonia di una o poche famiglie, con il culto della personalità del singolo a scapito di quella della comunità, e aggressività verso l’esterno a gloria del singolo. (p.22)”  I Veneti di Segato spingono col loro esempio i popoli vicini sulla via della culturalizzazione. Gli Etruschi stessi si civilizzano grazie a questo vivificante contatto : “La civiltà etrusca annovera nella sua essenza anche importanti aspetti Veneto-indoeuropei... a partire dal VII secolo l’Etruria, molto ricca di risorse minerarie, si trova ad essere una regione molto fortunata, perché sotto lo stimolo di civiltà più progredite i suoi abitanti seppero sfruttarle (sic) dando il via ad attività artigianali e mercantili.”(p. 40).

    L’incontro con i Romani è pacifico perché i Romani riconoscono la relativa indipendenza del Veneto, che diviene uno dei centri economici dell’impero, ma ha in sé la forza morale di non abbandonarsi alla corruzione che invece distrugge Roma: “Con la pace augustea prese vita un gran dinamismo cui tutti parteciparono ed il Veneto in modo particolare.. il linguaggio equivoco della storiografia risorgimentale ha indotto a dedurre che la romanizzazione abbia comportato la fine dei Veneti...le alleate giungono a grandi destini, ma raggiunta la ricchezza seguono due vie diverse: Roma prende la via della dissoluzione morale, e cade nei tentacoli della corruzione, Padova conserva saldezza di principi e di costumi.” (p.53)

    Un esempio di questa saldezza di principi è proprio il senatore patavino Trasea Peto, che si batte contro la corruzione dell’Urbe, e di cui Segato tesse l’elogio: “Trasea assurge a simbolo dell’ideale repubblicano (connaturato nei Veneti) con la sua inflessibile opposizione alla vocazione assolutistica della monarchia.” (p.58).


    Sul cattivo uso di fonti buone

    Tralasciando gli svarioni storici, l’esame di questo testo è interessante per chiarire il tipo di mentalità che contraddistingue questo tentativo di storiografia politicizzata a fini secessionisti. Al contrario di quanto avviene con la propaganda leghista, che le radici e le tradizioni celtiche deve, come si è visto sopra, inventarle dal nulla, i Veneti possono contare su una forte identità culturale alle spalle. Quelle di Segato sono, in larga parte, farneticazioni estremistiche. Però le fonti da cui prende spunto per ricostruire la sua fantasiosa visione storica sono reali (effettivamente i Veneti ebbero rapporti buoni con gli Etruschi, pessimi con i Celti, ottimi con i Romani). Segato stesso cita come sue basi gli studi di esperti seri (ad esempio, lo storico Lorenzo Braccesi per la parte storica, e di Aldo Prosdocimi per quella linguistica), seppure travisandone completamente argomentazioni e conclusioni. Al contrario della propaganda leghista, che inventa di sana pianta, la propaganda ‘veneta’ può contare su un background storico alle sue spalle. Del resto che un afflato filologico pervadesse fin dall’inizio il movimento leghista veneto è testimoniato dal fatto che esso nasce ufficialmente per la prima volta come Società filologica veneta, e si prefigge come scopo lo studio, la diffusione del dialetto e della cultura veneta.

    Questa differenza di origini chiarisce anche in parte il perché della spaccatura avvenuta nel 1994 fra Liga Veneta e Lega Nord. Oltre al fattore economico (il Nordest è un’area troppo forte produttivamente per accontentarsi di accettare passivamente la politica decisa dai ‘padani’ di Milano, che spesso capisce poco quanto la vituperata Roma le esigenze reali del territorio), culturalmente il Veneto si trova ad avere una identità che, per quanto confusa, travisata e creata sulla base di fraintendimenti, è reale e diversa dalla vulgata ‘celtica’ che Bossi ha costruito. Non stupisce quindi che nelle farneticanti ricostruzioni ideologiche dei gruppi come quello di Segato, - che non sono ‘schegge impazzite’ della Lega, semmai piuttosto sono nuclei che preesistevano al fenomeno Lega e non si sono mai integrati con esso - la propaganda celtica di Bossi non trovi il minimo spazio, anzi l’immagine dei Veneti sia messa in antitesi con quella dei Celti pretesi precursori di Bossi. I Celti di Bossi, in questo caso, hanno fatto il calderone, ma il coperchio no.

     

    Celti in pensione: la svolta di Salvini

    Settembre 2010: nel Comune di Andro (BS) viene inaugurata una scuola elementare destinata ad assurgere immediatamente all'onore delle cronache nazionali. Nonostante si tratti di un edificio pubblico, il sindaco Oscar Lancini non solo l'ha voluta intitolare a Gianfranco Miglio, ideologo della Lega Nord, ma si è anche premurato di fornirla di arredi con sopra stampigliato ovunque il simbolo del Sole delle Alpi. Il logo campeggia sulle finestre, sui banchi, sui muri, dove per altro vi sono esposti anche dei crocefissi “imbullonati”, per evitare che qualcuno possa tentare di toglierli. «Li abbiamo fissati con le viti - precisa il sindaco Lancini - perché a nessuno venga in testa di toglierli o di coprirli. Viviamo in uno stato laico ma la nostra religione non si discute, neppure in una scuola frequentata per il 7% da immigrati».
    La vicenda finisce sui giornali, lo scandalo è enorme, e l'anno dopo il sindaco Lancini viene condannato dal tribunale alla rimozione di tutti i simboli, e al pagamento di 800 euro di spese legali, dopo un esposto presentato dalla CIGL per discriminazione sul luogo di lavoro.

    La trovata del sindaco leghista (per altro arrestato qualche tempo dopo perché coinvolto in una indagine su appalti truccati) rappresenta anche l'ultimo episodio in cui la simbologia celtica viene riproposta dal partito. Con il passare degli anni, infatti, i riferimenti al mito celtico ed alla simbologia pagana all'interno dello stesso partito vengono scemando: persino all'interno delle feste leghiste i gruppi di militanti in costume diventano sempre più sporadici e folkloristici, mentre i big del partito non fanno più riferimento nei loro discorsi alle origini celtiche del nord Italia.

    La Lega, infatti, ha deciso per un riposizionamento ideologico: da partito “identitario” del Nord e partito genericamente di centro-destra, che vuole pescare voti ed elettori al di là della loro provenienza geografica. In questo contesto, anche la propaganda è cambiata: da un lato si sottolinea non tanto la diversità etnica fra Italiani del Sud e del Nord, come nei primi tempi, ma fra Italiani ed immigrati. In questo già il sindaco di Andro si dimostra indicativo della svolta: sebbene legato all'immaginario del Sole delle Alpi, la sua politica era poi fortemente indirizzata contro gli stranieri, che nel paese erano stati esclusi con una delibera comunale (poi abrogata e considerata illegittima dal Tribunale) sia dai contributi per l'affitto della casa sia per il cosiddetto “bonus bebé”. Inoltre la svolta è chiara anche nella dichiarazione sui crocifissi: mentre nei primi anni la Lega si era messa in aperto conflitto con la Chiesa, vagheggiando quasi la fondazione di una “religione alternativa” che recuperasse i miti e i riti celtici, adesso invece i Leghisti si presentano come i guardiani della tradizione cattolica, pronti a difendere e ad imporre il crocifisso nei locali pubblici, in funzione antislamica.

    Il nuovo corso della Lega è sicuramente legato al passaggio della segreteria in mano a Matteo Salvini. Nonostante Salvini si sia speso in passato per difendere il simbolo del Sole della Alpila sua “fede” nei miti celtici è sempre apparsa piuttosto all'acqua di rose, ed il suo intento politico pare quello di affrancare la “sua” Lega da queste zavorre ideologiche celtiche, per trasformarla in un partito di destra sul modello di quello della Le Pen in Francia.

    La politica odierna mescola simboli appartenenti a tradizioni diverse; cambia la strategia, che ormai guarda a questioni che possono interessare l’intera popolazione italiana, come la polemica contro l’euro. Questo è l’invito al raduno di Pontida del 2014. L’immagine fa riferimento ai raduni nel “pratone” tradiziona. Il nuovo raduno si svolge in un’ “area feste”


    La Lega, insomma, si presenta come il partito della difesa della tradizione e della “razza” italiana: è antislamica, cristiana, aperta ad accogliere anche gli Italiani del Sud ed e di ogni origine geografica. I celti leghisti non sono dunque più funzionali alla sua propaganda, e infatti i simboli stessi fondanti della Lega delle origini (l'Alberto da Giussano ed il Sole delle Alpi) seppure restano nel simbolo elettorale passano in secondo piano rispetto al nome del segretario, Salvini, garante e propugnatore del “nuovo corso”.

    Gli intellettuali della prima ora, che avevano contribuito con i loro scritti a fondare il “mito celtico” risultano marginalizzati ed appannati. Gianfranco Miglio è morto, Gilberto Oneto molto marginalizzato. L'intero “circolo magico”, poi, che era cresciuto all'ombra di Bossi e che pareva coltivare interessi esoterici e collegati al mito celtico, è stato falcidiato dalle inchieste della magistratura e ha perso ogni ruolo chiave nel partito. Così i pacifici Celti leghisti sembrano destinati ad andare in pensione, silenziosamente, e ritirarsi negli antri di qualche museo, senza più occupare la ribalta della politica nazionale. Forse, per loro, è meglio così.

     La “festa dei Popoli Padani” del 2014 si svolge alla presenza degli uomini politici più importanti della Lega, da Bossi a Salvini, ma “La Padania”, che ne dà notizia, non fa cenno a Celti e a Tradizioni (termini peraltro scomparsi nell’indice analitico del giornale, insieme con Pontida e Alberto da Giussano), e illustra l’articolo con un Monviso, ritornato ad essere una semplice (e bella) montagna alpina
        

    Bibliografia

    ALFONSO, D. "Bossi al mare : la secessione nautica", in Repubblica 5/8/’96, p.10
    BIANCHIN, R. “ Così il dio Po divide i buoni dai cattivi” in Repubblica 30/8/’96, p. 8.
    BOCCA, G.”Solo adesso scopriamo che Bossi - Braveheart proviene dal medioevo” in Espresso, 29/8/’96, p.7
    BRUSADELLI, S : “I  Veneti alla prima crociata”, in Panorama del 14 / 11/ 1996, p. 65-66.
    ERBANI, F. “ I riti presi dai Celti tra storia ed Asterix” , da Repubblica, 15/9/’96, p. 7
    DEL FRATE, C -SPATOLA, G., La scuola appaltata alla Lega, http://www.corriere.it/cronache/10_settembre_12/scuola-appaltata-lega_2f751f96-be42-11df-b1cc-00144f02aabe.shtml
    FERTILLO, D. “Ricorda i Miti del totalitarismo” in Corriere della Sera, 15/9/’96, p. 3.
    FUCILLO, M. :”Da Ghandi a Feltrinelli”, in Repubblica 10/8/’96, p. 1
    GALLI, G. : Hitler ed il Nazismo magico, Milano, 1989
    LAGO, G. :“ Roma dorme, Bossi corre”, in Repubblica 9/8/’96, p. 1
    MESSINA, S. : “ Auto, barche ed aerei, così la Lega prepara la marcia sul Po”, in Repubblica 10/8/’96, p.2.
    ONETO, G. in Il Nord- padania Indipendente n.1 . Cfr Stella G. A. Dio Po, cit. pp. 211-214
    PASSALACQUA, G. “Pronta la nuova Lega”, in Repubblica 30/ 8/ ’96, p. 8
    PASSALACQUA, G. “Senatùr leader unico ma il partito lega ha mille facce” in Repubblica, 31/8/’96 p.8
    SCALFARI,  E. “I nuovi pagani del Po” in Repubblica, 15/9/’96, p.1
    SERRA, M. in Unità, 14/9/’96,p.1
    STELLA, G. .A., Dio Po, Baldini e Castoldi, Milano, 1996
    STELLA, G..A. “ l’acqua è la carne di noi padani”, in Corriere della Sera, 14/9/’96, p..3

  • Il ghetto di Varsavia. Giornata di studio

     

    Lunedì 3 novembre la città di Ferrara sarà sede di un’importante giornata di studio aperta a tutta la cittadinanza sul ghetto di Varsavia, frutto della collaborazione avviata già da alcuni anni tra l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e il Mémorial de la Shoah di Parigi.

    Una lectio magistralis (lunedì 3 novembre ore 17.00 presso l'aula magna della Facoltà di economia) del Prof. Georges Bensoussan, storico e responsabile editoriale del Mémorial de la Shoah  di Parigi e la proiezione (lunedì 3 novembre ore 21- Sala Boldini) di “A Film Unfinished” della regista israeliana Yael Hersonski, rarissimo documentario con filmati di epoca nazista proprio sul ghetto,  saranno i momenti cardine di questa iniziativa (si veda il programma nei dettagli), realizzata grazie alla partecipazione del MEIS – Museo Nazionale dell’ebraismo italiano, con cui di recente la prestigiosa istituzione francese ha siglato un accordo di cooperazione culturale, con l’Istituto di Storia contemporanea di Ferrara e con il  Pitigliani Kolno’a Festival di Roma, e con il patrocinio di Comune, Provincia,  Università degli Studi e  Comunità Ebraica di Ferrara

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