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  • Il Novecento. Una proposta di programma essenziale

    Autore: Cesare Grazioli

     

    Indice:

    A. Il processo di trasformazione della mondializzazione in globalizzazione
    B. Il processo di formazione della società di massa e la sua diffusione nel mondo

     

    Introduzione

     

    Che il Novecento contenga una quantità di fatti, notizie e problemi che è difficile gestire, è un dato che, anno dopo anno, appare sempre più vistoso. Inoltre, la tendenza dei docenti è in genere quella di cominciare la spiegazione con i fatti dell’Ottocento e procedere cronologicamente. In questo modo, non si arriva mai a trovare il tempo per studiare il mondo attuale. Per ovviare a questo problema, occorrerebbe individuare i processi fondamentali, quelli che attraversano il secolo e giungono fino ad oggi. Vanno colti osservando il secolo “da lontano”, come se lo guardassimo dalla Luna, per riprendere un’espressione di Leften Stavros Stavrianos, lo storico greco-canadese che promosse lo studio della Storia Mondiale (1913-2004). La proposta che segue, dunque, individua due processi fondamentali - la nascita della globalizzazione e la formazione della società di massa – e li articola in tre periodi. E’ la proposta di un programma essenziale, di base, che il docente potrà arricchire con approfondimenti e laboratori.

    (versione corretta il 17 marzo 2013)


    A. Il processo di trasformazione della mondializzazione in globalizzazione


    Se vogliamo individuare il periodo storico in cui si può parlare di un mondo non ancora globalizzato, ma già organizzato come un unico “sistema-mondo”, esso iniziò certamente a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento. Quel sistema-mondo era organizzato secondo un rapporto di subordinazione centro-periferia: era dominato dall’Europa ed orchestrato dalla Gran Bretagna, che avevano sottomesso Asia e Africa ed “europeizzato” le Americhe e l’Australia. Era realmente un sistema integrato, caratterizzato da una larga circolazione di merci, capitali, notizie, persone (basti pensare all’emigrazione transoceanica). Da questo momento iniziale può partire un racconto in tre fasi.

     

    La regina Vittoria redarguisce il nipotino, il Kaiser Guglielmo


    Primo periodo: da inizio Novecento al 1945. La distruzione del sistema-mondo basato sul primato britannico

     

    La prima parte del Novecento, soprattutto il trentennio 1914-1945, ci appare come il periodo in cui quel “sistema-mondo” relativamente unitario d’inizio secolo si distrusse, frantumandosi in diversi “mondi”, ovvero sistemi economici e politici separati e contrapposti. Non cambiarono le relazioni tra centro e periferia (la dipendenza coloniale di Asia e Africa), bensì quelle all’interno del “centro”, ove venne meno il primato britannico coi meccanismi che nell’Ottocento gli avevano garantito il dominio del mondo (il gold standard, il primato della sterlina e della potenza marittima inglese).

     

    Mussolini, Hitler e Hiroito in una caricatura americana, durante la seconda guerra mondiale

     

    Questo crollo avvenne nel fuoco delle due guerre mondiali e della devastante crisi economica degli anni ’30. Alla metà degli anni ’30, non esisteva più un unico sistema-mondo, ma un disordine sistemico, che portò alla seconda guerra mondiale. I sistemi economici e politici, separati e vicendevolmente contrapposti, erano:

     

    • gli Usa, chiusi nel loro isolazionismo;
    • Gran Bretagna e Francia, che puntavano sugli scambi privilegiati all’interno dei rispettivi imperi coloniali;
    • l’Urss dei piani quinquennali, isolata dal mercato mondiale;
    • la Germania nazista, col suo sistema di scambi bilaterali con i paesi satelliti;
    • l’Italia dell’autarchia;
    • il Giappone col suo progetto della “sfera di co-prosperità dell’Asia orientale”. Il tragico esito di questo disordine sistemico, fu la II Guerra mondiale.

     

    Secondo periodo: dal 1945 ai primi anni settanta. Il nuovo ordine, basato sul primato americano e sul “bipolarismo asimmetrico”, e “l’età dell’oro” dell’Occidente.

     

    Dalla  II guerra mondiale uscì un unico vincitore sul piano economico-finanziario, gli Usa, ma due vincitori sul piano militare (e ideologico): Usa e Urss. Il loro comune interesse a liquidare il colonialismo europeo favorì l’impetuoso processo di decolonizzazione che si diffuse dai due giganti asiatici, India e Cina, al resto dell’Asia (fino alla metà dei ’50) e nel decennio successivo in Africa. La decolonizzazione fu la prima causa del profondo cambiamento nel rapporto centro-periferia.

     

    Ma anche al “centro” del sistema, ovvero nel “nord del mondo”, si creò un nuovo scenario. Qui il “bipolarismo asimmetrico” fra Usa e Urss divenne presto una “guerra fredda”: una forma di conflitto funzionale agli interessi di entrambe le superpotenze. All’Urss, che solo con la paura del nemico imperialista poteva cementare i paesi del “socialismo reale” entro i rigidi schemi dell’economia pianificata staliniana; agli Usa, che senza la paura del comunismo non avrebbe potuto alimentare quel complesso industrial-militare che fu un indispensabile volano economico (il warfare state, come è stato definito) nell’America dei ‘50.

     

    Probabilmente il momento iniziale di questo nuovo ordine mondiale, è costituito dalla Conferenza di Bretton Woods, che tra il ’44 e il ’45 pose le basi dell’”età dell’oro” dell’Occidente. In quell’occasione furono stabiliti:

     

    • la centralità del dollaro e la sua convertibilità in oro,
    • il sistema di cambi fissi fra dollaro e le restanti monete,
    • la nascita di organismi come la Banca mondiale e il Fmi, che dovevano favorire la liberalizzazione degli scambi in un sistema di economia di mercato aperta, sotto l’egemonia del gigante americano.

     

    A ciò si aggiunse la lungimirante scelta di esportare il fordismo, inteso come sistema di produzione e di consumo di beni durevoli, che (oltre al già citato riarmo) assicurò all’Occidente un periodo di crescita economica eccezionale per intensità e durata, durante il quale si produssero trasformazioni socio-culturali senza precedenti nella storia del pianeta.

     

    Breznev e Nixon si incontrano nel 1972


    Terzo periodo: dall’inizio degli anni ’70 alla fine degli anni ’80. Prende forma il mondo attuale, globalizzato

     

    La svolta è segnata da un complesso di fenomeni, apparentemente non collegati, distribuiti tra l’inizio dei ’70 e la fine degli ’80:

     

    • nel 1971, la scelta di Nixon di svalutare il dollaro, abbandonando la sua convertibilità in oro e con esso il sistema dei cambi fissi di Bretton Woods;
    • l’impennata dei prezzi del petrolio della metà degli anni ’70;
    • la stagnazione economica che colpì il mondo industrializzato;
    • le “quattro modernizzazioni” avviate in Cina da Deng Xiaoping nel ’78, che proiettarono la Cina verso una crescita economica senza pari per intensità e durata;
    • la rivoluzione tecnologica avviata nella Silicon Valley nella seconda metà dei ’70, che impose i quattro nuovi settori strategici del presente: elettronica, informatica, telecomunicazioni, biotecnologie;
    • la “rivoluzione conservatrice” di Reagan (dei primi anni ’80, ma iniziata in Gran Bretagna dalla Thatcher), all’insegna del “mercatismo” (“meno Stato, più mercato”), della “deregulation” sia del lavoro (la flessibilità, quasi sempre tradotta in precarietà del lavoro), sia – soprattutto – della finanza, con un impressionante finanziarizzazione dell’economia globale.

     

    Un dato dice più di mille commenti: la circolazione di capitali sul mercato mondiale centuplicò in poco più di un ventennio, passando da 15 miliardi di dollari al giorno del 1975 a 1500 nel 1997. La rivoluzione reaganiana ebbe i suoi capisaldi nel rafforzamento del dollaro, nel riarmo e nella nuova guerra fredda che, nonostante gli sforzi di Gorbaciov di autoriformare il sistema sovietico, portarono alla caduta del muro di Berlino, alla dissoluzione del blocco socialista e, nel ’91, all’autodissoluzione della stessa URSS e del “comunismo reale”.

     

    I tre protagonisti della scena mondiale degli anni ‘80


    Oggi, il presente

     

    Con gli occhi di chi, nel ‘900, visse con sbalordimento questi eventi, il crollo del comunismo sovietico e la fine della guerra fredda, sembrò la svolta epocale, la fine del Secolo breve, come scrisse lo storico inglese J.E.Hosbawm. Guardando quegli eventi dall’osservatorio attuale, invece, ci appaiono ben più rilevanti questi fenomeni:

     

    • la finanziarizzazione dell’economia avviata da Reagan,
    • il conseguente susseguirsi di bolle speculative sempre più frequenti e più deflagranti,
    • la delocalizzazione dell’economia globale e lo spostamento del suo baricentro verso l’Asia e verso altri paesi di nuova industrializzazione (come il Brasile e la Turchia).

     

    Questi sommovimenti sono stati tanto importanti, da cambiare radicalmente le gerarchie e le relazioni internazionali. Che anche nel nostro piccolo orizzonte nazionale il presente sia iniziato negli anni ’80, ce lo dice il “macro-problema”, il fardello che il l’Italia si trascina sulle spalle da quel decennio ad oggi: il rapporto tra debito pubblico e pil al 120%. Un debito che raggiunse questo livello nel corso degli anni ‘80. Ce lo dice anche il ruolo sempre più marginale che l’Italia assume, nel nuovo quadro mondiale, politico ed economico.

     

    B. Il processo di formazione della società di massa e della sua diffusione nel mondo

     

    Nascita e trasformazioni della società di massa.

     

    Se osserviamo il Novecento non dall’ “alto” delle relazioni e dei rapporti di forza tra le grandi aree del mondo, ma “dal basso”, cioè dall’interno delle società e dei gruppi umani, il fenomeno di gran lunga più rilevante (anche per i molteplici aspetti che include: politici, economici, di cultura e mentalità collettiva) ci appare la formazione della società di massa. Le tracce di questo inizio si trovano nella seconda metà dell’Ottocento. Fino ad allora la grande maggioranza della popolazione (in Europa e nel mondo) - ovvero le masse contadine, il proletariato urbano  -  subiva una triplice, drastica esclusione:

     

    • politica (anche in Europa, dove il suffragio era ristretto ai più ricchi);
    • economica, dal momento che era relegata alla pura sussistenza, con un accesso marginale all’economia di scambio;
    • culturale, a causa del diffuso analfabetismo.

     

    A questa esclusione popolare si deve aggiungere quella di genere, che impediva alle donne sia la partecipazione alla vita politica, sia l’accesso a professioni qualificanti e rendeva loro difficile l’accesso all’istruzione superiore.

     

     

    Fino a quel tempo, inoltre, l’individuo  – e questo valeva non solo per le masse subalterne, ma per quasi tutti i gruppi sociali – tendeva a concepirsi non come “persona”, portatrice di diritti individuali, ma come membro di un gruppo, di una comunità ristretta. Era il componente di una “piccola patria” che ovviamente cambiava secondo i contesti sociali: la casata nobiliare o il lignaggio; la corporazione o il gruppo dei “pari”; la comunità di villaggio, la parrocchia o il rione urbano. Questo avveniva anche in Europa, nonostante l’enfasi sull’individuo che la cultura europea aveva posto già dai tempi della Riforma protestante, dell’Illuminismo, della Rivoluzione francese, del liberalismo.

    La distruzione delle piccole patrie e la nascita della società di massa hanno causato, a loro volta:

     

    • la progressiva inclusione delle masse subalterne;
    • la “nazionalizzazione delle masse” fino alla seconda guerra mondiale e, successivamente, la tendenza alla loro sempre più accentuata atomizzazione. Una tendenza per tutte: la diffusione delle famiglie “monoindividuali” .

     

    Gli agenti della trasformazione sociale: lo Stato, la politica, le ideologie

     

    L’espressione “nazionalizzazione delle masse” è da tempo condivisa dagli storici per descrivere i complessi processi attraverso cui gli Stati, tra secondo Ottocento e inizio Novecento, ruppero le “piccole patrie” e fecero sentire lo Stato nazionale come “comunità di destino”. Gli strumenti di questa trasformazione furono, in genere: la scuola, la leva militare obbligatoria, l’“invenzione di tradizioni nazionali”, vere e proprie liturgie collettive laiche, ecc. Ad essi vanno aggiunte alcune riforme fondamentali: l’estensione del suffragio, la legislazione sociale, ecc. Questi processi accomunano i paesi dell’Occidente, per quanto con cronologie diverse.

    Al nazionalismo liberale, democratico e progressista d’inizio Ottocento si sovrappose tra fine Ottocento e inizio Novecento quello aggressivo e imperialista, intriso di razzismo e spesso di antisemitismo, che in nome del “sacro egoismo” scatenò l’immane carneficina della Grande Guerra. A quel tempo, un’altra ideologia, di segno opposto, il socialismo internazionalista e pacifista, ebbe un grande ruolo nel mobilitare le masse operaie e nel conferire loro una forte identità collettiva.

    Se intendiamo le ideologie come grandi visioni dei rapporti tra individui, società e stato, i decenni dal 1919 al 1945 ci appaiono come quelli in cui le ideologie seppero mobilitare le masse nelle forme più estreme, in un coacervo di esperimenti e soluzioni diverse e tragiche. Durò poco l’illusione che ad imporsi fosse l’ideologia dei vincitori, il liberalismo, per quanto fosse stato corretto in senso liberaldemocratico, con il suffragio universale e la diffusione dei grandi partiti di massa. Prima si affermò la rivoluzione bolscevica in Russia, e con essa il mito del “fare come in Russia”. Poi irruppero sulla scena del dopoguerra i partiti-milizia, che in Italia,in Germania e poi in molti paesi europei, si trasformarono in regimi di massa, dimostrando che era possibile un’inclusione e una mobilitazione delle masse non democratica ma in forme totalitarie e populiste, imperniate sul rapporto diretto tra le masse e un capo carismatico, e su un ancora più esasperato nazionalismo.

    Negli Stati Uniti tra le due guerre, l’inclusione delle masse avvenne secondo due ricette diverse. Negli anni ’20, la rivoluzione fordista, ovvero la creazione della società dei consumi di massa di beni durevoli (auto, radio, elettrodomestici); e dopo la brusca frenata dovuta alla crisi del ’29, il New Deal, applicazione delle teorie di Keynes, ovvero l’idea che lo Stato dovesse intervenire per alimentare la domanda, che il mercato lasciato a sé stesso non era in grado di riattivare. Anche il fordismo e il New Deal, si noti, vanno considerate due potenti forme di organizzazione dei rapporti tra individui, società, Stato: ideologie, insomma (se si abbandona l’accezione spregiativa con cui la parola viene spesso intesa).

     


    Due film di Chaplin sono emblematici di questo periodo: Tempi moderni (1936)  e Il grande dittatore (1940)

     

    La II Guerra mondiale non rappresentò una cesura, all’interno di questo processo. Infatti, sconfitto il comune nemico, il nazi-fascismo, la contrapposizione tra il modello sovietico e il capitalismo liberal-democratico disegnò non solo i confini tra i blocchi, ma plasmò le economie e le società di tutto il mondo. Durante il  trentennio che va dal 1943 al 1973, il modello occidentale fuse fordismo e keynesismo, e creò – in Europa ben più che negli Usa – la più grande autoriforma del capitalismo: il welfare state. Secondo questa nuova politica, lo Stato assunse il ruolo di redistributore dei redditi, e promosse una nuova generazione di diritti (dopo quelli civili e politici): i diritti sociali. In quei decenni, emersero anche nuovi soggetti, in primo luogo le donne e i giovani, con la nascita delle culture giovanili.

     

    Ideologie, mercato, media: fine delle ideologie o nuove/vecchie ideologie?

     

    La patria, la razza, il partito, la classe, il mercato, il genere, la generazione furono le parole-chiave delle grandi ideologie che fino agli anni ’70-’80 hanno contribuito all’inclusione delle masse nella vita collettiva, e hanno costruito identità collettive diverse, più ampie e inclusive delle “piccole patrie” tradizionali. Queste masse, una volta politicizzate, non hanno cessato di trasformarsi. La tendenza di fondo del passato più recente, infatti, può essere espressa con la formula del “passaggio dal noi all’ io”. Ovvero l’atomizzazione dell’individuo. Di questo processo sono espressione due fenomeni che caratterizzano il mondo attuale:

     

    • l’ “ideologia della fine delle ideologie”, o se si preferisce l’emergere del cosiddetto “pensiero unico”, mercatista e ultraliberista, che dagli anni ’70 ha ribaltato le priorità del keynesismo e dell’economia sociale di mercato nella quale confluivano la tradizione liberal e quella socialdemocratica; 
    • l’evoluzione del capitalismo dal fordismo al post-fordismo, ovvero dalla centralità dei beni standardizzati per i consumi durevoli della famiglia (auto, elettrodomestici, ecc), a quella di beni personalizzati, spesso usa-e-getta, rivolti al consumo individuale; la trasformazione sempre più serrata della società di massa in società dell’informazione: aspetto, questo,  che rimanda alle trasformazioni antropologiche associate ai media.

     


    Obama visto dalla destra americana

     

    I media, è superfluo ricordarlo, hanno scandito tutta la storia degli ultimi cent’anni: la radio e il cinema sonoro dagli anni ’20; la televisione dai ’50, con la sua crescente pervasività e le sue trasformazioni dai ’70; internet e i social network dagli ’80 al presente. E’ appena il caso di osservare quanto le direzioni di questi fenomeni possano essere diverse e opposte, se si osservano, da una parte, il movimento No global e l’uso della rete nelle campagne elettorali del democratico Barach Obama negli Usa; dall’altra, i rischi di un nuova deriva populista, generata dall’adesione fideistica delle folle a un capo, già sperimentata in Italia con la “telecrazia” berlusconiana; e come può profilarsi, in una versione del tutto nuova, basata sulla “rete” (come le vicende italiane di questi mesi potrebbero mostrare).

  • Il Sessantotto. Un laboratorio didattico su un anno spartiacque*

    di Antonio Brusa

    PARTE PRIMA: L’EVENTO E LA MEMORIA

    1. Manifesti di un tempo passato

    I manifesti del Sessantotto erano stampati in stretta economia o disegnati, uno per uno, in stanze piene di fumo, dove si ragionava della rivoluzione del giorno dopo. Oggi sono venduti all’asta, a prezzi a volte esorbitanti. Quelli introvabili sono conservati nelle biblioteche, come i quattordici manifesti dai quali Marie Jamet ricava alcuni motivi di quella rivolta: la lotta contro l’autorità, per una informazione alternativa e dunque contro la censura, a sostegno della classe operaia, contro il conformismo.

    Ne riproduco solo due, prodotti dall’Atélier Populaire, un gruppo di artisti che si propose come “designer collettivo delle masse” (alcuni di loro fecero poi una bella carriera), perché ci mostrano - in solo un colpo d’occhio - la lontananza e la vicinanza di quell’evento. La fabbrica novecentesca col pugno alzato è l’icona di una lotta che, a dispetto dello slogan, “non è più continuata”. Invece, il “ritorno alla normalità”, contro il quale inneggia il secondo manifesto, non cesserà mai di attrarre adolescenti ansiosi di apparire anticonformisti, per quanto non sappiano nulla di quel periodo lontano, di quasi mezzo secolo fa, quando i loro coetanei si ribellarono.

    Questa duplicità va ricordata sia nell’analisi storico-didattica di quell’evento (scopo della prima parte di questo lavoro), sia nella elaborazione di proposte didattiche, che vedremo in seguito, nella seconda parte.

    2. «Perché questi studenti protestano?»

    Quella rivolta sorprese la politica e i mezzi di informazione del tempo. Il «Time Magazine», il settimanale più letto in America, quasi non sa che pesci pigliare, al principio di quel fatidico maggio del ’68. Fa sua la domanda che tutti si ponevano: «Perché questi studenti protestano?». Cerca di metterla sul paterno: «Certe volte questi studenti fanno perdere la pazienza anche ai santi», ma rivela tutto il suo disorientamento quando l’unico paragone che riesce a trovare risale a un lontanissimo giorno in cui sant’Agostino si incavolò di brutto con i suoi studenti, licenziosi e scostumati, e se ne andò sbattendo la porta (Per i pignoli, si trattava del 382 d.C: in «Time», 3 maggio 1968). Certo, quel maggio fu bollente nelle università di tutto il mondo. Con buona pace di sant’Agostino, la storia ci suggerisce un solo parallelo: il 1848. Con la differenza, di non poco conto, che le rivolte giovanili erano state, allora, soltanto europee.

    "DaLes révoltes des jeunes, Paris, 1968."/>

    4. Una rivolta mondiale

    Il Manuale degli anni ’60 (The Routledge Handbook of the Global Sixties. Between Protest and Nation Building, a cura di Chen Jan et al., N.Y, 2018, d’ora in poi RH) ci aiuta a inquadrare la dimensione spazio-temporale del fenomeno. Per quanto riguarda il tempo, la rivolta giovanile rappresenta l’emersione di un ribollire che covava da parecchio e non si esaurì col ’68. Gli studiosi americani tendono a far coincidere questo periodo di turbamenti con la guerra del Vietnam (dal 1954 al 1975, dunque). Quelli europei sono più sfumati, perché inseriscono l’evento nel quadro dei cambiamenti antropologici e culturali che caratterizzano “i lunghi anni ’60”. Analogamente, anche la dimensione spaziale pone dei problemi. Infatti, se guardiamo la cartina, vediamo che la rivolta tocca tutti i continenti. Certo, si addensa in Europa e negli Usa: ma dal sud Africa, all’Australia, all’Argentina, non ci sono università che restarono tranquille. Se, tuttavia, guardiamo ai motivi della rivolta, vediamo che questi non sempre coincidono. Tanto che, quando i giovani di tutto il mondo tentarono di costruire una piattaforma rivendicativa comune, la cosa fallì miseramente. Ciò che chiedevano gli studenti italiani contrastava con le attese dei loro coetanei cecoslovacchi, africani o statunitensi, come ci si rese conto nei grandi raduni giovanili che si tennero – proprio in quell’anno - a Lubiana, a Sofia e a New York (Martin Klimke e Mary Nolan, The Globalization of the Sixties, Introduzione a RH, p. 3).

    5. Ribelli diversi

    Ci si ribella ovunque e nello stesso tempo, ma per motivi diversi. Certamente: è difficile accettare l’idea di una simultaneità che coinvolga individui e gruppi sociali per motivi dissimili tra di loro. Tuttavia, è un fatto che quelle convergenze non furono trovate dai ragazzi di allora, e nemmeno sono state individuate dagli storici nei tempi successivi. Questa è la conclusione di Marcello Flores e Giovanni Gozzini nella loro recente opera di sintesi: 1968. Un anno spartiacque (Il Mulino, 2018: d’ora in poi FG). I due storici smontano, una per una, le diverse “cause unificanti” proposte dalla storiografia. Il raggiungimento dell’età adulta da parte della “baby boom generation” è una delle spiegazioni più diffuse. Secondo questa teoria, la fine della Seconda guerra mondiale rappresentò un momento di forte ripresa della natalità. Quei bambini del dopoguerra corrispondono ai giovani che animano le manifestazioni sessantottesche. Tuttavia, questa fascia giovanile, demograficamente preponderante, caratterizzò molte nazioni occidentali, ma non quelle dell’allora “terzo mondo”. Forse, continuano i due storici, l’aspetto più interessante è che questi giovani, ovunque essi fossero, facevano parte delle prime leve popolari di studenti universitari. Erano colti, leggevano, facevano progetti. Probabilmente percepivano con acutezza il contrasto fra ciò che studiavano e la realtà; fra le loro aspettative e la risposta che le Università riuscivano a dare. Erano progressisti, dunque? Non sempre. In Africa, per esempio, provenivano dai ceti più facoltosi, avversi alle riforme socialisteggianti che si tentavano nell’euforia di un’indipendenza appena raggiunta; e se la generazione del baby boom americana ed europea scendeva nelle piazze contro la guerra, quella israeliana “che non conosceva gli orrori della guerra, era pronta a difendere con le armi la propria nazione” (FG, p. 93). Laici e anticonformisti in molte nazioni occidentali, in altrettante parti del mondo musulmano molti giovani vedevano nella Sharià l’alternativa alle ideologie, che giudicavano oppressive, del comunismo e del capitalismo.

    6. Tanti inneschi per una sola rivolta

    Questa diversità è messa ben in evidenza dalle cause immediate, quelle che scatenarono materialmente le sommosse. Le riassumo in questo specchietto (FG, p. 18).

    CittàMotivo della protesta
    Praga Mancanza di riscaldamento
    New York Richiesta di apertura degli alloggi alle studentesse
    Parigi Richiesta di apertura degli alloggi alle studentesse
    Rio de Janeiro Condizioni fatiscenti degli alloggiamenti
    Città del Messico Presenza dell'esercito nell'Università
    Dacca Imposizione dell'urdu a una popolazione che parla il bengalese
    Chennay Imposizione dell’hindi a una popolazione che parla il tamil
    Ankara Divieto alle studentesse di portare il velo
    Addis Abeba Sfilata di moda occidentalizzante
    Cairo Esami di ammissione all'Università troppo difficili

    Sono motivi disparati. Qualcuno di questi ci appare un pretesto decisamente secondario. Nonostante ciò, i partecipanti a queste manifestazioni ebbero tutti la sensazione di condividere un’unica, fondamentale, rivoluzione.

    7. L’azione dei media

    Qui entrano in gioco i media. Il 10 luglio del 1962 era stato lanciato dalla base di Cape Canaveral il satellite Telstar. Permetteva di vedere in Europa una partita di football americano, e a tutto il mondo di guardare in diretta Kennedy che parlava ai suoi. Nasceva la mondovisione. I media introducevano nella storia umana una pratica della simultaneità, come nessuno mai l’aveva vissuta prima. Il Sessantotto rese contemporanei i giovani del mondo.

    “I media rappresentano una condizione indispensabile per la trasformazione delle agitazioni locali”. Senza di loro, queste “non avrebbero risonanza e il loro esempio non potrebbe diffondersi. Di più: i media, trasmettendo motivi e forme delle agitazioni, contribuiscono a dare nuovi significati ai contesti e a trasformare le identità personali e collettive” (FG, p. 17).

    I media giocano una parte rilevante, inoltre, in quell’ “effetto farfalla” con il quale Flores e Gozzini cercano di spiegare perché una quota così piccola di giovani (appena il 4% della loro generazione partecipò ai movimenti) ebbe una risonanza così estesa.

    8. Testimoni privilegiati e generazioni invisibili

    I media, dunque, non si limitano a comunicare i fatti, ma intervengono sull’evoluzione stessa del movimento. Contribuiscono, ancora, alla creazione dei “testimoni privilegiati”, quei personaggi che guidarono i movimenti o ne furono elementi di spicco e che, nei tempi successivi, attraverso la loro storia personale e le loro varie testimonianze, ne hanno costruito l’interpretazione egemone: quella di una baby generation che, occupate le posizioni apicali della società, ha spesso disinvoltamente messo da parte i valori per i quali combatté. Scrive impietosamente Julie Pagis sulle pagine di «Libération»: “La memoria del Maggio ’68 è stata largamente costruita (confiscata) da un pugno di porta-parola autoproclamati, che hanno fatto della loro vicenda singolare e non rappresentativa la storia di una sedicente generazione del ‘68”. Julie Pagis è una ricercatrice che ha cercato ostinatamente i “giovani comuni”, quelli che affollavano le assemblee e riempivano le strade, ma che non erano mai saliti sul palco, dalla parte del microfono. Li ha intervistati, ne ha ricostruito le biografie, la loro partecipazione al movimento, la loro condizione attuale.

    Copertina del libro di Julie Pagis

    Ha scoperto che la “generazione sessantottina”, così come è raccontata nel discorso comune, semplicemente non esiste. I giovani che parteciparono al movimento erano classificabili in un buon numero profili, dalle istanze sociali e politiche disomogenee. Ha smontato altri stereotipi, come quelli sulla “ribellione contro i padri” o sulla “distruzione della famiglia”. Al contrario – scrive la studiosa – quei giovani sono la prova del radicamento delle tradizioni. I figli di comunisti, per esempio, si focalizzano sulla questione algerina, allora un cavallo di battaglia della sinistra francese; quelli provenienti da famiglie cattoliche, invece, si aprono a un terzomondismo quasi missionario. Pur con queste differenze, vissero tutti quel maggio del ‘68 come un trionfo: avevano messo il governo con le spalle al muro. Addirittura lo avevano fatto cadere. Ma per tutti, a giugno, arrivò il naufragio (pavé). Nelle nuove elezioni, De Gaulle vinse con una maggioranza mai vista nella storia repubblicana.

    Per quanto limitato a una nazione, il caso francese potrebbe essere paradigmatico anche di altre realtà. Quei giovani persero, ma la loro vita cambiò. Tutti, ad esempio, diventati genitori, mandarono i loro figli in scuole che ritenevano innovative; tutti conservarono nel tempo una forte sensibilità ai problemi sociali. «Non essendo riusciti a cambiare la vita – conclude Julie Pagis – hanno cambiato la loro vita».

    Potremmo dire che la “generazione del ’68” nacque, paradossalmente, sulle ceneri del movimento.

    9. Il lungo post-sessantotto

    Se non ha prodotto i cambiamenti desiderati, l’azione simultanea di centinaia di migliaia di giovani non è stata effimera, né ha riguardato unicamente la loro vita personale.

    Gustavo Prado Alvarez (Pitin) <br>Le galline hanno il loro numero <br>(riferito all’obbiettivo cubano di produrre <br>60 milioni di uova ogni anno). <br>«Palante», 11 Giugno 1964.

    Ha inciso profondamente nella storia umana, lasciando tracce e cicatrici che sono ancora oggi visibili. Di queste siamo abituati a mettere in evidenza solo quelle che hanno scavato nella storia italiana: l’autunno caldo del 1969; le rivolte sociali e le conseguenti riforme (lo statuto dei lavoratori e il diritto di famiglia fra questi); la stagione triste del terrorismo; una sorta di cronicizzazione del ribellismo studentesco che si perpetuò, sempre più stancamente, nel rito delle occupazioni autunnali delle scuole. E, per restare nelle scuole italiane, il Sessantotto è diventato per alcuni commentatori il male assoluto, a partire dal quale la scuola ha intrapreso il suo percorso di discesa agli inferi (Per tutti, si veda E. Galli della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio, 2019)

    Ma se allarghiamo lo sguardo, osserveremo lasciti mondiali non secondari. Una parte di questi ebbe origine dai “paesi non allineati”, un gruppo di stati che, è bene tenerlo presente, operò quando il pianeta era spartito in due blocchi. Eman Morsi, studiosa di letteratura e culture postcoloniali, ne tratta un aspetto insolito, quello dei cambiamenti di dieta in Egitto e Cuba. È un caso solo apparentemente marginale, perché – in realtà – mette in evidenza il modo con il quale negli anni ’60 si concepiva il rapporto fra sviluppo e sottosviluppo. Cuba e Egitto, che vogliono incamminarsi lungo la strada dello sviluppo, promuovono – tra altre riforme sociali ed economiche – l’introduzione di proteine animali nell’alimentazione popolare. Come nei paesi ricchi. Perciò, mettono in atto un grande programma per incrementare la produzione di uova e di polli, e spingere la popolazione a nutrirsene (un’abitudine alimentare che, fra l’altro, è rimasta ed è attualmente interpretata come “tradizionale”).

    Come molti in quegli anni, Castro e Nasser pensano che la storia corra lungo un binario, e che il loro compito (la loro “rivoluzione”) consista nel raggiungere e superare chi sta davanti. Riflettono speranze e modi di vedere – tipici degli anni ’60 – che si trasformarono in disillusioni cocenti nel decennio successivo (E. Morsi, Let them eat Meat, in RH, pp. 565 ss).

    Othman Bahjat, Ecco che succede con Nasser!<br> Lui vuole che la gente mangi noi al posto delle fave!<br> 1963. Nasser Foundation.

    9. Messaggi al mondo

    Il Terzo mondo non parla solo a se stesso, ma lancia messaggi che ebbero una qualche influenza sia sul ’68, sia sulla storia culturale e politica mondiale successiva. Ne scrive Robert Young, studiando la conferenza dell’Avana del gennaio del 1966 (Disseminating the Tricontinental, in RH pp. 517 ss). In quell’occasione, si ritrovarono a Cuba i rappresentanti di 82 di stati, molti dei quali non allineati, tutti anti-occidentali. Vi parteciparono protagonisti delle rivoluzioni sociali e politiche del tempo, come Malcom X, Salvador Allende, Amilcar Cabral. Vi sarebbe andato Ben Barka, se non lo avessero fatto sparire i servizi segreti. Molti di questi avrebbero partecipato poi alla conferenza dell’anno successivo a Londra, con Herbert Marcuse, Régis Debray, Paul Sweezy, Allen Ginzborg, Angela Davis: l’intera biblioteca, potremmo dire, divorata dai ragazzi del ’68. «Questa grande umanità ha detto “Basta!” e ha cominciato a camminare». Questo fu lo slogan del Convegno dell’Avana, che, con l’altro, coniato per l’occasione da Che Guevara, su «due, tre, molti Vietnam», fu tra i più ripetuti nelle assemblee giovanili.

    Quarta di copertina della brochure di preparazione alla Conferenza Tricontinentale, La Avana 1966.

    A quella conferenza presero parte decine e decine di disegnatori, di artisti e di fotografi. Dalla foto di Che Guevara nelle vesti del “Guerrillero heroico”, scattata da Alberto Korda, alle rielaborazioni psichedeliche di volti di politici e cantanti, di film – come Yellow Submarine (1968) - ai poster e alle raffigurazioni stilizzate e astratte («il nostro nemico è l’imperialismo, non l’arte astratta» aveva detto Fidel Castro, mandando in frantumi la tradizione del realismo socialista) troviamo in quel convegno, e nelle pagine del «Magazine Tricontinental» che se ne fece portavoce, l’intero alfabeto iconico che innervò il Sessantotto, ma non morì con questo, perché fu adottato dalle culture alternative e pop fino ai giorni nostri.

    "“IlJohn Birch fu un missionario battista, reclutato dall’esercito americano e ucciso dai soldati comunisti cinesi nel 1945.
    La John Birch Society è un gruppo di estrema destra americano, ancora oggi attivo, considerato fra i grandi elettori di Trump."/>

    11. Globalizzazione alternativa e Liberazione

    La fortuna del “Tricontinental Style” è testimoniata dall’icona di Barak Obama, disegnata da Shepard Fayrey per la campagna elettorale del 2008, «la più efficace illustrazione politica dopo Uncle Sam Wants You», scrive Anne Garland Mayer. “Il nostro poster è un arma di guerra”, aveva gridato Olivio Martìnez, rivoluzionario e disegnatore del «Tricontinental Magazine». A distanza di mezzo secolo, Anne Garland Mayer ci avverte che quest’arma non ha mai cessato di essere usata. Essa è la spia della sopravvivenza di quelle idee dentro i nuovi movimenti del XXI secolo, come Occupy Wall Street, e della formazione della nuova coscienza di un “Sud Globale” (From the Tricontinental to Global South. Race. Radicalism and transnational Solidarity, Duke U.P., 2018, prefazione e capitolo V).

    – Shepard Fayrey, Poster “Obama Hope”, disegnato per la campagna presidenziale del 2008<br> – Alfredo Rostgaard-Alberto Korda, 1970 (da un’asta di Katawiki)

    L’idea di liberazione, che gli anni ’60 ci consegnano, resta per noi un modello assoluto di radicalismo utopico. La riassumo con le parole di Christian Connery: «Attraverso gli anni ’60, la liberazione è diventata l’obiettivo e l’unità di misura dell’attività radicale e rivoluzionaria. Liberazione nazionale, liberazione psichica, liberazione sessuale, liberazione economica, liberazione sociale, liberazione del desiderio: gli anni ’60 promisero la liberazione dai capi, dai padroni della terra, dai genitori, dagli uomini, dai colonizzatori, dalla società, la liberazione della propria personalità, dai sistemi – capitalisti, fascisti e del socialismo di stato – o dal regime del genere, della sessualità o della razza» (Ch. Connery, The Dialectics of Liberation. The Global 1960s and the Present, in HR, p. 575).


    * Questo articolo è lo sviluppo della prima parte della lezione che ho tenuto nel corso per insegnanti ticinesi a Bellinzona, dedicato appunto all’ “anno della rivolta”. Nella seconda parte, presenterò diverse proposte didattiche, a partire dal tentativo di considerare questo evento come un “laboratorio periodizzante”, nel quale un insegnante può esercitare i propri allievi a lavorare sulle temporalità, sui sistemi complessi, sui documenti, sulla capacità di discutere, sulle fonti orali ecc.

     

  • Il Sessantotto. Un laboratorio su un anno spartiacque (parte seconda)

    di Antonio Brusa

    Nove laboratori sulla contestualizzazione storica*

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    A. IL LABORATORIO DELLA CONTESTUALIZZAZIONE

    In questo gruppo di laboratori inserisco quelle attività che mirano ad analizzare il fatto storico “Sessantotto”. Sono laboratori che vorrei definire “top-down”. Vanno dall’insegnante all’allievo in un percorso abbastanza tradizionale. L’insegnante prepara i materiali (lezioni, schemi) e pone agli allievi delle questioni da risolvere.

    Il campo di indagine è quello della contestualizzazione storica. Lo organizzo in due parti. La prima si occupa della complessità. Comprende cinque attività che, a partire da un modello storiografico, cercheranno di collegare l’“evento Sessantotto” a un contesto più ampio. La seconda si occupa del tempo, con quattro proposte, attraverso le quali questo evento verrà inserito in contesti temporali diversi. Questo articolo, quindi, andrebbe inteso come una sorta di antologia dalla quale un insegnante può prelevare l’attività che pensa più utile alla sua classe. A questa antologia ne seguirà una seconda, in un prossimo intervento su HL, dedicata a un tipo di laboratorio diverso (e forse più consueto fra gli insegnanti esperti), cioè il laboratorio con i documenti. Si tratta di progetti che riguardano la secondaria superiore. Per quella inferiore andranno adattati. In ogni caso, questi progetti vanno considerati dei “semilavorati”, che il docente dovrà completare, con consegne o scalette di conversazione più dettagliate, con riferimenti al manuale, eventuali altri materiali.

    Ma torniamo ai laboratori sulla contestualizzazione dell’“evento Sessantotto”. Braudel scriveva che un evento assomiglia a un vulcano dal quale si sprigionano tutti i tempi della storia. Ciò vale, in particolare, quando l’evento è talmente pesante da “dividere i tempi”. “Un evento spartiacque”, si è detto del Sessantotto. Difatti, è esattamente a metà strada fra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine della Guerra fredda. Questa espressione, usata da James Chapman, è stata ripresa da Marcello Flores e Giovanni Gozzini nel loro 1968. Un anno spartiacque (Il Mulino 2018, d’ora in poi FG: qui è possibile leggerlo), uno studio dal quale ricavo i materiali per questi laboratori.

    Da questo punto di vista, questo lavoro vorrebbe (anche) suggerire agli insegnanti un metodo di lettura dei testi storici forse diverso dal solito. Un insegnante legge un libro di storia con la segreta speranza di poterlo raccontare in classe, magari trovare qualche spunto oppure, nell’insegnamento superiore, per inserirlo in un contesto critico. Si potrebbe, secondo me, aggiungere a queste modalità di lettura senz’altro meritorie, quelle del “libro-palestra-per-pensare”. Un buon libro di storia, per me, è esattamente come una palestra, all’interno della quale si trovano macchine per fare esercizi di tipo diverso. Quindi lo leggo non solo per trovare fatti o problemi da poter raccontare; ma anche per trovare meccanismi da smontare e rimontare, con i quali giocare e inventare esercizi: cose che, fuori di metafora, non sono altro che idee, ragionamenti e storie.

    B. IL LABORATORIO DELLA COMPLESSITÀ

    b1.Un modello complesso

    Chapman utilizzava il termine watershed/spartiacque discutendo il “libro più innovativo sul Sessantotto”: 1968. The World Transformed (a cura di Carole Fink, Philipp Gassert e Detlef Junker, N.Y., Cambridge University Press, 1998). Lo utilizzo per costruire una parte del modello per lo studio di quel periodo.

    Nella loro Introduzione (pp. 1-30), Fink, Gassert e Junker espongono gli elementi fondamentali di un modello basato sul fatto che le rivolte del Sessantotto furono mondiali. Quindi inseriscono i movimenti giovanili in un quadro contrassegnato da una doppia crisi planetaria, politica ed economica.

    Modello per lo studio del Sessantotto

    La prima – la crisi politica - si era manifestata in due eventi: l’offensiva del Tet (gennaio-marzo 1968), scatenata dalle truppe nord vietnamite e dai viet-cong contro gli Usa, nella quale questi ultimi, pur vincendo militarmente, avevano capito che avrebbero perso una guerra, per la prima volta nel corso del XX secolo. A questo smacco occidentale faceva da contraltare, nel mondo comunista, la Primavera di Praga (gennaio-agosto 1968) che, in modo analogo, opponeva alla vittoria militare dell’Urss la sua evidente sconfitta sul piano del consenso fra i cittadini del Patto di Varsavia. La seconda - la crisi economica - era iniziata dopo la Guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967), che aveva messo in dubbio la facilità con la quale, fino ad allora, l’Occidente si era approvvigionato di petrolio, e si era ingigantita a causa della crisi economica americana, che allora fu giudicata “la peggiore dalla Grande Depressione”.

    Queste due crisi indebolirono strutturalmente il blocco Est/Ovest, in particolare – per ciò che riguarda questo lavoro - dal punto di vista della capacità degli Usa e dell’Urss di esercitare il controllo sulle popolazioni, e dunque sui manifestanti. Questa debolezza si manifestò su due livelli. Quello ideologico, dell’attrattività dei sistemi capitalisti e comunisti quali modelli di vita; e quello del controllo sociale, che, di fatto, consentì una relativa tolleranza nei confronti di manifestazioni, che in tempi precedenti si sarebbero ostacolate con più efficacia. Mettendo insieme a questi elementi le questioni relative ai giovani (viste nella prima parte di questo lavoro, già pubblicata su HL), otteniamo questo modello per lo studio del Sessantotto. Si compone di due parti. Quella “soggettiva”, riguardante gli studenti (con i caratteri in blu), e quella “oggettiva”, riguardante la situazione mondiale (caratteri in nero).

    b2. Come si lavora con un modello

    a. Chiamerei la prima attività “Mettere le parole”. Uno schema (o come ormai è d’uso nelle scuole, una “mappa concettuale”) viene solitamente impiegato alla fine di un percorso di studi, come sintesi. Resta lì, quasi la foto degli apprendimenti realizzati. In realtà, se noi chiediamo agli allievi di verbalizzare lo schema, ne troveremo non pochi in difficoltà. Per prevenirla, suggerirei di far leggere loro questi brevi brani, tratti dal libro di Flores e Gozzini, per cercare in quali caselle dello schema andrebbero inseriti, e per spiegare come un certo elemento dello schema influisce sugli altri (quindi, riempiendo gli spazi con i punti interrogativi).

    I mass media sono il primo fattore del modello, il secondo è la fase nuova che gli eventi del 1968 aprono nella guerra fredda, il terzo è la “rete informale di comunicazione e collaborazione” che lega fra loro gli attivisti di ogni parte del mondo e infine la quarta è il collante ideologico che tiene insieme questi ultimi. Perché i protagonisti credevano in una causa comune. Lottarono in opposizione allo status quo interno e internazionale a Est e Ovest, a Nord e a Sud, in appoggio alla libertà, alla giustizia e alla autoderminazione (FG, p. 33).

    Il tempo della guerra fredda è un tempo “artificialmente” globalizzato dalle necessità di controllo delle due superpotenze. Questa storicamente inedita forma della politica internazionale stabilisce il quadro di riferimento unitario entro cui gli studenti si muovono. E li predispone di fatto al contagio, all’imitazione, alla risonanza, in qualsiasi continente si trovino (Ibidem).

    La simultaneità globale del Sessantotto si spiega con fattori soggettivi (accesso di massa alle università) ma anche con fattori oggettivi (il prepotente potere di Usa e Urss insieme ai segni della loro crisi in Vietnam e Cecoslovacchia) (Ibidem).

    I media rappresentano una condizione indispensabile per la trasformazione delle agitazioni locali. Senza di loro, queste non avrebbero risonanza e il loro esempio non potrebbe diffondersi. Di più: i media, trasmettendo motivi e forme delle agitazioni, contribuiscono a dare nuovi significati ai contesti e a trasformare le identità personali e collettive (FG, p. 17).

    b. Chiamerei una seconda attività “Arricchire il modello”. Questo modello non spiega tutto, come – del resto - qualsiasi modello scientifico. Il suo scopo è quello di mettere a fuoco un elemento fondamentale del Sessantotto: il fatto che fu una rivolta globale e simultanea. Bene: all’inizio della prima parte di questo articolo (qui su HL), si riportano i temi della rivolta, quali furono propagandati nei manifesti dei giovani parigini:

    • La lotta contro l’autorità
    • Per una informazione alternativa e contro la censura
    • A sostegno della classe operaia
    • Contro il conformismo

    Possiamo integrarli nel modello? Quali caselle, quali connessioni nuove dobbiamo immaginare? Il modello mette in relazione gli aspetti soggettivi della rivolta (in blu) con quelli oggettivi (in nero). Possiamo fare in modo che questo modello rappresenti e spieghi meglio gli aspetti soggettivi? Oppure il modello deve essere radicalmente cambiato, e ne dobbiamo immaginare uno nuovo?

    Per quanto riguarda gli aspetti soggettivi, non si può non ricordare che tra i portati fondamentali del Sessantotto vi sono la rivoluzione sessuale e la nascita del femminismo attuale (se ne parlerà in seguito). Flores e Gozzini ne danno ampie notizie (pp. 36-40). Quali modifiche ci suggerisce, quindi, la storia di genere?

    c. Una terza attività potrebbe essere “Mettere le date”. Un modello astrae dai fatti tendenze e problemi. Per questo, normalmente, non ha delle date. Ma possiamo introdurle. La crisi politica, per esempio, si riferisce alla guerra del Vietnam e alla Primavera di Praga (e a tanti altri eventi). Chiediamo agli allievi di cercarli sul manuale e di inserirli nello schema usando gli opportuni grafismi.

    Questa ricerca porta a interrogarci sull’insieme dei fatti che sono collegabili al nostro modello (quando scoppia la Guerra del Vietnam e per quali motivi? quando i media diventano globali? Quando e perché si forma una Boom Generation? Per quali motivi scoppia la crisi economica del 1968? C’entra in questa Bretton Wood? E così via). Alla fine, avrete bisogno di un poster abbastanza grande e complicato, nel quale potrete sintetizzare buona parte della storia dopo il ’45.

    d. Regionalizzare il modello. Il Sessantotto, per quanto globale e simultaneo, fu diverso nei singoli paesi. Questo suggerisce altre modifiche al modello, in modo da rappresentare:

    • La situazione italiana e francese nella quale avvenne una saldatura fra movimento studentesco e movimento operaio. Per quali motivi questa si verificò? E in che modo la possiamo integrare nel modello? (per questo punto e il successivo possono bastare le notizie riportate in un buon manuale).
    • La situazione dell’Europa Orientale. Qui, l’obiettivo principale dei giovani è quello della critica al modello comunista e la liberazione dal dominio dell’Urss.
    • La situazione Medio-orientale. La medesima rivolta prende quattro direzioni diverse. In Egitto è, da una parte, al Nakba (la Catastrofe): il desiderio di rivincita dopo la sconfitta nella Guerra dei Sei giorni, un movimento laico, socialisteggiante e modernizzante; dall’altra è la diffusione dei Fratelli Musulmani, uno dei primi movimenti fondamentalisti musulmani. In Palestina è Karameh (Dignità), dal nome di un paesino i cui abitanti risposero con le armi all’invasione israeliana. Da questo movimento nasce Al Fatah, il gruppo del quale Yasser Arafat divenne leader. In Israele fu un movimento di sostegno alla guerra dei Sei giorni, da parte di tanti giovani che si riconoscevano in Moshe Dayan, ministro della difesa (per informazioni più particolareggiate su questo punto: FG, pp. 91-98).

    e. Valutare l’evento. “Spartiacque” è un termine metaforico. Indica che quell’evento fa in modo che il tempo successivo sia diverso da quello precedente. Ma quanto sono profondi questi cambiamenti? Autorizzano, per esempio, a pensare che ci fu una rivoluzione? Occorre fare attenzione quando usiamo questo concetto, dal momento che è cambiato parecchio dai tempi di Robespierre e di Marx. Secondo Jack Goldstone, ci stiamo avviando verso una “quarta generazione di teorie rivoluzionarie”, nella quale gli studiosi preferiscono una definizione molto più estesa di quella ottocentesca. Possiamo discutere in classe, perciò, se il “Sessantotto” (i cui protagonisti agli occhi dei classici probabilmente non avrebbero passato l’esame del buon rivoluzionario) vi sia compreso, e cioè se sia un complesso di movimenti nel quale troviamo:

    • Delle spinte a cambiare il regime politico, basate su visioni antagonistiche di un ordine giusto.
    • Un notevole livello di mobilitazione di massa, formale o informale.
    • Delle spinte a forzare il cambiamento attraverso azioni non istituzionalizzate, come dimostrazioni di massa, proteste, scioperi o violenze.

    (FG, p. 35. Dall’originale J.A. Goldstone, Toward a Fourth Generation of Revolutionary theory, in «Annual Review of Political Science», 2001, p. 141 ss. si ricaveranno altri argomenti per una discussione epistemologico-storiografica).

    f. Raccontare l’evento. Questa non è un’attività separata, ma va considerata una conclusione, direi obbligata, di ciascuna delle attività descritte sopra (le quali, lo ricordo ancora, sono a scelta del docente). Il racconto, infatti, è lo strumento principale della memorizzazione. Serve per “racchiudere” il percorso svolto in un testo che abbia un senso e che, in un certo modo, ti puoi portare via. Occorre, quindi, trasformare la mappa dei concetti, che rappresenta in sincrono la complessità di un evento, in una sequenza nella quale i vari elementi dello schema siano disposti uno dopo l’altro. Possiamo seguire una strategia cronologica o una logica. Nel primo caso, estraiamo dallo schema i fatti, li datiamo (se il caso, approssimativamente) e poi li disponiamo su un cronogramma, che funzionerà da scaletta per il testo. Nel secondo, assegniamo un numero ad ogni elemento dello schema, partendo dal punto che giudichiamo più adatto, e costruiamo il racconto basandoci sulla sequenza numerica.

    C. IL LABORATORIO DEL TEMPO

    c1. Anche il tempo storico è complesso

    La critica che si oppone a questo genere di modelli è che non curano un aspetto particolarmente caro agli storici: il tempo. In effetti, occorrerebbe mettere in moto la complessità rappresentata, osservare come si è formata, quali erano gli antecedenti e quali gli sviluppi successivi. Anche in questo caso, Braudel aveva ragione, quando ci ha spiegato che una “società nel tempo” è, in realtà, un insieme di parti che mutano e, man mano, interagiscono fra di loro. Un intrico mobile che mette in seria difficoltà le nostre capacità di comprensione. Come sempre in didattica (ma non solo), dobbiamo semplificare. Prendiamo il modello base di analisi di un evento e applichiamolo al Sessantotto.

    Modello generale di un evento

    Ogni evento è frutto di un complesso di antecedenti che assumono una certa configurazione nel tempo x nel quale si verifica. Per rappresentare questo processo, collochiamo lungo l’asse temporale alcuni aspetti sui quali il Sessantotto incide in maniera molto evidente. Scelgo, sempre dal lavoro di Flores e Gozzini, tre aspetti:

    • la questione del terrorismo
    • la questione femminile
    • il problema dei diritti umani

    Sull’asse verticale, invece, segniamo quegli aspetti “spaziali” che riguardano lo scenario mondiale alla fine degli anni ’60: la globalizzazione, i mass media, la decolonizzazione e l’indebolimento dei blocchi, perché caratterizzano il Sessantotto come momento globale e simultaneo di rivolte giovanili. L’ideale sarebbe studiare come i fattori temporali coevolvono e, a un certo momento, reagiscono con quelli spaziali. La semplificazione didattica ci consiglia di prendere un fattore per volta, e vedere che rapporto ha con il Sessantotto. La scoperta finale sarà che, ogni volta che cambiamo i fattori, cambieranno anche tempi e periodizzazione.

    c2. Il tempo del terrorismo

    Siamo abituati ad una periodizzazione del terrorismo riferita allo spazio nazionale, accostato semmai a quello tedesco. In questo spazio ristretto, il Sessantotto diventa il punto di origine di una sequenza mortifera che ha insanguinato la nazione e che aveva come un unico precedente, non sempre ricordato, gli attentati separatisti dell’Alto Adige. Se allarghiamo lo sguardo, invece, vediamo che il terrorismo non è affatto una realtà originale italiana, ma ha una lunga storia internazionale alla quale il fenomeno italiano si collega. Ecco il cronogramma.

    Cronogramma del terrorismo

    Questa cronologia allontana il rischio di far coincidere l’immagine del Sessantotto italiano con quella del terrorismo e, per estensione, ci salvaguarda dallo stereotipo di un’altra “specificità italiana”, quegli “anni di piombo” che oscurano la più profonda stagione di riforme che la Repubblica abbia conosciuto. Ecco, dunque, i quattro cicli di terrorismo, quali li riconosciamo nell’età contemporanea, con le parole di Flores e Gozzini.

    Il primo ciclo è quello “anarchico” che, soprattutto nell’Europa dell’Ottocento e del primo Novecento prende a bersaglio uomini rappresentanti delle istituzioni e raggiunge il proprio acme nel 1914 a Sarajevo.

    Il secondo è quello “anticoloniale” che va dall’insurrezione irlandese del 1916 fino alla “battaglia di Algeri” del 1962.

    Il terzo è quello “della nuova sinistra” che negli anni Sessanta si collega alla guerriglia in Vietnam e in America Latina per diffondersi in Europa occidentale, America, Medio Oriente e Giappone.

    Il quarto è quello “religioso” che si apre con la rivoluzione iraniana del 1979, colpisce in Afghanistan, Medio Oriente, India, Algeria, Stati Uniti e Giappone negli anni Novanta per poi estendersi su scala globale negli anni Duemila (FG, p. 231)

    c3. Come si lavora con un cronogramma

    Succede che i cronogrammi patiscano la stessa sventura didattica delle mappe concettuali. Si fanno alla fine, come sintesi di ciò che si è studiato. Invece andrebbero considerati strutture mobili, che crescono e si modificano man mano che si studia. Nei cronogrammi che qui presento ci sono alcuni eventi. Nel manuale, come in altri testi, ce ne saranno altri che vi possono trovare posto. Nei rettangoli sotto la cronologia ho posto i “nomi” delle periodizzazioni. Non li farei vedere agli allievi, ma porrei il problema. Posto che il Sessantotto è un evento spartiacque, come chiamare il periodo precedente e come quello successivo? “Dare nome al tempo”, cioè “periodizzare”, è una delle operazioni più interessanti che la storia ci permette. Lanciamo la sfida. Chi trova il nome più adatto. Poi, discutiamo i nomi proposti: si vedrà che ognuno di questi implica una certa lettura del periodo.

    Confrontiamo i cronogrammi. Quello che abbiamo prodotto nel laboratorio con gli altri riportati sotto, anche se non sono stati studiati. Mettiamolo a confronto, anche, con la timeline di storia generale, eventualmente presentata dal manuale. Quali relazioni intravvediamo? Riusciamo a spiegarle?

    Infine, utilizziamo il cronogramma come base per un racconto. Mettiamo in evidenza gli eventi più importanti, quelli che andranno sottolineati. Teniamo presente che il testo deve anche far risaltare il ruolo del Sessantotto. Poi raccontiamo. Basta un testo breve, purché contenga i riferimenti precisi al cronogramma. La sintassi ci rivelerà il grado di maturazione degli allievi: chi troverà connessioni complesse e cercherà di spiegarle; chi, invece, non saprà andare oltre il “e poi”.

    c4. Il tempo delle donne

    Anche la storia contemporanea delle donne è divisa in quattro periodi. Ma qui il Sessantotto gioca un ruolo chiaramente fondamentale. Costituisce, infatti, il momento di passaggio fra la fase “evolutiva” e quella “rivoluzionaria” di questa storia. È Claudia Goldin che ha elaborato questa cronologia, nella quale la prima fase, che inizia alla fine del XIX secolo, vede giovani donne impegnate in lavori generalmente di bassa qualità, che devono però abbandonare una volta sposate. La Prima guerra mondiale genera la spinta verso la seconda fase, che inizia intorno agli anni venti, nella quale il lavoro diventa più facile per le donne. Quelle che hanno studiato possono accedere anche a posti di lavoro intellettuale, ma per tutte il momento del matrimonio coincide con il ritiro dalla vita produttiva. La Seconda guerra mondiale favorisce l’avvento di una terza fase, “di transizione”, con le donne che possono studiare, ritardare l’età del matrimonio, accedere a lavori più interessanti mentre comincia a perdere di forza il vincolo della gravidanza: molte, infatti, possono continuare a lavorare anche dopo il matrimonio.

    Cronogramma della storia delle donne

    Claudia Goldin definisce “evolutive” queste tre fasi perché – per quanto si noti un lento e continuo miglioramento - non comportano cambiamenti fondamentali nell’orizzonte di vita delle donne, nel loro senso di identità e nella capacità di controllare il proprio destino. Ma, giusto alla fine di questa terza fase, troviamo un momento che Goldin definisce di “rivoluzione rumorosa”. Esso è legato alle battaglie per i diritti civili, all’uso della pillola, alla rivoluzione sessuale. È, finalmente, il Sessantotto. Questo, in modo analogo alle guerre mondiali, introduce la fase attuale della storia delle donne, quella della “rivoluzione silenziosa”, nella quale masse di donne, pacificamente, si diffondono nella società, occupandone posti che, nei tempi precedenti, erano stati loro interdetti (FG, pp. 40-41; Claudia Goldin, The Quiet Revolution that transformed Women’s employment, Education and Family, 2006).

    c5. Il tempo dei diritti

    Quando il 10 dicembre del 1948 fu proclamata la Dichiarazione Universale dei Diritti umani, questa, “più che l’annuncio della nuova era, fu una corona funebre posta sulla tomba della guerra”. Con questa battuta pessimistica inizia L’ultima utopia, il libro che Samuel Moyn ha dedicato alla storia dei diritti umani (The Last Utopia, The Belknap Press of Harvard University Press Cambridge, Massachusetts and London, England 2010). Tuttavia, a quasi settant’anni di distanza, non possiamo negare che nel mondo è diffusa la convinzione che “agli esseri umani spetti di godere dei diritti umani” (FG 142). A dispetto dello scetticismo di Moyn, dunque, questa “utopia” ha avuto successo: in particolare dopo il 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, che inaugurò una stagione nella quale molti sperarono che, finalmente, non ci sarebbero stati più ostacoli nell’applicazione di quella Dichiarazione. Oggi i diritti umani si sono imposti come cultura universale, soprattutto nel confronto con le nuove guerre e i genocidi (FG, p. 120 s).

    Qui ci chiediamo se il Sessantotto abbia giocato un ruolo in questa vicenda e se sia stato un ruolo di “spartiacque”. E’ una questione controversa. Ma proprio questa difficoltà può dar luogo a un interessante laboratorio di discussione (l’argomento è spiegato dettagliatamente in un lungo capitolo di FG, pp. 127-145).

    Alcuni studiosi, come Moyn, sostengono che il Sessantotto non ha inciso nella storia dei diritti umani. Di parere diverso altri, come Flores e Gozzini. Al centro della contesa c’è la questione della decolonizzazione. Infatti, i nuovi stati indipendenti si erano distinti – in particolare negli anni ’60 – nella battaglia per il riconoscimento dei diritti umani. Secondo Moyn, però, fu una battaglia viziata dall’antioccidentalismo. Per quegli stati i diritti umani non erano altro che il proprio diritto di combattere contro il colonialismo.

    L’editto di Ciro il Grande, conservato al British Museum

    La Conferenza di Teheran, tenutasi nell’aprile-maggio del 1968, è significativa. Fu inaugurata dallo Shah Reza Pahlevi (non certo un campione dell’umanità) il quale iniziò il suo discorso ricordando l’editto di Ciro il Grande del 539 a.C, suo supposto antenato, considerato spesso il primo editto di tolleranza; ma poi mise ben in chiaro che lo scopo di quella riunione era di rinsaldare i legami e le attività anti-occidentali fra i paesi del Terzo mondo (con l’Urss spettatrice interessata). Quindi, conclude Moyn, il vero decennio dei diritti umani fu quello successivo, con la Conferenza di Helsinki del 1975. E, in ogni caso, fu a Vienna, nel 1993, a venticinque anni di distanza dalla convention di Teheran, che si svolse la prima conferenza delle Nazioni Unite sui Diritti umani.

    Flores e Gozzini non sono d’accordo sul giudizio di “insincerità” espresso nei confronti dell’azione dei paesi del Terzo mondo. Si basano sul lavoro di Steven Jensen, The Making of International Human Rights: The 1960s. Decolonization, and the Reconstruction of Global Values (Cambridge, Cambridge University Press, 2016. Qui Phillipp Kandler ce ne propone una recensione critica esauriente). Secondo Jensen, sono proprio i paesi decolonizzati che spingono per l’accettazione dei Diritti umani. Questi, infatti, sono figli di culture extra-europee (orientali o africane) che preferiscono al guadagno e alla sopraffazione i valori della vita comunitaria, dell’equilibrio e della pace. Ne consegue, prosegue Jensen, che il Sessantotto – nato in un ambiente universitario occidentale - non ebbe nulla a che vedere con i Diritti umani, argomento che non era nella cima dei pensieri dei giovani in rivolta.

    Ma su questo punto il disaccordo con Flores e Gozzini è totale. Ricordano che gli anni ’60 hanno visto il fiorire di manifestazioni contro il razzismo, il machismo, a favore dell’ambiente e per i diritti umani economici. Lo stesso antiautoritarismo, una delle costanti del movimento studentesco, fu un motore nella lotta a favore dei diritti umani, dal momento che i principali conculcatori di questi diritti erano proprio gli stati. E proprio il 1968 fu proclamato dalle Nazioni Unite il primo “Anno internazionale dei diritti umani” (Marcello Flores è autore di opere fondamentali su questo argomento. Qui ne possiamo ascoltare una sintesi.

    Cronogramma dei diritti umani

    c6. Costruire timeline

    Ci sono ancora cinque argomenti, nel nostro libro-palestra: l’Islam, la finanza, il lavoro, il digitale, la cultura. Di ciascuno di questi si può tracciare un cronogramma e interrogarsi sul ruolo del Sessantotto: se fu marginale o “spartiacque”. Si tratta di leggere selettivamente il testo. Sottolineare le date. Cercare quelle parti dove si parla di periodizzazione e, infine, elaborare una timeline. Qui ho usato un programma elementare (Frisechrono). Ma ce ne sono molti che permettono soluzioni più ricche e spettacolari. In ogni caso, sarebbe un buon esercizio di lettura/palestra per gli insegnanti. Se, poi, si riesce a elaborare una timeline che, in linea di principio, sia facilmente riproducibile da un allievo, allora la si proponga loro come esercitazione. Nel caso di una classe estremamente competente, poi, si assegneranno i capitoli a gruppi diversi con il compito di costruire una timeline e spiegarla ai colleghi.

    D. SUGGERIMENTI PER IL LAVORO

    d1. Il ruolo della lezione

    Nel loro insieme queste proposte disegnano un quadro abbastanza completo della vicenda storica. Prese singolarmente ne forniranno solo un pezzettino: ma questo è il destino obbligato per qualsiasi laboratorio che contempli un minimo di attività autonoma da parte degli allievi. Tutto ciò vuol dire che il compito di fornire un quadro generale e complessivo spetta al docente, attraverso la sua lezione. Questo fino a che i discenti non saranno in grado di costruire con una certa autonomia una visione generale di un determinato problema. Giunti a questo livello potrebbero intavolare con i loro professori un dialogo formativo: ma si tratterà di un momento di lavoro scolastico sofisticato, da escludere, a mio modo di vedere, nel segmento di scolarità al quale è diretto questo insieme di laboratori.

    In questo lavoro prevedo due tipi di lezione. La lezione introduttiva, molto breve (non si dovrebbe andare oltre i 15 minuti). Questa dà agli allievi qualche notizia del campo nel quale si lavorerà e cerca di motivarli. Per prepararla, il docente potrà usare come scaletta il modello di Sessantotto che qui ho presentato, mentre dalla prima parte dell’articolo ricaverà spunti narrativi e immagini.

    Il secondo tipo di lezione è quella conclusiva, al termine dell’attività laboratoriale. Più lunga, intorno ai trenta minuti, darà al docente la possibilità di fornire un quadro completo della vicenda, mostrando come i diversi elementi studiati si interrelano fra di loro, tenendo conto, al tempo stesso, dei problemi e degli interessi e delle difficoltà emerse nel corso del lavoro.

    d2. Un modello di unità di lavoro

    L’unità di lavoro, quindi, inizia con la messa a punto del quadro generale, fatta nella lezione introduttiva. A questo punto, il docente prende la prima decisione: lavorare sulla complessità o sul tempo? Sceglie il laboratorio che gli sembra più adatto. Per questo motivo ho disposto i laboratori in una scala latamente progressiva. Per esempio, l’attività sul terrorismo è più agevole di quella sui diritti umani, che richiede letture, comprensione di testi e capacità di discutere, mentre l’ultima attività libera è decisamente riservata a classi competenti.

    I lavori, tutti, prevedono sempre un ricorso ai testi. Infatti, i modelli e le cronologie sono degli strumenti per interrogare i testi, per leggerli selettivamente e cercare le notizie che di volta in volta sono necessarie. Qui ho riportato dei brani molto brevi: saranno sufficienti per un lavoro rapido. Per un lavoro più lungo e intenso, si daranno agli allievi le parti indicate del libro. Laddove possibile (come a volte ho indicato) si faccia ricorso al manuale.

    Terminata la fase della ricerca e del completamento del modello o del cronogramma, si passa alla fase della narrazione. Qui ho descritto brevemente come ricavare un racconto da uno schema (sopra, il punto f). Per il cronogramma è più facile. Basta seguire la linea del tempo, come abbiamo già visto. Per renderla più complicata (e in connessione con l’insegnamento della lingua), si proporranno delle varianti: fai una narrazione a ritroso, partendo dall’oggi; fai una narrazione ad anello, centrata sul Sessantotto. Questa parte del modulo potrà essere svolta a casa, individualmente (anche nel caso del lavoro di gruppo).

    Infatti, posto che questo lavoro si svolge in classe con le modalità di una lezione partecipata, si suggerisce anche la formula del lavoro a gruppi, soprattutto se si dispone di una classe competente. Per quanto riguarda il lavoro sulla complessità, l’insegnante mostra come si lavora su uno schema. Sviluppa questo esempio sul caso più difficile, lasciando agli allievi i casi più facili. Di seguito, assegna ad ogni gruppo uno schema. Per quanto riguarda il lavoro sul tempo, invece, dal momento che gli esempi che ho presentato sono tre, ne adopera uno per mostrare agli allievi “come si fa”, poi divide la classe in due (o quattro) gruppi, assegnando a questi i due cronogrammi rimanenti. Si è già detto che, nel caso di una classe molto competente, si assegnerà il lavoro “libero” sui capitoli del testo che qui non sono stati trattati.

    Il modulo di lavoro termina con la lezione frontale del docente, nel quale questi, tenendo conto dei lavori dei ragazzi, del livello di comprensione che questi hanno rivelato e dei problemi emersi, espone agli allievi la sua ricostruzione del periodo.

    Qui sopra il diagramma operativo. Suggerisco di progettare un modulo di due ore. Nella prima si apre con la lezione introduttiva e si lavora con lo schema (o con la cronologia). Si assegna il compito da svolgere a casa. Nella seconda, si continua a lavorare o si discute e, nell’ultima mezz’ora, si eroga la lezione conclusiva.

     


     

    * La prima parte “L’evento e la memoria” è stata già pubblicata su HL. La terza parte e la postilla conclusiva verranno pubblicate a breve.

  • Il valore del cibo nel Medioevo

    Autori: Marina Rosset e Alessandro Contino

    SOMMARIO

    UdL “Il valore del cibo nel Medioevo”

    Inquadramento del tema

    Metodologia didattica

    Declinazione dei contenuti, sviluppo e valutazione

    VERIFICA PER COMPETENZE

    RI-CONTESTUALIZZAZIONE

    DIAGRAMMA DELLE LEZIONI

    ALLEGATI

    BIBLIOGRAFIA

    APPENDICE INTERDISCIPLINARE

    Inquadramento del tema
    Alla base di questo progetto sta la volontà di allargare il percorso disciplinare di Storia di una classe prima di una SSPG a una storia sociale aperta e interdisciplinare, come prescritto dalle Indicazioni Nazionali. Si trattano perciò elementi di Storia dell’alimentazione in chiave culturale. Per cultura alimentare si intende un insieme di aspetti che fanno del cibo un elemento che caratterizza “la vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un gruppo etnico”1 .

    Lo spazio di riferimento è l’Europa, anche se in alcuni momenti le coordinate saranno allargate ad altre zone del bacino del Mediterraneo e al mondo arabo. I passaggi che verranno riletti sono: la nascita dei regni romano barbarici, la diffusione del monachesimo in Europa e la nascita dell’Islam, lo sviluppo comunale e il radicarsi della signoria territoriale. Questi temi sono riletti metaforicamente come: il cibo è incontro tra culture, il cibo è un precetto della religione, il cibo come ricchezza e povertà e il cibo come sogno.

    La prima fase rilegge l’incontro tra romani e barbari e sviluppa la caratteristica conviviale ed etnica della cucina che mette a contatto e amalgama popoli che vivono lo stesso territorio. Questo tipo di argomentazione porta a una riflessione sull’attualità e l’intercultura. Con i focus di Italiano, Geografia e Scienze si passa poi a una riflessione sui semi come metafora del rispetto della diversità e di tolleranza. Nella seconda fase, si trattano aspetti alimentari legati alle tre religioni monoteiste, partendo dalla diffusione del monachesimo e dalla nascita dell’Islam. In questa fase gli studenti di religione musulmana sono chiamati a un ruolo da protagonisti, diventando mediatori culturali. La terza fase si occupa di alcuni stereotipi: il contadino, il signore, il cittadino. Legata alla trattazione della società medievale, essa intende, attraverso l’analisi di testi storiografici e fonti, portare gli studenti a identificare le abitudini alimentari e quindi a fare inferenze sulle caratteristiche vere o presunte dei personaggi che abitano il basso Medioevo. Si riflette poi nella quarta fase sui giudizi che le fonti mediano, aprendo la discussione su stereotipi e pregiudizi sia nella storia che nella quotidianità, tema del focus di educazione alla cittadinanza. Nella quinta fase l’epoca del radicamento della signoria territoriale, con il rafforzamento del potere personale dei signori a scapito del contado spesso privato dei terreni comuni, viene riletta nella chiave dell’immaginario collettivo che porta al paese di Cuccagna. Si apre qui la discussione sulla fame, come argomento interdisciplinare.

    Metodologia didattica
    L’UdL punta soprattutto sulla didattica del fare, culminante col laboratorio storico sul modello proposto da Antonio Brusa. L’avvio è affidato a un lavoro in apprendimento di gruppi cooperativi  secondo l’approccio del group investigation2, che parte dalla domanda a cui le successive fasi dell’Unità daranno una risposta dal punto di vista storico-culturale. Ci sono anche altri lavori in gruppo, cooperativi e non, lezioni dialogate, dibattiti. Si punta inoltre sull’uso delle tecnologie per coinvolgere gli alunni che manifestano difficoltà di attenzione e/o di apprendimento e per stimolare un lavoro casalingo e un dialogo a distanza tra compagni e con l’insegnante. In particolare si fa uso della piattaforma virtuale dove sono anche somministrati i questionari di autovalutazione e viene gestita parte della metacognizione.

    Declinazione dei contenuti, sviluppo e valutazione
    Fase  1 (2 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Cos’è il cibo per l’uomo?

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTI:
    La domanda principale, gli ambiti per i gruppi (cibo come amicizia, cibo come religione, cibo come ricchezza e povertà, cibo come sogno), le linee guida con cui poter spiegare l’immagine, il supporto informatico (tablet o pc).

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI:
    Trovare un’immagine, darne la spiegazione scritta in base all’ambito assegnato, esporre alla classe, auto-valutare il proprio contributo.

    DESCRIZIONE DELL’ATTIVITA’:
    Gli alunni sono divisi in quattro gruppi da cinque alunni con ruoli diversi, hanno a disposizione due tablet (o pc) con i quali navigare in rete e trovare delle immagini relative agli ambiti. Scelgono un’immagine e costruiscono una spiegazione dell’immagine relativa che esporranno alla classe nella lezione successiva.

    SETTING DELL’AULA: isole di banchi

    VALUTAZIONE: l’insegnante valuta i gruppi e il prodotto dell’esposizione. Gli alunni si auto-valutano sulla piattaforma (vedi allegati).


    ALLEGATI: vedi allegati fase 1.


    Fase 2  (2 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Il cibo è occasione di incontro tra culture.

    PRECONOSCENZE: Migrazioni barbariche e caduta dell’Impero romano.

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTI:
    Testi storiografici dal testo “La fame e l’abbondanza” sull’alimentazione romana e sulla alimentazione delle popolazioni germaniche. Tabella con spazi vuoti per gli alunni BES.

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI:
    Produrre una mappa concettuale a partire dalle fonti, cercare e trascrivere la ricetta di famiglia, esporre la ricetta ad un compagno e riportare quella del compagno ad un’altra coppia.

    DESCRIZIONE DELL’ATTIVITA’:
    Prima lezione: gli alunni sono divisi in coppie e realizzano due mappe concettuali che riassumono i contenuti dei testi (l’alimentazione dei romani, l’alimentazione dei germani). Gli alunni con BES ricostruiscono i contenuti e completano una tabella. Successivamente per dare una cornice di senso più vicina agli studenti, viene assegnato come compito a casa la ricerca della ricetta di famiglia che viene impiegata nella lezione successiva per aprire un confronto culturale all’interno della classe. Seconda lezione: Una volta tornati in classe gli alunni vengono divisi in coppie, uno studente intervista il compagno sulla “ricetta di famiglia” e poi i ruoli si invertono; si uniscono due coppie (vengono quindi formati gruppi di quattro alunni) e i contenuti delle interviste vengono riportati oralmente dallo studente che ha fatto l’intervistatore (intervista a tre passi).

    SETTING DELL’AULA: standard.

    VALUTAZIONE: l’insegnante valuta gli elaborati (mappe concettuali, ricette). Gli studenti valutano le esposizioni delle ricette dei compagni.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 2 

    Fase 3: (4 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Il cibo come precetto religioso

    PRECONOSCENZE: La diffusione del monachesimo in Europa e la nascita dell’Islam.  

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTE: lettura di brani tratti dall’Antico Testamento, da regole monastiche, da “I gusti del Medioevo” di Massimo Montanari, una tabella per il confronto delle tipologie di fonti storiche.

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI: leggere e comprendere dei testi, completare delle tabelle riassuntive.

    DESCRIZIONE DELL’ATTIVITA’. Prima lezione: l’insegnante propone una serie di lezioni sul rapporto tra cibo e religione che faccia scoprire i precetti alimentari dettati dalle principali religioni monoteiste. L’insegnante legge i testi e ricorda alla classe la differenza tra fonte primaria e fonte secondaria. L’insegnante guida gli alunni a ricavare una tabella che illustri gli usi alimentari legati alla religione ebraica e a quella cristiana del periodo storico appena affrontato.

    Seconda lezione: sono presi in esame i precetti alimentari della religione musulmana attraverso testi e interventi di alunni musulmani concordati con l’insegnante. Anche in questo caso viene realizzata insieme una tabella. Segue un confronto con quella realizzata in precedenza.

    In queste due lezioni, gli alunni BES sono invitati a intervenire e sono coinvolti nella stesura pratica della tabella alla LIM, cercano immagini che illustrino i temi affrontati. I prodotti realizzati e i materiali valutati dall’insegnante verranno condivisi attraverso la piattaforma.

    Nella terza lezione l’insegnante predispone un lavoro a coppie che parte dall’analisi di un breve brano tratto da “Il riposo della polpetta” o da “Il pentolino magico”4, da un breve testo storiografico scelto tra quelli esaminati insieme nelle lezioni precedenti e da una fonte iconografica sul tema. Gli studenti sono chiamati a leggere e a interrogare il testo divulgativo di Montanari cercando informazioni richieste dall’insegnante (esercizio di allenamento verso l’interrogazione). Le informazioni vengono poi condivise con la guida dell’insegnante, completando una tabella (allegato 7).

    Nella quarta lezione  gli studenti vengono invitati a confrontare le informazioni del testo della lezione precedente con il testo storiografico. L’insegnante si offre come guida cercando di indirizzare il lavoro alla ricerca delle informazioni che sono più attinenti all’argomento, tralasciando i contenuti estranei. Nella seconda parte della lezione le coppie vengono invitate a realizzare un elaborato di 150 parole citando le fonti.

    SETTING DELL’AULA: standard

    VALUTAZIONE: vengono valutati gli interventi nelle lezioni dialogate e il prodotto finale del lavoro di coppie. Nell’ultima lezione viene lasciato spazio per un momento di autovalutazione dialogata.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 3

    Fase 4: (4 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Il cibo è anche una questione di ricchezza o povertà

    PRECONOSCENZE: società feudale e sviluppo comunale nel tardo Medioevo

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTE: una fonte scritta di Giovanni de Mussis (XIV secolo) con la descrizione dei banchetti di nozze di Piacenza5; materiali per il lavoro jigsaw (brani tratti dal manuale di storia e dai testi di Montanari e una novella in versi di Wernher der Gartenaere); griglia per il lavoro in jigsaw.

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI: analisi guidata di una fonte. compilazione di tabelle, creazione di mappe concettuali o mentali.

    DESCRIZIONE DELLE ATTIVITA’: nella prima lezione l’insegnante descrive gli aspetti dello stereotipo del contadino che fa da collegamento tra l’elemento storico generale e quello della storia della cultura alimentare costituto dallo stereotipo del contadino. Si passa all’analisi della fonte  di de Mussis condotta secondo il metodo think-pair-share, con la mediazione dell’insegnante attraverso domande stimolo: quanti giorni dura il banchetto? quante portate ci sono? quali tipi di alimenti sono prevalenti? Si delineano le idee di sfarzo e abbondanza dell’alimentazione dei signori. A casa la riflessione continua in piattaforma con un dibattito gestito dall’insegnante e stimolato da altre fonti quali la descrizione del matrimonio tra Isabella d’Este e Annibale Bentivoglio, organizzato nel 1487 a Bologna, descritto dal cronista Ghirarducci6 .

    La seconda e la terza lezione si concentrano sullo stereotipo del contadino attraverso fonti, testi storiografici e testi divulgativi. Viene utilizzata la struttura per l’apprendimento cooperativo jigsaw: la classe viene divisa in gruppi di tre; a ciascun gruppo viene assegnato un portfolio di documenti (l’insegnante assegna a ciascun membro i testi che ritiene adeguati alle capacità); i ragazzi leggono i propri brani poi si riuniscono in gruppi che hanno la stessa fonte e la interrogano; rientrati nel gruppo base, le informazioni vengono messe a confronto; agli studenti viene richiesto poi di fare delle inferenze che portano dalla dieta del contadino al suo stile di vita e alla considerazione che ne emerge dai testi.

    Al termine del lavoro di gruppo, si svolge una discussione in classe mediata dall’insegnante per raccogliere gli elementi dello stereotipo del contadino. Segue una discussione in piattaforma.

    La quarta lezione verte sulla differenza dei consumi tra città e campagna. L’insegnante legge alcuni brani tratti da Gusti nel Medioevo, chiedendo agli alunni di compilare una tabella di comprensione. Segue la realizzazione di una mappa concettuale condivisa in cui emergano le diverse caratteristiche dell’alimentazione del contadino, del signore e del cittadino. A uno degli alunni BES viene affidato il compito di stilare l’elaborato con un programma alla LIM. Agli alunni stranieri viene chiesto di realizzare una semplice mappa mentale per ciascun stereotipo.

    SETTING DELL’AULA: isole di banchi

    VALUTAZIONE: Attraverso una griglia di osservazione, concordata con gli studenti, vengono valutati gli interventi in classe e in piattaforma e le competenze sociali e civiche messe in atto nel lavoro di gruppo.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 4.

     

    Fase 5: (4 ore)
    TITOLO: il cibo come sogno “Il paese di Cuccagna”

    PRECONOSCENZE: lavoro sulle fonti svolto nelle fasi precedenti, le principali caratteristiche della signoria territoriale.

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTE: documenti per il laboratorio

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI: svolgere le fasi del laboratorio

    DESCRIZIONE DELLE ATTIVITA’:
    La quinta fase è un laboratorio storico, come teorizzato da Antonio Brusa7. Gli studenti sono chiamati a lavorare in autonomia, mettendo in pratica le competenze acquisite. Dopo aver affrontato le caratteristiche della signoria territoriale gli alunni sono chiamati a riflettere sulle conseguenze dell’ampliamento del potere signorile sulle campagne e sulla privazione di un’importante fonte di sostentamento, ovvero i terreni comuni. La fame infatti diviene un pensiero martellante, nella testa oltre che nello stomaco, creando nell’immaginario collettivo l’utopia alimentare del paese di Cuccagna. La classe viene divisa in gruppi di quattro ai quali l’insegnante assegna i ruoli di coordinatore, segretario e responsabile del materiale, mentre gli alunni con bisogni educativi speciali vengono inseriti come elementi osservatori, muniti di griglia, e gestori del gettone di parola. Ai gruppi viene affidato un portfolio contenente:
    -    un brano tratto da païs de Coquagne8 ;
    -    un breve brano storiografico tratto da Montanari9;
    -    un brano tratto da Il pentolino magico10;
    -    un’immagine del paese di Cuccagna;
    -    un intruso.
    Il lavoro è concentrato nelle prime tre lezioni, mentre la quarta è dedicata alle esposizioni. Gli elaborati finali vengono condivisi sulla piattaforma.

    SETTING DELL’AULA: isole di banchi

    VALUTAZIONE: la valutazione del lavoro di gruppo sulle diverse competenze trasversali (sociali e civiche, consapevolezza ed espressione culturale) viene effettuata durante il processo con griglie di osservazione, tenendo conto anche di quelle elaborate dagli studenti osservatori. Viene eseguita una valutazione in itinere attraverso i prodotti delle singole fasi e i feedback nel corso dell’attività in classe. Infine è valutato il prodotto finale.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 5

    VERIFICA PER COMPETENZE
    Alla fine dell’anno è prevista una verifica sommativa che richiede agli studenti di utilizzare in un contesto nuovo le competenze acquisite. Viene fornita loro una fonte (semplice per i BES) sulla quale rifare il laboratorio storico. E’ inoltre richiesto loro di correlare gli argomenti della presente UdL con quelli del percorso curricolare spiegando la relazione e mettendoli in una linea del tempo. Per valutare le conoscenze viene richiesto di legare attraverso dei concetti chiave il percorso tradizionale con quello sull’alimentazione, realizzando un breve testo su uno degli argomenti trattati.

    RI-CONTESTUALIZZAZIONE
    In questo lavoro si è prediletto l’aspetto interculturale, data la composizione etnicamente eterogenea del gruppo classe. Volendo riproporre il lavoro si può pensare di limitare l’aspetto culturale e lavorare di più su quello storico. Si può inoltre pensare a un approccio più locale con un laboratorio di fonti inerenti al proprio territorio.

    DIAGRAMMA DELLE LEZIONI


                                                                   
    ALLEGATI
    FASE 1: Che cos’è il cibo per l’uomo?
    ALLEGATO 1

    LINEE GUIDA PER LA DESCRIZIONE DELL’IMMAGINE:

    ●    Come è rappresentato il cibo?
    ●    Che tipo di cibo c’è nell’immagine?
    ●    Ci sono altre figure (oggetti, persone, animali) oltre al cibo?
    ●    Che relazione c’è fra il cibo e queste altre figure?
    ●    Quale significato dai a questa immagine?
    ●    Inventa uno slogan da mettere sotto l’immagine.

    ALLEGATO 2

    FASE 2: Il cibo come incontro
    ALLEGATO 1
    “I romani, stando a Plinio il Vecchio, non ebbero forni pubblici per la cottura del pane prima del II secolo avanti Cristo. In precedenza consumavano soprattutto zuppe, polente, focacce. Appresero poi l’arte del lievito e della panificazione, che, sembra, gli egiziani avevano messo a punto per primi, diffondendola tra le genti del Mediterraneo orientale”. (p. 60)
    da M. Montanari, Gusti del Medioevo, p. 60

    “L’ideologia alimentare romana si costruisce attorno a una triade di prodotti, il pane, il vino e l’olio, assunti - riprendendo la tradizione greca - a vero e proprio simbolo di una certa idea di “civiltà”, legata, nel mondo greco e romano, all’agricoltura come modo di produzione tipico dell’uomo, che, separandosi dal mondo della natura e delle bestie, costruisce la propria esistenza in modo per così dire artificiale, inventando tecniche di sfruttamento dell’ambiente naturale che finiscono per trasformarlo profondamente, disegnando un paesaggio nuovo, quello dei campi, delle vigne, degli alberi coltivati, da cui l’uomo, lui solo, riesce a ricavare dei prodotti che, a loro volta, trasformati secondo tecniche esse stesse esclusive dell’uomo, gli forniscono un cibo (il pane), una bevanda (il vino) e un grasso (l’olio) che non esistono allo stato naturale e per ciò stesso simboleggiano la capacità di ritagliarsi uno spazio “civile” in mezzo alla natura selvaggia [...]. Anche la pastorizia, anche la caccia rientrano fra le attività produttive; anche la carne compare - eccome - sulle tavole romane, per non parlare del formaggio, delle uova e di altri prodotti di origine animale. La carne stenta, tuttavia, a conquistare un’immagine alta, totalmente positiva, perché legata a forme di sfruttamento del territorio ritenute più “naturali”, meno “civili” [...]. La letteratura latina restituisce immagine che assegnano soprattutto ai cibi vegetali, a quelli prodotti con il lavoro dei campi, il ruolo di identificare il proprio modello di civiltà. I popoli che vivono soprattutto di caccia e pastorizia, dando alla carne un ruolo centrale nel loro regime alimentare, sono pertanto rappresentanti come “incivili” o “barbari” [...] Procopio scrive che i lapponi “non ricavano alcun cibo dalla terra… ma si dedicano solamente alla caccia”, e Giordane parla degli scandinavi che vivono “solamente di carni”.
    da M. Montanari, Gusti del Medioevo, p. 69-70

    “Anche quelli che un tempo si chiamavano <<barbari>>, legati a tradizioni di tipo pastorale più che agricolo, e a un modello alimentare prevalentemente carnivoro, subirono il fascino del nuovo modello alimentare e contribuirono in maniera decisiva alla diffusione nel continente della ‘cultura del pane’”.
    da M. Montanari, Gusti del Medioevo, p. 62

    Testi sono tratti da M. Montanari, La fame e l’abbondanza,pp. 12-14
    ROMANI:
    “[…] i latini chiamavano ager, l’insieme dei terreno coltivati, rigorosamente distinti dal saluto, la natura vergine, non-umana, non-civile, non-produttiva. […] l’economia del bosco e della palude erano […] realtà marginali”.

    “[…] agricoltura e arboricoltura erano il perno dell’economia e della cultura dei greci e dei romani […]. Grano, vite, ulivo ne erano i punti di forza: una triade di valori produttivi e culturali che quelle civiltà avevano assunto a simbolo della propria identità. «Ogni cosa che le mie figlie toccano si trasforma in grano, o in vino puro, o in oliva»: le parole di Anio, re e sacerdote di Delo, che Ovidio rappresenta in una delle Metamorfosi, la dicono lunga sulle abitudini e sui desideri alimentari (il mito di Anio non è anche un’utopia?) di questa gente. […] Accanto ad essi svolgevano un certo ruolo l’orticoltura (soprattutto) e la pastorizia ovina […]. Su queste realtà si disegnava un sistema di alimentazione - vogliamo chiamarlo ‘mediterraneo’? - a forte caratterizzazione vegetale, basato sulle farinate e sul pane, sul vino, sull’olio, sulle verdure: il tutto integrato da un po’ di carne e soprattutto un po’ di formaggio (pecore e capre si utilizzavano prevalentemente come bestie vive, per il latte e la lana)”.

    BARBARI:
    “Le popolazioni celtiche e germaniche, da secoli avvezze a percorrere le grandi foreste del Centro e del Nord Europa, avevano sviluppato una forte predilezione per lo sfruttamento della natura vergine e degli spazi incolti. La caccia e la pesca, la raccolta dei frutti selvatici, l’allevamento brado nei boschi (soprattutto maiali, ma anche equini e bovini) erano attività centrali e caratterizzanti del loro sistema di vita. […] la carne era il valore alimentare di primo grado. Non il vino si beveva (conosciuto solo nelle zone di confine dell’impero) ma il latte di giumenta e i liquidi acidi che se ne derivavano; o il sidro, tratto dalla fermentazione dei frutti selvatici; o la birra, là dove si coltivavano cereali nelle piccole radure sottratte alla foresta. Non l’olio si usava per ungere e per cucinare […] ma il burro e il lardo”.

    PUNTI DI UNIONE:
    “[…] anche i germani consumavano cereali, pappe d’avena o focacce d’orzo (non però pane di frumento, vero simbolo dell’alimentazione mediterranea); anche i romani mangiavano carne di porco (che gli imperatori facevano distribuire al popolo della capitale, assieme al pane)”.

    ALLEGATO 2
    GRIGLIA PER L’ATTIVITA’ DEGLI ALUNNI con BES:

     

    ALLEGATO 3
    COMPITO: Ricetta di famiglia
    Gli studenti sono invitati a chiedere ai propri genitori una ricetta significativa della “tradizione famigliare” della quale dovranno elaborare una descrizione seguendo i seguenti punti:

    1.    tradizione della ricetta (da quale ramo familiare giunge)
    2.    occasione particolare in cui il piatto viene proposto
    3.    ricetta
    4.    piccolo approfondimento sugli alimenti tipici che vengono utilizzati (se ad esempio derivano dalla cultura di un paese o una regione d’origine differente da quella in cui la famiglia risiede).


    ALLEGATO 4
    IL BUON MODELLO  PER LA RICETTA DI FAMIGLIA
    La domenica andavamo a pranzo dalla mamma di mia mamma, nonna Emma. Lei e sua nuora Lillina dal venerdì sera si alternavano presso la fiammella minima che asciugava il ragù, rraù, in lingua e palato locali. Il nostro arrivo a mezzogiorno in anticamera era accolto da un alleluia di ragù diritto nel naso. Quel sugo era l’applauso di uno stadio in piedi dopo un gol, era un abbraccio, un salto e una cascata dentro le narici. Mai più potrò riavere quell’arrembaggio al vertice dei sensi, che sta per me in qualche ghiandolina dell’olfatto. A tavola, condito con la pasta grossa, mi sedevo composto, ma dentro di me stavo in ginocchio di fronte alla scodella.

    È stata la mia porzione di manna, pane dei cieli, apparecchiata da due sacerdotesse dei fornelli, dai loro riti notturni. Erano bocconi che imponevano silenzio. A me si chiudevano anche gli occhi. Le forchette nei piatti raccoglievano il frutto della conoscenza. La bocca piena gorgheggiava una laude. Non ho temperamento mistico, ma quel poco che mi è toccato in sorte l’ho assaggiato, l’ho avuto sulla lingua durante le domeniche d’infanzia. Quella mensa estiva assume nel ricordo la forma di un altare.

    Da loro due, Emma e Lillina, ho poi ricevuto notizie dettagliate per la composizione della parmigiana di melanzane, piatto preferito dell’età adulta. La preparavano facendo passare il frutto per tre fuochi. Tagliate a fette le melanzane, le mettevano al sole, la fiamma più potente, ad asciugarsi dall’acqua e addensare il sapore. Poi le friggevano, indorando di festa la cucina. Ultimo fuoco il forno, dopo averle distese a strati, ognuno ricoperto di sugo, basilico, mozzarella e una manciata di formaggio parmigiano. Tre fuochi concorrevano alla pietanza che meglio coincide per me con la parola casa.
    Senza mamma pratico l’astinenza da quel cibo, un esilio alimentare. Il lutto si sconta alla tavola invece che al cimitero.
    Tratto da De Luca, E. Il più e il meno, pp. 18-19

    ALLEGATO 5
    ESEMPIO DI RICETTA MEDIEVALE
    Polenta di fave o “macco”
    Prendi fave infrante e scelte bene e quando le avrai bollite, tolta l’acqua, lava molto bene e rimettile nello stesso vaso con poca acqua tiepida e sale, in modo che siano ben coperte dall’acqua, e gira spesso col cucchiaio; quando saranno cotte, togli dal fuoco e schiaccia fortemente con un cucchiaio, poi lascia riposare un po’ e quando scodellerai aggiungi del miele o dell’olio soffritto con cipolle, e mangia.
    Montanari, M. Gusti del Medioevo, p. 188

    ALLEGATO 6


     FASE 3: Il cibo come precetto religioso
    ALLEGATO 1
    Alimentazione ebraica
    Letture dalla Bibbia:
    Poi il Signore Iddio piantò un giardino in Eden a oriente e quivi pose l’uomo che aveva formato. Il Signore Iddio fece germogliare dal suolo ogni specie di alberi piacevoli d’aspetto e buoni a mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino, e l’albero della conoscenza del bene e del mare. […] Il Signore Iddio prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, affinché lo coltivasse e lo custodisse, e dette all’uomo quest’ordine: “Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non mangiare! Poiché il giorno in cui ne mangiassi, di certo morresti”.
    Genesi (2, 8-17)


    “Il Signore disse a Mosè e ad Aronne: “Riferite agli Israeliti: Questi sono gli animali che potrete mangiare fra tutte le bestie che sono sulla terra. Potrete mangiare d'ogni quadrupede che ha l'unghia bipartita, divisa da una fessura, e che rumina. Ma fra i ruminanti e gli animali che hanno l'unghia divisa, non mangerete i seguenti: il cammello, perché rumina, ma non ha l'unghia divisa, lo considererete immondo; l'ìrace, perché rumina, ma non ha l'unghia divisa, lo considererete immondo; la lepre, perché rumina, ma non ha l'unghia divisa, la considererete immonda; il porco, perché ha l'unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, lo considererete immondo. Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri; li considererete immondi.
    Questi sono gli animali che potrete mangiare fra tutti quelli acquatici. Potrete mangiare quanti hanno pinne e squame, sia nei mari, sia nei fiumi. Ma di tutti gli animali, che si muovono o vivono nelle acque, nei mari e nei fiumi, quanti non hanno né pinne né squame, li terrete in abominio”.Levitico (11, 1-12)

    Ecco, il Signore degli eserciti preparerà su questo monte, a tutti i popoli, un convito di carni grasse, un banchetto di vini squisiti, di carni succulente, di vini pregiati. Anzi su questo monte egli stesso strapperà il velo del volto di tutti i popoli, e la coltre che copre tutte le nazioni, e distruggerà la morte per sempre. Il Signore asciugherà le lacrime su ogni volto e toglierà l’onta del suo popolo, la farà scomparire da tutta la terra, ché il signore ha parlato. Isaia (25, 6-8)

    IMMAGINE 1

      IMMAGINE 2
      IMMAGINE 3


    ALLEGATO 2
    L’alimentazione cristiana

    “Il pane di frumento si caratterizza per tutto il Medioevo come un prodotto di lusso, ed è proprio per rifiutare questo lusso che gli eremiti scelgono di privarsene, preferendogli il pane d’orzo con un chiaro intento penitenziale. [...] il vescovo di Lamgres Gregorio, che faceva penitenza con pani d’orzo, ma, per non apparire troppo presuntuoso, li mangiava di nascosto, tenendoli sotto il pane di frumento che offriva agli altri e che fingeva di consumare con loro”.
    Montanari, Gusti del Medioevo, p. 66


    “Nella cosiddetta “Regola del Maestro” (VI secolo) si prescrive che le micae panis, che dopo ogni pasto rimangono sulla tavola, siano raccolte con attenzione e conservate in un vaso. Ogni settimana, il sabato sera, i monaci le metteranno in padella con un po’ di uova e farina e ne faranno una piccola torta da mangiare tutti insieme, rendendo grazie a Dio prima dell’ultima coppa di bevanda calda che conclude la giornata”.
    Montanari, Gusti nel Medioevo, p. 68


    “Il cibo sia parco; lo si consumi alla sera, rifuggendo la sazietà e, nel bere, l’ubriachezza: esso sostenti senza nuocere. Sia costituito da ortaggi, legumi, farina impastata con acqua, assieme a una piccola pagnotta, perché non sia aggravato il ventre né appesantita la mente. Coloro che desiderano i premi eterni devono curarsi soltanto di ciò che è veramente utile e vantaggioso; pertanto ci si deve moderare sia nelle necessità materiali che nella fatica. Questo infatti è il vero discernimento: conservare integra la possibilità del progresso spirituale macerando la carne con l’astinenza; ma se l'astinenza oltrepasserà la misura, sarà non una virtù bensì un vizio: la virtù infatti custodisce e comprende molti beni. Si deve perciò digiunare tutti i giorni, così come tutti i giorni ci si deve ristorare; e mentre ogni giorno ci si deve nutrire, si deve gratificare il corpo poveramente e parcamente; infatti si deve mangiare ogni giorno, dato che ogni giorno si deve progredire, pregare, lavorare e leggere.
    Dalla regola di San Colombano III. Il cibo e la bevanda (V)
    fonte: http://ora-et-labora.net/regolacolombano.html

    Volendo tenere il debito conto delle necessità individuali, riteniamo che per il pranzo quotidiano fissato - a seconda delle stagioni - dopo Sesta o dopo Nona, siano sufficienti due pietanze cotte, in modo che chi eventualmente non fosse in condizioni di prenderne una, possa servirsi dell'altra.

    Dunque a tutti i fratelli devono bastare due pietanze cotte e se ci sarà la possibilità di procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se ne aggiunga una terza.

    Quanto al pane penso che basti un chilo abbondante al giorno, sia quando c'è un solo pasto, che quando c'è pranzo e cena.

    In quest'ultimo caso il cellerario ne metta da parte un terzo per distribuirlo a cena.

    “Nel caso che il lavoro quotidiano sia stato più gravoso del solito, se l'abate lo riterrà opportuno, avrà piena facoltà di aggiungere un piccolo supplemento, purché si eviti assolutamente ogni abuso e il monaco si guardi dall'ingordigia.

    Perché nulla è tanto sconveniente per un cristiano, quanto gli eccessi della tavola, come dice lo stesso nostro Signore: "State attenti che il vostro cuore non sia appesantito dal troppo cibo".
    Quanto poi ai ragazzi più piccoli, non si serva loro la medesima porzione, ma una quantità minore, salvaguardando in tutto la sobrietà.
    Tutti infine si astengano assolutamente dalla carne di quadrupedi, a eccezione dei malati molto deboli. Dalla regola di San Benedetto Capitolo XXXIX - La misura del cibo

    "<<Ciascuno ha da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro>> ed è questo il motivo per cui fissiamo la quantità del vitto altrui con una certa perplessità. Tuttavia, tenendo conto della cagionevole costituzione dei più gracili, crediamo che a tutti possa bastare un quarto di vino a testa. Quanto ai fratelli che hanno ricevuto da Dio la forza di astenersene completamente, sappiano che ne riceveranno una particolare ricompensa. Se però le esigenze locali o il lavoro o la calura estiva richiedessero una maggiore quantità, sia in facoltà del superiore concederla, badando sempre a evitare la sazietà e ancor più l'ubriachezza. Per quanto si legga che il vino non è fatto per i monaci, siccome oggi non è facile convincerli di questo, mettiamoci almeno d'accordo sulla necessità di non bere fino alla sazietà, ma più moderatamente, perché <<il vino fa apostatare i saggi>>. I monaci poi che risiedono in località nelle quali è impossibile procurarsi la suddetta misura, ma se ne trova solo una quantità molto minore o addirittura nulla, benedicano Dio e non mormorino: è questo soprattutto che mi preme di raccomandare, che si guardino dalla mormorazione.”
    Dalla regola di San Benedetto, Capitolo XL - La misura del vino
    Fonte: http://ora-et-labora.net/RSB_it.html#Cap39


     ALLEGATO 3
    Alimentazione islamica:
    “[...] da quanto, fra VII e VIII secolo, l’islam si impose sul versante meridionale del Mediterraneo, questo si trasformò da un grande lago comune - quale era in epoca romana - a un mare di confine. Ecco dunque fronteggiarsi, e magari incontrarsi, ma sempre per sponde opposte, due mondi diversi, due diverse civiltà, religioni, culture. Ed evidentemente il mondo, la civiltà del pane era quella della sponda settentrionale - o almeno, così si rappresentava: c’è una grande tensione ideologica tra gli scrittori cristiani che durante il periodo delle crociate rivendicavano il pane come segno della propria identità e qualificavano come “focacce mal cotte” il pane degli arabi, che a stento meritava quel nome”.
    Montanari, M.Gusti nel Medioevo, p. 62.

    “Vi son dunque proibiti gli animali morti, il sangue, la carne del porco, gli animali che sono stati macellati senza l’invocazione del nome di Dio, e quelli soffocati e uccisi a bastonate, o scapicollati o ammazzati a cornate e quelli in parte divorati dalle fiere, a meno che voi non li abbiate finiti sgozzandoli, e quelli sacrificati sugli altari idolatrici; e v’è anche proibito di distribuirvi fra voi a sorte gli oggetti: questo è un’empietà. Guai, oggi, a coloro che hanno apostatato dalla vostra religione: voi non temeteli, ma temete me! Oggi v’ho reso perfetta la vostra religione e ho compiuto su di voi i miei favori, e M’è piaciuto di darvi per religione l’Islam. Quanto poi a chi vi è costretto per fame o senza volontaria inclinazione al peccato, ebbene Dio è misericorde e pietoso.”
    Dal Corano (Sura della Mensa: V, 3)

    ALLEGATO 4
    Il pane: esempio di paragone tra cultura alimentare ebraica e cristiana.
    “Sicuramente la [l’arte del lievito e della panificazione] la conobbero gli ebrei, che tuttavia mantennero nei confronti del pane un atteggiamento ambiguo: da un lato esso rappresentava una fondamentale risorsa dell’alimentazione quotidiana; dall’altro era incluso - in quanto cibo fermentato, cioè “corrotto” rispetto alla purezza originaria della materia prima - fra i prodotti che non potevano godere dello statuto ideologico alto, sacrale. Il cristianesimo, invece, fece del pane - assieme al vino, altro prodotto fermentato - l’alimento sacro per eccellenza, lo strumento di comunione eucaristica con la divinità. Fu una scelta che consapevolmente significò la rottura con la tradizione ebraica: non a caso uno dei motivi di scontro fra la Chiesa latina e quella greca, ufficialmente separatesi nell’XI secolo, fu l’accusa, fatta dagli ortodossi ai cattolici, di avere abbandonato la “vera” tradizione cristiana del pane fermentato e di essersi avvicinati, con l’introduzione nel culto dell’ostia azzima, all’antico modello ebraico”.
    Montanari, M. Gusti del medioevo, p. 60

    ALLEGATO 5
    La melanzana: esempio di stereotipo che passa attraverso il cibo
    “Melanzana è una di quelle parole che si definiscono connotative perché contengono in sé il giudizio dell’oggetto rappresentato. L’etimologia non lascia spazio a equivoci: viene dal lontano mala insana, frutto insano pericoloso per la salute. La parola nacque sul finire del medioevo per qualificare negativamente il cibo che oggi tanto ci appassiona. Per catalogarlo fra le cose da evitare. Pomo sdegnoso lo chiama Bartolomeo Scappi, il cuoco più rappresentativo dell’Italia rinascimentale. Ma perché questo “sdegno”? per un pregiudizio sembrerebbe, di natura sociale: la melanzana diventò rapidamente una risorsa della cucina povera e fu perciò disdegnata dalla buona società. Come altre piante orientali la melanzana fu portata in Europa dagli arabi, che, ne l corso del Medioevo, la impiantarono in Sicilia e in Spagna. Già menzionata nei racconti del duecento Novellino, essa è rappresentata iconograficamente nei Tacuina sanitatis del Trecento.”
     Montanari M. Gusti del medioevo, p. 31


    ALLEGATO 7

                       

    FASE 4: Il cibo è anche una questione di ricchezza o povertà (o il cibo come status sociale)

    ALLEGATO 1
    “A sentire Giovanni de Mussis che scrive nel 1388, la città di Piacenza si era trasformata in una specie di paese di Bengodi: <<nel cibo tutti fanno meraviglie, soprattutto nei banchetti di nozze che per lo più seguono quest’ordine: vini bianchi e rossi per cominciare, ma prima di tutto confetti di zucchero. Come prima portata danno un cappone o due, e un grande pezzo di carne per ciascun tagliere è [=ogni due persone], cotto alla lampada con mandorle e zucchero e altre buone spezie. Poi danno carni arrostite in gran quantità, ossia capponi, polli, fagiani, pernici, lepri, cinghiali, caprioli o altro, secondo la stagione dell’anno. Poi danno torte giuncate, con confetti di zucchero sopra. Poi frutta. Infine, dopo aver lavate le mani, prima che si levino le tavole si dà a bere e un confetto di zucchero sopra. Infine, dopo aver lavate le mani, prima che si levino le tavole si dà da bere a un confetto di zucchero, e poi ancora da bere. Al posto delle torte e delle giuncate , alcuni danno all’inizio del pranzo delle torte fatte con uova, formaggio e latte, con sopra una buona quantità di zucchero. Per cena si danno, all’inverno, gelatine di carni selvatiche, di cappone, gallina o vitello o gelatine di pesci; poi arrosto di cappone e di vitello; poi frutta.”
    Montanari, M. La fame e l’abbondanza, p. 91

    ALLEGATO 2
    DESCRIZIONE DEL MATRIMONIO TRA ISABELLA D’ESTE E ANNIBALE BENTIVOGLIO
    “Il convito - simile a tanti altri di cui abbiamo notizia nelle cronache o nei trattati di cucina - durò sette ore, dalle 20 alle 3 di notte, durante le quali furono serviti: piccoli antipasti e cialde, con vino dolce di varie qualità; piccioni arrosto, fegatelli, tordi pernici <<con ulive confette et uva>>, e pane; un castello di zucchero <<con li merli e torri molto artificiosamente composto>>, pieno di uccelli vivi che, appena il piatto fu recato in sala uscirono fuori volando <<comn gan piacere e diletto de’ convitati>>; vennero po un capriolo e uno struzzo, attorniati da vari <<pastelletti>>, teste di vitello , capponi lessi, petti e lonze di vitello, capretti, salsicce, piccioni, con <<minestra et sapori>>, ossia salse; poi furono presentati pavoni, <<vestiti con le loro penne a guisa che facessero la ruota>>, uno per ciascuno signore invitato; poi mortadelle, lepri e caprioli cotti in guazzetto, ma rivestiti con la loro pelle in modo così perfetto <<che si mostravano vivi>>; dietro ad essi vennero tortore e fagiani, <<che dal becco loro ne uscivano fiamme e fuoco>> accompagnati con agrumi e varie salse. Poi torte di zucchero con mandorle, giuncate>> (forme di ricotta) e biscotti; e ancora teste di capretti e tortore, pernici arrosto, e un castello pieno di conigli che uscirono fuori correndo con gran divertimento dei convitati; indi <<pastelletti di coigli>>  e <<capponi vestiti>>.
    Montanari, M., La fame e l’abbondanza, pp.116-117

    NB: tutto il capitolo “Cucina ricca, cucina povera” (pp. 181-193) de Gusti del Medioevo di Massimo Montanari, ed. Laterza, 2012 si presta come approfondimento per questa fase. Qui sono scelti alcuni brani rappresentativi.

    NEGLI ALLEGATI 3, 4 e 5, i testi tratti da Montanari, M. Gusti nel Medioevo
    ALLEGATO 3
    LA CARNE
    CONTADINO: “Le carni erano bollite a lungo nella pentola appesa sul focolare di ogni casa contadina: a ciò portava la loro consistenza, particolarmente coriacea sia perché gli animali, liberi di muoversi in spazi aperti per gran parte della loro vita, sviluppavano una muscolatura soda e compatta, sia perché i contadini si cibavano spesso di animali vecchi, già sfruttati per il lavoro, o comunque cresciuti per più anni, per aumentarne il peso.” (p. 51)

    “Ai contadini, pur fra mille limitazioni, resterà il maiale attraverso gli usi residui del bosco comune o signorile, e in nuove forma di allevamento stabulare che negli ultimi secoli del Medioevo acquistano crescente importanza. Maiale cioè, soprattutto, carne conservata: è il sale, grande protagonista dell’alimentazione contadina, a consentire un po’ di dispensa per i mesi difficili, un minimo di sicurezza contro i capricci delle stagioni.” (p. 76)

    SIGNORE: “Se la carne è per eccellenza l’alimento che dà forza, esso sarà per eccellenza il cibo del potere, in virtù di un implicito passaggio intermedio (la forza come elemento primario del potere) che la cultura medievale dà in qualche modo per scontato. Il potente è il guerriero, colui che combatte meglio degli altri ed è in grado di batterli. La forza si costruisce in primo luogo con la carne. La carne è cibo del guerriero [...]. Nel IX secolo l’imperatore Lotario prescrive l’astinenza dal consumo di carne per coloro che si sono macchiati di grave colpa nei confronti del sovrano; contemporaneamente li obbliga a deporre le armi. [...] Infine i signori tengono a riservare a se stessi la pratica della caccia, che ha un ruolo essenziale nella definizione e della rappresentazione dell’identità nobiliare. ” (pp. 74-75)

    “Nel XIV e nel XV secolo nessuno sembra dubitare che le carni meglio convenienti alla dieta aristocratica siano quelle dei volatili: pernici, fagiani, quaglie. [...] I volatili esprimono infatti [...] un diverso ideale di vita e di alimentazione: la leggerezza. Il volatile vola e perciò è leggero [..]. La sua leggerezza vuol dire finezza, vuol dire carni delicate, adatte ad un’élite di cortigiani (o all’alta borghesia cittadina) che non rappresentano più la loro eccellenza in termini di forza muscolare, bensì di capacità intellettuale (politica, ndr).” (pp. 78-79)

    ALLEGATO 4
    IL PANE
    “[...] cominciò a caratterizzare e definire il regime alimentare “povero”, quello a cui si attenevano i contadini e più in generale i ceti subalterni. Per tutti costoro il consumo di pane rimase, per secoli, altissimo e decisivo: nei paesi europei, razioni giornalieri di 700-800 grammi, fino a un chilogrammo e più, sono attestate come normali nel Medioevo e oltre, almeno fino all’Ottocento. Questo alimento forniva la parte più consistente dell’apporto calorico quotidiano: dal 50 al 70% [...].” (p. 63)

    CONTADINO: “Nelle case contadine, il pane si mangiava - a Dio piacendo - tutti  i giorni: “come è costume dei rustici” (sicut mos rusticorum habet), un colono di cui racconta Gregorio di Tours riceveva ogni mattina dalla moglie un pane, e non cominciava a mangiarlo prima di averlo fatto benedire dal prete. Ma non dobbiamo pensare che il pane si facesse ogni giorno [...] i grandi pani della mensa contadina erano fatti per durare almeno una settimana.” (pp. 63-64)
    “[...] il pane dei poveri era scuro perché fatto - interamente o in parte - con cereali inferiori: segale, avena, orzo, spelta, miglio, panìco… una folla di prodotti che per secoli ha scandito il ritmo dell’alimentazione contadina.” (pp. 64-65)

    SIGNORE: “Nei banchetti principeschi, alle numerose carni si affiancava di regola il pane, distribuito in “ceste dorate” [...]. Solo che era un pane di qualità diversa. La differenza si coglieva a prima vista, in un dato di natura cromatica: il pane dei ricchi era bianco, perché fatto con frumento puro”. (p. 64)

    ALLEGATO 4
    FORMAGGIO VS CARNE
    “Un tipico prodotto della gastronomia povera, che la cultura medievale, come l’antica, associa soprattutto al mondo dei contadini e dei pastori, è il formaggio. Tuttavia anche in questo caso si avvia nel Medioevo un percorso di nobilitazione legato sia a fattori di gusto, sia all’immagine del formaggio come cibo “di magro”, sostitutivo della carne nei giorni di astinenza infrasettimanale e di vigilia e poi, dal XIV-XV secolo, anche in quaresima.” (p. 190).

    ALLEGATO 5
    IL CITTADINO e LA CARNE
    CITTADINO. “[...] il pubblico cittadino del pieno e del basso Medioevo non dà più la preferenza alla carne di maiale bensì a quella di bovino (in particolare vitello e vitella) o, addirittura, a quella di ovino, pecora o castrone, che i testi di dietetica considerano pessima. [...] In tutta Europa i consumi cittadini sembrano snobbare l’amato porco e puntare altrove. E’ anche una questione di peso: allevare un maiale, sacrificarlo e prepararlo a dovere, facendone prosciutti, salami e tranci salati, è operazione perfettamente congrua alle dimensioni e alla esigenze della famiglia contadina. Allevare e trattare un bovino è più un’operazione di mercato, dove qualcuno prepara e vende a molti.” (p. 77)

    CONFRONTO: “[...] è il sale,  grande protagonista dell’alimentazione contadina, a consentire un po’ di dispensa [...]. Le élites sociali, invece, amano la carne fresca, freschissima: l’uso medievale prevede talvolta la frollatura delle carni (soprattutto quelle di animali selvatici, più sode e coriacee)  ma spesso il consumo avviene subito dopo l’abbattimento della bestia. [...] Al contrasto signore/contadino (nei secoli centrali del Medioevo, ndr), ereditato dall’alto Medioevo, si aggiunge e si sovrappone quello fra cittadino e contadino. [...] (lo stile di alimentazione) del contadino rimane in prevalenza fondato sul consumo diretto, cioè sulle risorse che egli stesso riesce a produrre: fra le carni, soprattutto il maiale, pur se non mancano, fin dall’alto Medioevo, tracce significative di consumo di bovini (il bosco medievale nutriva anche questi) e, nelle regioni più ricche di prati naturali, ovini. Poi il pollame domestico: qualche gallina, oche, anatre. Il cittadino invece - si dice “il cittadino” senza aggettivi: il signore e il borghese di ceto, ma in qualche misura anche il popolo minuto - può contare, in condizioni di normalità, su un mercato ben rifornito e politicamente protetto: garantire il cibo alla comunità è il primo dovere di ogni pubblica amministrazione [...]. I banchi delle botteghe e del mercato debbono rispondere ad ogni richiesta [...]. In certe città saranno le stesse corporazioni a gestire il mercato della carne e quello del pesce, talora coesistenti ma più spesso alternati, nel corso delle settimane e dei mesi”. (pp.76-77)

    IL CITTADINO E IL PANE
    CITTADINO: “Nelle città anche i poveri mangiavano pane bianco - sempre che non vi fosse carestia: circostanza che, peraltro, si verificava con sconsolante regolarità.” (p. 65)

    ALLEGATO 6
    Nella Germania del XIII secolo, il vecchio contadino Helmbrecht (protagonista dell’omonima novella in versi di Wernher der Gartenaere) raccomanda a figlio la “sua” dieta di farinacei sostenendo che carne e pesce sono riservati ai signori: “Tu devi vivere di ciò che tua madre ti dà. Bevi acqua, caro figlio mio, piuttosto che comprare il vino con le ruberie [...]. Settimana dopo settimana tua madre ti cuoce la buona pappa di miglio: questa devi mangiare e ingozzarti piuttosto che dare un palafreno rubato in cambio di un’oca [...]. Figlio, mescola la segale con l’avena, piuttosto che mangiare pesce coprendoti di vergogna”. Ma il figlio non ci sta: “Beviti pure l’acqua, padre mio, io voglio bere il vino, e mangiati il polentone, io invece voglio mangiare quello che chiamano pollo arrosto”.
    Montanari, M., La fame e l’abbondanza, p. 73

    ALLEGATO 6
    TABELLA PER IL CONFRONTO DEI TESTI

    FASE 5: Il cibo come immaginario collettivo
    ALLEGATO 1
    "[...] di spigole, salmoni e aringhe sono fatti i muri di tutte le case; le capriate sono di storioni, i tetti di prosciutti e correnti di salsicce [...]. Di pezzi di carne arrosto e di spalle di maiale sono circondati tutti i campi di grano; per le strade si rosolano grasse oche che si girano da sole su se stesse, e da vicino sono seguite da candida salsa all'aglio; e vi dico che per ogni dove, per i sentieri e per le vie, si trovano tavole imbandite, con sopra candide tovaglie: tutti quelli che ne hanno voglia possono mangiare e bere liberamente; senza divieto né opposizione ciascuno prende ciò che desidera, pesce o carne, e chi volesse portarsene via un carro potrebbe farlo a suo piacimento [...]. Ed è sacrosanta verità che in quella contrada benedetta scorre un fiume di vino [...] per metà di vino rosso, del migliore che si possa trovare a Beaune o oltremare; per l'altra metà di vino bianco, del più generoso e prelibato che mai sia stato prodotto a Auxerre, a La Rochelle o a Tonnerre".
    Brano tratto da “Païs de Coquaigne”, Fabliau francese del XIII secolo.

    Il carattere elitario dei consumi cane si definirà anche in termini qualitativi: la selvaggina, in modi più o meno accentuati a seconda delle regioni, sarà riservata alle tavole “alte” della società. Pratiche sistematiche di delimitazione del territorio restringeranno a pochi l’uso della foresta, o proibiranno l’esercizio della caccia nelle «riserve». Figure leggendarie come quella di Robin Hood, che percorre la foresta in spregio ai divieti imposti dai nobili, sono anche «immagine utopica di un mondo in cui si potesse andare a caccia e mangiar carne» - come scrive Rodney Hilton. Analogamente, la carne - di ogni genere e specie, bell’e pronta e cucinata in tanti modi diversi - è la presenza più cospicua nei paesi di Cuccagna che l’immaginario popolare si raffigura forniti di ogni bendidio: un’utopia alimentare che si diffonde a iniziare dal XIII secolo e permane lungo tutta l’età moderna, svelando, come altra faccia di sé, il quotidiano paese della fame (o almeno dell’insoddisfazione).
    Da Montanari, M., Gusti del Medioevo, pp. 75 -76.

    Oppressi dalla paura della fame e insoddisfatti nel loro desiderio di mangiare molto e bene, gli uomini del Medioevo amarono sognare che vi fosse un paese benedetto in cui il cibo era sempre disponibile in abbondanza, senza neppure il bisogno di lavorare per procurarselo: un posto simile al Paradiso Terrestre della Bibbia dove, però, non si trovavano solo erbe e frutti deliziosi, ma soprattutto carni di ogni specie, succulente e ben condite. Mangiar carne a volontà, infatti, era il primo desiderio della povera gente, che nella vita reale, invece, mangiava in prevalenza cibi vegetali (cereali, legumi, verdure).

    Questo paese immaginario fu chiamato «Cuccagna» e fu descritto in numerosi testi, in molte lingue europee. Un poemetto francese del XII secolo ci assicura che tutti i campi sono recintati con pezzi di carne arrosto e spalle di maiale; per le strade, grosse oche si rigirano da sole sugli spiedi, cospargendosi di una saporita salsa all’aglio; ovunque, per i sentieri e per le vie, si incontrano tavole imbandite, elegantemente apparecchiate con candide tovaglie, e chiunque ne abbia voglia può sedersi a mangiare: carne di cervo o di uccelli, arrostita o lessata, ognuno prende ciò che desidera e può portarne via dei carri, se vuole. I muri delle case sono fatti di pesci squisiti (spigole, salmoni, aringhe); i tetti di storioni e di prosciutti; le cornici di salsicce. In mezzo alla campagna scorre un fiume di vino, per metà rosso, per metà bianco, dei più prelibati che si possano trovare.

    Chissà se qualcuno credeva davvero che simili fantasie… Certo è che nella letteratura medievale (e anche in quella moderna) vengono messi in scena personaggi ingenui e sempliciotti, a cui viene fatto credere che Cuccagna esista realmente. Così accade, ad esempio, in una novella di Giovanni Boccaccio - un celebre scrittore italiano del Trecento -, dove un gruppo di amici gioca uno scherzo a Calandrino, raccontandogli le meraviglie che sostengono di aver visto a Bengodi (così Boccaccio chiama il nostro paese): «vi era una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavano persone che non facevano altro che far gnocchi e ravioli e cuocerli in brodo di cappone, e poi li facevano rotolare giù, e chi più ne pigliava, più ne mangiava».

    In un testo spagnolo del Cinquecento, un’opera teatrale scritta da Lope de Rueda, due ladroni si prendono gioco del povero Mendrugo:
    - Siediti qui con noi, che ti raccontiamo delle meraviglie del paese di Cuccagna.
    - Di quale paese, signore?
    - Del paese in cui si frustano gli uomini che vogliono lavorare.
    - Oh, che bel paese! Raccontatemi, vi prego…
    - Avvicinati e ascolta. Nel paese di Cuccagna scorre un fiume di miele, e al suo fianco un fiume di latte. Fra i due fiumi c’è una sorgente da cui escono panini al burro e allo zucchero, bagnati in formaggio fresco.
    - Che posto straordinario! Non mi farò ripetere l’invito due volte.
    - Taci e ascolta: nel paese di Cuccagna, gli alberi hanno il tronco fatto di lardo; le foglie sono frittelle dolci, e i frutti sono bignè che, quando cadono nel fiume di miele, navigano dicendo: Màsticami! Màsticami!
    - E cosa c’è d’altro?
    - Le strade sono lastricate con rossi d’uova e tra un rosso e l’altro vi sono dei pasticci di carne con pezzetti di lardo.
    - Lardo arrostito?
    - Arrostito, certo; e che grida: Inghiottimi! Inghiottimi!
    - Mi pare già di averlo sulla lingua…
    - Ma ascolta ancora: nel paese di Cuccagna vi sono degli spiedi lunghi trecento piedi, tutti pieni di pollastri e capponi, di pernici, conigli e francolini.
    - Oh che acquolina in bocca!
    - E a fianco di ogni uccello c’è un maialino che attende solo di essere tagliato, e dice: Divorami! Divorami!
    - Ah, come vi ascolto volentieri! Starei tutto il giorno a sentir parlare di cose da mangiare…
    - Ma non è finita. Il paese di Cuccagna è tutto pieno di vasetti di marmellata, di confetture di zucca e di limone, di marzapani e di frutti canditi.
    - Piano, signore, raccontate piano…
    - Ci sono confetti e fiaschi di vino, e ogni cosa è lì che dice: Bevimi! Mangiami! Bevimi! Mangiami!
    - Mi pare quasi di avere già bevuto e mangiato…
    - E per finire, nel paese di Cuccagna ci sono pentolini di riso con le uova e il formaggio…
    - Come quello che ho qui con me?
    - Proprio così: come il pentolino che è arrivato pieno e che il diavolo si è portato via!
    Distratto dalla succulenta conversazione, il povero Mendrugo non si è accorto che anche la sua povera pignatta di riso si è svuotata. I due ladroni se la ridono sotto i baffi, per lui sarà un giorno di digiuno.
    da Montanari, M., Il pentolino magico, p. 77.

     
    Pieter Bruegel il Vecchio, Il paese della cuccagna, 1567, olio su tela.

     
    Jodocus van de Hamme, Abbondanza dei campi, 1650, Olio su tela.

    GRIGLIA UTILIZZABILE PER TUTTE LE FASI DEL LABORATORIO

     

    BIBLIOGRAFIA
    Brusa, A., Laboratorio di storia, La Nuova Italia, Firenze, 1991.

    Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza,  Roma-Bari, 1993

    Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola, Editori Laterza, Roma-Bari, 2012

    Il pentolino magico, Editori Laterza, Roma-Bari, 1995

    Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009

    Sharan, Y. e Sharan, S., Gli alunni fanno ricerca, Edizioni Erickson, Trento, 1998

    Shiva, V., Storia dei semi, Feltrinelli, Milano, 2013

    Zuin, E., I saperi disciplinari nel curricolo per competenze, Centro studi Erickson, Trento, 2013.


    Manuali per la SSPG:

    Brusa, A., Gurracino, S., De Bernardi, A., L’officina del tempo, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, Milano 2007.


    SUGGERIMENTI PER LE PIATTAFORME

    Per quanto riguarda le piattaforme si suggeriscono le seguenti:

    https://www.fidenia.com/

    http://www.edmodo.com

    https://www.schoology.com/

    https://myhomeworkapp.com/

    APPENDICE INTERDISCIPLINARE

    Si propongono dei collegamenti interdisciplinari allo scopo di arricchire e approfondire l’argomento dell’UDL.

    Focus di Italiano (fase 1): se si vuole legare l’attività con un momento interdisciplinare, la lettura accompagnata dal commento dei testi “Ciò che piace fa bene”, p. 117, “La pasta e gli italiani: un’identità una e molteplice”, p. 197 tratti da “Il riposo della polpetta” di Massimo Montanari11 , si prestano. Si tratta di articoli di giornale con taglio divulgativo caratterizzati dalla precisione nelle informazioni scientifiche propria di uno storico, ma stilisticamente abbastanza semplici così da essere fruibili da ragazzi di prima media.

    Focus di Italiano, Educazione alla cittadinanza e Scienze (fase 2): il tema è “semi come metafore della cultura: si incontrano ma senza prevaricazioni”, il che porta a una riflessione sull’importanza della biodiversità. Si propone la lettura del brano “C’è seme e seme” dal testo Storia dei semi di Vandana Shiva, con lettura e comprensione del testo invitando la classe a scrivere le proprie idee sulla piattaforma piattaforma per poi ridarne un testo collettivo. Per stimolare il dibattito l’insegnante può proporre sulla piattaforma o in classe la visione del frammento del film di Ermanno Olmi “Terra madre” in cui si parla della banca mondiale dei semi alle (delle) Isole Svalbard.  Il documento redatto insieme può essere stampato e messo in una cartella/portfolio che andrà ad alimentarsi nelle fasi successive e rimarrà a testimonianza del percorso trasversale fatto.
    A questo lavoro si aggancia un’ora di educazione alla cittadinanza che legge la storia dei semi in chiave metaforica e la interpreta alla luce dell’integrazione e della tolleranza, tornando così al discorso del cibo come incontro affrontato nell’ora di storia.

    Focus di Educazione alla cittadinanza (fase 4): una lezione dialogata simile a un dibattito, nei limiti delle competenze di una prima media. Proponendo come spunto la mappa concettuale finale, la discussione sarà indirizzata verso i conflitti sorti all’interno della classe e causati proprio dal dare etichette ai compagni perché “diversi”.

    Focus di attualità (fase 5): “La fame oggi”. Lezione dialogata sulle cause delle carestie in età medievale e collegamento con l'attualità prendendo spunto da materiali di approfondimento predisposti dall’insegnante (testi, filmati, documenti, carte e grafici).

    Focus di Arte e immagine (fase 5): laboratorio artistico con realizzazione di un albero della cuccagna in cui ciascuno studente mette il proprio oggetto del desiderio.

    NOTE

    1. Definizione del Devoto-Oli, Vocabolario della lingua italiana.
    2. Sharan, Y. e Sharan, S., Gli alunni fanno ricerca, Edizioni Erickson, Trento, 1998
    3. “La melanzana: cibo da gente basse e da ebrei”, p. 31, “La leggerezza del monaco”, p. 128, “Gastronomia monastica”, p. 132, “Silenzio di mangia”, p. 168, “La gola filosofale”, p.134, “Carnevale e quaresima”, p. 161, “Dieta quaresimale”, p. 163.
    4.“Il pane che viene dal cielo”, p. 11, “La religione del pane”, p. 52, “Il piacere e la rinuncia”, p. 67.
    5. Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 91-92.
    6. Dal materiale per il percorso tematico “Il pranzo è servito” della mostra Il cibo nell’arte, Capolavori dei grandi maestri dal Seicento a Warhol. In Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 116-117.
    7. Brusa, A., Laboratorio di storia, La Nuova Italia, Firenze, 1991.
    8. Netta versione offerta da Massimo Montanari, v. Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 119.
    9. Montanari, M., Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola, Editori Laterza, Roma-Bari, 2012, pp. 75-76.
    10. “Il paese di Cuccagna”, p. 77
    11.   In particolare, in questa parte si possono leggere, come spunto di riflessione sui significati del cibo e della cultura alimentare, “Ciò che piace fa bene”, p. 117, “La pasta e gli italiani: un’identità una e molteplice”, p. 197.

  • L'Atlas global

    Si può rappresentare tutto con le carte: la felicità, la bellezza, i paesi spazzatura, il sovrappeso. E, naturalmente, i fatti politici, economici, demografici. Per chi ha problemi di geostoria, ecco lo strumento ideale, curato da Christian Grataloup, che gli insegnanti italiani hanno imparato ad apprezzare al convegno su storia e intercultura di Senigallia, e del quale possono leggere il bell'articolo su Novecento.org. l'Atlante globale è scritto da un'équipe di ricercatori di storia e di geografia e si avvale della collaborazione dei disegnatori di carte di Le monde e di Alexandre Nicholas, autore de Le dessus de Cartes (HL)

  • L’antico Israele. Una storia controversa e il pensiero unico dei manuali.

    Appunti da Mario Liverani

    Autore: Antonio Brusa

    Indice
    L’antico Israele nei media e nella rete
    La storia d’Israele a scuola
    Il modello della vulgata
    Un piccolo prontuario di stereotipi
    Avvertenze per l’uso
    Che fare con i bambini?
    Una nuova vulgata
    Un aggiornamento storico-didattico
    Il dibattito storiografico è uno strumento per insegnare
    Lo spazio palestinese
    Cronologia essenziale

     

    L’antico Israele nei media e nella rete

    Compaiono periodicamente sulla stampa notizie sugli scavi archeologici in Palestina. Sono notizie di fascino, perché alludono a fatti che abbiamo letto, ascoltato o visto al cinema. Ogni scoperta suscita la domanda: “allora, la Bibbia aveva ragione?”. Se la pongono in tanti, e ha dato origine a molti libri. E molti pensano, laici o credenti, che la risposta rafforzerà le ragioni degli uni o degli altri. Perciò, per la legge ferrea dei media, è questa la DOMANDA che, sottotraccia, guida la mano del giornalista. Lui ha sentito che i gebusei erano un popolo palestinese, di quelli che gli ebrei combatterono quando giunsero in Palestina? ha sentito che Davide conquistò Gerusalemme e ne fece la capitale di Israele? Bene, il suo articolo accennerà a questi, e a tutti gli altri fatti che, secondo lui, appartengono alla vulgata posseduta da tutti, e che, perciò, possono corredare il suo pezzo dell’appeal indispensabile.

     
    Nel quartiere arabo di Silwan, in una zona chiamata “città di Davide”, uno scavo rivela delle incisioni “antichissime”. Si tratterà di stampi per la fusione, di simboli, o delle prime lettere dell’alfabeto, magari protoebraico?http://xmx.forumcommunity.net/?t=49163336

     

    Se vi viene un dubbio, e volete verificare su internet, allora cominciano i guai. Al terzo-quarto sito avete già perso la bussola. Prendiamo, ad esempio, la recente scoperta di una muraglia megalitica, costruita quasi 3700 anni fa a Gerusalemme. Ripresa da molti giornali, la vado a rileggere su un sito in genere sicuro, quello di “Archeo. Vi si descrive la muraglia, vi si dice che fu eretta dai “gebusei (cananei)”, e che si trova nella “città di Davide”. L’articolo è chiaro e preciso, ma al non  esperto spuntano un paio di dubbi. Erano gebusei o cananei? E se la costruzione era del II millennio a.C, come fa a trovarsi nella città di Davide, notoriamente vissuto al principio del I millennio? Niente paura, passiamo al sito successivo. Ma questo ha un titolo minaccioso “le bugie hanno le gambe corte” , e non va tanto per il sottile. Riporta, fra le altre, questa frase di Ikrima Sabri, mufti di Gerusalemme:

    Non vi è il più piccolo indizio dell’esistenza di un tempio ebraico in questo luogo, nel passato. In tutta la città, non c’è nemmeno una sola pietra che indica la storia ebraica. Il nostro diritto, d’altra parte, è molto chiaro. Questo luogo appartiene a noi da 1500 anni.

    Gli archeologi e gli storici israeliani si sono inventati tutto. Quel sito era gebuseo, non c’entrano gli ebrei. Dunque, appartiene a noi, dicono i palestinesi.

     

     
      Com’era il tempio di Salomone/Erode? In rete uno specimen della fantasia dei ricostruttori

     

    E’ un problema noto nella storiografia e nell’archeologia di quell’area. Lì, le risposte alla DOMANDA hanno immediate ricadute politiche. Non solo religioso-ideologiche, come da noi. Quindi, la pressione sulla ricerca è fortissima. Sul ciglio degli scavi si assiepano leader politici, ambasciatori e seguaci di questo o quel gruppo; e, non di rado, lo stesso ricercatore è embedded, convinto anche lui che il suo lavoro darà un  potente aiuto alla sua parte politica. Se leggete questo articolo di Giulio Meotti, avendo cura di fare la tara delle sue propensioni, troverete una schiera di gente nota, da Abramovich, a Laura Bush a John Voigt (sì, l’”uomo del marciapiede”), della quale nessuno avrebbe mai sospettato gli interessi storiografici, e scoprirete che Clinton e Arafat ebbero il tempo, a Camp David, di litigare sulla esistenza o no del tempio di Salomone.


    Dal conflitto nel Vicino Oriente, poi, questo invadente e oppressivo uso pubblico della storia riecheggia dalle parti nostre e nella regione italofona della rete. Anche da noi, carica le risposte di valenze politiche a volte aggressive.


    La storia di Israele a scuola

    Nelle scuole italiane, inoltre, la presenza di allievi provenienti dal mondo arabo-musulmano è consistente. E questo contribuisce ad aumentare la temperatura di questa storia. Per quanto antica, dunque, essa diventa un’autentica “Questione Socialmente Viva”. Una questione sensibile, che richiede una cura particolare. Questa si dovrebbe articolare intorno a due capisaldi: una vulgata (racconto semplice e facilmente comprensibile) affidabile, in grado di fornire agli allievi un piccolo, ma sicuro, pacchetto di conoscenze, che gli varrebbero da primo orientamento nella enciclopedia della rete; e, insieme con quella, un elenco essenziale di “avvertenze per l’uso”, che dovrebbero metterlo in grado di capire in che modo quelle conoscenze vengono usate e rielaborate nel dibattito pubblico e, magari, in che modo andrebbero maneggiate secondo gli storici. Tutto ciò (per una volta potremmo essere contenti di qualcosa in Italia) è perfino previsto dai programmi per la scuola di base: un po’ meno per quelli delle superiori, ma, pazienza, la Gelmini non è che sentisse tanto questo problema.


    Il modello della vulgata

    Limitiamoci, perciò, alla scuola di base. Da alcuni anni, disponiamo di una fonte impagabile. Si tratta di quei “bignamini” che ogni editore si sente in obbligo di anteporre al libro di prima media, nell’illusione, più o meno in buona fede,  che queste sintesi estreme possano essere di qualche aiuto ai docenti. Ma proprio questa necessità di sintesi è l’ideale per costringere l’autore a redigere una vulgata. Ve ne propongo una, tratta da un manuale che andrà in adozione quest’anno. E’ anonima (non voglio fare qui un’analisi dei libri di testo). Per la conoscenza che ho dei manuali in circolazione (e passati), ve la propongo come un modello. Ognuno di voi potrà confrontarla con i manuali a disposizione.

    Gli ebrei furono il primo popolo monoteista dell’antichità, e l’unico che abbia tramandato in modo ordinato e completo, nel suo libro sacro chiamato Bibbia (dal greco biblia = i libri).
    Gli ebrei erano in origine pastori che intorno al 2000 a.C, guidati dal patriarca Abramo, giunsero in Palestina, nella terra chiamata Israele che secondo la tradizione era stata promessa loro da Dio. Qui divennero sedentari, impararono a coltivare la terra e a lavorare i metalli, ma non abbandonarono mai del tutto il nomadismo. Forse a causa di una grave carestia, intorno al 1700 una parte della popolazione si trasferì in Egitto, dove lavorò al servizio del faraone, finché le dure condizioni di vita non la spinsero a ritornare in Palestina sotto la guida di Mosè. Alla fine del II millennio gli ebrei unificarono le dodici tribù in cui erano divisi e fondarono il regno di Israele, che nel VI secolo sarà conquistato dai babilonesi.


    Un piccolo prontuario di stereotipi

    Le sottolineature non sono redazionali. Sono mie. Mettono in evidenza le affermazioni sbagliate o problematiche. In pratica, fatta eccezione per l’etimologia di “Bibbia”, l’intero testo prende per oro colato il sapere diffuso e ignora i portati della ricerca storica attuale. Se questa è la vulgata proposta dalla scuola, non ha la minima possibilità di diventare uno strumento critico per contrastare, mettere in dubbio, discutere quella di riferimento nel dibattito pubblico. Si comporta esattamente come quei giornalisti che, per ottenere successo, occhieggiano a “quello che tutti sanno”.
    Conviene rendersi ben conto di questi stereotipi. Per questo ho preparato un elenco, aggiungendo a quelli  riportati in questo sunto manualistico, altri, riscontrabili anche in testi più completi e distesi. Li discuto sulla base del libro di Mario Liverani (Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza, Bari 2003).

    Il primo popolo monoteista: non lo furono sempre. Erano politeisti; poi adottarono un dio nazionale, come tutti i popoli della regione. Yahweh per Giuda e Israele, Kemosh per Mo‘ab, Qaus per Edom, Milkom per ‘Ammon, Hadad per Damasco, Ba‘al/Melkart per Tiro (p. 158). Lentamente, la corrente sacerdotale yahwista riuscì a prendere il sopravvento nei due regni ebraici: ma questo accadde dopo le aggressioni assire e babilonesi. Ancora dopo la cattività babilonese, quindi in età persiana, è testimoniata la compresenza di culti di altre divinità.

    La Bibbia è un libro ordinato e completo: non lo fu, per il semplice motivo che si tratta di una “biblioteca” (di qui l’etimologia) composta fra VIII e I secolo a.C, sotto la spinta di obiettivi, momenti culturali, e progetti politici e religiosi diversi; la ricerca, come vedremo distesamente nel corso di questo articolo, mostra come il passato fosse stato rielaborato, in forme a volte molto diverse, da un libro all’altro (per questo e altri concetti “generali”, si veda l’introduzione, pp. VII-XI e la conclusione alle pp. 401-407).

    Gli ebrei erano in origine pastori: la regione era a insediamento misto. Si può ammettere che ci fosse, sull’altopiano centrale, dove si formarono i regni di Giuda e di Israele, una prevalenza di pastori. Ciò non toglie che, fin dalle prime attestazioni, i due regni ebraici si costituiscono intorno a due città, capofila di una rete urbana (cap. 3).

    Intorno al 2000, il patriarca Abramo li condusse nella regione: si tratta di una rielaborazione del passato effettuata in epoca post-esilica. Non esistono attestazioni di ebrei prima della grande crisi del XII secolo. Il terminehabiru , che spesso viene citato come nome dei proto-ebrei, ha un valore generico e non etnico, dal momento che indica i fuggiaschi (“i banditi”), che cercavano scampo dalle terribili condizioni di vita alle quali erano sottoposti gli abitanti dei regni cantonali della regione. Si tratta, dunque, di un tipico “mito di fondazione” (pp. 283-287).

    Il “patriarca” Abramo e i “giudici”: i due periodi, quello dei patriarchi, relativo al primo insediamento, e quello dei giudici, successivo alla conquista di Giosuè, sono frutto della mitopoiesi postesilica (cap. 15: Uno stato senza re: l’invenzione dei giudici).

    I gebusei (e gli altri popoli “cananei”): la dizione “cananea” è quella adoperata nel secondo millennio per indicare in primo luogo la regione siro-palestinese; in secondo luogo i suoi  abitanti. Nella ricostruzione biblica, i gebusei fanno parte di un insieme di popoli che furono interamente sterminati dagli eserciti di Yahweh. Trattandosi appunto di popoli scomparsi, conveniva “inventarli”. Fra questi, infatti, troviamo gli ‘anaquim (i giganti), i perizziti, che vuol dire semplicemente “contadini” o i refaiti, che erano addirittura gli spiriti dei morti (pp. 302-304).

    Gli ebrei divennero sedentari ma non abbandonarono mai del tutto il nomadismo: nel corso dei secoli successivi alla crisi del XII secolo, la regione fu a maggioranza pastorale o agricola, a periodi alternati (cap. 2).

    La terra chiamata “Israele”: nelle fonti egizie compare una volta questa parola (XIV sec), per indicare una valle della regione (vedi la cartina in fondo). Probabilmente il termine fa riferimento a qualche gruppo umano, scomparso nel tempo, ma del quale rimase il toponimo. Intorno al XII secolo, rileviamo dei gruppi che prendono a chiamarsi “israeliti”, probabilmente circoscritti alle terre dell’altopiano centrale (p. 71).

    A causa di una grave carestia gli ebrei migrarono in Egitto: durante l’età del bronzo, l’intera regione, fino a Qadesh, nel sud della Siria, era sotto il dominio dell’impero egizio, la cui influenza continuò fino all’invasione assira (VIII secolo). La valle del Nilo costituiva per quelle popolazioni la risorsa ultima, nelle frequenti carestie. Quindi si trattava di migrazioni temporanee e continuate. La storia di Giuseppe (migrato fortunosamente in Egitto, dove fece fortuna) è un mito di fondazione, tipico, come quello del Diluvio universale, o di Mosé (cap. 13, specialmente pp. 285 e ss).

    Mosé: la figura di Mosé viene costruita sull’archetipo di Sargon e di altri grandi re della regione. Dunque, risale al periodo postesilico (L’esodo e Mosè: pp. 305-312).

    Giosuè: “la narrazione biblica della conquista “fondante” è notoriamente un costrutto artificioso, inteso a sottolineare l’unità di azione di tutte e dodici le tribù” (p. 313); “il paradigma adottano nel libro di Giosué è quello della “guerra santa” di chiara matrice deuteronomica ma dotato di profonde radici nell’ideologia siro-palestinese sin dai secoli della pressione assira” (pp. 314 s).

    Unificazione delle tribù: anche le dodici tribù sono frutto una rielaborazione tardiva, che vede la sua fase compiuta nei decenni successivi al ritorno dall’esilio babilonese (dunque in età persiana). Dopo una lunga vicenda di formazione, successiva alla crisi del XII secolo, nacquero due regni contemporanei – Israele e Giuda – accomunati dalla fede nell’identico dio nazionale, Yahweh. Il primo con capitale Sichem (poi Samaria),che riuniva alcune tribù dell’altopiano, fra le quali Efraim e Manasse. Il secondo, il regno di Giuda, era costituito dalle tribù di Giuda e Beniamino. La formazione e la consistenza di altre tribù, come Dan e Levi, è molto dubbia. Questi regni restarono separati e distinti fino all’invasione assira e alle relative deportazioni (capp. 4,5,6).

    Assiri e babilonesi: le misconcezioni che riguardano questi popoli riguardano l’intera storia dell’area, e non solo il capitolo sugli ebrei. Gli assiri adottarono un metodo di conquista violento, con una grande esibizione di forza e di crudeltà, a cui succedeva un sistema di governo pacifico molto attento allo sviluppo economico delle provincie. Tentavano di distruggere l’identità dei popoli conquistati, attraverso deportazioni massicce, ma, una volta re-insediate, queste popolazioni avevano la possibilità di riprendersi demograficamente ed economicamente. Al contrario, i babilonesi, che si presentavano come i liberatori dal dominio assiro, in realtà li superavano in violenza e non curavano affatto la gestione dei territori, interessati come erano solo alla cura della capitale e delle località centrali.

    Di conseguenza, la dominazione assira trasformò la regione siro-palestinese, mescolandone le basi etniche e rendendole irriconoscibili rispetto al passato, ma inaugurando un periodo di prosperità. Gli ebrei deportati probabilmente si fusero con le popolazioni ospiti, mentre in Palestina si avviarono processi di commistione interetnica e interculturale fra nuovi e vecchi abitanti. La dominazione babilonese, invece, genera “la catastrofe” della regione. Si salvano solo le città costiere. Le zone dell’altopiano sono spopolate e povere. Gli ebrei deportati (le élites, questa volta, e gruppi di contadini) conservano a Babilonia la loro identità. Quando tornano avviano programmi di rigorismo religioso (unicità di Dio) ed etnico (proibizione di matrimoni misti) (capp. 7 e 9) .

    I palestinesi. Fra i palestinesi di quei tempi e quelli di oggi i rapporti sono esilissimi. I philistim erano i “popoli del mare” che, sconfitti dagli egizi, si insediarono nella regione. Da loro deriva il nome “Palestina”. Erano probabilmente indoeuropei. La regione, per conto suo, era già uno scenario demografico estremamente composito: apporti arabi, moabiti, egizi, amorrei e di tanti altri, ai quali vanno aggiunti i famosihabiru. A più riprese, inoltre, la regione subisce traumi demografici con successivi ripopolamenti. Difficile per chiunque, oggi, proclamare un diritto di discendenza da quelle antiche popolazioni.


    Avvertenze per l’uso

    Scorrendo la critica degli stereotipi si nota facilmente come essi non siano altro che quelle conoscenze prodotte dagli scribi ebrei a partire da Giosia (640-609), con un opera di riscrittura che, col passare del tempo, si fece sempre più intensa. Molto di quello che abbiamo esaminato, infatti, è frutto di discussioni, di ricerche e di problemi dell’età persiana: dal VI secolo in poi. Quindi non è fonte degli eventi più antichi, quanto piuttosto di quelli contemporanei alla elaborazione dei testi.

    La storia antica degli ebrei pone in primo piano il problema della sua fonte principale: la Bibbia. Essa è (rispetto ai fatti che racconta) un testo tardivo che produce un’immagine distorta del passato, perché frutto della cultura e del modo di vedere dei contemporanei. Noi, però, vediamo quell’immagine. Quindi, per usarla, dobbiamo essere in grado di correggerla, un po’ come fanno gli astronomi con le lenti gravitazionali, per restituirci la visione di galassie lontanissime. Dobbiamo confrontarla con altre fonti. Dobbiamo tenere conto di come si comportano altri popoli, quando affrontano il problema delle loro origini.
    Questo principio non è oggetto di discussione, quando affrontiamo il problema dell’origine dei Goti, o quella dei Romani o dei Greci. E non è facile, come sanno tutti i docenti, parlarne in classe. Nel caso degli ebrei, il problema aggiuntivo è costituito dal fatto che la conoscenza sociale è talmente modellata sul racconto biblico, che nessuno mette in dubbio i cosiddetti “elementi storici” che ne vengono ricavati.


    Che fare con i bambini?


    Non so in che modo si possa affrontare questo problema epistemologico con bambini di quarta elementare (diverso sarebbe affrontarlo con ragazzi più grandi, e magari con qualche esperienza laboratoriale). Ma qui siamo agli inizi. Con i bambini, il dilemma didattico si pone nei suoi termini crudi:
    -    Conviene raccontare la storia tradizionale, poi col tempo si penseranno ai risvolti critici?
    -    Conviene insegnare la storia, quella prodotta dalla ricerca, e poi col tempo si studieranno anche le sue interpretazioni tradizionali?
    Stando al programma, non ci sono dubbi. Va insegnata la storia. E questa va distinta dal suo uso pubblico. Quindi, il testo manualistico dal quale siamo partiti dovrebbe essere fuorilegge. Ma ciò sarebbe vero anche se il programma non ce lo imponesse. Non si da un insegnante di storia che non insegni “la storia”, o che preferisca a questa “la tradizione storica”.


    Una nuova vulgata

    Il rinnovamento della didattica non può non passare dalla elaborazione di una nuova vulgata. Un nuovo racconto semplice, facilmente leggibile, breve, che metta al corrente gli allievi dei tratti essenziali della vicenda di quel popolo. Con tutti i rischi che questo comporta, provo a scriverne una, della stessa lunghezza di quella che abbiamo esaminato.

    Nel XII secolo, scoppiò una crisi eccezionale. Invasori, carestie, ribellioni sconvolsero tutto il Vicino Oriente. Caddero gli imperi che vi dominavano. Si crearono regioni nelle quali non governava più nessuno. Una di queste fu la Palestina. I villaggi e le tribù di pastori cominciarono a organizzarsi per governarsi da soli. Molte tribù si allearono fra di loro. Nacquero dei piccoli regni. Erano formati da una città capitale e da un nugolo di villaggi. Fra questi ce ne furono due: Israele e Giuda. Ma, ecco che tornarono i dominatori dall’esterno.
    Sono passati quattro secoli. Siamo nell’VIII secolo. Gli assiri prima e i babilonesi dopo si impadroniscono della regione, abbattono i regni, deportano le popolazioni. Ma vengono abbattuti a loro volta da un impero più potente, quello persiano. Siamo nel  VI secolo. Gli ebrei, che erano stati deportati, tornano in patria. Il nuovo impero è più tollerante. Gli ebrei possono costruirsi la loro vita, la loro politica, seguire le loro credenze. Fu in questo periodo che scrissero la loro storia, quella che noi leggiamo nella Bibbia.

    Non è una proposta didattica, ma solo un espediente, per mostrare “sul vivo”, alcune questioni per come si pongono nelle scuole. Infatti, ridotto così, ai suoi minimi termini, il racconto mostra un problema che si oppone come un macigno al rinnovamento della didattica. L’insegnante che leggesse questo racconto, non lo riconoscerebbe. Mentre il primo, quello tradizionale, gli appare “pieno di fatti e di personaggi”, questo gli appare vuoto. Quello tradizionale ha un senso (è la storia del popolo eletto, coi suoi protagonisti). In contrasto, gli sembra priva di senso questo, che è la storia di un popolo. Non gli dice nulla. Non lo sa spiegare: nei termini correnti, non conosce altri fatti, altri particolari, non trova altri aggettivi, con i quali arricchire il testo e renderlo più gradevole o comprensibile nella sua lezione. Non lo sa valutare (“non so come interrogare gli allievi, con questo testo”). Non capendola lui, l’insegnante concluderà. “E’ una storia troppo difficile per i miei allievi”.
    Per essere credibile, dunque, una “nuova vulgata” non deve solo avere doti di comprensibilità, affidabilità scientifica e funzionalità didattica: deve essere supportata da un vigoroso aggiornamento storico e storiografico.


    Un aggiornamento storico-didattico

    E, accanto a questo, si richiederebbe un altrettanto potente aggiornamento storico-didattico, che metta in grado l’insegnante di dominare alcuni problemi e alcuni concetti ricorrenti, utili quindi non solo in questo caso. Fra i tanti, ne segnalo tre:

    -    Il concetto di popolo. Per noi indica un insieme organizzato di individui che condividono lingua, costumi, religione. Era così anche nel passato? Se osserviamo i “popoli” della regione, vediamo che spesso non era così. Spesso, un territorio era abitato da genti che parlavano lingue diverse, credevano in dei diversi, ma obbedivano a uno stesso re. A volte, invece, la situazione assomiglia parecchio alla nostra idea. Per gli egizi, ad esempio: dicevano di essere il popolo benedetto da Dio; gli altri erano impuri (perciò si lavavano quando venivano a contatto con loro). Per gli ebrei lo divenne nel periodo postesilico.

    -    Il concetto di etnogenesi. Come nasce un popolo? E’ una domanda che si posero fin dall’antichità, ma alla quale sappiamo dare una risposta solo ora. Nell’antichità, immaginavano che i “popoli” nascessero belli e fatti. E siccome non riuscivano a trovarne le origini nel luogo dove si viveva, erano convinti che venissero da altrove. Romani, ebrei, etruschi e popoli barbarici adottarono questa prospettiva. Il mito dell’esodo e della migrazione. Oppure, raccontavano che i popoli nascevano miracolosamente dalla terra che occupavano: ma questo, il mito dell’autoctonia, lo riservarono a sé gli Ateniesi, che si ritennero speciali fra gli umani.

    Noi, al contrario, sappiamo che i popoli si formano attraverso un processo, che non finisce mai. Gli ebrei, come tanti altri, “si formarono” attraverso scambi, commistioni, migrazioni e immigrazioni. E non cessarono mai di modificarsi.

    -    Il concetto di invenzione della tradizione. I miti (molti dei miti che si studiano a scuola), servono per costruire una comunità. Dunque, anche per costruire un popolo. Per costruire un “mito storico” solitamente si prendono pezzi di storia, residui del passato e li si rielaborano. Una tradizione parla del passato dunque, ma è fonte per la conoscenza del presente, nel quale fu elaborata.

    Direi che quando l’allievo avesse raggiunto queste consapevolezze, potrebbe affrontare la questione della Bibbia come fonte storica e dare un senso accettabile alla DOMANDA. E se la Bibbia avesse ragione? Certo, come tutte le fonti ha ragione. Ci fa capire in modo vivo i tormenti che lacerarono Israele, dopo la Catastrofe babilonese. Cosa fare per evitare il suo ripetersi? Il Nuovo Patto con Dio fu, per quel popolo, la garanzia che essa non sarebbe più tornata. Il passato che allora venne inventato è lo “strumento didattico” con il quale il Patto venne insegnato e reso credibile. Era il racconto di un amore fra dio e il suo popolo, continuamente rinnovato e continuamente tradito. Una storia, come ci hanno insegnato i tempi successivi, destinata ad altre catastrofi e ad altri pensieri laceranti.


    Il dibattito storiografico è uno strumento per insegnare

    In chiusura del suo libro Mario Liverani descrive lo spazio storiografico all’interno del quale il docente deve imparare a muoversi (pp. 404-407). Spiega che oggi  ci sono tre modi di guardare alla storia antica di Israele.

    Da una parte vi è l’approccio tradizionalista. Non può negare i risultati della ricerca moderna. Cerca allora di renderli inoffensivi. Elabora una nuova narrazione che segue il filo della vicenda biblica, corredandola (a mo’ di commento) delle nuove risultanze storiografiche. Queste narrazioni avranno tutte “un capitolo sui Patriarchi, magari per negarne la storicità, ma non sapendo rinunciare a un’età patriarcale (leggendaria o storica che sia) in testa alla vicenda di Israele. Tutte avranno un capitolo sull’Esodo e su Mosé, magari per affermarne la tardività, ma senza compiere il passo essenziale di dislocarne l’analisi all’epoca di pertinenza … E poi tutte avranno un’età dei Giudici e un’età della monarchia unita.”

    Di contro si batte l’approccio critico, che “drasticamente rifiuta di accettare come fonti autentiche le rielaborazioni tarde, e si ritrova in mano una storia dell’Israele pre-esilico talmente impoverita da rendere plausibile interrogarsi se sia davvero possibile scrivere una storia dell’Israele antico.”

    Il terzo approccio parte dalla considerazione che occorre tenere “nel dovuto conto il fatto che le retrospezioni tarde di norma conferiscono veste ideologica moderna a un materiale antico”. Il lavoro storico, dunque, è quello di usare la fonte biblica, non per chiedersi se avesse ragione o  meno, ma per indagare quali aspetti, quali fatti o problemi essa rielaborò. Per leggere “come in un palinsesto la vicenda antica sotto quella ricreata”.

    Liverani divide la storia di Israele in due periodi. Il primo è quello della “storia normale”, quello messo in luce dalla ricerca archeologica e storica moderne. Il secondo è quello della “storia inventata”, quello elaborato dagli scribi. La sfida per lo storico odierno è quella di “farle dialogare”. Di capire come si illuminano a vicenda, e da questa operazione ricavare il nuovo racconto dell’antico Israele. Questa operazione si effettua oggi, nel nostro mondo, con i nostri strumenti culturali. Domani, darà altri risultati.
    “Questo libro, conclude Liverani, è stato scritto nel 2001-2002, da un autore nato nel 1939 e la cui metodologia storica si è formata negli anni 1965-75. Sarebbe diverso se queste date slittassero indietro o in avanti di cinque o dieci anni”.

    Il dramma della didattica è che la vulgata manualistica è identica da decine e decine di anni. Ho ripreso una mia rapida indagine su questo argomento, svolta nel 1990. Undici manuali di media, scritti da autori di ideologia diversa, da quello in odore di eresia al cattolico tradizionalista. Tutti si attengono alla “storia inventata”, anche il manuale così laico, da ignorare quasi completamente l’argomento “ebrei”, se non fosse per le poche righe che dedica loro, ma rigorosamente legate alla versione tradizionale (Il manuale di storia, La Nuova Italia, Firenze 1991, pp. 39 s). Eppure, già da una decina di anni, circolava la prima messa a punto storiografica di Liverani (Le “origini” d’Israele. Progetto irrealizzabile di ricerca etnogenetica, in “Rivista Biblica Italiana”, XXVIII, 1980, pp. 9-32).

    Quindi – oggi - da almeno 35 anni sono disponibili versioni alternative a quelle tradizionali. Per giunta, non sono nemmeno marcate da controversie ideologiche. Presentando quell’articolo ai lettori della rivista biblica, prevalentemente di ambito religioso, il curatore spiegò che per quanto strana ai loro occhi, si trattava di una prospettiva storica nuova, che occorreva conoscere. E, oggi, al primo posto fra i ringraziamenti, Mario Liverani colloca il Pontificio Istituto Biblico.
    Dunque, un altro racconto è possibile. Mi piacerebbe che lo diventasse anche nelle scuole. Credo che sia la condizione ineludibile perché la storia imparata in classe possa diventare uno strumento critico, a disposizione dei cittadini.

     

    Lo spazio palestinese
     

    Lo scenario della vicenda biblica. A ovest del Mar Morto c’è la regione dell’altopiano centrale. Il monte di Giuda corrisponde grosso modo all’omonimo regno, che confina a sud con il deserto del Negev; mentre il monte di Efraim corrisponde al regno d’Israele; a nord, all’altezza del monte Carmelo e della baia di Akko, sfocia la valle di Yezre‘el, uno dei primi toponimi che alluderebbero a Israele.

     

    Cronologia essenziale

    Età del Bronzo: la regione palestinese fa parte dell’impero egizio. Non vi è traccia di popoli ebraici o proto-ebraici
    XIII-XII secolo: la crisi economica, climatica e bellica (i popoli del mare) distrugge gli Ittiti e fa arretrare i confini dell’impero egizio. Si produce una sorta di vuoto di potere nella regione siro-palestinese.
    1150-1050: la regione palestinese è a insediamento misto. Popolata da cananei e da filistei (che sono probabilmente di provenienza balcanica o vengono “dalle isole”, come scrivono le fonti); da pastori e da agricoltori. Si costituiscono le prime leghe intertribali. Si formano regni cantonali medio-piccoli
    1050-930: negli altopiani centrali (regione povera, rispetto alle coste e alle vallate fertili), si formano il regno di Saul, a Nord (il regno di Israele), con capitale Sichem, e quello di Davide a Sud, con capitale Gerusalemme. Dopo feroci lotte, Salomone assume il trono di Davide. E’ probabile che, sotto la sua guida, il regno di Giuda abbia ampliato la sua estensione. Tuttavia sembra una ricostruzione mitica quella dell’unificazione dei due regni. E’ dubbio ancora, se Salomone abbia eretto o no, il famoso tempio, che (in ogni caso) doveva essere di dimensioni assai modeste.
    925: a chiudere questa prima stagione regale, interviene il faraone Sheshonq. Dalla lista dei territori conquistati dal faraone, sembra chiaro che i regni ebraici sono separati, distinti e di piccole dimensioni.
    930-740: il regno di Israele si sviluppa intorno alla capitale Samaria. In una prima fase, questo regno privilegia i rapporti con la Fenicia e attua una politica militare vincente, dal momento che si ingrandisce vistosamente verso il nord. In una seconda fase, prende il sopravvento il partito favorevole a Damasco. Jehu uccide i membri della famiglia regnante e si insedia da usurpatore. Promuove una politica religiosa rigorista, volta a eliminare i fedeli di Ba’al. La storia di Israele finisce con Tiglat-pileser, sovrano assiro, che assale il regno e ne deporta gli abitanti
    930-720: il regno di Giuda è retto dalla “casata di Davide”. Anch’esso è scosso da sanguinose vicende di successione. Riesce a resistere più di Israele all’aggressione assira, accettandone l’autorità. Ma, pochi anni dopo, a seguito di una ribellione, viene anch’esso distrutto e annesso all’impero.
    740-640: il secolo di dominazione assira vede le deportazioni degli ebrei verso l’Assiria, e viceversa, dalla regione mediorientale verso la Palestina. L’economia riprende. Si impone il modello di una “divinità regale”, sul modello imperiale assiro.
    640-610: durante il suo ultimo periodo, gli assiri allentano la loro presa sulla regione. Questa recupera una fortissima indipendenza. E’ il tempo di Giosia, re di Giuda, e del cosiddetto ritrovamento della Legge nel Tempio. Giosia, nel suo lunghissimo regno (640-609), è il promotore di una politica di estensione territoriale, basata sulla guerra santa e protetta da Yahweh, dio unico nazionale.
    610-585: asservimento e distruzione seguono l’aggressione babilonese. Deportazioni delle élites e di gruppi contadini a Babilonia. Crollo demografico e culturale in Palestina.
    538 -446: fra l’editto di Ciro e l’impero di Artaserse, diversi gruppi rientrano in Palestina e avviano una politica rigorista, che ha due direzioni: verso il passato, con la riscrittura delle storie di fondazione (da Abramo, al Diluvio, al’Esodo, a Giosué e alla formazione di un regno unito yahwista). Verso il presente-futuro, con la costruzione di una società fermamente legata al culto di Yahweh, dio nazionale/universale, e all’obiettivo di dar vita a un regno di Israele, unito e indipendente.

  • L’Editto di Costantino o della gestione del passato

    Autore: Antonio Brusa

    Indice

    1. Le certezze
    2. E le certezze distrutte
    3. Che dicono i manuali stranieri
    4. Il Cosiddetto
    5. Wikipedia o a ciascuno il suo Editto
    6. Conoscere o commemorare?
    7. Costantino, 313. La mostra
    8. Le cose importanti. I valori e le radici.
    9. Ma se sei secchione e pignolo
    10. Il messaggio della mostra
    11. Troppo complesso

     

    1 - Le certezze

    Quelle sull’Editto di Costantino, Arnaldo Marcone ce le elenca con chiarezza. Quattro certezze fondamentali. Leggetele. Aprono un problema che non riguarda soltanto la questione dell’Editto, ma il rapporto più generale fra ricerca storica e divulgazione, fra ricerca e didattica e, forse, il senso stesso del nostro mestiere.

    Eccole:

    • Il documento che è consuetudine chiamare “Editto di Milano” non è un editto
    • Tale documento non fu promulgato a Milano
    • L’autore del documento non è Costantino, ma Licinio
    • I cristiani non ottennero la tolleranza attraverso quel documento perché l’avevano già ottenuta due anni prima in virtù dell’editto di Galerio dell’aprile 311.

    Marcone sottolinea che si tratta di “conclusioni inoppugnabili” stabilite da Otto Seeck, studioso tedesco di quelli che è bene non mettere in discussione a cuor leggero, pubblicate per giunta qualche tempo fa, nel 1891.

    Dunque è più di un secolo che si sa con certezza che Costantino e Licinio non si videro a Milano, la capitale occidentale del nuovo impero disegnato da Diocleziano, per emanare il famoso decreto, ma tutt’al più discussero sul perché quello vecchio (appunto emanato da Galerio) non venisse messo in pratica ovunque. In quell’occasione, probabilmente, decisero di inviare delle lettere per sollecitarne l’applicazione, cosa che fu fatta da Licinio, una volta tornato a Nicomedia, la capitale orientale. Dunque, è più di un secolo che si sa che quella vicenda, per come la conosciamo, è una invenzione. Dunque, è più di un secolo che la frase “Costantino emanò l’Editto di Tolleranza a Milano nel 313 d. C” è falsa; ed è più di un secolo che, invece, la scriviamo nei manuali, la insegniamo come verità scontata e ci facciamo su, come vedremo, tante altre belle operazioni.

     

    2 - E le certezze distrutte

    Da subito debbo confessare la mia crisi, di autore e di insegnante. Lo sapevo dell’Editto come tutti. Certo, ne conoscevo letture critiche. Ma in fondo, che i due Augusti, nel momento del loro accordo, avessero licenziato quel documento mi sembrava una cosa scontata, una tipica conoscenza manualistica. Insomma, ero convinto che fosse doveroso indagare sulle cause dell’Editto, le sue conseguenze, la sua filosofia e il contesto nel quale venne scritto, ma non sul fatto.

    Perciò, troverete quella frase anche nel mio manuale. Ora so che avrei dovuto scrivere, invece, una frase di questo genere: “Il 30 aprile del 311, Galerio emanò a Serdica, l’attuale Sofia, capitale della Bulgaria, l’Editto con il quale si concedeva libertà di culto ai cristiani”. Lo farò, non appena ne avrò l’occasione, come ho fatto in tutti i casi analoghi (dalla donazione di Sutri, ai servi della gleba, alle Crociate o alla Piramide feudale: sono un medievista e queste cose mi riescono meglio per quel periodo). Ma so che quando consegnerò il nuovo testo, il redattore farà un balzo sulla sedia e correrà dall’editore, che mi prenderà amichevolmente sottobraccio: “caro Tonio, il libro lo dobbiamo vendere, cerca di smorzare un po’ i toni, sai gli insegnanti non la prendono bene”.

    E mi dirà. Se proprio ci tieni tanto, fai così. Lascia la frase tradizionale sull’Editto, perché se l’aspettano tutti. Poi, a lato, ci piazziamo una finestra. Un “per saperne di più” o un “cosa dice lo storico”. Guarda, fanno così anche i tuoi colleghi di antichistica. Eva Cantarella, ad esempio, parla di Costantino, di Milano e del 313 con il relativo Editto, e rimanda all’approfondimento accanto (Corso di Storia Antica, Einaudi, Torino 1995). Una scheda lunga e articolata che inizia con queste parole: “Il primo atto formale che permise ai fedeli della religione cristiana di praticare liberamente il proprio culto è quello di Galerio”. E’ la prassi manualistica. Ragazzi, imparatevi l’Editto, poi ai pignoli e ai secchioni gli diciamo la verità, o un qualcosa che le si avvicini. Tanto, la scheda di approfondimento la si può sempre togliere, come – in questo caso - accade nell’edizione successiva del 2001 (Le tracce della storia, Einaudi, Torino).

     

    3 - Che dicono i manuali stranieri

    Ma prima di andare avanti, è necessaria un’avvertenza. Non voglio mettere sotto accusa i manuali e nemmeno i bravissimi colleghi che li scrivono. D’altra parte, mi sono messo io, per primo, nella schiera dei peccatori. Né vorrei che si pensasse ad un’ulteriore polemica sull’arretratezza della scuola italiana. Per questo motivo, con l’aiuto di Luigi Cajani, con il quale ho ragionato su questo argomento, mi sono andato a vedere dei manuali tedeschi. Più o meno sono come i nostri. Forse solo più sintetici e, perciò, più assertivi. Ad esempio, Martin e Zwoelfer scrivono che Costantino “pagò il suo debito con il Cristianesimo, stabilendo a Milano, con il suo collega Licinio, che i Cristiani e tutti gli altri avrebbero avuto la possibilità di praticare il loro culto”. (Geschichtsbuch 1, Cornelsen, Berlino 1987), p. 145. Oppure Askani e Wagener citano il “cosiddetto Editto di tolleranza”.  (Anno 1, Band 1, Westermann, Braunschweig 1994, p. 182).

     

     

    Certamente, uno di noi coglie in queste espressioni il filo di ironia, la presa di distanza. Ma, come sappiamo tutti, guai a cercare di far comprendere agli allievi, anche se sono tedeschi, queste sfumature, senza passare per professori pedanti e rompi-qualcosa.

     

    4 - Il Cosiddetto

    In realtà, la presa di distanza è obbligatoria, come ammonisce Laura Franco, nel catalogo della Mostra dedicata all’Editto. “Si aggiunge in genere l’aggettivo “cosiddetto”, quando si parla dell’Editto di Milano”, osserva nel suo contributo Costantino nelle fonti letterarie fra storia e mito, in Costantino 313 a.C, p. 58. Ma non c’è bisogno di ricorrere ai manuali di leggibilità, per sapere che questi “cosiddetti”, che noi studiosi amiamo tanto, per limare, specificare, prendere le distanze, sono un macigno nella comprensione diffusa. Il lettore medio li salta, perché non ne capisce bene la ragione. Ma lo fa anche lo storico non specialista. Ad  esempio Jerry Bentley, il grande storico americano scomparso di recente, scrive nel suo affascinante manuale di storia Traditions and Encounters. A Global Perspective on the Past, Mc Graw Hill, N.Y, 2009, p. 308 che Costantino fece una cosa grandissima con il suo Editto (senza virgolette). E, come lui, tantissimi colleghi, fra i quali la maggior parte degli studiosi che scrivono sul catalogo.

     

    5 - Wikipedia o a ciascuno il suo Editto

    Wikipedia è probabilmente lo specchio di una battaglia delle virgolette, diventata ormai internazionale.

    L’edizione tedesca è precisa. Cita subito l’autorità imprescindibile, quell’Otto Seecks che abbiamo visto sopra, e mette in chiaro la cronologia: prima Galerio, autore delToleranzedikt, che vuol dire Editto di Tolleranza, senza virgolette,poi la battaglia contro Massenzio, e buoni ultimi Costantino e Licinio, dei quali si specifica che non emanarono un Editto. Ma i tedeschi sono gli unici (potenza di Otto Seecks?).

    La stessa cronologia è ripresa dall’edizione latina, che non ha dubbi: “Edictum tolerationis Galerii est finis persecutionum religionis Christianae in Imperio Romano”, dice in un latino, così chiaro che lo capisce anche chi non lo sa. A scanso di equivoci, qualche riga sotto si ribadisce che quello di Milano non fece che confermare ciò che già era stato stabilito da Galerio. Questo alla voce dedicata a Galerio. La voce sull’Editto di Milano, specifica che si trattò di una riunione in seguito alla quale vennero mandate delle lettere che possono essere intese come un complemento dell’editto di Galerio.

    L’edizione francese è sconcertante. Riporta tutte e due le versioni. Prima quella sbagliata e poi quella giusta. Senza un’avvertenza al lettore. Insomma: questo è quello che si dice, fate un po’ voi.

    La versione polacca dice che l’Editto è stato pronunciato dai due imperatori (…) nel 313 a Milano, uniti dalla fede nell’impero romano. Prosegue affermando “da questo momento, il cristianesimo non ebbe più ostacoli. In base a questo editto furono restituite alle comunità cristiane palazzi e terre di proprietà ecclesiastici”. Cita, a supporto, il resoconto di Lattanzio, che vedremo subito, spacciato (ma è una prassi consueta nella rete) come testo dell’Editto.

    L’edizione spagnola distingue fraLa tolerancia del Cristianismo, così viene chiamato l’ Editto di Milano, del quale si racconta la versione tradizionale, el’Edicto de Tolerancia de Nicomedia, che sarebbe quello di Galerio, declassato a “antecedente”.

    L’edizione finlandese spinge per una interpretazione progressiva, secondo la quale l’Editto di Milano fu un perfezionamento di quello di Serdica.Lo dice sulla base di una fonte vecchiotta, per quanto informatissima, Philip Schaff, il teologo e storico protestante svizzero, che scrisse nel 1800 unaStoria della Chiesa, il quale sostenne che con l’Editto di Milano si passò da una neutralità negativa a una positiva, che apriva le porte all’adozione del Cristianesimo come religione ufficiale. L’opera è in inglesee forse per affinità linguistica anche gli ungheresi adottano un’interpretazione simile.

    Chi vuole chiudere questo giretto con un po’ di divertimento, vada a consultare l’edizione italiana, per la quale l’Editto ci fu, ed  è presentato come quello vero, ma non era il primo, perché ce ne fu un altro, sempre di tolleranza, nel quale però venne concessa ai cristiani solo un’indulgenza: e qui l’equivoco con la prassi penitenziale cristiana è inevitabile come le virgolette, da spargere a piene mani (Se riuscirete a capirci qualcosa, non vorrà dire che siete bravi, ma solo che siete perfettamente inseriti nello schema di funzionamento di questa nazione).

     

    6 - Conoscere o commemorare?

    Virgolette, dunque, ma decisive, quando si parla della creazione di un evento, come le celebrazioni costantiniane. Ecco come vengono presentate dal giornale della diocesi ambrosiana.

    Ebbene, per commemorare dal punto di vista scientifico tale centenario e per discutere tutti gli aspetti problematici connessi a quello che per l’appunto definiamo convenzionalmente come “editto” (…)

    Dunque, che sia un Editto è una convenzione, non una realtà storica. Però questa convenzione è indispensabile sia per fissare l’anniversario (che si celebra solitamente per qualcosa che è realmente avvenuto), sia per designare la città – luogo reale - dove commemorarlo (vi figurate i milanesi che festeggiano l’ “Editto Bulgaro di Tolleranza”?). Ma questo imbroglio fra realtà e invenzione, cede sicuramente il passo a quella perla della “commemorazione scientifica”, che avrete sicuramente notato, e sulla quale gli studiosi dei rapporti tra storia e memoria potrebbero scrivere libri.

     

    7 - Costantino, 313. La mostra

    E siamo arrivati alla mostra. Ci dovevamo tornare perché il bello dello stereotipo dell’Editto è che l’articolo di Marcone, che me lo ha svelato, è pubblicato proprio nel catalogo della mostraCostantino 313, svoltasi a Milano in occasione del suo 1700 anniversario, e ora aperta a Roma, al Colosseo Editto di Milano: dalle persecuzioni alla tolleranza, pp. 42-47.

    Questa esposizione si apre con il famoso brano di Lattanzio, quello da cui prende il via l’invenzione dell’Editto. Tu entri e ti accoglie la prosa familiare del grande scrittore cristiano.

     

     

    Pensi. Come sono simpatici questi due imperatori, che si vedono a Milano, chiacchierano come due tipi qualunque, e a un certo punto fanno: ma perché non li lasciamo liberi, questi benedetti cristiani? Qui, però, la nota erudita me la dovete concedere, perché serve a spiegare almeno una parte della confusione. Noi non possediamo il testo di quel documento che chiamiamo “Editto di Milano”. Oltre ad una versione ridotta di Eusebio di Cesarea, disponiamo solo dell’ampio resoconto di Lattanzio, autore decisamente schierato a favore di Costantino, e da questi assunto come precettore del figlio Crispo (en passant, Costantino spese veramente male i soldi per la sua istruzione, dal momento che lo fece ammazzare). Sappiamo, dunque, che le precauzioni interpretative sono obbligatorie, in situazioni come questa (nella mia piccola ricerca su Internet, ho trovato perfino il racconto di Lattanzio suddiviso in paragrafi numerati “come se fosse” un documento legislativo.

    Quindi ti aggiri fra i pezzi (belli; emozionanti). Scopri un impero dalle tante religioni. Vedi la mano di Sabazio – dio della nascita e della morte – la mano con le tre dita distese, alla quale si ispirò il gesto cristiano della benedizione. Ammiri un bassorilievo raffigurante Mitra, con i resti della colorazione originale (il dio ha il volto dorato e il mantello rosso). E poi Iside, Giove Dolicheno, il Sol Invictus (accanto al quale Costantino amava farsi raffigurare nelle sue monete d’oro) e tanti altri.

     

     

    La convivenza di questa moltitudine di culti era garantita dall’imperatore, anche prima del nostro Editto. Certo, si sentiva nell’aria una “ricerca del monoteismo”, si premurano di avvertirci i curatori, che evidentemente dispongono di speciali fonti di informazione; per quanto, curiosamente, proprio dopo la legalizzazione completa del Cristianesimo (appunto dopo l’Editto), questa pacchia libertaria finì, dal momento che gli imperatori cristiani si dettero a vigorose campagne di repressione di ogni religione che non fosse quella cristiana, per giunta nella versione che di volta in volta ritenevano ortodossa. I curatori della mostra non mancano di rilevare, infatti, che da subito Costantino impose “qualche limitazione” a questa tolleranza. Un eufemismo si direbbe, visto che appena l’anno successivo al nostro Editto di Tolleranza, si celebrò il concilio di Arles, con la condanna dei donatisti; sei anni dopo vennero proibiti i sacrifici pagani e, da allora, seguì un crescendo ininterrotto di repressioni dall’alto e di violenze dal basso, che portò alla scomparsa di quella varietà di religioni che ci affascina visitando questa mostra. Nella quale, per contro, si racconta con dettagli delle persecuzioni contro i cristiani, illustrate con immagini efficaci di condannatiad beluas , che sfortunatamente non si riferiscono mai a martiri. Non lo può essere, ad esempio, questa scena nella quale un orso sta per sbranare una ragazza legata ad un palo (la si riconosce a destra nella mia pessima foto), troppo sensuale e svestita per essere una santa da venerare.

     

     

    8 - Le cose importanti. I valori e le radici.

    Ma non cavilliamo, dice la mostra. Qui si parla di cose più importanti e attuali. Di tolleranza e di convivenza dei diversi. E, naturalmente, delle radici cristiane di tutto ciò. Questo è il succo che il visitatore comune deve ricavare dalla sua visita. Inoltre, se sei quello che ne vuol sapere di più (e ti senti anche di spendere qualche euro in più), eccoti il catalogo. La sua apertura, di autorità e sponsor, ti incoraggerà in questa interpretazione, come rivela questa rapida antologia.

     

    Ci sono date che partono da una città e arrivano al mondo. Nel 313 Milano proclama “ai Cristiani e a tutti gli uomini la libertà di seguire la religione che ciascuno crede”  (Giuliano Pisapia, sindaco di Milano)

     

    Il rescritto, a firma dei due Augusti Costantino e Licinio, segna la fine delle persecuzioni contro i cristiani e l’atto di nascita della libertà religiosa, ben diversa dalla semplice tolleranza” (Angelo Scola, cardinale)

     

    La celebrazione dell’Editto di Costantino ci ricorda di un antico primato di Milano, da sempre storico crocevia di esperienze e laboratorio civile di sviluppo” (Stefano Boeri, assessore alla cultura di Milano)

     

    Con quella rivoluzionaria decisione Milano divenne il luogo simbolo dell’integrazione e della convivenza di fedi ed etnie diverse” (Diana Bracco, Presidente della Fondazione Bracco)

     

    9 - Ma se sei secchione e pignolo

    E lo devi essere proprio, perché non ti devi fermare alla visita, né ti devi limitare a sfogliarne il bel catalogo e a leggiucchiarne un articolo qua e là. Devi individuare proprio quello di Marcone, e giungere sino alla fine, quando lo storico elenca le certezze che già sapete.

    Ma se lo farete anche voi, capirete che non è una questione di date né di pedanteria erudita. Infatti: un conto è sapere che quell’Editto fu promulgato da Galerio, imperatore talmente pagano e talmente mal visto dai cristiani (fu proprio lui che spinse Diocleziano a iniziare la sua persecuzione), che Lattanzio lo fece crepare tra le sofferenze nel suo De mortibus persecutorum; un conto, ancora, è sapere che perfino l’”Editto cosiddetto”, o il “rescritto” come puntualizza il cardinale Scola,  fu promulgato da Licinio, che era quello pagano della coppia di Augusti. E un conto totalmente diverso è essere convinti che quell’Editto fu opera dell’imperatore che era, o che sarebbe diventato cristiano. Se, infatti, furono gli imperatori pagani a promulgarlo, vuol dire che esso venne pensato per ragioni che per loro erano di “buon governo”. Probabilmente si convinsero che era quello che ci voleva per andare avanti, e si comportarono di conseguenza. Nel caso contrario, come sappiamo tutti, quell’Editto si inscrive in un percorso destinato a portare alla vittoria del Cristianesimo. E ci suggerisce che noi siamo tali (tolleranti e aperti) proprio perché siamo inseriti in quel percorso.

    Che i cristiani potessero liberamente celebrare i loro culti, dunque, era già un fatto acquisito nel 313. Certamente, c’era chi si opponeva (come Massimino Daia, il Cesare che fu sconfitto da Licinio). Ma certamente non Massenzio o qualcuno degli altri pretendenti al trono, che Costantino fece fuori, uno dopo l’altro. E questo forse ci obbliga a guardare da una prospettiva diversa anche la faccenda del Ponte Milvio.

    Cambia totalmente anche la questione del rapporto fra Editto e celebrazione della Tolleranza. Infatti, se è vero che pochi anni dopo la sua promulgazione, Costantino e il suo nuovo entourage cristiano dettero il via a delle pratiche restrittorie della libertà religiosa, allora ne dovremmo trarre la conseguenza che la stagione della tolleranza fu brevissima, e che Costantino, in luogo di inaugurarla, fu quello che la chiuse.

     

    10 - Il messaggio della mostra

    Uno spostamento di due anni (311/313), e il messaggio della mostra si rovescia. Oggi il messaggio è: “il bene della tolleranza ha le sue radici in Costantino, e dunque nell’avvento del Cristianesimo. Dura dunque da 1700 anni, e perciò lo celebriamo tutti, laici e cristiani e di qualsiasi religione”. Potrebbe essere, invece: “Quella che consideri “tolleranza” durò una manciata di anni, e poi scomparve rapidamente. E’ un bene fragilissimo, ci dicono quel periodo e quegli eventi, che pure consideriamo fondanti. Perciò datti da fare se ci tieni veramente”.

    E mi sembra che Arnaldo Marcone non lasci alternative, quando conclude che è alquanto improprio parlare di “tolleranza” e di “persecuzione” per quei tempi. Si trattava, dice, di un fluttuare di situazioni, mai generali e mai durature e mai, soprattutto, nette. Questa mostra, dunque, dovrebbe aiutarci a prendere le distanze, piuttosto che esaltare fieramente i quarti di nobiltà della tradizione occidentale.

     

    11 - Troppo complesso

    E’ quello che ti dicono, quando ti chiamano a organizzare una mostra, a scrivere un manuale o, come mi è capitato anche, a redigere dei programmi di studio. La gente non capirebbe. Bisogna essere chiari e semplici, e tu fai sempre dei problemi. Be’, proprio questa mostra ci insegna che si tratta di un alibi e che il “farsi capire da tutti” è proprio l’ultima delle preoccupazioni. Guardate queste foto. Sono alcune didascalie di oggetti presentati nella mostra. Ecco questa “Alzata frammentaria di coperchio di sarcofago con pastore crioforo”. Uno moderatamente ignorante come me deve smanettare con lo smartphone, per capire che “moscoforo” e “crioforo” sono più o meno la stessa cosa. Più o meno, ma non sottilizziamo. Altrimenti, senza dare nell’occhio, allunga lo sguardo alla versione inglese. Anche a saperne poco, quello shepherd carrying a lamb, lo guida alla soluzione. “Il buon pastore”. Ah. Fortunatamente sono di quelli che non hanno problemi con l’“alzata frammentaria di sarcofago”.

     


    E l’inglese mi salva anche per capire che cos’è questo oggetto, che a prima vista penserei fosse uno stravagante “portatore di tavola”.Trapezoforo, infatti, recita minacciosa la didascalia, mentre la traduzione mi rassicura. E’ la gamba di un tavolino. Ma a quella successiva ci dobbiamo arrendere tutti, gli italiani sfortunati e gli inglesi (che, come avrete notato, sono trattati più umanamente dai curatori della mostra). La “lucerna bilicne”, infatti, ci rimette tutti al nostro posto.

    Se veramente il “farsi capire” fosse il motore delle scelte e delle semplificazioni, allora avrebbero scritto “Buon Pastore, “Gamba di tavolino”, “Lucerna a due luci”. Senza trascurare, ovviamente, il termine tecnico. Quello ci vuole, e chi è bravo e vuole veramente farsi comprendere, sa anche dove e come metterlo. E riesce anche a valorizzarne l’importanza (a far intendere anche quella, infine).

    No, ci dice questa mostra. No, ci dicono “gli approfondimenti”. No, ci dicono queste didascalie e queste virgolette. Il capire è un qualcosa di pochi. Degli esageratamente pignoli. Gli altri, la gente, si accontenti delle storie facili, quelle che già circolano e alle quali è abituata. Si limiti a quelle “spiegazioni semplicistiche e riduzionistiche, secondo le quali fu Costantino, facendo del cristianesimo la religione ufficiale dell'impero, a determinarne definitivamente il successo" (Questa frase, di Andrew M. Greely, un prete irlandese, sociologo e giornalista, l’ho trovata nel sito curato da Andrea Nicolotti, al quale rinvio per chi voglia continuare a informarsi su questo genere di argomenti).

     

  • L’Immaginario della Shoah e della guerra

    Autore: Claudio Monopoli

    Continua il percorso inaugurato tre anni fa dall'Università di Bari sulla storia e la didattica della Shoah. L'insegnamento e la formazione attraverso un'equilibrata strategia didattica e fuori da ogni distorsione retorica e demagogica, sono gli obiettivi che lo hanno accompagnato fin dall’inizio. Il tema di quest’anno è stato L'immaginario della Shoah e della guerra (17 e 18 ottobre 2014). Se è vero che la nostra epoca è definibile "età delle immagini", è altrettanto vero che i metodi di comunicazione e di didattica storica sono obbligati ad affrontare questo argomento.

     

    Gli aspetti teorici

    Introducendo i lavori, Francesca R. Recchia Luciani ha esaminato il problema dell'effettiva rappresentabilità della Shoah. La cultura oggettivo-visuale e artistica ha fatto spesso ricorso a strategie di trasmissione e riproduzione di sentimenti e stati d'animo, con l'obiettivo di permettere un "transfer" emotivo nell’osservatore. Una volta aperta l'epoca "del trauma senza trauma" (D. Giglioli), la pratica della riproduzione della sofferenza, tuttavia, ha richiesto l’uso di immagini sempre più forti e spettacolari per far fronte alla perdita degli effetti emozionali che la loro estrema diffusione ha provocato, rendendo non scontato il processo di empatia. In un simile contesto, per non smettere di comprendere il dramma della sofferenza, di Auschwitz, non è più l'immagine in sé ad aiutarci, ma l'immaginazione che, richiamandosi alle nostre esperienze corporali, permette la condivisione partendo dalla constatazione della comune appartenenza al genere umano.

    Nel campo della didattica e della formazione, spesso non è facile trattare adeguatamente i temi "violenti" della storia. Ma è anche vero che non si possono escluderli dal curriculum. Partendo da questa necessità, Antonio Brusa ha proposto l’istituzione di un “laboratorio del tempo presente”. Muovendo dalle "questioni sensibili", ovvero dagli eventi angoscianti odierni, l'insegnante può sempre aprire delle "finestre didattiche" sul mondo contemporaneo. E’ fondamentale non abbandonare tali questioni alle commemorazioni e alle celebrazioni, oppure riservare loro unicamente gli ultimi istanti della programmazione. Il progetto di Laboratorio del tempo presente ha dunque l'obiettivo di costruire capacità e metodi di analisi su tematiche che attraversano l’intero racconto storico (immigrazione, malattie, guerra, ecc.) e di saggiare le capacità dei ragazzi nell’interpretarle. Il racconto scolastico, perciò, deve guardarsi dalle eccessive semplificazioni; si deve aprire al dibattito. Nel caso della guerra, deve accogliere le diverse “configurazioni” di questo evento: dall'alto, dal basso e quella culturalista (Prost e Winter). Dal canto loro, anche le immagini rischiano continuamente la banalizzazione. A questa si oppone il metodo storico: chiedersi i contesti nei quali l’immagine è prodotta, gli scopi dell’autore, i mezzi di produzione dell’immagine e, infine, la sua circolazione e il pubblico dei suoi fruitori. Questo vale tanto per un bassorilievo assiro, come per le foto delle atrocità naziste.

    Offrendo la sua preziosa testimonianza, Pino Bruno, reporter di guerra dal 1990 al 1994, ha illustrato come vengono realizzate le immagini di guerra e quali fattori influiscono sulla sua divulgazione. La stessa figura del giornalista di guerra di oggi, non più soldato come nel periodo antecedente alla guerra in Vietnam, implica una selezione all'origine dell’immagine. Un giornalista embedded, al seguito dell'esercito è obbligato a riprendere solo determinate scene, mentre i giornalisti “liberi” sono costretti a riprendere immagini lontano dalle zone di guerra. Non solo: diversi programmi di elaborazione grafica intervengono oggi sull'immagine finale, destinata alla diffusione, con la finalità di evidenziare o eliminare determinati elementi, a volte trasformando il senso complessivo dell'immagine.


    Il lavoro pratico

    I lavori della prima giornata hanno compreso un secondo blocco tematico, inaugurato dall'intervento di Elena Musci, sul tema della visita come proposta didattica. Il luogo storico si presenta come un insieme di dati materiali e simbolici in grado di richiamare eventi o figure. E’ una fonte stratificata nel tempo e "muta" se non vengono create le condizioni necessarie metterla in relazione con gli eventi passati. Per possedere le chiavi di comprensione di un luogo storico, è pertanto necessario raccontare questi raccordi e lavorare con le fonti. La visita didattica, supportata anche da mezzi digitali, può essere impostata interattivamente. Nello specifico, la Casa Rossa di Alberobello, meta della seconda giornata del corso, si presta ad un accurato lavoro di decostruzione, proprio a causa delle diverse funzioni che essa ha ricoperto a partire dal 1887.

    La Casa Rossa di Alberobello non è l'unico luogo utilizzato in Puglia come campo di concentramento. Nel suo intervento, Sergio Chiaffaratta ha illustrato questo aspetto di storia pugliese. Proprio all'indomani della guerra in Libia del 1911, circa quattromila libici vennero trasferiti nelle colonie penitenziarie delle Isole Tremiti, Gaeta, Ustica, Ponza, Caserta e Favignana. Anche durante la Grande Guerra, che aveva trasformato l’Adriatico in un fronte di battaglia, vennero istituiti numerosi campi di concentramento per i prigionieri austro-ungarici in diverse zone della Puglia e della Basilicata. Con l'emanazione delle leggi fasciste del 1926, molti dei luoghi già utilizzati nelle guerre citate furono impiegati come luoghi di confino, come ad esempio le isole Tremiti, che ospitarono diversi prigionieri omosessuali. Un altro importante passo è rappresentato delle leggi razziali del '38, che spinsero molti cittadini ebrei ad imbarcarsi dal porto di Brindisi verso la Palestina; e nel 1940 (fino al 1943) vennero istituiti numerosissimi campi di concentramento in tutt'Italia e in Puglia Fra questi: i campi di Pisticci (primo campo di concentramento italiano), Ferramonti di Tarsia, Isole Tremiti, Manfredonia, Gioia del Colle, ed ovviamente la casa Rossa di Alberobello. Con la liberazione di Bari del 1943, infine, vennero istituiti numerosi campi profughi e di transito, convertendo anche i vecchi campi di prigionia, come ad esempio i campi di Torre Tresca, Altamura e Santa Maria al Bagno.

    I lavori della prima giornata si sono conclusi con l'intervento di Raffaele Pellegrino, sul tema della Musica al servizio del Terzo Reich. Il singolare esempio preso in analisi è stato quello del campo di Terezin, situato a 60 km da Praga. In questo campo si realizzò il progetto nazista di creare un'immagine di fittizia del campo, presentato come fucina artistica e culturale. Internando musicisti ed esponenti del mondo culturale ebraico, i nazisti hanno mascherato gli orrori del campo di concentramento. La musica, inoltre, fu utilizzata nel sistema di potere del Terzo Reich come strumento di propaganda, filtrata dai nazisti attraverso la censura, i quali innalzavano a loro vessillo opere di autori da loro considerati rappresentanti della cultura ariana, come Wagner, Bach, Bruckner e Beethoven.

    La seconda parte del corso, la mattina del 18 ottobre, è consistita nella visita della Casa Rossa di Alberobello, a cura da Francesco Terzulli, autore di La casa rossa. Un campo di concentramento ad Alberobello e Una stella fra i trulli. Impiegata dal 1887 (data di fondazione) al 1939 come Scuola Agraria, fu utilizzata prima dai fascisti come campo di concentramento fino al 1943 per sudditi inglesi, ebrei stranieri, ex jugoslavi ed ebrei italiani; poi dal governo italiano come campo di prigionia per i fascisti fino al 1946; e successivamente, in età repubblicana fino al 1949, la Casa ospitò donne straniere di tutta Europa ex-collaborazioniste o prostitute o sbandate, bambini, profughi di tutta Europa, e non solo. La Casa, nel corso del tempo, ha conosciuto l’intera varietà della detenzione bellica: campo di internamento, prigionia, confino, concentramento, transito e per profughi.

     

     

  • L’insegnamento della storia e il suo rapporto con la verità. Da Gradara alle Fosse Ardeatine

    Autore: Charles Heimberg


    Charles Heimberg insegna Didattica della storia e dell’educazione civica a Ginevra ed è coordinatore di «Le cartable de Clio» (consultabile sui siti dell'Università di Ginevra e dell'APRIDH), la rivista che negli ultimi anni si è imposta all’attenzione degli studiosi di didattica e ai professori di storia di lingua francese. Ci fa il regalo, a noi di HL, dell’editoriale dell’ultimo numero, dedicato alla questione del falso. Un tema che ci interessa da vicino. Abbiamo spesso parlato di stereotipi e conoscenze storiche erronee, soprattutto per quanto riguarda il Medioevo, e abbiamo condotto molte battaglie sui falsi costruiti intorno a luoghi e figure, come Federico II e Castel del Monte. In questo testo, a partire dall’analisi di alcuni aspetti della retorica del falso, Charles pone un dilemma che interessa storici e insegnanti: se il nostro compito sia solo quello di svelare gli inganni, oppure anche quello di introdurre i «non storici» nel difficile mondo delle «verità storiche». Difficile perché è un mondo sempre complesso. (HL)

     

     

    Indice

    • Storia e turismo
    • Didattica del falso
    • La storia come deposito di leggende
    • Lo storico e il poliziotto

    La rocca di Gradara. Tutte le immagini, escluso quella delle « sala delle torture » sono tratte dal sito ufficiale

     

    Storia e turismo
    Fra Rimini e Ancona, proprio sul confine settentrionale delle Marche, il borgo fortificato di Gradara si staglia maestoso con le sue mura, dall’alto di una collina. Le guide turistiche gli consacrano molte stelle e foto a tutta pagina.

    Citiamo da una di queste: il castello regala «un intenso tuffo nel passato, grazie al suo ottimo stato di conservazione e all’accurata opera di ricostruzione. Varcata una delle imponenti porte, ci si ritrova così nel Duecento, quando, a seguito di lotte di possesso, i Malatesta, con il capostipite Giovanni, riuscirono a imporsi su una zona così strategica per i loro contrasti con i Montefeltro. Iniziò così la costruzione della Rocca, a partire dalla vecchia torre quadrata, innalzata alla metà del secolo precedente per volontà dei signori locali Pietro e Rodolfo Griffo. Questa divenne l’imponente e robusto mastio con la sua corona merlata, da cui si aprono i quattro lati della costruzione a pianta quadrilatera legati da tre forti torri poligonali. Fu Pandolfo Malatesta a portare a termine la costruzione (1307-1324), con i cammini di ronda coperti, lungo le cortine e le torri d’angolo poligonali»1.

    Un’altra guida, ancora più diffusa, racconta dell’«incanto di un angolo di Medioevo incontaminato», non senza precisare, fra parentesi, che lo si deve anche « ai restauri condotti nel 1923 ». Il testo di questa descrizione è scandito da una successione di date che ne suggeriscono la grande antichità: «In effetti, molto tempo è passato da quando nel 1032 – così riporta un documento ufficiale – si ha testimonianza del primo insediamento su questo colle in riva destra del Tavollo; e, da quando, nel ‘200, si mise mano alla costruzione del fortilizio. Nel secolo successivo si colloca l’erezione della cortina difensiva, per volere dei Malatesta che del centro furono signori sino al 1463; a loro si sostituirono gli Sforza, i Della Rovere e, dopo il 1631, il governo diretto della Chiesa» 2.

    Tuttavia, la realtà di Gradara è moto diversa. In effetti, i luoghi non erano altro che un ammasso di rovine, nel momento della loro ricostruzione integrale, iniziata nel 1923. Certamente, tutto è stato tentato per assicurare una certa verosimiglianza a questa ricostruzione e al suo aspetto medievale. Questo non toglie che si tratti di una ricostruzione, che non ha nulla di autentico.

    Ma c’è un altro elemento, che costituisce la particolarità di questo luogo, questa volta del tutto leggendario. Una tradizione pretende che la celebre tragedia, narrata nel V canto dell’Inferno, si sia svolta a Gradara, in una delle stanze della fortezza: l’assassinio compiuto da Gianciotto Malatesta, marito geloso e podestà di Pesaro verso la fine del XIII secolo, nei confronti di Paolo Malatesta e della cognata, Francesca da Rimini, due amanti in preda ad una passione bruciante.

     

    Didattica del falso
    Qualche anno fa, Antonio Brusa ha coordinato la redazione di un gioco, destinato alle scuole, nel corso del quale, camminando per il borgo, gli allievi scoprivano dei documenti storici che li conducevano a scoprire che stavano visitando una ricostruzione recente3. Questo procedimento ludico-didattico si smarca fortemente dalla messa in scena del falso, ossia dalla «Didattica del Falso», che caratterizza oggi la fortezza di Gradara e le didascalie che si leggono sui pannelli, apposti lungo il percorso di visita.
    Nella corte centrale del castello, su un muro che non è molto visibile da tutti i visitatori, si trova questa targa, affissa dalla municipalità :

     

     

     

    Ecco, in un solo colpo abbiamo una delle principali chiavi interpretative del sito: questo era in rovina e “risorse” nel 1923. Tuttavia, durante il percorso della visita, tutto viene fatto per richiamarla il più discretamente possibile. La lettura attenta del dispositivo narrativo-museale si rivela molto significativa. Prendiamone rapidamente qualche esempio.
    La prima sala è presentata come la Camera della tortura. Un pannello spiega che doveva trattarsi di un magazzino, ma che l’iscrizione Improbatis Antidotum (Rimedio alla Cattiveria), incisa sulla pietra esterna della finestra, significa senza dubbio che fu utilizzata come prigione. Degli strumenti di tortura, molto eloquenti, sono, d’altra parte, inchiodati alle pareti.

     

    Strumenti di tortura, aggiunti alla cosiddetta “sala delle torture” del castello di Gradara

     

    Il pannello esplicativo della Sala di Sigismondo e Isotta è particolarmente rivelatore. In effetti, spiega con precisione il significato dei motivi decorativi, legati alla simbologia araldica dei Malatesta. Ma è solo nell’ultimo paragrafo che si viene informati della data di queste decorazioni: «Nel soffitto di legno, anche questo decorato negli anni venti con dei falsi cassetti, i motivi araldici sopramenzionati riappaiono in miniatura». Piazzata in fondo al pannello, la frase «anche questo decorato negli anni venti» permette così di non occultare la verità, ma senza metterla in evidenza, per riservarla al solo visitatore attento o a colui che conosce già la natura reale del sito.

    Nella Sala del Cardinale, al contrario, si fa subito allusione alla ricostruzione degli anni venti, ma solo per sviluppare dopo una serie di osservazioni sul baldacchino del XVII secolo. Lo stesso procedimento è adottato in altre occasioni: le pitture e gli oggetti antichi, conservati e esposti nelle sale ricostruite, sono oggetto di commenti dettagliati sulla loro epoca e sul loro aspetto, e tutto ciò contribuisce fortemente all’illusione di un luogo autenticamente antico.

     

     

     

    In storia, i miti e le leggende sono spesso presi per autentici, o sono confusi ad arte con il vero, la maggior parte delle volte a sostegno di qualche interesse del presente, che non ha nulla a che vedere con la scienza storica. Ma il falso, parziale o totale, porta qualche volta dei vantaggi economici. L’illusione del contesto medievale di Gradara è ottenuta non solo attraverso la ricostruzione delle strutture, ma anche attraverso una strategia didattica costruita da una parte su oggetti realmente antichi e dall’altra su un racconto che mette in rilievo ogni genere di informazione sul passato, neutralizzando in questo modo l’informazione sulla natura reale del sito. E’ perfettamente visibile nel sito promozionale4 . Ed è certamente, un'efficace valorizzazione della dimensione turistica di Gradara.  

     

    La storia come deposito di leggende
    Proprio accanto al castello, il borgo fortificato di Gradara, con il suo piccolo museo del Medioevo, degno di Disneyland, i suoi falsi strumenti di tortura e le sue passeggiate pittoresche, incrementa la sensazione, certo superficiale, di un tuffo nei tempi del Medioevo. Osservando i visitatori, e in particolare i bambini, l’idea di fare il guastafeste, svelando il falso e la realtà del luogo, non è del tutto scontata. Da un certo punto di vista, questi sono venuti per vedere qualcosa di medievale, si offre loro ciò che si aspettano, e tutti, perciò, dovrebbero essere contenti …

     

    Gradara: rievocazione di una battaglia tardo-medievale

     

    Gli esempi di volgarizzazione della storia che nascono dalla stessa logica non mancano nello spazio pubblico, e in particolare in quello mediatico. Costituiscono, d’altra parte, un potenziale e potente strumento di propaganda. «E’ nella certezza che il pubblico non ha né il tempo né le capacità critiche, che i maestri dell’inganno si impadroniscono del passato, del racconto del passato, per trasformarlo in un'arma di guerra politica, in un gioco che distrae e orienta, o in un gadget commerciale», afferma lo storico Nicolas Offenstadt5 .
    Ma ci sono delle altre trappole. Nel campo della storia, e nell’intero campo telematico suscettibile di interessare gli insegnanti di storia, le contro-verità abbondano. Alcune, fra le più clamorose, sono molto conosciute. Bruno Grosjean, alias Binjamin Wilkomirski, ha per esempio, fatto credere ai lettori di un libro molto ben scritto6, e validato da specialisti della questione, che fu un bambino ebreo sfuggito ai campi di morte, lui che fu, in realtà, un bambino svizzero abbandonato dalla madre, di Bienne. Enric Marco è stato uno degli ultimi, quanto efficace, presidente dell’Amicale de Mauthausen, per quanto non fosse mai stato internato e avesse in realtà raggiunto la Germania come lavoratore volontario. La sua soperchieria fu denunciata appena in tempo, nel 2005, prima della cerimonia commemorativa della liberazione del campo. Più recentemente, un eroe fabbricato dalla polizia italiana, Giovanni Palatucci, che era stato presentato come salvatore di centinaia di ebrei di Fiume (oggi Rijeka in Croazia), è stato smascherato come zelante poliziotto italiano, in una città contrassegnata da un elevato tasso di deportati ebrei. E, se fu deportato a Dachau, dove morì, ciò avvenne per i suoi contatti con gli Inglesi. Di recente, a seguito dell’inchiesta condotta dal Centro Primo Levi di New York, il suo nome è stato cassato da un’esposizione del Museo dell’Olocausto di Washington e il suo caso è sotto indagine presso lo Yad Washem, dal momento che fu insignito del titolo di «Giusto fra le Nazioni».

    La storia, come costruzione di un’intellegibilità del passato, si sforza di distinguere il vero dal falso, di reinterrogare senza sosta le nostre conoscenze, ivi comprese, a volte, le nostre certezze. Come a Gradara, e in molte altre situazioni, la storia critica e la sua didattica giocano talvolta il ruolo di guastafeste, perché prendono in considerazione gli agenti del «presente del passato» nella pluralità delle loro identità e dei loro atteggiamenti, senza mai rinchiuderli in categorizzazioni riduttive.

     

    Lo storico e il poliziotto
    Nella «parte teorica» di una Guide pour l’enseignement 1-2 de la Géographie, de l'Histoire et des Sciences de la nature, pubblicata nel 2012 sotto l’egida della Conferenza intercantonale dell’Istruzione pubblica della Svizzera Romanda e del Ticino (la CIIP), si sottolinea che il nuovo Piano di studi Romanzo (PER), valido per tutti i cantoni francofoni «ha fatto la scelta di una storia-problema che cosidera la storia come una procedura d’inchiesta». Una notizia da salutare con favore, se non fosse per il fatto che l’«inchiesta storica » di cui si parla,  viene paragonata a quella che un « ispettore di polizia» esegue dopo un incidente stradale. Ora, Il giudice e lo storico di Carlo Ginzburg ci ha da tempo avvertito della necessità di distinguere il lavoro dello storico da quello del poliziotto o del giudice: l’inchiesta storica, in effetti, non cerca dei colpevoli a tutti i costi, ma vuole ristabilire i fatti nel loro contesto e nella loro complessità. «Uno storico, ci dice Ginzburg, ha il diritto di trovare un problema, laddove un giudice non trova che un non luogo a procedere. Là c’è una divergenza importante, che suppone tuttavia un elemento che può collegare giudici e storici: l’uso della prova7».  A patto, certamente, che sia possibile trovarla.
    Le nozioni di verità e di prova sono in effetti più complesse di quello che sembra. Sappiamo che una diceria, per quanto inesatta, finisce per diventare un fatto storico, per quanto di quella natura particolare che caratterizza le credenze e le rappresentazioni collettive. E’ il caso, fra gli altri, di quella idea erronea, ma ripetuta ossessivamente fino ad oggi, secondo la quale se gli autori dell’attentato di via Rasella si fossero consegnati ai tedeschi, il massacro sanguinoso delle Fosse Ardeatine non sarebbe avvenuto il 24 marzo del 1944. Come è stato dimostrato, fra gli altri da Alessandro Portelli, le esecuzioni avvennero subito dopo l’attentato, e la cittadinanza venne avvisata a fatto compiuto della rappresaglia, ordinata da Hitler, con un manifesto che si concludeva con la celebre affermazione “l’ordine è stato eseguito”8 . Tuttavia, il ristabilimento della verità dei fatti (i manifesti nazisti vennero apposti dopo l’eccidio) non è bastato, nemmeno a distanza di tanto tempo, per neutralizzare l’effetto di una propaganda che ha stigmatizzato i partigiani.
    La questione del vero e del falso, del rapporto fra la storia insegnata e la verità, dunque, non può essere intesa come un semplice, per quanto doveroso, «disvelamento dell’imbroglio», quanto piuttosto come l’invito a integrare la nozione della complessità nelle pratiche scolastiche.

     

    Note:

    1. Marche in tasca. Castelli da scoprire nelle Marche, Fabriano, Claudio Ciabochi Editore, 2013, pp. 5-6.
    2. Quello del Touring Club Italiano per le Marche, di cui la Regione Marche. Assessorato al Turismo é coeditrice.  Milan, Touring Editore, 2001, pp. 71-72.
    3. Il gioco – Gradara Tantastoria - fu disegnato e realizzato da Elena de Feo e Ernesto Cecalupo, allora studenti di Didattica della Storia, presso l’Università di Bari. La prima sperimentazione fu fatta da due classi della scuola media «Michelangelo» di Bari, condotte da Luciana Bresil, durante una manifestazione di «Gradara Ludens», manifestazione organizzata da Bibo Cecchini, che nel corso degli anni ’90 fu il luogo principale di discussioni ludologiche in Italia. Ringrazio Brusa per avermi fatto conoscere il sito di Gradara.
    4. Consultato il 10 ottobre 2013.
    5. Nella sua prefazione a William Blanc, Aurore Chéry et Christophe Naudin, Les historiens de garde. De Lorànt Deutsch à Patrick Buisson, la résurgence du roman national, Paris, Inculte Essai, 2013, p. 7.
    6. Fragments. Une Enfance, 1939-1948, Paris, Calmann-Lévy, 1996.
    7. Carlo Ginzburg, Le juge et l’historien. Considérations en marge du procès Sofri, Lagrasse, Verdier, 1997 (1991), p. 23 (ed. Italiana: Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Feltrinelli, Milano 2006.
    8. E’ una questione affrontata in modo magistrale in una ricerca critica di storia orale nel bellissimo libro di Alessandro Portelli, pubblicato nel 1999 e ripubblicato di recente in edizione tascabile: L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Milano, Feltrinelli, 2012. E’ veramente deplorevole che questo libro non sia stato tradotto in francese.
  • L’insegnamento della Storia e la scuola di domani: ripensare il curriculum, ridefinire gli obiettivi

    Roma, venerdì 20 febbraio 2015
    Sala della Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea
    Palazzo Mattei di Giove - via Caetani, 32


    Seminario organizzato dalla Società italiana per la storia dell’età moderna  (SISEM), in collaborazione con l’Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea e con la Biblioteca di Storia moderna e contemporanea.

    Sono passati dieci anni dalla riforma del primo ciclo d’istruzione e alcuni anni dall’avvio della riforma della scuola secondaria di primo grado e, per quanto riguarda l’insegnamento e apprendimento della Storia, il bilancio appare decisamente sconfortante. Prevalgono in larga parte della scuola italiana gli strumenti didattici tradizionali, la ripetizione identica dei contenuti nei due cicli scolastici, mancano percorsi di approfondimento tematico e pluridisciplinare, la storia di genere rimane largamente sconosciuta agli insegnanti prima che agli studenti. Il programma e il manuale sono ancora troppo spesso, come cent’anni fa, l’alfa e l’omega della “Storia a scuola”.

    Mentre si discute di ‘buona scuola’, di riordino del ciclo superiore e della formazione e del reclutamento del personale docente c’è urgenza di riaprire anche il dossier sul curriculum della Storia lungo l’intero percorso di formazione. C’è la necessità di riconsiderare i tempi, i modi e i contenuti dell’insegnamento e apprendimento di questa disciplina fondamentale per la creazione di una cittadinanza attiva. Il seminario “L’insegnamento della Storia e la scuola di domani: ripensare il curriculum, ridefinire gli obiettivi” vuole rilanciare agli insegnanti, agli storici e a tutto il mondo della scuola questa questione fondamentale. Perché il passato torni a dialogare con il presente, nelle aule scolastiche, ogni giorno.

    Programma dei lavori

    0re 14
    Saluti del Presidente della Giunta Centrale per gli Studi Storici, Andrea Giardina e del Presidente della Sisem, Marcello Verga.

    Ore 14,30
    Introduzione: Andrea Zannini, Le ragioni di una riflessione

    Ore 15,00 – 16, 15
    Luigi Cajani, L’insegnamento della Storia in Italia e in Europa
    Elvira Valleri, La visione di genere nell’insegnamento della storia
    Camilla Hermanin e Lavinia Pinzarrone: L’insegnamento della storia nella realtà della scuola italiana

    Coffee break

    Ore 16,30
    Tavola rotonda Riforma della scuola e qualità dell’insegnamento
    Interventi di: on. Luigi Berlinguer, Marina Boscaino, Antonio Brusa, Mauro Piras, on. Milena Santerini
    Introduce: Maria Pia Donato
    Coordina: Giorgio Zanchini

    Ore 18.30
    Conclusioni: Walter Panciera, Una proposta degli storici modernisti per il curriculum verticale di Storia

    Interverranno inoltre il Presidente della Società italiana di Storia medievale (Sismed), Giuseppe Petralia, il Presidente della Società italiana di Storia contemporanea (Sissco), Agostino Giovagnoli, la Presidente della Società italiana delle storiche, (Sis) Isabelle Chabot.

  • La battaglia di Marignano e le origini della neutralità elvetica

    Autore: Michele Maria Rabà

    Non se l’era fatta sfuggire, “Repubblica”, l’occasione di commemorare la battaglia di Marignano. Scomparsa dall’orizzonte delle medie e periclitante in quello delle superiori, un tempo primeggiava fra le battaglie cinquecentesche, quelle che ebbero come teatro principale l’Italia. Perché, allora la commemorazione? Il motivo è che, secondo una vulgata, diffusissima in Svizzera, ma conosciuta anche in Italia, gli Svizzeri persero, e fu allora che cominciarono a prendere in considerazione l’idea di fare i neutrali. Una battaglia mitica, che i nostri vicini aggiungono alla leggenda di Guglielmo Tell e al giuramento dei Tre Cantoni, che, secondo la tradizione, smentita dalla storia quanto riconfermata ad ogni pié sospinto dai gestori pubblici della memoria storica, ha costituito il fondamento della Confederazione. Michele Maria Rabà ci aiuta a capire che cosa successe veramente in quei primi decenni del XVI secolo. (HL)

    La battaglia di Marignano, dettaglio. Attribuito a Maître à la Ratière


    Per gli storici non ci sono battaglie decisive

    Lunghi secoli di storiografia cosiddetta evenemenziale – fondata cioè sul ricordo di eventi, più che sulla ricostruzione di fenomeni – non potevano non lasciare la loro traccia nel tipo oggi più comune di approccio al passato, che consiste nell’interpretarlo, appunto, come una catena di fatti, alcuni irrilevanti, altri determinanti. Ecco perché tutte le guerre che non hanno partorito almeno una ‘grande battaglia’ – l’evento per antonomasia, capace più di ogni altro di condizionare l’immaginario, coinvolgendo il lettore di storia nel senso più emozionale e favorendone l’immedesimazione con i combattenti – sono rimaste anche senza memoria. Ecco perché, ancora oggi, pur avendo la letteratura scientifica in larga parte superato tali orientamenti, l’idea che l’esito di una sola battaglia possa condizionare in modo assoluto il corso della storia è quanto mai dura a morire.


    La battaglia di Marignano

    La battaglia di Marignano (combattuta ferocemente tra il 13 ed il 14 settembre 1515 da 20.000 svizzeri, 31.000 fanti e cavalieri del re di Francia, Francesco I di Valois, e da 12.000 veneziani al comando di Bartolomeo d’Alviano) fu indubbiamente uno scontro di dimensioni rilevanti per il periodo, sia per le cifre dei feriti e dei caduti che per l’accanimento degli eserciti in campo. Nella storia della Penisola e della Lombardia, tuttavia, quei due giorni di scontri sanguinosi significarono ben poco: per la seconda volta un re di Francia strappò ad uno Sforza – Massimiliano, protetto dall’imperatore di Germania, dal papa e dai Cantoni Svizzeri – il Ducato di Milano (il primo a riuscirci era stato il suo predecessore, re Luigi XII di Valois, che nel 1500 aveva sconfitto a Novara e fatto prigioniero il padre di Massimiliano, Ludovico il Moro), il cui possesso gli venne confermato l’anno dopo, con il trattato di Noyon, ma che perdette in meno di sei anni, quando a scendere in campo contro di lui fu il nuovo imperatore e re di Spagna, Carlo V (battaglie della Bicocca, 1522, e di Pavia, 1525).

    Ritratto giovanile di Massimiliano Sforza, Giovanni Ambrogio de Predis (1455 circa-dopo il 1508)


    Alcune domande

    Quale significato dobbiamo attribuire dunque alla battaglia nell’economia della storia svizzera? Fu davvero, come sovente si è argomentato, lo spartiacque tra un’età ‘eroica’, segnata dall’aggressivo protagonismo elvetico negli equilibri europei, e l’inizio del ripiegamento dei Cantoni e della loro vocazione alla neutralità, se non l’origine di tale ripiegamento? Di certo la periodizzazione tradizionale ha individuato nello scontro del 14-15 settembre 1515 il momento conclusivo di una fase di prorompente espansionismo, da collocarsi nel quarantennio compreso tra le Guerre burgundiche (1474-1477) e la sconfitta subita in Lombardia, al termine della quale la Confederazione originaria di otto cantoni (Achtörtige Eidgenossenschaft) arrivò a ricomprenderne 13 (Dreizehnörtige Eidgenossenschaft). Com’è noto, l’istituzione di raccordo centrale tra gli associati, la Dieta, venne sovente rallentata e persino ostacolata nell’esercizio delle proprie funzioni dai dissidi interni tra i singoli Cantoni e dall’attitudine dei più ricchi e dinamici (soprattutto Berna e Zurigo) a perseguire obiettivi politici autonomi e, talora, antitetici. Ma è altrettanto noto che, se l’indipendenza della regione dai poteri forti che la circondavano (gli Asburgo, a nord e ad est, la Francia ed il Ducato di Borgogna ad ovest, Milano a sud) venne garantita dalla natura montagnosa del suolo – che ne faceva una preda poco appetibile sul piano economico e costosissima da conquistare e controllare sotto il profilo militare –, l’aggressività degli elvetici verso l’esterno fu l’espressione di una fortissima volontà politica comune, alimentata dal dato, ancora una volta prettamente economico e demografico, del rapporto sfavorevole tra una terra avara ed una popolazione in continuo aumento. La diffusa consapevolezza di questo dato di fatto sta all’origine della creazione di uno strumento di guerra particolarmente originale e temuto, il quadrato di picchieri, massa mastodontica e organizzata di uomini estesa per chilometri, che si muoveva senza un capo, capace di respingere gli attacchi ripetuti della cavalleria pesante e persino le piogge di frecce lanciate dagli arcieri, grazie alla siepe di picche lunghe tra i quattro ed i cinque metri e lo spirito comunitario dei fanti.

     

    Geopolitica europea e mercenariato nel XV secolo

    Nello scenario geopolitico europeo della seconda metà del XV secolo, fortemente polarizzato dall’espansionismo su larga scala del Regno di Francia, vittorioso nella Guerra dei Cento anni, la spettacolare forza d’urto del quadrato trovò alcuni lungimiranti imitatori – che addestrarono alla nuova tattica i propri sudditi –, tra cui Massimiliano d’Asburgo, ‘inventore’ dei Lanzichenecchi, e, più tardi, i capitani spagnoli impegnati nelle Guerre d’Italia (che organizzarono i propri uomini nella formazione più tardi detta tercio). Ma soprattutto trovò dei facoltosi arruolatori, disposti a pagare forti somme per ottenere i servigi dei fanti elvetici: il mercenariato, in un certo senso, risolveva il problema della scarsità delle risorse grazie al flusso costante di denaro dall’estero –infatti, tra i mercenari del tempo, gli svizzeri erano i più temibili quando le paghe tardavano –, soprattutto dal re di Francia, che non disponeva ancora di una buona fanteria e che pertanto, in questo settore, dipendeva in toto dai mercenari della Confederazione.

    La battaglia di Marignano, acquaforte di Urs Graf, mercenario svizzero, 1521


    Le Guerre d’Italia

    Furono soprattutto le Guerre d’Italia, a partire dall’attacco mosso da Carlo VIII di Valois contro il Regno di Napoli (1494), ad alimentare la domanda di braccia per la guerra, con incommensurabili profitti per la Confederazione, cui tuttavia corrisposero anche non pochi inconvenienti. In primo luogo il reclutamento dei militari da parte degli emissari del re di Francia seguiva due binari. Il primo, legale, passava attraverso l’autorizzazione della Dieta e delle autorità cantonali, che fissavano il numero delle reclute, l’ammontare delle paghe, la durata e le condizioni del servizio. A prosperare era tuttavia soprattutto un diffuso arruolamento clandestino, grazie alla cooperazione tra gli agenti del Valois, coordinati dallo stesso ambasciatore francese presso la Dieta, ed una sterminata lista di notabili locali, cui la Francia versava cospicue pensioni perché chiudessero entrambi gli occhi sulla partenza ed il passaggio degli arruolati. Alla preoccupazione di ampi settori dell’opinione pubblica per la corruzione dilagante e per la delegittimazione di un’istituzione, la Dieta, che nel bene e nel male aveva garantito l’indipendenza dei Cantoni tanto dagli Asburgo quanto dai duchi di Borgogna, si unirono ben presto considerazioni di carattere etico e patriottico, dal momento che l’intensificarsi della competizione politico-militare nella Penisola italiana sottraeva alle comunità elvetiche i maschi più robusti ed intraprendenti per porli al servizio di potenze straniere, sulla cui amicizia dubitavano in molti. Quando poi i Valois, con la battaglia di Agnadello (1509), acquisirono le province, allora venete, di Bergamo e Brescia, il timore di venire circondati da una potenza già egemone in Italia settentrionale aprì la strada all’azione politica dell’emissario papale Matteo Schiner, vescovo di Sion e più tardi cardinale, che coinvolse i Cantoni nell’offensiva anti-francese orchestrata da papa Giulio II (la cosiddetta Lega Santa, 1 ottobre 1511), offrendo, quale ricompensa, la ghiotta preda di Milano e della sua cospicua produzione agricola.

     

    La battaglia di Marignano: svolta o episodio?

    Dunque l’ingresso della Confederazione nelle Guerre d’Italia come potenza belligerante rispose ad esigenze economiche e di sicurezza, che non mutarono dopo la battaglia di Marignano, ma che trovarono semplicemente una diversa risposta, anche in questo caso, militare e politica. L’atteggiamento di Francesco I verso la Dieta risultò, a partire dal 1515, molto più rispettoso di quello del predecessore Luigi XII, mentre il ritorno degli Sforza alla guida del Ducato di Milano (1522) e la sua successiva acquisizione da parte degli Asburgo (1535) riequilibrarono l’assetto dei poteri nell’arco alpino, spingendo gli svizzeri verso una neutralità orientata all’amicizia con la Francia. D’altra parte tutti i nuovi signori di Milano, a partire da Francesco I, furono molto scrupolosi nel mantenere intatti i privilegi di esportazione dei prodotti agricoli dalla Lombardia alla Svizzera, che garantirono un costante e abbondante afflusso di derrate senza pagamento di alcuna tassa o dazio (e nella quantità richiesta) e, con esso, la neutralità della Dieta.

    Il che non impedì agli svizzeri, nonostante i dissidi interni per ragioni religiose che tuttavia non incrinarono mai la comune intesa verso l’esterno, di acquistare significative posizioni a spese dei vicini anche dopo Marignano – soprattutto a danno del Duca di Savoia che dovette cedere il Vaud al cantone di Berna e mollare la presa sull’evangelica Ginevra (marzo-aprile 1536) – e di preparare, protetti dall’alleanza con la Francia, spedizioni contro la Borgogna di Carlo V, che l’establishment asburgico evitò al prezzo di nuove concessioni di franchigie sui commerci di materie prime. In altre parole, anche dopo Marignano gli svizzeri realizzarono gli obiettivi condivisi a breve e lungo termine, ora attraverso la guerra, ora attraverso la neutralità, ad un costo molto inferiore di quello economico ed organizzativo necessario a mantenere una presenza stabile nel Ducato di Milano.

    Francesco I durante la battaglia di Marignano Ignoto - André Castelot, François Ier, Perrin 1999

     

    La fama dopo il “declino”

    Certamente la battaglia di Marignano sancì il declino della supremazia militare del quadrato di picchieri, sempre più evidente a mano a mano che l’innovazione tecnologica perfezionava le artiglierie pesanti da campo, ma va pure detto che gli svizzeri combatterono in inferiorità numerica (rapporto 1:2) ed a restare impresse nella memoria dei testimoni dell’evento (e nel re avversario per primo) furono più che altro la straordinaria tenacia e disciplina di una truppa che aveva deciso autonomamente di attaccare, aveva resistito agli assalti della cavalleria ed ai vuoti aperti dal fuoco dei cannoni nemici, aveva dormito una notte all’addiaccio, per poi riattaccare il giorno dopo, sempre senza ricevere alcun ordine. Già a Cerignola, nel 1503, Consalvo di Cordoba aveva dimostrato che una palizzata ben difesa con armi da fuoco poteva frenare l’impeto dei giganteschi quadrati. Nella battaglia della Bicocca (1522) il copione si sarebbe ripetuto. A Ceresole d’Alba (1544) gli svizzeri e francesi di Re Francesco I sconfissero i quadrati di spagnoli e lanzichenecchi grazie all’uso combinato di archibugieri, picchieri e cavalieri pesanti, mentre nella famosa battaglia di San Quintino (1557) Emanuele Filiberto di Savoia avrebbe fatto ricorso alla sola cavalleria coordinata con l’artiglieria per annientare la fanteria in quadrato. La fama dei picchieri svizzeri, ed il prezzo del loro arruolamento, restarono nondimeno immutati.

    Il cardinale Matteo Schiner di Sion, legato papale in Lombardia,
    percorre a cavallo il campo di battaglia di Marignano incitando le truppe al combattimento

     

    Riferimenti:


    John McCormack, One Million Mercenaries. Swiss Soldiers in the Armies of the World, London, Leo Cooper 1993
    Marco Pellegrini, Le guerre d’Italia 1491-1530, Bologna, il Mulino, 2009

  • La didattica della Shoah

    Criteri, materiali e percorsi didattici secondo lo Yad Vashem


    Autore: Maria Angela Binetti

     

    Introduzione

    La giornata della memoria e quella del ricordo sono passate e, come ogni anno, sono state accompagnate dalle solite polemiche. Per fortuna, sempre meno astiose. Trattare argomenti così scottanti, richiede più che mai all’insegnante una riflessione preliminare a freddo, che eviti facili, e spesso controproducenti, approcci emotivi e si fondi su una rigorosa analisi storiografica. La politica nazista di deportazione e sterminio fu un fenomeno complesso, che colpì non solo gli ebrei, ma anche altre categorie, come i malati mentali, i sinti e i rom, e i prigionieri di guerra sovietici (di cui circa 3.300.000 vennero lasciati morire di fame, stenti e malattie nei campi in cui erano stati rinchiusi). E’ dunque importante ricostruire nel loro insieme le motivazioni e le dinamiche di questa politica anche per comprendere lo sterminio degli ebrei. Qui presentiamo un contributo dello YadVashem, istituzione celebre nel mondo, che si segnala – per noi italiani – per i corsi di formazione che organizza ogni anno. Lo YadVashem circoscrive il suo interesse alla sola questione ebraica, e propone un approccio didattico che vuole far cogliere l’umanità e la personalità delle vittime, di ogni vittima..Ecco il materiale del corso 2012, organizzato in modo che possa essere facilmente consultato dal lettore italiano.


     

    Indice

    • La didattica della Shoah
    • Le conoscenze di base
    • I laboratori didattici
    • Le testimonianze
    • I materiali audiovisivi
    • I luoghi di memoria
    • Il seminario


    La didattica della Shoah

     

    La storia della Shoah è soprattutto una storia umana, parla di individui. Non è solo il racconto dello sterminio di massa; essa implica lo sforzo di comprendere l’animo umano e le modalità con le quali l’uomo ha affrontato le situazioni e i difficili dilemmi etici di quei terribili anni.

    L’approccio didattico dell’ISHS (International School for Holocaust Studies) alla Shoah si articola in sei punti:

    • la vittima ebrea (the jewishvictim);
    • l’indifferente (the bystander);
    • l’esecutore (the perpetretor);
    • l’approccio appropriato alle diverse fasce d’età;
    • l’interdisciplinarità:
    • il ruolo dell’educatore.

     

    Partiamo dalla vittima.

    Raccontare la storia di 6 milioni di vittime è una “sfida” che non sempre si può vincere. La missione dello Yad Vashem è di ricostruire l’identità delle vittime (anche in pochissime righe) a partire dalle foto (familiari, parenti, vacanze) che sono state  rinvenute illo tempore nelle loro tasche. Con questo sistema sono state censite 4,1 milioni ca. di vittime. I dati scritti dietro le foto sono stati inseriti in un database (The Central Database of Shoah Victims’ Names) consultabile anche on-line.
     
     

     

    Come raccontare la storia della Shoah ai nostri studenti, coinvolgendoli senza traumatizzarli?

    Bisogna partire dalla vita quotidiana degli ebrei del tempo, evidenziando che queste persone vivevano e amavano esattamente come noi, che erano prese dalle loro attività routinarie (lavoro, studio, tempo libero: musica, arte, letteratura, calcio…) e che a una certa data questa routine è stata bruscamente interrotta. Com’è cambiata la loro vita nella realtà disumana dell’Olocausto? Che ne è stato della dignità, della speranza, della fede, dell’identità di queste persone?

     

    L’approccio più corretto per insegnare la Shoah è quello di porre agli studenti dei «dilemmi morali»:

    • Sopravvivere significa affrontare e convivere con dei dilemmi morali.
    • La realtà della Shoah è una “scelta senza scelta”, ovvero quello che i tedeschi hanno scelto per gli ebrei, cioè la morte. Qualsiasi scelta fatta dagli ebrei è stata superata da quella che i tedeschi hanno compiuto al loro posto.
    • Non abbiamo il diritto di giudicare le persone e le loro decisioni.
    • Il roleplay è vivamente sconsigliato, sia per l’impossibilità da parte degli studenti di identificarsi nelle vittime ebree (e noi aggiungiamo: per loro fortuna!), sia perché il transfert emotivo è un approccio didattico scorretto.

    La storia della Shoah è spesso ridotta al “durante”, quasi dimenticando che esiste anche un “prima” e un “dopo”. Quali questioni pone il “dopo”, cioè il ritorno alla vita? I sopravvissuti all’Olocausto sono riusciti a tornare alla vita “normale” dopo la terrificante esperienza d’internamento nei campi? Si può parlare di liberazione, o è più corretto parlare di “rieducazione” (fisica e psicologica) alla vita? Sovente, tornati a casa, i sopravvissuti si sono messi alla ricerca dei loro cari, scoprendo che familiari, parenti, amici non c’erano più, e che per giunta qualcuno si era impadronito della loro casa e dei loro beni. Scoprono così di essere soli al mondo. Molti di essi trovano accoglienza nei campi profughi creati dalle autorità alleate e dall’Agenzia delle Nazioni Unite per l'Assistenza e la Riabilitazione (UNRRA), attivi in Germania, Austria e Italia, dal1945 al 1952. Un’euforia matrimoniale travolge i sopravvissuti, assillati dalla paura di restare soli, mentre il vertiginoso baby boom che si registra in seno alle nuove coppie è la risposta alla politica di sterminio nazista. Molti sono quelli che decidono di lasciare l’Europa e di emigrare negli USA, oppure alla volta di Israele. E la vendetta? Nessun desiderio di vendetta anima i sopravvissuti, bensì una certezza: quella di essere vivi e di procreare, laddove il persecutore (Hitler) è morto.

     

    Chi sono ibystanders, gli indifferenti?

    Osservatori o spettatori? Netta la risposta: gente che è stata incapace di assumersi la propria responsabilità. Durante la Shoah, milioni di europei non ebrei si sono trovati di fronte a tre opzioni in merito alla posizione da assumere nei confronti dei loro vicini di casa ebrei:

    • aiutare i persecutori;
    • aiutare gli ebrei;
    • far finta di niente e non fare nulla.

    Nel corso della guerra più di 10 milioni di europei sono stati sottoposti a una di queste scelte. Quando si è chiamati a scegliere bisogna essere informati sul “cosa”. E cosa la gente comune sapeva? Ammesso pure che non circolassero informazioni precise sul destino degli ebrei, chiunque, guardandosi attorno, avrebbe potuto cogliere le sofferenze che gli ebrei stavano patendo.  Gli indifferenti avrebbero potuto fare qualcosa, ma non l’hanno voluta fare: solo apparentemente essi non hanno responsabilità nello sterminio.


    Che cosa rende un uomo esecutore?

    Com’è stato umanamente possibile uccidere sei milioni di ebrei? Si può uccidere per adesione totale all’ideologia; perché si è esecutori degli ordini altrui (in questo modo ci si deresponsabilizza); per la pressione esercitata dal gruppo (si aderisce al gruppo per non restare emarginati, e una volta dentro, si compiono azioni scellerate, fino all’omicidio,  anche se non ci si trova in situazioni di pericolo).

     

    Come insegnare il dramma dell’Olocausto senza traumatizzare i discenti, specie se bambini?  

    Si può parlare della Shoah a qualsiasi età, anche ai più piccini, l’importante è farlo con il giusto approccio, ovvero con gli strumenti più adatti alla loro età, quelli che realmente servono a far comprendere e a educare. Non va dimenticato che, ancora oggi, a 70 anni dalla tragedia, l’Olocausto è parte integrante della narrazione collettiva quotidiana degli israeliani. Ma cosa raccontare, e come? Gli israeliani educano i loro figli alla Shoah mediante un’esposizione lenta e graduale. Quando si racconta la Shoah bisogna fornire all’uditore un’ancora di sicurezza, per evitare l’insorgenza di traumi (ad es., risparmiare ai piccini la descrizione dell’orrore, oppure presentargli solo storie a lieto fine, di persone sopravvissute allo sterminio) o le facili banalizzazioni. La storia dell’Olocausto va raccontata secondo un modello a spirale: storia dell’individuo -> storia della famiglia ristretta/allargata -> storia della comunità di appartenenza -> narrazione storica.

     

    Un approccio interdisciplinare

    Quando si racconta la Shoah non ci si deve affidare solo alle parole della Storia, ma si può e si deve fare ricorso anche alla poesia, alla letteratura, all’arte (disegni, quadri), ai film, perché tutto concorre alla ricostruzione e alla narrazione delle storie individuali e della Storia collettiva.


    Quali temi proporre?

    1. Il mondo ebraico pre-Olocausto, in modo da far conoscere chi era il popolo ebraico prima della tragedia: questo serve a restituire un volto reale ai sei milioni di vittime.
    2. Come l’individuo si è confrontato con la realtà contingente: da attore o da spettatore?
    3. Com’è stato umanamente possibile? (questo tema è più adatto agli studenti delle superiori);
    4. Il ritorno alla vita, dopo il 1945.

    Quali sono gli obiettivi di un educatore quando si appresta a insegnare la Shoah?

    Innanzitutto, va rimarcato che l’Olocausto non è stato un avvenimento unico nella Storia, bensì un avvenimento senza precedenti. È un qualcosa che va ben oltre il calpestamento della dignità e dei diritti umani. Comunicare tutto questo è difficile, e molteplici sono le sfide che si pongono all’educatore:

    • la complessità della Storia e degli eventi
    • la definizione dell’Olocausto
    • le emozioni da consapevolizzare
    • la problematicità
    • la “fatica” dell’Olocausto
    • l’indifferenza
    • la comparazione con gli altri genocidi
    • il negazionismo
    • l’antisemitismo
    • il conflitto in Medioriente.


    La tecnica di insegnamento raccomandata per vincere queste sfide è creare situazioni di apprendimento stimolanti, attraverso una pedagogia attiva e un approccio incentrato sugli studenti, escludendo il role play.

    [per saperne di più, cfr.  http://www1.yadvashem.org/yv/en/education/languages/italian/educational_materials/how_teach.asp].

    Una precisazione lessicale doverosa. Gli storici e gli educatori dello Yad Vashem utilizzano indistintamente i termini Shoah e Olocausto (Holocaust) quando si riferiscono all’uccisione delle 6 milioni di vittime ebree, perché l’idea di “sacrificio”, che secondo taluni storici è insita nel termine Holocaust, è estranea alla mentalità ebraica.

     

    Le conoscenze di base

     

    Gli otto precetti del giudaismo

    1. l’obbligo di studiare la Torah per l’intero corso della vita (quella giudaica è una comunità di apprendimento permanente);
    2. il rispetto della vita, il più importante dei precetti: “mai più il popolo ebraico  sarà vittima”;
    3. l’alimentazione: i cibi kosher (carni e pesce; mai mischiare latte e carne; divieto assoluto di mangiare cibi contaminati dal sangue);
    4. l’abbigliamento, all’insegna della modestia e con obbligo di copricapo per le donne sposate, con obbligo di indossare la kippa e lo tzittzit (lo scialle rituale con le frange) per gli uomini; 
    5. gli affari: dedicarvisi  con onestà, aiutare i poveri, donare soldi per le cause giuste;
    6. matrimonio e sessualità: i rapporti prematrimoniali sono proibiti, i rapporti sessuali sono vietati durante il ciclo mestruale; i rapporti sessuali sono concepiti nell’ottica della procreazione; è consentito divorziare;
    7. spiritualità: l’ebreo loda sempre Dio e prega in gruppo tre volte al giorno, ovunque si trovi (per le donne è sufficiente pregare una volta al giorno, perché sono considerate esseri più spirituali);
    8. il calendario: l’obbligo di osservare lo Shabbat, che va dal tramonto del venerdì al tramonto del sabato; le varie festività, suddivise in agricole, storiche, spirituali.  Quella dell’ebreo religioso, insomma, è una vita vissuta all’insegna delle obbligazioni. Dati statistici alla mano, il rabbino ci informa che la società ebraica in Israele è molto più religiosa che in Europa.

    (Rabbi Yeshaya BALOG , dello Yad Vashem)

     

     

    Ebrei in Italia, dall’antichità al fascismo

    La storia ebraica nella penisola italiana inizia nel I sec. d.C., epoca in cui è attestata la presenza  di una piccola comunità ebraica a Roma, destinata a ingrandirsi rapidamente nei secoli a venire, fino alle soglie del Medioevo, quando conosce una battuta d’arresto anche in conseguenza delle epidemie e delle invasioni barbariche che si abbattono sui resti di un Impero romano ormai in frantumi. Questa storia è scandita da importanti oscillazioni demografiche, costituite da tre fasi di espansione: l’antichità romana, il Rinascimento (in questi due periodi si registra il picco massimo di presenza ebraica in Italia) e il Risorgimento (lo Statuto albertino del 1848 concede pieni diritti civili agli ebrei), e da altrettante fasi di decrescita: il tardoantico/Medioevo, l’età della Controriforma (l’espulsione e la reclusione nei ghetti, unitamente alle precarie condizioni igienico-sanitarie e alimentari tipiche dell’Ancien Régime di certo non giovarono alle comunità ebraiche italiane), il fascismo con la vergogna delle leggi razziali (1938).  È interessante notare come le tre fasi di crescita abbiano coinciso con il diffondersi di un pluralismo culturale (il sincretismo religioso dei Romani, la fioritura rinascimentale delle arti e delle lettere) e con un certo benessere economico; di contro, le fasi di decrescita corrispondono a periodi di decadenza economica, di assenza di pluralismo culturale e di imposizione di una visione monolitica del mondo.

     

    La distribuzione geografica degli ebrei in Italia segue nei secoli un preciso itinerario, che si snoda lungo la penisola da sud a nord: nell’antichità le zone di massima concentrazione sono le regioni del Sud (Puglia, Calabria Campania); dal 1450 al 1550, la diffusione è uniforme tanto a sud quanto a nord; dal 1550 al 1848, i principali ghetti sono concentrati nelle regioni centro-settentrionali (Roma, Toscana, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte); nel XX secolo la presenza ebraica più consistente è concentrata a Roma, in Piemonte e in Emilia.

     

    Lungo questa storia si diffondono dei luoghi comuni, ancora oggi presenti nella discussione pubblica. Già nel I sec. d.C., Tacito, oltre a bollare come disgustosi i loro costumi, rimarcava alcuni tratti caratterizzanti gli ebrei: la ricchezza, la disonestà, l’autosegregazione, il disprezzo per gli altri. All’inizio del XIV sec., Dante, nel V canto del Paradiso, distingue nettamente il “noi”/i “cristiani”, da “loro”/gli “ebrei” (“Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:/ … /Se mala cupidigia altro vi grida, / uomini siate, e non pecore matte, / sì che ‘l giudeo di voi tra voi non rida!”). Più in generale, tra Medioevo e Rinascimento, l’ebreo è visto come un elemento inquinante della società cristiana, da espellere, emarginare, mal tollerare, ma, allo stesso tempo, come un  motore fondamentale del commercio e dell’economia, e dunque da attirare, preservare e difendere.  

    (Sergio DELLA PERGOLA, docente presso la “Hebrew University of Jerusalem”)

     

    Gli ebrei e il fascismo

    Nell’arco del ventennio la posizione del regime fascista verso i cittadini ebrei italiani è stata tutt’altro che uniforme, giacché è stata costantemente sottoposta a una lenta ma inesorabile mutazione di segno in negativo. Per questo è indispensabile individuare delle periodizzazioni interne che chiariscano la complessità di questo rapporto.

     

    Il primo periodo va dal 1922 al 1935/36. Sono gli anni della cosiddetta «luna di miele» tra il regime fascista e gli ebrei italiani. Si stima che 7.500 ca. cittadini ebrei italiani, su un totale di 40.000, fossero iscritti al PNF: non è dunque vero che gli ebrei del tempo fossero tutti antifascisti o afascisti. Neppure il delitto Matteotti del 1924 ne incrina l’adesione, giacché molti di loro sono politicamente allineati con la posizione della borghesia urbana italiana. Non solo, negli anni in cui Hitler comincia a manifestare apertamente il suo antisemitismo, Mussolini si presenta come il “salvatore” degli ebrei, ricevendone in cambio benevolenza. Il suo filosemitismo, però, è di facciata ed è funzionale alla propaganda politica. Dietro le quinte, infatti, il duce non manca di pubblicare anonimi articoli antisemiti (come documentato dalla corrispondenza interna interministeriale), dai quali si evince che egli crede alle voci dell’esistenza di un complotto ebraico internazionale. In questa fase il suo motto è “se non li puoi combattere, unisciti a loro”. Mussolini reputa gli ebrei soggetti “pericolosi”, perché colti, intelligenti, ricchi, astuti.

     

    Nel 1935/36 il quadro politico internazionale muta: sono gli anni della conquista dell’Etiopia e della nascita dell’Impero dell’Africa Orientale Italiana; gli anni dell’avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista. Questo però non basta a giustificare la svolta che il duce sta preparando. È tipica dei regimi totalitari l’individuazione del nemico interno da abbattere, nel nostro caso l’ebreo. Mussolini ricerca un movente pretestuoso per accusare di tradimento gli ebrei, additandoli poi all’opinione pubblica come nemici. L’occasione gli viene offerta dal fallimento di una missione diplomatica in Inghilterra che il duce affida a due ebrei, Dante Lattes e Angelo Orvieto, i quali avrebbero dovuto convincere il movimento sionista  internazionale a sostenere la causa imperialistica fascista, schierandosi contro le sanzioni economiche stabilite dalla Società delle Nazioni.

     

    Il secondo periodo va dal 1936 al 1938. Gli anni della preparazione della svolta antisemita. Ha inizio un capillare battage pubblicistico antisemita che lascia interdetta l’Unione comunità israeliane italiane (l’UCII, riconosciuta da un Regio Decreto del 1931), la quale, interpellato il Ministero degli Interni per chiedere ragione del nuovo stato delle cose, viene rassicurata che nulla è mutato nel rapporto tra gli ebrei italiani e lo Stato fascista. Dunque, ufficialmente non esiste alcun problema ebraico; addirittura, Mussolini inaugura a Civitavecchia una scuola per marinai, il cui nucleo è costituito da allievi ebrei. Intanto il regime avvia il censimento della popolazione ebraica italiana: quanti sono, in quali aree del paese sono concentrati, quali posizioni sociali occupano.

     

    Terzo periodo: 1938 - 1943. L’Europa è colpita dal ciclone delle legislazioni antisemite e l’Italia non fa eccezione. Tuttavia, la presenza della Chiesa cattolica è di ostacolo all’attuazione di un approccio al problema ebraico simile a quello nazista.  In Italia, infatti, la Chiesa cattolica vieta il divorzio (le coppie miste non possono essere sciolte dal vincolo matrimoniale), così come costituiscono un problema i numerosi i bambini nati da matrimoni misti che hanno ricevuto il battesimo (come considerarli, ebrei o ariani?).

     

    La prima reazione dell’opinione pubblica italiana alle leggi razziali è che esse siano state dettate da circostanze esterne. Circola la giustificazione confezionata a bella posta dai gerarchi fascisti. Quale invece la reazione degli ebrei? Per un meccanismo di difesa che scatta nell’uomo nei momenti di pericolo e che si traduce nell’allontanamento dei contenuti minacciosi, sembra che lì per lì gli ebrei le abbiano rimosse. È come se per essi la privazione dei diritti politici e civili non fosse classificabile come “sofferenza”.

     

    La sofferenza, quella vera, sarebbe cominciata solo nel 1943. È vero che dal 1938 al 1943 essi vivono in uno stato di privazione, ma la loro vita non è ancora a repentaglio; e poi, molti sono gli italiani che nei territori occupati dai nazifascisti (Iugoslavia, Grecia, Albania) accordano protezione agli ebrei. Addirittura, nel 1940, quando il paese entra in guerra, molti giovani ebrei fascisti scrivono al duce, supplicandolo di potersi arruolare per andare a combattere e a morire per la patria! Da non dimenticare che, nel luglio del 1939, con la legge. n. 1024, il Gran Consiglio del fascismo ammette la figura dell'ebreo "discriminato", ovvero dell'ebreo che per particolari meriti fascisti (partecipazione alla marcia su Roma, iscrizione al PNF), o patriottici (decorati della Grande Guerra) può essere trattato con maggiore clemenza. Agli ebrei “discriminati” (sono ca. 2000), infatti, le leggi razziali vengono applicate con alcune deroghe e limitazioni: ad es., è loro concesso di mantenere il conto in banca, di preservare il diritto di proprietà, di tenere in casa la servitù.

     

    Nel 1942, in accordo con le disposizione del regime, 15.000 ebrei vengono destinati al lavoro coatto; di questi soltanto 4.000 saranno effettivamente inviati; la restante parte ne sarà risparmiata, soprattutto per problemi di carattere organizzativo: la scarsità di macchinari rende difficoltosa la divisione nelle fabbriche tra ariani ed ebrei, e poi, molti ebrei sono inadatti a svolgere lavori di manovalanza operaia.

     

    Nel maggio 1943 il regime progetta i campi di lavoro. Ma non avrà il tempo di realizzarli, a causa del precipitare degli eventi (luglio 1943, caduta del fascismo). Tra gli ebrei italiani esplode un’euforia collettiva, poiché si pensa che la caduta del regime porrà finalmente termine alle discriminazioni razziali. Così non è. Il paese si spacca in due: a Sud gli Alleati; a Nord l’occupazione nazista, che rende vivo e reale, come mai prima d’ora, il pericolo. Nella RSI, infatti, centinaia di ebrei vengono arrestati dai fascisti. Secondo alcune interpretazioni, i repubblichini avrebbero arrestato gli ebrei per “proteggerli” dai rastrellamenti nazisti. La tesi non regge, perché una volta arrestati, gli ebrei sono stati consegnati ai nazisti, che li hanno deportati nei campi di sterminio. Non solo, la spoliazione dei beni degli ebrei è stata condotta da entrambi, fascisti e nazisti.

     

    Le delazioni anonime. Un capitolo doloroso. Chi erano i delatori? Perché lo facevano? Le ragioni potevano essere personali (odio verso una persona, rivalità professionale) o ideologiche (adesione al fascismo). Malgrado ciò, la maggior parte degli ebrei italiani si è salvata, e solo 8.000 sono stati deportati nei campi. Nonostante questo bilancio “positivo”, quello della comunità ebraica italiana è l’unico caso di deportazione “fuori tempo massimo”, ossia quando gli Alleati sono già nel paese, e questo va ricordato per comprendere l’eccezionalità dello “sterminio” italiano.

     

    Molti ebrei (dai 1200 ai 2000 ca.) hanno preso parte alla Resistenza, perché per essi la resistenza rappresentava un’ancora di salvezza per il processo di reintegrazione, per il recupero della loro identità italiana. La Resistenza ha significato per loro non solo liberazione dal fascismo, ma anche ritorno alla vita e alla speranza di un’Italia vera. Di contro, per i giovani ebrei questo processo è stato faticoso: essi, infatti, hanno recuperato più facilmente la dimensione comunitaria ebraica che quella italiana.

    (Iael ORVIETO, responsabile dello Yad Vashem Publishing House)


    Gli ebrei nel Nord Africa

    La questione dell’ebraismo nordafricano è relativamente recente; è solo dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso che essa si è imposta all’attenzione non soltanto della storiografia, ma anche dell’establishment ebraico israeliano. Il merito di questa emersione spetta a un volume (Enciclopedia delle comunità ebraiche: Libia  Tunisia, 1997) grazie al quale, per la prima volta, la narrazione dell’Olocausto è stata estesa anche agli ebrei nordafricani, i quali hanno poi ricevuto dallo Stato di Israele un indennizzo per le persecuzioni e le sofferenze patite.
        
    Chi sono gli ebrei nordafricani? Essi discendono da due diverse comunità: gli ebrei che vivevano da secoli tra le popolazioni locali musulmane (le prime attestazioni di ebrei in Nord Africa risalgono addirittura al I sec. d.C.) e i cosiddetti “Grana”, ovvero i discendenti di quei marrani spagnoli giunti in Italia nei secc. XV-XVI, da dove, riconvertitisi al giudaismo, partirono alla volta del Nord Africa.


    Dalla metà del XIX secolo fino agli anni del secondo conflitto mondiale, le comunità ebraiche nordafricane furono sottoposte al duplice controllo dei governi locali musulmani e delle autorità coloniali europee, nello specifico Francia (Marocco, Tunisia e Algeria) e Italia (Libia), due nazioni implicate a diverso titolo col regime nazista.

     

    Anche questi ebrei furono compresi nella Soluzione Finale, progettata da Hitler. Il piano della loro eliminazione è riscontrabile in tre documenti: iProtocolli della Conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942 (agli ebrei sefarditi è riservato l’identico destino di morte degli ebrei ashkenaziti);  ilDiario del Gran Mufti di Gerusalemme Hajj Aminel-Hussein (questi è responsabile del pogrom antiebraico durante il protettorato inglese, è un filonazista convinto e quando chiede a Hitler qual è la sorte riservata agli ebrei nordafricani, il Fuhrer gli risponde: «quando le gloriose armate tedesche conquisteranno il Caucaso, allora suonerà la riscossa del mondo arabo»);  il volantino delle forze di occupazione tedesche in Tunisia, datato 23 dicembre 1942 («gli ebrei  tunisini sono parte integrante del complotto ebraico internazionale che ha dato avvio alla guerra, e per questo pagheranno il prezzo»).
     


    La realizzazione dei piani tedeschi fa leva sulla politica razziale perseguita dalla Francia di Vichy (estensione dello “Statuto di Ebrei” nei territori coloniali sottoposti alla sua sfera d’influenza) e dall’Italia fascista (estensione delle leggi razziali in Libia); sui campi di lavoro forzato per i dissidenti in Marocco e Algeria; sulla presenza di corpi di polizia tedesca nei due paesi occupati dalle armate naziste: Libia e Tunisia.  Durante i sei mesi di occupazione nazista della Tunisia (novembre 1942-maggio 1943) le vittime ebree tunisine sono complessivamente 226. È solo una questione di tempo se il numero delle vittime si mantiene così basso.  Ma la salvezza delle comunità ebraiche fu dovuta alla scarsità le truppe di occupazione nazista in Tunisia; all’intervento degli italiani per salvare i “Grana”; alla scarsa partecipazione della popolazione araba tunisina (i nazionalisti arabi di Habib Bourghiba avevano scarso interesse a organizzare i pogrom antiebraici).

     

    Diverso il destino degli ebrei di Libia. Qui l’estensione delle leggi razziali italiane è postdatata dal 1938 al 1940 per intercessione dell’Alto Commissario Italo Balbo (si dice che non fosse antisemita), il quale fa notare a Mussolini il grosso danno che ne verrebbe per l’economia locale, e quindi per quella italiana, dall’applicazione delle leggi razziali. Alla morte di Balbo, gli ebrei libici, che fino a quel momento si sono comportati da cittadini leali, tradiscono l’Italia, passando dalla parte degli inglesi (va precisato che, nel corso della guerra, la regione della Cirenaica è alternativamente controllata da Italia e Gran Bretagna). Mussolini decide quindi di punire in maniera esemplare la loro slealtà, deportando 2.600 ebrei libici nel campo di Jiada (sud di Tripoli, alla frontiera col deserto del Sahara), dove ben 580 di essi periranno.

    (Irit ABRAMSKI, ricercatrice presso lo YadVashem)

     

    Il nuovo antisemitismo

    Quella che al termine della Seconda guerra mondiale era opinione diffusa, e cioè che la Shoah fosse stata un’esperienza talmente drammatica che mai più l’antisemitismo avrebbe abitato tra gli uomini, è stata sconfessata dall’insorgenza di nuove forme di antisemitismo.  Si tratta di un fenomeno che interessa molti paesi nel mondo e gruppi politicamente e religiosamente diversi. In comune, questo nuovo antisemitismo ha le “tre D”: Demonize, Delegitimize, Double Standards.

     

    Di recente, in alcuni paesi europei si è registrata la rinascita e/o l’ascesa di correnti antisemite di estrema destra: da Forza Nuova in Italia, a “Golden Dawn” in Grecia, a “Magyargarda” in Ungheria. La crisi economica che a vari livelli questi paesi stanno vivendo contribuisce senza dubbio a far guadagnare consensi ai movimenti di estrema destra (soprattutto nel caso della Grecia), non tanto per aderenza ideologica delle masse quanto per protesta.

     

    Nei paesi ex-comunisti è abbastanza generalizzato il fenomeno della ricerca nella storia passata di figure di eroi che siano possibilmente anticomunisti e nazionalisti. In Ucraina, ad esempio, nel 2010, il presidente uscente Viktor Iushenko decise di assegnare il titolo di “eroe” nazionale a Stepan Bandera, un leader nazionalista vicino alla Germania nazista, che aveva combattuto per l’indipendenza del proprio paese contro la Polonia e l’URSS e che aveva perseguitato gli ebrei russi e polacchi. In Ungheria stiamo assistendo al ritorno del culto dell’ammiraglio Horthy, dimenticando che quest’uomo, alleato dei nazisti, ha contribuito alla deportazione nei campi del 60% degli ebrei ungheresi. Come si spiega dunque questa idealizzazione? La risposta è semplice: la gente non conosce la storia o non vuole confrontarsi con essa.

     

    L’antisemitismo è una malattia che, storicamente, ha colpito non soltanto la Destra, ma anche la Sinistra. Stalin, ad esempio, è stato l’autore del cosiddetto «complotto dei medici», uno strumento di propaganda messo a punto dal dittatore per dimostrare l'esistenza di un piano ebraico nazionale e successivamente internazionale per la conquista del mondo. L’occasione per dispiegare il suo piano gli fu offerta, nel gennaio 1953, dall’avvelenamento per motivi di potere di due alti funzionari di partito. Dell’assassinio furono incriminati nove medici della cerchia del Cremlino, dei quali ben sei erano ebrei. Ebbe così inizio la persecuzione e l’uccisione di intellettuali e medici ebrei. Solo la morte del dittatore, sopraggiunta nel marzo dello stesso anno, pose fine alla persecuzione.
     
    Nell’Europa dell’Est, dove spesso le posizioni ufficiali hanno screditato l'Olocausto, l'antisemitismo è da sempre una realtà latente, pronta a venire allo scoperto alla prima occasione. Nel 1968, in Polonia si è registrata un’ondata di antisemitismo che ha provocato l’esodo di una parte consistente di ebrei sopravvissuti, alcuni dei quali erano per giunta comunisti intransigenti.
     
    Il conflitto israelo-palestinese è un detonatore di antisemitismo. I difensori dei palestinesi sventolano vecchi stereotipi antisemiti a sostegno della loro causa. Ad esempio, in alcune sure del Corano gli ebrei sono presentati come discendenti di certi insetti e animali come le api, i maiali, le scimmie. Oggi i musulmani fondamentalisti si riferiscono abitualmente agli ebrei come scimmie e maiali (cfr. il sito web antisemita islamico MEMRI). Non molto tempo fa, un chierico musulmano è arrivato ad affermare che gli ebrei infettano il cibo con il cancro per poi inviarlo ai paesi musulmani! In Egitto, nell’ultima campagna elettorale, l’accusa peggiore che i candidati avversari si sono lanciati l’un l’altro è stata quella di essere ebrei o filosemiti.
     
    Accanto a queste rappresentazioni si aggiungono quelle prese in prestito dall'Olocausto, ma invertite di segno. Israele è spesso tacciato di essere un paese nazista, così come Sharon viene spesso presentato come un nuovo Hitler; il massacro di Jenin del 2002, nel corso del quale morirono più di 500 palestinesi, viene ricorrentemente presentato come un genocidio. Ovviamente queste immagini sono assai potenti ed hanno l’effetto di alimentare l’odio esistente verso gli ebrei. Il fatto è che nulla di quello che fino ad oggi è occorso tra Israele e Palestina è lontanamente paragonabile a ciò che è avvenuto nell’Europa nazista.

     

    Parlare di Shoah nel mondo arabo-musulmano sovente dà vita a posizioni contrastanti:  da un lato, il negazionismo; dall’altro, la rappresentazione della tragedia palestinese come un nuovo Olocausto. È opinione diffusa che la creazione dello Stato di Israele sia successiva all’Olocausto e che sia stata appoggiata dall’Occidente per lavarsi la coscienza dall’orrore della Shoah. I palestinesi starebbero pagando per le “colpe” commesse dagli europei. Questa tesi è erronea, perché la migrazione ebraica in Palestina è cominciata ben prima delle persecuzioni naziste. Sul piano politico, dunque, la negazione dell’Olocausto è funzionale al non riconoscimento dello Stato di Israele, alla sua delegittimazione.

     

    Uno dei principali gruppi negazionisti americani è quello che si raduna attorno all’Institute for Historical Review, il cui obiettivo è trivializzare l’Olocausto, sostenendo che esso non ha alcun valore reale; ridimensionarlo, conferendogli un posto secondario rispetto a quello accordatogli dalla Storia; giustificare lo sterminio, presentandolo come un genocidio perpetrato per il bene del mondo.

     

    Antisemitismo fa spesso rima con antiamericanismo (il cosiddetto Anti-Anti), ma non solo. Un tratto peculiare del nuovo antisemitismo è che esso unisce trasversalmente gruppi ideologicamente distanti tra di loro. Neonazisti, estrema sinistra, antiamericani, no global, fondamentalisti islamici sono accomunati da uno stesso scopo: attaccare gli ebrei; attacchi che, come si è avuto modo di constatare nel corso di questo 2012 in Francia, non si limitano agli assalti verbali.

     

    (Rob ROZETT,  direttore di Biblioteca dello Yad Vashem)

     

    I laboratori didattici

     

    Quattro scatole, quattro storie. Ricordi di una scatola.

    Unità didattica per la scuola primaria che consta di quattro storie di altrettanti bambini (di cui una sola è ancora in vita) e focalizza l’attenzione su quegli aspetti più vicini all’esperienza individuale dei giovani studenti. Un’altra attività didattica adatta agli alunni sia delle ultime classi della scuola elementare, sia della scuola media è il libro “Volevo volare come una farfalla”, scaricabile nella versione italiana al seguente URL: http://www1.yadvashem.org/yv/en/education/languages/italian/lesson_plans/butterfly.asp

     

    Through Our Eyes

    Unità didattica per la scuola media che propone lo studio della Shoah attraverso la lettura di estratti di diari, testimonianze, poesie e fotografie di bambini e adolescenti originari di diversi paesi europei.  Il libro racconta in una prospettiva cronologica (dall’inizio degli anni Trenta fino al 1945) la percezione che i bambini avevano della Shoah, rivelando i pensieri e le emozioni più profonde nate dal confronto quotidiano con la morte e la distruzione. L’empatia tra il giovane studente e la storia del bambino ebreo è assicurata.

     

    The Auschwitz Album

    Unità didattica multidisciplinare (di Yael EAGLSTEIN) che combina album fotografici, testimonianze e lettere, destinata agli studenti delle superiori. The Auschwitz Album segue l’arrivo degli ebrei della comunità di Bilke (Ungheria) nei campi di Auschwitz-Birkenau, nell’estate del 1944, e offre un resoconto illustrato dell’intero processo d’internamento: la realtà concentrazionaria dei campi, il processo di disumanizzazione cui i detenuti erano sottoposti. L’esame di alcuni dettagli fotografici offre la possibilità di restituire agli ebrei un po’ di quella dignità umana brutalmente violata dai tedeschi.  L’unità didattica comprende un documento eccezionale, unico nel suo genere: l’album fotografico della famiglia di Lili Jacob, una sopravvissuta. Le foto sono state scattate da due fotografi nazisti che lavoravano ad Auschwitz per la propaganda. La problematica che l’utilizzo di queste foto pone sul piano storiografico e didattico è di carattere interpretativo. L’utilizzo delle fotografie come fonte storica, infatti, richiede molte attenzioni e precauzioni, perché è sempre il punto di vista del fotografo che tende a prevalere. Nella fattispecie, le foto documentano il punto di vista dell’aguzzino, non certo quello della vittima, quindi ciò che i nazisti volevano rappresentare. E allora, come completare la narrazione? Come dare voce alle immagini? Risposta: ricorrendo ai diari, alle memorie, alle lettere dei deportati.

     

    La vita quotidiana nel ghetto di Varsavia.

    Unità didattica di Yftach ASHKENAZY. Nell’autunno 1940 gli ebrei di Varsavia vengono rinchiusi nel ghetto. In 13 km di perimetro sono concentrati poco meno di 400.000 ebrei. Nel giro di pochi mesi la situazione sanitaria e alimentare precipita drammaticamente: donne e bambini coperti di stracci e con i volti emaciati dal freddo e dalla fame; mendicanti di tutte le età appostati lungo le strade; teste chine dei passanti che devono togliersi il cappello quando passa un tedesco; bambini che attraverso i varchi aperti nei muri (ma anche attraverso le fogne) praticano il contrabbando. Questa realtà drammatica e inumana è documentata dalle foto scattate dalla propaganda nazista. Ancora una volta si pone il problema della parzialità dell’informazione e della sua interpretazione, giacché la realtà che queste foto ci restituiscono è quella filtrata dall’obiettivo tedesco, che indugia sulla sofferenza, sull’umiliazione, sull’offesa all’umanità e alla dignità degli ebrei. Per una corretta fruizione di queste foto sul piano storico e didattico, esse sono state integrate e riequilibrate dalla parola, cioè il racconto per immagini  è affiancato dal racconto a parole, con testimonianze, diari, lettere delle vittime.

     

    Come è stato umanamente possibile

    Modulo didattico creato dall’ISHS sui carnefici e gli indifferenti durante l’Olocausto. Viene messa a confronto la testimonianza di una deportata, Hilde Sherman, con il rapporto che Salitter, un agente di polizia locale, redige per le SS in occasione del trasporto degli ebrei da Düsseldorf a Riga (11-17 dicembre 1941). La prima comparazione è di carattere formale: la scrittura del rapporto è impersonale, tecnica (compaiono molte cifre: quelle degli orari dei treni, delle piattaforme e dei vagoni, del numero di deportati), priva di qualsivoglia implicazione emotiva, esattamente come un rapporto dev’essere; sul piano linguistico, si segnala la presenza di termini che esprimono  il processo di disumanizzazione cui gli ebrei sono stati sottoposti, non solo nei fatti, ma anche nelle parole. Di contro, la testimonianza di Hilde è in prima persona, è emotivamente partecipata, da essa traspare non solo lo sgomento per quanto sta accadendo, ma anche una certa attenzione al dettaglio, espressione di un acuto spirito di osservazione.

     

    Lo scopo dell’unità didattica è di riflettere sulle responsabilità personali di quegli individui coinvolti, ciascuno al proprio livello, nell’organizzazione e nell’implementazione dei convogli che servivano a trasportare gli ebrei nei campi di sterminio dell’Europa dell’Est. Questi individui comprendevano il personale ferroviario, senza il quale nessun trasporto avrebbe potuto avere luogo, la polizia locale preposta al controllo dei trasporti, gli ufficiali delle SS che pianificavano e coordinavano le deportazioni, last but not least, il gruppo più consistente, quello dei bystanders, tutti quelli che videro i treni partire verso Est e che rimasero indifferenti al destino degli ebrei.

     

    Insegnare la Shoah attraverso la letteratura e la  poesia

    Attraversa un affascinante percorso letterario – da Pavel Friedman a Dan Pagis, da Lily Brett a Primo Levi a William Auden  (JackieMETZGER, ricercatore dello YadVashem). Al centro della lezione il Blues del profugo, un componimento poetico di W.H. Auden, uno dei più importanti poeti inglesi del XX secolo, che si confronta col problema dei profughi ebrei. In maniera preveggente (la poesia è stata scritta sei mesi prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale), Auden vi evoca lo spettro dell’ebreo tedesco profugo.  La poesia di Auden,  (la versione in italiano è scaricabile al seguente URLhttp://www1.yadvashem.org/yv/en/education/languages/italian/lesson_plans/holocaust_poetry.asp#6), è messa a confronto sia con una fotografia storica di ebrei che fanno la fila davanti a un’agenzia di viaggi di Berlino, poco prima della Notte dei Cristalli (1938), sia con un dipinto di Felix Nussbaum, Il profugo (1939), dove un enorme mappamondo troneggia in primo piano, mentre in secondo piano vediamo un profugo disperato con il suo fagotto.

     

    Primo Levi, scrittore più che poeta, ha composto due poesie: «Shemà», in apertura diSe questo è un uomo, e «Alzarsi», in coda allaTregua.  Quale il significato di queste poesie? LoShemà Israel è la preghiera più importate degli ebrei, recitata tre volte al giorno: mattina, pomeriggio, sera. Come sappiamo, Levi non era un uomo religioso, tuttavia, in questo componimento egli fa il verso alla preghiera per via della sua potenza: nella poesia «Shemà», infatti, vi è un’esortazione continua ed estenuante a ricordare e a raccontare l’ineffabile, altrimenti cose terribili si augurano all’uomo immemore. In «Alzarsi», invece, l’impossibilità dei sopravvissuti a dimenticare l’orrore è sintetizzata dall’espressione di comando “Wstawac” che risuona perpetuamente nelle loro orecchie.  

     

    «In questo vagone» di Dan Pagis è una delle più potenti poesie sulla Shoah che siano mai state composte, poiché stabilisce una linea diretta tra il fratricidio di Caino e Abele e la tragedia dell’Olocausto.

     

    Usare l’arte nella didattica della Shoah.

    Laboratorio condotto da Orit MARGALIOT è interamente basato sull’analisi di documenti iconografici, per lo più i quadri esposti nella Galleria d’Arte dello Yad Vashem più alcuni fumetti per bambini (delizioso ilMickey au champ de Gurs di Horst Rosenthal, nel quale l’autore fa dell’autoironia, rappresentandosi nelle vesti di un topo, Mickey Mouse, appunto). L’arte prodotta durante la Shoah è uno strumento che si presta bene allo studio della stessa, purché nel suo utilizzo si rispettino alcuni parametri: la categoria di appartenenza dell’opera (cfr.ultra); la storia dell’artista; il contesto storico.
     

     

    Le testimonianze

     

    Susanna CASSUTO-EVRON. UN’EBREA ITALIANA

    È un’ebrea italiana di 76 anni scampata alla deportazione e alla realtà concentrazionaria; attualmente vive in Israele, in un Kibbutz posto di fronte alla striscia di Gaza. Nel 1943, quando l’Italia è occupata dai nazisti, Susanna ha sette anni e vive a Firenze con la sua famiglia (papà, mamma, due fratelli più una sorellina in arrivo). La testimonianza di Susanna è una testimonianza paradigmatica sotto molteplici punti di vista: è la classica figlia di una famiglia ebrea ortodossa benestante (il papà Nathan è medico oculista, e quando le leggi razziali gli impediranno di esercitare la professione, diverrà rabbino capo di Firenze); è una di quei figli di Israele  accolti nei conventi cattolici, o in casa di amici, o presso famiglie partigiane, da dove, trasmigrando di luogo in luogo, è poi riuscita a sfuggire alle persecuzioni e ai rastrellamenti; durante il periodo di permanenza nell’orfanotrofio gestito dalle suore, vive in maniera profonda e drammatica il disagio culturale derivante dall’imposizione di pratiche religiose e alimentari cattoliche (la piccola Susanna percepisce tutto ciò come perdita della propria identità e prega Yahweh con tutte le sue forze perché la faccia scappare di lì…). Alla fine della guerra, Susanna ritrova parte del suo nucleo familiare: due fratelli (Daniel e David, mentre la piccola Eva è morta di polmonite), la madre (sopravvissuta ai campi), alcuni zii e i cugini (il padre e i nonni invece hanno perso la vita ad Auschwitz); si trasferisce quindi in Israele, dove si arruola nell’esercito, si sposa e si riproduce, donando al mondo figli, nipoti e pronipoti. È questa la risposta di Susanna Cassuto-Evron al piano di sterminio nazista: la moltiplicazione dei figli di Israele nella Terra Promessa. Qualche anno fa, Susanna ha raccontato la storia della sua famiglia in un libro intitolato I piccoli non fanno domande. Suo padre Nathan è stato riconosciuto “Martire dell’Olocausto” e “Medaglia d’Argento al Valore”  della Presidenza della Repubblica.

     

    Ehud LOEB E IL COMITATO DEI GIUSTI

    Nato nel 1934 a Buehl, un paesino della Germania, nell’ottobre del 1940, Ehud e i suoi genitori vengono deportati insieme ad altri 6000 ebrei nel campo di concentramento di Gurs, nel sud-ovest della Francia, da dove poi, nel 1942, la stragrande maggioranza (compresi i genitori del piccolo Ehud) sarà trasferita ad Auschwitz, per non farvi mai più ritorno. Nel 1941 l’OSE, un’organizzazione umanitaria ebrea-francese, riesce a portare fuori dal campo di Gurs 14 bambini, con il consenso dei genitori, nascondendoli presso le chiese o le famiglie cristiane, e quindi salvando loro la vita. Ehud è uno di questi. Ha così inizio un lungo periodo di nascondiglio presso le famiglie cristiane, che per un bambino ebreo significa fare i conti con la propria identità. Ehud, infatti, è costretto ad assumere una nuova identità, il che comporta l’apprendimento veloce e senza inflessione straniera della lingua locale (il francese), per evitare di essere scoperto dalla polizia tedesca; apprendere il catechismo e le preghiere, per confondersi all’interno della comunità cattolica (Ehud serve addirittura la messa come chierichetto); diventare un bambino modello, buono e ubbidiente, per non rischiare di essere cacciato dalla famiglia di accoglienza (egli ha trovato rifugio in un piccolo villaggio francese, prima presso una vedova che vive in una fattoria, poi presso la famiglia di un macellaio). Invitato a trascorrere un breve periodo di vacanza presso alcuni parenti in Svizzera, Ehud non farà più ritorno in Francia, giacché sarà accolto e adottato da costoro. Nel nuovo paese il piccolo reimparerà la lingua materna (l’ebraico) e riprenderà a frequentare regolarmente la scuola. In Svizzera Ehud vi resta fino al 1958, anno in cui decide di trasferirsi in Israele, dove entra a far parte di un’organizzazione che si occupa del supporto ai sopravvissuti della Shoah. Molti di questi, fino a quel momento, non avevano condiviso la propria esperienza con nessuno (chi per precisa volontà, chi per incapacità o impossibilità).  Cominciano a farlo proprio ora, con Ehud, cui aprono i cuori e le menti, incontro dopo incontro, raccontandogli storie inaudite e inenarrabili. Per otto anni Ehud presta assistenza ai sopravvissuti; poi decide di smettere: il portato di atrocità e sofferenza insito in queste storie è divenuto troppo gravoso per poter essere sostenuto ancora a lungo. Da questa esperienza così intensa e dolorosa Ehud ha imparato una grande verità: che non bisogna mai perdere di vista l’individualità insita nella tragedia dell’Olocausto. Ciascuno degli ebrei sopravvissuti alla Shoah è portatore di una storia individuale, di una vicenda fatta di stermini familiari e di persecuzioni sulla propria pelle, e che questo vissuto personale non può stemperarsi in un dato statistico, quandanche immenso come quello di sei milioni di vittime.

     

    È così che Ehud ha iniziato a collaborare con lo Yad Vashem e, dal 2004, è divenuto membro del Comitato per la designazione dei Giusti tra le Nazioni (istituito nel 1963), occupandosi della preparazione dei  dossier per la Francia. Il titolo di Giusto fra le Nazioni è riservato a quegli individui che hanno rischiato la propria vita per salvare quella degli ebrei. La gran parte degli individui cha hanno ottenuto il riconoscimento è di condizione sociale umile (come dimostra la storia personale di Ehud), spesso si tratta di persone molto religiose, sensibili ai valori umani, a prescindere dal credo che professano. Il procedimento che porta al conferimento del titolo è assai lungo e meticoloso e richiede che il dossier sia costruito con grande cura, raccogliendo testimonianze attendibili e assai circostanziate presso i sopravvissuti o i propri figli. Questi i criteri cui bisogna ottemperare: 1) è necessario che il non ebreo sia stato implicato personalmente nel salvataggio dell’ebreo perseguitato; 2) deve aver rischiato di perdere la vita o la libertà o la posizione sociale; 3) non si aspettava alcuna ricompensa economica (o onorificenza), né nell’immediato, né in futuro; 4) non era spinto da moventi di proselitismo religioso (conversione) o di adozione: 5) non deve aver salvato parenti prossimi (matrimoni misti) ebrei convertitisi al cristianesimo durante la guerra; 6) non deve essere stato un membro della resistenza ebraica; 7)  non deve avere un passato criminale. Ad oggi sono stati riconosciuti 24.000 Giusti fra le Nazioni.

     

    Materiali audiovisivi

     

    Come utilizzare le testimonianze filmiche in classe? Abbiamo due possibilità: 1) mostrare uno spezzone del filmato, quello che riteniamo più significativo al raggiungimento dei nostri obiettivi; 2)  mostrare l’intero filmato e osservare il personaggio agire, muoversi e raccontarsi in spazi e tempi diversi, prima e dopo l’Olocausto. L’uso della testimonianza del sopravvissuto consente di lavorare con l’empatia, che è cosa diversa dall’identificazione (il role play), ed è un ottimo strumento per combattere gli stereotipi. La storia di Ovadia Baruch, ad esempio, insegna che nei campi di sterminio sono stati deportati anche gli ebrei non polacchi; che esisteva un’importante comunità ebraica mediterranea, con un suo portato di tradizioni culturali; che non tutti gli ebrei erano ricchi e colti.

     

    Witness and Education

    Testimonianze filmiche a cura di Yad Vashem, nelle quali i sopravvissuti raccontano la storia della loro vita nei luoghi in cui gli eventi si sono consumati. I sopravvissuti sono accompagnati nel loro viaggio da esperti dell’ISHS che pongono loro domande orientate in senso didattico, in modo che la storia individuale del superstite scorra parallelamente alla Storia generale.

     

    Possa il tuo ricordo essere amore. La storia di Ovadia Baruch

    Ovadia Baruch ha 20 anni quando, nel marzo 1943, viene deportato con tutta la sua famiglia dalla Grecia ad Auschwitz-Birkenau. L’intera famiglia sarà presto mandata a morte nelle camere a gas, mentre Ovadia riuscirà a sopravvivere fino alla liberazione del campo di Mauthausen, nel maggio 1945. Durante la permanenza ad Auschwitz, Ovadia incontra Aliza Tzarfati, una giovane ebrea originaria della sua città natale. I due si innamorano, a dispetto delle condizioni inumane in cui vivono.  Il film documenta la loro storia d’amore e di sopravvivenza nel campo di Auschwitz, il loro miracoloso incontro dopo l’Olocausto e la famiglia che hanno creato in Israele.  

     

    Ritorno alla vita.

    La questione del “dopo” Shoah, ovvero del ritorno alla vita. È possibile tornare alla vita “normale” quando scopri di essere solo al mondo, senza più una casa, una famiglia e un lavoro; quando necessiti di rieducazione fisica e psicologica perché devi reimparare a mangiare e a camminare, e, soprattutto, devi superare lo shock del recente passato; quando le uniche strutture che possono offrirti accoglienza sono ancora una volta dei campi, ma questa volta di profughi; quando ti capita di dover ancora subire delle persecuzioni (alcuni ebrei polacchi, nel 1946, sono vittime di pogrom con l’atavica accusa di praticare il sacrificio rituale dei bambini cristiani); quando l’unico mezzo di trasporto che ti consente di spostarti da un luogo all’altro è ancora una volta un treno merci, con la differenza che stavolta però ci sali di tua sponte;  quando scopri che a nulla è valsa la guerra se il tuo paese è ancora sottoposto a un regime, anche se di colore diverso (molti sono gli ebrei che abbandonano l’Europa comunista per trasferirsi in Italia, Francia, Germania federale, oppure in Palestina, Usa, Australia); quando, se sei donna,  restare incinta ti sembra un autentico miracolo (le donne recluse nei campi soffrivano di amenorrea); quando, se sei un bambino dei campi profughi, una delle prime cose che fai con la paghetta che ricevi è di correre dal fotografo per farti ritrarre, perché la fotografia ti restituisce identità e dignità, ed è la prova tangibile che sei vivo; quando, se sei giovane e solo al mondo, entri a far parte del movimento sionista?

     

    Il luoghi di memoria

     

    Il dispositivo memoriale della Shoàh è complesso e vario, composto da un intreccio di luoghi di memoria. Vi è ilViale dei Giusti fra le Nazioni, dove oltre 2.000 alberi sono piantati in onore dei gentili che durante la Shoah hanno rischiato la propria vita per salvare la vita degli ebrei; il suggestivoMemoriale dei Bambini, dove, in una sala immersa nel buio e appena rischiarata da 5 piccole lampade la cui luce è rifratta mediante un gioco di specchi, una voce ripete in un incessante e dolorosoloop i nomi, la data di nascita e la provenienza del milione e mezzo di bambini ebrei sterminati dai nazisti; laSala del Memoriale, dove una fiamma perpetua arde accanto a un’urna contenente le ceneri delle vittime portate in Israele dai campi di sterminio;  laSala dei Nomi, un archivio circolare sormontato da una cupola a forma di cono ricoperta di 600 fotografie, in cui sono custoditi i nomi e le storie personali di ben tre milioni di vittime dell’Olocausto (l’archivio è consultabile dai visitatori anche on-line ed è in continua implementazione); laValle delle comunità perdute, un labirinto la cui sagoma ricorda la morfologia del Vecchio Continente, al cui interno è facile smarrirsi nel dedalo delle nazioni europee un tempo abitate dalle 5.000 comunità ebraiche decimate dai nazisti, di cui non è rimasto pressoché nulla se non il nome inciso sulle 107 pareti roccia viva di questo mausoleo a cielo aperto.
     

     

    Al Museo storico la vicenda della Shoah è raccontata da una prospettiva ebraica, lungo un percorso che si snoda attraverso 9 gallerie. La narrazione tematica e cronologica è punteggiata da finestre che si aprono sulle comunità ebraiche europee vissute e perite sotto il Nazismo e i regimi collaborazionisti, ed è condotta attraverso filmati, fotografie, documenti, lettere, diari, articoli, lavori artistici.
    LaGalleria d’arte raccoglie 10.000 opere, realizzate per lo più durante il periodo della Shoah nei ghetti, nei campi, nei covi e in altri posti dove l’impegno artistico era pressoché impossibile, a causa dello stato di totale deprivazione materiale e di collasso fisico e mentale in cui vivevano gli artisti. Malgrado ciò, i quadri sono stati realizzati e, in molti casi, sono sopravvissuti ai loro autori. Essi dunque esprimono lo spirito dei sopravvissuti e delle vittime.

     

    Il seminario

     

    Il materiale e le relazioni di questo articolo sono tratte dal seminario svoltosi a Gerusalemme dal 31 agosto al 9 settembre 2012, organizzato dal M.I.U.R. e dall’International School for Holocaust Studies dello Yad Vashem (The Holocaust Martyrs’ and Heroes’ Remembrance Authority), nell’ambito del ICHEIC Program for Holocaust  Education in Europe. Gli insegnanti che vi hanno preso parte, 18 in tutto,  rappresentavano gli Uffici Scolastici Regionali che hanno aderito all’iniziativa.  Quest’ultima è stata resa possibile grazie al prezioso lavoro di Anna Piperno dell’ IT for Cooperation on Holocaust Education, Remembrance and Research del M.I.U.R., e del suo efficiente staff (Lina Grimaldi e Giuliana di Scala).

     

    I seminari dell’International School for Holocaust Studies (ISHS) sono partiti negli anni Ottanta del secolo scorso in maniera saltuaria; solo successivamente, quando a livello internazionale si è avviata la lotta contro il negazionismo, l’ISHS ha deciso di dare il suo contributo per combattere l’antisemitismo e il negazionismo. Il Desk Italia ha lo scopo di promuovere progetti educativi per l’Italia. E’ nato nel marzo del 2005, in contemporanea con la  creazione del Dipartimento Europeo presso l’ISHS.

  • La formazione dei prof, tra Università e Scuola.

    Intervista a Charles Heimberg

    Autore: Antonio Brusa

    Charles Heimberg insegna Didattica della storia e della cittadinanza all’Università di Ginevra ed è, al tempo stesso, il direttore del programma formativo dei docenti della secondaria di questo cantone. Lo incontro in occasione di Construire la paix, un festival di storia organizzato dall’Università della città, e ne approfitto per chiedergli notizie sulla formazione dei prof e sul loro reclutamento. Due temi che in Italia (come tutti sanno) sono oggetto di polemiche e di discussioni parlamentari. Il primo – la formazione dei docenti - alla Commissione cultura del Senato; il secondo – la Buona scuola – alla Camera. E’ vero: Ginevra è una realtà molto piccola, rispetto all’Italia. Ma forse proprio per questo si vede meglio l’effetto e il funzionamento di certi meccanismi che, a causa dei grandi numeri italiani, possono risultare opachi. (la conversazione è stata rivista da Charles).


    Cominciamo dal reclutamento. Chi vuole insegnare storia, che cosa deve studiare qui a Ginevra?

     

    Gli serve un corso di laurea triennale (baccalaureato universitario), poi un master specialistico in una disciplina insegnabile, infine un master professionale. Quest’ultimo è di 90 crediti. Corrisponde in pratica in un anno e mezzo di studi con un tirocinio annuale a metà tempo con una classe in piena responsabilità di insegnamento. Questo sistema attualmente viene contestato. Dovrebbe essere modificato prossimamente, probabilmente con la possibilità di formarsi in due anni per due discipline insegnabili.


    Com’è organizzato il master professionale?

     

    E’ diviso praticamente in tre parti: una di contenuti trasversali di scienze dell’educazione (dalla pedagogia alla psicologia ecc.); una seconda di didattica della disciplina; una terza, composta dal  tirocinio  in piena responsabilità già menzionato, e da altri tirocini, che si svolgono presso insegnanti dei vari livelli della secondaria. Durante il secondo anno, quindi, gli studenti sono inseriti in una scuola, in cui sperano di essere successivamente assunti dal preside.


    Si accede liberamente a questi master?

     

    Per alcuni anni l’accesso alla prima fase della formazione è stata libera. Purtroppo, in alcune discipline, tra cui la storia, molti studenti sono rimasti bloccati in attesa di tirocinio. Una selezione a monte è oramai prevista in un contesto di riduzioni finanziarie che bloccano tutto il sistema. Per questo anno, i posti sono saturi e non c’è sbocco.

     

    Ma come si accede al tirocinio? Chi decide in quale scuola andare?

     

    La legge prevede l’organizzazione di un concorso da parte dell’università, con studenti ammessi in base a una classifica, in un numero corrispondente alla quantità di tirocini messi a disposizione. Purtroppo, c’è un conflitto col Dipartimento dell’Istruzione pubblica che vuole riservarsi il compito di scegliere i candidati. Non so come la situazione evolverà. Temo che potrebbero prevalere delle pratiche arbitrarie.


    In base a quale criterio il preside chiamerebbe un tirocinante? Ha un curricolo, delle domande, guarda i voti?

     

    Non si sa. I criteri sono suoi personali. Sceglie quelli che conosce, magari, o che gli sono stati presentati. Sostiene soprattutto chi ha assunto per supplenze precedenti.

     

    E voi dell’Università siete d’accordo?

     

    C’è una forte conflittualità fra Università e presidi. Sono convinto che il compito dell’Università sia quello dell’equità. Noi dobbiamo insegnare un mestiere, valutare le capacità degli allievi e fare una graduatoria. I presidi al contrario, sono gelosi della loro autonomia.

     

    E la politica?

     

    La ministra dell’Istruzione pubblica parteggia piuttosto per i presidi. Per lei la vera formazione è tra pari e si dichiara poco convinta della necessità di tornare all’Università per una formazione professionale ottenuta con un master in una disciplina particolare. Insomma, se non ci fossero le leggi federali, farebbe volentieri a meno della formazione professionale universitaria.

     

     

    E i sindacati?

     

    Anche loro sono dello stesso avviso. Eppure, venti anni fa, non la pensavano in questo modo. Lavoravamo insieme per la costruzione di processi di formazione di qualità e per il miglioramento dell’insegnamento.

     

    Che cosa è cambiato?

     

    E’ cambiato che nel frattempo abbiamo inventato e sviluppato la didattica e, quindi, la possibilità di una formazione professionale trasparente e migliorabile. Ma non sembra che sindacati e politica se ne siano accorti.


    Quindi, l’autonomia delle scuole, paradossalmente, è un ostacolo per una formazione professionale adeguata alla ricerca?

     

    Le scuole non sono autonome. Tutto è deciso dalla politica. Budget, programmi, orari, materie e anche il preside. L’unica autonomia che gli è parzialmente concessa è proprio quella di scegliersi i professori.

  • La guerra insegnata (parte II)*. E la didattica che abbiamo perduto.

    Autore: Antonio Brusa

     

    La storia

    Galvanizzati dal successo dello sbarco in Normandia e, insieme, preoccupati dalla resistenza feroce organizzata dai tedeschi nelle Ardenne, gli angloamericani azzardarono un assalto dietro le loro linee, per tagliarne i rifornimenti e accerchiarle. Obiettivo dell’attacco: le città di Njimegen e di Arnhem, nell’Olanda meridionale, e i ponti che attraversano i loro fiumi. Nome dell’operazione “Market Garden”, tragicamente ottimistico per come andò a finire. Tempo: dal 17 al 26  al settembre. Nove giorni di battaglia, per un autentico disastro. Migliaia di morti, il ponte di Arnhem perso, decine di migliaia di prigionieri. Obiettivo militare completamente fallito. La guerra continuò per tutto il terribile inverno del ’44 e solo nei mesi iniziali dell’anno successivo gli alleati riuscirono a sfondare la resistenza tedesca. Il Museo della Liberazione di Groesbeek, nei dintorni di Nijmegen, è uno dei tre che, sul luogo della battaglia, ne conservano la memoria. L’ho visitato e sono stato colpito sia dallo sforzo didattico che i suoi progettisti vi hanno profuso, sia dallo spirito degli oltre ottanta volontari che mantengono in vita questa istituzione. Ecco il resoconto.

     

    Il teatro dell’operazione “Market Garden”, con le due città di Nijmegen e Arnhem. Groesbeek è in basso a destra. Qui vennero paracadutate le truppe d’assalto americane. Le truppe inglesi aviotrasportate attaccarono Arnhem.

     

    Indice

    • Il museo
    • Gli oggetti didattici
    • Il memoriale

     

    Il museo

    Il complesso è composto da due edifici: il museo e il memoriale.

    Ancora prima di visitarli, ascoltando la loro storia e osservandoli dall’esterno, scopro che sono essi stessi il primo monumento storico. Infatti l’edificio museale non è altro che uno stabile “industriale”, residuato dell’immensa opera di bonifica che gli olandesi intrapresero dopo la catastrofe dello Zuidersee del 1953, quando il mare ruppe le dighe e inondò i Paesi Bassi. La bonifica terminò a metà degli anni ’80 e uno dei capannoni di lavoro, in luogo di essere smantellato, venne riciclato come contenitore museale. E’ un edificio basso, senza pretese architettoniche, dunque, ma capace di trasmettere una forte carica emotiva al visitatore olandese (ma anche allo straniero che viene informato), perché unisce due momenti di tradizione nazionale, la guerra contro il nazismo e quella contro la furia del mare.

    Il percorso museale è scandito in tre periodi, riconoscibili da colori diversi: l’avvento del nazismo, la guerra, la liberazione postbellica. Non ne parlo, né descrivo i documenti raccolti e la loro sistemazione (non sono un esperto museologo), perché sono attratto dai dispositivi didattici. Anche questi sono una testimonianza di un periodo preciso: vi riconosco la didattica post sessantotto, quella che dura fino al principio degli anni ’90, nella quale si osservano i primi tentativi (e il loro entusiasmo) di costruire un rapporto con l’oggetto storico basato sull’interazione, e non solo sul racconto delle guide. Ma è anche la didattica del Novecento, basata sulla tecnologia di quel periodo: elettricità, carta, legno e metallo. Un mondo didattico recente, ma ormai scomparso nel nostro secolo, dominato dai computer e dall’elettronica. Simile a quel mondo che ci ostiniamo a cercare, noi adulti, nei giocattoli esposti nelle librerie della Città del Sole.

     

    Il Museo della Liberazione Nazionale di Groesbeek è alloggiato in una costruzione riciclata, utilizzata originariamente per le opere di bonifica dopo l’alluvione del 1953

     

    Gli oggetti didattici

    La realtà virtuale ha conquistato il ruolo di unica via per “far vedere la storia” e ha privato di credibilità ogni altro tentativo di visualizzazione. Questo museo ci mostra come si faceva una volta: attraverso i diorami o i plastici. La realtà virtuale li ha relegati al ruolo di giocattoli scaduti. Un tempo erano uno strumento didattico di avanguardia. Costoso, richiedeva cura, capacità tecniche e studi. In questi musei ne troviamo esemplari di diverso formato. Alcuni, piccoli, rappresentano momenti emblematici dell’avvento nazista o di guerra, come lo sbarco in Normandia. Uno, a grandezza naturale, fissa una scena drammatica, del tentativo di attraversamento del fiume da parte di soldati americani, costretti a ripiegare e a curare i feriti.

    Piccoli plastici: scene di età nazista e lo sbarco in Normandia

     

     

    Quasi a grandezza naturale un momento drammatico del tentativo di attraversamento del fiume

     

    L’interattività è la parola d’ordine dell’odierna didattica digitalizzata. Come si faceva un tempo? Con le lucette e i pulsanti. Un plastico circolare, di alcuni metri di diametro, con delle sedie attorno. Il visitatore si accomoda. Una voce racconta le fasi della battaglie e, man mano, si accendono le luci che rappresentano l’avanzata di una colonna corazzata tedesca, o l’atterraggio degli alianti inglesi. Un faretto illumina i luoghi interessati dal racconto. Puoi anche premere dei pulsanti e vedere fasi particolari: come nel plastico “elettrico” degli scontri sui ponti di Nijmegen. Entrare dentro la storia? Il computer odierno rende reale questa magia. Nella didattica eroica novecentesca è ancora questione di pulsanti e lampadine. Ecco una schermata che mostra delle scelte. Siamo sotto la dominazione nazista. Ci sono dei collaborazionisti. Tu che faresti? Fai la tua scelta, premi il bottone e vedrai le conseguenze. E, infine, lo vediamo il computer, sempre collegato al pannello elettrico. Una scrittura antica (quella dei primi Word o di Wordstar: ve li ricordate?) accoppiato all’onnipresente pannello, con la sua aria da sommergibile del capitan Nemo.

     

    Seduto ai bordi del plastico, il visitatore italiano, riconoscibile dalle scarpe da ginnastica, ascolta la storia e guarda le lucette.

     

     

    Gli scontri intorno al ponte sono visualizzati dalle lucette intermittenti

     

     

    Tre scelte empatiche sulla collaborazione con i tedeschi

     

     

    Un antico computer affiancato da un pannello elettrico

     

    Anche la didattica ludica, oggi, sembra non poter fare a meno del computer, dei suoi scenari realistici, della complessa interazione garantita da programmi sempre più complessi (e costosi). Un tempo, era il regno del gioco dell’Oca, che in questo museo è utilizzato per ricostruire gli eventi dal Nazismo alla liberazione; oppure del Monopoli, che riprende lo stesso percorso e lo riformula con le sue regole specifiche. In questo caso, sono documenti autentici: giochi stampati e diffusi nell’immediato dopoguerra. Ma ci sono giochi (o attività ludiche) progettate apposta per il museo. Non sono meno interessanti. Una bilancia e dei pesi: i fatti e i pregiudizi. Riuscite a trovare un equilibrio (il fatto che sconfigge il relativo pregiudizio)? Oppure uno scaffale con  22 caselle. Accoppiatele nel modo giusto. Si accenderà la lucetta verde e avrete vinto. Infine, il gioco che mi ha commosso: un pannello verde con dei buchi, attraverso i quali si vede un colore diverso. Si chiede alla classe di scegliere il colore della pelle che preferisce (immaginate una classe olandese multicolore). Ognuno sceglie il suo, ovviamente. Si solleva il pannello, compare il petto di un giovanotto. Quei colori diversi erano variazioni della stessa pelle, dello stesso uomo. Un giochino senza pretese, oggi diremmo dall’alto della nostra ipertecnologia iperpedagogizzata. Ma un ottimo punto di partenza per una discussione sul tema (e anche un buon modo per chiudere una visita ad un museo sulla guerra).

    Funzionano queste semplici macchinette didattiche? A giudicare dai visitatori, sì. 40 mila annuali non sono pochi, per un piccolo museo, con soli tre impiegati stabili e 80 volontari che lo mandano avanti, fanno le guide o gli animatori, puliscono, tengono il bar (ampio e confortevole, come mi capita spesso di vedere oltrealpi) e il piccolo bookshop, che non vende modellini di armi, ma cappellini, magliette, agende e penne, papaveri di stoffa rossa, e libri.

     

    Il gioco dell’Oca e il Monopoli sulla liberazione

     

     

    La bilancia dei fatti e dei pregiudizi e lo scaffale delle corrispondenze

     

     

    Gioco interculturale: scegliete il colore della pelle, poi sollevate il pannello verde

     

    Il memoriale

    Il memoriale ha l’aspetto di un paracadute. Forse non fu progettato da un archistar, ma questa forma e il materiale trasparente con cui è realizzato, creano un ambiente luminoso che non ti aspetti per un luogo di memoria. Tutto è chiaro, anche il corridoio che circonda la sala delle conferenze, sulle cui pareti sono appesi i simboli dei reggimenti che parteciparono all’impresa. Da un albero stilizzato dondolano dei foglietti. Sono le riflessioni dei bambini al termine della visita. Scrive Bodine: “mai più guerre”. Sarà retorica, buonismo, quello che volete. Ma è meglio che scrivano frasi di questo genere, piuttosto che quelle che, al tempo del nazismo e durante la guerra, i bambini di entrambi i fronti erano portati a scrivere.

    Una didattica ingenua? Passata di moda? Una didattica povera, superata dai tempi? E’ facile pensarlo e qualcuno, a questo punto sarà di questa idea. La mia è divisa in due ordini di riflessioni. Il primo riguarda questa struttura e le persone che la fanno andare avanti e il flusso dei visitatori, incessante, anche in un giorno di pioggia, come quando ci sono andato io. Il confronto con l’Italia è spontaneo. Anche da noi ci sono musei di guerra: quelli del Risorgimento; quelli della prima e della seconda guerra mondiale, ai quali ho dedicato un lavoro che vedrete presto su HL; quelli della Resistenza. Ora, al di là del loro successo di pubblico, molto vario (per esempio quelli del Risorgimento non è che ne riscuotano tanto, nonostante il recente 150esimo), nei nostri musei di guerra si celebra qualcosa di nostro: il patriota che combatte per l’Indipendenza, o contro il nemico, o per la libertà e una società più giusta. Ma sempre un italiano. A Groesbeek no. Gli eroi sono americani, canadesi, inglesi, polacchi, e tanti altri. Altri, appunto. Eppure, la cura, la passione per la memoria sono palpabili e concreti, come abbiamo visto, nell’imponente numero di volontari. Memoria nazionale, certamente, ma non assistita e concretizzata da eroi egualmente nazionali. Tanta passione, mi sembra di poter dire, per “l’episodio in sé”. Qualcuno è venuto qui e ha combattuto per la libertà. E questo va ricordato.

    Sono solo i pensieri di un visitatore. Nulla di scientifico, ma non posso fare a meno di ricordare il cimitero di Corpusu (Capurso), che i baresi conoscono benissimo, dove sono sepolti i soldati polacchi che caddero in Italia, combattendo contro il nazismo. Confesso di non esserci mai entrato. Mi chiedo quanti miei concittadini hanno fatto come me e mi rammento di un esame (l’argomento era “i luoghi di memoria”), durante il quale la studentessa non seppe dirmi se questi polacchi combattevano con gli Alleati o con i Nazisti.

     

    Il secondo ordine di riflessioni è più tecnico. Quella didattica che ho cercato di raccontarvi è essa stessa un cimelio di un passato. Rende palpabile l’enorme distanza che ormai separa gli anni ’80 dall’oggi. E, paradossalmente o miracolosamente, funziona bene ancora. So che in quella regione (la crisi c’è ovunque) si fa l’ovvio ragionamento che tre musei vicini sono troppi e che sarebbe bene accorparli. Mi piacerebbe che non buttassero via questi giocattoli didattici e avessero l’intelligenza di creare loro uno spazio museale. Anche loro, come gli ambienti e le scene di vita degli anni ’40 e ’50, così ben ricostruite, meritano un posto nella memoria sociale.

     

    Il memoriale di Groesbeek a forma di paracadute

     

     

    L’interno del memoriale

     

     

    Lungo il corridoio perimetrale i simboli dei reggimenti di diversa nazionalità impegnati negli scontri

     

     

    I ragazzi scrivono le loro impressioni su biglietti, che vengono appesi a un albero.

    Mai più la guerra. Bodine

     

    *La prima parte è stata già pubblicata su HL. Descrive la didattica dei musei di guerra in Francia. Le parti successive sono dedicate alla didattica di guerra in Italia.

  • La guerra insegnata. Note di didattica per la scuola e per i musei. (Parte prima)

    Autore: Antonio Brusa


    La guerra insegnata. Note di didattica per la scuola e per i musei. (Parte prima)

     

    Indice


    1. Craonne, la città martire
    2. Gallipoli, la spiaggia sacra
    3. Perché studiare la guerra?

     

    1. Craonne. La città martire

     

     Craonne si trova nel Nord Est della Francia, sotto le Ardenne, dove si affrontarono soldati di molte guerre, europee e mondiali. Per una di quelle eccezioni che si imparano solo in loco, si pronuncia Cran (ma dubito tutti i francesi lo sappiano). La città è piccolissima, un insediamento sparso, con una vecchia scuola, adibita a mensa, e un palazzo comunale costruito con i fondi del governo svedese (omaggio alla città martire). La città importante più vicina è Laon. A un medievista brillano gli occhi a sentirne il nome. Qui si elaborò la scrittura detta “Laon A Z”, sulla quale molti studenti di paleografia, me compreso, hanno consumato i loro occhi. Anche Laon si dice “Lan”. Ho perso l’occasione di farmene bello, di questa particolare pronuncia, con Franco Magistrale, che mi insegnò quella scrittura. Mi consolo dedicandogli questo piccolo lavoro.

     

    L’alboreto di Craonne è un luogo dello spirito. Cento anni fa era l’inferno. Craonne, infatti, è una cittadina che si trova al termine dello Chemin de Dames. Il nome delizioso di questa lunga vallata viene dal 1700, quando le signore del tempo vi passeggiavano con le loro carrozze. Durante la Prima Guerra mondiale era pronunciato con terrore dai soldati. Quella valle era la linea di contatto fra le armate tedesche e quelle francesi. Nel piccolo palazzo comunale di Craonne, due plastici, forse un po’ ingenui, illustrano efficacemente la situazione militare: le trincee nemiche scorrevano parallele, a volte a pochi metri di distanza; mentre – in alto – dal costone che sovrasta la vallata, i tedeschi mitragliavano e bombardavano i francesi, che cercavano invano di ripararsi dietro fortificazioni di ogni specie.


    Quel luogo fu un macello umano. Nella prima giornata di assalti morirono quasi cinquantamila francesi. Alla fine della guerra le vittime furono diverse centinaia di migliaia, da entrambe le parti. Fra di loro, anche cinquecento italiani, di un corpo d’armata inviato dal Regno d’Italia a soccorrere l’alleato in difficoltà. Un quadro, anch’esso alquanto ingenuo, esposto nel comune, ci restituisce il senso di una tragedia ottusa. Ritrae una lunga fiumana di soldati, visti di spalle. Procedono stretti l’uno accanto all’altro verso l’orizzonte, dove c'è Craonne in fiamme, e dove moriranno. Craonne è una metonimia di ogni guerra combattuta sui campi e studiata nelle scuole.


    La cittadina di Craonne, ai piedi del costone, fu distrutta dalle artiglierie francesi. Dopo la guerra non venne ricostruita in loco, ma a pochi chilometri di distanza. Al suo posto hanno lasciato crescere gli alberi. Scendi nel parcheggio, dall'auto o dal pullman che scarica i visitatori, e ti dirigi verso il bosco. Ti inoltri per i viottoli. Riconosci facilmente che furono un tempo le strade della città. Ad ogni svolta, un cartello con la foto d’epoca ti avvisa che c’era una piazza, al posto della radura; e più avanti ancora il fornaio e poi la scuola comunale. La vita degli alberi, al posto di quella degli uomini e delle loro cose. Forse è questo il senso di pace, che l'alboreto ti comunica?

    Craonne come è oggi e come era prima della distruzione


    Più in là, verso il costone di roccia, vedo degli operai. Lavorano alle attrezzature turistiche del sito. Strade, scale, giardini curati. Il costone di roccia era stato traforato dai tedeschi, con tunnel e bunker. Uno di questi, la Caverna del Drago, è diventata un museo, al termine del quale si passa in un bar/ritrovo, che si apre sulla valle con una balconata spettacolare. Quello era il punto di vista dei soldati tedeschi, e ora è il mio. Oggi, vedo una distesa di colline morbide, con macchie alberate, fattorie, campi coltivati. Il soldato tedesco scrutava quella distesa ingrigita dal fumo, dai ruderi e dai tronchi bruciati, alla ricerca di nemici da eliminare.

     

    L’ingresso del bunker, chiamato la Caverna del Drago; il belvedere attrezzato del museo omonimo

     

    I cittadini di Craonne trovano nel turismo di guerra una fonte di sostentamento. Non c'è bisogno di una indagine accurata per capirlo. Ho la sensazione, però, che lo facciano con dignità. E' una sensazione, certo. Forse, sono anche influenzato dal fatto che la città non si limita al turismo, ma promuove una ricerca accanita e senza veli sulla guerra e sulla memoria.


    La Francia ha un rapporto particolare con la storia. A differenza del nostro paese, è facile che un dibattito storico accenda gli animi della gente comune anche se si parla di fatti accaduti un secolo fa, come è il caso della Prima Guerra mondiale. Detta in parole povere, la questione che divide gli studiosi è questa: per conservare la memoria di quel passato tragico, dobbiamo accettare tutto, usare ogni mezzo, anche la spettacolarizzazione spinta; oppure questa memoria acquista senso e utilità sociale solo se tiene viva  la tragedia e l'incomprensibilità del conflitto, che lacerarono – insieme -  quei tempi lontani, e quelli che ci separano da loro? Ci dobbiamo battere perché la memoria è un patrimonio da salvaguardare per il solo fatto di riguardare eventi decisivi; oppure dobbiamo lottare – intellettualmente e moralmente - per dare un senso a questa memoria? E che cosa deve dar senso a questa memoria? L'idea che quei fatti sono le nostre radici, il “passato senza del quale non abbiamo futuro”? O può darle senso – e quale? - la puntigliosa ricostruzione della desolazione che quei fatti portarono?


    Perché ricordare? Vale anche per la memoria la domanda che il bambino rivolse a Marc Bloch, “perché studi la storia?” E vale anche in questo campo l'ammonimento di Bloch, che gli storici sbagliano, e di grosso, a considerare scontata questa domanda?

    Il programma del convegno su Storia e Memoria

     

    2. Gallipoli. La spiaggia sacra

     

    Quindi, sono a Craonne, insieme con storici che vengono un po' da tutto il mondo, perché ci accomuna il desiderio di raccontarci qualche risposta a questa domanda. Fu una guerra mondiale: dunque non mi sorprende di ascoltare colleghi francesi, italiani, spagnoli, cechi e turchi, canadesi, americani e neozelandesi. Questi ultimi mi incuriosiscono particolarmente. Perché un neozelandese o un australiano dovrebbero porsi oggi il problema della memoria della Prima Guerra mondiale? Certamente, quelle terre inviarono dei soldati. Facevano parte dello schieramento alleato. Questo lo studiamo. Ma, tutto sommato, saremmo portati a pensare che si trattò di una guerra per loro lontana, che sentirono estranea, e quindi facilmente preda dell'oblio. No, ribatte Fanny Pascual, che insegna nell’Università della Nuova Caledonia, informando noi europei che i memoriali della Prima guerra abbondano ai nostri antipodi. Sono luoghi di memoria venerati, oggetto di turismo e di visite incessanti. Sono luoghi di fondazione della nazione.

     

    Il memoriale di Auckland in Nuova Zelanda e quello di Canberra, in Australia, con i papaveri, i fiori dei soldati, apposti dai visitatori

     

    Normalmente, quando spieghiamo in Italia la Prima guerra, tralasciamo un evento che per noi, per la nostra sensibilità, appare alquanto distante. Al principio del 1915 gli Alleati decisero di aprire un nuovo fronte in Turchia. Organizzarono una flotta e uno sbarco imponenti (la prima operazione del genere, sottolineano gli esperti di storia militare). Ma lo fecero così male che mandarono a morire centinaia di migliaia di giovani: neozelandesi e australiani. Un giudizio, questo, sul comportamento stupido e folle degli ammiragli inglesi che guidarono questa impresa sciagurata, che è condiviso dagli studiosi (lo ritroverete fedelmente su Wikipedia). Motivato, senza dubbio, questo giudizio suona però strano, qui a Craonne, dove uno si chiederebbe perché la condotta dei generali francesi,  per quanto sciagurata, sia da considerarsi militarmente corretta.


    In quel caso, ad accelerare la disfatta alleata, contribuì l'armata turca, guidata è vero da un generale tedesco, ma animata da Mostafà Keimal Ataturk, il fondatore dello stato turco moderno. Fu lui, dicono le cronache, che ebbe l'intuizione di fortificare i costoni di roccia che sovrastano le striminzite spiagge dove sbarcarono i baldi giovani dall'Oceania. E di lì i turchi, come i tedeschi a Craonne, presero a mitragliarli con comodo. Per questo motivo, conclude Loubna Lahmrari, studiosa marocchina, specialista di storia turca presso l’università di Montpellier, quella spiaggia di Gallipoli è considerata un luogo di memoria e di fondazione della nazione.


    Il cinema non poteva mancare all’appuntamento. Nel 1985, Peter Weir girò Gli anni spezzati, con Mel Gibson, nella parte di un giovane australiano che fa il portaordini durante la guerra, non riesce ad evitare il massacro e muore anche lui; la Turchia non è da meno, con ben cinque film, uno dei quali reimpiega Mel Gibson, a carattere più o meno nazionalistico.


    La medesima località è diventata un luogo sacro, per due nazioni agli antipodi. E, per giunta, ci dimostra con chiarezza la diversità del ricordo, della memoria e della storia. Per quello della memoria, essa fu teatro di eroismi e martiri. Lo sguardo della storia, invece, pur mettendo in luce le indicibili sofferenze umane che vi furono patite, ricorda che da una parte vi furono dei giovani mandati allo sbaraglio da uno stupido generale; e che dall'altra, altri giovani, per quasi un anno, si esercitarono al tiro al bersaglio umano. La conoscenza, oggi, di quel fatto – potremmo dire “la coscienza storica di quel fatto” -  a mio modo di vedere, non consiste nel “dovere di ricordarlo”; quanto, piuttosto, nell'obbligo morale e scientifico di esplorare i meccanismi sociali, culturali e politici, che lo trasformarono in un evento fondatore.

     

    3. Perché studiare la guerra?

     

    Dovremmo riflettere sull’utilità di una “educazione alla violenza”: in altri termini sulla utilità di dotare i ragazzi di un’attrezzatura mentale, che li metta in grado di far fronte a questo aspetto della vita e della storia, che abbiamo quasi del tutto eliminato nella concezione borghese della vita familiare, ma che straripa nei media e, spesso, nelle strade. E questo è oggi necessario. Non sembri paradossale -  l’analisi dei manuali non ci lascia alcun dubbio – la guerra è sparita dalla didattica.


    Il paradosso nasce dal fatto che, a causa dell’immagine di “storia-battaglia” che la grande rivista francese del secolo scorso “Les Annales” aveva creato per battere la storia tradizionale, e affermare vittoriosamente la propria idea di storia, tutti siamo convinti che gli insegnanti si dividano in due categorie: quelli che spiegano guerre, sovrani e trattati di pace; e quelli che spiegano “la società”. Le battaglie appartengono alla “storia dall’alto”. Ma in realtà: chi la spiega ancora? Ciò che vediamo, invece, è un canone piuttosto deformato, composto da una congerie di tradizioni storiche e storiografiche che si sono fuse e intrecciate fra di loro, attraverso l’uso da una parte, e con la sapiente regia commerciale delle case editrici dall’altra.


    Le guerre, dal canto loro, è vero che abbondano e ne troviamo a bizzeffe, pagina dopo pagina. Ma fate attenzione: sono citate, non sono descritte. Solo qualche volta -  a proposito di Qadesh, per esempio (la prima battaglia che trovo nei manuali: ma sta rapidamente scomparendo, a causa dei tagli di ore e conseguentemente di pagine); oppure della battaglia navale di Salamina o di quella terrestre di Canne – si trova la descrizione delle manovre degli schieramenti. Ma assai di rado leggeremo la sofferenza, i cadaveri, le ferite, la fatica terribile del combattimento, l’angoscia nella sua attesa, la spossatezza e il vuoto, alla sua fine. Sono guerre senza soldati e senza sangue. Tutto questo sia perché i testi, in genere, diventano più freddi e impersonali; sia perché l’intero apparato emotivo della comunicazione storica viene trasferito nelle immagini: e queste, sempre di più invadono i nostri manuali (e c’è da pensare che l’incipiente vicenda della storia in rete non farà che aumentare questa tendenza). Potremmo dire che la guerra dei manuali è il luogo dove si palesa la vittoria della “civiltà delle buone maniere”, che – secondo Norbert Elias – ha pian piano ripulito le nostre case dalle tracce di violenza e di sporco.


    Le eccezioni sono anch’esse significative. In occasione della prima, ma soprattutto della seconda guerra mondiale, si fa largo la descrizione della “sofferenza della popolazione”. Il martirio del fronte interno: il cibo razionato, il freddo, le donne al lavoro maschile, i bombardamenti. E, soprattutto in occasione della prima guerra, troviamo spesso il tema della “vita delle trincee”. A mio modo di vedere, queste pagine hanno molto a che vedere con l’ideologia della “gente comune”, e quindi, pur ponendosi esplicitamente come “critiche” e come “inviti alla riflessione”, corrono il rischio di ribadire convinzioni comuni e ormai scontate.


    Due eccezioni ancora mi sembrano significative, in questo occultamento della violenza, ma sono così importanti che richiedono un discorso a parte. La prima è quella della violenza “sacra”. Quella appunto che porta all’indipendenza della nazione, o alle lotte per la sua sopravvivenza. Per quanto in declino, essa è ancora presente, con modalità diverse e interessantissime da studiare, da nazione a nazione. La seconda riguarda la Shoàh: il racconto della violenza assoluta. Nei tempi recenti è diventato (e anche di questo occorre discutere) paradigmatico al punto tale che tende a sopraffare quello dominante negli ultimi decenni del secolo scorso, il racconto della Resistenza.


    I morti delle guerre manualistiche non sono mai “cadaveri”. Al massimo numeri. Settantamila romani uccisi a Canne; cinquanta milioni di morti nella seconda guerra mondiale. Indici di grandezza della guerra. Inoltre, più si risale verso il passato, più queste vittime assumono i colori dell’epica. Ecco la battaglia di Maratona. Migliaia di morti nell’esercito persiano e “solo” poche decine di ateniesi. Ecco la conquista della Gallia o della Dacia. Centinaia di migliaia di barbari uccisi e un milione catturati e fatti schiavi. Il ragazzo impara la potenza di Roma.


    Non voglio discutere o criticare il racconto epico della guerra. La rielaborazione dell’evento, nella letteratura come nel gioco, fa parte integrante del nostro modo di gestire questi fatti terribili. Il punto è: e la storia? Si deve limitare a citare questi fatti, alle loro descrizioni fredde e asettiche, e, in pratica, li deve occultare? E, magari, deve lasciare al “tema di attualità”, o all’ora di filosofia o di religione, il compito di tematizzarne e raccontarne l’angoscia? Eppure la storiografia ha elaborato potenti sistemi di indagine su questi eventi. Privarne gli allievi non sembra una scelta molto acuta.


    A molti sembra un progresso, non parlare di guerre. Spiego la vita dal basso, della gente comune, la storia di genere o le mentalità. Oppure, come si dice, “spiego la pace”. Giusto: ma non spiegare le guerre significa circondare questi fatti con un recinto di protezione, che li separa dalla storia e li confina nell’empireo degli oggetti scolastici. Li priva della loro problematicità e, perciò, li de-storicizza.


    Noi cercheremo di indagare su questo fenomeno, servendoci di una fonte e di un luogo particolari: i musei di guerra. Molto diffusi in altre nazioni (in Francia in particolare), in Italia sono presenti per la maggior parte in Italia Settentrionale e, ovviamente, con una concentrazione maggiore nelle regioni investite dalla Prima Guerra mondiale. Non mancano i musei del Risorgimento, che di recente hanno conosciuto un momento di risveglio dopo un lungo torpore: anche loro, si ricordi, sono in gran parte musei di guerra. Ho escluso da questa ricerca i musei della Resistenza: per questi occorreranno un discorso e uno studio particolari.


    Studiare la guerra nei musei serve non solo ai loro operatori. E’ utile anche per gli insegnanti. Come tutti sanno, la collaborazione fra insegnanti e operatori è fondamentale per un buon uso didattico del museo. Ma, oltre a questo, lo studio delle scelte espositive del museo aiuta docenti e storici ad approfondire questo argomento. Ci fornisce conoscenze e idee per spiegarla bene, e fare – della guerra – un oggetto di buona didattica.

     

    Fine prima parte

     

    (Seguirano la Parte seconda, sui musei tradizionali e i “musei-manuale”; la Parte terza sui “musei-laboratorio” e i “musei-provocazione”. Questo contributo è la rielaborazione della relazione che ho tenuto al convegno  di Craonne, e che verrà pubblicata in Francia)

  • La lunga guerra tra uomo e microbi

    Con una postilla sul “Laboratorio del tempo presente” (di HL)

    di Salvatore Adorno*

    Illustrazione di apertura dell’articolo di Salvatore Adorno, pubblicato da «La Sicilia», 20 marzo 2020

    Domesticazioni riuscite e no

    La vicenda del corona virus ci permette di utilizzare come chiave di lettura della storia dell’umanità il conflitto tra uomo e microbi.

    I microbi, virus e batteri, hanno una storia più lunga di quella dell’uomo. L’uomo è comparso sul pianeta 4 milioni di anni fa, quando i virus e i batteri erano già presenti da due miliardi di anni. Erano allora le più numerose forme di vita, i veri padroni della terra. Da quel momento l’uomo a grandi tappe ha forgiato il pianeta e ha riorganizzato il mondo degli altri esseri viventi in funzione del suo dominio: alcuni sono stati addomesticati come il cane e il cavallo, altri sono risultati restii al processo, come il bisonte che è stato così sterminato, altri sono rimasti ribelli come i virus e i batteri, i cosiddetti microbi: i nemici più pericolosi della specie umana.

    Per lungo tempo la forza di virus e batteri stava nel loro essere invisibili e quindi nella possibilità di agire indisturbatamente, uccidendo l’uomo. La scoperta del cannocchiale (siamo con Galileo nella prima metà del XVII secolo) e quindi del microscopio ha permesso di individuarli. Successivamente Pasteur e Kock, nel corso dell’Ottocento, hanno definito il loro ruolo nella trasmissione delle malattie, arrivando alla preparazione dei vaccini. Fleming nel primo Novecento ha scoperto gli antibiotici.

    La guerra degli uomini ai microbi

    Vaccini, antibiotici e risanamento dell’ambiente (si pensi alle bonifiche dei terreni malarici) sono state le armi con le quali l’uomo nel Novecento ha compiuto un vero “colpo di stato” nei confronti della maggioranza delle forme di vita fino ad allora dominanti, i microbi, che nella storia dell’umanità hanno ucciso mille volte più uomini di quanti ne abbiano ucciso guerre e disastri naturali.

    Non a caso, la ricerca scientifica e l’organizzazione dei sistemi sanitari nazionali hanno portato al ridimensionamento dell’azione di virus e batteri e in particolare all’eliminazione del virus del vaiolo e all’eradicazione di quello della difterite, del morbillo e di altre malattie endemiche. Tutto ciò ha contribuito in modo rilevante ad allungare la vita delle persone, migliorandone il controllo sanitario e la qualità. Un solo esempio: il vaiolo nel XX secolo, prima di scomparire definitivamente nel 1980, ha fatto 300 milioni di vittime.

    La risposta dei microbi

    La nostra epoca dei consumi di massa individuali, che inizia dopo la seconda guerra mondiale ed evolve nella globalizzazione, ha visto così un netto miglioramento delle condizioni di vita e lo sterminio dei più feroci nemici dell’uomo. Nei principali libri di storia della medicina si legge come nella seconda metà del Novecento siano diminuite le patologie legate alla trasmissione e al contagio e siano aumentate quelle tumorali e cardiopatiche legate all’inquinamento, all’alimentazione allo stress, ovvero all’attività umana. Il paradosso sta nel fatto che questa vittoria è avvenuta in un’epoca in cui si sono moltiplicate vertiginosamente le condizioni che favoriscono la diffusione e il contagio di batteri e virus: l’aumento dell’irrigazione, la crescita esponenziale dei trasporti, il deterioramento degli ecosistemi, il cambiamento delle relazioni tra animali e uomini, la nascita delle megalopoli e il moltiplicarsi all’infinito dei contatti quotidiani tra gli uomini.

    Ecco allora che la vittoria strategica sui microbi, realizzata tra la fine del XIX secolo e la seconda metà del XX secolo, risulta sempre più instabile, anche perché i batteri hanno risposto all’attacco degli antibiotici diventando resistenti MDR (multi drug resistence), producendo così nuove forme di malaria e di tubercolosi, e i virus, approfittando del sovvertimento ecologico del pianeta, sono mutati sfuggendo al controllo dei vaccini. Nel 1977, ad esempio, circa 50 milioni di esseri umani sono stati affetti da tubercolosi MDR. Per cui oggi la transizione epidemiologica che sembrava portare al trionfo dell’uomo pare essersi fermata e il nemico ritorna più pericoloso che mai nelle forme dell’HIV, della Sars, del corona virus.

    La coevoluzione tra uomo e microbi sembra di nuovo sfuggire al controllo dell’uomo.

    Una guerra che cambia la storia

    L’epidemia attuale di corona virus rappresenta l’altra faccia del dominio dell’uomo sulla natura, è la risposta della natura alla pretesa superiorità biologica dell’uomo. Un microbo sta mettendo a repentaglio il sistema dell’economia, della cultura e della società globale. L’uomo con la sua intelligenza riuscirà probabilmente a vincere questa guerra (così ormai viene rappresentata dei media) che però è anche l’ennesimo e forse più netto segnale del nostro essere entrati in un’altra fase della storia della specie. La pandemia di oggi per un verso si pone in continuità con la guerra infinita tra uomini e microbi, per un altro segna una cesura profonda perché agisce, per la prima volta e quindi in modo imprevedibile, in un pianeta iperconnesso e ipertecnologico che l’uomo ha forgiato come non mai a sua misura.

    Ambiente, migrazioni e virus

    C’è infatti uno stretto nesso tra l’emergenza ambientale, quella migratoria e quella sanitaria. Tutte e tre sono il frutto della globalizzazione e sono strettamente connesse tra loro. Tutte e tre pongono alla società globale una doppia sfida: mantenere la sicurezza e modificare gli stili di vita.

    Fino ad oggi il tema della sicurezza è stato affrontato polarizzando la paura e alzando barriere di odio nei confronti dei migranti, che tolgono lavoro, portano malattie e violenza. Questo atteggiamento spinge così a blindare il nostro stile di vita basato sui consumi di massa individuali e sull’uso indiscriminato delle risorse naturali.

    Il corona virus ribalta questa narrazione e ci dimostra all’improvviso che l’insicurezza, sanitaria ed economica, viene dalle aree più ricche ed è il prodotto della nostra società dei consumi e dell’alterazione degli equilibri ambientali che noi stessi abbiamo creato. Oggi per bloccare il virus tutte le autorità richiedono di rimodulare temporaneamente il nostro stile di vita rendendolo più controllato e più parco. A ben vedere è la stessa richiesta di Greta Thumberg, che ci invita a un cambiamento strutturale delle nostre modalità di produzione, di mobilità, di alimentazione e di svago, per salvare il pianeta dal riscaldamento globale e dall’esaurimento delle risorse.

    Di fronte all’insicurezza e alla precarietà prodotta dalla globalizzazione possiamo rispondere individuando un nemico esterno, trincerandoci nella certezza della bontà del nostro modello di vita, oppure prendendo atto che è il nostro modello di vita che genera instabilità e insicurezza, spingendoci a ripensarlo. La pandemia da corona virus e il riscaldamento globale, sono due facce di un pianeta iperconnesso e profondamente alterato nelle sue matrici naturali (acqua, suolo, aria, vita animale e vegetale), che la specie umana ha messo sotto stress.

    I segnali di questa malattia della terra sono ormai molti, forse è arrivato il momento di fermarsi a riflettere sul nostro futuro come individui, come società e come specie. Forse la politica dovrebbe occuparsi proprio di questo.

    *****
    ***

    Una postilla sul “Laboratorio del tempo presente” (di HL)

    Un’infermiera della Croce Rossa indossa una mascherina durante la pandemia del 1918 (da Jstor)

    A cosa serve parlare a scuola di corona virus? Certo, non ad aggiungere dati e polemiche a quelle che già inondano i media. Non c’è bisogno di una tabella in più o di una ulteriore raccomandazione a comportarsi correttamente. Quello che manca, e che i media non sono molto interessati a dare (comprensibilmente, vista l’emergenza), è la risposta a una folla di domande, che – per quanto inespresse – ci angosciano quanto quelle quotidiane, perché riguardano il destino della nostra società. Dopo, ci chiediamo, che cosa succederà? Ci stiamo accorgendo, infatti, che questo evento sta agendo nel nostro modo di vivere in modo molto profondo. Quindi, intuiamo, più o meno confusamente, che “il dopo” sarà diverso.

    È fondamentale cominciare a capire che cosa questo evento sta mettendo in discussione. La storia è uno degli strumenti a nostra disposizione. Lo fa in due direzioni. Quella del tempo, in primo luogo. La storia mette il nostro evento in una prospettiva temporale che, in questo caso, è lunghissima. Dura quanto l’intera vicenda umana. Coinvolge l’idea stessa di evoluzione. Adorno richiama il concetto di “coevoluzione”: quella dell’uomo e quella del virus. Se non conosciamo bene la dinamica di questo confronto, non potremo mai immaginare quale “mossa” ci convenga fare contro un avversario, adattabile almeno quanto lo siamo stati noi.

    La seconda direzione è quella della contestualizzazione. In quale contesto inserire questo evento? In quello del piccolo paese, della regione o del singolo stato? C’è una risposta ovvia: nel contesto dell’ambiente globale. C’è, infatti, una seconda coevoluzione che viene messa in gioco oggi: quella fra umanità e ambiente. E questa chiama in causa – come sottolinea Adorno – la globalizzazione con i suoi aspetti più visibili, quali le migrazioni, le crisi climatiche e i nostri stili di vita (ma potremmo aggiungere anche la finanza mondiale, le politiche internazionali e così via). Anche in questo caso, nessuna previsione futura, ma solo la lettura di una situazione con le possibili scelte: rispondiamo chiudendoci (e cioè cercando di conservare i vecchi assetti)? Oppure proveremo a modificare quegli aspetti che sembrano incidere negativamente nel dialogo fra noi e il nostro pianeta?

    Un laboratorio di cittadinanza

    Sono problemi che riguardano la vita di tutti. Quindi, è fondamentale, in una società democratica, che diano luogo a una discussione pubblica. Discuterne a scuola significa affermare il principio che, per essere buoni cittadini, occorre intervenire nel dibattito con cognizione di causa. Usando gli strumenti giusti. Quelli della storia, per esempio.

    Le piattaforme, che molti docenti usano o stanno affannosamente imparando a usare, consentono di discutere, di inviare materiali. Un laboratorio è possibile. Anzi, è molto più adatto alle tecnologie digitali di una lezione in video. L’articolo di Adorno può essere il punto di partenza. È certamente leggibile in una secondaria superiore. È una possibile apertura del dibattito. Il tempo e la contestualizzazione, come ho suggerito sopra, costituiscono la guide della discussione. All’insegnante il compito di ricondurvi i discorsi dei ragazzi che, come può succedere quando si tratta di “temi caldi”, tenderanno a scivolare nella “ricerca del colpevole” o nei “buoni o cattivi sentimenti”. Sempre in rete potremo trovare materiali da far leggere, da assegnare per gruppi, con i quali far lievitare il discorso e tenerlo aderente ai fatti e alle problematizzazioni storiche. Jstor, la più grande raccolta di riviste storiche, ne ha messi online parecchi (alcuni molto belli). Sono in inglese (ma Google traduttore si rivela una delle più grandi invenzioni del XXI secolo!). Vi permetteranno excursus nel passato e approfondimenti nelle problematiche del presente. Vi permetteranno, se saprete organizzarvi, di lavorare trasversalmente su molte discipline, da storia a scienze a letteratura.

    Insomma: anche su questo versante il “durante” – ciò che facciamo oggi – può annunciare un “dopo” alquanto diverso.

     


     

    * Questo articolo è stato scritto da Salvatore Adorno, docente di Storia dell’ambiente presso l’Università di Catania, per “La Sicilia” del 19 marzo 2020. HL ringrazia l’autore per averci consentito di riprenderlo qui, con qualche modifica, e di rilanciarlo fra i docenti.

  • La narrazione storica: il tema, la novella, il racconto

    Autore: Francesca Vinciotti

    Di Francesca Vinciotti abbiamo pubblicato un articolo sull’uso delle fonti, secondo la rivista inglese “Teaching History”, il sussidio degli insegnanti, pubblicato fin dal lontano 1969. Ora è la volta della narrazione. I colleghi inglesi, vedrete, sono molto attenti al percorso che guida gli allievi dalla narrazione personale a quella “impersonale” della descrizione storica, all’attivazione delle capacità di argomentare. Sono ricchi di proposte, quali “il modello hamburger”, per imparare a scrivere brani coerenti e coesi, ai giochi di carte, per imparare a scrivere e all’uso della fiction. Nel frattempo, Francesca sta preparando altri capitoli, sull’uso dei giochi, sulla storia locale e sulle tecnologie per l’apprendimento storico (HL).

     

    Indice

    Introduzione

    Perché è importante saper scrivere un tema di argomento storico?

    Le difficoltà degli alunni nello scrivere di storia

    Alcune proposte per aiutare gli studenti

    Come scrivere un paragrafo: il modello hamburger

    Un interessante esempio di ricerca di dipartimento

    Ricostruire la narrazione dal particolare al generale

    Sviluppare l’abilità di “raccontare storia”

    Leggere e scrivere novelle e racconti storici: un’attività non sempre ben vista nella scuola inglese

    Un dibattito piuttosto acceso

    Leggere Dikens per sviluppare il pensiero storico

    Un concorso di scrittura di racconti storici

    Introduzione

    Una particolare attenzione viene dedicata nella scuola inglese alla produzione scritta di argomento storico. Contrariamente a quanto avviene in Italia, in cui la storia è stata per lungo tempo[1] una disciplina prettamente orale, senza alcun obbligo di svolgere anche prove scritte, in Inghilterra la valutazione dello scritto per questa disciplina è stata finora la prassi[2].

    In particolare con il termine “essay” (che può essere reso in italiano con il generico “tema”) si intende tutta una serie di produzioni scritte quali il testo descrittivo, narrativo, la relazione ed il testo argomentativo che l’alunno del Keystage 3 dovrebbe essere in grado di svolgere.

    Perché è importante saper scrivere un tema di argomento storico?

    Già nel 1981 sulla rivista appare un articolo The importance of the essay di John Kenteleton[3] che mette in guardia sui gravi effetti che può avere il trascurare lo sviluppo delle capacità di scrittura di testi argomentativi nello studio della storia. Scrive Kentleton: “Intellectually, the essay can separate the child from the man” (a livello intellettuale la capacità di argomentare distingue il bambino dall’adulto). Secondo lui, il principale valore del testo argomentativo è quello di spingere a presentare argomentazioni coerenti e persuasive; ciascuna asserzione deve essere esaminata sotto ogni aspetto per verificarne la validità, l’insieme delle argomentazioni porta allo sviluppo del discorso ed alla inevitabile dimostrazione della tesi, non sono ammesse ripetizioni, né contraddizioni. Secondo l’autore saper comunicare in modo semplice, chiaro e persuasivo è fondamentale nella società moderna, ma non è un atto spontaneo, richiede soprattutto tanto esercizio. Inoltre la scrittura di un testo argomentativo costringe lo studente ad un esercizio di logica ed all’analisi critica, due abilità assolutamente fondamentali nello studio della storia.

    Le difficoltà degli alunni nello scrivere di storia

    Lucida, e ancora di grande attualità, è l’analisi che viene presentata da John Lally nel suo articolo del 1983 Writing History, sulle problematiche che devono affrontare gli studenti nella scrittura di testi di argomento storico[4]. L’indispensabile premessa dell’autore è che l’abilità nella scrittura e le altre tre abilità linguistiche ad essa connesse, il parlare, leggere e scrivere, sono tutte trasversali allo studio della storia, perciò non è possibile lo studio di questa disciplina se non si sviluppano in modo adeguato queste abilità.

    Quando agli studenti è richiesto di scrivere di storia, normalmente si propongono loro degli esercizi che Lally inserisce nella categoria delle produzioni transictional o più semplicemente di tipo impersonale (riassunti, descrizioni, relazioni, testi argomentativi), in cui si riferisce di eventi passati. Il linguaggio richiesto dagli insegnanti (che è anche quello più spesso utilizzato dai libri di testo) è di tipo formale, con un notevole uso di tempi passati, dei modi della possibilità e probabilità, della forma passiva, del discorso indiretto, di periodi complessi. A questo si aggiunge un lessico specifico del tutto nuovo o di parole che usate nel contesto storico assumono un significato completamente diverso e l’uso di una grande varietà di registri, anche in relazione alle tipologie di fonti consultate.

    Tutto questo crea negli alunni una notevole difficoltà nella comprensione di testi letti o ascoltati di questo genere ed una ancor maggiore difficoltà nella produzione di testi scritti di questa tipologia.

    Il passaggio dalla forma di scrittura espressiva, in cui il ragazzo racconta fatti personali con un linguaggio più vicino al parlato, a quella transazionale avviene solo verso i 12-13 anni e, puntualizza l’autore, molti studenti escono dalla scuola senza essere riusciti a portare a temine questo passaggio.

    Fin qui l’analisi di Lally è incontrovertibile e trova piena rispondenza con quanto avviene anche nella scuola in Italia: gli studenti, passando dalla scuola primaria alla scuola secondaria di primo grado, hanno grande difficoltà nella comprensione dei libri di testo di storia, le forme di scrittura di testi impersonali sono solitamente distribuite nel corso dei tre anni del programma di italiano: la descrizione e il riassunto in prima media, il testo informativo e la relazione in seconda media, il testo argomentativo in terza. Al termine della terza classe mediamente un buon numero di studenti è in grado di comporre una relazione di storia, sono pochissimi invece gli studenti che al termine della classe terza riescono a scrivere un buon testo argomentativo ed ancor meno quelli che sono in grado di affrontare la scrittura di un testo argomentativo di storia.

    Alcune proposte per aiutare gli studenti

    Lally passa quindi a fornire una serie di suggerimenti pratici, spesso condivisibili, per cercare di sviluppare le capacità di scrittura di storia degli alunni.

    In primo luogo egli sottolinea come gli studenti a dodici-tredici anni non siano ancora assolutamente pronti ad abbandonare la scrittura personale e creativa. Nello stesso tempo il docente deve però spingere lo studente anche ad imparare in modo progressivo l’uso della scrittura impersonale. Insomma è bene che gli alunni continuino a scrivere anche testi di tipo fantastico in cui possono comunicare la loro idea del passato, magari prendendo spunto da una fonte visiva (un quadro, un affresco, ecc.) ed immaginando la storia, oppure componendo un testo narrativo in cui si è testimoni o protagonisti di eventi storici (per esempio “Scrivi la tua storia dell’esecuzione di Luigi XVI. Scegli se sei fedele al re o un rivoluzionario. Puoi essere un osservatore che guarda e descrive oppure tu stesso parte della storia…”), oppure sotto forma di lettera o diario.

    Occorre ricordare che per quanto attiene la scrittura di testi di argomento storico i docenti inglesi sono molto svantaggiati rispetto ai loro colleghi italiani che, nella scuola secondaria di primo grado usualmente e quasi sempre almeno nella classe terminale, insegnano italiano, storia, educazione alla cittadinanza e geografia, disponendo quindi di un monte orario maggiore e di una continua interdisciplinarità.

    Lally suggerisce inoltre di proporre l’esercizio di scrittura come esigenza di riportare un’esperienza personale a seguito dell’ascolto di una storia o di una discussione sulle fonti. Inoltre deve essere cura dell’insegnante individuare le parole chiave ed i termini più importanti da utilizzare nella scrittura, spiegarli attentamente e fare in modo che gli alunni li memorizzino. E’ bene proporre, come attività ordinaria e soprattutto all’inizio, solo brevi esercizi di scrittura: scrivere frasi, stendere liste, scrivere domande, rispondere alle domande con una frase, comporre brevi descrizioni. Queste sono comunque tutte attività che aiutano a sviluppare la capacità di scrittura impersonale e le abilità nel comunicare.

    In sostanza occorre guidare gli studenti nei progressivi passaggi che portano poi alla scrittura di un tema storico. Per fare questo, è in primo luogo il docente che deve avere chiari i diversi obiettivi legati a ciascun esercizio di scrittura, indicando in modo preciso il registro da utilizzare di volta in volta, se si richiede di comporre frasi semplici o complesse ed in questo caso quali connettivi impiegare; se si tratta di comporre paragrafi deve essere indicata la lunghezza, il registro e le parole da inserire obbligatoriamente nel testo ed eventualmente anche i tempi verbali o i modi nel caso in cui si trattasse di interpretazioni storiche.

    Come scrivere un paragrafo: il modello hamburger

    Molto specifico l’articolo di Maria Bakalis[5] Direct teaching of paragraph cohesion(Insegnare in modo semplice a scrivere un paragrafo coeso), apparso sulla rivista Teaching History nel 2003[6], fornisce un contributo molto dettagliato su come scrivere il singolo paragrafo, considerandolo l’unità base sulla quale poi costruire un testo di argomento storico. Anche la Bakalis parte dal presupposto che quella della scrittura per lo studio della storia non è un’abilità aggiuntiva, ma parte del processo del ragionamento e del pensiero storico.

    Quando in un testo scritto gli alunni non riescono a mettere insieme in modo coerente e chiaro dei fatti storici, ciò in primo luogo è dovuto ad una non comprensione del valore di quei fatti e delle relazioni che tra essi sussistono. Il processo di scrittura aiuta proprio a pensare ed interpretare gli eventi storici e quindi, secondo l’autrice, deve essere curato e guidato dall’insegnate passo passo. Quindi la Bakalis indica un percorso che è possibile seguire per costruire un paragrafo di storia.

    In primo luogo si possono usare le “card-sorting” (delle carte di genere e di ordinamento) su un dato evento, che forniscono allo studente un supporto mnemonico dei fatti e lo lasciano libero di concentrarsi sull’organizzazione degli eventi che le carte riportano: in tal modo egli può scoprire i differenti modi in cui un argomento storico può essere strutturato. Una volta stabilita l’organizzazione dei fatti, l’insegnante, che nel caso specifico stava lavorando con una classe del settimo anno sulle Crociate, ha fatto svolgere ai suoi studenti in modo progressivo tre attività di scrittura differenti.

    La prima l’ha chiamata the Stating and expanding game (gioco delle affermazioni ed espansioni). Si tratta semplicemente di aggiungere all’affermazione storica una frase coordinata o subordinata che espanda il periodo. Il ruolo dell’insegnante è molto importante nell’analizzare con gli studenti i tipi di connettivi ed i modi verbali impiegati e dedurne il tipo di relazione costruito rispetto all’affermazione principale (è stata aggiunta ad esempio una causa, o una conseguenza o un chiarimento e così via).

    Il secondo step è quello che la Bakalis chiama Sticky burgers and sandwiches that don’t fall apart (Hamburger ben appiccicati e sandwiches che non perdono pezzi).

    L’obiettivo dell’insegnante è quello di far comprendere ai suoi studenti l’importanza della coesione di un paragrafo. Ha quindi scelto di utilizzare come termine di paragone l’hamburger: la fetta di pane superiore corrisponde all’affermazione generale che deve rimandare al titolo del tema, la carne è l’affermazione specifica sostenuta nel paragrafo, il formaggio e l’insalata sono le espansioni dell’affermazione principale che servono a sostenerla e possono anche essere costituite da fonti che vengono riportate; c’è poi l’ultima fetta di pane, la base dell’hamburger, che corrisponde alle riflessioni e conclusioni che lo studente ha ricavato dall’analisi dell’affermazione principale. La salsa che lega gli ingredienti rappresenta i connettivi che servono a unire le diverse frasi in modo chiaro e coerente e consentono di mordere il panino senza che nessun pezzo cada.

    Alla spiegazione è poi seguito un momento di esercitazione di scrittura di un paragrafo.

    Il paragone con l’hamburger potrebbe apparire del tutto superfluo, ma l’autrice ricorda che spesso non è sufficiente spiegare un argomento come la struttura di un paragrafo e poi magari fornire uno schema scritto da consultare durante l’esercizio di scrittura, perché spesso i ragazzi neppure lo guardano ed anche se hanno ascoltato la spiegazione poi scordano i diversi passaggi; fornire quindi un modello che colpisca la loro fantasia è molto importante proprio per aiutarli nella memorizzazione. Infine, una strategia utile per rendere evidente i diversi “strati” da cui è composto il paragrafo è stata quella di chiedere loro di utilizzare colori differenti, in modo da verificare a colpo d’occhio che non mancasse “alcun ingrediente” (chiaramente questo esercizio riesce meglio se si utilizza la videoscrittura).

    La Bakalis in fondo non suggerisce niente di nuovo ma, proprio come Lally, ricorda che prima di poter scrivere un tema storico, occorre un continuo e progressivo esercizio di scrittura ed il paragrafo costituisce sicuramente un’ottima unità di misura; inoltre i ragazzi tra gli 11 ed i 13 anni amano ancora utilizzare la scrittura in modo creativo, per cui ha la sua importanza anche proporre in modo divertente un tipo di scrittura, come quella impersonale di argomento storico, solitamente ritenuta dagli alunni “difficile e noiosa”.

    Un interessante esempio di ricerca

    Alex Scott[7] presenta nel suo articolo[8] Essay writing for everyone: an investigation into different metohds used to teach Year 9 to write an essay (Saggistica per tutti: un’indagine sui diversi metodi usati per insegnare a scrivere un tema agli studenti del nono anno) una sintesi chiara e completa della ricerca svolta dal suo dipartimento sui diversi metodi utilizzati per costruire un tema storico nel Key Stage 3. L’articolo ha il merito di non proporre semplicemente una formula sperimentata in classe e con la quale il docente si è trovato bene, ma di censire le metodologie sperimentate nella sua scuola e, stabiliti dei criteri comuni, di provare a verificare quale sia la più efficace.

    La ricerca di Scott e del suo dipartimento di storia trae origine dalle numerose e continue discussioni tra docenti sull’incapacità dei loro allievi di scrivere dei temi di storia, nonostante l’impegno profuso dagli insegnanti nell’applicare metodi diversi ed innovativi per spiegare le varie fasi di scrittura. L’autore riporta non senza autoironia il senso di frustrazione nel leggere i testi dei suoi alunni dello Year 8 svolti sulla traccia Why was the Civil War in 1640s?(Perché scoppiò la guerra civile nel 1640?). Ecco il tipico inizio dello svolgimento di una sua studentessa: “Hello, my name is Leah and here is my essay telling you everything about the Civil War” (Ciao, il mio nome è Leah ed in questo mio tema vi racconterò tutto sulla Guerra Civile). Qui, al di là del registro informale adottato, si evince già dalle prime righe che l’alunna non ha assolutamente compreso qual era la richiesta del docente.

    Gli insegnanti del dipartimento hanno deciso che dovevano trovare un modo per risolvere due problemi:

    1. come aiutare gli studenti a rispondere in modo corretto alle domande poste e sviluppare le loro capacità di scrivere un buon tema storico?
    2. come aiutarli a comprendere le varie fasi del processo di scrittura, in modo da poterle ripetere ogni volte che serva?

    Il primo passo è stato quello di predisporre una solida base comune per illustrare agli studenti le diverse forme di scrittura di testi storici. Sono stati quindi realizzati e disposti in ciascuna classe 4 poster indicanti le caratteristiche principali del testo narrativo, descrittivo, esplicativo (relazione) ed argomentativo (vd. fig. 1). I poster possono essere usati dallo Year 7 all’11 ed occupano un posto centrale in ciascuna aula. I docenti dovevano ovviamente spiegare ciascuna tipologia di testo e per far questo nel dipartimento erano stati studiati dei giochi di ruolo, per rendere questa fase meno arida e più accattivante.

    I docenti hanno quindi suddiviso tutti gli studenti dello Year 9 (sia quelli inclusi nelle classi di differenti livelli di abilità, sia quelli nelle classi formate solo con alunni di livello alto) in due gruppi A e B, ai quali sono state proposte strategie diverse per rispondere alla domanda “Why was Hitler so popular in the 1930s?” (Perché Hitler era così popolare nel 1930?). Naturalmente tutta questa parte di storia era già stata trattata dai rispettivi docenti nelle varie classi. Il compito finale, identico per i due gruppi, era quello di scrivere una relazione che rispondesse al quesito sopra illustrato.

    Al gruppo A è stata assegnata una serie di “cards” (vd. fig. 2) e con la guida degli insegnanti gli studenti, lavorando in gruppi, dovevano organizzare le card in una mappa concettuale, disponendo i temi per ciascun paragrafo del tema.

    Per il gruppo B è stato invece organizzato un brainstorm su alcune domande principali ed è stato proposto e discusso insieme con i docenti uno schema da seguire nella scrittura del tema (vd. fig. 3).

    Naturalmente era stata predisposta anche una griglia di correzione comune suddivisa in livelli[9].

    Complessivamente tra i due gruppi A e B non vi è stata grande differenza nei risultati, mentre nelle classi di livello più alto vi è stata una notevole differenza tra i due gruppi, a vantaggio di quelli che avevano utilizzato le “sorting cards”.

    Questo sembrerebbe indicare che, se le cards aiutano gli studenti a richiamare alla mente i fatti principali per strutturare il loro tema, d’altro canto esse presentano lo svantaggio di rendere lo studente dipendente dall’insegnante e meno sicuro delle proprie conoscenze. In aggiunta a ciò si nota che solo il gruppo di allievi di livello più alto è riuscito ad utilizzare correttamente le cards, mentre quelli con minore abilità si sono spesso limitati a copiare il contenuto delle cardssenza riuscire ad organizzare il discorso, anzi spesso le cards hanno ingenerato in loro ancora più confusione.

    Scott non dà però una preziosa informazione, se cioè il livello dei temi sia risultato complessivamente superiore rispetto ai precedenti svolti dagli stessi alunni; forse questo dato non era valutabile in modo oggettivo, o forse, più semplicemente la risposta è negativa.

    Sicuramente questo tipo di attività, come sottolinea lo stesso autore, ha giovato ai docenti, che hanno provato a collaborare per risolvere un comune problema, approntando un progetto, con schemi di lavoro, attività comuni e tante possibilità di confronto. Mi sembra poi abbastanza scontato che i miglioramenti in un’abilità complessa come quella della scrittura siano lenti e progressivi e che questi progetti possano avere una certa efficacia solo se ripetuti su tutto il percorso scolastico e la loro reale ricaduta possa essere valutata solo nel corso degli anni.

    E’ comunque, al di là dei limiti di questa esperienza, un buon esempio di come dovrebbe lavorare un dipartimento di storia.

     


    Fig. 1 Poster utilizzati per illustrare i diversi tipi di scrittura (TH 2006 n. 123)

     
     

    Fig. 1 bis Traduzione del poster

     

    Fig. 2 Esempio di Sorting Cards (TH 2006 n. 123)

     

     

    La gente era arrabbiata per il Trattato di Versailles del 1919.

    Hitler ricostruì l’esercito.

    Hitler aveva promesso di restituire le terre perse dalla Germania nella Prima Guerra Mondiale.

    Hitler voleva conquistare altri paesi per dare alla Germania più spazio.

    Molti tedeschi persero il loro lavoro negli anni ‘30 durante la Depressione.

    I comunisti volevano eliminare i proprietari delle fabbriche.

    Molti tedeschi persero molti soldi nella Crisi di Wall Street del ’29.

    Hitler era visto come un leader forte.

    Hitler si impadronì dell’Austria nel 1939.

    Hitler conquistò la Cecoslovacchia.

     

    Hitler promise di interrompere il pagamento del debito di guerra contratto a seguito della sconfitta nella Prima Guerra Mondiale.

    Hitler promise di eliminare i comunisti.

     

    Fig. 2 bis Traduzione delle Sorting Cards

     

     

    Fig. 3 Schema di lavoro per scrivere una relazione di argomento storico (TH 2006 n. 123)

     

     

    Anno 9 Valutazione: perché Hitler era così popolare negli anni ’30?

    Compito

    Questa è un tema di spiegazione (relazione) del perché Hitler fosse tanto popolare negli anni ’30.

    Che cosa è una relazione?

    Finalità

    • Quale è il suo scopo?
    • A chi è rivolta?
    • Come sarà utilizzata?
    • Quale tipo di scrittura deve essere scelto?
    • Per spiegare qualcosa che è accaduto
    • Rispondere alla domanda “perché?”
    • A qualcuno interessato all’argomento
    • Sile formale
    • Chiaro e semplice da leggere
     

    Testo

    • Impaginazione
    • Struttura/organizzazione
    • Introduzione, parte centrale e conclusione
    • Ciascun paragrafo deve riguardare un tema
    • Spiegare come una cosa si lega ad un’altra
     

    Frasi

    • Uso dei tempi verbali
    • Struttura e lunghezza delle frasi
    • Connettivi
    • Tempi passati
    • Frasi legate tra loro tramite connettivi quali prossimo, sebbene, perciò, allo stessomodo, come risultato, d’altra parte, infine
    • Passaggi per mostrare come sono avvenuti i fatti.
     

    Lessico

    • Riserva di parole e frasi
    • Lessico e fatti

     

    • Trattato di Versailles 1919
    • Comunismo e dittatori
    • Crollo della borsa di Wall Street 1929, Depressione
    • Propaganda di Hitler
    • Politica estera di Hitler

    Struttura

    Idee

    Fonti e fatti

    Introduzione

    Primo argomento

    Secondo Argomento

    Terzo argomento

    Conclusione

    Fig. 3 bis Traduzione dello schema di lavoro per scrivere una relazione di argomento storico

    Ricostruire la narrazione dal particolare al generale

    Molto interessante anche l’articolo[10] Building memory and meaning: supporting Year 8 in shaping their own big narratives (Costruire la memoria ed il significato: come aiutare gli studenti dell’ottavo anno nel dar forma ad un proprio testo narrativo esteso) di Sarah Gadd[11], che parte da presupposti completamente differenti.

    Nella scuola di Essex dove insegna la Gadd, il Key Stage 3 è di soli due anni, per cui nel suo dipartimento di storia si è scelto di far emergere per lo Year 7 prevalentemente gli aspetti socio economici dei periodi affrontati e per l’ottavo anno invece gli aspetti politici.

    Con i suoi alunni dell’ottavo anno la docente ha scelto di non presentare un quadro generale del periodo Vittoriano, ma di svolgere in classe una sequenza di 11 lezioni incentrate su tre indagini storiche riferite a temi specifici sull’Inghilterra vittoriana e la rivoluzione indiana, affidando poi agli studenti il compito di ricostruire in un tema scritto un quadro generale del periodo, collegando gli eventi delle diverse ricerche tra loro e deducendone anche un’interpretazione sull’epoca[12]. L’insegnante ha scelto come riferimento teorico quello proposto da Banham[13], secondo il quale studiare in modo approfondito almeno un singolo argomento storico (e poi presentare in modo anche molto sintetico gli altri eventi del periodo oggetto di studio) consente poi di ricostruire meglio ed in modo più veloce il quadro d’insieme.

    La Gadd, pur rendendosi conto che la sua esperienza non poteva consentire di trarre conclusioni su vasta scala, ha comunque provato ad analizzare le strutture dei temi degli alunni, per capire come avevano proceduto nelle loro deduzioni ed ha riscontrato alcuni elementi comuni. La docente di proposito non aveva fornito agli studenti nessuno schema o griglia per costruire il tema, per vedere come avrebbero strutturato il discorso in modo autonomo. Molti studenti hanno posto al centro del loro testo solo uno dei temi relativi alle ricerche svolte e poi lo hanno collegato con gli altri due, riportando infine le conclusioni. Molti altri invece hanno riportato in modo molto frammentato e confuso i vari fatti storici, ma nelle conclusioni hanno dimostrato di aver ben interpretato il quadro complessivo del periodo. Per cui l’insegnante nella conclusione dell’articolo sostiene di essere comunque piuttosto soddisfatta: per quanto infatti la qualità dei temi non fosse eccezionale, l’obiettivo di far conoscere il quadro generale della situazione economica e politica del periodo era stato nella maggior parte dei casi raggiunto.

    Le esperienze fin qui raccolte mostrano tutte tristemente un dato comune: sia che si fornisca agli studenti una schema della struttura del tema per procedere dal generale al particolare, sia che al contrario vengano svolti con gli alunni degli studi approfonditi su temi specifici, per poi invitarli a risalire dal particolare al generale, costruendo con i propri strumenti la struttura del tema, alla fine la maggior parte delle loro produzioni scritte risulta comunque disorganica nell’organizzazione delle informazioni e delle riflessioni.

    Sviluppare l’abilità di “raccontare storia” in ambiente digitale

    In un recente[14] articolo Robin Kemp[15] interviene in proposito rimarcando come le difficoltà nella scrittura siano state in anni recenti ancor più aggravate dall’abitudine all’uso da parte degli studenti della video scrittura e dell’ipertesto. Infatti gli allievi facilmente scivolano nel “copia-incolla” e, se faticano meno a cogliere i collegamenti, trovano più faticoso ideare un testo unitario e coeso. Lo sforzo di far scrivere temi storici, rimane tuttavia fondamentale, perché anche secondo Kemp è solo con la pratica e l’esercizio che si sviluppa l’abilità “di raccontare storia”, abilità fondamentale anche per aiutare lo studente a memorizzare e costruire organici quadri storici, per cui l’autore conclude citando un contributo di Byrom[16] di una decina di anni fa “if we feed pupils a diet of source evaluation only, without supporting them in the challenge of turning their new historical understanding into a coherent, constructive whole, we are ultimately limiting their reward from history” (se nutriamo gli alunni una dieta basata solo sulla valutazione delle fonti, senza supportarli nella sfida a trasformare la loro nuova comprensione storica in un intero coerente costruttivo, stiamo alla fine limitando la loro conoscenza della storia).

    Leggere e scrivere novelle e racconti storici: un’attività non sempre ben vista nella scuola inglese

    Una riflessione a parte merita invece la lettura e scrittura di novelle e racconti storici.

    Questa tipologia di testi narrativi è più strettamente legata allo studio della lingua inglese, per cui i docenti l’affrontano quando vi sia una possibilità di strutturare un progetto comune tra i dipartimenti di storia e di inglese. Inoltre la stessa lettura di racconti o romanzi storici come fonte non è sempre ben vista ed accettata dagli insegnanti di storia; ancor più malvista è naturalmente la scrittura di questo genere di testi.

    Mi sembra comunque utile riferire le voci e le esperienze discordanti in proposito, anche in relazione alla possibilità di un confronto con la scuola italiana, in cui l’interdisciplinarità dell’insegnamento di lettere consente invece molte esperienze in tal senso.

    Un dibattito piuttosto acceso

    Su questo tema inizia ad apparire qualche articolo già alla fine degli anni ’80. Interessante in proposito l’articolo di Clive King[17]The Historical Novel: an under-used resource[18], in cui si sostiene che l’immaginazione dello scrittore spesso “illumina” il passato, aiutando gli studenti a vedere gli eventi storici che studiano dalla prospettiva della gente del passato, un compito spesso difficile. Per questo, sebbene all’insegnante richieda tempo e fatica scegliere una novella o un racconto o una parte di esso da leggere in classe, tale lettura fornisce un ottimo stimolo iniziale per affrontare lo studio di un nuovo periodo, oppure un’ottima conclusione per rinforzare la comprensione dell’epoca che è stata studiata. Come si vede si tratta ancora di timidi tentativi, ma dal 2000 in poi si sviluppa invece un ampio dibattito su questo tema.

    Dave Martin e Beth Brook[19] riferiscono[20] ad esempio la loro esperienza di un progetto sviluppato in Dorset tra il dipartimento di storia e quello di inglese ed incentrato proprio sulla scrittura di “historical fiction”. L’obiettivo era quello di fare in modo che i ragazzi riuscissero a scrivere racconti storici che tenessero conto sia di una rigorosa ricerca storica, sia ponessero attenzione allo stile ed al genere. Il progetto è iniziato nell’ottobre del 1993 ed ha coinvolto differenti scuole nel Dorset. Martin e Brook riferiscono abbastanza nel dettaglio lo svolgimento del progetto e i suoi risultati per alcune scuole, per altre si tengono più sul vago. Nella Wareham Middle School il progetto ha coinvolto tre classi dello Year 7: il primo passo è stato quello di far leggere agli studenti la novella storica A Little Lower Than The Angels di Gerladine Mc Caughran, ambientata in epoca medievale. In seguito gli studenti dovevano scrivere il loro racconto storico, ambientato nello stesso periodo. I principali punti emersi dalla valutazione degli elaborati degli alunni e dalle riflessioni dei docenti sono piuttosto interessanti. In primo luogo gli autori dell’articolo fanno notare come gli studenti abbiano avuto un atteggiamento entusiasta verso il progetto ed abbiano apprezzato l’interdisciplinarità dello stesso. In secondo luogo essi hanno sviluppato conoscenze molto approfondite sul racconto storico sia come genere letterario sia come fonte storica. Terzo punto e più dolente, gli alunni hanno trovato molto difficile sia la lettura e comprensione del racconto storico, sia la sua scrittura. In effetti Martin e Brooks non riportano alcuno stralcio dei temi svolti, quindi i risultati non devono essere stati positivi.

    Dello svolgimento del progetto in un’altra scuola (dalla lettura dell’articolo non si riesce a capire quale esattamente) non si danno altri dettagli se non lo schema proposto ai ragazzi per strutturare il racconto storico: la sua lettura è comunque piuttosto interessante perché indica in modo preciso luoghi, tempi, personaggi, trama del racconto, in modo da aiutare gli alunni nel loro compito, focalizzandolo esattamente su quello che è stato studiato ed approfondito nelle lezioni di storia. La storia doveva essere ambientata il 3 giugno del 1480 e poteva avere una durata di massimo 48 ore.

    La città dove ambientare la vicenda era Firenze. Il racconto doveva includere non più di tre luoghi da scegliersi tra quelli studiati. I personaggi dovevano essere tre, tra cui almeno una donna; essi potevano essere reali (come Leonardo da Vinci, Lorenzo dei Medici ecc.) oppure immaginari. Doveva essere incluso almeno un animale. La trama doveva iniziare con un problema (per esempio sei appena arrivato a Firenze, ma hai perduto la lettera di presentazione per la famiglia Medici), indicare cosa avveniva ai personaggi a seguito di questo problema iniziale e poi descrivere la soluzione finale. Seguivano poi i consigli per le ulteriori ricerche storiche da svolgere per rendere più realistica la storia.

    Nel terzo caso riportato da Martin e Brook gli studenti del settimo anno (anche qui non è chiaro di quale scuola) hanno lavorato sul periodo romano: In questo caso i risultati degli elaborati prodotti dai ragazzi sono stati evidentemente di migliore qualità, in quanto nell’articolo ne vengono riportati diversi estratti[21], a onor del vero piuttosto ben scritti, ma non viene spiegato né come sono state svolte le lezioni, né quale fosse la traccia del racconto. Quest’ultima è stata sicuramente l’esperienza più positiva, in quanto i materiali e i temi scritti dai ragazzi sono poi confluiti nel libro di testo scritto dagli autori stessi[22] ed intitolato Write Your Own Roman Story. (Scrivi il racconto ambientato in epoca romana).

    L’articolo nel complesso presenta degli spunti interessanti; tuttavia nelle varie scuole sono stati utilizzati metodi diversi per proporre lo studio e la scrittura del racconto storico ed inoltre sono stati analizzati periodi storici differenti e questo ha reso impossibile un confronto tra i risultati ottenuti; inoltre sarebbe stato utile riferire in modo più rigoroso e dettagliato come si sono svolti i progetti nelle diverse scuole, invece l’articolo tende ad enfatizzare gli aspetti positivi, lasciando in ombra quelli negativi.

    La via indicata da Martin e Brook nell’articolo sopracitato e nel loro libro “Write your Own Roman Story” ed in quello del 2005 di Christine Counsell, sempre sullo stesso tema, intitolato “History and Literacy in Y7” ed ampiamente pubblicizzato dalla rivista (vd. fig. 4), è stata poi d’ispirazione per numerose altre esperienze interdisciplinari.

     

     

    Fig. 4 Pubblicità del volume “History and Literacy in Y 7” di Christine Counsell (TH 2005 n. 118).

    Leggere Dikens per sviluppare il pensiero storico

    Esemplificativi in tal senso i progetti riportati nei due articoli Having Great Expectations of Year 9. Inter-disciplinary work between English and history to improve pupils historical thinking[23](Grandi Speranze per il nono anno: un’attività interdisciplinare tra storia ed inglese per promuovere lo sviluppo del pensiero storico negli studenti) e Dickens…Hardy…Jarvis?! A novel take on the industrial Revolution[24] ( … Un racconto ambientato durante la Rivoluzione Industriale), entrambi del 2010 e caratterizzati da un’estrema precisione nel riferire sia lo schema delle lezioni svolte, sia i risultati delle stesse.

    Nel primo articolo l’autore, Michael Monaghan[25], racconta come i due dipartimenti di storia e letteratura inglese abbiano deciso di collaborare nel difficile compito di analizzare il testo di Charles Dickens’ Great Expectations(Grandi Speranze) e di far scrivere poi agli studenti un racconto storico. I dipartimenti avevano obiettivi diversi. Quello di inglese mirava ad incoraggiare la lettura di narrativa di alta qualità e la scrittura di storie. Il dipartimento di storia si era posto come obiettivo quello di ricostruire in modo più complesso un quadro del diciannovesimo secolo: “the novel would, it was hoped, provide a window in the ninetheenth century, a vivid picture of the past[26] (Il romanzo dovrebbe, questa era la speranza, aver aperto una finestra sul diciannovesimo secolo, fornendo una immagine vivida del passato).

    Molto importante è stato il lavoro svolto insieme dai dipartimenti per costruire il progetto (vd. fig. 5) e la logistica nel coordinare le lezioni. Le classi cui è stato rivolto il progetto erano quelle del nono anno, suddivise in 5 gruppi di abilità mista per la storia e nove gruppi per l’italiano. I docenti di storia avevano programmato per il progetto 9 ore di lezione ed i docenti di letteratura inglese 18 ore. Gli insegnanti coinvolti non erano tutti specialisti della materia, alcuni erano senior managers impegnati anche in numerose altre attività della scuola ed altri erano PGCE students che insegnavano per la prima volta. Inoltre molti insegnanti non avevano letto il libro.

    La sfida più grande secondo l’autore è stata proprio quella dell’organizzazione del progetto: i dipartimenti hanno svolto più incontri insieme ed ogni insegnante ha dovuto sviluppare una parte del progetto, in modo che i carichi di lavoro fossero equamente suddivisi e che tutti si sentissero non solo coinvolti, ma anche responsabili del buon esito dell’attività.

    Gli studenti di livello più alto hanno letto l’intero libro, mentre gli altri ne hanno letto ampi brani, in modo da avere comunque una visione complessiva del testo.

    Un grandissimo vantaggio per il dipartimento di storia è stato proprio quello di poter utilizzare l’intero libro come fonte, poiché il romanzo è stato letto nelle ore di inglese, nelle quali gli studenti si sono focalizzati sull’analisi della trama, dei personaggi, dei luoghi, dello stile ecc.

    I vantaggi dell’interdisciplinarità si sono manifestati a poco a poco, man mano che il progetto procedeva. Inizialmente gli alunni non erano troppo entusiasti, specialmente quelli che avevano difficoltà in letteratura, ma già nella lezione successiva il loro atteggiamento è cambiato. Nel corso di questa lezione infatti gli studenti sono stati suddivisi in gruppi e ciascuno doveva occuparsi di una dato aspetto della società nell’800, per esempio il crimine e le pene, oppure la vita rurale, l’istruzione ecc. I ragazzi dovevano ritrovare le informazioni utili per il tema loro assegnato nei primi otto capitoli del romanzo di Dickens (di cui avevano affrontato la lettura nelle precedenti 4 lezioni di letteratura inglese) ed inserirle in uno schema predisposto. Monaghan è rimasto piacevolmente stupito dalla rapidità con la quale gli alunni riuscivano a selezionare le informazioni, al punto che dopo una mezz’ora di lavoro tutti i gruppi avevano portato a termine l’attività senza troppa fatica e con gran soddisfazione nell’essere riusciti a “rileggere” il testo in così breve tempo.

    Anche la quinta lezione di storia dal titolo How do the characters in Great Expectations help us to understand society (Come i personaggi in “Grandi Speranze” ci aiutano a comprendere la società) è stata secondo l’autore veramente positiva. Gli alunni utilizzando come promemoria delle sorting cards sui personaggi del libro dovevano costruire una society line secondo il classico schema del loro libro di testo di storia. Monagham si è quindi stupito quando gli studenti, analizzando i personaggi del libro, sono riusciti a costruire moltissime osservazioni ricavandone poi un quadro molto approfondito della società dell’epoca e delle sue contraddizioni; in altre parole secondo il docente il romanzo ha reso the history more historical.

    Il compito finale consisteva quindi nella scrittura di un racconto di argomento storico. Su questo punto i due dipartimenti di storia e inglese si sono trovati in forte divergenza, perché gli insegnanti di storia avrebbero preferito che i racconti fossero riferiti in modo specifico al periodo della rivoluzione industriale in cui è ambientato il romanzo di Dickens, mentre poi è passata la linea degli insegnanti di letteratura, che hanno preferito concedere maggiore libertà agli studenti, consentendo loro di ambientare i racconti in qualsiasi periodo storico. La maggior parte degli studenti (in particolare quelli di livello più alto) ha ambientato i propri racconti in periodi diversi dalla rivoluzione industriale e come era prevedibile i risultati non sono stati buoni, invece molti studenti di livello basso si sono sentiti più a loro agio e sicuri nell’usare l’ambientazione ottocentesca che avevano studiato in modo approfondito ed hanno scritto i loro migliori compiti dell’anno.

     

    Fig. 5 Schema delle lezioni interdisciplinari svolte sul libro “Having Great Expectations” di Dickens (TH 2010 n. 138)


    Un concorso di scrittura di racconti storici

    Nel secondo articolo Dickens …Hardy…Jarvis…?! l’autore Gary Hillyard[27], ispirandosi alla filosofia della “Empathy with edge” (affinare l’empatia) di Martin e Brooke sull’uso della historical fiction in classe ed al concorso annuale da loro creato Write Your Own Historical Competion, illustra il progetto interdisciplinare tra inglese e storia da lui portato avanti in due scuole: alla Ashfield School e alla Manor school a Nottinghamshire.

    In primo luogo è interessante notare come un docente, spostandosi da una scuola ad un’altra, trovi la possibilità di riproporre un progetto interdisciplinare che ha avuto un buon esito in una scuola anche in un’altra senza troppe difficoltà. La seconda osservazione riguarda la durata pluriennale del progetto: esso è iniziato nel 2006 ed è stato ripetuto annualmente fino al 2010. Hillyard riferisce quindi i risultati del 2010, ma descrive anche i cambiamenti che i professori hanno adottato nel corso degli anni, perfezionando i punti deboli che si erano manifestati nella pratica didattica.

    Lo schema delle lezioni (vd. fig 6) specifica anche le Personal and Thinking Skills[28] richieste agli alunni di volta in volta ed integra la lettura di romanzi o racconti storici con l’uso di altre fonti storiche. Il periodo di studio oggetto del progetto è quello della Rivoluzione Industriale. Il progetto ha coinvolto gli studenti dello Years 8 di abilità miste. Gli studenti hanno lavorato per 15 lezioni alla costruzione della loro conoscenza storica sulla Rivoluzione Industriale, analizzando personaggi, ambientazioni, trama e stile di due romanzi storici: Mill Girl.A Victorian Girl’s Diary 1842-1843 di Sue Reid e North and South di Elizabhet Gaskell.Gli studenti si sono esercitati a scrivere e descrivere loro stessi luoghi e personaggi, hanno sviluppato la trama di un loro racconto, hanno provato sulla base di vari esempi a scrivere inizi e finali di racconti. Il compito finale (obbligatorio) era quello di scrivere un racconto ambientato nel contesto dei cambiamenti portati dalla Rivoluzione industriale, con il quale gli studenti hanno partecipato ad un concorso interno alla scuola.

    Complessivamente gli studenti nei loro racconti hanno mostrato una buona comprensione di come si vivesse nel periodo della Rivoluzione Industriale. Le lezioni di storia su questo periodo storico sono state effettivamente solo due, di cui una di ricerca autonoma sul sito web Spartacus Educational sul lavoro dei bambini in fabbrica; la maggior parte delle informazioni sono poi state ricavate dagli alunni leggendo i due romanzi. Il docente ha inoltre proposto ai ragazzi la visione del film musicale “Oliver!” ed immagini tratte dal Black Country Museum per gli studenti con speciali bisogni educativi.

    I testi degli alunni sono stati valutati in relazione ai livelli del National Curriculum. Al termine del percorso 79 alunni hanno completato il loro racconto: di questi 29 hanno migliorato il loro livello, 34 hanno mantenuto il loro livello, mentre 16 non hanno raggiunto gli obiettivi prefissati.

    Queste due esperienze sopra riportate ed il fatto che i progetti siano anche stati ripetuti e sperimentati in più scuole sembrerebbero indicare, in anni più recenti, una maggiore attenzione e “minore” paura dei docenti di storia verso il genere dell’historical fiction, una maggiore attenzione testimoniata anche dall’attenzione che viene prestata dalla rivista “Teaching History” al concorso nazionale The young Quills (Giovani Penne) nel quale gli studenti votano i migliori romanzi storici dell’anno (vd. fig. 7).

     

    Fig. 6 Schema delle lezioni interdisciplinare sulla Rivoluzione Industriale (TH 2010 n. 140)

     Fig. 7 Resoconto dei vincitori del concorso “The young Quills 2011-2012”: gli studenti hanno votato i migliori romanzi storici pubblicati nell’anno (TH 2012 n. 149)

    Note

    [1] Un cambiamento in tal senso è fornito proprio dalle Indicazioni Nazionali del 2012,delle quali riporto gli obiettivi sulla produzione scritta e orale, al termine della secondaria di primo grado

    – Produrre testi, utilizzando conoscenze selezionate da fonti di informazione diverse, manualistiche e non, cartacee e digitali.

    – Argomentare su conoscenze e concetti appresi usando il linguaggio specifico della disciplina

    [2]Nel National Curriculum inglese infatti tra le principali abilità, almeno fino al 2007, era inserita quella relativa a “Communicating about the past”, secondo la quale “Pupils should be able to:

    a) present and organise accounts and explanations about the past that are coherent, structured and substantiated, using chronological conventions and historical vocabulary;

    b) communicate their knowledge and understanding of history in a variety of ways, using chronological conventions and historical vocabulary”.Le note poi specificano che “Pupils develop writing, speaking and listening skills as they recall, select, classify and organise historical information, use historical terminology and language appropriately and accurately, and provide well-structured narratives, explanations and descriptions of the past. Pupils should use existing and emerging technologies where appropriate”. In contro tendenza il National Curriculum 2013si limita ad indicare che gli studenti “should use historical terms and concepts in increasingly sophisticated ways”.

    [3] TH 1981 n. 29, pp. 25-27; l’articolo è un estratto della più ampia versione presentata dall’autore alla “Conference for Heads of History Departments” tenuta nell’aprile del 1980 ed organizzata dalla “ University of Liverpool School of History and the Livepool Branch of the Historical Association”.

    [4] TH 1983 n. 35, pp. 34-39.

    [5] Maria Bakalis insegna storia alla Hasmonean High School (11-18 comprehensive), North London.

    [6] TH 2003, n. 110, pp. 18-25.

    [7] Alex Scott insegnante di storia presso la Eltham Hill Technology College (11-16 compre.hensive) South London.

    [8] TH 2006 n. 123, pp. 26-33.

    [9] Mark scheme for the essay:

    Level 1 Basic and sometimes inaccurate understanding of a couple of aspects of Germany 1919-1945 (knowlwdge).

    Level 2 Give some factual knowledge about Germany 1919-1945 , gives a simple and unsubsatantiated reasons why Hitler came to power (comprehension)

    Level 3Describes Germany 1919-1945. in some detail or tells a story of the period, make some more developed links to reasons why Hitler come to power (application).

    Level 4Explains reasons why Hitler was popular, using developed sentences and knowledge about the period to support explanations (analysis).

    Level 5Analyses reasons why Hitler was popular, showing the relative importance of different reasons and coming to synthesized conclusion (synthesis).

    [10] TH 2009 n. 136, pp. 34-41.

    [11] Sarah Gadd insegna storia alla Saffron Walden County school in Essex.

    [12] Riporto di seguito lo schema delle lezioni:

    Enquiry 1: what was “Victorian Britain ? (tre lezioni); enquiry 2: when was Britain closest to revolution? (tre lezioni); enquiry 3: when was India closest to revolution? (tre lezioni); Narrative writing task: Telling the story of Victorian Britain and India (due lezioni).

    [13] Banham D., The return of king Jhon: using depth to strengthen overwiwv in the teaching political change” in TH 2000 n. 99, Curriculum Planning Edition.

    [14] TH 2011 n. 145, Thematic or sequential analysis in causal explanations?, pp. 32-42.

    [15] Robin Kemp è Lead Teacher of History alla Bury ST Edmunds County Upper School (13-18 comprehensive), Suffolk.

    [16] TH 1998 n. 91, Evidence and Interpretation Edition, pp. 32-35

    [17] All’epoca Clive King era insegnante di storia presso la Johon Archer School di Londra.

    [18] TH 1988 n. 51, pp. 24-26.

    [19] Dave Martin è un freelance history advisor e Beth Brook è Key stage English Consultant per il Dorset.

    [20] TH 2002 n. 108, Getting personal: making affective use of historical fiction in the history classroom, pp. 30-35.

    [21]Riporto solo un esempio degli estratti di temi citati nell’articolo.

    Extract 3: “And now, ladies and gentlemen, I show you a battle of gore, a battle of death, a battle of gladiatooooorrrrssssss!”.

    The crowd went completely wild with enthusiasm as twelve men ran out into the sand covered arena. Five of them were Thracians, four were Retarius and the last three were Samnites. They all stood in a polygon shape around the arena, eache the same distance awey from the next. At the signal they all charged towards each other, swinging axes, swords and nets in all directions with the aim of killing someone to amuse the crowd.

    My best friends was in the battle.

    [22] Brooke B. Martin D. & Dawson I, Write Your Own Roman Story, Jhon Murray 2001.

    [23] TH 2010 n. 138, pp. 13-19.

    [24] TH 2010 n. 140, pp. 16-25

    [25] Michael Monaghan insegna storia presso la Bishop’s Stordford High School (11-18 boy’s comprehensive) in Essex.

    [26] TH 2010 n. 138, p. 15.

    [27] Gary Hillyard è capo del dipartimento di Humanities and History alla Manor School (11-18 comprehensive) alla Manor School (11-18 comprehensive) a Nottinghamshire.

    [28]Personal, learning and thinking skills (PLTS) provide a framework for describing the qualities and skills needed for success in learning and life. The PLTS framework has been developed and refined over a number of years in consultation with employers, parents, schools, students and the wider public.The framework comprises six groups of skills: independent enquirers, creative thinkers, reflective learners, team workers, self-managers, effective participants (National Curriculum 2007).

  • La risposta di una Comunità di valle di fronte alla peste.

    Autore: Francesco Antonio Bernardi

    Un laboratorio didattico sulla pestilenza del 1571 in Val di Fassa

    Una piccola premessa

    Si tratta di un piccolo percorso interdisciplinare della durata complessiva di tre tempi-scuola da 50 minuti ciascuno, che è stato proposto agli alunni delle classi 2aC e 2aD della Scuola secondaria di primo grado di Pozza di Fassa, facente parte della Scola Ladina de Fascia°.

    Il materiale e gli spazi utilizzati

    Per realizzare il progetto sono stati utilizzati i seguenti materiali:

    •    la copia di una carta geografica storica della Val di Fassa, realizzata nel 17521 ;
    •    una presentazione realizzata con il programma PowerPoint sulla storia istituzionale della Val di Fassa e della sua Comunità (alla quale si accennerà più avanti);
    •   la trascrizione di un documento relativo alla pestilenza del 1571, in versione semplificata per poter essere compresa meglio dagli alunni. Il documento originale è conservato a Trento; la sua trascrizione integrale, invece, è consultabile in un volume curato dallo storico locale Padre Frumenzio Ghetta2 (1920-2014) . Questo documento offre un esempio perfetto di come si affrontassero a quei tempi le epidemie che flagellavano periodicamente gli uomini o il bestiame, ed evidenzia come le misure preventive e i provvedimenti sanitari si accompagnassero sempre alle pratiche religiose, in un’epoca nella quale la scienza moderna muoveva i primi passi.

    Per quel che concerne gli spazi, invece, tutte le attività sono state svolte in aula, essendo sufficiente il semplice supporto di un pc e di una LIM.

    I prerequisiti

    In primo luogo gli alunni devono conoscere il concetto di fonte, le sue tipologie e i suoi possibili usi;devono quindi essere capaci di ricavare informazioni valide dal libro di testo, dalle carte storico-geografiche e dalle diverse tipologie di fontiche gli vengono proposte, utilizzando il metodo storico; devono poi saper produrre rappresentazioni sintetiche degli argomenti studiati; infine, ultimo ma non meno importante, devono essere in grado di esporre correttamente le conoscenze acquisite, in forma sia orale che scritta.

    I traguardi per lo sviluppo delle competenze

    Il progetto è stato ideato tenendo conto di alcune delle competenze che gli studenti do-vrebbero possedere al termine del primo ciclo d’istruzione, secondo quanto stabilito dalle Linee guida provinciali entrate in vigore nel 2012. In primo luogo, utilizzare i procedimenti tipici del metodo storiografico e il lavoro sulle fonti per compiere semplici operazioni di ricerca storica, con particolare attenzione all’ambito locale. Quindi, riconoscere le componenti che costituiscono le società organizzate (economia, società, politica, istituzioni e cultura), e comprendere che esse sono interdipendenti; in terzo luogo, comprendere e saper contestualizzare fenomeni relativi al passato e al presente, nello spazio e nel tempo, cogliendone le relazioni di causa e le interrelazioni. E ancora, effettuare confronti tra le varie modalità con cui gli uomini, nel corso del tempo, hanno dato una risposta ai loro bisogni e problemi, comprendendo in che modo essi abbiano costituito organizzazioni socio-politiche diverse tra loro e rilevando permanenze e mutamenti nel processo storico. Infine, saper utilizzare le conoscenze e le abilità acquisite per orientarsi nel mondo contemporaneo, comprendendone i problemi fondamentali e sviluppando un atteggiamento critico e consapevole3 .

    Gli obiettivi di apprendimento

    Innanzitutto, conoscere le procedure e le tecniche di lavoro in uso nelle biblioteche e negli archivi storici; quindi, usare fonti di tipo diverso (documentarie, iconografiche, materiali, narrative, orali ecc.) per produrre conoscenze sul tema prescelto; in terzo luogo, collocare la storia locale nel contesto della storia italiana ed europea nel periodo considerato; quindi, formulare e verificare ipotesi sulla base di informazioni raccolte e conoscenze elaborate. E ancora: utilizzare le conoscenze apprese per comprendere problemi ecologici, interculturali e di convivenza civile;selezionare e organizzare le informazioni con mappe concettuali, schemi e tabelle; produrre un testo utilizzando le conoscenze selezionate da fonti d’informazione diverse, manualistiche e non, cartacee e digitali; infine, argomentare sulle conoscenze e sui concetti appresi usando il linguaggio specifico della disciplina4 .

    La declinazione in indicatori di competenza5

    I collegamenti interdisciplinari   
    Per quanto riguarda l’Italiano, si è lavorato sulla necessità di esprimere correttamente i contenuti appresi durante il laboratorio, in modo tale da poter produrre e organizzare informazioni utilizzando il lessico specifico. Quest’abilità è stata verificata tramite la produzione di un testo scritto (come si spiegherà tra poco), ma può essere rafforzata dall’analisi di ulteriori fonti documentarie relative al periodo storico esaminato, come anche dalla lettura di brani tratti da opere letterarie. A questo proposito si evidenzia che il Prof. Parzian, nei giorni in cui si è svolto il progetto, stava introducendo e spiegando le caratteristiche del dialogo. Si è pensato perciò d’individuare uno stralcio tratto daI ll re di Girgenti, romanzo storico di Andrea Camilleri: più precisamente si tratta del dialogo tra Zosimo, il protagonista (che, in disaccordo con la medicina ufficiale del tempo, ha intuito che il morbo si diffonde tramite contagio) e il vescovo di Girgenti, sulle cause della peste e sulle possibili contromisure6. Il brano non è stato analizzato in classe per mancanza di tempo, ma può essere tranquillamente utilizzato in un secondo momento per approfondire le conoscenze degli alunni. Per quel che concerne la Geografia, invece, la localizzazione dell’area geografica interessata - facilitata e incentivata dall’uso della carta storica della valle - ha permesso ai ragazzi di far fruttare la loro conoscenza delle caratteristiche fisiche, politiche ed economiche della Val di Fassa nei secoli scorsi. In questo modo, tra l’altro, gli alunni hanno potuto arricchire e/o riorganizzare in modo significativo le proprie “carte mentali”.

    Le competenze chiave di cittadinanza

    Le competenze individuate durante la stesura del progetto, ben note, sono le seguenti:

    •    Imparare ad imparare;
    •    Individuare collegamenti e relazioni;
    •    Acquisire ed interpretare l’informazione;
    •    Comunicare;
    •    Collaborare e partecipare.

     

    L’articolazione del laboratorio didattico
    Le attività del laboratorio sono state articolate nel modo che segue:

    Primo tempo-studio

    •    Prima fase (35 minuti):sono state fornite ai ragazzi alcune brevi notizie sull’organizzazione politica e amministrativa della Val di Fassa nel XVI secolo, nonché sulle caratteristiche dei centri abitati, con l’aiuto di una piccola presentazione in PowerPoint. Gli alunni, in questo modo, hanno appreso che la Comunità di Fassa, nata nel 1264, dipendeva dal Principato vescovile di Bressanone ma godeva di una certa autonomia. Fino al 1796 essa, pur avendo un potere limitato di fronte al principe-vescovo e alla dinastia degli Asburgo d’Austria, difese gelosamente le proprie leggi e consuetudini, e rivendicò il diritto di amministrare la giustizia. La Comunità era formata da sette “Regole” abitate da contadini-pastori (Pozza, Soraga, Canazei, Vigo, Campitello, Pera e Mazzin-Fontanazzo), che eleggevano annualmente i propri rappresentanti da inviare alle riunioni ufficiali. I sette rappresentanti, a loro volta, nominavano due procuratori incaricati di amministrare i conti della Comunità, che duravano in carica un anno. I documenti redatti erano stilati e conservati da uno scrivano appositamente incaricato. Si ricorderà infine che nel 1803, dopo la conquista napoleonica, il principato vescovile di Bressanone fu definitivamente soppresso e anche la storia plurisecolare della Comunità giunse al termine.

    Fig. 1: le caratteristiche dei centri abitati della valle


    Fig. 2: le sette Regole che costituivano la Comunità di Fassa.


    •    Seconda fase (15 minuti):in entrambe le classi gli alunni sono stati divisi in sette gruppi di lavoro, per riprodurrel’organizzazione politico-amministrativa della Comunità in Regole. Ciascun gruppo ha scelto il proprio rappresentante, che si è calato nei panni del proprio “antenato” citato nel documento selezionato. Quest’accorgimento ha rappresentato il primo “contatto diretto” con la fonte storica e ha consentito ai ragazzi d’immergersi in una sorta di roleplaying.

     

    Secondo tempo-studio

    •    Prima fase (20 minuti): gli alunni sono stati chiamati a rispondere al seguente problema: Nell’anno del Signore 1571 la peste minaccia la Val di Fassa. Cosa si può fare per proteggerla? I sette gruppi si sono serviti della carta geografica storica della valle e, facendo riferimento anche a contenuti econoscenze apprese dal libro di testo e dalle spiegazioni in aula, hanno cercato d’individuare le soluzioni più ade-guate, utilizzando la strategia didattica del cooperative learning.

    Fig. 3: J. DE SPERGS, Tyrolis pars meridionalis cum Episcopatu Tridentino, Vienna 1762. Edita in Su la sèides de l'Impèr: chèrtes e mapes de Fasha. Sec. XVI-XVIII, a cura di Mario Infelise e Fabio Chiocchetti, Vigo di Fassa 1986, p. 39.


    Quest’attività, naturalmente, ha consentito di verificare alcune abilità significative: gli alunni, infatti, hanno dovuto dimostrare di sapersi confrontare e di cooperare per sviluppare una strategia valida e motivata. Noi insegnanti, da parte nostra, in questa fase siamo intervenuti in modo discreto, principalmente per garantire il rispetto dell’ordine e del silenzio, verificando che ciascun componente del gruppo avesse la possibilità di esprimere le proprie idee rispettando il proprio turno. Al termine di questa fase di confronto e discussione, ciascun gruppo ha stilato una lista di cinque proposte, affidata poi al rispettivo rappresentante.

    •    Seconda fase (30 minuti): al termine della prima fase di lavoro, i rappresentanti delle sette Regole - autorizzati a prendere la parola a nome di tutto il gruppo - sono stati invitati a parlare. È iniziato così un acceso dibattito che ha avuto l’obiettivo d’individuare soluzioni condivise, votandole a maggioranza.
     

    Fig. 4: il verbale stilato dai rappresentanti delle sette Regole


    Al termine della discussione è stato redatto un documento finale in forma scritta, recante la stessa data di quello originale (26 novembre 1571), nel quale sono state elencate le cinque proposte che hanno ottenuto i maggiori consensi. Questa fase si è rivelata particolarmente interessante, perché ha permesso agli alunni di esaminare gli elementi caratteristici della struttura di un verbale (la data topica e cronica, l’indicazione dell’ordine del giorno, l’elenco dei partecipanti, il nome dei funzionari e/o degli ufficiali che la presiedono, l’elenco delle decisioni adottate).

     

    Terzo tempo-studio

    •    Fase unica(50 minuti): gli alunni hanno confrontato il documento finale prodotto da loro con quello originale, evidenziando similitudini e differenze: in questo modo i ragazzi hanno potuto prendere coscienza delle scelte effettuate dai loro antenati, giustificandole e motivandole adeguatamente. Nell’analisi della fonte ci siamo ispirati liberamente alla “grammatica dei documenti” proposta da Antonio Brusa7 . Nel caso in cui si voglia riproporre questo laboratorio, la raccomandazione per il corretto svolgimento di quest’ultima fase è che gli alunni siano stati attenti e pienamente partecipi a tutte le attività svolte in precedenza. Il confronto tra i due documenti, in effetti, può essere inteso anche come momento di debriefing, durante il quale i ragazzi possono ripensare le loro strategie di gioco ed evidenziare agli insegnanti gli elementi che hanno colpito maggiormente la loro attenzione. Tutto ciò, d’altra parte, consente ai docenti di chiarire i concetti più difficili tra quelli esposti a lezione.


    La risposta degli alunni al laboratorio

    Ci sembra opportuno sottolineare il pieno coinvolgimento di tutti gli alunni e l’attenzione mostrata anche da parte di coloro che normalmente si dimostrano meno interessati allo studio della Storia: se è vero che la validità di un laboratorio di questo genere si coglie an-che dalla motivazione e dalla serietà con cui gli studenti vi partecipano, allora si può dire che il risultato sia stato ampiamente soddisfacente. Ci preme evidenziare soprattutto il contributo attivo offerto dagli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento, che è stato davvero confortante e stimolante.A conclusione di questo piccolo resoconto, allego la tra-scrizione del documento e la scheda di lavoro per l’analisi di quest’ultimo.


    La trascrizione del documento preso in esame

    26 novembre 1571, Vigo di Fassa

    Il dì 26 novembre dell’anno 1571.
    Davanti allo spettabile messer Battista Chaliar, vice-vicario in Fassa, sono stati inviati al-cuni uomini per ciascuna Regola, per discutere della devozione e delle messe in onore di Santa Giuliana. Lo stesso per andare in processione durante la settimana. Lo stesso per ben governare la peste che ha colpito Moena.

    •    Per Canazei, sono presenti ser Zan de Livan e ser Jori de Caterina e Cristoforo.

    •    Per Campitello, mastro Paolo fabbro, mastro Marino de Simone e ser Bastiano de Funé;
    •    Per Fontanaz e Mazzin, ser Gian Antonio de Lastei.
    •    Per Pera, ser Giovanni de Soial, ser Zan de Piaz e ser Bartolomeo de Piaz.
    •    Per Pozza, ser Gianbattista Barat, ser Valerio de Zilli e ser Giacomo Bres.
    •    Per Vigo, Gian Pruner, ser Tommaso da Tamion e ser Nicolò de Marel.
    •    Per Soraga, ser Giacomo del Cristina, ser Bartolomeo de Chrazuel e ser Giovanni de Pelegrin.

    Così è stato deciso da tutta la Comunità: in primo luogo, che le messe in onore di Santa Giuliana vengano celebrate per un anno intero, e con consiglio del Pievano si è deciso di farle celebrare da un solo sacerdote, pagandogli il denaro dovuto.

    Allo stesso modo, che si faccia un atto di devozione, andando il primo venerdì del mese a San Giacomo, l’altro venerdì a Santa Giuliana, il terzo a San Sebastiano. La comunità vada tutta insieme una volta al mese e con grande devozione.

    Allo stesso modo, circa le guardie, per timore del morbo, si è deciso di mettere due uomini per ogni luogo, e di fare il cambio delle guardie a mezzogiorno, e di nominare un Sorastant con il potere di arrestare e imprigionare chi non rispetta questi ordini, che sia in servizio giorno e notte e che venga pagato dalla comunità con la somma di 15 grossi.
    Allo stesso modo, tutti coloro che sono stati a Moena non devono andare davanti agli altri abitanti per quaranta giorni, pena la perdita della vita e dei loro beni.

     

    La scheda per l’analisi del documento

     

    A. Individuiamo il documento

    1.    Quando, dove e da chi è stato scritto il documento? (punti…/1)

    B. Interpretiamo il documento

    2.    Da quante “Regole” è formata la Comunità di Fassa? Quali sono? (punti…/1)
    3.    Perché alla riunione non sono presenti i rappresentanti di Moena8? (punti…/1)
    4.    Quali provvedimenti adotta la Comunità per scongiurare la pestilenza? (punti…/1)
    5.    A quali santi la Comunità chiede aiuto e protezione di fronte al pericolo? (punti…/1)

    C. Tiriamo le somme

    6.    Secondo te, gli uomini che vivevano nella Comunità di Fassa in quel tempo conoscevano le cause che scatenavano la peste? Sapevano come curarla? Motiva la tua risposta. (punti…/2)
    7.    In un breve testo (massimo 15 righe) esponi tutto ciò che hai imparato dall’analisi del documento proposto. (punti…/3)

     

    NOTE

    ° La Scuola primaria di I grado è composta da sei corsi, suddivisi tra i plessi di Pozza di Fassa, Moena e Canazei. Il percorso è stato ideato da me, in qualità di docente di Sostegno in servizio presso l’Istituto suddetto, con la collaborazione e l’aiuto della Prof.ssa Barbara Bonu e del Prof. Nicola Parzian, docenti rispettivamente di Storia e Geografia e di Italiano in entrambe le classi selezionate. Il laboratorio ha permesso di approfondire alcuni argomenti previsti dalla programmazione disciplinare di Storia e già svolti. L’attività, però, può essere proposta anche prima della lezione sui relativi contenuti: in questo caso, infatti, essa potrebbe esprimere pienamente il suo potenziale cognitivo, poiché costringerebbe gli alunni a confrontarsi con problemi non ancora affrontati. Ringrazio ancora una volta la Prof.ssa Bonu e il Prof. Parzian per la grande disponibilità e per l’amichevole collaborazione prestata, e il Prof. Christian Fontana, coordinatore della classe 2aC, per l’entusiasmo con cui ha accolto la proposta progettuale.

    1. La carta utilizzata è consultabile in Su la sèides de l'Impèr: chèrtes e mapes de Fasha. Sec. XVI-XVIII, a cura di Mario Infelise e Fabio Chiocchetti, Vigo di Fassa 1986, p. 39.

    2. FRUMENZIO GHETTA, Documenti per la storia della Comunità di Fassa. Sedute e delibere dei rappresentanti della Comunità di Fassa. 1550-1780,Vigo di Fassa 1998, p. 81.

    3. PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO, Piani di studio provinciali. Primo ciclo d’istruzione. Linee guida per l’elaborazione dei Piani di studio delle istituzioni scolastiche, 2010, p. 32-33. Le Linee guida, entrate ufficialmente in vigore nel 2012, sono consultabili online. Per quel che concerne il resto d’Italia, invece, si rimanda alle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, anno LXXXVIII (2012), numero speciale, p. 51-55, anch'esse consultabili online.Si veda inoltre Le nuove indicazioni per il curricolo verticale, a cura di Giancarlo Cerini, (I quaderni di “Rivista dell’Istruzione”, n. 4), Dogana (San Marino) 2014, p. 263-264.

    4.Indicazioni nazionali, p. 51-55.Tali indicazioni, peraltro, sono perfettamente armonizzabili con le tematiche proposte dalla legge provinciale trentina, che fanno leva sull’appartenenza a un territorio che presenta caratteristiche morfologiche e culturali specifiche e distintive (Linee guida, p. 27-29).
     Linee guida, 76-89.  

    5.ANDREA CAMILLERI, Il re di Girgenti, Palermo 2001. Il dialogo è riportato alle p. 249-253.

    6. La “grammatica delle fonti” è articolata in quattro fasi: la prima è la selezione dei documenti utili; la seconda è la loro interrogazione, al fine di ricavare le informazioni esplicite ed implicite; la terza è l’interpretazione, necessaria a capire che le informazioni presenti nei documenti sono direttamente collegate allo scopo dell’autore; la quarta, infine, è la scrittura, cioè la raccolta di tutte le informazioni rintracciate e la loro organizzazione in brevi testi corredati da note. Al proposito si veda IVO MATTOZZI, La didattica laboratoriale nella modularità del curricolo di storia, «I quaderni di Clio ’92», n. 4 (dicembre 2003), p. 41-54.

  • La storia della guerra. Dai militari agli storici, o dalle caserme alle scuole?*

    La commemorazione del Centenario della Prima Guerra mondiale

    Da Moratti, a Gelmini a Giannini, l’elenco delle ministre della scuola affascinate dal mondo militare comincia a diventare lungo. Forse qualcuno ricorda l’idea che ai militari dovesse essere affidata la commemorazione scolastica del 4 novembre. Oggi si va più in là: è la memoria della Prima Guerra mondiale che ispira l’intesa fra Miur e Ministero della Difesa, intitolata “Favorire l’approfondimento della Costituzione italiana e dei principi della Dichiarazione universale dei diritti umani, in riferimento all’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione”.  

    Questo accordo, infatti, è stato siglato in occasione del Centenario della guerra, ma con lo scopo più ampio di contribuire all’educazione civile dei ragazzi e a diffondere la “cultura della difesa”. Secondo le due ministre, potranno essere utilizzati i militari più adatti all’insegnamento. Probabilmente, occorrerebbero militari capaci di fare storia. Non dubito che ce ne siano in Italia. Per attrezzarvi nella valutazione, vi propongo un mio adattamento della voce histoire-bataille, scritta da Nicolas Offenstadt per un dizionario storiografico francese. Così, potrete capire il modello storiografico, al quale il graduato che verrà in classe fa riferimento. Meglio ancora, dal momento che la storia della guerra è un argomento importante e degno di essere trattato, vi offrirà il destro per spiegarla voi, direttamente, agli alunni e ai militari che vorranno venire a scuola a impararla. Come sempre, vi invito, dopo questa lettura a prendere in mano l’originale Nicolas Offenstadt, Histoire-bataille, in C. Delacroix, F. Dosse, P. Garcia, N. Offenstadt (dir), Historiographie 1. Concepts et débats, 2010, pp. 163-169. (HL)

     

    La storia della guerra, fatta dagli storici e dai militari

    (…) La storia delle guerre in quanto tali ha sempre interessato molto gli storici. A dire il vero, la storia militare ha coinvolto, fino ad oggi, anche i militari. Per loro, la storia delle battaglie è “maestra di vita”: dai combattimenti del passato occorre ricavare delle lezioni per il presente militare e per i combattimenti futuri. Il grande storico militare, tanto discusso quanto influente, Hans Delbrueck (1848-1929) polemizzò nei suoi scritti contro gli storici dello stato maggiore intorno ai problemi storiografici del tempo.

    Criticò la pretesa dei militari di avere il monopolio in questo campo, cercando, contro quello che allora si pensava, di mettere a punto una storia militare più universale, più colta e meno eroica, meno isolata, inoltre, dalla politica, dall’economia e dalla cultura.
    (…)


    Come i militari fanno la storia della guerra

    A lungo questa storia militare è stata concepita come una storia della strategia e della tattica. Le battaglie e i combattimenti erano studiati e analizzati con uno sguardo d’insieme, precisamente quello del comando: gli obiettivi della battaglia, i piani preparati, la realizzazione delle operazioni a scala complessiva, o almeno a quella di grandi unità di combattimento, i risultati in rapporto alle previsioni o alle speranze di quelli che li hanno iniziati, la valutazione del risultato (battaglia vinta o persa, “decisiva” o no). Questo tipo di storia militare, ancora oggi viva, si inscrive in una storiografia istituzionale, politica, di storia “dall’alto”  in certo senso, legata a quella dei grandi uomini,   siano essi grandi decisori nella sala di comando,  oppure  comandanti  sul campo di battaglia.

    In particolare, la storia militare si è mal connessa, proprio per questi presupposti, con quelle innovazioni che hanno caratterizzato la scienza storica a partire dal XIX secolo: rivoluzione scientifica, allargamento dei punti di vista, l’attenzione alle strutture e alle mentalità, un’accresciuta riflessività.
    (…)

     

    Storia della guerra e identità nazionale

    (…) Scritta largamente da militari o da storici-militari,  la storia delle battaglie occupa un ruolo importante nel “romanzo nazionale” dei grandi paesi a tradizione militare. Le battaglie, quelle vittoriose, si vedono assegnare un ruolo cruciale o la missione di portatrici di simboli nella costruzione della nazione. Esse erano spesso presentate – e lo sono ancora -  come se fossero delle epopee. Molte di loro sono anche state analizzate, in questa prospettiva, come “luoghi di memoria”: Alesia, o Verdun in Francia, Tannenberg o Stalingrado per la Germania.  

    I lavori più recenti si sforzano in effetti di mettere in prospettiva critica questi miti identitari, le letture eroiche e entusiaste dei combattenti liberatori, ivi compresi gli eventi fondatori della Seconda Guerra mondiale, come la Battaglia di Inghilterra del 1940 (con il mito dei few against the many), o lo sbarco in Normandia del 1944, con una eroizzazione semplificatrice dei soldati. (…)


    Civili inglesi si rifugiano nella metropolitana (1940). Nel 1941, il ministero dell’Aviazione britannico pubblicò una brochure di trentadue pagine per costruire intorno alla Battaglia di Inghilterra un’aura leggendaria. Questa brochure venne diffusa in milioni di esemplari.La “battaglia dei pochi contro i molti”, come recitava il mito che ne nacque, è studiata da Richard Overy


    Una nuova “storia-battaglia”

    Da una trentina di anni a questa parte, la storiografia si è evoluta parecchio, al punto da evocare ormai una “nuova storia-battaglia”, che sarebbe lontana sia dall’immagine negativa associata come uno stigma a questo termine, sia dalla realtà di una storia dei combattimenti visti dall’alto e inserita in una semplice narrazione istituzionale e eventografica.  (…)

    Il primo di questi rinnovamenti, legato alle riflessioni sul racconto storico, riguarda le domande stesse che rivolgiamo alla battaglia. Che cos’è una battaglia o un combattimento? La risposta è meno semplice e più aperta di quanto non appaia. I racconti, soprattutto quelli che descrivono la battaglia, giocano la loro parte nella sua definizione; e le controversie per darle un nome, definire la sua estensione spaziale o più ancora la sua cronologia, cancellare o valorizzare un protagonista creano problemi complicati, che conviene sciogliere.

     

    Un caso esemplare della Prima Guerra mondiale: lo Chemin des Dames

    Queste domande sulla costituzione stessa dell’oggetto “battaglia” caratterizzano una ricerca collettiva sullo Chemin des Dames (1917). Lo scacco di questa grande offensiva, dalla quale si sperava tanto, indusse i commentatori francesi a esitare sulla maniera migliore per chiamare quella battaglia, per darne la versione meno negativa possibile (“Battaglia dell’Aisne”, “Chemin des Dames”, “Offensiva Nivelle” ecc.). Da subito, i discorsi dominanti cercarono di minimizzare la sconfitta o di trasformarla in vittorie parziali. La difficile narrazione dello Chemin des Dames, legata, per giunta, agli ammutinamenti, continuò, dopo l’evento, nella scrittura della storia (la battaglia vi occupa spesso un piccolo posto); e le commemorazioni che se ne fecero furono ora discrete ora complesse. Così, lo Chemin des Dames può essere qualificato come “evento senza forma”, tanto la messa in scena della sua estensione geografica e la sua ampiezza cronologica variano secondo i discorsi, per non parlare delle discussioni politiche e dei dibattiti interpretativi.
     

    Nicolas Offenstadt ha diretto quest’opera collettiva, dedicata allo Chemin de Dames, un “inferno”, come dicevano gli stessi soldati. Di questo massacro, e della sua rimozione francese, ci parla Giovanni de Luna. Di Craonne e dello Chemin de Dames si parla su HL a proposito di didattica museale.

     

    Gli storici rovesciano il punto di vista dei militari

    Oltre a queste domande, la “nuova storia-battaglia” rovescia i luoghi e le scale di osservazione. Con il libro molto importante di John Keegan, Il volto della Battaglia,  che studia insieme Azincourt (1415), Waterloo (1815) e la Somme (1916), i soldati nella loro esperienza del combattimento, nelle loro pratiche, le loro maniere di fare e di sentire la guerra diventano il cuore dell’interrogazione storica. Gli storici tentano di leggere la battaglia “al livello del suolo”, di comprendere le motivazioni dei combattenti, ma anche i loro comportamenti in combattimento, sia che si tratti dei gesti tecnici, dei sentimenti, delle reazioni psicologiche sia che si tratti dell’esercizio della violenza. Lo fanno anche per i periodi più antichi, come mostra lo studio “archeologico” del combattimento nella Grecia antica, condotto da Victor Hanson che segue l’oplita dalla polis fino alla morte sul campo di battaglia, attraversando tutte le fasi dell’azione militare.

     
    Qui troverete lo schema del libro di Keegan; due libri di Hanson ci spiegano fino in fondo la sua tesi – molto discussa – che mette in correlazione la straordinaria capacità di uccidere della società occidentale, con la sua democrazia. Quitrovi L’Arte occidentale della guerra

     

    La storia della guerra non è più una “storia-battaglia”

    In senso più ampio, i nuovi approcci della battaglia sganciano (dal mondo militare) l’oggetto “combattimento”, per situare i soldati nelle società del loro tempo con le loro credenze e le loro maniere di fare: è questo l’incontro fecondante con le innovazioni della storia culturale, un incontro avvenuto non senza dibattiti.  (…)

      Per rendersi conto del modo diverso di raccontare una battaglia, si può confrontare la ricostruzione proposta da arsbellica, secondo i canoni dell’histoire-bataille, e lo studio rivoluzionario di George Duby, La domenica di Bouvines. 27 luglio 1214 (del 1973), Einaudi, Torino. Di Duby, la Rai mette a disposizione le interessantissime interviste di metodologia storica

     

    Il lavoro di George Duby sulla battaglia di Bouvines ha, da questo punto di vista, marcato una rottura, altrettanto importante di quella del libro di Keegan. Il medievista ha inquadrato la battaglia del 1214 almeno da un triplo punto di vista. Dapprima, quello della contestualizzazione della battaglia in rapporto alla guerra e alla pace nel mondo medievale (“una sociologia della guerra”), poi in quello della sua narrazione da parte dei cronisti e delle fonti, e infine, dal punto di vista, legato a questi, delle costruzioni leggendarie che l’hanno accompagnata (…)

    Così, la storia delle battaglie è ormai integrata nell’insieme delle ricerche storiografiche contemporanee (ivi comprese quelle di genere) anche se l’espressione “storia-battaglia” resta il simbolo di una maniera di fare che molti storici rifiutano e che, pur tuttavia, perdura largamente nella storiografia militare.

    *Traduzione e adattamento di Antonio Brusa

  • La storia molto contemporanea. Come realizzare, rapidamente, l’ultima parte del programma.

    Autore: Antonio Brusa
    Appunti da Dan Smith

    In questa cartina, tratta dall’atlante di Dan Smith, le nazioni in viola scuro (paesi arabi, Guyana e Brunei) hanno oltre il 30% di immigrati.Seguono Usa, Canada, Arabia, Australia, Libia e paesi europei centro settentrionali con una percentuali di migrazione fra il 20 e il 30%. L’Italia è fra i paesi con meno del 10%.

     

    Perché studiare gli ultimi decenni

    L’atlante di Dan Smith,The State of the World (New Internationalist, Oxford 2014), è un magnifico aiuto per il docente in difficoltà  alla fine del percorso formativo. L’intoppo nel quale si trova solitamente è ben conosciuto: da una parte si vorrebbe finire il programma arrivando ai giorni nostri; dall’altra, fra prima e seconda guerra mondiale, fascismi, comunismi e giornate della memoria, aggiungiamoci gli esami da preparare, il tempo è risicatissimo. La sintesi di Dan Smith permette di tracciare in poche battute le linee dell’ultima parte di questo programma. E’ una sintesi aperta che consente, al docente che voglia (come spero) dedicare a questo periodo un tempo non residuale, di inserire in questo quadro approfondimenti e studi di caso coinvolgenti. 

    Partiamo con le motivazioni (e quindi con gli obiettivi) per studiare questo periodo. Da qualsiasi parte ci voltiamo, dice Smith, troviamo cose che cambiano. Si annunciano ad ogni piè sospinto cose nuove, che, immediatamente dopo, svaniscono. Professori e allievi ne ricavano un senso di incertezza frustrante. Abbiamo bisogno di qualche appiglio; ma soprattutto, abbiamo il dovere di verificare la sensazione, che attanaglia tutti, di avvicinarsi all’orlo di un baratro.

    Come tutti i punti di vista sul periodo che stiamo vivendo, anche questo è oggetto di discussione. Ma non è un difetto. Il tempo presente impone la capacità di problematizzare, proprio con questi suoi aspetti controversi. Esso  richiede il coinvolgimento nella discussione, dal momento che gli allievi sono attori della storia che si studia, al pari dei loro professori e degli autori dei testi che compulsano.

    Una volta aperta la discussione, Dan Smith dispiega i suoi strumenti: una rapida cronologia e l’individuazione di cinque temi che considera fondamentali. Per la conoscenza puntuale di questo dispositivo, rinvio naturalmente all’originale. Qui ne presento una sintesi, con i rimandi sitografici che consentiranno, anche a chi non può consultare l’Atlante, di approfondire questo o quello dei temi che vi sono descritti.

     

    La cronologia

    La mappa sintetica della contemporaneità si articola intorno a tre momenti chiave.


    a.    Il tornante degli anni ’89-91: con il crollo del mondo comunista, finisce anche l’età della guerra fredda, del mondo diviso in blocchi. Dal punto di vista degli Usa (ma certamente non solo) inizia una sorta di età dell’oro, nella quale si afferma la loro centralità. La prima Guerra del golfo li vede nelle vesti di guida di una coalizione di stati, che si mobilita per ripristinare l’ordine internazionale


    b.    Il 2001: gli attentati delle Torri gemelle, ma più ancora il modo aggressivo con il quale gli Usa vi rispondono, segna la fine di questa età effimera. Inizia un periodo più instabile, che tuttavia non ostacola il forte sviluppo economico, durante il quale decollano nuovi centri economici del mondo, come la Cina e l’India, altri segnano il passo. Ma tutti, anche i più poveri, godono di qualche briciola di questo banchetto.


    c.    Il 2008. La crisi finanziaria innesta una nuova spaccatura nel mondo: c’è chi la supera e ricomincia a crescere, c’è chi invece precipita nella stagnazione, se non nella recessione (su questo potranno essere di aiuto i lavori sulle crisi qui su Historia Ludens, e su Novecento.org). 


    E’ una ricostruzione della quale va sottolineato il pregio della facilità (al di là delle discussioni di cui sopra). Si basa su avvenimenti forti, anche facili da raccontare, ben circoscritti. Si può calcolare un tempo abbastanza rapido per spiegarli e studiarli.

    Dentro questa cornice cronologica Dan Smith disegna la struttura del mondo nel quale viviamo: la popolazione, giunta a 7 miliardi di persone, la cui vita è organizzata in Stati (l’ultimo è il Sud Sudan, nel 2010); diverse per istruzione, speranza di vita, religione e etnia. Indica la forma di insediamento principale di questa massa immensa, le città e le megacittà, ma, al tempo stesso avverte che questa popolazione è caratterizzata dalla forte mobilità delle migrazioni.

     

    I temi di studio

    Dan Smith, inoltre, propone cinque temi di studio. Li descrivo brevemente, mettendo in evidenza alcuni aspetti che li rendono problematici. Ciascuno di essi, infatti, presenta aspetti positivi e negativi. E’ fondamentale aiutare gli allievi a passare da una percezione uniforme ad una variegata, che eviti il rischio di essere “o apocalittici o integrati”.  Ad ogni tema ho fatto seguire alcuni sottotemi esemplari, che segnalo anche per il loro carattere fortemente interdisciplinare, a partire naturalmente dalla Geografia e dall’Educazione civile. E’ evidente che, nell’economia di una programmazione, questo sarà il campo dei lavori opzionali, magari assegnati per gruppi.

     

    Benessere e povertà 

    La sperequazione fra le diverse aree geografiche è drammatica. La ricchezza, con il benessere conseguente, è concentrata in alcune regioni del mondo. Tuttavia, l’ultimo ventennio ha visto la rivoluzione delle gerarchie mondiali di questa ricchezza. La Cina balza al primo posto, gli Usa retrocedono al secondo (per la prima volta da un secolo a questa parte), l’India è la terza potenza. L’Europa, come spazio geografico, è ancora il primo mercato mondiale. Le sue divisioni politiche, tuttavia, le impediscono mettere a frutto questo vantaggio. Per quanto riguarda i paesi più poveri, va notato con forza che la quota di umanità che vive con meno di un dollaro al giorno sta diminuendo.

    Sottotemi: crescita e povertà; qualità della vita; ineguaglianza; il debito; obiettivi mondiali dello sviluppo

     

    In questa infografica, che riproduco come esempio, si mostra come i Miliardari, colpiti dalla crisi del 2008, “rimbalzino”, per aumentare nel periodo successivo sia per numero sia per ricchezza complessiva


    Guerra e pace

    Tutti abbiamo negli occhi immagini atroci di guerra. Proprio per questo, occorre rimarcare il fatto che “il periodo che viviamo è il più pacifico dai tempi della Prima guerra mondiale e, come alcuni sostengono, di tutti i tempi” (p.11). Se, poi, ci limitiamo agli ultimi trent’anni, si deve ricordare che si è passati dai 50 conflitti degli anni ’80, ai 37 del decennio successivo, fino ad arrivare ai 30 nei primi dieci anni di questo secolo (pp. 58-59). Certamente le spese militari restano altissime e la guerra rimane la prima causa di morte. Si deve sottolineare (si veda su HL il testo di Yves Michaud), il cambiamento radicale e terribile, imposto dalle nuove guerre, e il fatto che i civili ne sono le vittime principali. Va ancora evidenziato l’incremento dei conflitti religiosi e etnici.

    Sottotemi: i signori della guerra; la corsa agli armamenti; i nuovi fronti di guerra (cibernetica, media); rifugiati; le operazioni di peacekeeping, conflitti religiosi.

     

    Diritti e rispetto

    Nel brevissimo periodo fra il 2008 e il 2012 i paesi stabilmente democratici sono passati dal 43% al 48%. Un dato positivo che va subito immesso in un contesto nel quale le democrazie non sono mai un bene garantito per sempre; che spesso l’esercizio delle libertà viene confiscato da “falsi amici della democrazia” e che le fasi di transizione verso la democrazia (laddove si attivino) sono difficoltose e irte di pericoli.

    Sottotemi: diritti religiosi; conflitti religiosi; diritti umani; diritti dei bambini; diritti delle donne; diritti dei gay


    Salute degli uomini

    Se guardiamo la curva dell’Aids (pp. 13 e 98-99) si vede che le infezioni hanno cominciato a decrescere a partire dalla metà degli anni ’90, e le morti dal 2005. Nel ventennio che fa dal 1990 al 2010, la popolazione mondiale sottonutrita è passata dal 20% al 15%. Ci sono progressi evidenti anche nella cura del cancro. Per converso, si deve tenere conto del fatto che il successo nella lotta contro le malattie varia sensibilmente da regione a regione; così come le regioni più ricche sono esposte a patologie che un tempo non erano epidemiche, come l’obesità.

    Sottotemi: il fumo; obesità e fame; aids e cancro; handicap e società.

     

    Salute del pianeta  

    La scala dei temi, sulla base della quale valutare la salute del pianeta eccede i pochi decenni della contemporaneità immediata. Gli analisti ci danno alcune certezze. La prima è che la natura del problema “Terra”, richiede che la cura sia approntata dall’umanità nel suo complesso. L’aspetto positivo, paradossalmente, è proprio nella gravità della situazione, la cui soluzione impone solidarietà sempre più profonde fra gli umani. Si può fare molto, conclude, Smith: ma ogni giorno che passa aumenta la scala delle difficoltà da superare.

    Sottotemi: i segnali di allarme; l’acqua; i rifiuti; la biodiversità; l’energia, le variazioni climatiche.

     

    Sitografia

    Dall’atlante di Smith, estraggo alcuni siti, dai quali si può partire per un lavoro scolastico. Non elenco i più citati, come quello della Cia o della Banca Mondiale, perché possono essere consultati per la maggior parte delle voci che seguono.

     

    Acqua: www.fao.org
    Alfabetizzazione:  www.uis.unesco.org
    Aspettativa di vita: www.who.int
    Biodiversità: www.iucnreditlist.org
    Crisi alimentari: www.iiss.org
    Debito: www.imf.org
    Diritti dei bambini: www.childinfo.org
    Diritti delle donne: www.ipu.org
    Diritti religiosi: www.religiousfreedom.com
    Disastri naturali: www.ifrc.org
    Ecologia planetaria: www.ecologyandsociety.org
    Guerre: www.pcr.uu.se
    Ineguaglianza economica: www.forbes.com
    Minoranze, diritti: www.minorityrights.org
    Minoranze, lingue del mondo: www.Ethnologue.com
    Pace mondiale: www.visionofhuanity.org
    Religioni, distribuzione: www.cia.gov
    Rifiuti: www.unep.org
    Rifugiati: www.unhcr.org
    Sviluppo, obiettivi: www.un.org
    Urbanizzazione: www.unhabitat.org

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