Intervista a Charles Heimberg

Autore: Antonio Brusa

Charles Heimberg insegna Didattica della storia e della cittadinanza all’Università di Ginevra ed è, al tempo stesso, il direttore del programma formativo dei docenti della secondaria di questo cantone. Lo incontro in occasione di Construire la paix, un festival di storia organizzato dall’Università della città, e ne approfitto per chiedergli notizie sulla formazione dei prof e sul loro reclutamento. Due temi che in Italia (come tutti sanno) sono oggetto di polemiche e di discussioni parlamentari. Il primo – la formazione dei docenti - alla Commissione cultura del Senato; il secondo – la Buona scuola – alla Camera. E’ vero: Ginevra è una realtà molto piccola, rispetto all’Italia. Ma forse proprio per questo si vede meglio l’effetto e il funzionamento di certi meccanismi che, a causa dei grandi numeri italiani, possono risultare opachi. (la conversazione è stata rivista da Charles).


Cominciamo dal reclutamento. Chi vuole insegnare storia, che cosa deve studiare qui a Ginevra?

 

Gli serve un corso di laurea triennale (baccalaureato universitario), poi un master specialistico in una disciplina insegnabile, infine un master professionale. Quest’ultimo è di 90 crediti. Corrisponde in pratica in un anno e mezzo di studi con un tirocinio annuale a metà tempo con una classe in piena responsabilità di insegnamento. Questo sistema attualmente viene contestato. Dovrebbe essere modificato prossimamente, probabilmente con la possibilità di formarsi in due anni per due discipline insegnabili.


Com’è organizzato il master professionale?

 

E’ diviso praticamente in tre parti: una di contenuti trasversali di scienze dell’educazione (dalla pedagogia alla psicologia ecc.); una seconda di didattica della disciplina; una terza, composta dal  tirocinio  in piena responsabilità già menzionato, e da altri tirocini, che si svolgono presso insegnanti dei vari livelli della secondaria. Durante il secondo anno, quindi, gli studenti sono inseriti in una scuola, in cui sperano di essere successivamente assunti dal preside.


Si accede liberamente a questi master?

 

Per alcuni anni l’accesso alla prima fase della formazione è stata libera. Purtroppo, in alcune discipline, tra cui la storia, molti studenti sono rimasti bloccati in attesa di tirocinio. Una selezione a monte è oramai prevista in un contesto di riduzioni finanziarie che bloccano tutto il sistema. Per questo anno, i posti sono saturi e non c’è sbocco.

 

Ma come si accede al tirocinio? Chi decide in quale scuola andare?

 

La legge prevede l’organizzazione di un concorso da parte dell’università, con studenti ammessi in base a una classifica, in un numero corrispondente alla quantità di tirocini messi a disposizione. Purtroppo, c’è un conflitto col Dipartimento dell’Istruzione pubblica che vuole riservarsi il compito di scegliere i candidati. Non so come la situazione evolverà. Temo che potrebbero prevalere delle pratiche arbitrarie.


In base a quale criterio il preside chiamerebbe un tirocinante? Ha un curricolo, delle domande, guarda i voti?

 

Non si sa. I criteri sono suoi personali. Sceglie quelli che conosce, magari, o che gli sono stati presentati. Sostiene soprattutto chi ha assunto per supplenze precedenti.

 

E voi dell’Università siete d’accordo?

 

C’è una forte conflittualità fra Università e presidi. Sono convinto che il compito dell’Università sia quello dell’equità. Noi dobbiamo insegnare un mestiere, valutare le capacità degli allievi e fare una graduatoria. I presidi al contrario, sono gelosi della loro autonomia.

 

E la politica?

 

La ministra dell’Istruzione pubblica parteggia piuttosto per i presidi. Per lei la vera formazione è tra pari e si dichiara poco convinta della necessità di tornare all’Università per una formazione professionale ottenuta con un master in una disciplina particolare. Insomma, se non ci fossero le leggi federali, farebbe volentieri a meno della formazione professionale universitaria.

 

 

E i sindacati?

 

Anche loro sono dello stesso avviso. Eppure, venti anni fa, non la pensavano in questo modo. Lavoravamo insieme per la costruzione di processi di formazione di qualità e per il miglioramento dell’insegnamento.

 

Che cosa è cambiato?

 

E’ cambiato che nel frattempo abbiamo inventato e sviluppato la didattica e, quindi, la possibilità di una formazione professionale trasparente e migliorabile. Ma non sembra che sindacati e politica se ne siano accorti.


Quindi, l’autonomia delle scuole, paradossalmente, è un ostacolo per una formazione professionale adeguata alla ricerca?

 

Le scuole non sono autonome. Tutto è deciso dalla politica. Budget, programmi, orari, materie e anche il preside. L’unica autonomia che gli è parzialmente concessa è proprio quella di scegliersi i professori.

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