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  • Chi ripulisce i campi dopo la battaglia? Le guerre napoleoniche, come nessuno le studia

    Tratto da Shannon Selin*

    (traduzione di Valentina Arcidiacono e Raffaele Guazzone; adattamento e note didattiche di Antonio Brusa)


    Svegliarsi dopo la battaglia

    L’8 gennaio1807, al termine della sanguinosa battaglia di Eylau, nell’attuale regione russa di Kaliningrad, il soldato francese Jean Baptiste de Marbot si risveglia, dopo aver trascorso alcune ore in stato di incoscienza: è coperto di sangue e si trova su un carro, circondato da cadaveri. E’ completamente nudo, indossa solo il cappello perché, dandolo per morto, gli hanno portato via tutti i vestiti e gli oggetti personali.

    È lui stesso a raccontarci questa sgradevole esperienza.

    Abbandonato nella neve in mezzo a cumuli di morti e moribondi, incapace di muovermi in alcun modo, persi conoscenza pian piano, senza soffrire [...] Credo che il mio deliquio sia durato quattro ore. Quando ripresi i sensi mi ritrovai in una situazione orrenda. Ero completamente nudo, con addosso null’altro che il mio cappello e lo stivale destro. Uno dei barellieri, credendomi morto, mi aveva spogliato e, nel tentativo di portarsi via lo stivale rimasto, mi stava tirando per una gamba tenendomi un piede sul corpo. Senza dubbio era stato il suo strattone a farmi riprendere i sensi. Riuscii a mettermi seduto e a sputare i grumi di sangue che avevo in gola. L’impatto del proiettile da cui ero stato colpito aveva causato un’emorragia tale che avevo il volto, le spalle e il torace completamente neri, mentre il resto del corpo era chiazzato dal rosso del sangue che sgorgava dalla ferita. Cappello e capelli erano incrostati di neve sporca di sangue, avevo gli occhi scavati, dovevo essere orribile a vedersi. Ad ogni modo, il barelliere guardò dall’altra parte e se ne andò con le mie cose, ed io, per lo sfinimento totale, non riuscii nemmeno ad aprire bocca.

    Jean Baptiste de Marbot, The Memoirs of Baron de Marbot, tradotte da Arthur John Butler, Vol. 1, Londra, 1903, p. 216.

     

    Chi ripulisce, dopo la battaglia?

    Questa è proprio una di quelle questioni che i libri di storia non sono soliti raccontare perché normalmente si soffermano sulla vittoria o la sconfitta degli eserciti e sulle conseguenze politiche di tali avvenimenti. Pochi si chiedono: dopo una battaglia, che ne è delle migliaia di corpi, abbandonati per i campi?

    Ecco, ad esempio, come il generale inglese Robert Wilson descrive la scena dopo la battaglia di Heilsberg, del 10 giugno 1807, che i francesi combatterono contro i russi:

    Il terreno tra il bosco e le batterie russe, circa un quarto di miglio, era una distesa di corpi umani nudi, che amici e nemici avevano spogliato nottetempo, per quanto il numero dei cadaveri ricordasse loro costantemente la tragedia nella quale si trovavano. Una scena orribile a vedersi, ma da cui non si poteva distogliere lo sguardo.

    Robert Wilson, Brief Remarks on the Caracter and Composition of the Russian Army and Sketch of the Campaigns in Poland in the Years 1806 and 1807, Londra, 1810, p. 147.

    Si calcola che tra il 1803 e il 1815 le guerre napoleoniche si portarono via tra i 3,5 e i 6 milioni di persone, alcune a causa di azioni belliche (da 500.000 a 2 milioni) e il resto a causa di malattie.

    Che cosa ne fu di questi corpi? Chi si incaricò di ripulire quegli scenari raccapriccianti?

    Come in una curiosa imitazione dei processi naturali, in cui si alternano animali necrofagi, larve e batteri, notiamo l’azione di diversi soggetti che, uno dopo l’altro, sgombravano il terreno di battaglia.

    I primi erano proprio i soldati vincitori che raccoglievano armi e attrezzature del nemico, come scarpe, indumenti, oggetti personali di valore (orologi, bottigliette per liquori, medaglie, portasigari ecc.) in modo da integrare la loro esigua paga.

    In un secondo momento, giungevano le donne e dopo, se lo scontro era avvenuto nelle vicinanze di un villaggio, si univano a loro anche gli abitanti delle località vicine in cerca di qualcosa da portar via.

     

    A caccia di denti

    Successivamente arrivavano i saccheggiatori, i quali, poiché non trovavano quasi più nulla da rubare, si accanivano sui corpi: armati di pinze, si affannavano a estrarre i denti dei morti. Non soltanto i denti d’oro (naturalmente più rari e appartenenti solo agli ufficiali per il loro costo elevato), ma anche i denti normali, molto ricercati per fabbricare le dentiere.

    Nel 1814, in Spagna, il nipote del chirurgo inglese Astley Cooper ricevette la visita di un cacciatore di denti inviato dallo zio.
    Dopo aver chiesto a questo Butler, che si presentava in condizione di grande povertà, quale fosse lo scopo della sua visita, egli rispose che si trattava dei denti [...] ma quando lo interrogai sui mezzi che avrebbe impiegato per ottenerli, disse: “Oh, signore, lasci solo che scoppi una bella battaglia e non ci sarà più penuria di denti. Li strapperò al volo, non appena cominceranno a cadere i soldati” [...]
    Butler non era il primo [...]. Crouch e Harnett, due esumatori ben noti, lo avevano battuto sul tempo rifornendo le classi agiate di Londra con denti di simile provenienza.

    Bransby Blake Cooper, The Life of Sir Astley Cooper, Vol. 1 (Londra, 1843), pp. 401-402.
     

    Fig.1 Dentiere fabbricate con denti di Waterloo

     

    Si sa che, dopo la battaglia di Waterloo, il mercato delle dentiere conobbe un momento prospero poiché il numero di vittime procurò materiale in abbondanza e anche di notevole qualità data la giovane età dei soldati che persero la vita in quell’occasione. Questo era un dettaglio che si specificava negli annunci pubblicitari, tanto che le protesi di quell’epoca iniziarono ad essere chiamate “I denti di Waterloo”, sottolineandone appunto la garanzia di ottima qualità.

     

    Cremazioni, sepolture. E animali carnivori.

    Normalmente il vincitore destinava una quota del bottino, ricavato dalle spoliazioni dei cadaveri, per pagare la loro sepoltura, spesso in una fossa comune, con poche badilate di terra. Oppure si procedeva all’incinerazione dei cadaveri, per prevenire epidemie.

    La scelta dipendeva dall’urgenza, dato che, spesso, la guerra richiedeva di riprendere la marcia senza arrestarsi ulteriormente. In questo caso, era la natura a occuparsi della faccenda: avvoltoi, corvi, lupi, volpi. Tutti questi carnivori trovavano molto materiale a propria disposizione.

    Il capitano Jean-Roche Coignet così scrisse dopo la battaglia di Marengo, del 14 giugno 1800, combattuta tra francesi e austriaci:


    Davanti a noi il campo di battaglia brulicava di soldati austriaci e francesi che raccoglievano i morti e li accatastavano, trascinandoli con la cinghia del moschetto. Uomini e cavalli giacevano alla rinfusa, nel medesimo cumulo, e venivano dati alle fiamme per preservarci da un’epidemia. Sui cadaveri sparsi invece solo un po’ di terra, giusto per coprirli.
    Jean-Roch Coignet, The Note-Books of Captain Coignet, Soldier of the Empire, a cura di Jean Fortescue (New York, 1929), p. 81.

     
    Fig. 2 Adolfe E. G. Rohen, Battaglia di Marengo


    Il 2 marzo del 1807, tre settimane e mezzo dopo la difficile vittoria di Napoleone a Eylau, il 64° Bollettino della Grande Armata riportava un’immagine da brivido:

    È richiesto un lavoro enorme per sotterrare i morti… Si immaginino nello spazio di una lega quadrata nove/dieci mila cadaveri, quattro o cinque mila cavalli morti, rottami di moschetti e sciabole, il suolo ricoperto di palle di cannone; bossoli di obice e munizioni; ventiquattro pezzi di artiglieria, vicino ai quali giacciono i corpi dei loro equipaggi, caduti nel tentativo di portarseli via durante la ritirata. Tutto questo era ciò che più risaltava su un terreno coperto di neve.

    Jacques Peuchet, Campaigns of the Armies of France, in Prussia, Saxony, and Poland, tradotto da Samuel MacKay, Vol. 4 (Boston, 1808), p. 201.

     

    Dopo la battaglia di Borodino

    Anche il generale francese Philippe de Ségur diede una descrizione a forti tinte del campo di battaglia di Borodino (7 settembre1812), combattuta dai francesi nel corso della campagna di Russia, quando vi ritornò due mesi dopo la ritirata delle truppe napoleoniche:

    Proseguivamo la marcia assorti nei nostri pensieri, quando uno dei nostri, alzando lo sguardo, lanciò un grido d’orrore. Ci guardammo subito intorno: giaceva innanzi a noi una piana oppressa, brulla, devastata, tutti gli alberi tagliati a due piedi dal suolo, e poco oltre delle colline scoscese, la più alta delle quali sembrava deforme, pareva vagamente la cima di un vulcano spento. Il terreno accanto a noi era coperto ovunque da frammenti di elmetti e corazze, tamburi rotti, pezzi di fucile, brandelli di stendardi intrisi di sangue.
    In quell’angolo desolato giacevano quasi trenta mila cadaveri mezzi divorati; una pila di scheletri, in cima a una delle colline, sovrastava l’insieme. Era come se la Morte in persona avesse posto là il suo trono.

    Philippe de Ségur, History of the Expedition to Russia Undertaken by the Emperor Napoleon in the Year 1812, Vol. II (New York, 1872), p. 119.

     
    Fig. 3 Albrecht Adam, La battaglia di Borodino, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo (Il pittore fu testimone oculare di quella battaglia) 

     

    Il colpo di grazia

    Napoleone aveva ordinato all’VIII Corpo dei reggimenti di Westfalia di sotterrare i morti e trasportare i feriti, mentre il resto dell’esercito proseguiva il cammino verso Mosca. Ma una cosa era la teoria e un’altra la pratica. La sanità militare era piuttosto rudimentale. Si limitava all’amputazione per prevenire la cancrena. In più c’era il problema di reperire carri per il trasporto di coloro che non potevano camminare. Per tale ragione, si dovettero adottare misure estreme come quella di dare il colpo di grazia ai feriti gravi. Altri, invece, morirono lentamente e furono ritrovati in seguito, fermi nell’atto di mordere la carne dei loro cavalli.

    Gli uomini della Westfalia rimasero sul campo circondati da cadaveri e moribondi. Erano continuamente obbligati a cambiare posizione, per via della puzza [...] I soldati, dietro richiesta di alcuni feriti al culmine dell’agonia, inferivano il colpo mortale, voltandosi dall’altra parte mentre sparavano [...] Mentre cavalcava attraverso il campo il quinto giorno dopo la battaglia, von Borcke vide dei soldati feriti a terra accanto al cadavere di un cavallo, di cui masticavano la carne. Il 12 settembre gli uomini della Westfalia si spostarono a Mashaisk, che era stata abbandonata dagli abitanti, saccheggiata e ridotta in cenere per metà [...] Corpi bruciati giacevano tra le macerie delle case, i cui ingressi erano barricati dai cadaveri. L’unica chiesa [...] ospitava diverse centinaia di feriti e tanti cadaveri quanto il conto dei giorni [...] Venne ordinato ai soldati, della Westfalia, così come ai prigionieri russi, di rimuovere i corpi dalle case e dalle strade e di dare una ripulita all’intera città, prima che venisse occupata dalle truppe.

    Achilles Rose, Napoleon’s Campaign in Russia. 1812, New York, 1913, pp. 32-34.

     

    Tanti morti, che non li si può sotterrare

    Il sergente Adrien Bourgogne completò questa descrizione terribile, raccontando che a Borodino c’erano braccia, gambe e corpi disseminati ovunque. Erano stati sotterrati i soldati francesi e non quelli russi. Ma la fretta aveva obbligato a scavare fosse poco profonde e la pioggia torrenziale aveva rimosso la terra, portando le vittime in superficie.

    Dopo aver attraversato un fiumiciattolo, arrivammo al famoso campo di battaglia [Borodino], completamente coperto da morti e rottami di ogni tipo. Gambe, braccia, teste giacevano sul terreno. Il più dei corpi erano dei russi perché i nostri erano stati sepolti, nei limiti del possibile; ma siccome la cosa era stata fatta in fretta e furia, la pioggia battente aveva scoperto molti dei cadaveri. Era uno spettacolo triste, coi corpi che a malapena conservavano l’aspetto umano. La battaglia era stata combattuta cinquantadue giorni prima.

    Adrien Bourgogne, Memoirs of Sergeant Bourgogne, 1812-1813, a cura di Paul Cottin, New York, 1899, p. 60.

     
    Fig. 4 James Rouse (1816), Contadini che bruciano cadaveri a Hougoumont (Waterloo)

     

    Con i suoi oltre 80 mila morti, la battaglia di Borodino era stata una carneficina che sarebbe stata superata solo da quella della Somme, nel 1916. Uomini e animali. Ricorda Adam Zamoyski (Marcia fatale: 1812, Napoleone in Russia, Utet 2013), che, l’anno successivo, i russi trovarono sul campo 35478 carcasse di cavalli. 

    Il processo di sgombero dei campi era qualcosa la cui durata dipendeva da molte variabili: il fattore climatico, la gravità delle perdite e la disponibilità di soldati e gente del luogo. A Waterloo si ingaggiarono i contadini locali per ripulire il campo di battaglia. Sotto la supervisione del personale medico, procedevano coprendosi il viso con un panno per sopportare il fetore dei cadaveri. I defunti alleati venivano inumati e i francesi arsi. Le pire bruciarono per più di una settimana, alimentate negli ultimi giorni solo dallo stesso grasso umano.

    Le pire bruciarono per otto giorni, le fiamme alimentate esclusivamente dal grasso umano. C’erano cosce, braccia, gambe accatastate in un cumulo e quasi cinquanta operai, con fazzoletti sul naso, attizzavano il fuoco e le ossa con lunghe forche.

    Bernard Cornwell, Waterloo: The True Story of Four Days, Three Armies and Three Battles, New York, 2015, p. 325.

     

    Ossa come fertilizzanti

    Così, ancora dopo un anno, si potevano vedere le ossa dei combattenti. Fu questo il motivo per il quale venne affidato a un’impresa l’incarico di raccoglierle: gli scheletri erano destinati ad essere macinati per essere usati come fertilizzanti (a quanto pare di ottima qualità). Non è un mito, come è stato ben dimostrato da Joe Turne, che riporta, fra l’altro, la testimonianza di giornali del tempo. Un periodico britannico calcolava, nel 1822, che l’anno precedente erano stati importati da quei luoghi un milione di bushel (recipiente da 35 litri) di ossa umane ed equine, che, sbarcate nel porto di Hull in Inghilterra, venivano inviate alle trituratrici a vapore dello Yorkshire. Da lì si mandavano a Doncaster, dove c’era il principale mercato agricolo nazionale, e le si vendevano ai contadini.

    L’articolo si concludeva spiegando al lettore che le perdite al fronte, tutto sommato, avevano un loro risvolto utile.

    Si stima che più di un milione di bushel di ossa umane e no siano state trasportate l’anno scorso dall’Europa continentale al porto di Hull. I dintorni di Lipsia, Austerlitz, Waterloo e tutti gli altri luoghi dove, durante la recente sanguinosa guerra, vennero combattute le principali battaglie, sono stati spazzati allo stesso modo delle ossa dell’Eroe e del cavallo che montava. Raccolte da ogni angolo, sono state spedite al porto di Hull, e quindi inoltrate nello Yorkshire dove le società che macinano ossa si sono dotate di motori a vapore e potenti macchinari, con lo scopo di ridurle in piccoli grani. In questo formato vengono inviate principalmente a Doncaster, uno dei più grandi mercati agricoli di quella parte del paese, dove vengono vendute ai contadini per concimare i campi. Le sostanze oleose, decomponendosi gradualmente, insieme con il calcio delle ossa creano un concime più efficace di qualsiasi altra sostanza, e ciò è particolarmente vero per le ossa umane. È ormai provato oltre ogni dubbio, attraverso esperimenti su larga scala, che un soldato morto è un articolo di commercio particolarmente prezioso; al contrario, è giusto far sapere come i bravi agricoltori dello Yorkshire, per il loro pane quotidiano, siano in larga misura in debito con le ossa dei loro stessi figli. È evidente infatti che la Gran Bretagna abbia inviato una moltitudine di soldati a combattere le battaglie del paese sul continente europeo: essa ha quindi il diritto di importare le loro ossa come risorsa economica con cui ingrassare il proprio suolo!

    The New Annual Register, or General Repository of History, Politics, Arts, Sciences and Literature for the Year 1822 , Londra, 1823, p. 132.

    Fig. 5 Sfuggito ai predatori, questo scheletro di un soldato britannico morto a Waterloo è stato trovato e identificato dopo 200 anni

     

    Cacciatori di souvenir

    L’ultimo agente di pulizia è il “cacciatore di ricordi”. Dopo la sconfitta finale di Napoleone, in Inghilterra divenne di moda recarsi a visitare Waterloo, Parigi e gli altri luoghi legati all’Imperatore, come in una sorta di turismo organizzato.

    Passeggiare per i campi di battaglia in cerca di oggetti, senza badare troppo all’odore di morte e carne bruciata che ancora aleggiava nell’ambiente, divenne un autentico hobby: cappelli, lettere, munizioni, libri, corazze (ancor meglio se erano perforate dai proiettili), elmetti, bottoni e a volte qualche osso dimenticato sul campo. Ben presto la richiesta di reliquie alimentò una nuova attività commerciale: il collezionismo.

    Fig. 6 La palla di moschetto che ha ucciso il soldato britannico

     

    Nel 1816 un poeta satirico scrisse:

    Tutti ormai tornano dai viaggi parigizzati o waterlizzati [...] conosco un onesto gentiluomo che si è portato a casa un autentico pollice di Waterloo, con unghia e tutto il resto, e se lo conserva in una bottiglia di gin.

    Eaton Stannard Barrett, The Talents Run Mad; or, Eighteen Hundred and Sixteen: A Satirical Poem , Londra, 1816, pp. 18-19.

    Il giornalista scozzese John Scott, che visitò Waterloo il 9 agosto 1815, sette settimane dopo la battaglia, trovò un proiettile inglese da 12 libbre (5 chili e mezzo), che progettò di portare a casa “con le corazze e le altre spoglie della battaglia che mi sono assicurato”. Scrisse:

    L’amore straordinario per le reliquie mostrato dagli inglesi era causa di non poche soddisfazioni per i contadini che dimoravano vicino al campo, e di burle da parte dei nostri amici militari [...] Il nostro stesso gruppo non passò dal campo senza seguire l’esempio dei nostri compatrioti; ciascuno, credo, raccogliendo la propria piccola collezione di curiosità. Il terreno era completamente disseminato da frammenti di cartucce, pezzi di cuoio, cappelli, lettere, canzoni, diari, ecc., tanto da assomigliare, in buona misura, al sito dove si era tenuta una fiera, e dove diverse carovane di zingari avevano acceso i fuochi, a più riprese, per cucinarsi il vitto. Camminando, abbiamo raccolto molte di quelle cose; tuttora conservo nei miei archivi una lettera, evidentemente slavata dalla pioggia, datata 3 aprile, a giudicare dalla porzione ancora leggibile, inviata dallo Yorkshire; ho anche una pagina di un libro burlesco, intitolato “L’assassino scrupoloso”.
    A Hougoumont ho comprato un proiettile di mitraglia, una di quelli con cui il bosco di fronte doveva essere stato preso d’assalto, almeno a giudicare dai fori ancora visibili su ogni albero.
    Il tempo che era trascorso dalla data dello scontro aveva tolto alla scena quel tanto di orrore che mi era capitato di percepire fino a poco prima; ma il grande numero di tumuli, sparsi in ogni direzione – in alcuni casi montagnole di buone dimensioni – particolarmente vicino alla stradina sopra a La Haye Sainte, e soprattutto l’aspetto desolato di Hougoumont, dove l’odore degli ossari appesta l’aria in maniera morbosa, erano indizi sufficienti della temibile tempesta che aveva spazzato un tempo questo tranquillo distretto rurale.

    John Scott, Journal of a Tour to Waterloo and Paris, in company with Sir Walter Scott in 1815, Londra, 1842, pp. 46-48.

     

    Proposte didattiche

    Come è comune fra gli storici di lingua inglese, questo testo ha un andamento scorrevole, che abbiamo cercato di accentuare nella nostra trasposizione didattica: frasi brevi, sintassi controllata, documenti brevi e abbastanza facili da capire alla prima lettura. Per questo, potremmo suggerire una lettura in classe, senza troppe presentazioni, seguita da una discussione. Poiché il testo ha un forte impatto emotivo, se ne può rafforzare la presa con un minimo di “sceneggiatura”: l’insegnante legge le parti narrative, due o tre allievi (adeguatamente preparati in precedenza), leggono a turno i documenti. Alla lim si proiettano le immagini, che, come avrete notato, sono tutte di carattere documentario.

    In questa strategia didattica si fa molto conto, dunque, sugli aspetti emotivi della vicenda e, al tempo stesso, la documentazione viene adoperata più come rinforzo, illustrazione e sottolineatura, che come “strumento per la ricostruzione di un evento”. Se questa strada non appare in linea con la propria programmazione, se ne può tentare un’altra, di carattere più laboratoriale. Suggerirei, in questo caso, di scorporare i documenti (testi e immagini), stamparli in fogli separati e allestire con questi dei piccoli dossier.

    Si procede con la tecnica dell’ “archivio simulato”. Presentazione del problema, consegna del dossier (preferibilmente si lavori in piccoli gruppi). Assegnazione del compito (“siete degli storici che hanno a disposizione dei documenti per capire qualcosa delle campagne militari napoleoniche, che solitamente viene trascurata dai vostri colleghi studiosi”). Gli allievi vengono lasciati liberi di lavorare, se competenti. In caso contrario, si elabora una rapida traccia di lavoro, avendo cura che non sia troppo pedante (come classificare i documenti, come ricavare le notizie utili, come valutare il loro grado di affidabilità). Al termine, gli allievi vengono invitati a scrivere una breve relazione, supportata da frasi ricavate dai documenti, o da riferimenti alle immagini. Suggerirei, alla fine, di utilizzare il testo di questo articolo come termine di confronto, in modo che gli allievi possano rapportare il loro lavoro a quello di un esperto.

    Questa unità di lavoro ha una sua collocazione ovvia, nel curricolo. Tuttavia, potrà essere utile nel caso si affronti il tema della guerra, anche in altri momenti della programmazione. Si sarà notato, inoltre, come permetta una magnifica apertura ad una delle branche più avvincenti dell’archeologia: quella militare. Lo scavo di un campo di battaglia consente di ritrovare le tracce di notizie tratte dalla documentazione scritta e, al tempo stesso, di “fotografarne” gli attimi più drammatici. Ecco alcuni suggerimenti, per iniziare a documentarsi e per discutere:

    Sulla campagna di Russia: https://www.artec3d.com/it/cases/ricerche-archeologiche-sul-campo-di-battaglia-originario-di-borodino; fossa comune in Lituania: http://www.oltremagazine.com/site/index.html?id_articolo=490;
    Su Waterloo: Hougoumont: https://www.rtbf.be/info/regions/brabant-wallon/detail_waterloo-des-fouilles-aux-abords-de-la-ferme-d-hougoumont?id=8968612; Waterloo: http://waterloo.skynetblogs.be/archive/2009/10/16/waterloo-histoire-locale-archeologie.html ; sul ritrovamento del soldato britannico:  http://spw.wallonie.be/dgo4/tinymvc/apps/patrimoine/views/Documents/archeologie/soldat1815/Catalogue-waterloo-web-EN.pdf

    Infine, per affrontare alcune questioni profonde, legate a questo tema: Sara Santoro, Archeologia, identità e guerra
    http://www.rivistailmulino.it/journal/articlefulltext/index/Article/Journal:RWARTICLE:83958

    *Il testo è tratto da: Shannon Selin, How were Napoleonic battlefields cleaned up? , che ringraziamo per averci concesso di pubblicare questo adattamento; è integrato con la sua trasposizione spagnola, di Jorge Alvarez, Cómo se limpiaban los campos de batalla de las guerras napoleónicas e con altre precisazioni che mi sono sembrate utili per il lavoro in classe. Le foto, dove non specificato, sono quelle proposte da Selin, il cui sito, inoltre, è ricchissimo di racconti, materiali e indicazioni di studio, in genere di storia militare.

  • Cinque verifiche per la classe quarta. A distanza e in presenza*

    di Cesare Grazioli

    Introduzione
    In un intervento parallelo a questo, sulla classe quinta, pubblicato su HL, ho sottolineato le opportunità che, assieme ai molti problemi, la didattica a distanza offre all’insegnamento, in particolare su un aspetto che a molti appare come il più critico: le prove di verifica e le forme di valutazione. La didattica a distanza accelera una necessità che è anche della didattica in presenza: quella di progettare verifiche “a prova di copiatura”, cioè prove di verifica della competenza degli allievi, nelle quali gli “aiuti esterni” risultino ininfluenti oppure, in alcuni casi, siano già “inclusi nelle regole del gioco”.

    E’ in questa direzione che mi sono mosso per costruire, anche per la classe quarta, verifiche e attività didattiche, individuali o di gruppo, concluse da forme di valutazione.

    foto1

    Fig. 1 Jean Bertaux, La prise du palais des Tuileries, (1793), MUSÉE NATIONAL DU CHÂTEAU DE VERSAILLES

     

    Quattro percorsi di lavoro sulla rivoluzione francese
    Tra quelle che qui presento, ben quattro su cinque riguardano la Rivoluzione francese. Non propongo di svolgerle tutte quattro, bensì di sceglierne una o due. Resta però legittima la domanda: perché tanto spazio alla rivoluzione francese? La risposta è che ho sempre considerato questo argomento impossibile (o inutile) da fare imparare nel senso tradizionale del termine, data l’enorme complessità e densità delle sue vicende, che è velleitario cercare di fare memorizzare agli studenti. Al tempo stesso, lo trovo straordinariamente utile ed efficace se usato come “laboratorio” di indagine del conflitto sociale-politico-ideologico, in quanto luogo di nascita del linguaggio e dei concetti della politica moderna.

    In questo senso è un laboratorio di educazione storica alla cittadinanza, nel quale la Rivoluzione francese diventa per gli studenti un oggetto da “smontare e rimontare” in tanti modi diversi, con metodi e procedure che chiamano in causa molteplici competenze.

    Per lo stesso motivo, tutte queste attività le ho costruite come lavori di gruppo, in modo da rafforzare la dimensione comunicativa e attingere alla ricchezza che, in situazioni di apprendimento per problemi, il confronto nel gruppo di lavoro offre.

     

     1. I soggetti collettivi della Rivoluzione francese, ovvero l’analisi del conflitto politico-sociale. Il manuale come laboratorio di ricerca.

    Consegne per il lavoro dei gruppi:

    A. Si può affermare che nella primavera-estate del 1789 la rivoluzione fu la risultante di “tre rivoluzioni in una”, portate avanti da altrettanti soggetti collettivi:
    • Il Terzo Stato (o più esattamente della sua élite, la borghesia, rappresentata nell’assemblea degli Stati generali, che si autoproclamò Assemblea nazionale);
    • gli strati popolari urbani, soprattutto parigini, che presero d’assalto la Bastiglia;
    • le masse contadine, con la rivolta antifeudale di quelle settimane.

    Individuate sulle pagine del libro di testo e spiegate (per iscritto):
    1) quali erano, inizialmente (cioè alla vigilia della convocazione degli Stati Generali), gli obiettivi di ciascuno di questi tre soggetti collettivi;
    2) che cosa essi fecero (metodi) per realizzare quegli obiettivi, e quali risultati essi raggiunsero;
    3) quali furono gli obiettivi e i metodi degli altri due soggetti collettivi in campo, cioè gli aristocratici e il clero (considerati nell’insieme, come “gli ordini privilegiati”);
    4) che cosa fece il re, dalla convocazione degli Stati generali fino alla caduta della monarchia.

    B. Spostate l’analisi al periodo tra la proclamazione della repubblica (ma tenendo conto anche di ciò che accadde nei mesi precedenti, dall’aprile del 1792) e la caduta di Robespierre. Individuate e spiegate:

    5) quali divisioni emersero all’interno del Terzo Stato, soprattutto tra Giacobini e Girondini, ovvero quali obiettivi avevano questi due gruppi (che ora consideriamo come due soggetti distinti), con quali metodi per realizzarli, e di quali interessi e valori erano portatori;
    6) quando, come e perché le “tre rivoluzioni in una” di cui si è detto all’inizio presero strade diverse, in qualche caso divaricate.

    C. Spostate ancora in avanti nel tempo l’analisi, al periodo tra il 1795 e il 1799. Individuate e spiegate:

    7) di quali interessi e valori era portatore il Direttorio, che prese il potere dopo la caduta di Robespierre e inaugurò di fatto una “terza fase” della rivoluzione, dopo quella monarchico-costituzionale e quella repubblicano-radicale;
    8) quali fattori portarono al potere di Napoleone Bonaparte, e di quali interessi e valori egli fu interprete.

    Il senso e il significato di questo percorso didattico
    La serie delle consegne per il lavoro dei gruppi può essere considerata una forma di lezione rovesciata, nella quale gli allievi ricercano sul testo gli elementi che, in una forma più tradizionale, sarebbero stati loro comunicati dal professore nella sua lezione. Questa, in realtà, si effettua durante la fase di consegna della prova, quando si leggono e si commentano in classe. E’ in questa fase, dunque, a valle e non a monte dell’attività degli studenti, che si colloca l’intervento dell’insegnante, che corregge, integra, puntualizza e alla fine di ciascuna delle tre fasi tira le somme del lavoro svolto. E’ evidente che la valutazione può avvenire, a discrezione del docente, su ciascuna delle otto attività assegnate, oppure al termine delle tre fasi, oppure, forse più opportunamente, a partire dalla fase b (cioè dall’attività 5), considerando come “approccio per imparare” gli esercizi della fase a).

    Va sottolineato che il percorso cancella la distinzione tra fase di apprendimento e fase di valutazione del lavoro degli studenti, ovviamente a patto di assumere come elementi di valutazione il prodotto della ricerca degli studenti (le loro risposte alle domande sopra indicate). Consiglierei, infatti, di rinunciare a svolgere, alla fine delle attività qui indicate, una verifica tradizionale sulla conoscenza fattuale della rivoluzione francese (orale o scritta che sia): questa infatti significherebbe “versare il vino nuovo in otri vecchi”, e tradire davanti agli studenti il “patto” implicito o esplicito su cui si basa l’itinerario.

    Questo “patto” con gli studenti mi pare così riassumibile: “qui non dovrete “imparare”, nel senso di memorizzare, fatti, nomi, date della rivoluzione; dovrete invece usare il libro di testo come una banca-dati o un archivio da cui estrarre i dati per i ragionamenti che vi sono richiesti, finalizzati a impadronirvi di (cioè a sapere usare) un modello di analisi del conflitto sociale e politico.

    Secondo tale modello, i fatti storico-politici sono la risultante della interazione di soggetti collettivi (qui: Terzo Stato, masse popolari urbane, ecc., poi Girondini e Giacobini, ecc.) ciascuno dei quali è portatore di determinati interessi e valori, ha (consapevolmente o no, non è decisivo) determinati obiettivi, usa certi metodi (cioè modi per ottenere quegli obiettivi), arriva a determinati risultati, tutto questo in costante relazione di alleanza o di conflitto con gli altri soggetti in campo.

    Questo modello di analisi, beninteso, lo apprendete ora lavorando sulla Rivoluzione francese, ma vi servirà per analizzare e capire qualunque conflitto sociale e politico, dall’Italia dell’Ottocento al presente della nostra Repubblica.”

    Oltre a questo, l’indagine che gli studenti sono chiamati a fare si basa su una operazione fondamentale per gli storici, la periodizzazione, che è sempre, al contempo, una tematizzazione, ovvero una individuazione degli aspetti più rilevanti che marcano lo spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. In questo caso, un evento complesso come la Rivoluzione francese è stato periodizzato, cioè diviso, in tre fasi, nelle quali cambiano i soggetti del conflitto socio-politico:
    1 la fase monarchico-liberale, dalla primavera 1879 alla caduta della monarchia;
    2. la fase repubblicana radicale, fino alla caduta di Robespierre;
    3. la fase repubblicana moderata, dal Direttorio al consolato.

     

     2. La rivoluzione francese e la nascita del linguaggio politico. Lavoro sui termini.
    Questa seconda proposta, molto più breve della precedente, è successiva all’esplorazione della Rivoluzione francese, svolta con il primo percorso appena descritto, o con qualunque altro approccio. Questa è la sequenza delle operazioni.

    1. Inizio spiegando in pochi minuti che i termini “Destra”, “Sinistra”, e poi anche “Centro” come area intermedia tra le due precedenti, nacquero durante rivoluzione francese, come moltissimi altri concetti del linguaggio politico.
    2. Sollecito la classe a completare così l’arco delle collocazioni politiche, e a visualizzarlo alla lavagna (e sui quaderni):
    Sinistra, Centro-sinistra, Centro, Centro-destra, Destra
    3. Chiedo agli allievi di far corrispondere a tali collocazioni le seguenti definizioni politiche, e di spiegare che cosa significano questi aggettivi, riferiti alla politica:
    moderato, rivoluzionario, progressista, reazionario, conservatore, riformista, radicale
    4. Chiedo di concentrarsi sul periodo storico tra l’estate del 1789 e la fine del 1791, e in questo individuare la corrispondenza tra le cinque collocazioni politiche sopra indicate e i seguenti soggetti della rivoluzione, individuali o collettivi:
    La Fayette – i Girondini – Danton – Robespierre – i Foglianti – la maggior parte degli aristocratici
    5. Chiedo, infine, spiegare se e come, sotto l’incalzare tumultuoso degli eventi, dalla fine del 1791 in poi cambiò la collocazione politica di questi soggetti individuali o collettivi.

    Il senso e il significato di questo percorso didattico
    Ho usato questo esercizio alla fine del percorso precedente, perché permette un’agile attività di discussione collettiva in classe, nei punti 2 e 3, seguita da una riflessione individuale o a coppie, tradotta in risposte scritte, negli esercizi 4 e 5. Si riflette su temi e termini del linguaggio politico che diamo spesso per scontati. In questo caso non se ne studia la definizione formale, ma li si studia, per così dire, in situazione.

     

     3. Esercizio interdisciplinare di Storia-Filosofia sulla Rivoluzione francese. La finta intervista
    Questo percorso di ricerca è stato interamente svolto a gruppi (come lavoro domestico, a distanza, ma era già stato proposto negli anni scorsi in presenza). E’ stato progettato per valorizzare la possibilità di intrecciare i punti fondamentali del modulo di Filosofia, appena concluso (sulle teorie politiche da Hobbes all’Illuminismo), con il tema della Rivoluzione francese. In classi non liceali, che non fanno Filosofia, potrebbe essere ugualmente svolto, dato ci si occupa comunque delle teorie politiche dell’età dell’Illminismo. Se necessario, si può sostituire Locke con Montesquieu.
    Dividete la classe in gruppi di quattro allievi ciascuno. Dovranno immaginare di impersonare tre grandi filosofi del XVIII secolo e rispondere alle domande che un ipotetico giornalista rivolge loro. Segui questo esempio:

    - Mr. Locke, come giudica l’attuale situazione politica della Francia, dopo l’entrata in vigore della Costituzione?
    «Ora che è entrata in vigore la Costituzione elaborata dall’Assemblea nazionale, posso dare un giudizio molto favorevole su quanto è accaduto alla Francia in questi anni tumultuosi. Ora questo grande Paese si è finalmente lasciato alle spalle l’assolutismo, sistema politico arcaico e inefficiente, ed è diventata una monarchia costituzionale di ispirazione politica liberale, abbastanza simile al sistema vigente da quasi un secolo nel mio Paese, l’Inghilterra. C’è infatti la divisione dei poteri tra quello esecutivo, di cui è titolare il re che nomina un primo ministro, e quello legislativo affidato all’Assemblea nazionale. Positivo è anche il sistema di suffragio ristretto su base censitaria stabilito dalla Costituzione per le imminenti elezioni, e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del cittadino, approvata già nell’agosto ’89, che riconosce i fondamentali diritti individuali, tra i quali la proprietà privata. Non mi piace invece la legge che istituisce la Costituzione civile del clero, che anziché separare Stato e Chiesa, li avvicina ancora di più, trasformando vescovi e preti in funzionari dello Stato (e non a caso ha trovato il netto rifiuto del cosiddetto “clero refrattario”).»

    riv.grazioli

    Fig.2 François Pascal Simon Gérard, Disegno preparatorio per il quadroLe Peuple français demandant la destitution du tyran à la journée du 10 août, 1794

    Domande a John Locke
    - Mr. Locke, in Francia hanno appena convocato gli Stati Generali. Siamo nel gennaio del 1989: come vede la situazione di quel paese, e quali sono i suoi principali problemi?
    - Mr.Locke, in questo anno fatidico, 1794, Danton è stato appena ghigliottinato. Secondo lei, che cosa sta succedendo veramente in Francia?

    Domande a Jean-Jacques Rousseau
    - Mr. Rousseau, come giudica la situazione francese dopo la promulgazione della Costituzione, in questo autunno del 1791?
    - Mr. Rousseau, sono ormai molti anni che in Francia è in atto la Rivoluzione. Siamo arrivati all’autunno del 1793: come descriverebbe la situazione oggi, e come la giudicherebbe?

    Domande a Adam Smith
    - Mr. Smith, a voi inglesi dovrebbe far piacere il fatto che i francesi hanno finalmente una Costituzione. Come la giudica? (siamo nell’autunno del 1791)
    - Mr. Smith, come vede la situazione politica e economica in Francia, dopo la morte di Marat e la presa di potere da parte di Robespierre?

    NB: Locke, Rousseau e Smith sono consapevoli che, per esigenze giornalistiche, le loro risposte devono essere contenute in non più di 10-12 righe per ciascuna delle domande loro rivolte.
    Le risposte saranno scritte con le stesse caratteristiche tipografiche (formato, carattere, spaziatura, dimensione cartelle…) utilizzate in questa pagina, possibilmente in word (.docx o .doc)

    Traccia di correzione

    John Locke all’inizio del 1789
    «La Francia è un grande Paese, popoloso e potente, ma è bloccato da un sistema politico del tutto inadeguato. Infatti il suo assolutismo scontenta tutti, perché il Terzo Stato, e in particolare la sua parte più dinamica, la borghesia, si sente oppresso e totalmente escluso dalla vita politica; e perché gli ordini privilegiati pretenderebbero di ridimensionare il potere di più una monarchia che già si è molto indebolita dai tempi del Re Sole, e di mantenere quei loro privilegi fiscali che sono la causa principale dell’enorme debito pubblico francese. Sembra che sia imminente la convocazione degli Stati generali, imposta al sovrano proprio dagli ordini privilegiati, ma questi organismi, con la loro rappresentanza per ordini, sono totalmente anacronistici, così come lo è il sistema giuridico dell’ineguaglianza del diritto, che moltiplica esenzioni, privilegi e ingiustizie. Perciò non mi aspetto nulla di nuovo e prevedo l’ennesimo fallimento, dopo quelli dei ministri riformatori che il re in questi anni ha prima assunto e poi dovuto licenziare per l’opposizione dei ceti privilegiati. »

    John Locke nel giugno 1794
    «Dopo un periodo molto promettente, quello tra l’estate del 1989 e il 1791, in cui la Francia sembrava avviata a costruire una monarchia costituzionale di impronta liberale, la situazione è degenerata. Questo è accaduto dopo la proclamazione della repubblica, nel settembre 1792, ma forse già dalla decisione di muovere guerra alle altre potenze europee, che ha estremizzato il clima. Si è infatti arrivati all’instaurazione di una vera e propria dittatura, esercitata dal Comitato di Salute pubblica sotto guida di Robespierre. Di fatto è venuto meno quella divisione dei poteri tra esecutivo e legislativo che è alla base di un corretto funzionamento dello Stato, perché la Convenzione si limita ad approvare passivamente tutto quanto deciso dal Comitato. Ancora più grave è la legge sui sospetti, che viola i diritti naturali dell’individuo, e i decreti sul maximum dei prezzi che, imponendo la consegna dei prodotti agricoli a prezzi amministrati, viola di fatto il diritto di proprietà perché impedisce ai produttori di disporre liberamente di quanto da essi prodotto. Questa tirannide, che colpisce soprattutto gli esponenti delle classi altolocate, si sta dimostrando ancora peggiore della monarchia assoluta contro cui si è fatta la rivoluzione. »

    Jean Jacques Rousseau nell’autunno 1791
    «In questi due anni la nazione francese si è finalmente svegliata, sembra avere preso in mano il suo destino, abbattendo il giogo della tirannia, cioè della monarchia assoluta. Nella dichiarazione dei diritti dell’estate del 1789 l’Assemblea nazionale aveva affermato il principio fondamentale che la sovranità risiede nella nazione, e che la legge è l’espressione della volontà generale. Sia i contadini sia il popolo di Parigi hanno assunto un ruolo di protagonisti, impegnandosi per affermare i loro diritti. Ora, però, questo processo si è bloccato, in un compromesso con la monarchia che impedisce di affermare la migliore forma di stato, cioè la repubblica democratica; e in una costituzione che limita la partecipazione diretta solo a pochi, mentre l’assemblea, espressione della volontà generale, dovrebbe rappresentare tutti i cittadini francesi. »

    Jean Jacques Rousseau nell’autunno 1793
    «La situazione mi appare contraddittoria. Infatti, da una parte il popolo francese ha abbattuto la monarchia e ha finalmente instaurato la repubblica, unico sistema che consente di realizzare il contratto sociale come io lo intendo; inoltre, la Convenzione repubblicana quest’anno ha emanato una nuova Costituzione, realmente democratica. Date le enormi dimensioni di questo paese, non è pensabile realizzare la democrazia diretta, ma almeno c’è il suffragio universale che garantisce a tutti i cittadini di essere depositari della sovranità. Dall’altra parte, però, la Convenzione, che eliminata la monarchia doveva essere il luogo ove si manifestava la volontà generale, affidando ai Comitati un mero ruolo di esecutori delle sue deliberazioni, sembra avere invece lasciato troppo potere a questa specie di governo di fatto che è il Comitato di Salute Pubblica. E’ vero, d’altronde, che nell’attuale situazione di emergenza (militare, politica ed economica), la volontà generale può essere diversa dalla somma delle volontà individuali di tutti, soprattutto se incarnata in uomini come Robespierre, di sicuri principi democratici e di grandi virtù repubblicane.»

    Adam Smith nell’autunno 1791
    «Questo paese fino al 1789 era debole perché il ceto più moderno, la borghesia industriale, aveva poco spazio: infatti non aveva alcun potere politico in un sistema assolutistico, ed era soffocato dagli interessi feudali dei ceti privilegiati. Però in questi due anni la Francia ha fatto grandi progressi, anche se per realizzarli ha dovuto percorrere la pericolosa via della rivoluzione. Le riforme amministrative hanno razionalizzato la società, con l’abolizione di dazi e dogane interne, e la legge di Le Chapelier, che abolisce le corporazioni dei lavoratori e il diritto di sciopero, consente agli imprenditori di avere mano libera nei rapporti di lavoro, e perciò di sviluppare un moderno sistema industriale, basato sul lavoro salariato e sulla divisione del lavoro. Inoltre il nuovo governo girondino, di indirizzo liberista in economia, sembra favorevole agli interessi della borghesia industriale, sia perché ha indebolito l’aristocrazia agraria, sia perché non interferisce con il libero mercato. Con il suffragio censitario adottato dalla Costituzione appena entrata in vigore, non c’è il rischio che il popolo minuto prenda il sopravvento, come ha fatto più volte nel 1789, e invochi misure di regolamentazione e di controllo dei prezzi, che ostacolerebbero il libero mercato e sarebbero dannosissime per l’economia. »

    Adam Smith nell’autunno 1793
    «Il precipitare degli eventi, nella direzione che mi sembrava scongiurata due anni fa, sembra essere la “dimostrazione per assurdo” dei miei principi. Se la pace è il fondamento dei liberi commerci, e il mercato autoregolato è il fondamento della ricchezza delle nazioni, della loro prosperità e libertà, in Francia sta accadendo proprio l’opposto: la guerra ha portato all’emergenza economica, e questa, per i cedimenti alle richieste del popolo minuto, ha generato la regolamentazione economica e la politica del calmiere: cioè il contrario della linea del libero scambio da me sostenuta. Ma l’invasione del governo, cioè dello stato, nell’economia, ha provocato solo danni economici (inflazione, mercato nero, penuria di beni) e una ancor più grave invasione nel campo dei diritti civili, con le leggi sui sospetti e l’instaurazione di una nuova tirannide, il Terrore. Quando chi governa, cioè Robespierre e il Comitato di Salute Pubblica, si appoggia agli umori della piazza (ed estromette con la forza della piazza i rappresentanti dei ceti imprenditoriali, cioè i Girondini), non ci si può aspettare nulla di buono, né in economia né in politica! »

    Sull’esito del lavoro a distanza
    Il lavoro è stato significativo, e certamente “al riparo da copiature”, quanto meno per quanto riguarda gli “aiutini” da internet. L’inconveniente è stato invece il fatto, riscontrato in un caso, di tre gruppi che si sono passati il lavoro l’uno all’altro, come si capiva chiaramente dagli elaborati consegnati. Sono emerse differenze rilevanti tra gruppi che hanno lavorato bene, entrando pienamente nella logica proposta dal percorso, e altri che invece hanno realizzato prodotti molto riduttivi o poco pertinenti. Da segnalare le grosse difficoltà incontrate a proposito di Adam Smith, di cui ovviamente non si era vista una vera e propria teoria politica, per il quale si trattava di inferire dalla sua teoria economica le implicazioni politiche (vedi correttore): capacità, questa, rivelatasi al di sopra di quanto ci si poteva attendere dai gruppi.

    Siccome il lavoro di gruppo si è rivelato piuttosto impegnativo, ho somministrato la seguente RUBRIC, come strumento di autovalutazione del lavoro, che ciascuno studente ha compilato individualmente e mi ha inviato, e che ha consentito di raccogliere preziose informazioni a me, oltre che rappresentare un’attività meta cognitiva, di autovalutazione per gli studenti.

    Da COMPILARE da parte di ogni studente e da RISPEDIRE al prof
    RUBRICA di AUTOVALUTAZIONE FINALE (parziale, su due aspetti) sul lavoro di gruppo su RIVOLUZIONE FRANCESE
    Nome e Cognome ………………………………..

    Secondo me:

    p. 0

    p.2

    p.4

    p.6

    PUNTI

    sul COMPITO

    Mi sento frustrato/a

    o deluso/a del risultato del lavoro svolto

    Mi sento sufficientemente soddisfatto/a  dei risultati del lavoro svolto

    Mi sento abbastanza soddisfatto/a  del risultato del lavoro svolto

    Mi sento pienamente soddisfatto/a  del risultato del lavoro svolto

    sul GRUPPO

    Nel gruppo è del tutto mancata la collaborazione

    Alcuni membri hanno parteci-pato poco, altri hanno dovuto fare anche il lavoro altrui

    Il livello di collaborazione è stato nel complesso abba- stanza soddisfacente

    L’attività è stata svolta con un contributo attivo e costruttivo di tutti

                               Totale punti, in 12esimi:

    Altre considerazioni personali sul lavoro di gruppo assegnato: (non obbligatorio farle, del tutto libere)


     

    4. Debate sulla Rivoluzione francese

    I gruppi estraggono a sorte la relazione A o quella B e la redigono seguendo la traccia di lavoro, le cui fasi sono numerate sotto.
    Nella versione in presenza, si seguono le indicazioni date sotto. In quella a distanza, il punto C sarà scritto; il punto D verrà sostituito dall’invio ai compagni e al prof della relazione; il punto E sarà svolto online.

    1. Porta argomenti ed esempi a favore della seguente tesi storiografica:
    “Nella fase del Terrore la rivoluzione francese degenerò in una tirannide e in un bagno di sangue, e così facendo rinnegò e stravolse gli obiettivi e gli ideali dell’ ‘89. I responsabili morali e politici di tali esiti furono i Giacobini con il loro estremismo, ed in particolare Robespierre e gli altri membri del Comitato di Salute Pubblica”

    2. Fai ora la stessa operazione per la seguente tesi storiografica:
    “Non ha senso criminalizzare Robespierre e il Comitato di Salute Pubblica per le violenze del cosiddetto Terrore. Le loro decisioni furono infatti in gran parte inevitabili, dettate dalle condizioni di assoluta emergenza in cui essi si trovarono ad operare; e in parte quelle decisioni derivarono da scelte di governi precedenti, di cui non erano responsabili”

    3. Scrivi la relazione
    Per costruire la tua relazione, serviti di almeno sette argomenti, che selezionerai nella lista seguente (vedi punto F). Controlla sul tuo manuale i dati di fatto ai quali si riferiscono. Nella lista troverai argomenti favorevoli e contrari alla tua tesi. Puoi selezionarli a tua scelta, secondo il tipo di argomentazione che vuoi sostenere. Se farai una relazione coerente e ben argomentata questa verrà ben valutata (da 1 a 5).
    Per questa fase verrà assegnato un tempo congruo. La relazione (breve) potrà essere redatta in presenza o a casa.

    4. Leggi la relazione
    Tieni presente che devi convincere un pubblico. Usa toni appropriati, vivaci, evita di essere monotono e di annoiare. Il modo con cui farai la tua orazione sarà valutato da 1 a 5

    5. Discuti la relazione
    Mentre ascolti la relazione avversaria, prendi nota degli eventuali errori, delle informazioni che sono state fraintese o trattate male, delle informazioni, presenti nella lista, che il tuo avversario non ha utilizzato, sbagliando. Ogni osservazione che verrà accettata dalla giuria, o alla quale l’avversario non avrà saputo rispondere, ti varrà un punto.

    6. Lista degli argomenti

    1. La guerra non era stata voluta da Robespierre, che anzi si era opposto invano ad essa, bensì dai girondini e dal re, che erano perciò i veri responsabili della esasperazione e della radica-lizzazione della rivoluzione.
    2. La rivoluzione francese aveva già ottenuto le sue più importanti conquiste nel 1789: aveva di fatto creato una monarchia costituzionale, di impronta liberale, basata sull’uguaglianza del diritto e sull’abrogazione dei privilegi feudali. Robespierre e il Comitato di Salute Pubblica, che erano l’avanguardia della corrente giacobina, affossarono tutte quelle grandi conquiste, che sarebbero state alla base dei sistemi liberali ottocenteschi.
    3. Si susseguivano le sconfitte e i tradimenti dei generali (spesso di orientamento girondino), col rischio che il paese fosse invaso e la rivoluzione repressa nel sangue dagli eserciti stranieri.
    4. Con la legge sui sospetti e i processi sommari eliminarono la liberà di stampa e di opinione.
    5. Instaurarono una dittatura, fondata su un controllo poliziesco, sull’arbitrio e sulla concentrazione dei poteri nelle loro mani, sulla sistematica utilizzazione della ghigliottina come strumento di lotta politica, per terrorizzare ed eliminare gli avversari politici.
    6. Erano intolleranti, incapaci di accettare la dialettica tra posizioni diverse come prassi normale nella vita politica, e di conseguenza l’assolutamente insensibili verso i diritti delle minoranze.
    7. Poiché i contadini che avevano cessato di avere un ruolo attivo (e anzi in Vandea avevano preso le armi contro il governo rivoluzionario), i giacobini, che pure erano di estrazione borghese, dovettero allearsi agli strati popolari urbani e accogliere le loro richieste di rigida regolamentazione economica.
    8. Nell’estate del ’93, quando Robespierre e il Comitato di Salute pubblica si trovarono alla guida politica della rivoluzione, la Francia era in una drammatica emergenza economica, politica e militare: sul piano economico, c’era una forte inflazione, che svalutava gli assegnati ed esasperava gli strati popolari urbani per l’aumento dei prezzi dei beni.
    9. La controrivoluzione contadina in Vandea e in altre regioni, spesso organizzata dal clero refrattario aveva reso difficile la vita politica della Francia.
    10. I membri dell’Assemblea eliminarono le garanzie costituzionali (infatti la costituzione del ’93 di fatto non entrò mai in vigore), con le tutele dei cittadini contro l’arbitrio del potere;
    11. Di fronte a questa triplice emergenza – economica, politica e militare - le scelte drastiche compiute dal Comitato di Salute Pubblica guidato da Robespierre erano inevitabili, soprattutto la regolamentazione economica (il calmiere dei prezzi e i controlli capillari per farlo rispettare) cioè l’imposizione di una durissima disciplina economica, di cui il cosiddetto Terrore fu l’altrettanto inevitabile risvolto politico.
    12. I membri dell’Assemblea instaurarono una dittatura, fondata su un controllo poliziesco, sull’arbitrio e sulla concentrazione dei poteri nelle loro mani, sulla sistematica utilizzazione della ghigliottina come strumento di lotta politica, per terrorizzare ed eliminare gli avversari politici.
    13. Erano dei fanatici dottrinari, convinti di rappresentare la Volontà generale. Pensavano di essere i virtuosi e che dovessero combattere contro il vizio dei controrivoluzionari.
    14. L’emergenza bellica imponeva una straordinaria mobilitazione sia ideologica sia di mezzi umani e materiali, con la leva di massa.

    Traccia di correzione

    TESI A 1. La rivoluzione francese aveva già ottenuto le sue più importanti conquiste nel 1789: aveva di fatto creato una monarchia costituzionale, di impronta liberale, basata sull’uguaglianza del diritto e sull’abrogazione dei privilegi feudali. 2. Robespierre e il Comitato di Salute Pubblica, che erano l’avanguardia della corrente giacobina, affossarono tutte quelle grandi conquiste, che sarebbero state alla base dei sistemi liberali ottocenteschi. 3. Essi cancellarono: la divisione dei poteri (perché controllavano il Tribunale rivoluzionario e manipolavano la Convenzione, cioè l’assemblea legislativa); 4. la libertà di stampa e di opinione (con la legge sui sospetti e i processi sommari). 5. Così facendo, essi instaurarono una dittatura, fondata su un controllo poliziesco, sull’arbitrio e sulla concentrazione dei poteri nelle loro mani, sulla sistematica utilizzazione della ghigliottina come strumento di lotta politica, per terrorizzare ed eliminare gli avversari politici. 6. Alla base di questo c’erano il loro fanatismo dottrinario (la convinzione di rappresentare la Volontà generale, e la virtù rivoluzionaria contro il vizio dei controrivoluzionari), e 7. l’intolleranza, cioè la loro incapacità di accettare la dialettica tra posizioni diverse come prassi normale nella vita politica, e di conseguenza l’assoluta insensibilità per i diritti delle minoranze.

    TESI B 1. Nell’estate del ’93, quando Robespierre e il Comitato di Salute pubblica si trovarono alla guida politica della rivoluzione, la Francia era in una drammatica emergenza economica, politica e militare: sul piano economico, c’era una forte inflazione, che svalutava gli assegnati ed esasperava gli strati popolari urbani per l’aumento dei prezzi dei beni; 2. sul piano della politica interna, era in corso una vera e propria controrivoluzione contadina in Vandea e in altre regioni, spesso organizzata dal clero refrattario; 3. sul piano militare, si susseguivano le sconfitte e i tradimenti dei generali (spesso di orientamento girondino), col rischio che il paese fosse invaso e la rivoluzione repressa nel sangue dagli eserciti stranieri. 4. Di fronte a questa triplice emergenza, le scelte drastiche compiute dal Comitato di Salute Pubblica guidato da Robespierre erano inevitabili, soprattutto la regolamentazione economica (il calmiere dei prezzi e i controlli capillari per farlo rispettare) cioè l’imposizione di una durissima disciplina economica, di cui il cosiddetto Terrore fu l’altrettanto inevitabile risvolto politico: 5. infatti, con i contadini che avevano cessato di avere un ruolo attivo (e che anzi in Vandea avevano preso le armi contro il governo rivoluzionario), i giacobini, che pure erano di estrazione borghese, dovettero allearsi agli strati popolari urbani (i sanculotti) e accogliere le loro richieste di regolamentazione economica. 6. L’emergenza bellica, inoltre, imponeva una straordinaria mobilitazione sia ideologica sia di mezzi umani e materiali, con la leva di massa. 7. D’altra parte, a decidere la guerra, nel ’92, non era stato Robespierre, che anzi si era opposto invano ad essa, bensì i girondini e il re, che erano perciò i veri responsabili della esasperazione e radicalizzazione della rivoluzione.

    7. Lezione finale conclusiva: l’insegnante tira le somme del dibattito, presenta le tesi storiograficamente accreditate

    (Non posso commentare l’esito di questo Debate perché, a differenza delle precedenti attività, non l’ho ancora provata in classe).


    foto3

    Fig. 3 Pottier-Degeyter, spartito dell’Internazionale, 1871

     5. Verifica sulle ideologie politiche dell’Ottocento. Definire e conoscere termini.

    Già da alcuni anni utilizzo questo modello di verifica, come conclusione di un percorso didattico, agile, realizzato con la dispensa qui di seguito riprodotta, che riassume le sette ideologie politiche emerse nel corso dell’Ottocento.

    Dopo la spiegazione della dispensa, ho utilizzato nel corso degli anni strategie didattiche diverse per favorirne la comprensione: da un dibattito con la classe divisa in sette gruppi, uno per ogni ideologia, incaricato di presentare positivamente la propria e di criticare le altre; a un veloce esercizio di individuazione di due o tre parole-chiave caratteristiche di ciascuna ideologia.

    Quest’anno, in situazione di didattica a distanza, ero dubbioso se continuare a somministrare una verifica di questo tipo, che come si vede è molto diversa dalle altre forme di valutazione finora presentate. Diversa in tutto, ma non in un aspetto, decisivo: costringe a pensare, a ragionare, e solo un risultato positivo dimostra di avere capito tali ideologie. L’ho somministrata il 17 aprile e i suoi risultati, in termini di attendibilità e significatività, sono andati anche oltre alle mie aspettative. Sapevo, dalle esperienze precedenti, che il livello di soglia per definire accettabili i risultati erano 16 punti (su 22, cioè 7/10), e così è accaduto anche quest’anno, con risultati buoni o accettabili nella maggior parte dei casi, ma anche con cinque insufficienze, su 25 studenti. Ecco qui a seguire la dispensa studiata dagli studenti prima della suddetta verifica.
    Consegne per gli studenti

    Attribuisci ciascuna delle seguenti parole, o frasi, o espressioni-chiave, alla ideologia politica ottocentesca di cui è maggiormente caratterizzante [NB: una sola, meglio se usando le sigle (in rosso) tra queste: REAZIONARIA, LIBERALE, DEMOCRATICA, SOCIALISTA, ANARCHICA, CATTOLICO-SOCIALE, NAZIONALISTA] Tempo disponibile: 25’

     

    parola, frase o espressione-chiave IDEOLOGIA
     patria   .............................................
    corporazione  .............................................
     stato di diritto  .............................................
     sovranità popolare   .............................................
     alleanza trono-altare  .............................................
     suffragio universale  .............................................
     divisione dei poteri  .............................................
     la proprietà privata è e deve essere inviolabile  .............................................
     la tradizione è il fondamento delle istituzioni  ..............................................
     tutti i cittadini devono avere uguali opportunità   .............................................
     il salario deve corrispondere alla “giusta mercede”  .............................................
     lo stato e la religione devono essere eliminati  .............................................
     l'ingiustizia sociale deriva dalla proprietà privata  .............................................
     per risolvere la questione sociale ci vuole la concordia tra le classi  .............................................
     lo stato è l’espressione della dittatura della classe borghese   .............................................
     l'interesse dello stato-nazione è superiore a qualunque altro interesse   .............................................
     la rivoluzione deriverà dall’ insurrezione spontanea delle masse  .............................................
     la società è gerarchicamente ordinata secondo le differenze naturali  .............................................
     la religione appartiene alla sfera privata della libertà di coscienza  .............................................
     la società deve essere una libera associazione, senza istituzioni e burocrazia  .............................................
     il sangue, la lingua, la storia comuni sono i più importanti legami tra i cittadini  ..............................................
    il proletariato industriale deve organizzarsi per rovesciare i rapporti di produzione  .............................................

     

    CORRETTORE   TOTALE 22
    parola, frase o espressione-chiave   ideologia
       
    patria 1...nazionalista
    corporazione 2...cattolico-sociale
    stato di diritto 3…liberale
    sovranità popolare 4...democratica
    alleanza trono-altare 5...reazionaria
    suffragio universale 6...democratica
    divisione dei poteri 7…liberale
    la proprietà privata è inviolabile 8....liberale
    la tradizione è il fondamento delle istituzioni 9... reazionaria
    tutti i cittadini devono avere uguali opportunità 10...democratica
    il salario deve corrispondere alla “giusta mercede” 11..cattolico-sociale 
    lo stato e la religione devono essere eliminati 12...anarchica
    l'ingiustizia sociale deriva dalla proprietà privata 13...socialista
    necessaria la concordia tra le classi per risolvere la questione sociale 14...cattolico-sociale
    lo stato è espressione della dittatura di classe della borghesia 15...socialista
    l'interesse dello stato-nazione è superiore a qualunque altro 16...nazionalista
    la rivoluzione deriverà dall' insurrezione spontanea delle masse 17...anarchica
    la società è gerarchicamente ordinata secondo le differenze naturali 18...reazionaria
    la religione appartiene alla sfera privata della libertà di coscienza 19...liberale
    la società deve essere una libera associazione, senza istituzioni e burocrazia 20...anarchica
    il sangue, la lingua, la storia comuni sono i più importanti legami tra i cittadini 21…nazionalista
    il proletariato industriale deve organizzarsi per rovesciare i rapporti di produzione 22…socialista

     Dispensa sulle IDEOLOGIE POLITICHE DELL’OTTOCENTO
    Come premessa, definiamo i due significati del termine IDEOLOGIA:

    a) neutro, o "debole": insieme di idee e di valori riguardante l'ordine politico (ovvero, la rappresentazione dei rapporti tra individui, società e stato) con la funzione di guidare i comportamenti collettivi. Oppure: sistema di idee connesse con l'azione, cioè un'interpretazione della realtà (passata, presente, futura) comprendente un programma e una strategia per la sua attuazione, al fine di cambiare - o difendere - l'ordine politico esistente.

    b) negativo, o "forte": falsa credenza, ovvero concezione che, deliberatamente o meno, rappresenta la realtà in modo mistificato, rovesciato, unilaterale, al di fuori di una analisi pragmatica, e/o in funzione di valori /interessi /situazioni di potere particolari da difendere.

    Qui di seguito ci riferiremo al primo significato sopra indicato

    Ideologia LIBERALE Principale erede della tradizione illuminista francese (soprattutto di Montesquieu e Voltaire) e del giusnaturalismo inglese (Locke), si basa sulla distinzione tra sfera privata dell'individuo nella società, e quella pubblica, propria dello Stato, e sulla salvaguardia della prima dall'ingerenza del secondo. Il liberalismo crede nel progresso, che si realizza se si sviluppa la libertà individuale in tutti i campi: nell'economia con la proprietà privata; nella società con i "diritti civili" (libertà personale, di opinione e di stampa, religiosa, di associazione, ecc); nella politica con il dibattito delle idee e con il controllo della pubblica opinione sullo stato. Lo stato liberale deve basarsi sulla certezza del diritto (sancito da una costituzione scritta), per cui si parla anche di “stato di diritto”, nel quale cioè tutti sono sottoposti alla sovranità della legge; e sulla divisione dei poteri, in particolare tra governo (potere esecutivo) e parlamento (potere legislativo), quest'ultimo eletto da quanti godono della pienezza dei diritti politici (cioè di voto), in base al censo e/o all'istruzione.

    Ideologia DEMOCRATICA Erede anch'essa della tradizione illuminista (soprattutto di Rousseau) e dei "Sacri Principi dell''89", tra i quali però mette l'accento sulla egalité, e talora sulla fraternité, mentre l'id. liberale privilegia la liberté. Pertanto le sua idee-forza sono la sovranità popolare e il suffragio universale come espressione degli uguali diritti politici di tutti i cittadini. Soprattutto in Francia – meno in Mazzini, anch’egli uno dei massimi esponenti democratici – si preoccupa di dare contenuti sociali (fraternité) all'uguaglianza politica, fornendo a tutti "pari opportunità" con l'istruzione, la "libertà dal bisogno", l'effettivo esercizio del diritto di voto: sia quello attivo (con l’organizzazione dei partiti, che consentono la partecipazione politica), sia quello passivo (=eleggibilità, possibilità di essere eletti) tramite la retribuzione ai parlamentari. Con l'estensione del suffragio, nel '900, le differenze fra le ideologie liberale e democratica tenderanno a sfumare, ed emerge una ideologia LIBERAL-DEMOCRATICA attraversata da differenze, talora profonde, tra liberal-moderati (o conservatori) e liberal-progressisti (o radicali, o democratici, negli Usa "liberal")

    Ideologia REAZIONARIA Nasce come reazione alla rivoluzione francese, della quale rifiuta i principi essenziali; auspica un ritorno al passato, alla tradizione, ed è contraria all'idea di progresso. Le leggi non devono essere scritte ma consuetudinarie, il "diritto divino" e non la sovranità popolare è alla base del potere statuale, che non può pertanto essere diviso. La società deve basarsi sul principio di autorità, le differenze tra individui (di censo, stato, istruzione) sono "naturali" e non modificabili, quindi le teorie sulla libertà e sull'uguaglianza tra gli uomini sono pericolose. L'Ideologia reazionaria, che in epoche successive assumerà contenuti diversi secondo i differenti contesti, all'inizio dell'Ottocento contrappone alla laicità dello stato la difesa della religione e l'alleanza "trono-altare" come baluardo dell'ordine sociale (es: J.De Maistre). A metà del secolo (1864), un totale rifiuto teorico di tutte le teorie moderne viene espresso dalla Chiesa cattolica col Sillabo di papa Pio IX.

    Ideologie RIVOLUZIONARIE Nell'Ottocento, ci sono teorie diverse, accomunate dall'esigenza di dare voce a quel "quarto stato" (il proletariato industriale) che è prodotto e al contempo vittima dell’industrializzazione: teorie che propugnano la rivoluzione, ovvero la radicale trasformazione dell'ordine esistente, al fine di realizzare la giustizia, intesa come uguaglianza sociale. Tra le diverse correnti, è necessario distinguere le due principali:
    a) SOCIALISTA; b) ANARCHICA

    a) Ideologia SOCIALISTA Si presenta dapprima – come teoria ma anche come forma di organizzazione (cooperativa, sindacale o politica) del proletariato industriale – nelle diverse versioni del cosiddetto socialismo utopistico o "romantico", in Inghilterra (Owen) e in Francia (Fourier, Blanc, Proudhon). Poi si afferma nella versione che avrà maggiore rilievo sia teorico sia politico-organizzativo: il marxismo. Secondo Karl Marx il capitalismo industriale è la più moderna ed efficiente forma di sfruttamento dei produttori (i proletari) da parte dei detentori dei mezzi di produzione (i capitalisti). Nel capitalismo, però, c'è la contraddizione tra l'enorme sviluppo delle forze produttive, reso possibile dall' industrialismo, e l'appropriazione del prodotto sociale da parte di una minoranza sempre più ristretta, la borghesia. Su tale contraddizione potrà fare leva il proletariato, prendendo coscienza del suo sfruttamento e organizzandosi politicamente, al fine di abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione e la divisione in classi. Per fare ciò è necessaria una rivoluzione, che deve abbattere le istituzioni liberali (finzione giuridica dietro cui si cela la dittatura della borghesia), sostituendole con la dittatura del proletariato, via intermedia alla futura società comunista.
    Verso la fine del secolo prevale però, a partire dal più forte partito socialista europeo, quello tedesco (SPD), una posizione riformista, che tende a eliminare o a rimandare in un futuro indeterminato la prospettiva rivoluzionaria, a favore di un’azione politica tesa a ottenere riforme, soprattutto attraverso le forme elettorale e parlamentare.

    b) Ideologia ANARCHICA Teorizzata dal russo Michail Bakunin, sostiene che l'origine dello sfruttamento e delle ingiustizie sociali non è la classe dei capitalisti, ma lo stato, e con esso la religione. Anche l'ideologia anarchica, come quella marxista, vuole eliminare la proprietà privata, ma tramite una rivoluzione che abolisca ogni forma di autorità statuale, favorendo la libera organizzazione collettiva dei produttori in forme cooperative. L'anarchismo rifiuta la forma organizzativa del partito, e con esso la lotta politica e parlamentare, e punta all'azione insurrezionale diretta delle masse. Più che tra il proletariato di fabbrica, questa ideologia trovò seguito tra le masse contadine, specie nei paesi meno industrializzati come l’Italia e la Spagna.

    Ideologia SOCIALE CRISTIANA (o cattolico-sociale) Basata sull’enciclica Rerum Novarum di papa Leone XIII (1891), vuole fornire alle "questione sociale" soluzioni diverse sia dal liberalismo che dal socialismo, ambedue visti negativamente. Nel governo dell’economia e dei rapporti sociali, infatti, respinge tanto la lotta di classe quanto il primato delle leggi del mercato. Afferma che il salario deve essere regolato secondo il principio etico della "giusta mercede", e che lo stato deve intervenire nelle questioni sociali come regolatore e mediatore dei conflitti. Il principio basilare deve essere la solidarietà tra le classi, per cui l'organizzazione ottimale è quella di libere corporazioni, ma si accettano anche associazioni solo operaie, invitando i lavoratori cristiani a organizzarsi in forma sindacale e cooperativa. Nei paesi di cultura cattolica, tra fine '800 e il '900 nascono su questa base partiti e sindacati di ispirazione cristiana, e trovano consenso soprattutto nel mondo contadino.

    Ideologia NAZIONALISTA Nasce nella prima metà dell' '800 dall'idea romantica di Patria come stato-nazione, secondo cui lo stato deve coincidere con la nazione, intesa come comunità di storia, lingua, tradizioni, etnia (talora anche religione). Da metà ‘800, negli stati europei la "nazionalizzazione delle masse" è il lungo processo che mira ad integrare le masse nello stato, a creare/rafforzare l'identità e il senso di appartenenza nazionale, attraverso molteplici canali: la scolarizzazione e la propaganda mediata dai programmi scolastici, la leva militare, le feste patriottiche e la "invenzione" di molteplici tradizioni. Tra fine '800 e inizio '900, nell'età dell'imperialismo, nasce una nuova ideologia nazionalista che si basa sul primato del proprio stato-nazione, in competizione con gli altri, in una logica di prestigio e di potenza internazionale; per il superiore interesse dello stato-nazione tutti i conflitti interni devono essere disciplinati, soprattutto quelli tra le classi, che vanno armonizzati all'interno di organismi corporativi subordinati allo stato.

     

    *Insegno nell’I.I.S. “Blaise Pascal” di Reggio Emilia, un Istituto con quattro indirizzi, due liceali e due tecnici: nel mio caso, nei due licei, uno dei quali artistico ad indirizzo grafico, l’altro scientifico (Scienze Applicate). Quest’anno ho una classe quarta di indirizzo grafico ed è a questa che si riferiscono le esperienze qui descritte.

  • E’ l’economia, stupido!

    Autore: Antonio Brusa

    Le crisi economiche: un argomento ideale per il Laboratorio del Tempo Presente*

     

    It’s the economy, stupid!” fu la frase vincente che Clinton disse a Bush, quando lo sbaragliò alle elezioni del 1992. Bush aveva appena finito di strapazzare l’esercito irakeno, ma, non sapendo nulla di economia, fu colto in castagna, e perse.Oggi ce la potremmo rimpallare a vicenda quella frase, noi – docenti di storia – che in trent’anni di post-modernismo abbiamo fatto di tutto per rimuovere la sbornia di economia politica degli anni ’70, guadagnandone un analfabetismo che ci impedisce di capire le vicende nelle quali ci sembra di precipitare. Non capiamo noi e non capiscono i nostri allievi. Tempi angosciosi, concludiamo scuotendo la testa. Mi piacerebbe adottare quella frase per la Summer School, “Laboratorio del Tempo presente” di quest’anno, la prima dell’Insmli, che ha avuto come tema “Il Novecento attraverso le crisi”.

     


    Indice

    • Un progetto di lavoro originale
    • Accordiamoci sul concetto di crisi
    • Due argomenti importanti: finanza e governo dell’economia internazionale
    • Una nuova vulgata del Novecento
    • Uno schema per la programmazione
    • Fatti e concetti da rivedere
    • Considerazioni finali

     

    Un progetto di lavoro originale

    Una scuola per essere meno stupidi in tempo di crisi? La nostra è durata tre giorni, di lezioni e discussioni, guidate da Scipione Guarracino, Carlo Fumian, Marcello Flores e Giovanni Gozzini (al quale debbo la citazione di Clinton). Io, in particolare, digiuno come sono di storia contemporanea e da sempre ignorantissimo di economia, vi ho imparato un sacco. Ho capito che devo rivedere molti concetti e fatti, che davo per scontati e che la ricerca attuale ha stravolto. Mi sono sottolineato alcuni concetti, nodali per capire la crisi, ma anche per orientarsi nelle discussioni pubbliche intorno a questa. Mi sembra di aver individuato un filo rosso, una sorta di narrazione che, facendo perno sulle grandi crisi, mi permette di riorganizzare, rapidamente e in modo efficace, quello che so sul Novecento e, poi, mi sono venute tante idee, su film, romanzi, casi di vita che potrebbero rendere vivo un percorso scolastico, ricco di laboratori, approfondimenti e di intrecci interdisciplinari.

     

    Mi sembra che l’argomento “crisi” possa fornire questi strumenti di insegnamento:

    1. Una visione sintetica e molto compatta del Novecento, utilissima per inquadrare il programma
    2. Un fiume di suggerimenti per unità didattiche interdisciplinari, fra storia, letteratura, arte, cinema, musica e anche geografia (per esempio i problemi della mondializzazione)
    3. Un’altrettanto vasta possibilità di laboratori di storia locale/nazionale
    4. Un nuovo orizzonte per l’uso delle fonti orali in classe: avete mai pensato che un prof o un genitore sono fonti per la conoscenza della crisi del 1973? E che gli allievi stessi sono fonti per quella del 2008?

    Fortunatamente non sono solo. A questa scuola hanno partecipato oltre 70, fra docenti e comandati degli Istituti Storici della Resistenza. Ci siamo appassionati al problema e siamo decisi a mettere a punto qualcuno di quegli strumenti. Fra cinque mesi dovrei avere sul mio schermo questi materiali. Li metteremo, con le relazioni dei colleghi storici, in “Novecento.org”, la rivista didattica degli Istituti. Questi sono solo i miei appunti, giusto per mettere a fuoco alcune idee didattiche e per sollecitare il lettore di HL a partecipare a questa opera collettiva.

     

    Accordiamoci sul concetto di crisi

    In questa Scuola è stato adoperato in diverse accezioni, non necessariamente in conflitto fra di loro. Carlo Fumian, riprendendolo dal dibattito delle scienze politiche, lo definisce come un “periodo di malessere violento e breve”. Un febbrone, per riprendere le sue parole, dal quale il paziente può uscire male (la recessione), oppure immunizzato dalla malattia. Nel ’29 la crisi dura pochi mesi, poi si entra in recessione. Se è così – mi viene da pensare - quando sento che “stiamo uscendo dalla crisi”, ascolto una cosa imprecisa o falsa. La crisi è esplosa nel 2008. Poi alcuni l’hanno superata e altri sono entrati in recessione. Oggi, nel 2013, dovrebbero dirmi se noi italiani stiamo ancora in recessione o se ne stiamo uscendo.

     

    Questi “colpi violenti” a volte esplodono a ripetizione. Per esempio, alla crisi del ‘29 seguirono altre fibrillazioni, come quella del ’37, con effetti ugualmente terribili.

    Fumian ha utilizzato questa accezione del concetto per inquadrare il ’29. Per analizzare gli anni ’70, Marcello Flores, invece, ha utilizzato il termine “crisi” in un’accezione più sistemica. Non si trattò, ha sostenuto, di un “febbrone” solo economico. Anzi, da questo punto di vista non fu peggiore di tanti altri. In realtà, si trattò di un travaglio che colpì molti aspetti della società: culturali, politici, comportamentali, ecologici, di politica internazionale (ricordiamo, solo per fare un esempio, il terrorismo), militari.

    In questa accezione, forse più largamente usata in ambito storico, la crisi è sempre un fatto molto complesso (cosa che piace tantissimo agli storici), con molte cause, tante sfaccettature e tanti motivi. Questa immagine si presta, perciò, alla definizione classica di crisi, alla latina - da cribrum - il setaccio che passa al vaglio la storia. La crisi, in questa nuova accezione, fa sempre male, ma si tratta di un parto oppure di un “tornante storico”, per dirla alla francese.

    Questo concetto potrebbe essere applicabile anche alla crisi del 1880 e seguenti, che (secondo Fumian, questa volta) fu un periodo di crescita, una “non-crisi”, dal momento che fu il momento di gestazione di quello che noi consideriamo il mondo contemporaneo. Analogamente, il 1973 e seguenti, fu il periodo di gestazione del nostro mondo.

    Riassumo con questo specchietto le quattro crisi delle quali normalmente si parla nei manuali e che scandiscono il “lungo Novecento”, distinguendo per comodità “crisi internazionale” da “crisi sistemica”.

     

    1880 Crisi sistemica/Periodo di crescita economica Nascita mondo contemporaneo
    1929 Crisi internazionale Recessione globale
    1973 Crisi sistemica/Grandi cambiamenti Nascita del mondo attuale
    2008 Crisi internazionale e “finanziaria” Recessione parziale


    Fumian e Flores usano definizioni di crisi molto “storiche”. Gozzini, che ha parlato della crisi del 2008, mi sembra più propenso a usare la definizione di “crisi finanziaria”: questa crisi inizia per ragioni finanziarie negli Usa, e travolge molte economie, fra le quali quella italiana. Per questa rinvio ai tre pezzi sulle crisi, scritti su HL da Massimiliano Lepratti, con riferimento speciale  a quella del 2008, e ai due argomenti che seguono.

     

              

     

    Due concetti importanti: finanza e governo dell’economia internazionale

    Il concetto di Finanza, con la sua grande famiglia di futures, subprime, spread, broker, rating ecc., ci opprime quasi quotidianamente. E’ decisivo per capire la crisi del 2008, ma ha radici lontane. Risale alle origini del mondo contemporaneo. In principio – nella seconda metà del 1800 - i futures erano forme di assicurazione, che l’imprenditore inventava per garantirsi da eventuali disastri. Ad esempio, un imprenditore agricolo, che non sa se l’anno prossimo il suo raccolto andrà a buon fine, “fa una scommessa contro la sua riuscita”. Se il raccolto va bene, guadagna vendendo il grano. Se va male, vince la scommessa e non ci rimette. Una trovata intelligente. Solo che, una volta che comincia a circolare l’idea, si scommette su tutto e i broker inventano ogni giorno nuove occasioni per scommettere e guadagnare. Negli ultimi decenni del 1900, questa massa di scommesse non ha più un rapporto stretto con il mondo della produzione. Anzi: il suo valore è eccezionalmente più alto. Ogni giorno, ormai da una ventina d’anni, la finanza fa circolare un paio di migliaia di miliardi di dollari. Una cifra immensa. Come se ogni giorno qualcuno gettasse sul tavolo da gioco tutto il debito italiano di un anno. Per avere un’idea di quanto valgano mille miliardi di dollari, pensiamo a quanto ci fa piangere una manovra fiscale di appena cinquanta miliardi di bigliettoni.

     

    Ilgoverno internazionale dell’economia. Prima dell’avvento dell’internazionalizzazione (e poi dell’esplosione della globalizzazione, alla fine del XX secolo), ogni Stato aveva gli strumenti per governare i processi economici che si svolgevano nel suo territorio e, attraverso patti bilaterali, riusciva a dialogare in forme più o meno conflittuali, con gli altri stati.

     

    Con l’avvento dell’internazionalizzazione si è inaugurata l’epoca del “malgoverno dell’economia”. Ma non per “colpa” dell’internazionalizzazione. Questo malgoverno dipende principalmente da una sorta di coazione a comportarsi male, da parte degli Stati. Questi, infatti, cercano di intervenire  su un terreno che è fuori dalla loro portata (perché è internazionale) con una logica nazionale. E’ quello che accade negli anni ‘30, quando gli Stati fecero fronte alla recessione, seguita alla crisi, attraverso politiche protezionistiche (a cominciare proprio da Roosevelt). Governarono con la testa rivolta all’indietro, come se si fosse ancora ai giorni della guerra franco-prussiana, e peggiorano la situazione.

     

    Infatti, la conseguenza delle loro politiche, nel 1929, fu quella di cronicizzare la recessione. Questa durò ancora dieci anni. Poi, nel secondo dopoguerra, gli Stati sembrarono finalmente aver appreso la lezione, e inaugurarono politiche di controllo internazionale degli scambi, che contribuirono a costruire il famoso “trentennio d’oro”. Ma sembra che quello fu l’unico momento nel quale gli Stati tennero conto della storia. Verso gli anni ’70, infatti, la rottura dell’equilibrio di Bretton Wood e della parità fra dollaro e oro (1944), e, poi, la deregolamentazione dei mercati, del duo Reagan-Thatcher crearono le premesse per la situazione attuale.

     

    Una nuova vulgata del Novecento

    Sarà un mio pallino, ma resto convinto del fatto che non basta, quando si fa didattica (o comunicazione), aprire questioni e dubbi, e terminare il proprio intervento avvertendo che “il problema è più complesso”. Occorre “sporcarsi le mani” con sintesi, immagini, carte che, per quanto provvisorie, facciano il punto e permettano all’interlocutore (ma anche a noi) di orientarsi. Se non lo facciamo noi storici, ragazzi e gente comune adotteranno mappe e racconti, prodotti dalle nuove agenzie di rassicurazione della politica o del mercato. Meglio, allora, che lo facciamo noi, con tutte le avvertenze e le precauzioni: quelle che chi mi legge deve tenere presente, scorrendo questa rapidissima sintesi.

    Il racconto del Novecento, dunque, può iniziare con la prima esplosione dell’internazionalizzazione. Siamo alla fine del XIX secolo. L’abbattimento dei costi, che i grandi battelli a vapore consentono, permette al grano, al mais, al vino di fare viaggi che fino a pochi anni prima erano impensabili. Gli Stati restano interdetti. Un po’ ne approfittano, un altro po’ cercano di bloccare questo flusso. Ma le loro politiche protezionistiche sono deboli e, tutto sommato, non riescono a fermarne lo sviluppo. Le crisi che si aprono in questo periodo dipendono spesso dall’incapacità di settori economici locali di far fronte alla nuova competizione internazionale. E’ una scrematura, non una recessione.

    Terminata la prima guerra mondiale, il decennio ‘19-‘29 vede di nuovo il mondo crescere. Al suo centro gli Usa e la loro folla di investitori, che scorgono nella ricostruzione europea (e tedesca) una buona fonte di guadagno. Quando, però, si profila l’esplosione della finanza (i soldi facili delle scommesse di cui sopra), questi immensi capitali lasciano precipitosamente il vecchio continente, e si riversano nella borsa di New York. E’ un periodo che alcuni storici chiamano di euforia incontrollata.

    1929. La bolla finanziaria esplode e innesca la crisi, che si abbatte su un’economia (quella europea) già colpita dall’abbandono dei capitali americani. Tutti (regimi fascisti, comunisti e liberaldemocratici) reagiscono alla recessione degli anni trenta attivando politiche protezionistiche, chiamate in vario modo  a seconda dell’ideologia di riferimento.

    Per uscire dalla crisi, occorsero quattro elementi. Il primo fu il pieno impiego. Fu garantito dalla guerra (ahimè). Il secondo: le politiche pianificatrici, che non furono attuate solo nel mondo comunista (anzi: il termine “planismo” fu coniato da W. Lippmann, il celebre giornalista americano). Terzo: il governo internazionale dell’economia, inauguratosi alla fine della guerra e del quale gli accordi di Bretton Wood sono il simbolo; e, finalmente, il Welfare europeo e poi americano.

    Di conseguenza, nel 1943 inizia il periodo dei “trenta gloriosi”, durante il quale si registra un incremento economico un po’ dappertutto, il miracolo economico italiano e giapponese e altri fatti interessanti da raccontare, fra i quali, in primo piano, la decolonizzazione.

    La crisi degli anni ‘70 ha certamente diversi aspetti “critici”: il petrolio, i mercati che si fermano, la Guerra  dei Sei giorni. Non fu ininfluente, per il suo scatenarsi, la decisione degli Usa di abbandonare gli accordi di Bretton Wood (1971). E, come nel 1929, anche questa crisi fu mal governata, ad esempio attraverso l’abuso dell’inflazione (che permette a uno Stato di vendere di più a danno degli altri). Tuttavia, i suoi aspetti decisivi, per quanto “critici” anch’essi, costituiscono le fondamenta del mondo attuale: la nascita della sensibilità ecologica, del femminismo, i nuovi comportamenti, la planetarizzazione della cultura, la rivoluzione digitale.

     

     

    E’ quest’ultima, probabilmente, che – insieme con la deregolamentazione dei mercati internazionali promossa da Reagan e da Thatcher - innesca le condizioni della crisi successiva. La telematica, infatti, esaspera la velocità della finanza. Non è più necessario recarsi in Borsa, per scommettere. Lo si può fare da casa, dal proprio terminale. E’ il momento in cui diventano indispensabili efficaci istituzioni di controllo e un buon governo di questo traffico caotico. Invece, come abbiamo visto, la nostra è l’età della de-regolamentazione, nei confronti della quale poco possono fare i vari organismi (G8, G20, WTO ecc), dal momento che ogni Stato persegue ottusamente il proprio tornaconto. Le bolle diventano pericolose e incontrollate, esplodono a ripetizione, a partire dall’inizio del XXI secolo. Quella del 2008 innesca la recessione, nella quale noi italiani ci siamo impantanati e dalla quale altri sembrano essersi salvati.

     

    Uno schema per la programmazione

     

    1880/1929 Avvio del processo di internazionalizzazione
    La seconda industrializzazione
    La prima guerra mondiale
    Il primo dopoguerra
    L’industrializzazione italiana
    Giolitti e la società di massa
    La guerra di Libia
    Il Fascismo
    1929/1945 Crisi e recessione
    Le risposte alla crisi: Roosevelt, Stalin, Hitler
    La II Guerra
    Il fascismo. L’Italia entra in crisi prima del 1929, a causa della quota ’90.
    1945/1973 I “Trenta gloriosi”
    La fine della decolonizzazione
    La Repubblica italiana
    L’industrializzazione italiana
    1973/2008 Il mondo attuale
    La globalizzazione
    La planetarizzazione della cultura
    La rivoluzione digitale
    La rivoluzione sociale: femminismo e ecologismo
    La rivoluzione antropica: le migrazioni
    La riconversione produttiva dell’Italia
    Italia e Ue
    I cambiamenti sociali
    I rapporti fra politica e società

     

    Fatti e concetti da rivedere

    Mi sono reso conto, in tanti anni di lavoro con i docenti, che spesso non basta mostrare uno schema, un’interpretazione nuova. E’ sempre utile elencare anche le idee e i racconti che, secondo questa interpretazione, dovrebbero essere messi nel cassetto. Eccone alcuni.

    1. La crisi del 1880. C’è su tutti i manuali, ma non fu una crisi. Al contrario, si trattò di un periodo di crescita impetuosa, favorita dal processo di internazionalizzazione dell’economia, avviatosi nella seconda metà dell’Ottocento. Localmente, come accadde in alcuni settori dell’economia italiana, produsse degli scompensi. In generale quel periodo vide un aumento di tutti i parametri dell’economia.
    2. La fallacia del locale. Molti esempi adottati per spiegare la particolarità italiana in realtà non sono significativi di una specificità nazionale. La crisi della Banca di Roma fu solo una delle crisi bancarie mondiali. Le città operaie (Schio, Crespi d’Adda) che testimonierebbero il particolare slancio paternalistico di capitalisti italiani, impallidiscono di fronte alle centinaia di città operaie analoghe americane.
    3. La sovrapproduzione del 1929. E’ spesso invocata come causa fondamentale di quella crisi. In realtà fu poco influente, in una crisi che fu innescata dallo spostamento massiccio di capitali americani dai settori produttivi europei agli appetitosi investimenti finanziari americani.
    4. Il ruolo salvifico del New Deal. C’è su tutti i manuali. Tutto il mondo andò in malora, ma Roosevelt salvò l’America con il suo piano di aiuti e la svalutazione del dollaro, si dice. In realtà, il New Deal alleviò solo gli effetti della crisi, ma nessuna delle politiche attuate da Roosevelt riuscì a invertire l’andamento recessivo dell’economia
    5. Il welfare, politica di sinistra? Questa fa parte anche delle cose che si dicono in politica. In realtà, fu proposto da un conservatore, Lord Beverage nel 1942, nel suo rapporto al Parlamento inglese.
    6. Lo choc petrolifero fu la causa della crisi del ‘73. In realtà, fu scarsamente influente. Il prezzo del petrolio si ristabilizzò rapidamente.
    7. La sovrapproduzione del 1973: in realtà, le politiche monetariste, che trovavano nelle teorie di Milton Friedman (la famosa “scuola di Chicago”) il loro fondamento, si basavano sul fatto che esisteva troppa moneta per troppo poche merci.
    8. La crisi del 2008. Ha effetti negativi solo in alcune regioni del mondo. Altre ne sembrano esenti; altre ancora sembrano andare meglio.

     

    Considerazioni finali

    Tre punti conclusivi. Interessano questo tema, ma investono questioni molto più generali e decisive per la formazione storica. Il primo riguarda i tempi del progetto didattico. Se riprendete lo schema della programmazione che ho proposto, noterete che divide l’annualità in quattro parti. Supponiamo di assegnare a tutte un tempo equivalente. Significa che a metà anno si dovrebbe arrivare alla seconda guerra mondiale, e che la seconda metà dell’anno dovrebbe essere dedicata ai tempi più recenti, fino ai nostri giorni. Significa – lo sappiamo tutti benissimo – che questa programmazione va contro le abitudini maggioritarie degli insegnanti. Spero siate d’accordo sulla necessità di ridiscutere questa norma non scritta. Non dal punto di vista formale, che si tratti di una violazione dei programmi, quanto da quello sostanziale: a che serve investire cinque anni per imparare a leggere le mappe del tempo passato, se poi non ci dotiamo di quelle per capire il tempo presente?

    Il secondo riguarda i tempi a disposizione. Protesta immediata: non abbiamo tempo. E’ vero. E, peraltro, quando il duo Moratti-Gelmini ne ha sottratto gran parte soprattutto nella scuola di base, nessuno ha fiatato. In ogni caso, oggi è così. Cinquanta ore l’anno nella maggior parte dei corsi, sperando che Educazione alla Cittadinanza o la guerra fra poveri con Geografia non aggravi questo disastro. Al momento, non vedo che due soluzioni:

    1. Dotarsi di racconti sintetici e potenti (non di bignamini, quindi) del periodo da spiegare. E da questo punto di vista le crisi sono un bel fil rouge del Novecento.
    2. Costruire sistemi concreti ed efficaci di collaborazione fra discipline. Senza perdere tempo su liste interminabili di competenze, quanto piuttosto mettendosi d’accordo nella cooperazione fra italiano, storia, storia dell’arte, geografia ecc, intorno a temi nodali. Anche da questo punto di vista, le quattro crisi suggeriscono magnifici incroci pluridisciplinari.

    Il terzo infine, riguarda il Laboratorio del tempo presente. Questa struttura potrebbe essere aperta in qualsiasi momento del curricolo, in qualsiasi grado e ordine di scuola, quando se ne presenta la necessità. Un problema sociale si impone in tutta la sua urgenza? Discutiamone in classe. Ma non per fare la “ricerca”, peggio ancora la “ricerca su internet” o “la lettura del quotidiano”. Quanto, piuttosto, per mostrare come le capacità di ragionamento storico (nel nostro caso) messe a punto fin a quel momento in classe, danno una mano per capire quel fenomeno e per dire, magari, qualcosa di diverso di quello che gli allievi sentono in classe o ai talk show. Insomma, Il laboratorio è un modo per sottolineare che la scuola deve recuperare il suo senso di “presidio culturale” nella società.

     

     

     

    * La Summer School “Il Novecento attraverso le crisi” si è tenuta a San Marino il 9-10-11 settembre 2014. Vedila su www.Novecento.org.

  • I bambini di Moshe. Un libro e un EAS (Episodio di Apprendimento Situato)*

     

    di Enrica Bricchetto

    I bambini di Moshe è un libro che serve a chi insegna per dare vita al discorso storico quotidiano. Raccontando storie, collocate in uno spazio–tempo ben preciso, con uomini e donne che hanno nomi e cognomi, compiono azioni, reagiscono o subiscono i colpi dell’ambiente in cui sono immersi, il docente riesce a dare più forza alla sua lezione. Compie meglio il processo di trasposizione didattica di quei nuclei fondanti, di quei concetti “base” della disciplina storica, senza i quali gli studenti non acquisiscono quadri interpretativi e non si orientano in quello che succede oggi tra le due sponde del Mediterraneo.

  • Il Sessantotto. Un laboratorio su un anno spartiacque (parte seconda)

    di Antonio Brusa

    Nove laboratori sulla contestualizzazione storica*

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    A. IL LABORATORIO DELLA CONTESTUALIZZAZIONE

    In questo gruppo di laboratori inserisco quelle attività che mirano ad analizzare il fatto storico “Sessantotto”. Sono laboratori che vorrei definire “top-down”. Vanno dall’insegnante all’allievo in un percorso abbastanza tradizionale. L’insegnante prepara i materiali (lezioni, schemi) e pone agli allievi delle questioni da risolvere.

    Il campo di indagine è quello della contestualizzazione storica. Lo organizzo in due parti. La prima si occupa della complessità. Comprende cinque attività che, a partire da un modello storiografico, cercheranno di collegare l’“evento Sessantotto” a un contesto più ampio. La seconda si occupa del tempo, con quattro proposte, attraverso le quali questo evento verrà inserito in contesti temporali diversi. Questo articolo, quindi, andrebbe inteso come una sorta di antologia dalla quale un insegnante può prelevare l’attività che pensa più utile alla sua classe. A questa antologia ne seguirà una seconda, in un prossimo intervento su HL, dedicata a un tipo di laboratorio diverso (e forse più consueto fra gli insegnanti esperti), cioè il laboratorio con i documenti. Si tratta di progetti che riguardano la secondaria superiore. Per quella inferiore andranno adattati. In ogni caso, questi progetti vanno considerati dei “semilavorati”, che il docente dovrà completare, con consegne o scalette di conversazione più dettagliate, con riferimenti al manuale, eventuali altri materiali.

    Ma torniamo ai laboratori sulla contestualizzazione dell’“evento Sessantotto”. Braudel scriveva che un evento assomiglia a un vulcano dal quale si sprigionano tutti i tempi della storia. Ciò vale, in particolare, quando l’evento è talmente pesante da “dividere i tempi”. “Un evento spartiacque”, si è detto del Sessantotto. Difatti, è esattamente a metà strada fra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine della Guerra fredda. Questa espressione, usata da James Chapman, è stata ripresa da Marcello Flores e Giovanni Gozzini nel loro 1968. Un anno spartiacque (Il Mulino 2018, d’ora in poi FG: qui è possibile leggerlo), uno studio dal quale ricavo i materiali per questi laboratori.

    Da questo punto di vista, questo lavoro vorrebbe (anche) suggerire agli insegnanti un metodo di lettura dei testi storici forse diverso dal solito. Un insegnante legge un libro di storia con la segreta speranza di poterlo raccontare in classe, magari trovare qualche spunto oppure, nell’insegnamento superiore, per inserirlo in un contesto critico. Si potrebbe, secondo me, aggiungere a queste modalità di lettura senz’altro meritorie, quelle del “libro-palestra-per-pensare”. Un buon libro di storia, per me, è esattamente come una palestra, all’interno della quale si trovano macchine per fare esercizi di tipo diverso. Quindi lo leggo non solo per trovare fatti o problemi da poter raccontare; ma anche per trovare meccanismi da smontare e rimontare, con i quali giocare e inventare esercizi: cose che, fuori di metafora, non sono altro che idee, ragionamenti e storie.

    B. IL LABORATORIO DELLA COMPLESSITÀ

    b1.Un modello complesso

    Chapman utilizzava il termine watershed/spartiacque discutendo il “libro più innovativo sul Sessantotto”: 1968. The World Transformed (a cura di Carole Fink, Philipp Gassert e Detlef Junker, N.Y., Cambridge University Press, 1998). Lo utilizzo per costruire una parte del modello per lo studio di quel periodo.

    Nella loro Introduzione (pp. 1-30), Fink, Gassert e Junker espongono gli elementi fondamentali di un modello basato sul fatto che le rivolte del Sessantotto furono mondiali. Quindi inseriscono i movimenti giovanili in un quadro contrassegnato da una doppia crisi planetaria, politica ed economica.

    Modello per lo studio del Sessantotto

    La prima – la crisi politica - si era manifestata in due eventi: l’offensiva del Tet (gennaio-marzo 1968), scatenata dalle truppe nord vietnamite e dai viet-cong contro gli Usa, nella quale questi ultimi, pur vincendo militarmente, avevano capito che avrebbero perso una guerra, per la prima volta nel corso del XX secolo. A questo smacco occidentale faceva da contraltare, nel mondo comunista, la Primavera di Praga (gennaio-agosto 1968) che, in modo analogo, opponeva alla vittoria militare dell’Urss la sua evidente sconfitta sul piano del consenso fra i cittadini del Patto di Varsavia. La seconda - la crisi economica - era iniziata dopo la Guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967), che aveva messo in dubbio la facilità con la quale, fino ad allora, l’Occidente si era approvvigionato di petrolio, e si era ingigantita a causa della crisi economica americana, che allora fu giudicata “la peggiore dalla Grande Depressione”.

    Queste due crisi indebolirono strutturalmente il blocco Est/Ovest, in particolare – per ciò che riguarda questo lavoro - dal punto di vista della capacità degli Usa e dell’Urss di esercitare il controllo sulle popolazioni, e dunque sui manifestanti. Questa debolezza si manifestò su due livelli. Quello ideologico, dell’attrattività dei sistemi capitalisti e comunisti quali modelli di vita; e quello del controllo sociale, che, di fatto, consentì una relativa tolleranza nei confronti di manifestazioni, che in tempi precedenti si sarebbero ostacolate con più efficacia. Mettendo insieme a questi elementi le questioni relative ai giovani (viste nella prima parte di questo lavoro, già pubblicata su HL), otteniamo questo modello per lo studio del Sessantotto. Si compone di due parti. Quella “soggettiva”, riguardante gli studenti (con i caratteri in blu), e quella “oggettiva”, riguardante la situazione mondiale (caratteri in nero).

    b2. Come si lavora con un modello

    a. Chiamerei la prima attività “Mettere le parole”. Uno schema (o come ormai è d’uso nelle scuole, una “mappa concettuale”) viene solitamente impiegato alla fine di un percorso di studi, come sintesi. Resta lì, quasi la foto degli apprendimenti realizzati. In realtà, se noi chiediamo agli allievi di verbalizzare lo schema, ne troveremo non pochi in difficoltà. Per prevenirla, suggerirei di far leggere loro questi brevi brani, tratti dal libro di Flores e Gozzini, per cercare in quali caselle dello schema andrebbero inseriti, e per spiegare come un certo elemento dello schema influisce sugli altri (quindi, riempiendo gli spazi con i punti interrogativi).

    I mass media sono il primo fattore del modello, il secondo è la fase nuova che gli eventi del 1968 aprono nella guerra fredda, il terzo è la “rete informale di comunicazione e collaborazione” che lega fra loro gli attivisti di ogni parte del mondo e infine la quarta è il collante ideologico che tiene insieme questi ultimi. Perché i protagonisti credevano in una causa comune. Lottarono in opposizione allo status quo interno e internazionale a Est e Ovest, a Nord e a Sud, in appoggio alla libertà, alla giustizia e alla autoderminazione (FG, p. 33).

    Il tempo della guerra fredda è un tempo “artificialmente” globalizzato dalle necessità di controllo delle due superpotenze. Questa storicamente inedita forma della politica internazionale stabilisce il quadro di riferimento unitario entro cui gli studenti si muovono. E li predispone di fatto al contagio, all’imitazione, alla risonanza, in qualsiasi continente si trovino (Ibidem).

    La simultaneità globale del Sessantotto si spiega con fattori soggettivi (accesso di massa alle università) ma anche con fattori oggettivi (il prepotente potere di Usa e Urss insieme ai segni della loro crisi in Vietnam e Cecoslovacchia) (Ibidem).

    I media rappresentano una condizione indispensabile per la trasformazione delle agitazioni locali. Senza di loro, queste non avrebbero risonanza e il loro esempio non potrebbe diffondersi. Di più: i media, trasmettendo motivi e forme delle agitazioni, contribuiscono a dare nuovi significati ai contesti e a trasformare le identità personali e collettive (FG, p. 17).

    b. Chiamerei una seconda attività “Arricchire il modello”. Questo modello non spiega tutto, come – del resto - qualsiasi modello scientifico. Il suo scopo è quello di mettere a fuoco un elemento fondamentale del Sessantotto: il fatto che fu una rivolta globale e simultanea. Bene: all’inizio della prima parte di questo articolo (qui su HL), si riportano i temi della rivolta, quali furono propagandati nei manifesti dei giovani parigini:

    • La lotta contro l’autorità
    • Per una informazione alternativa e contro la censura
    • A sostegno della classe operaia
    • Contro il conformismo

    Possiamo integrarli nel modello? Quali caselle, quali connessioni nuove dobbiamo immaginare? Il modello mette in relazione gli aspetti soggettivi della rivolta (in blu) con quelli oggettivi (in nero). Possiamo fare in modo che questo modello rappresenti e spieghi meglio gli aspetti soggettivi? Oppure il modello deve essere radicalmente cambiato, e ne dobbiamo immaginare uno nuovo?

    Per quanto riguarda gli aspetti soggettivi, non si può non ricordare che tra i portati fondamentali del Sessantotto vi sono la rivoluzione sessuale e la nascita del femminismo attuale (se ne parlerà in seguito). Flores e Gozzini ne danno ampie notizie (pp. 36-40). Quali modifiche ci suggerisce, quindi, la storia di genere?

    c. Una terza attività potrebbe essere “Mettere le date”. Un modello astrae dai fatti tendenze e problemi. Per questo, normalmente, non ha delle date. Ma possiamo introdurle. La crisi politica, per esempio, si riferisce alla guerra del Vietnam e alla Primavera di Praga (e a tanti altri eventi). Chiediamo agli allievi di cercarli sul manuale e di inserirli nello schema usando gli opportuni grafismi.

    Questa ricerca porta a interrogarci sull’insieme dei fatti che sono collegabili al nostro modello (quando scoppia la Guerra del Vietnam e per quali motivi? quando i media diventano globali? Quando e perché si forma una Boom Generation? Per quali motivi scoppia la crisi economica del 1968? C’entra in questa Bretton Wood? E così via). Alla fine, avrete bisogno di un poster abbastanza grande e complicato, nel quale potrete sintetizzare buona parte della storia dopo il ’45.

    d. Regionalizzare il modello. Il Sessantotto, per quanto globale e simultaneo, fu diverso nei singoli paesi. Questo suggerisce altre modifiche al modello, in modo da rappresentare:

    • La situazione italiana e francese nella quale avvenne una saldatura fra movimento studentesco e movimento operaio. Per quali motivi questa si verificò? E in che modo la possiamo integrare nel modello? (per questo punto e il successivo possono bastare le notizie riportate in un buon manuale).
    • La situazione dell’Europa Orientale. Qui, l’obiettivo principale dei giovani è quello della critica al modello comunista e la liberazione dal dominio dell’Urss.
    • La situazione Medio-orientale. La medesima rivolta prende quattro direzioni diverse. In Egitto è, da una parte, al Nakba (la Catastrofe): il desiderio di rivincita dopo la sconfitta nella Guerra dei Sei giorni, un movimento laico, socialisteggiante e modernizzante; dall’altra è la diffusione dei Fratelli Musulmani, uno dei primi movimenti fondamentalisti musulmani. In Palestina è Karameh (Dignità), dal nome di un paesino i cui abitanti risposero con le armi all’invasione israeliana. Da questo movimento nasce Al Fatah, il gruppo del quale Yasser Arafat divenne leader. In Israele fu un movimento di sostegno alla guerra dei Sei giorni, da parte di tanti giovani che si riconoscevano in Moshe Dayan, ministro della difesa (per informazioni più particolareggiate su questo punto: FG, pp. 91-98).

    e. Valutare l’evento. “Spartiacque” è un termine metaforico. Indica che quell’evento fa in modo che il tempo successivo sia diverso da quello precedente. Ma quanto sono profondi questi cambiamenti? Autorizzano, per esempio, a pensare che ci fu una rivoluzione? Occorre fare attenzione quando usiamo questo concetto, dal momento che è cambiato parecchio dai tempi di Robespierre e di Marx. Secondo Jack Goldstone, ci stiamo avviando verso una “quarta generazione di teorie rivoluzionarie”, nella quale gli studiosi preferiscono una definizione molto più estesa di quella ottocentesca. Possiamo discutere in classe, perciò, se il “Sessantotto” (i cui protagonisti agli occhi dei classici probabilmente non avrebbero passato l’esame del buon rivoluzionario) vi sia compreso, e cioè se sia un complesso di movimenti nel quale troviamo:

    • Delle spinte a cambiare il regime politico, basate su visioni antagonistiche di un ordine giusto.
    • Un notevole livello di mobilitazione di massa, formale o informale.
    • Delle spinte a forzare il cambiamento attraverso azioni non istituzionalizzate, come dimostrazioni di massa, proteste, scioperi o violenze.

    (FG, p. 35. Dall’originale J.A. Goldstone, Toward a Fourth Generation of Revolutionary theory, in «Annual Review of Political Science», 2001, p. 141 ss. si ricaveranno altri argomenti per una discussione epistemologico-storiografica).

    f. Raccontare l’evento. Questa non è un’attività separata, ma va considerata una conclusione, direi obbligata, di ciascuna delle attività descritte sopra (le quali, lo ricordo ancora, sono a scelta del docente). Il racconto, infatti, è lo strumento principale della memorizzazione. Serve per “racchiudere” il percorso svolto in un testo che abbia un senso e che, in un certo modo, ti puoi portare via. Occorre, quindi, trasformare la mappa dei concetti, che rappresenta in sincrono la complessità di un evento, in una sequenza nella quale i vari elementi dello schema siano disposti uno dopo l’altro. Possiamo seguire una strategia cronologica o una logica. Nel primo caso, estraiamo dallo schema i fatti, li datiamo (se il caso, approssimativamente) e poi li disponiamo su un cronogramma, che funzionerà da scaletta per il testo. Nel secondo, assegniamo un numero ad ogni elemento dello schema, partendo dal punto che giudichiamo più adatto, e costruiamo il racconto basandoci sulla sequenza numerica.

    C. IL LABORATORIO DEL TEMPO

    c1. Anche il tempo storico è complesso

    La critica che si oppone a questo genere di modelli è che non curano un aspetto particolarmente caro agli storici: il tempo. In effetti, occorrerebbe mettere in moto la complessità rappresentata, osservare come si è formata, quali erano gli antecedenti e quali gli sviluppi successivi. Anche in questo caso, Braudel aveva ragione, quando ci ha spiegato che una “società nel tempo” è, in realtà, un insieme di parti che mutano e, man mano, interagiscono fra di loro. Un intrico mobile che mette in seria difficoltà le nostre capacità di comprensione. Come sempre in didattica (ma non solo), dobbiamo semplificare. Prendiamo il modello base di analisi di un evento e applichiamolo al Sessantotto.

    Modello generale di un evento

    Ogni evento è frutto di un complesso di antecedenti che assumono una certa configurazione nel tempo x nel quale si verifica. Per rappresentare questo processo, collochiamo lungo l’asse temporale alcuni aspetti sui quali il Sessantotto incide in maniera molto evidente. Scelgo, sempre dal lavoro di Flores e Gozzini, tre aspetti:

    • la questione del terrorismo
    • la questione femminile
    • il problema dei diritti umani

    Sull’asse verticale, invece, segniamo quegli aspetti “spaziali” che riguardano lo scenario mondiale alla fine degli anni ’60: la globalizzazione, i mass media, la decolonizzazione e l’indebolimento dei blocchi, perché caratterizzano il Sessantotto come momento globale e simultaneo di rivolte giovanili. L’ideale sarebbe studiare come i fattori temporali coevolvono e, a un certo momento, reagiscono con quelli spaziali. La semplificazione didattica ci consiglia di prendere un fattore per volta, e vedere che rapporto ha con il Sessantotto. La scoperta finale sarà che, ogni volta che cambiamo i fattori, cambieranno anche tempi e periodizzazione.

    c2. Il tempo del terrorismo

    Siamo abituati ad una periodizzazione del terrorismo riferita allo spazio nazionale, accostato semmai a quello tedesco. In questo spazio ristretto, il Sessantotto diventa il punto di origine di una sequenza mortifera che ha insanguinato la nazione e che aveva come un unico precedente, non sempre ricordato, gli attentati separatisti dell’Alto Adige. Se allarghiamo lo sguardo, invece, vediamo che il terrorismo non è affatto una realtà originale italiana, ma ha una lunga storia internazionale alla quale il fenomeno italiano si collega. Ecco il cronogramma.

    Cronogramma del terrorismo

    Questa cronologia allontana il rischio di far coincidere l’immagine del Sessantotto italiano con quella del terrorismo e, per estensione, ci salvaguarda dallo stereotipo di un’altra “specificità italiana”, quegli “anni di piombo” che oscurano la più profonda stagione di riforme che la Repubblica abbia conosciuto. Ecco, dunque, i quattro cicli di terrorismo, quali li riconosciamo nell’età contemporanea, con le parole di Flores e Gozzini.

    Il primo ciclo è quello “anarchico” che, soprattutto nell’Europa dell’Ottocento e del primo Novecento prende a bersaglio uomini rappresentanti delle istituzioni e raggiunge il proprio acme nel 1914 a Sarajevo.

    Il secondo è quello “anticoloniale” che va dall’insurrezione irlandese del 1916 fino alla “battaglia di Algeri” del 1962.

    Il terzo è quello “della nuova sinistra” che negli anni Sessanta si collega alla guerriglia in Vietnam e in America Latina per diffondersi in Europa occidentale, America, Medio Oriente e Giappone.

    Il quarto è quello “religioso” che si apre con la rivoluzione iraniana del 1979, colpisce in Afghanistan, Medio Oriente, India, Algeria, Stati Uniti e Giappone negli anni Novanta per poi estendersi su scala globale negli anni Duemila (FG, p. 231)

    c3. Come si lavora con un cronogramma

    Succede che i cronogrammi patiscano la stessa sventura didattica delle mappe concettuali. Si fanno alla fine, come sintesi di ciò che si è studiato. Invece andrebbero considerati strutture mobili, che crescono e si modificano man mano che si studia. Nei cronogrammi che qui presento ci sono alcuni eventi. Nel manuale, come in altri testi, ce ne saranno altri che vi possono trovare posto. Nei rettangoli sotto la cronologia ho posto i “nomi” delle periodizzazioni. Non li farei vedere agli allievi, ma porrei il problema. Posto che il Sessantotto è un evento spartiacque, come chiamare il periodo precedente e come quello successivo? “Dare nome al tempo”, cioè “periodizzare”, è una delle operazioni più interessanti che la storia ci permette. Lanciamo la sfida. Chi trova il nome più adatto. Poi, discutiamo i nomi proposti: si vedrà che ognuno di questi implica una certa lettura del periodo.

    Confrontiamo i cronogrammi. Quello che abbiamo prodotto nel laboratorio con gli altri riportati sotto, anche se non sono stati studiati. Mettiamolo a confronto, anche, con la timeline di storia generale, eventualmente presentata dal manuale. Quali relazioni intravvediamo? Riusciamo a spiegarle?

    Infine, utilizziamo il cronogramma come base per un racconto. Mettiamo in evidenza gli eventi più importanti, quelli che andranno sottolineati. Teniamo presente che il testo deve anche far risaltare il ruolo del Sessantotto. Poi raccontiamo. Basta un testo breve, purché contenga i riferimenti precisi al cronogramma. La sintassi ci rivelerà il grado di maturazione degli allievi: chi troverà connessioni complesse e cercherà di spiegarle; chi, invece, non saprà andare oltre il “e poi”.

    c4. Il tempo delle donne

    Anche la storia contemporanea delle donne è divisa in quattro periodi. Ma qui il Sessantotto gioca un ruolo chiaramente fondamentale. Costituisce, infatti, il momento di passaggio fra la fase “evolutiva” e quella “rivoluzionaria” di questa storia. È Claudia Goldin che ha elaborato questa cronologia, nella quale la prima fase, che inizia alla fine del XIX secolo, vede giovani donne impegnate in lavori generalmente di bassa qualità, che devono però abbandonare una volta sposate. La Prima guerra mondiale genera la spinta verso la seconda fase, che inizia intorno agli anni venti, nella quale il lavoro diventa più facile per le donne. Quelle che hanno studiato possono accedere anche a posti di lavoro intellettuale, ma per tutte il momento del matrimonio coincide con il ritiro dalla vita produttiva. La Seconda guerra mondiale favorisce l’avvento di una terza fase, “di transizione”, con le donne che possono studiare, ritardare l’età del matrimonio, accedere a lavori più interessanti mentre comincia a perdere di forza il vincolo della gravidanza: molte, infatti, possono continuare a lavorare anche dopo il matrimonio.

    Cronogramma della storia delle donne

    Claudia Goldin definisce “evolutive” queste tre fasi perché – per quanto si noti un lento e continuo miglioramento - non comportano cambiamenti fondamentali nell’orizzonte di vita delle donne, nel loro senso di identità e nella capacità di controllare il proprio destino. Ma, giusto alla fine di questa terza fase, troviamo un momento che Goldin definisce di “rivoluzione rumorosa”. Esso è legato alle battaglie per i diritti civili, all’uso della pillola, alla rivoluzione sessuale. È, finalmente, il Sessantotto. Questo, in modo analogo alle guerre mondiali, introduce la fase attuale della storia delle donne, quella della “rivoluzione silenziosa”, nella quale masse di donne, pacificamente, si diffondono nella società, occupandone posti che, nei tempi precedenti, erano stati loro interdetti (FG, pp. 40-41; Claudia Goldin, The Quiet Revolution that transformed Women’s employment, Education and Family, 2006).

    c5. Il tempo dei diritti

    Quando il 10 dicembre del 1948 fu proclamata la Dichiarazione Universale dei Diritti umani, questa, “più che l’annuncio della nuova era, fu una corona funebre posta sulla tomba della guerra”. Con questa battuta pessimistica inizia L’ultima utopia, il libro che Samuel Moyn ha dedicato alla storia dei diritti umani (The Last Utopia, The Belknap Press of Harvard University Press Cambridge, Massachusetts and London, England 2010). Tuttavia, a quasi settant’anni di distanza, non possiamo negare che nel mondo è diffusa la convinzione che “agli esseri umani spetti di godere dei diritti umani” (FG 142). A dispetto dello scetticismo di Moyn, dunque, questa “utopia” ha avuto successo: in particolare dopo il 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, che inaugurò una stagione nella quale molti sperarono che, finalmente, non ci sarebbero stati più ostacoli nell’applicazione di quella Dichiarazione. Oggi i diritti umani si sono imposti come cultura universale, soprattutto nel confronto con le nuove guerre e i genocidi (FG, p. 120 s).

    Qui ci chiediamo se il Sessantotto abbia giocato un ruolo in questa vicenda e se sia stato un ruolo di “spartiacque”. E’ una questione controversa. Ma proprio questa difficoltà può dar luogo a un interessante laboratorio di discussione (l’argomento è spiegato dettagliatamente in un lungo capitolo di FG, pp. 127-145).

    Alcuni studiosi, come Moyn, sostengono che il Sessantotto non ha inciso nella storia dei diritti umani. Di parere diverso altri, come Flores e Gozzini. Al centro della contesa c’è la questione della decolonizzazione. Infatti, i nuovi stati indipendenti si erano distinti – in particolare negli anni ’60 – nella battaglia per il riconoscimento dei diritti umani. Secondo Moyn, però, fu una battaglia viziata dall’antioccidentalismo. Per quegli stati i diritti umani non erano altro che il proprio diritto di combattere contro il colonialismo.

    L’editto di Ciro il Grande, conservato al British Museum

    La Conferenza di Teheran, tenutasi nell’aprile-maggio del 1968, è significativa. Fu inaugurata dallo Shah Reza Pahlevi (non certo un campione dell’umanità) il quale iniziò il suo discorso ricordando l’editto di Ciro il Grande del 539 a.C, suo supposto antenato, considerato spesso il primo editto di tolleranza; ma poi mise ben in chiaro che lo scopo di quella riunione era di rinsaldare i legami e le attività anti-occidentali fra i paesi del Terzo mondo (con l’Urss spettatrice interessata). Quindi, conclude Moyn, il vero decennio dei diritti umani fu quello successivo, con la Conferenza di Helsinki del 1975. E, in ogni caso, fu a Vienna, nel 1993, a venticinque anni di distanza dalla convention di Teheran, che si svolse la prima conferenza delle Nazioni Unite sui Diritti umani.

    Flores e Gozzini non sono d’accordo sul giudizio di “insincerità” espresso nei confronti dell’azione dei paesi del Terzo mondo. Si basano sul lavoro di Steven Jensen, The Making of International Human Rights: The 1960s. Decolonization, and the Reconstruction of Global Values (Cambridge, Cambridge University Press, 2016. Qui Phillipp Kandler ce ne propone una recensione critica esauriente). Secondo Jensen, sono proprio i paesi decolonizzati che spingono per l’accettazione dei Diritti umani. Questi, infatti, sono figli di culture extra-europee (orientali o africane) che preferiscono al guadagno e alla sopraffazione i valori della vita comunitaria, dell’equilibrio e della pace. Ne consegue, prosegue Jensen, che il Sessantotto – nato in un ambiente universitario occidentale - non ebbe nulla a che vedere con i Diritti umani, argomento che non era nella cima dei pensieri dei giovani in rivolta.

    Ma su questo punto il disaccordo con Flores e Gozzini è totale. Ricordano che gli anni ’60 hanno visto il fiorire di manifestazioni contro il razzismo, il machismo, a favore dell’ambiente e per i diritti umani economici. Lo stesso antiautoritarismo, una delle costanti del movimento studentesco, fu un motore nella lotta a favore dei diritti umani, dal momento che i principali conculcatori di questi diritti erano proprio gli stati. E proprio il 1968 fu proclamato dalle Nazioni Unite il primo “Anno internazionale dei diritti umani” (Marcello Flores è autore di opere fondamentali su questo argomento. Qui ne possiamo ascoltare una sintesi.

    Cronogramma dei diritti umani

    c6. Costruire timeline

    Ci sono ancora cinque argomenti, nel nostro libro-palestra: l’Islam, la finanza, il lavoro, il digitale, la cultura. Di ciascuno di questi si può tracciare un cronogramma e interrogarsi sul ruolo del Sessantotto: se fu marginale o “spartiacque”. Si tratta di leggere selettivamente il testo. Sottolineare le date. Cercare quelle parti dove si parla di periodizzazione e, infine, elaborare una timeline. Qui ho usato un programma elementare (Frisechrono). Ma ce ne sono molti che permettono soluzioni più ricche e spettacolari. In ogni caso, sarebbe un buon esercizio di lettura/palestra per gli insegnanti. Se, poi, si riesce a elaborare una timeline che, in linea di principio, sia facilmente riproducibile da un allievo, allora la si proponga loro come esercitazione. Nel caso di una classe estremamente competente, poi, si assegneranno i capitoli a gruppi diversi con il compito di costruire una timeline e spiegarla ai colleghi.

    D. SUGGERIMENTI PER IL LAVORO

    d1. Il ruolo della lezione

    Nel loro insieme queste proposte disegnano un quadro abbastanza completo della vicenda storica. Prese singolarmente ne forniranno solo un pezzettino: ma questo è il destino obbligato per qualsiasi laboratorio che contempli un minimo di attività autonoma da parte degli allievi. Tutto ciò vuol dire che il compito di fornire un quadro generale e complessivo spetta al docente, attraverso la sua lezione. Questo fino a che i discenti non saranno in grado di costruire con una certa autonomia una visione generale di un determinato problema. Giunti a questo livello potrebbero intavolare con i loro professori un dialogo formativo: ma si tratterà di un momento di lavoro scolastico sofisticato, da escludere, a mio modo di vedere, nel segmento di scolarità al quale è diretto questo insieme di laboratori.

    In questo lavoro prevedo due tipi di lezione. La lezione introduttiva, molto breve (non si dovrebbe andare oltre i 15 minuti). Questa dà agli allievi qualche notizia del campo nel quale si lavorerà e cerca di motivarli. Per prepararla, il docente potrà usare come scaletta il modello di Sessantotto che qui ho presentato, mentre dalla prima parte dell’articolo ricaverà spunti narrativi e immagini.

    Il secondo tipo di lezione è quella conclusiva, al termine dell’attività laboratoriale. Più lunga, intorno ai trenta minuti, darà al docente la possibilità di fornire un quadro completo della vicenda, mostrando come i diversi elementi studiati si interrelano fra di loro, tenendo conto, al tempo stesso, dei problemi e degli interessi e delle difficoltà emerse nel corso del lavoro.

    d2. Un modello di unità di lavoro

    L’unità di lavoro, quindi, inizia con la messa a punto del quadro generale, fatta nella lezione introduttiva. A questo punto, il docente prende la prima decisione: lavorare sulla complessità o sul tempo? Sceglie il laboratorio che gli sembra più adatto. Per questo motivo ho disposto i laboratori in una scala latamente progressiva. Per esempio, l’attività sul terrorismo è più agevole di quella sui diritti umani, che richiede letture, comprensione di testi e capacità di discutere, mentre l’ultima attività libera è decisamente riservata a classi competenti.

    I lavori, tutti, prevedono sempre un ricorso ai testi. Infatti, i modelli e le cronologie sono degli strumenti per interrogare i testi, per leggerli selettivamente e cercare le notizie che di volta in volta sono necessarie. Qui ho riportato dei brani molto brevi: saranno sufficienti per un lavoro rapido. Per un lavoro più lungo e intenso, si daranno agli allievi le parti indicate del libro. Laddove possibile (come a volte ho indicato) si faccia ricorso al manuale.

    Terminata la fase della ricerca e del completamento del modello o del cronogramma, si passa alla fase della narrazione. Qui ho descritto brevemente come ricavare un racconto da uno schema (sopra, il punto f). Per il cronogramma è più facile. Basta seguire la linea del tempo, come abbiamo già visto. Per renderla più complicata (e in connessione con l’insegnamento della lingua), si proporranno delle varianti: fai una narrazione a ritroso, partendo dall’oggi; fai una narrazione ad anello, centrata sul Sessantotto. Questa parte del modulo potrà essere svolta a casa, individualmente (anche nel caso del lavoro di gruppo).

    Infatti, posto che questo lavoro si svolge in classe con le modalità di una lezione partecipata, si suggerisce anche la formula del lavoro a gruppi, soprattutto se si dispone di una classe competente. Per quanto riguarda il lavoro sulla complessità, l’insegnante mostra come si lavora su uno schema. Sviluppa questo esempio sul caso più difficile, lasciando agli allievi i casi più facili. Di seguito, assegna ad ogni gruppo uno schema. Per quanto riguarda il lavoro sul tempo, invece, dal momento che gli esempi che ho presentato sono tre, ne adopera uno per mostrare agli allievi “come si fa”, poi divide la classe in due (o quattro) gruppi, assegnando a questi i due cronogrammi rimanenti. Si è già detto che, nel caso di una classe molto competente, si assegnerà il lavoro “libero” sui capitoli del testo che qui non sono stati trattati.

    Il modulo di lavoro termina con la lezione frontale del docente, nel quale questi, tenendo conto dei lavori dei ragazzi, del livello di comprensione che questi hanno rivelato e dei problemi emersi, espone agli allievi la sua ricostruzione del periodo.

    Qui sopra il diagramma operativo. Suggerisco di progettare un modulo di due ore. Nella prima si apre con la lezione introduttiva e si lavora con lo schema (o con la cronologia). Si assegna il compito da svolgere a casa. Nella seconda, si continua a lavorare o si discute e, nell’ultima mezz’ora, si eroga la lezione conclusiva.

     


     

    * La prima parte “L’evento e la memoria” è stata già pubblicata su HL. La terza parte e la postilla conclusiva verranno pubblicate a breve.

  • Il valore del cibo nel Medioevo

    Autori: Marina Rosset e Alessandro Contino

    SOMMARIO

    UdL “Il valore del cibo nel Medioevo”

    Inquadramento del tema

    Metodologia didattica

    Declinazione dei contenuti, sviluppo e valutazione

    VERIFICA PER COMPETENZE

    RI-CONTESTUALIZZAZIONE

    DIAGRAMMA DELLE LEZIONI

    ALLEGATI

    BIBLIOGRAFIA

    APPENDICE INTERDISCIPLINARE

    Inquadramento del tema
    Alla base di questo progetto sta la volontà di allargare il percorso disciplinare di Storia di una classe prima di una SSPG a una storia sociale aperta e interdisciplinare, come prescritto dalle Indicazioni Nazionali. Si trattano perciò elementi di Storia dell’alimentazione in chiave culturale. Per cultura alimentare si intende un insieme di aspetti che fanno del cibo un elemento che caratterizza “la vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un gruppo etnico”1 .

    Lo spazio di riferimento è l’Europa, anche se in alcuni momenti le coordinate saranno allargate ad altre zone del bacino del Mediterraneo e al mondo arabo. I passaggi che verranno riletti sono: la nascita dei regni romano barbarici, la diffusione del monachesimo in Europa e la nascita dell’Islam, lo sviluppo comunale e il radicarsi della signoria territoriale. Questi temi sono riletti metaforicamente come: il cibo è incontro tra culture, il cibo è un precetto della religione, il cibo come ricchezza e povertà e il cibo come sogno.

    La prima fase rilegge l’incontro tra romani e barbari e sviluppa la caratteristica conviviale ed etnica della cucina che mette a contatto e amalgama popoli che vivono lo stesso territorio. Questo tipo di argomentazione porta a una riflessione sull’attualità e l’intercultura. Con i focus di Italiano, Geografia e Scienze si passa poi a una riflessione sui semi come metafora del rispetto della diversità e di tolleranza. Nella seconda fase, si trattano aspetti alimentari legati alle tre religioni monoteiste, partendo dalla diffusione del monachesimo e dalla nascita dell’Islam. In questa fase gli studenti di religione musulmana sono chiamati a un ruolo da protagonisti, diventando mediatori culturali. La terza fase si occupa di alcuni stereotipi: il contadino, il signore, il cittadino. Legata alla trattazione della società medievale, essa intende, attraverso l’analisi di testi storiografici e fonti, portare gli studenti a identificare le abitudini alimentari e quindi a fare inferenze sulle caratteristiche vere o presunte dei personaggi che abitano il basso Medioevo. Si riflette poi nella quarta fase sui giudizi che le fonti mediano, aprendo la discussione su stereotipi e pregiudizi sia nella storia che nella quotidianità, tema del focus di educazione alla cittadinanza. Nella quinta fase l’epoca del radicamento della signoria territoriale, con il rafforzamento del potere personale dei signori a scapito del contado spesso privato dei terreni comuni, viene riletta nella chiave dell’immaginario collettivo che porta al paese di Cuccagna. Si apre qui la discussione sulla fame, come argomento interdisciplinare.

    Metodologia didattica
    L’UdL punta soprattutto sulla didattica del fare, culminante col laboratorio storico sul modello proposto da Antonio Brusa. L’avvio è affidato a un lavoro in apprendimento di gruppi cooperativi  secondo l’approccio del group investigation2, che parte dalla domanda a cui le successive fasi dell’Unità daranno una risposta dal punto di vista storico-culturale. Ci sono anche altri lavori in gruppo, cooperativi e non, lezioni dialogate, dibattiti. Si punta inoltre sull’uso delle tecnologie per coinvolgere gli alunni che manifestano difficoltà di attenzione e/o di apprendimento e per stimolare un lavoro casalingo e un dialogo a distanza tra compagni e con l’insegnante. In particolare si fa uso della piattaforma virtuale dove sono anche somministrati i questionari di autovalutazione e viene gestita parte della metacognizione.

    Declinazione dei contenuti, sviluppo e valutazione
    Fase  1 (2 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Cos’è il cibo per l’uomo?

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTI:
    La domanda principale, gli ambiti per i gruppi (cibo come amicizia, cibo come religione, cibo come ricchezza e povertà, cibo come sogno), le linee guida con cui poter spiegare l’immagine, il supporto informatico (tablet o pc).

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI:
    Trovare un’immagine, darne la spiegazione scritta in base all’ambito assegnato, esporre alla classe, auto-valutare il proprio contributo.

    DESCRIZIONE DELL’ATTIVITA’:
    Gli alunni sono divisi in quattro gruppi da cinque alunni con ruoli diversi, hanno a disposizione due tablet (o pc) con i quali navigare in rete e trovare delle immagini relative agli ambiti. Scelgono un’immagine e costruiscono una spiegazione dell’immagine relativa che esporranno alla classe nella lezione successiva.

    SETTING DELL’AULA: isole di banchi

    VALUTAZIONE: l’insegnante valuta i gruppi e il prodotto dell’esposizione. Gli alunni si auto-valutano sulla piattaforma (vedi allegati).


    ALLEGATI: vedi allegati fase 1.


    Fase 2  (2 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Il cibo è occasione di incontro tra culture.

    PRECONOSCENZE: Migrazioni barbariche e caduta dell’Impero romano.

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTI:
    Testi storiografici dal testo “La fame e l’abbondanza” sull’alimentazione romana e sulla alimentazione delle popolazioni germaniche. Tabella con spazi vuoti per gli alunni BES.

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI:
    Produrre una mappa concettuale a partire dalle fonti, cercare e trascrivere la ricetta di famiglia, esporre la ricetta ad un compagno e riportare quella del compagno ad un’altra coppia.

    DESCRIZIONE DELL’ATTIVITA’:
    Prima lezione: gli alunni sono divisi in coppie e realizzano due mappe concettuali che riassumono i contenuti dei testi (l’alimentazione dei romani, l’alimentazione dei germani). Gli alunni con BES ricostruiscono i contenuti e completano una tabella. Successivamente per dare una cornice di senso più vicina agli studenti, viene assegnato come compito a casa la ricerca della ricetta di famiglia che viene impiegata nella lezione successiva per aprire un confronto culturale all’interno della classe. Seconda lezione: Una volta tornati in classe gli alunni vengono divisi in coppie, uno studente intervista il compagno sulla “ricetta di famiglia” e poi i ruoli si invertono; si uniscono due coppie (vengono quindi formati gruppi di quattro alunni) e i contenuti delle interviste vengono riportati oralmente dallo studente che ha fatto l’intervistatore (intervista a tre passi).

    SETTING DELL’AULA: standard.

    VALUTAZIONE: l’insegnante valuta gli elaborati (mappe concettuali, ricette). Gli studenti valutano le esposizioni delle ricette dei compagni.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 2 

    Fase 3: (4 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Il cibo come precetto religioso

    PRECONOSCENZE: La diffusione del monachesimo in Europa e la nascita dell’Islam.  

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTE: lettura di brani tratti dall’Antico Testamento, da regole monastiche, da “I gusti del Medioevo” di Massimo Montanari, una tabella per il confronto delle tipologie di fonti storiche.

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI: leggere e comprendere dei testi, completare delle tabelle riassuntive.

    DESCRIZIONE DELL’ATTIVITA’. Prima lezione: l’insegnante propone una serie di lezioni sul rapporto tra cibo e religione che faccia scoprire i precetti alimentari dettati dalle principali religioni monoteiste. L’insegnante legge i testi e ricorda alla classe la differenza tra fonte primaria e fonte secondaria. L’insegnante guida gli alunni a ricavare una tabella che illustri gli usi alimentari legati alla religione ebraica e a quella cristiana del periodo storico appena affrontato.

    Seconda lezione: sono presi in esame i precetti alimentari della religione musulmana attraverso testi e interventi di alunni musulmani concordati con l’insegnante. Anche in questo caso viene realizzata insieme una tabella. Segue un confronto con quella realizzata in precedenza.

    In queste due lezioni, gli alunni BES sono invitati a intervenire e sono coinvolti nella stesura pratica della tabella alla LIM, cercano immagini che illustrino i temi affrontati. I prodotti realizzati e i materiali valutati dall’insegnante verranno condivisi attraverso la piattaforma.

    Nella terza lezione l’insegnante predispone un lavoro a coppie che parte dall’analisi di un breve brano tratto da “Il riposo della polpetta” o da “Il pentolino magico”4, da un breve testo storiografico scelto tra quelli esaminati insieme nelle lezioni precedenti e da una fonte iconografica sul tema. Gli studenti sono chiamati a leggere e a interrogare il testo divulgativo di Montanari cercando informazioni richieste dall’insegnante (esercizio di allenamento verso l’interrogazione). Le informazioni vengono poi condivise con la guida dell’insegnante, completando una tabella (allegato 7).

    Nella quarta lezione  gli studenti vengono invitati a confrontare le informazioni del testo della lezione precedente con il testo storiografico. L’insegnante si offre come guida cercando di indirizzare il lavoro alla ricerca delle informazioni che sono più attinenti all’argomento, tralasciando i contenuti estranei. Nella seconda parte della lezione le coppie vengono invitate a realizzare un elaborato di 150 parole citando le fonti.

    SETTING DELL’AULA: standard

    VALUTAZIONE: vengono valutati gli interventi nelle lezioni dialogate e il prodotto finale del lavoro di coppie. Nell’ultima lezione viene lasciato spazio per un momento di autovalutazione dialogata.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 3

    Fase 4: (4 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Il cibo è anche una questione di ricchezza o povertà

    PRECONOSCENZE: società feudale e sviluppo comunale nel tardo Medioevo

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTE: una fonte scritta di Giovanni de Mussis (XIV secolo) con la descrizione dei banchetti di nozze di Piacenza5; materiali per il lavoro jigsaw (brani tratti dal manuale di storia e dai testi di Montanari e una novella in versi di Wernher der Gartenaere); griglia per il lavoro in jigsaw.

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI: analisi guidata di una fonte. compilazione di tabelle, creazione di mappe concettuali o mentali.

    DESCRIZIONE DELLE ATTIVITA’: nella prima lezione l’insegnante descrive gli aspetti dello stereotipo del contadino che fa da collegamento tra l’elemento storico generale e quello della storia della cultura alimentare costituto dallo stereotipo del contadino. Si passa all’analisi della fonte  di de Mussis condotta secondo il metodo think-pair-share, con la mediazione dell’insegnante attraverso domande stimolo: quanti giorni dura il banchetto? quante portate ci sono? quali tipi di alimenti sono prevalenti? Si delineano le idee di sfarzo e abbondanza dell’alimentazione dei signori. A casa la riflessione continua in piattaforma con un dibattito gestito dall’insegnante e stimolato da altre fonti quali la descrizione del matrimonio tra Isabella d’Este e Annibale Bentivoglio, organizzato nel 1487 a Bologna, descritto dal cronista Ghirarducci6 .

    La seconda e la terza lezione si concentrano sullo stereotipo del contadino attraverso fonti, testi storiografici e testi divulgativi. Viene utilizzata la struttura per l’apprendimento cooperativo jigsaw: la classe viene divisa in gruppi di tre; a ciascun gruppo viene assegnato un portfolio di documenti (l’insegnante assegna a ciascun membro i testi che ritiene adeguati alle capacità); i ragazzi leggono i propri brani poi si riuniscono in gruppi che hanno la stessa fonte e la interrogano; rientrati nel gruppo base, le informazioni vengono messe a confronto; agli studenti viene richiesto poi di fare delle inferenze che portano dalla dieta del contadino al suo stile di vita e alla considerazione che ne emerge dai testi.

    Al termine del lavoro di gruppo, si svolge una discussione in classe mediata dall’insegnante per raccogliere gli elementi dello stereotipo del contadino. Segue una discussione in piattaforma.

    La quarta lezione verte sulla differenza dei consumi tra città e campagna. L’insegnante legge alcuni brani tratti da Gusti nel Medioevo, chiedendo agli alunni di compilare una tabella di comprensione. Segue la realizzazione di una mappa concettuale condivisa in cui emergano le diverse caratteristiche dell’alimentazione del contadino, del signore e del cittadino. A uno degli alunni BES viene affidato il compito di stilare l’elaborato con un programma alla LIM. Agli alunni stranieri viene chiesto di realizzare una semplice mappa mentale per ciascun stereotipo.

    SETTING DELL’AULA: isole di banchi

    VALUTAZIONE: Attraverso una griglia di osservazione, concordata con gli studenti, vengono valutati gli interventi in classe e in piattaforma e le competenze sociali e civiche messe in atto nel lavoro di gruppo.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 4.

     

    Fase 5: (4 ore)
    TITOLO: il cibo come sogno “Il paese di Cuccagna”

    PRECONOSCENZE: lavoro sulle fonti svolto nelle fasi precedenti, le principali caratteristiche della signoria territoriale.

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTE: documenti per il laboratorio

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI: svolgere le fasi del laboratorio

    DESCRIZIONE DELLE ATTIVITA’:
    La quinta fase è un laboratorio storico, come teorizzato da Antonio Brusa7. Gli studenti sono chiamati a lavorare in autonomia, mettendo in pratica le competenze acquisite. Dopo aver affrontato le caratteristiche della signoria territoriale gli alunni sono chiamati a riflettere sulle conseguenze dell’ampliamento del potere signorile sulle campagne e sulla privazione di un’importante fonte di sostentamento, ovvero i terreni comuni. La fame infatti diviene un pensiero martellante, nella testa oltre che nello stomaco, creando nell’immaginario collettivo l’utopia alimentare del paese di Cuccagna. La classe viene divisa in gruppi di quattro ai quali l’insegnante assegna i ruoli di coordinatore, segretario e responsabile del materiale, mentre gli alunni con bisogni educativi speciali vengono inseriti come elementi osservatori, muniti di griglia, e gestori del gettone di parola. Ai gruppi viene affidato un portfolio contenente:
    -    un brano tratto da païs de Coquagne8 ;
    -    un breve brano storiografico tratto da Montanari9;
    -    un brano tratto da Il pentolino magico10;
    -    un’immagine del paese di Cuccagna;
    -    un intruso.
    Il lavoro è concentrato nelle prime tre lezioni, mentre la quarta è dedicata alle esposizioni. Gli elaborati finali vengono condivisi sulla piattaforma.

    SETTING DELL’AULA: isole di banchi

    VALUTAZIONE: la valutazione del lavoro di gruppo sulle diverse competenze trasversali (sociali e civiche, consapevolezza ed espressione culturale) viene effettuata durante il processo con griglie di osservazione, tenendo conto anche di quelle elaborate dagli studenti osservatori. Viene eseguita una valutazione in itinere attraverso i prodotti delle singole fasi e i feedback nel corso dell’attività in classe. Infine è valutato il prodotto finale.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 5

    VERIFICA PER COMPETENZE
    Alla fine dell’anno è prevista una verifica sommativa che richiede agli studenti di utilizzare in un contesto nuovo le competenze acquisite. Viene fornita loro una fonte (semplice per i BES) sulla quale rifare il laboratorio storico. E’ inoltre richiesto loro di correlare gli argomenti della presente UdL con quelli del percorso curricolare spiegando la relazione e mettendoli in una linea del tempo. Per valutare le conoscenze viene richiesto di legare attraverso dei concetti chiave il percorso tradizionale con quello sull’alimentazione, realizzando un breve testo su uno degli argomenti trattati.

    RI-CONTESTUALIZZAZIONE
    In questo lavoro si è prediletto l’aspetto interculturale, data la composizione etnicamente eterogenea del gruppo classe. Volendo riproporre il lavoro si può pensare di limitare l’aspetto culturale e lavorare di più su quello storico. Si può inoltre pensare a un approccio più locale con un laboratorio di fonti inerenti al proprio territorio.

    DIAGRAMMA DELLE LEZIONI


                                                                   
    ALLEGATI
    FASE 1: Che cos’è il cibo per l’uomo?
    ALLEGATO 1

    LINEE GUIDA PER LA DESCRIZIONE DELL’IMMAGINE:

    ●    Come è rappresentato il cibo?
    ●    Che tipo di cibo c’è nell’immagine?
    ●    Ci sono altre figure (oggetti, persone, animali) oltre al cibo?
    ●    Che relazione c’è fra il cibo e queste altre figure?
    ●    Quale significato dai a questa immagine?
    ●    Inventa uno slogan da mettere sotto l’immagine.

    ALLEGATO 2

    FASE 2: Il cibo come incontro
    ALLEGATO 1
    “I romani, stando a Plinio il Vecchio, non ebbero forni pubblici per la cottura del pane prima del II secolo avanti Cristo. In precedenza consumavano soprattutto zuppe, polente, focacce. Appresero poi l’arte del lievito e della panificazione, che, sembra, gli egiziani avevano messo a punto per primi, diffondendola tra le genti del Mediterraneo orientale”. (p. 60)
    da M. Montanari, Gusti del Medioevo, p. 60

    “L’ideologia alimentare romana si costruisce attorno a una triade di prodotti, il pane, il vino e l’olio, assunti - riprendendo la tradizione greca - a vero e proprio simbolo di una certa idea di “civiltà”, legata, nel mondo greco e romano, all’agricoltura come modo di produzione tipico dell’uomo, che, separandosi dal mondo della natura e delle bestie, costruisce la propria esistenza in modo per così dire artificiale, inventando tecniche di sfruttamento dell’ambiente naturale che finiscono per trasformarlo profondamente, disegnando un paesaggio nuovo, quello dei campi, delle vigne, degli alberi coltivati, da cui l’uomo, lui solo, riesce a ricavare dei prodotti che, a loro volta, trasformati secondo tecniche esse stesse esclusive dell’uomo, gli forniscono un cibo (il pane), una bevanda (il vino) e un grasso (l’olio) che non esistono allo stato naturale e per ciò stesso simboleggiano la capacità di ritagliarsi uno spazio “civile” in mezzo alla natura selvaggia [...]. Anche la pastorizia, anche la caccia rientrano fra le attività produttive; anche la carne compare - eccome - sulle tavole romane, per non parlare del formaggio, delle uova e di altri prodotti di origine animale. La carne stenta, tuttavia, a conquistare un’immagine alta, totalmente positiva, perché legata a forme di sfruttamento del territorio ritenute più “naturali”, meno “civili” [...]. La letteratura latina restituisce immagine che assegnano soprattutto ai cibi vegetali, a quelli prodotti con il lavoro dei campi, il ruolo di identificare il proprio modello di civiltà. I popoli che vivono soprattutto di caccia e pastorizia, dando alla carne un ruolo centrale nel loro regime alimentare, sono pertanto rappresentanti come “incivili” o “barbari” [...] Procopio scrive che i lapponi “non ricavano alcun cibo dalla terra… ma si dedicano solamente alla caccia”, e Giordane parla degli scandinavi che vivono “solamente di carni”.
    da M. Montanari, Gusti del Medioevo, p. 69-70

    “Anche quelli che un tempo si chiamavano <<barbari>>, legati a tradizioni di tipo pastorale più che agricolo, e a un modello alimentare prevalentemente carnivoro, subirono il fascino del nuovo modello alimentare e contribuirono in maniera decisiva alla diffusione nel continente della ‘cultura del pane’”.
    da M. Montanari, Gusti del Medioevo, p. 62

    Testi sono tratti da M. Montanari, La fame e l’abbondanza,pp. 12-14
    ROMANI:
    “[…] i latini chiamavano ager, l’insieme dei terreno coltivati, rigorosamente distinti dal saluto, la natura vergine, non-umana, non-civile, non-produttiva. […] l’economia del bosco e della palude erano […] realtà marginali”.

    “[…] agricoltura e arboricoltura erano il perno dell’economia e della cultura dei greci e dei romani […]. Grano, vite, ulivo ne erano i punti di forza: una triade di valori produttivi e culturali che quelle civiltà avevano assunto a simbolo della propria identità. «Ogni cosa che le mie figlie toccano si trasforma in grano, o in vino puro, o in oliva»: le parole di Anio, re e sacerdote di Delo, che Ovidio rappresenta in una delle Metamorfosi, la dicono lunga sulle abitudini e sui desideri alimentari (il mito di Anio non è anche un’utopia?) di questa gente. […] Accanto ad essi svolgevano un certo ruolo l’orticoltura (soprattutto) e la pastorizia ovina […]. Su queste realtà si disegnava un sistema di alimentazione - vogliamo chiamarlo ‘mediterraneo’? - a forte caratterizzazione vegetale, basato sulle farinate e sul pane, sul vino, sull’olio, sulle verdure: il tutto integrato da un po’ di carne e soprattutto un po’ di formaggio (pecore e capre si utilizzavano prevalentemente come bestie vive, per il latte e la lana)”.

    BARBARI:
    “Le popolazioni celtiche e germaniche, da secoli avvezze a percorrere le grandi foreste del Centro e del Nord Europa, avevano sviluppato una forte predilezione per lo sfruttamento della natura vergine e degli spazi incolti. La caccia e la pesca, la raccolta dei frutti selvatici, l’allevamento brado nei boschi (soprattutto maiali, ma anche equini e bovini) erano attività centrali e caratterizzanti del loro sistema di vita. […] la carne era il valore alimentare di primo grado. Non il vino si beveva (conosciuto solo nelle zone di confine dell’impero) ma il latte di giumenta e i liquidi acidi che se ne derivavano; o il sidro, tratto dalla fermentazione dei frutti selvatici; o la birra, là dove si coltivavano cereali nelle piccole radure sottratte alla foresta. Non l’olio si usava per ungere e per cucinare […] ma il burro e il lardo”.

    PUNTI DI UNIONE:
    “[…] anche i germani consumavano cereali, pappe d’avena o focacce d’orzo (non però pane di frumento, vero simbolo dell’alimentazione mediterranea); anche i romani mangiavano carne di porco (che gli imperatori facevano distribuire al popolo della capitale, assieme al pane)”.

    ALLEGATO 2
    GRIGLIA PER L’ATTIVITA’ DEGLI ALUNNI con BES:

     

    ALLEGATO 3
    COMPITO: Ricetta di famiglia
    Gli studenti sono invitati a chiedere ai propri genitori una ricetta significativa della “tradizione famigliare” della quale dovranno elaborare una descrizione seguendo i seguenti punti:

    1.    tradizione della ricetta (da quale ramo familiare giunge)
    2.    occasione particolare in cui il piatto viene proposto
    3.    ricetta
    4.    piccolo approfondimento sugli alimenti tipici che vengono utilizzati (se ad esempio derivano dalla cultura di un paese o una regione d’origine differente da quella in cui la famiglia risiede).


    ALLEGATO 4
    IL BUON MODELLO  PER LA RICETTA DI FAMIGLIA
    La domenica andavamo a pranzo dalla mamma di mia mamma, nonna Emma. Lei e sua nuora Lillina dal venerdì sera si alternavano presso la fiammella minima che asciugava il ragù, rraù, in lingua e palato locali. Il nostro arrivo a mezzogiorno in anticamera era accolto da un alleluia di ragù diritto nel naso. Quel sugo era l’applauso di uno stadio in piedi dopo un gol, era un abbraccio, un salto e una cascata dentro le narici. Mai più potrò riavere quell’arrembaggio al vertice dei sensi, che sta per me in qualche ghiandolina dell’olfatto. A tavola, condito con la pasta grossa, mi sedevo composto, ma dentro di me stavo in ginocchio di fronte alla scodella.

    È stata la mia porzione di manna, pane dei cieli, apparecchiata da due sacerdotesse dei fornelli, dai loro riti notturni. Erano bocconi che imponevano silenzio. A me si chiudevano anche gli occhi. Le forchette nei piatti raccoglievano il frutto della conoscenza. La bocca piena gorgheggiava una laude. Non ho temperamento mistico, ma quel poco che mi è toccato in sorte l’ho assaggiato, l’ho avuto sulla lingua durante le domeniche d’infanzia. Quella mensa estiva assume nel ricordo la forma di un altare.

    Da loro due, Emma e Lillina, ho poi ricevuto notizie dettagliate per la composizione della parmigiana di melanzane, piatto preferito dell’età adulta. La preparavano facendo passare il frutto per tre fuochi. Tagliate a fette le melanzane, le mettevano al sole, la fiamma più potente, ad asciugarsi dall’acqua e addensare il sapore. Poi le friggevano, indorando di festa la cucina. Ultimo fuoco il forno, dopo averle distese a strati, ognuno ricoperto di sugo, basilico, mozzarella e una manciata di formaggio parmigiano. Tre fuochi concorrevano alla pietanza che meglio coincide per me con la parola casa.
    Senza mamma pratico l’astinenza da quel cibo, un esilio alimentare. Il lutto si sconta alla tavola invece che al cimitero.
    Tratto da De Luca, E. Il più e il meno, pp. 18-19

    ALLEGATO 5
    ESEMPIO DI RICETTA MEDIEVALE
    Polenta di fave o “macco”
    Prendi fave infrante e scelte bene e quando le avrai bollite, tolta l’acqua, lava molto bene e rimettile nello stesso vaso con poca acqua tiepida e sale, in modo che siano ben coperte dall’acqua, e gira spesso col cucchiaio; quando saranno cotte, togli dal fuoco e schiaccia fortemente con un cucchiaio, poi lascia riposare un po’ e quando scodellerai aggiungi del miele o dell’olio soffritto con cipolle, e mangia.
    Montanari, M. Gusti del Medioevo, p. 188

    ALLEGATO 6


     FASE 3: Il cibo come precetto religioso
    ALLEGATO 1
    Alimentazione ebraica
    Letture dalla Bibbia:
    Poi il Signore Iddio piantò un giardino in Eden a oriente e quivi pose l’uomo che aveva formato. Il Signore Iddio fece germogliare dal suolo ogni specie di alberi piacevoli d’aspetto e buoni a mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino, e l’albero della conoscenza del bene e del mare. […] Il Signore Iddio prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, affinché lo coltivasse e lo custodisse, e dette all’uomo quest’ordine: “Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non mangiare! Poiché il giorno in cui ne mangiassi, di certo morresti”.
    Genesi (2, 8-17)


    “Il Signore disse a Mosè e ad Aronne: “Riferite agli Israeliti: Questi sono gli animali che potrete mangiare fra tutte le bestie che sono sulla terra. Potrete mangiare d'ogni quadrupede che ha l'unghia bipartita, divisa da una fessura, e che rumina. Ma fra i ruminanti e gli animali che hanno l'unghia divisa, non mangerete i seguenti: il cammello, perché rumina, ma non ha l'unghia divisa, lo considererete immondo; l'ìrace, perché rumina, ma non ha l'unghia divisa, lo considererete immondo; la lepre, perché rumina, ma non ha l'unghia divisa, la considererete immonda; il porco, perché ha l'unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, lo considererete immondo. Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri; li considererete immondi.
    Questi sono gli animali che potrete mangiare fra tutti quelli acquatici. Potrete mangiare quanti hanno pinne e squame, sia nei mari, sia nei fiumi. Ma di tutti gli animali, che si muovono o vivono nelle acque, nei mari e nei fiumi, quanti non hanno né pinne né squame, li terrete in abominio”.Levitico (11, 1-12)

    Ecco, il Signore degli eserciti preparerà su questo monte, a tutti i popoli, un convito di carni grasse, un banchetto di vini squisiti, di carni succulente, di vini pregiati. Anzi su questo monte egli stesso strapperà il velo del volto di tutti i popoli, e la coltre che copre tutte le nazioni, e distruggerà la morte per sempre. Il Signore asciugherà le lacrime su ogni volto e toglierà l’onta del suo popolo, la farà scomparire da tutta la terra, ché il signore ha parlato. Isaia (25, 6-8)

    IMMAGINE 1

      IMMAGINE 2
      IMMAGINE 3


    ALLEGATO 2
    L’alimentazione cristiana

    “Il pane di frumento si caratterizza per tutto il Medioevo come un prodotto di lusso, ed è proprio per rifiutare questo lusso che gli eremiti scelgono di privarsene, preferendogli il pane d’orzo con un chiaro intento penitenziale. [...] il vescovo di Lamgres Gregorio, che faceva penitenza con pani d’orzo, ma, per non apparire troppo presuntuoso, li mangiava di nascosto, tenendoli sotto il pane di frumento che offriva agli altri e che fingeva di consumare con loro”.
    Montanari, Gusti del Medioevo, p. 66


    “Nella cosiddetta “Regola del Maestro” (VI secolo) si prescrive che le micae panis, che dopo ogni pasto rimangono sulla tavola, siano raccolte con attenzione e conservate in un vaso. Ogni settimana, il sabato sera, i monaci le metteranno in padella con un po’ di uova e farina e ne faranno una piccola torta da mangiare tutti insieme, rendendo grazie a Dio prima dell’ultima coppa di bevanda calda che conclude la giornata”.
    Montanari, Gusti nel Medioevo, p. 68


    “Il cibo sia parco; lo si consumi alla sera, rifuggendo la sazietà e, nel bere, l’ubriachezza: esso sostenti senza nuocere. Sia costituito da ortaggi, legumi, farina impastata con acqua, assieme a una piccola pagnotta, perché non sia aggravato il ventre né appesantita la mente. Coloro che desiderano i premi eterni devono curarsi soltanto di ciò che è veramente utile e vantaggioso; pertanto ci si deve moderare sia nelle necessità materiali che nella fatica. Questo infatti è il vero discernimento: conservare integra la possibilità del progresso spirituale macerando la carne con l’astinenza; ma se l'astinenza oltrepasserà la misura, sarà non una virtù bensì un vizio: la virtù infatti custodisce e comprende molti beni. Si deve perciò digiunare tutti i giorni, così come tutti i giorni ci si deve ristorare; e mentre ogni giorno ci si deve nutrire, si deve gratificare il corpo poveramente e parcamente; infatti si deve mangiare ogni giorno, dato che ogni giorno si deve progredire, pregare, lavorare e leggere.
    Dalla regola di San Colombano III. Il cibo e la bevanda (V)
    fonte: http://ora-et-labora.net/regolacolombano.html

    Volendo tenere il debito conto delle necessità individuali, riteniamo che per il pranzo quotidiano fissato - a seconda delle stagioni - dopo Sesta o dopo Nona, siano sufficienti due pietanze cotte, in modo che chi eventualmente non fosse in condizioni di prenderne una, possa servirsi dell'altra.

    Dunque a tutti i fratelli devono bastare due pietanze cotte e se ci sarà la possibilità di procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se ne aggiunga una terza.

    Quanto al pane penso che basti un chilo abbondante al giorno, sia quando c'è un solo pasto, che quando c'è pranzo e cena.

    In quest'ultimo caso il cellerario ne metta da parte un terzo per distribuirlo a cena.

    “Nel caso che il lavoro quotidiano sia stato più gravoso del solito, se l'abate lo riterrà opportuno, avrà piena facoltà di aggiungere un piccolo supplemento, purché si eviti assolutamente ogni abuso e il monaco si guardi dall'ingordigia.

    Perché nulla è tanto sconveniente per un cristiano, quanto gli eccessi della tavola, come dice lo stesso nostro Signore: "State attenti che il vostro cuore non sia appesantito dal troppo cibo".
    Quanto poi ai ragazzi più piccoli, non si serva loro la medesima porzione, ma una quantità minore, salvaguardando in tutto la sobrietà.
    Tutti infine si astengano assolutamente dalla carne di quadrupedi, a eccezione dei malati molto deboli. Dalla regola di San Benedetto Capitolo XXXIX - La misura del cibo

    "<<Ciascuno ha da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro>> ed è questo il motivo per cui fissiamo la quantità del vitto altrui con una certa perplessità. Tuttavia, tenendo conto della cagionevole costituzione dei più gracili, crediamo che a tutti possa bastare un quarto di vino a testa. Quanto ai fratelli che hanno ricevuto da Dio la forza di astenersene completamente, sappiano che ne riceveranno una particolare ricompensa. Se però le esigenze locali o il lavoro o la calura estiva richiedessero una maggiore quantità, sia in facoltà del superiore concederla, badando sempre a evitare la sazietà e ancor più l'ubriachezza. Per quanto si legga che il vino non è fatto per i monaci, siccome oggi non è facile convincerli di questo, mettiamoci almeno d'accordo sulla necessità di non bere fino alla sazietà, ma più moderatamente, perché <<il vino fa apostatare i saggi>>. I monaci poi che risiedono in località nelle quali è impossibile procurarsi la suddetta misura, ma se ne trova solo una quantità molto minore o addirittura nulla, benedicano Dio e non mormorino: è questo soprattutto che mi preme di raccomandare, che si guardino dalla mormorazione.”
    Dalla regola di San Benedetto, Capitolo XL - La misura del vino
    Fonte: http://ora-et-labora.net/RSB_it.html#Cap39


     ALLEGATO 3
    Alimentazione islamica:
    “[...] da quanto, fra VII e VIII secolo, l’islam si impose sul versante meridionale del Mediterraneo, questo si trasformò da un grande lago comune - quale era in epoca romana - a un mare di confine. Ecco dunque fronteggiarsi, e magari incontrarsi, ma sempre per sponde opposte, due mondi diversi, due diverse civiltà, religioni, culture. Ed evidentemente il mondo, la civiltà del pane era quella della sponda settentrionale - o almeno, così si rappresentava: c’è una grande tensione ideologica tra gli scrittori cristiani che durante il periodo delle crociate rivendicavano il pane come segno della propria identità e qualificavano come “focacce mal cotte” il pane degli arabi, che a stento meritava quel nome”.
    Montanari, M.Gusti nel Medioevo, p. 62.

    “Vi son dunque proibiti gli animali morti, il sangue, la carne del porco, gli animali che sono stati macellati senza l’invocazione del nome di Dio, e quelli soffocati e uccisi a bastonate, o scapicollati o ammazzati a cornate e quelli in parte divorati dalle fiere, a meno che voi non li abbiate finiti sgozzandoli, e quelli sacrificati sugli altari idolatrici; e v’è anche proibito di distribuirvi fra voi a sorte gli oggetti: questo è un’empietà. Guai, oggi, a coloro che hanno apostatato dalla vostra religione: voi non temeteli, ma temete me! Oggi v’ho reso perfetta la vostra religione e ho compiuto su di voi i miei favori, e M’è piaciuto di darvi per religione l’Islam. Quanto poi a chi vi è costretto per fame o senza volontaria inclinazione al peccato, ebbene Dio è misericorde e pietoso.”
    Dal Corano (Sura della Mensa: V, 3)

    ALLEGATO 4
    Il pane: esempio di paragone tra cultura alimentare ebraica e cristiana.
    “Sicuramente la [l’arte del lievito e della panificazione] la conobbero gli ebrei, che tuttavia mantennero nei confronti del pane un atteggiamento ambiguo: da un lato esso rappresentava una fondamentale risorsa dell’alimentazione quotidiana; dall’altro era incluso - in quanto cibo fermentato, cioè “corrotto” rispetto alla purezza originaria della materia prima - fra i prodotti che non potevano godere dello statuto ideologico alto, sacrale. Il cristianesimo, invece, fece del pane - assieme al vino, altro prodotto fermentato - l’alimento sacro per eccellenza, lo strumento di comunione eucaristica con la divinità. Fu una scelta che consapevolmente significò la rottura con la tradizione ebraica: non a caso uno dei motivi di scontro fra la Chiesa latina e quella greca, ufficialmente separatesi nell’XI secolo, fu l’accusa, fatta dagli ortodossi ai cattolici, di avere abbandonato la “vera” tradizione cristiana del pane fermentato e di essersi avvicinati, con l’introduzione nel culto dell’ostia azzima, all’antico modello ebraico”.
    Montanari, M. Gusti del medioevo, p. 60

    ALLEGATO 5
    La melanzana: esempio di stereotipo che passa attraverso il cibo
    “Melanzana è una di quelle parole che si definiscono connotative perché contengono in sé il giudizio dell’oggetto rappresentato. L’etimologia non lascia spazio a equivoci: viene dal lontano mala insana, frutto insano pericoloso per la salute. La parola nacque sul finire del medioevo per qualificare negativamente il cibo che oggi tanto ci appassiona. Per catalogarlo fra le cose da evitare. Pomo sdegnoso lo chiama Bartolomeo Scappi, il cuoco più rappresentativo dell’Italia rinascimentale. Ma perché questo “sdegno”? per un pregiudizio sembrerebbe, di natura sociale: la melanzana diventò rapidamente una risorsa della cucina povera e fu perciò disdegnata dalla buona società. Come altre piante orientali la melanzana fu portata in Europa dagli arabi, che, ne l corso del Medioevo, la impiantarono in Sicilia e in Spagna. Già menzionata nei racconti del duecento Novellino, essa è rappresentata iconograficamente nei Tacuina sanitatis del Trecento.”
     Montanari M. Gusti del medioevo, p. 31


    ALLEGATO 7

                       

    FASE 4: Il cibo è anche una questione di ricchezza o povertà (o il cibo come status sociale)

    ALLEGATO 1
    “A sentire Giovanni de Mussis che scrive nel 1388, la città di Piacenza si era trasformata in una specie di paese di Bengodi: <<nel cibo tutti fanno meraviglie, soprattutto nei banchetti di nozze che per lo più seguono quest’ordine: vini bianchi e rossi per cominciare, ma prima di tutto confetti di zucchero. Come prima portata danno un cappone o due, e un grande pezzo di carne per ciascun tagliere è [=ogni due persone], cotto alla lampada con mandorle e zucchero e altre buone spezie. Poi danno carni arrostite in gran quantità, ossia capponi, polli, fagiani, pernici, lepri, cinghiali, caprioli o altro, secondo la stagione dell’anno. Poi danno torte giuncate, con confetti di zucchero sopra. Poi frutta. Infine, dopo aver lavate le mani, prima che si levino le tavole si dà a bere e un confetto di zucchero sopra. Infine, dopo aver lavate le mani, prima che si levino le tavole si dà da bere a un confetto di zucchero, e poi ancora da bere. Al posto delle torte e delle giuncate , alcuni danno all’inizio del pranzo delle torte fatte con uova, formaggio e latte, con sopra una buona quantità di zucchero. Per cena si danno, all’inverno, gelatine di carni selvatiche, di cappone, gallina o vitello o gelatine di pesci; poi arrosto di cappone e di vitello; poi frutta.”
    Montanari, M. La fame e l’abbondanza, p. 91

    ALLEGATO 2
    DESCRIZIONE DEL MATRIMONIO TRA ISABELLA D’ESTE E ANNIBALE BENTIVOGLIO
    “Il convito - simile a tanti altri di cui abbiamo notizia nelle cronache o nei trattati di cucina - durò sette ore, dalle 20 alle 3 di notte, durante le quali furono serviti: piccoli antipasti e cialde, con vino dolce di varie qualità; piccioni arrosto, fegatelli, tordi pernici <<con ulive confette et uva>>, e pane; un castello di zucchero <<con li merli e torri molto artificiosamente composto>>, pieno di uccelli vivi che, appena il piatto fu recato in sala uscirono fuori volando <<comn gan piacere e diletto de’ convitati>>; vennero po un capriolo e uno struzzo, attorniati da vari <<pastelletti>>, teste di vitello , capponi lessi, petti e lonze di vitello, capretti, salsicce, piccioni, con <<minestra et sapori>>, ossia salse; poi furono presentati pavoni, <<vestiti con le loro penne a guisa che facessero la ruota>>, uno per ciascuno signore invitato; poi mortadelle, lepri e caprioli cotti in guazzetto, ma rivestiti con la loro pelle in modo così perfetto <<che si mostravano vivi>>; dietro ad essi vennero tortore e fagiani, <<che dal becco loro ne uscivano fiamme e fuoco>> accompagnati con agrumi e varie salse. Poi torte di zucchero con mandorle, giuncate>> (forme di ricotta) e biscotti; e ancora teste di capretti e tortore, pernici arrosto, e un castello pieno di conigli che uscirono fuori correndo con gran divertimento dei convitati; indi <<pastelletti di coigli>>  e <<capponi vestiti>>.
    Montanari, M., La fame e l’abbondanza, pp.116-117

    NB: tutto il capitolo “Cucina ricca, cucina povera” (pp. 181-193) de Gusti del Medioevo di Massimo Montanari, ed. Laterza, 2012 si presta come approfondimento per questa fase. Qui sono scelti alcuni brani rappresentativi.

    NEGLI ALLEGATI 3, 4 e 5, i testi tratti da Montanari, M. Gusti nel Medioevo
    ALLEGATO 3
    LA CARNE
    CONTADINO: “Le carni erano bollite a lungo nella pentola appesa sul focolare di ogni casa contadina: a ciò portava la loro consistenza, particolarmente coriacea sia perché gli animali, liberi di muoversi in spazi aperti per gran parte della loro vita, sviluppavano una muscolatura soda e compatta, sia perché i contadini si cibavano spesso di animali vecchi, già sfruttati per il lavoro, o comunque cresciuti per più anni, per aumentarne il peso.” (p. 51)

    “Ai contadini, pur fra mille limitazioni, resterà il maiale attraverso gli usi residui del bosco comune o signorile, e in nuove forma di allevamento stabulare che negli ultimi secoli del Medioevo acquistano crescente importanza. Maiale cioè, soprattutto, carne conservata: è il sale, grande protagonista dell’alimentazione contadina, a consentire un po’ di dispensa per i mesi difficili, un minimo di sicurezza contro i capricci delle stagioni.” (p. 76)

    SIGNORE: “Se la carne è per eccellenza l’alimento che dà forza, esso sarà per eccellenza il cibo del potere, in virtù di un implicito passaggio intermedio (la forza come elemento primario del potere) che la cultura medievale dà in qualche modo per scontato. Il potente è il guerriero, colui che combatte meglio degli altri ed è in grado di batterli. La forza si costruisce in primo luogo con la carne. La carne è cibo del guerriero [...]. Nel IX secolo l’imperatore Lotario prescrive l’astinenza dal consumo di carne per coloro che si sono macchiati di grave colpa nei confronti del sovrano; contemporaneamente li obbliga a deporre le armi. [...] Infine i signori tengono a riservare a se stessi la pratica della caccia, che ha un ruolo essenziale nella definizione e della rappresentazione dell’identità nobiliare. ” (pp. 74-75)

    “Nel XIV e nel XV secolo nessuno sembra dubitare che le carni meglio convenienti alla dieta aristocratica siano quelle dei volatili: pernici, fagiani, quaglie. [...] I volatili esprimono infatti [...] un diverso ideale di vita e di alimentazione: la leggerezza. Il volatile vola e perciò è leggero [..]. La sua leggerezza vuol dire finezza, vuol dire carni delicate, adatte ad un’élite di cortigiani (o all’alta borghesia cittadina) che non rappresentano più la loro eccellenza in termini di forza muscolare, bensì di capacità intellettuale (politica, ndr).” (pp. 78-79)

    ALLEGATO 4
    IL PANE
    “[...] cominciò a caratterizzare e definire il regime alimentare “povero”, quello a cui si attenevano i contadini e più in generale i ceti subalterni. Per tutti costoro il consumo di pane rimase, per secoli, altissimo e decisivo: nei paesi europei, razioni giornalieri di 700-800 grammi, fino a un chilogrammo e più, sono attestate come normali nel Medioevo e oltre, almeno fino all’Ottocento. Questo alimento forniva la parte più consistente dell’apporto calorico quotidiano: dal 50 al 70% [...].” (p. 63)

    CONTADINO: “Nelle case contadine, il pane si mangiava - a Dio piacendo - tutti  i giorni: “come è costume dei rustici” (sicut mos rusticorum habet), un colono di cui racconta Gregorio di Tours riceveva ogni mattina dalla moglie un pane, e non cominciava a mangiarlo prima di averlo fatto benedire dal prete. Ma non dobbiamo pensare che il pane si facesse ogni giorno [...] i grandi pani della mensa contadina erano fatti per durare almeno una settimana.” (pp. 63-64)
    “[...] il pane dei poveri era scuro perché fatto - interamente o in parte - con cereali inferiori: segale, avena, orzo, spelta, miglio, panìco… una folla di prodotti che per secoli ha scandito il ritmo dell’alimentazione contadina.” (pp. 64-65)

    SIGNORE: “Nei banchetti principeschi, alle numerose carni si affiancava di regola il pane, distribuito in “ceste dorate” [...]. Solo che era un pane di qualità diversa. La differenza si coglieva a prima vista, in un dato di natura cromatica: il pane dei ricchi era bianco, perché fatto con frumento puro”. (p. 64)

    ALLEGATO 4
    FORMAGGIO VS CARNE
    “Un tipico prodotto della gastronomia povera, che la cultura medievale, come l’antica, associa soprattutto al mondo dei contadini e dei pastori, è il formaggio. Tuttavia anche in questo caso si avvia nel Medioevo un percorso di nobilitazione legato sia a fattori di gusto, sia all’immagine del formaggio come cibo “di magro”, sostitutivo della carne nei giorni di astinenza infrasettimanale e di vigilia e poi, dal XIV-XV secolo, anche in quaresima.” (p. 190).

    ALLEGATO 5
    IL CITTADINO e LA CARNE
    CITTADINO. “[...] il pubblico cittadino del pieno e del basso Medioevo non dà più la preferenza alla carne di maiale bensì a quella di bovino (in particolare vitello e vitella) o, addirittura, a quella di ovino, pecora o castrone, che i testi di dietetica considerano pessima. [...] In tutta Europa i consumi cittadini sembrano snobbare l’amato porco e puntare altrove. E’ anche una questione di peso: allevare un maiale, sacrificarlo e prepararlo a dovere, facendone prosciutti, salami e tranci salati, è operazione perfettamente congrua alle dimensioni e alla esigenze della famiglia contadina. Allevare e trattare un bovino è più un’operazione di mercato, dove qualcuno prepara e vende a molti.” (p. 77)

    CONFRONTO: “[...] è il sale,  grande protagonista dell’alimentazione contadina, a consentire un po’ di dispensa [...]. Le élites sociali, invece, amano la carne fresca, freschissima: l’uso medievale prevede talvolta la frollatura delle carni (soprattutto quelle di animali selvatici, più sode e coriacee)  ma spesso il consumo avviene subito dopo l’abbattimento della bestia. [...] Al contrasto signore/contadino (nei secoli centrali del Medioevo, ndr), ereditato dall’alto Medioevo, si aggiunge e si sovrappone quello fra cittadino e contadino. [...] (lo stile di alimentazione) del contadino rimane in prevalenza fondato sul consumo diretto, cioè sulle risorse che egli stesso riesce a produrre: fra le carni, soprattutto il maiale, pur se non mancano, fin dall’alto Medioevo, tracce significative di consumo di bovini (il bosco medievale nutriva anche questi) e, nelle regioni più ricche di prati naturali, ovini. Poi il pollame domestico: qualche gallina, oche, anatre. Il cittadino invece - si dice “il cittadino” senza aggettivi: il signore e il borghese di ceto, ma in qualche misura anche il popolo minuto - può contare, in condizioni di normalità, su un mercato ben rifornito e politicamente protetto: garantire il cibo alla comunità è il primo dovere di ogni pubblica amministrazione [...]. I banchi delle botteghe e del mercato debbono rispondere ad ogni richiesta [...]. In certe città saranno le stesse corporazioni a gestire il mercato della carne e quello del pesce, talora coesistenti ma più spesso alternati, nel corso delle settimane e dei mesi”. (pp.76-77)

    IL CITTADINO E IL PANE
    CITTADINO: “Nelle città anche i poveri mangiavano pane bianco - sempre che non vi fosse carestia: circostanza che, peraltro, si verificava con sconsolante regolarità.” (p. 65)

    ALLEGATO 6
    Nella Germania del XIII secolo, il vecchio contadino Helmbrecht (protagonista dell’omonima novella in versi di Wernher der Gartenaere) raccomanda a figlio la “sua” dieta di farinacei sostenendo che carne e pesce sono riservati ai signori: “Tu devi vivere di ciò che tua madre ti dà. Bevi acqua, caro figlio mio, piuttosto che comprare il vino con le ruberie [...]. Settimana dopo settimana tua madre ti cuoce la buona pappa di miglio: questa devi mangiare e ingozzarti piuttosto che dare un palafreno rubato in cambio di un’oca [...]. Figlio, mescola la segale con l’avena, piuttosto che mangiare pesce coprendoti di vergogna”. Ma il figlio non ci sta: “Beviti pure l’acqua, padre mio, io voglio bere il vino, e mangiati il polentone, io invece voglio mangiare quello che chiamano pollo arrosto”.
    Montanari, M., La fame e l’abbondanza, p. 73

    ALLEGATO 6
    TABELLA PER IL CONFRONTO DEI TESTI

    FASE 5: Il cibo come immaginario collettivo
    ALLEGATO 1
    "[...] di spigole, salmoni e aringhe sono fatti i muri di tutte le case; le capriate sono di storioni, i tetti di prosciutti e correnti di salsicce [...]. Di pezzi di carne arrosto e di spalle di maiale sono circondati tutti i campi di grano; per le strade si rosolano grasse oche che si girano da sole su se stesse, e da vicino sono seguite da candida salsa all'aglio; e vi dico che per ogni dove, per i sentieri e per le vie, si trovano tavole imbandite, con sopra candide tovaglie: tutti quelli che ne hanno voglia possono mangiare e bere liberamente; senza divieto né opposizione ciascuno prende ciò che desidera, pesce o carne, e chi volesse portarsene via un carro potrebbe farlo a suo piacimento [...]. Ed è sacrosanta verità che in quella contrada benedetta scorre un fiume di vino [...] per metà di vino rosso, del migliore che si possa trovare a Beaune o oltremare; per l'altra metà di vino bianco, del più generoso e prelibato che mai sia stato prodotto a Auxerre, a La Rochelle o a Tonnerre".
    Brano tratto da “Païs de Coquaigne”, Fabliau francese del XIII secolo.

    Il carattere elitario dei consumi cane si definirà anche in termini qualitativi: la selvaggina, in modi più o meno accentuati a seconda delle regioni, sarà riservata alle tavole “alte” della società. Pratiche sistematiche di delimitazione del territorio restringeranno a pochi l’uso della foresta, o proibiranno l’esercizio della caccia nelle «riserve». Figure leggendarie come quella di Robin Hood, che percorre la foresta in spregio ai divieti imposti dai nobili, sono anche «immagine utopica di un mondo in cui si potesse andare a caccia e mangiar carne» - come scrive Rodney Hilton. Analogamente, la carne - di ogni genere e specie, bell’e pronta e cucinata in tanti modi diversi - è la presenza più cospicua nei paesi di Cuccagna che l’immaginario popolare si raffigura forniti di ogni bendidio: un’utopia alimentare che si diffonde a iniziare dal XIII secolo e permane lungo tutta l’età moderna, svelando, come altra faccia di sé, il quotidiano paese della fame (o almeno dell’insoddisfazione).
    Da Montanari, M., Gusti del Medioevo, pp. 75 -76.

    Oppressi dalla paura della fame e insoddisfatti nel loro desiderio di mangiare molto e bene, gli uomini del Medioevo amarono sognare che vi fosse un paese benedetto in cui il cibo era sempre disponibile in abbondanza, senza neppure il bisogno di lavorare per procurarselo: un posto simile al Paradiso Terrestre della Bibbia dove, però, non si trovavano solo erbe e frutti deliziosi, ma soprattutto carni di ogni specie, succulente e ben condite. Mangiar carne a volontà, infatti, era il primo desiderio della povera gente, che nella vita reale, invece, mangiava in prevalenza cibi vegetali (cereali, legumi, verdure).

    Questo paese immaginario fu chiamato «Cuccagna» e fu descritto in numerosi testi, in molte lingue europee. Un poemetto francese del XII secolo ci assicura che tutti i campi sono recintati con pezzi di carne arrosto e spalle di maiale; per le strade, grosse oche si rigirano da sole sugli spiedi, cospargendosi di una saporita salsa all’aglio; ovunque, per i sentieri e per le vie, si incontrano tavole imbandite, elegantemente apparecchiate con candide tovaglie, e chiunque ne abbia voglia può sedersi a mangiare: carne di cervo o di uccelli, arrostita o lessata, ognuno prende ciò che desidera e può portarne via dei carri, se vuole. I muri delle case sono fatti di pesci squisiti (spigole, salmoni, aringhe); i tetti di storioni e di prosciutti; le cornici di salsicce. In mezzo alla campagna scorre un fiume di vino, per metà rosso, per metà bianco, dei più prelibati che si possano trovare.

    Chissà se qualcuno credeva davvero che simili fantasie… Certo è che nella letteratura medievale (e anche in quella moderna) vengono messi in scena personaggi ingenui e sempliciotti, a cui viene fatto credere che Cuccagna esista realmente. Così accade, ad esempio, in una novella di Giovanni Boccaccio - un celebre scrittore italiano del Trecento -, dove un gruppo di amici gioca uno scherzo a Calandrino, raccontandogli le meraviglie che sostengono di aver visto a Bengodi (così Boccaccio chiama il nostro paese): «vi era una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavano persone che non facevano altro che far gnocchi e ravioli e cuocerli in brodo di cappone, e poi li facevano rotolare giù, e chi più ne pigliava, più ne mangiava».

    In un testo spagnolo del Cinquecento, un’opera teatrale scritta da Lope de Rueda, due ladroni si prendono gioco del povero Mendrugo:
    - Siediti qui con noi, che ti raccontiamo delle meraviglie del paese di Cuccagna.
    - Di quale paese, signore?
    - Del paese in cui si frustano gli uomini che vogliono lavorare.
    - Oh, che bel paese! Raccontatemi, vi prego…
    - Avvicinati e ascolta. Nel paese di Cuccagna scorre un fiume di miele, e al suo fianco un fiume di latte. Fra i due fiumi c’è una sorgente da cui escono panini al burro e allo zucchero, bagnati in formaggio fresco.
    - Che posto straordinario! Non mi farò ripetere l’invito due volte.
    - Taci e ascolta: nel paese di Cuccagna, gli alberi hanno il tronco fatto di lardo; le foglie sono frittelle dolci, e i frutti sono bignè che, quando cadono nel fiume di miele, navigano dicendo: Màsticami! Màsticami!
    - E cosa c’è d’altro?
    - Le strade sono lastricate con rossi d’uova e tra un rosso e l’altro vi sono dei pasticci di carne con pezzetti di lardo.
    - Lardo arrostito?
    - Arrostito, certo; e che grida: Inghiottimi! Inghiottimi!
    - Mi pare già di averlo sulla lingua…
    - Ma ascolta ancora: nel paese di Cuccagna vi sono degli spiedi lunghi trecento piedi, tutti pieni di pollastri e capponi, di pernici, conigli e francolini.
    - Oh che acquolina in bocca!
    - E a fianco di ogni uccello c’è un maialino che attende solo di essere tagliato, e dice: Divorami! Divorami!
    - Ah, come vi ascolto volentieri! Starei tutto il giorno a sentir parlare di cose da mangiare…
    - Ma non è finita. Il paese di Cuccagna è tutto pieno di vasetti di marmellata, di confetture di zucca e di limone, di marzapani e di frutti canditi.
    - Piano, signore, raccontate piano…
    - Ci sono confetti e fiaschi di vino, e ogni cosa è lì che dice: Bevimi! Mangiami! Bevimi! Mangiami!
    - Mi pare quasi di avere già bevuto e mangiato…
    - E per finire, nel paese di Cuccagna ci sono pentolini di riso con le uova e il formaggio…
    - Come quello che ho qui con me?
    - Proprio così: come il pentolino che è arrivato pieno e che il diavolo si è portato via!
    Distratto dalla succulenta conversazione, il povero Mendrugo non si è accorto che anche la sua povera pignatta di riso si è svuotata. I due ladroni se la ridono sotto i baffi, per lui sarà un giorno di digiuno.
    da Montanari, M., Il pentolino magico, p. 77.

     
    Pieter Bruegel il Vecchio, Il paese della cuccagna, 1567, olio su tela.

     
    Jodocus van de Hamme, Abbondanza dei campi, 1650, Olio su tela.

    GRIGLIA UTILIZZABILE PER TUTTE LE FASI DEL LABORATORIO

     

    BIBLIOGRAFIA
    Brusa, A., Laboratorio di storia, La Nuova Italia, Firenze, 1991.

    Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza,  Roma-Bari, 1993

    Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola, Editori Laterza, Roma-Bari, 2012

    Il pentolino magico, Editori Laterza, Roma-Bari, 1995

    Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009

    Sharan, Y. e Sharan, S., Gli alunni fanno ricerca, Edizioni Erickson, Trento, 1998

    Shiva, V., Storia dei semi, Feltrinelli, Milano, 2013

    Zuin, E., I saperi disciplinari nel curricolo per competenze, Centro studi Erickson, Trento, 2013.


    Manuali per la SSPG:

    Brusa, A., Gurracino, S., De Bernardi, A., L’officina del tempo, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, Milano 2007.


    SUGGERIMENTI PER LE PIATTAFORME

    Per quanto riguarda le piattaforme si suggeriscono le seguenti:

    https://www.fidenia.com/

    http://www.edmodo.com

    https://www.schoology.com/

    https://myhomeworkapp.com/

    APPENDICE INTERDISCIPLINARE

    Si propongono dei collegamenti interdisciplinari allo scopo di arricchire e approfondire l’argomento dell’UDL.

    Focus di Italiano (fase 1): se si vuole legare l’attività con un momento interdisciplinare, la lettura accompagnata dal commento dei testi “Ciò che piace fa bene”, p. 117, “La pasta e gli italiani: un’identità una e molteplice”, p. 197 tratti da “Il riposo della polpetta” di Massimo Montanari11 , si prestano. Si tratta di articoli di giornale con taglio divulgativo caratterizzati dalla precisione nelle informazioni scientifiche propria di uno storico, ma stilisticamente abbastanza semplici così da essere fruibili da ragazzi di prima media.

    Focus di Italiano, Educazione alla cittadinanza e Scienze (fase 2): il tema è “semi come metafore della cultura: si incontrano ma senza prevaricazioni”, il che porta a una riflessione sull’importanza della biodiversità. Si propone la lettura del brano “C’è seme e seme” dal testo Storia dei semi di Vandana Shiva, con lettura e comprensione del testo invitando la classe a scrivere le proprie idee sulla piattaforma piattaforma per poi ridarne un testo collettivo. Per stimolare il dibattito l’insegnante può proporre sulla piattaforma o in classe la visione del frammento del film di Ermanno Olmi “Terra madre” in cui si parla della banca mondiale dei semi alle (delle) Isole Svalbard.  Il documento redatto insieme può essere stampato e messo in una cartella/portfolio che andrà ad alimentarsi nelle fasi successive e rimarrà a testimonianza del percorso trasversale fatto.
    A questo lavoro si aggancia un’ora di educazione alla cittadinanza che legge la storia dei semi in chiave metaforica e la interpreta alla luce dell’integrazione e della tolleranza, tornando così al discorso del cibo come incontro affrontato nell’ora di storia.

    Focus di Educazione alla cittadinanza (fase 4): una lezione dialogata simile a un dibattito, nei limiti delle competenze di una prima media. Proponendo come spunto la mappa concettuale finale, la discussione sarà indirizzata verso i conflitti sorti all’interno della classe e causati proprio dal dare etichette ai compagni perché “diversi”.

    Focus di attualità (fase 5): “La fame oggi”. Lezione dialogata sulle cause delle carestie in età medievale e collegamento con l'attualità prendendo spunto da materiali di approfondimento predisposti dall’insegnante (testi, filmati, documenti, carte e grafici).

    Focus di Arte e immagine (fase 5): laboratorio artistico con realizzazione di un albero della cuccagna in cui ciascuno studente mette il proprio oggetto del desiderio.

    NOTE

    1. Definizione del Devoto-Oli, Vocabolario della lingua italiana.
    2. Sharan, Y. e Sharan, S., Gli alunni fanno ricerca, Edizioni Erickson, Trento, 1998
    3. “La melanzana: cibo da gente basse e da ebrei”, p. 31, “La leggerezza del monaco”, p. 128, “Gastronomia monastica”, p. 132, “Silenzio di mangia”, p. 168, “La gola filosofale”, p.134, “Carnevale e quaresima”, p. 161, “Dieta quaresimale”, p. 163.
    4.“Il pane che viene dal cielo”, p. 11, “La religione del pane”, p. 52, “Il piacere e la rinuncia”, p. 67.
    5. Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 91-92.
    6. Dal materiale per il percorso tematico “Il pranzo è servito” della mostra Il cibo nell’arte, Capolavori dei grandi maestri dal Seicento a Warhol. In Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 116-117.
    7. Brusa, A., Laboratorio di storia, La Nuova Italia, Firenze, 1991.
    8. Netta versione offerta da Massimo Montanari, v. Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 119.
    9. Montanari, M., Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola, Editori Laterza, Roma-Bari, 2012, pp. 75-76.
    10. “Il paese di Cuccagna”, p. 77
    11.   In particolare, in questa parte si possono leggere, come spunto di riflessione sui significati del cibo e della cultura alimentare, “Ciò che piace fa bene”, p. 117, “La pasta e gli italiani: un’identità una e molteplice”, p. 197.

  • Il videoconcilio di Trento in Dad. Ovvero: se il Papa avesse avuto internet, sarebbe bastata una mezzoretta?*

    di Raffaele Guazzone

    Una premessa, doverosa, breve e (poco) polemica

    Per molti insegnanti la scuola è finita dopo le vacanze di carnevale. Per molti altri invece, è cominciato qualcosa di diverso. È arrivato quel momento terrorizzante ed eccitante in cui – per cause di forza maggiore – programmi, libri, verifiche ed interrogazioni restano nel cassetto, e bisogna inventarsi qualcosa di nuovo. Non so dire cosa resterà nel mondo della scuola di questi mesi complicati, così come non so ponderare le ricadute nel tempo di questa didattica a distanza.

    Vivo quotidianamente sulla mia pelle (e su quella dei miei ragazzi) le difficoltà della situazione, ma non ho nessuna intenzione di stare ad aspettare, di trincerarmi dietro ad un ovvio “non è lo stesso, se non siamo in classe: era meglio prima”. Un po’ perché non ci sono molte alternative alla didattica a distanza, e lo dico da docente, non da epidemiologo; un po’ perché non è che le cose andassero poi così bene nel mondo della scuola: i buchi enormi della didattica a distanza, leopardianamente, ci fanno dimenticare troppo rapidamente le criticità che abbiamo sperimentato fino a ieri.

    Distanze e tecnologie

    La chiusura delle scuole ha obbligato anche i docenti più refrattari a confrontarsi con le nuove tecnologie. Non è questa la sede per ripercorrere la cronistoria, ma confesso che ho riso e pianto tantissimo grazie ai commenti dei colleghi. Queste pagine hanno già ospitato alcune delle mie riflessioni (ad esempio a proposito del tablet o sulla didattica ludica), posso sintetizzare così il sugo di tutta la storia: secondo me la tecnologia deve permetterti di fare meglio quel che già fai in presenza, oppure permetterti di fare qualcosa che in classe non potresti fare.

    E ora che la classe, così come la conoscevamo, non c’è più, e che la tecnologia pervade la nostra quotidianità didattica, è fondamentale concentrarsi proprio su quest’ultimo aspetto: cosa puoi fare di diverso?

    Italia 2020: fuga dalla cameretta

    L’unità didattica che sto affrontando in Storia nelle mie classi terze riguarda Riforma e Controriforma.

    Papa Paolo III1 Sebastiano Ricci, <em>Papa Paolo III ha la visione del Concilio di Trento</em>. Olio su tela, 1687-1688,Piacenza, Musei Civici

    Per mia (piccola) esperienza le tesi di Lutero e più in generale le dispute teologiche non sono precisamente l’argomento più affine al sentire di un sedicenne medio, specie se ha scelto un professionale (insegno in un alberghiero), specie durante una pandemia. Ho deciso di portare comunque avanti parte del programma, partendo però da un intimo sentire che accomuna nel profondo sia me che i miei ragazzi: tutti vorremmo essere altrove, in questo momento. Vorremmo essere altro rispetto a ciò che ci detta la quotidianità.

    Solo il dove e il come ci separano veramente, e sta a me come docente, sceglierli per la mia classe: decido di portarli a Trento nel 1563 per portarli via dall’Italia del 2020, anche solo per un po’, e il compromesso mi pare accettabile sia dal punto di vista didattico che umano.

    L'attività

    Dopo un ciclo di sei video nei quali sintetizzo la questione della riforma luterana, la frattura col Papa, la scomoda posizione dell’Imperatore e le reazioni da parte di nobili e contadini tedeschi, chiudo la narrazione descrivendo i lavori e le decisioni prese dal Concilio di Trento. Affido poi alla classe due attività di approfondimento: la prima è una presentazione di gruppo online sugli altri riformatori, la seconda è un lavoro individuale di riflessione sul dibattito nato in seno alla Chiesa dopo lo strappo della protesta tedesca.

    Devo pensare però a qualcosa che obblighi i ragazzi a mettersi in gioco. Non voglio correre il rischio di leggere degli sterminati copincolla da Wikipedia: come ho già fatto diverse volte in classe, li obbligo ad interpretare un gioco di ruolo, costringendoli nello specifico ad immedesimarsi in un ipotetico partecipante al Concilio, che deve esprimersi pubblicamente davanti all’assemblea. Occorre studiare, scriversi un discorso (anche breve) e prepararsi al dibattito, sapendo che ci sarà parecchio da litigare, anche perché i lavori saranno presieduti dal Papa in persona, cioè da me.

    Questo è il testo che ho inviato in piattaforma, con la richiesta di produrre un elaborato scritto entro la data fissata per la videoconferenza nella quale avremmo fatto il gioco di ruolo.

    Simuleremo i lavori del Concilio di Trento, che vide i partecipanti dividersi e scontrarsi (anche animatamente) sulle varie proposte per reagire alla riforma luterana. Sarai chiamato ad interpretare uno dei partecipanti all'assemblea, e ad esprimerti pubblicamente sulla tua posizione in merito. Pertanto, devi prepararti come segue:

    1. Studia con attenzione la parte relativa alla situazione della chiesa nel '500
    2. Studia con attenzione la parte relativa alla dottrina di Lutero
    3. Studia con attenzione la parte relativa al Concilio di Trento
    4. Scrivi un breve discorso, ispirandoti a una delle tre seguenti linee di pensiero (prosegui la traccia che ti lascio come esempio):

    GLI INTRANSIGENTI: "Bruciamolo! La nostra santa Chiesa si è sempre comportata in maniera perfetta, perché... Lutero invece è un eretico che merita il rogo, perché..." (continua specificando perché il Papa ha ragione e Lutero torto, secondo te. Preparati a litigare con chi non sarà d'accordo). Se scegli questa posizione vestiti di NERO.

    I CONCILIANTI: "Lutero sbaglia nel suo modo di agire, ma ha ragione su molte cose, ad esempio... Il santo padre dovrebbe approfittare dell'occasione per aggiustare ciò che non funziona nella nostra Chiesa, ad esempio..." (Pur rimanendo fedele al Papa, devi indicare quali aspetti apprezzi del pensiero di Lutero e perché, oltre ad evidenziare i problemi della Chiesa, preparandoti a difenderti dagli attacchi di chi ti è contrario). Se scegli questa posizione, vestiti di BIANCO.

    GLI SCISMATICI: "Lutero ha assolutamente ragione! Era ora che qualcuno dicesse le cose come stanno, perché la Chiesa da troppo tempo ignora problemi come... Lutero invece propone risposte sicure, ad esempio..." (Sostieni le posizioni di Lutero criticando quelle del Papa e di chi lo sostiene.

    Puoi accusare duramente il pontefice e i suoi seguaci, che però non esiteranno a difendersi). Se scegli questa posizione, vestiti di ROSSO.

    Dopo aver scritto il discorso (non troppo schematico, ma nemmeno un poema! ricordati che dovrai leggerlo ad alta voce o comunque interpretarlo) caricalo in piattaforma.

    5. Prepara il tuo vestito da cardinale/vescovo/nobiluomo, utilizzando il colore della fazione che hai scelto di rappresentare. Basta anche una semplice maglietta o un asciugamano in testa, ma usa la fantasia. Ricchi premi per il costume più accurato. Per ogni dubbio, scrivimi pure. Buon lavoro.

    Il setting

    L’idea del lavoro non è semplicemente scrivere un discorso e interpretare un personaggio: è interagire, dibattere, litigare (cosa che ai miei ragazzi viene benissimo). In questo senso, il testo del Concilio di Trento diventa un pre-testo per far socializzare agli alunni sia le proprie conoscenze che le proprie capacità di comunicazione.

    Sono stato quindi particolarmente attento alla costruzione del setting, tra il serio e il faceto.

    Mi sono costruito un costume da Papa con tanto di tiara d’argento (pellicola d’alluminio, ovviamente), con quella cura meticolosa anche per le cose piccole che la quarantena ci sta finalmente insegnando ad avere, ho preparato un cartiglio ironico e una colonna sonora filologicamente accettabile per accogliere i miei alunni al momento della connessione, mi sono calato la maschera e disposto all’attesa.

    Quello che è successo lo potete vedere qui. Costume da Papa2. Il costume da Papa

    Il dibattito

    In sintesi, il dibattito è stato partecipato, serrato e divertente, anche perché la mia interpretazione spesso sopra le righe di papa Pio IV ha coinvolto i ragazzi e mantenuto saldo l’orizzonte della discussione.

    Ho dovuto fare alcune semplificazioni e forzature: nel gioco immaginiamo di essere all’ultima seduta del Concilio e parliamo di Lutero come fosse vivo, alludo all’imperatore Carlo V anche se ha abdicato da quasi dieci anni; spesso spingo sul tasto delle indulgenze come necessarie per il restauro di San Pietro, quando il cantiere era già avviato, infine la Missa Papae Marcelli di Palestrina che funge da sigla di apertura è di poco successiva alla chiusura del Concilio, ma mi piaceva cogliere l’occasione per ribadire le conseguenze della Controriforma anche in campo artistico.

    Rotta la timidezza iniziale e accettate le regole del gioco, i ragazzi si sono sciolti e hanno aperto pieghe inaspettate nella narrazione che abbiamo improvvisato insieme.

    Abbastanza inverosimile ad esempio la presenza di ortodossi al Concilio, ma il contributo dell’alunno bielorusso, che si improvvisa patriarca e fa notare a tutti come solo i cristiani orientali sappiano qual è la vera interpretazione del messaggio di Gesù, è un colpo di genio. Preziosa anche la presenza di un alunno di religione ebraica, che mi ha dato l’occasione per far riflettere i ragazzi sulle dinamiche di lungo periodo che stanno a monte dell’antisemitismo novecentesco, e per ragionare sul fatto che il desiderio di conciliare una frattura teologica sia distante anni luce dall’apertura ad una più generale tolleranza in materia religiosa.

    Papa Pio IV3. <em>Ritratto di Pio IV</em>, cerchia di Tiziano <br/>Cantalupo in Sabina (Rieti), Collezione Camuccini

    Manca il terzo monoteismo: non ho affrontato la questione della minaccia ottomana inserendo anche l’Islam nell’agone semplicemente perché non ho ancora toccato l’argomento nelle mie lezioni. Piuttosto improbabile infine la presenza di delegati luterani nella fase finale dei lavori; realistica invece la loro posizione di minoranza.

    Il debriefing

    Al termine del gioco di ruolo, ci siamo soffermati ad analizzare quanto era emerso dalla nostra discussione. Al netto delle semplificazioni operate da me per evitare la dispersione dei contributi e concentrare gli sforzi dei ragazzi verso la costruzione di un discorso coerente, il dibattito si è imperniato fondamentalmente sulla questione delle indulgenze e del ruolo delle opere, non tanto su temi dottrinali realmente al centro del Concilio di Trento. L’esito era piuttosto prevedibile, questi sono gli aspetti che maggiormente colpiscono i ragazzi quando in classe si affronta l’argomento della Riforma. In più, ho teatralizzato molto il ruolo di un papa attaccato ai soldi, semplicemente perché la cosa era divertente, e ridere aiuta ad entrare in quella dimensione di flusso che accomuna sia il gioco che lo spettacolo, come spiega l’antropologo Victor Turner (Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1982).

    La semplificazione è necessaria, per riconnettere il Concilio al più ampio gioco dei poteri politici dell’Europa cinquecentesca. Se è vero che a Trento si parla di teologia, è altrettanto vero che Riforma protestante e cattolica sono anche occasioni per prese di posizione politiche, che condizioneranno tutta la storia dell’Europa nell’età moderna: si pensi alle guerre di religione e alle motivazioni più profonde di tali conflitti.

    Il videodebriefing

    Aver registrato la videoconferenza infine fornisce uno strumento prezioso ai ragazzi: al di là del narcisismo sempre connesso quando si parla degli adolescenti e del rapporto con la dimensione pubblica della loro immagine, riascoltare la discussione è un buono strumento per valutare a posteriori la propria preparazione sui temi del dibattito, e per andare a cercare per differenza quali sono i contenuti mancanti (uno su tutti, i termini teologici della disputa fra Lutero e la Chiesa), sui quali è bene soffermarsi meglio in fase di studio individuale per la verifica finale.

    Copertina4. La copertina del libro di Victor Turner

    Quel che non puoi fare in classe

    Questa attività non sarebbe stata possibile in classe, almeno non in questa forma. Gli alunni coinvolti sono particolarmente collaborativi in linea generale, tra noi si è sviluppato un rapporto di fiducia e sono abituati ai miei istrionismi, così come alla dimensione ludica di alcune attività che ho proposto in precedenza. Ma difficilmente avrebbero accettato di camuffarsi, se fossero stati a scuola. Troppo pesante sulle spalle di un adolescente, il giudizio degli altri. Anche in un contesto accogliente come questa classe. Essere a casa, soli nella propria camera, sostanzialmente nascosti seppure visibili, ha creato invece le condizioni necessarie per rompere il tabù della vergogna.

    Quando ho proposto l’attività non ero certo che tutti avrebbero accettato di vestirsi a tema, anche se la richiesta era piuttosto semplice (indossa un capo del colore relativo alla fazione che intendi sostenere), eppure tutti hanno raccolto l’invito, sorprendendomi. Tutti hanno accettato di recitare una parte, senza remore eccessive.

    Dietro la maschera

    Indossare una maschera non è un gesto banale. Prevede, ad esempio di spogliarsi, mettere da parte la propria identità, anche solo un poco, mostrarsi nudo di fronte ai compagni, sapendo che sono nudi anche loro, perché tutti decidono di essere qualcosa che non sono. E quando ti ritrovi nudo in mezzo agli altri, inizi a mettere da parte differenze, a dimenticarti di molte cose superflue, a partire dal pesante giudizio di chi ti circonda. È un processo che in presenza costerebbe fatiche incredibili e comporterebbe tempi eterni, specie per dei ragazzi fondamentalmente fragili come gli adolescenti con cui lavoro. Ma nel recinto sicuro delle loro camerette qualcosa è successo, e una barriera è caduta: tutti, davvero tutti hanno partecipato. Anche i più timidi, i più imbranati, quelli che a parlare in pubblico vanno nel panico, quelli che appena li chiami in classe diventano paonazzi, quelli che ad interrogarli ti senti il Grande Inquisitore e devi rimandarli al posto tre o quattro volte prima di strappargli un numero di risposte sufficiente a stabilire una valutazione.

    Videoconferenza5. Uno screenshot della videoconferenza

    Questo virus ci ha chiuso in casa, ci tiene lontani, mina il nostro presente e il nostro futuro, ma apre anche piccole porte dentro di noi. C’è chi non ha il coraggio di affacciarsi, perché ha paura del vuoto; c’è chi invece sta oliando i cardini per far uscire il proprio sé – ancora nascosto, per il momento, dalla maschera di quel grande gioco di ruolo che in fondo è la scuola.

    Il teatro dentro la classe

    Ma non sono solo i ragazzi a spogliarsi, in questa attività. Ci sono anche io. Non credo di essermi dato in pasto ai loro commenti come giullare, ma ho cercato di essere una guida, una specie di master se il nostro fosse stato “solo” un gioco di ruolo. Per questo sono stato molto attento a creare un setting elaborato nei limiti delle possibilità del mio appartamento: il gioco chiede serietà e precisione per rompere la barriera dell’incredulità e coinvolgere i partecipanti. E per poter giocare a scuola – anche a distanza – la prima barriera che va infranta è proprio quella della quarta parete che separa la cattedra dai banchi. Spogliarsi delle nostre identità, mostrarsi nudi di fronte a quello che non è più pubblico, ma parte della compagnia di giro, indossare una maschera e cominciare la recita (non è un caso che l’inglese usi la stessa parola per definire le azioni della rappresentazione scenica e del gioco).

    Foto6. Bread and Puppet Circus, foto di Walter S. Wantman

    Non sto parlando del lavoro di gruppi della post-avanguardia come il Living Theater o Bread and Puppet sto parlando della scuola e di un paradigma da ridiscutere, utilizzando anche gli strumenti del teatro – o del cinema, se la distanza lo impone. E mai probabilmente avremo un’occasione, drammatica ma necessaria come quella che stiamo vivendo, per farlo davvero.

    Sopperite alle nostre deficienze
    con le risorse della vostra mente:
    moltiplicate per mille ogni uomo,
    e con l’aiuto della fantasia
    createvi un poderoso esercito.
    Quando udrete parlare di cavalli
    pensate di veder cavalli veri
    stampar l’orme dei lor superbi zoccoli
    sopra il molle terreno che le accoglie.
    Sarà così la vostra fantasia
    a vestire di sfarzo i nostri re,
    a menarli dall’uno all’altro luogo,
    saltellando sul tempo,
    e riducendo a un volger di clessidra
    gli eventi occorsi lungo diversi anni […]
    William Shakespeare, Enrico V

     

    * Esperienza realizzata nella classe 3ARP dell’Istituto di Istruzione Superiore “Luigi Cossa” di Pavia il 24 aprile 2020.

  • La Grande guerra poteva essere evitata?

    Autore: Daniele Boschi*  

    Un modulo Clil, ma non solo1

     

    1. Un’esperienza didattica
    2. Due opposte tesi storiografiche
    3. Il ruolo del “caso” nella storia: un colpo di pistola ha cambiato la storia del mondo?
    4. Determinismo, libertà, caso
    5. Conclusioni

     

    1.    Un’esperienza didattica

     

    In questo articolo riferirò un’esperienza didattica realizzata nel passato anno scolastico in una classe quinta del Liceo Scientifico Statale “Nomentano” di Roma. Ho proposto ai miei studenti un modulo sul tema: la Grande guerra poteva essere evitata?

    Il modulo è stato svolto in modalità CLIL: ovvero in lingua inglese e con una metodologia didattica che attribuisce allo studente il ruolo di protagonista del processo di apprendimento2 .

    L’idea di un percorso didattico su questo argomento è nata da un articolo di Luigi Cajani dedicato alle origini della Prima guerra mondiale e alla didattica della storia controfattuale3 . In questo articolo Cajani aveva esaminato le posizioni assunte dalla recente storiografia e dalla manualistica scolastica riguardo alla questione se la Prima guerra mondiale fosse o meno evitabile. Ed aveva spezzato decisamente una lancia in favore della storia controfattuale, considerandola come un utile ed interessante strumento di analisi storica, dal quale può trarre spunto anche la pratica didattica.

    Cajani aveva inoltre osservato che da parecchio tempo la storia controfattuale ha smesso di essere un tabù per gli storici: sia alcuni storici contemporaneisti italiani, sia un buon numero di studiosi dell’area anglosassone hanno fatto ricorso, in diverse occasioni, alla controfattualità, superando così l’anatema lanciato contro di essa da storici del calibro di Edward Carr e di Edward P. Thompson4 .  

    La prospettiva controfattuale è stata perseguita, con cautela, anche nel mio modulo. Questo ha impegnato la classe per un totale di nove ore di lezione, delle quali sei ore dedicate allo studio dell’argomento e tre ore destinate alle relazioni e alle verifiche finali.

    La classe è stata divisa in sei gruppi di lavoro composti da quattro o cinque studenti ciascuno. Nella prima parte del modulo (le prime sei ore) ho sottoposto agli studenti una serie di testi della lunghezza di una pagina/una pagina e mezzo, seguiti da alcune domande. Gli studenti dovevano leggere e discutere questi testi, rispondere alle domande nell’ambito del loro gruppo e poi riferire brevemente le loro conclusioni al resto della classe.

    Successivamente ho assegnato ulteriori testi da leggere a casa per approfondire vari aspetti dell’argomento. I gruppi avevano un mese di tempo per riesaminare e ridiscutere tutti i testi e per preparare una relazione scritta nella quale dovevano sostenere una propria tesi, argomentandola in modo adeguato. Il modulo si è concluso con la presentazione orale delle sei relazioni, seguita da una verifica scritta finale di tipo individuale (questa fase conclusiva ha occupato le ultime tre ore del modulo).

    Un aspetto importante della preparazione dell’attività didattica è stato quello relativo alla predisposizione dei testi da sottoporre agli studenti. Occorrevano infatti dei testi non troppo lunghi o complessi, ma allo stesso tempo dotati di un livello di articolazione e di approfondimento sufficiente a porre le basi per un confronto tra punti di vista differenti e adeguatamente motivati. Sottolineo questo aspetto perché ho l’impressione che la difficoltà di reperire o elaborare testi e materiali didattici adeguati sia uno dei principali ostacoli allo sviluppo di una pratica didattica alternativa al modello di stampo tradizionale.

    Mi soffermerò ora sulle principali tematiche affrontate nel modulo e su alcuni dei testi proposti agli studenti.

     

    2.    Due opposte tesi storiografiche

     Nella prima parte del modulo ho proposto anzitutto agli studenti le due opposte tesi di Eric Hobsbawm e di Margaret MacMillan riguardo alla questione se la Grande guerra poteva o no essere evitata. Eric Hobsbawm nel suo classico studio sulla “età degli imperi” affermò che i contrasti tra le potenze europee, derivanti dallo sviluppo del capitalismo e dall’espansione coloniale e imperialistica, avrebbero inevitabilmente prodotto, prima o poi, una guerra generale. Margaret MacMillan, nel suo recente libro intitolato The War that Ended Peace, ha invece affermato che la Grande guerra poteva essere evitata. Laddove Hobsbawm aveva posto l’accento sui processi storici di lungo e medio periodo, la MacMillan pone l’accento sulle scelte individuali, sulla cattiva qualità degli statisti che si trovarono a capo delle principali potenze europee e sul ruolo svolto da alcuni eventi che potremmo definire “casuali”5.

    Date le caratteristiche e la complessità dei due libri, non era possibile estrarre da essi dei brani che contenessero sia la tesi fondamentale dello storico, sia le argomentazioni addotte per sostenerla.

    Hobsbawm sviluppa il suo lungo e complesso ragionamento circa le origini della Prima guerra mondiale nelle quasi trenta pagine del cap. XIII dell’Età degli imperi6 . E’ stato indispensabile effettuare una sintesi di questa parte del suo libro.

    La Macmillan afferma subito con chiarezza che la Grande guerra non era inevitabile7 , ma le “prove” a sostegno di questa tesi sono sparse per l’intero suo volume, lungo circa settecento pagine. In questo caso ho preferito prendere come testo di base quello di una conferenza tenuta dalla MacMillan a Sarajevo il 27 giugno 2014 sul tema Was World War I Inevitable? e farne un breve riassunto8 .    

                                           

    Ho presentato quindi agli studenti le due opposte tesi storiografiche in un unico testo di circa trenta righe. Dopo un primo esame gli studenti si sono quasi tutti schierati a favore della tesi di Hobsbawm. Questa uniformità di giudizi mi ha lasciato alquanto perplesso e ho ipotizzato che essa fosse dovuta al fatto che la tesi di Hobsbawm faceva riferimento a fatti già noti agli studenti, come lo sviluppo del sistema capitalistico, il colonialismo, l’imperialismo; mentre la MacMillan rinviava a fatti non altrettanto noti, come ad esempio lo sviluppo di varie associazioni e movimenti di orientamento “pacifista” nel periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo.

    Ho deciso perciò di presentare la tesi della MacMillan in un secondo testo più dettagliato; a questo punto diversi studenti hanno cambiato opinione, motivando questa decisione con il fatto che la tesi della storica canadese non era risultata del tutto chiara dopo la lettura del primo testo. Questo episodio mi ha fatto comprendere un fatto importante: quando si vuole sollecitare una presa di posizione degli studenti su tesi contrapposte, è necessario che esse siano presentate non soltanto in modo equilibrato, ma anche tenendo conto delle conoscenze già in possesso degli studenti.

     

    3.    Il ruolo del “caso” nella storia: un colpo di pistola ha cambiato la storia del mondo?

     La MacMillan richiama l’attenzione sul ruolo svolto dal “caso” nella lunga catena di eventi che condussero alla Prima guerra mondiale9 . Ho deciso allora di affrontare più direttamente il tema della apparente casualità di molti eventi storici, a partire da una narrazione molto dettagliata degli avvenimenti della giornata del 28 giugno 1914 a Sarajevo, culminati nell’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono austro-ungarico, e di sua moglie Sofia.

    Tutti sappiamo che l’attentato ai danni dell’arciduca stava per fallire e andò a segno, alla fine, soltanto per il concorso di una serie di circostanze apparentemente fortuite.

    I fatti sono noti, ma li riassumo brevemente. Nel giugno del 1914 un gruppo di nazionalisti serbi, informati della decisione dell’arciduca Francesco Ferdinando di visitare la Bosnia, provincia annessa all’Impero austro-ungarico nel 1908, aveva preparato un attentato per uccidere l’erede asburgico. Nonostante l’evidente pericolo al quale l’arciduca si stava per esporre, ben poche misure furono prese per garantire la sua incolumità. La sua visita ufficiale a Sarajevo avvenne, come previsto, il 28 giugno.

     
    L’attentato di Sarajevo nel disegno di Achille Beltrame per la copertina della «Domenica del Corriere» del 5 luglio 1914.

    La mattina di quel giorno ben sette giovani terroristi serbo-bosniaci erano appostati nel centro di Sarajevo sul lungofiume Appel, dove il corteo di auto nel quale viaggiava Francesco Ferdinando doveva transitare prima di arrivare al municipio. Il primo terrorista ad entrare in azione fu Čabrinović che lanciò una bomba in direzione dell’autovettura scoperta sulla quale sedevano l’arciduca e la moglie, ma mancò il bersaglio e l’ordigno esplose sotto la vettura che seguiva, ferendo diverse persone. Mentre gli altri terroristi si dileguavano, Francesco Ferdinando proseguì il suo viaggio fino al palazzo del municipio dove ci fu una breve cerimonia. In seguito l’arciduca espresse il desiderio di recarsi in ospedale per visitare i feriti. Il corteo di auto ripercorse a ritroso il lungofiume Appel, ma l’autista che guidava il corteo, non essendo stato informato del nuovo programma, sbagliò strada girando a destra in via Francesco Giuseppe, dove si era nel frattempo appostato Gavrilo Princip. Le auto si fermarono per tornare indietro e Princip poté allora facilmente avvicinarsi all’auto dell’arciduca e uccidere lui e la moglie Sofia con due colpi di pistola esplosi da distanza ravvicinata10

    Per il racconto di questi eventi mi sono servito di un video in lingua inglese abbastanza ben fatto, tratto da una canale di “YouTube” dedicato alla Grande guerra11 . Ho proposto agli studenti la visione di questo filmato e la lettura della trascrizione del testo audio. Ho chiesto quindi agli studenti di immaginare se la Prima guerra mondiale sarebbe ugualmente scoppiata qualora l’attentato fosse fallito. La domanda non è nuova, ovviamente. In un dibattito sulla rivista on-line “Caffè Europa”, Giovanni Sabbatucci si è spinto fino alla seguente affermazione:
    «Se mentre Gavrilo Princip, l’attentatore di Sarajevo, puntava la pistola contro l’arciduca Francesco Ferdinando, una mosca fosse passata davanti al suo naso e gli avesse fatto sbagliare mira, sono assolutamente convinto che la storia del mondo sarebbe cambiata»12 .

    Avendo più tempo a disposizione, la prospettiva controfattuale avrebbe potuto essere ampliata fino a domandarsi che cosa sarebbe accaduto in Europa e nel mondo se la Grande guerra non fosse mai scoppiata.

    Ho preferito invece partire dall’attentato di Sarajevo per sollecitare gli studenti ad una riflessione di tipo filosofico sul concetto di “caso”: il “caso” esiste davvero oppure ciò che noi chiamiamo “caso” è soltanto il continuo incrociarsi, inevitabile ma impossibile da ricostruire interamente, di diverse sequenze o catene di eventi indipendenti l’una dall’altra?13

     

    4.    Determinismo, libertà, caso

     A questo punto abbiamo abbandonato del tutto l’indagine storica e ci siamo concentrati sulla riflessione filosofica. La discussione sulla inevitabilità o meno della Grande guerra evoca infatti non soltanto il tema del “caso”, ma anche quelli, ad esso correlati, del determinismo, nelle sue varie sfaccettature, e della libertà dell’uomo, ovvero del “libero arbitrio”. Sono temi attorno ai quali i filosofi hanno dibattuto fin dall’antichità e sui quali continuano a discutere ancora oggi.

    Stimolato anche dai materiali che avevo trovato sul web14 , ho pensato di proporre agli studenti, in forma sintetica, le principali posizioni presenti nel dibattito filosofico contemporaneo sul tema del libero arbitrio. Esse si possono riassumere nello schema seguente:
        
     

    In breve, il determinismo radicale afferma che essendovi un unico possibile corso di eventi gli uomini non sono liberi; il compatibilismo sostiene al contrario che determinismo e libertà non sono in contraddizione tra loro; per l’incompatibilismo radicale non solo il determinismo, ma anche l’indeterminismo rende impossibile la libertà; mentre il libertarismo afferma, al contrario, che proprio perché la realtà non è interamente soggetta a leggi di tipo deterministico, la libertà è possibile, almeno per l’uomo15.

    I testi che avevo trovato su internet erano troppo lunghi e complessi, oppure erano in lingua italiana16.  Ho deciso allora di utilizzare il testo presente sull’edizione di Wikipedia in lingua inglese alla voce Free Will17.  Anche in questo caso gli studenti, dopo aver letto il testo, dovevano rispondere ad alcune domande: non soltanto dovevano dire quale di queste quattro dottrine filosofiche sembrava a loro più plausibile, ma anche suggerire quale fosse l’atteggiamento più corretto da assumere per uno storico su questa questione, che ha carattere eminentemente filosofico, ma presenta anche evidenti implicazioni per la valutazione delle decisioni e delle scelte dei grandi protagonisti della storia.

    Lo svolgimento di questa parte del modulo è stato abbastanza problematico. I concetti filosofici implicati nel dibattito sul libero arbitrio nella filosofia contemporanea sono abbastanza complessi, a volte oscuri, e a ciò si aggiungeva la difficoltà di doverli trattare in lingua inglese; inoltre il testo di Wikipedia è in alcune parti poco chiaro e ha richiesto ulteriori spiegazioni da parte mia. Penso tuttavia che gli studenti abbiano tratto beneficio dall’aver affrontato il tema delle cause della Grande guerra in una prospettiva filosofica e sono convinto che questo approccio interdisciplinare potrebbe essere ulteriormente sviluppato attraverso un percorso didattico di respiro più ampio, basato su testi adeguati rispetto alle competenze linguistiche e all’attrezzatura mentale di uno studente di Liceo.

     

    5.    Conclusioni

     In generale gli studenti hanno partecipato all’attività didattica con notevole interesse e ci sono state discussioni abbastanza accese all’interno dei gruppi. Le relazioni finali hanno mostrato che la classe si è spaccata grosso modo a metà tra le due opposte tesi di Hobsbawm e della MacMillan, con divisioni anche interne ad alcuni dei gruppi. Tutti i gruppi hanno argomentato le proprie tesi in modo abbastanza articolato e tre su sei hanno fatto riferimento non soltanto alle tesi storiografiche esaminate, ma anche al dibattito filosofico contemporaneo.

    Anche se il mio giudizio su questa esperienza è nell’insieme positivo, non voglio nascondere le criticità che da essa sono emerse: per gli studenti la difficoltà maggiore è stata quella di dover affrontare in lingua inglese un argomento molto complesso; per me quella di organizzare, gestire e infine valutare il lavoro dei gruppi; anche la valutazione finale dei risultati raggiunti dai singoli studenti si è rivelata alquanto problematica, per la difficoltà di distinguere quanto era frutto di una elaborazione personale da quanto proveniva invece dal lavoro del gruppo. Intendo comunque riproporre di nuovo il modulo che ho illustrato, ma al di fuori del CLIL e facendo tesoro dell’esperienza già fatta.   

    *(Liceo Scientifico Statale “Nomentano”, Roma)

     

    NOTE

    1Questo articolo è un ampliamento della relazione presentata al convegno della SISSCO (Società italiana per lo studio della storia contemporanea) sul tema Insegnare la storia ai millennials, svoltosi a Roma il 27 gennaio 2017.
     2Sul CLIL (Content and Language Integrated Learning) esiste una abbondante letteratura, sia cartacea sia on-line. Chi voglia approfondire l’argomento può partire dai siti istituzionali del MIUR e dell’INDIRE  . Su “Historia ludens” si può leggere l’articolodi PAOLO CECCOLI, I dolori del professore CLIL.
     3 LUIGI CAJANI, Le origini della Prima guerra mondiale e la didattica della storia controfattuale, in “Didactica historica”, I (2015), pp. 45-50.
     4Sulla storia controfattuale e la sua rilevanza per la didattica si può leggere su questo stesso sito l’articolo di ANTONIO BRUSA, E se Alessandro avesse combattuto contro i Romani? Problemi teorici e pratici di didattica controfattuale.
     5ERIC J. HOBSBAWM, L’Età degli imperi 1875-1914, Roma-Bari, Laterza, 1987 (ed. orig.: The Age of Empire, 19872); MARGARET MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, Milano, Rizzoli, 2013 (ed. orig.: The War that Ended Peace: the Road to 1914, 2013).
     6HOSBAWM, L’Età degli imperi, cit., pp. 345-373.
     7MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, cit., p. 21.
     8La conferenza si può ascoltare su YouTube. Sempre sullo stesso tema la MacMillan ha curato una pagina del sito della BBC, intitolata How close did the world come to peace in 1914? . Quest’ultimo testo è abbastanza semplice ed è quindi accessibile anche agli studenti del quinto anno del Liceo.
     9Che cosa sarebbe successo – si chiede ad esempio la MacMillan - se il figlio e successore dell’imperatore tedesco Guglielmo I, Federico III, di orientamento liberale, non fosse morto di cancro nel 1888 e avesse regnato sulla Germania per i successivi vent’anni? La Grande guerra sarebbe scoppiata ugualmente, se nel 1914 alla guida dell’Impero tedesco vi fossero stati uomini della tempra di un Bismarck? Come sarebbero andate le cose, se non fossero usciti di scena in modo abbastanza fortuito uomini come il ministro degli Esteri tedesco Kiderlen, il ministro delle Finanze francese Caillaux, il monaco Rasputin, o lo stesso Francesco Ferdinando? Tutti uomini che avrebbe potuto dare un valido contributo al mantenimento della pace, se fossero stati ancora presenti sulla scena politica nell’estate del 1914, o nei mesi ed anni successivi. Cfr. MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, cit., pp. 107, 615, 627, 645.
     10Cfr. MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, cit., pp. 607-614.  Un resoconto molto più dettagliato sia dei preparativi e dei retroscena dell’attentato, sia degli eventi del 28 giugno 1914, si può leggere in CHRISTOPHER CLARK, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 54-71, 401-410 (ed. orig.: The Sleepwalkers. How Europe Went to War in 1914, 2012).
     11Si tratta del video di INDY NEIDELL intitolato A Shot that Changed the World tratto dal canale The Great War.
     12SIMONA COLARIZI, GIOVANNI DE LUNA, GIOVANNI SABBATUCCI, NICOLA TRANFAGLIA, Forum/Il nostro "posto al sole" sotto Hitler, in “Caffè Europa”, n. 124, 10 marzo 2001 . Il testo è citato in CAJANI, Le origini della Prima guerra mondiale, cit., p. 48.
     13Gli studenti dovevano approfondire questo tema sulla voce Caso del Dizionario di filosofia on-line della Treccani.
     14Cfr. ad esempio le seguenti due voci della Stanford Encyclopedia of Philosophy: Compatibilism a cura di MICHAEL MCKENNA e di D. JUSTIN COATES, e Free Will a cura di TIMOTHY O'CONNOR; oppure la voceLibertà e determinismo, a cura di MARIO DE CARO, nella Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007).
     15Un buon punto di partenza per i docenti che vogliano affrontare questo tema è MARIO DE CARO, Il libero arbitrio. Una introduzione, Roma-Bari, Laterza, 2004.
     16Vedi la nota 14.
     17Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Free_will. Più esattamente ho utilizzato la parte introduttiva di questo articolo.

  • La risposta di una Comunità di valle di fronte alla peste.

    Autore: Francesco Antonio Bernardi

    Un laboratorio didattico sulla pestilenza del 1571 in Val di Fassa

    Una piccola premessa

    Si tratta di un piccolo percorso interdisciplinare della durata complessiva di tre tempi-scuola da 50 minuti ciascuno, che è stato proposto agli alunni delle classi 2aC e 2aD della Scuola secondaria di primo grado di Pozza di Fassa, facente parte della Scola Ladina de Fascia°.

    Il materiale e gli spazi utilizzati

    Per realizzare il progetto sono stati utilizzati i seguenti materiali:

    •    la copia di una carta geografica storica della Val di Fassa, realizzata nel 17521 ;
    •    una presentazione realizzata con il programma PowerPoint sulla storia istituzionale della Val di Fassa e della sua Comunità (alla quale si accennerà più avanti);
    •   la trascrizione di un documento relativo alla pestilenza del 1571, in versione semplificata per poter essere compresa meglio dagli alunni. Il documento originale è conservato a Trento; la sua trascrizione integrale, invece, è consultabile in un volume curato dallo storico locale Padre Frumenzio Ghetta2 (1920-2014) . Questo documento offre un esempio perfetto di come si affrontassero a quei tempi le epidemie che flagellavano periodicamente gli uomini o il bestiame, ed evidenzia come le misure preventive e i provvedimenti sanitari si accompagnassero sempre alle pratiche religiose, in un’epoca nella quale la scienza moderna muoveva i primi passi.

    Per quel che concerne gli spazi, invece, tutte le attività sono state svolte in aula, essendo sufficiente il semplice supporto di un pc e di una LIM.

    I prerequisiti

    In primo luogo gli alunni devono conoscere il concetto di fonte, le sue tipologie e i suoi possibili usi;devono quindi essere capaci di ricavare informazioni valide dal libro di testo, dalle carte storico-geografiche e dalle diverse tipologie di fontiche gli vengono proposte, utilizzando il metodo storico; devono poi saper produrre rappresentazioni sintetiche degli argomenti studiati; infine, ultimo ma non meno importante, devono essere in grado di esporre correttamente le conoscenze acquisite, in forma sia orale che scritta.

    I traguardi per lo sviluppo delle competenze

    Il progetto è stato ideato tenendo conto di alcune delle competenze che gli studenti do-vrebbero possedere al termine del primo ciclo d’istruzione, secondo quanto stabilito dalle Linee guida provinciali entrate in vigore nel 2012. In primo luogo, utilizzare i procedimenti tipici del metodo storiografico e il lavoro sulle fonti per compiere semplici operazioni di ricerca storica, con particolare attenzione all’ambito locale. Quindi, riconoscere le componenti che costituiscono le società organizzate (economia, società, politica, istituzioni e cultura), e comprendere che esse sono interdipendenti; in terzo luogo, comprendere e saper contestualizzare fenomeni relativi al passato e al presente, nello spazio e nel tempo, cogliendone le relazioni di causa e le interrelazioni. E ancora, effettuare confronti tra le varie modalità con cui gli uomini, nel corso del tempo, hanno dato una risposta ai loro bisogni e problemi, comprendendo in che modo essi abbiano costituito organizzazioni socio-politiche diverse tra loro e rilevando permanenze e mutamenti nel processo storico. Infine, saper utilizzare le conoscenze e le abilità acquisite per orientarsi nel mondo contemporaneo, comprendendone i problemi fondamentali e sviluppando un atteggiamento critico e consapevole3 .

    Gli obiettivi di apprendimento

    Innanzitutto, conoscere le procedure e le tecniche di lavoro in uso nelle biblioteche e negli archivi storici; quindi, usare fonti di tipo diverso (documentarie, iconografiche, materiali, narrative, orali ecc.) per produrre conoscenze sul tema prescelto; in terzo luogo, collocare la storia locale nel contesto della storia italiana ed europea nel periodo considerato; quindi, formulare e verificare ipotesi sulla base di informazioni raccolte e conoscenze elaborate. E ancora: utilizzare le conoscenze apprese per comprendere problemi ecologici, interculturali e di convivenza civile;selezionare e organizzare le informazioni con mappe concettuali, schemi e tabelle; produrre un testo utilizzando le conoscenze selezionate da fonti d’informazione diverse, manualistiche e non, cartacee e digitali; infine, argomentare sulle conoscenze e sui concetti appresi usando il linguaggio specifico della disciplina4 .

    La declinazione in indicatori di competenza5

    I collegamenti interdisciplinari   
    Per quanto riguarda l’Italiano, si è lavorato sulla necessità di esprimere correttamente i contenuti appresi durante il laboratorio, in modo tale da poter produrre e organizzare informazioni utilizzando il lessico specifico. Quest’abilità è stata verificata tramite la produzione di un testo scritto (come si spiegherà tra poco), ma può essere rafforzata dall’analisi di ulteriori fonti documentarie relative al periodo storico esaminato, come anche dalla lettura di brani tratti da opere letterarie. A questo proposito si evidenzia che il Prof. Parzian, nei giorni in cui si è svolto il progetto, stava introducendo e spiegando le caratteristiche del dialogo. Si è pensato perciò d’individuare uno stralcio tratto daI ll re di Girgenti, romanzo storico di Andrea Camilleri: più precisamente si tratta del dialogo tra Zosimo, il protagonista (che, in disaccordo con la medicina ufficiale del tempo, ha intuito che il morbo si diffonde tramite contagio) e il vescovo di Girgenti, sulle cause della peste e sulle possibili contromisure6. Il brano non è stato analizzato in classe per mancanza di tempo, ma può essere tranquillamente utilizzato in un secondo momento per approfondire le conoscenze degli alunni. Per quel che concerne la Geografia, invece, la localizzazione dell’area geografica interessata - facilitata e incentivata dall’uso della carta storica della valle - ha permesso ai ragazzi di far fruttare la loro conoscenza delle caratteristiche fisiche, politiche ed economiche della Val di Fassa nei secoli scorsi. In questo modo, tra l’altro, gli alunni hanno potuto arricchire e/o riorganizzare in modo significativo le proprie “carte mentali”.

    Le competenze chiave di cittadinanza

    Le competenze individuate durante la stesura del progetto, ben note, sono le seguenti:

    •    Imparare ad imparare;
    •    Individuare collegamenti e relazioni;
    •    Acquisire ed interpretare l’informazione;
    •    Comunicare;
    •    Collaborare e partecipare.

     

    L’articolazione del laboratorio didattico
    Le attività del laboratorio sono state articolate nel modo che segue:

    Primo tempo-studio

    •    Prima fase (35 minuti):sono state fornite ai ragazzi alcune brevi notizie sull’organizzazione politica e amministrativa della Val di Fassa nel XVI secolo, nonché sulle caratteristiche dei centri abitati, con l’aiuto di una piccola presentazione in PowerPoint. Gli alunni, in questo modo, hanno appreso che la Comunità di Fassa, nata nel 1264, dipendeva dal Principato vescovile di Bressanone ma godeva di una certa autonomia. Fino al 1796 essa, pur avendo un potere limitato di fronte al principe-vescovo e alla dinastia degli Asburgo d’Austria, difese gelosamente le proprie leggi e consuetudini, e rivendicò il diritto di amministrare la giustizia. La Comunità era formata da sette “Regole” abitate da contadini-pastori (Pozza, Soraga, Canazei, Vigo, Campitello, Pera e Mazzin-Fontanazzo), che eleggevano annualmente i propri rappresentanti da inviare alle riunioni ufficiali. I sette rappresentanti, a loro volta, nominavano due procuratori incaricati di amministrare i conti della Comunità, che duravano in carica un anno. I documenti redatti erano stilati e conservati da uno scrivano appositamente incaricato. Si ricorderà infine che nel 1803, dopo la conquista napoleonica, il principato vescovile di Bressanone fu definitivamente soppresso e anche la storia plurisecolare della Comunità giunse al termine.

    Fig. 1: le caratteristiche dei centri abitati della valle


    Fig. 2: le sette Regole che costituivano la Comunità di Fassa.


    •    Seconda fase (15 minuti):in entrambe le classi gli alunni sono stati divisi in sette gruppi di lavoro, per riprodurrel’organizzazione politico-amministrativa della Comunità in Regole. Ciascun gruppo ha scelto il proprio rappresentante, che si è calato nei panni del proprio “antenato” citato nel documento selezionato. Quest’accorgimento ha rappresentato il primo “contatto diretto” con la fonte storica e ha consentito ai ragazzi d’immergersi in una sorta di roleplaying.

     

    Secondo tempo-studio

    •    Prima fase (20 minuti): gli alunni sono stati chiamati a rispondere al seguente problema: Nell’anno del Signore 1571 la peste minaccia la Val di Fassa. Cosa si può fare per proteggerla? I sette gruppi si sono serviti della carta geografica storica della valle e, facendo riferimento anche a contenuti econoscenze apprese dal libro di testo e dalle spiegazioni in aula, hanno cercato d’individuare le soluzioni più ade-guate, utilizzando la strategia didattica del cooperative learning.

    Fig. 3: J. DE SPERGS, Tyrolis pars meridionalis cum Episcopatu Tridentino, Vienna 1762. Edita in Su la sèides de l'Impèr: chèrtes e mapes de Fasha. Sec. XVI-XVIII, a cura di Mario Infelise e Fabio Chiocchetti, Vigo di Fassa 1986, p. 39.


    Quest’attività, naturalmente, ha consentito di verificare alcune abilità significative: gli alunni, infatti, hanno dovuto dimostrare di sapersi confrontare e di cooperare per sviluppare una strategia valida e motivata. Noi insegnanti, da parte nostra, in questa fase siamo intervenuti in modo discreto, principalmente per garantire il rispetto dell’ordine e del silenzio, verificando che ciascun componente del gruppo avesse la possibilità di esprimere le proprie idee rispettando il proprio turno. Al termine di questa fase di confronto e discussione, ciascun gruppo ha stilato una lista di cinque proposte, affidata poi al rispettivo rappresentante.

    •    Seconda fase (30 minuti): al termine della prima fase di lavoro, i rappresentanti delle sette Regole - autorizzati a prendere la parola a nome di tutto il gruppo - sono stati invitati a parlare. È iniziato così un acceso dibattito che ha avuto l’obiettivo d’individuare soluzioni condivise, votandole a maggioranza.
     

    Fig. 4: il verbale stilato dai rappresentanti delle sette Regole


    Al termine della discussione è stato redatto un documento finale in forma scritta, recante la stessa data di quello originale (26 novembre 1571), nel quale sono state elencate le cinque proposte che hanno ottenuto i maggiori consensi. Questa fase si è rivelata particolarmente interessante, perché ha permesso agli alunni di esaminare gli elementi caratteristici della struttura di un verbale (la data topica e cronica, l’indicazione dell’ordine del giorno, l’elenco dei partecipanti, il nome dei funzionari e/o degli ufficiali che la presiedono, l’elenco delle decisioni adottate).

     

    Terzo tempo-studio

    •    Fase unica(50 minuti): gli alunni hanno confrontato il documento finale prodotto da loro con quello originale, evidenziando similitudini e differenze: in questo modo i ragazzi hanno potuto prendere coscienza delle scelte effettuate dai loro antenati, giustificandole e motivandole adeguatamente. Nell’analisi della fonte ci siamo ispirati liberamente alla “grammatica dei documenti” proposta da Antonio Brusa7 . Nel caso in cui si voglia riproporre questo laboratorio, la raccomandazione per il corretto svolgimento di quest’ultima fase è che gli alunni siano stati attenti e pienamente partecipi a tutte le attività svolte in precedenza. Il confronto tra i due documenti, in effetti, può essere inteso anche come momento di debriefing, durante il quale i ragazzi possono ripensare le loro strategie di gioco ed evidenziare agli insegnanti gli elementi che hanno colpito maggiormente la loro attenzione. Tutto ciò, d’altra parte, consente ai docenti di chiarire i concetti più difficili tra quelli esposti a lezione.


    La risposta degli alunni al laboratorio

    Ci sembra opportuno sottolineare il pieno coinvolgimento di tutti gli alunni e l’attenzione mostrata anche da parte di coloro che normalmente si dimostrano meno interessati allo studio della Storia: se è vero che la validità di un laboratorio di questo genere si coglie an-che dalla motivazione e dalla serietà con cui gli studenti vi partecipano, allora si può dire che il risultato sia stato ampiamente soddisfacente. Ci preme evidenziare soprattutto il contributo attivo offerto dagli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento, che è stato davvero confortante e stimolante.A conclusione di questo piccolo resoconto, allego la tra-scrizione del documento e la scheda di lavoro per l’analisi di quest’ultimo.


    La trascrizione del documento preso in esame

    26 novembre 1571, Vigo di Fassa

    Il dì 26 novembre dell’anno 1571.
    Davanti allo spettabile messer Battista Chaliar, vice-vicario in Fassa, sono stati inviati al-cuni uomini per ciascuna Regola, per discutere della devozione e delle messe in onore di Santa Giuliana. Lo stesso per andare in processione durante la settimana. Lo stesso per ben governare la peste che ha colpito Moena.

    •    Per Canazei, sono presenti ser Zan de Livan e ser Jori de Caterina e Cristoforo.

    •    Per Campitello, mastro Paolo fabbro, mastro Marino de Simone e ser Bastiano de Funé;
    •    Per Fontanaz e Mazzin, ser Gian Antonio de Lastei.
    •    Per Pera, ser Giovanni de Soial, ser Zan de Piaz e ser Bartolomeo de Piaz.
    •    Per Pozza, ser Gianbattista Barat, ser Valerio de Zilli e ser Giacomo Bres.
    •    Per Vigo, Gian Pruner, ser Tommaso da Tamion e ser Nicolò de Marel.
    •    Per Soraga, ser Giacomo del Cristina, ser Bartolomeo de Chrazuel e ser Giovanni de Pelegrin.

    Così è stato deciso da tutta la Comunità: in primo luogo, che le messe in onore di Santa Giuliana vengano celebrate per un anno intero, e con consiglio del Pievano si è deciso di farle celebrare da un solo sacerdote, pagandogli il denaro dovuto.

    Allo stesso modo, che si faccia un atto di devozione, andando il primo venerdì del mese a San Giacomo, l’altro venerdì a Santa Giuliana, il terzo a San Sebastiano. La comunità vada tutta insieme una volta al mese e con grande devozione.

    Allo stesso modo, circa le guardie, per timore del morbo, si è deciso di mettere due uomini per ogni luogo, e di fare il cambio delle guardie a mezzogiorno, e di nominare un Sorastant con il potere di arrestare e imprigionare chi non rispetta questi ordini, che sia in servizio giorno e notte e che venga pagato dalla comunità con la somma di 15 grossi.
    Allo stesso modo, tutti coloro che sono stati a Moena non devono andare davanti agli altri abitanti per quaranta giorni, pena la perdita della vita e dei loro beni.

     

    La scheda per l’analisi del documento

     

    A. Individuiamo il documento

    1.    Quando, dove e da chi è stato scritto il documento? (punti…/1)

    B. Interpretiamo il documento

    2.    Da quante “Regole” è formata la Comunità di Fassa? Quali sono? (punti…/1)
    3.    Perché alla riunione non sono presenti i rappresentanti di Moena8? (punti…/1)
    4.    Quali provvedimenti adotta la Comunità per scongiurare la pestilenza? (punti…/1)
    5.    A quali santi la Comunità chiede aiuto e protezione di fronte al pericolo? (punti…/1)

    C. Tiriamo le somme

    6.    Secondo te, gli uomini che vivevano nella Comunità di Fassa in quel tempo conoscevano le cause che scatenavano la peste? Sapevano come curarla? Motiva la tua risposta. (punti…/2)
    7.    In un breve testo (massimo 15 righe) esponi tutto ciò che hai imparato dall’analisi del documento proposto. (punti…/3)

     

    NOTE

    ° La Scuola primaria di I grado è composta da sei corsi, suddivisi tra i plessi di Pozza di Fassa, Moena e Canazei. Il percorso è stato ideato da me, in qualità di docente di Sostegno in servizio presso l’Istituto suddetto, con la collaborazione e l’aiuto della Prof.ssa Barbara Bonu e del Prof. Nicola Parzian, docenti rispettivamente di Storia e Geografia e di Italiano in entrambe le classi selezionate. Il laboratorio ha permesso di approfondire alcuni argomenti previsti dalla programmazione disciplinare di Storia e già svolti. L’attività, però, può essere proposta anche prima della lezione sui relativi contenuti: in questo caso, infatti, essa potrebbe esprimere pienamente il suo potenziale cognitivo, poiché costringerebbe gli alunni a confrontarsi con problemi non ancora affrontati. Ringrazio ancora una volta la Prof.ssa Bonu e il Prof. Parzian per la grande disponibilità e per l’amichevole collaborazione prestata, e il Prof. Christian Fontana, coordinatore della classe 2aC, per l’entusiasmo con cui ha accolto la proposta progettuale.

    1. La carta utilizzata è consultabile in Su la sèides de l'Impèr: chèrtes e mapes de Fasha. Sec. XVI-XVIII, a cura di Mario Infelise e Fabio Chiocchetti, Vigo di Fassa 1986, p. 39.

    2. FRUMENZIO GHETTA, Documenti per la storia della Comunità di Fassa. Sedute e delibere dei rappresentanti della Comunità di Fassa. 1550-1780,Vigo di Fassa 1998, p. 81.

    3. PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO, Piani di studio provinciali. Primo ciclo d’istruzione. Linee guida per l’elaborazione dei Piani di studio delle istituzioni scolastiche, 2010, p. 32-33. Le Linee guida, entrate ufficialmente in vigore nel 2012, sono consultabili online. Per quel che concerne il resto d’Italia, invece, si rimanda alle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, anno LXXXVIII (2012), numero speciale, p. 51-55, anch'esse consultabili online.Si veda inoltre Le nuove indicazioni per il curricolo verticale, a cura di Giancarlo Cerini, (I quaderni di “Rivista dell’Istruzione”, n. 4), Dogana (San Marino) 2014, p. 263-264.

    4.Indicazioni nazionali, p. 51-55.Tali indicazioni, peraltro, sono perfettamente armonizzabili con le tematiche proposte dalla legge provinciale trentina, che fanno leva sull’appartenenza a un territorio che presenta caratteristiche morfologiche e culturali specifiche e distintive (Linee guida, p. 27-29).
     Linee guida, 76-89.  

    5.ANDREA CAMILLERI, Il re di Girgenti, Palermo 2001. Il dialogo è riportato alle p. 249-253.

    6. La “grammatica delle fonti” è articolata in quattro fasi: la prima è la selezione dei documenti utili; la seconda è la loro interrogazione, al fine di ricavare le informazioni esplicite ed implicite; la terza è l’interpretazione, necessaria a capire che le informazioni presenti nei documenti sono direttamente collegate allo scopo dell’autore; la quarta, infine, è la scrittura, cioè la raccolta di tutte le informazioni rintracciate e la loro organizzazione in brevi testi corredati da note. Al proposito si veda IVO MATTOZZI, La didattica laboratoriale nella modularità del curricolo di storia, «I quaderni di Clio ’92», n. 4 (dicembre 2003), p. 41-54.

  • La rivoluzione simulata

    Autore: Salvatore Di Pasqua

    Siamo intervenuti già altre volte sul tema del gioco, della simulazione e della didattica empatica. Ora cominciano ad arrivare i resoconti di insegnanti. Questo giunge da una scuola superiore di Pordenone. Si tratta di un percorso misto, in parte tradizionale e in parte “innovativo” (metto le virgolette perché solo in Italia la didattica empatica è considerata ancora tale). I colleghi a cui l’esperienza piacerà, hanno qui tutti i  materiali per ripeterla. E per HL, sia pure con qualche giorno di ritardo, è un bel modo per ricordare la Révolution (HL).

     

    Indice 

    •    La proposta didattica
    •    Partiamo dalla lezione e dal manuale
    •    I materiali di approfondimento
    •    Letture
    •    Elenco di parole, di concetti e di frasi fornito ai ragazzi
    •    La fase operativa
    •    I lavori degli studenti
    •    Qualche breve considerazione
    •    Il riflesso sull’insegnante
    •    Sitografia


    La proposta didattica

    La difficoltà  di sviluppare curiosità e interesse per quanto è distante nel tempo e di recuperare di conseguenza una sensibilità per la dimensione storica, mi ha spinto a richiedere agli studenti di una  classe quarta1  di simulare un discorso ai tempi della  rivoluzione francese precisandone il contesto,  individuando  correttamente i riferimenti storici e ponendo attenzione non solo alla verosimiglianza della situazione ipotizzata ma anche a quella del lessico adoperato.  Lo studente autore dell’intervento doveva innanzitutto chiarire la propria posizione rispetto agli eventi:  se cioè intendeva assumere la parte di un rappresentante del Terzo stato durante la convocazione degli Stati generali, di un deputato girondino che discute della condanna a morte del re, oppure immaginare di essere Robespierre che si rivolge ai membri della Convenzione, o ancora interpretare una donna che pone all'Assemblea nazionale il problema dei diritti delle donne e delle cittadine, e così via. Quindi elaborare un discorso credibile e coerente  tanto nella prospettiva storica, quanto (come si è detto) sotto un profilo più strettamente retorico.


    Partiamo dalla lezione e dal manuale

    Il libro di testo in adozione (il secondo volume del Giardina, Sabbatucci, Vidotto, Laterza), unito alle mie spiegazioni, è stato il punto di partenza per fornire un quadro generale degli eventi, già orientato tuttavia al coinvolgimento “emotivo” degli allievi. In tal senso durante le lezioni sono stati accentuati nella loro natura  “drammatica”  (di fatti cioè che rappresentano per chi li vive dei veri e propri snodi in quanto pongono i protagonisti di fronte a scelte cruciali, cambiamenti risolutivi) alcuni avvenimenti che hanno preceduto e accompagnato la Rivoluzione francese: il senso di consapevole gravità con cui vengono preparati i Cahiers de doléances, la decisione del Terzo stato di autoproclamarsi Assemblea nazionale con il solenne giuramento di non sciogliersi fino a quando la Francia non avesse avuto una costituzione, gli assalti – in più occasioni scomposti e feroci – del popolo parigino, la passione con cui i deputati  della Convenzione confrontano le loro posizioni, le reazioni alla fuga del re,  lo scontro tra  girondini e montagnardi,  il patriottismo dei volontari marsigliesi che entrano a Parigi cantando Allons enfants de la Patrie, le condanne a morte durante il periodo del terrore che coinvolgono  anche figure di rivoluzionari storici come Brissot, Hébert, Danton, la controversa, e insieme affascinante,  personalità  dell’incorruttibile Robespierre…

    In altre parole l’argomento “Rivoluzione francese” è stato presentato in modo tale da interrogare il vissuto degli allievi (la loro coscienza di giovani che si vanno formando) attraverso uno scambio passato-presente che si è sforzato di essere non un’indistinta sovrapposizione di fatti e giudizi, ma problematica ricerca di nessi,  possibilità di stabilire  un ponte tra uomini che appartengono a periodi, società, culture diversi.


    I materiali d’approfondimento

    Per raggiungere questo scopo i materiali di partenza sono stati integrati da vari documenti e fonti.
    Ho attinto le mie informazioni principalmente da altri manuali scolastici (Bertini, Lepre, Manzoni-Occhipinti, Guarracino…), ma anche da letture personali (Soboul, Lefebvre…) e da ricerche sul Web.

     

    Fino a questo momento si era trattato di svolgere  nel complesso un lavoro abbastanza tradizionale e di “routine”, che non si discostava molto, se non per il taglio e l’intenzione, da analoghe lezioni da me stesso tenute in altre classi e in altri anni: gli strumenti erano quelli che un qualsiasi insegnante di storia di solito adopera quando vuole approfondire un argomento. La consapevolezza di una  richiesta finale meno scontata (la costruzione autonoma di un discorso che  doveva diventare oggetto di verifica e di valutazione) mi ha spinto tuttavia a cercare anche  altri materiali che potessero essere d’aiuto agli studenti e a fornire nel contempo qualche modello per il loro lavoro.


    Letture

    In classe ho letto il testo della Marsigliese, frammenti di discorsi di Sieyès,  Robespierre, Saint-Just, Olimpe de Gouges (su quest’ultima ho anche fornito agli allievi informazioni particolareggiate sulla vita e le opere principali); ho commentato alcuni documenti che ritenevo essenziali per una conoscenza meno sommaria dell’argomento (i Cahiers de doléances della Parrocchia di Vollerague, della Comunità di Aigues-Vives, della Città di Beaucaire, della Siniscalchia di Nîmes; la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, quella del 24 giugno 1793, la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina di Olympe de Gouges del settembre 1791 e altro ancora); infine, per aiutare gli studenti a non allontanarsi troppo dal clima e dallo stile propri del periodo rivoluzionario, obiettivo abbastanza ambizioso se si pensa  che la richiesta era rivolta a giovani con limitate conoscenze del vocabolario settecentesco, ho predisposto un elenco di parole ed espressioni che ricorrevano con una certa frequenza in testi e documenti  prodotti da alcuni dei  principali artefici della rivoluzione francese. Per tale elenco mi sono servito soprattutto di un volume curato da Cesare Vetter il cui titolo è La felicità è un’idea nuova in Europa. Contributo al lessico della rivoluzione  francese (Trieste, 2005). In questo studio sono tra l’altro indicate in lingua francese  le liste di frequenza di  parole, nonché di lessie composte e complesse, che compaiono più frequentemente nelle opere di Robespierre, di  Marat e di Saint-Just.

    Je dis que, si le peuple ne se lève pas tout entier, la liberté est perdue (Maximilien Robespierre)


    Elenco di parole, di concetti e di frasi fornito ai ragazzi

     

    PAROLE
    Aristocrazia/Aristocratici /Nobili /Nobiltà
    Assemblea
    Bene
    Bisogno
    Cittadino/i
    Comitato
    Coraggio
    Cospiratori
    Costituzione
    Diritto/i
    Donna/e
    Eroe
    Fede
    Felicità
    Generale
    Giacobino/i
    Giustizia
    Governo
    Guerra
    Istituzione
    Legge/i
    Libertà/Libero
    Natura
    Nazione
    Nemico/i (della repubblica)
    Oppressione
    Ordine (inteso come “appartenenza a un ordine”)
    Passione/i
    Patriota/i
    Popolo
    Potere
    Proprietà
    Pubblico
    Ragione
    Rappresentanti
    Re/Sovrano
    Repubblica
    Rivoluzione
    Salute
    Società
    Tiranno/Tirannia
    Uguaglianza
    Umanità
    Utile
    Verità
    Virtù

     

    LESSIE COMPOSTE E COMPLESSE
    Amici della libertà
    Amore dell’umanità/della patria
    Bene comune/generale/pubblico
    Buon cittadino/i
    Cittadini virtuosi
    Diritto naturale/politico /di assemblea/ di petizione
    Felicità pubblica/dell’umanità/degli uomini/del popolo/della società
    Gloriosa rivoluzione
    Governo rivoluzionario
    Interesse generale/pubblico/della nazione
    Libertà di stampa/di culto/di opinione /individuale/pubblica
    Nemici della Libertà/del popolo/della repubblica/della rivoluzione
    Salute della patria/del popolo/pubblica
    Volontà generale

     

    FRASI  ESTRAPOLATE DA  DOCUMENTI E TESTI VARI
    Che cos'è il Terzo stato? Tutto. Che cosa è stato finora nell'ordinamento politico? Nulla. Che cosa chiede?

    Divenirvi  qualche cosa (E. J. Sieyès, Che cos'è il Terzo stato?, 1789).

    Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali possono essere fondate solo sull'utilità comune (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, Art. 1, 1789).

    La Donna nasce libera ed ha gli stessi diritti dell'uomo. Le distinzioni sociali possono essere fondate solo sull'utilità comune (Olympe de Gouges, Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, art. 1, 1791).

    Popolo, se il re sarà assolto, ricordati che noi non saremo più degni della tua fiducia e tu potrai accusarci di perfidia (L. A. de Saint-Just, 13 novembre 1792: Discorso alla Convenzione).

    I principali diritti dell’uomo sono di provvedere alla conservazione della propria esistenza e della propria libertà (M. Robespierre,  24 aprile 1793: Discorso alla Convenzione).

    L’uomo è nato per la felicità e per la libertà: e tuttavia egli è dappertutto schiavo ed infelice! (M. Robespierre, 10 maggio 1793: Discorso alla Convenzione).

    Un uomo che manca di virtù pubbliche non può avere delle virtù private (M. Robespierre, 9 luglio 1794: Discorso ai giacobini).

    Il bene pubblico, la felicità di tutti: ecco  l’unico oggetto del patriottismo; l’amore della giustizia e dell’uguaglianza:  ecco la sua passione (M. Robespierre, Considerazioni su una delle principali cause dei nostri mali, in «Le défenseur de la constitution», n. 3, 31 maggio 1792).

    Popolo di Francia! […] È giunto il momento di fondare la Repubblica degli Uguali, questo grande asilo aperto a tutti gli uomini (Manifesto degli Uguali, 1794).

    I nemici del popolo sono quelli che cercano di annientare la libertà pubblica, sia con la forza, sia con l’astuzia (Legge 22 pratile, art. 5, 10 giugno 1794).

    PEUPLE DE FRANCE !
    Pendant quinze siècles tu as vécu esclave, et par conséquent malheureux. Depuis six années tu respires à peine, dans l'attente de l'indépendance, du bonheur et de l'égalit

    (Sylvain Maréchal, Manifeste des Égaux)

     

    La fase operativa

    Conclusa tra novembre e dicembre questa fase (l’intero modulo “rivoluzione francese” è stato articolato in 10 ore di lezione; per dare maggiore continuità al lavoro, avendo solo due ore settimanali a disposizione per la storia, ho utilizzato anche alcune ore dell’altra materia che insegno in classe:  italiano), ho chiesto ai ragazzi di predisporre  il loro  discorso in forma scritta  come compito da svolgere durante la pausa natalizia. Eventuali difficoltà o richieste di chiarimento  mi potevano essere formulate  attraverso il contatto della posta elettronica.

    Al rientro dalle vacanze ho proceduto alla verifica dei lavori svolti; ho chiesto a ciascuno allievo di leggere il proprio discorso  curando il piano dell’oralità:  la lettura doveva essere accompagnata da un tono adatto alla situazione simulata e tradursi in un’oratoria che puntava a coinvolgere gli ascoltatori e a provocarne l’assenso. Per dare maggiore enfasi al discorso ho invitato i ragazzi a posizionarsi in piedi davanti alla cattedra assumendo un ruolo centrale nella classe mentre io sedevo tra i banchi.

    Alla lettura ha fatto seguito la mia valutazione “sommativa”  (un breve commento sul lavoro svolto che si è poi convertito  in un voto); quindi  ho chiesto agli studenti  “interrogati” di inviarmi il file del loro discorso per procedere a un’analisi meno legata a quelle esigenze più strettamente scolastiche cui è pur sempre tenuto un insegnante (la necessità di dare un voto alla singola prestazione di uno studente).  

     

    I lavori degli studenti

    L’osservazione più evidente che  ho  ricavato dalla lettura dei vari lavori è che gli studenti  “si erano calati in una parte”: essi avevano cioè scelto in base ai loro orientamenti emotivi, culturali e ideologici, anche forse senza esserne del tutto consapevoli. La condanna a morte di Luigi XVI ad esempio ha visto la classe  (molti studenti avevano scelto questo avvenimento come sfondo per costruire il loro discorso) divisa in due contrapposti schieramenti: i favorevoli alla condanna (la maggioranza) e coloro che, pur censurando il comportamento del re, avanzavano seri dubbi non tanto sulla moralità di questo atto quanto piuttosto sull’utilità e la sua coerenza con i principi illuministici e rivoluzionari.

    Le motivazioni di questo secondo gruppo di studenti risultano particolarmente interessanti per gli argomenti che introducono e l’individuazione dei punti critici della condanna a morte.
    Assumendo la parte di un parlamentare girondino che  si rivolge alla Convenzione durante il processo di Luigi XVI nel gennaio 1793,  uno studente della classe, Marco, così  difende il re:

    Cari cittadini nonché parlamentari francesi, sarò diretto, siamo tutti d’accordo su un punto: il nostro sovrano non è in grado di governare e reggere il nostro grande paese; questo lo abbiamo già appurato e abbiamo già approvato la sua destituzione dalla carica di re il settembre scorso. Il re ormai non ha più alcun potere decisionale su nulla; è un uomo come gli altri, come noi, e come tale ha dei diritti che sono il diritto alla conservazione della propria esistenza e la libertà, libertà peraltro già toltagli subito dopo un più che sospetto ritrovamento di documenti compromettenti nei suoi appartamenti nel palazzo delle Tuileries, che lo incriminano e dimostrano come sia in combutta coi sovrani di Prussia e Austria, nostri dichiarati nemici, per far invadere la Francia e riottenere così il suo potere.
    Ma questo è tutto da dimostrarsi perché chiunque avrebbe potuto mettere quei documenti nelle stanze del re e chiunque avrebbe potuto corrompere un inserviente del palazzo per nascondere lì i suddetti documenti, anche un membro di questo Parlamento che vorrebbe toglierlo di mezzo e che ne trarrebbe profitto.
    Signori, ora siamo dove siamo grazie a questa nostra rivoluzione e io vi dico che non avremmo potuto fare di meglio, perché ci ha permesso di affermarci come persone con diritti, come cittadini. E per questo quasi tutti gli stati europei ci hanno dichiarato guerra, ci vedono deboli, isolati e senza un unico punto di riferimento; se adesso mandassimo al patibolo l’ex sovrano gli stati nemici si accanirebbero con ancora più ferocia su di noi e comunque non ci mostreremmo tanto diversi da quei sovrani dispotici come tra l’altro lo era il nostro ultimo re: siamo sicuri che la sua morte sia utile alla nostra società? È nell’interesse generale uccidere brutalmente un uomo finito?
    Penso che la nostra patria non abbia bisogno di una giustizia simile e che anzi tale comportamento leda alla sua salute. La futura repubblica non dovrebbe basarsi sulla morte di un re ma sull’umanità di coloro che l’hanno fondata e che l’amministrano. Faccio richiesta a voi da parte di tutti i girondini di ascoltare la volontà generale del popolo francese perché riteniamo che una decisione di tale portata debba essere rimessa al popolo e non ai soli rappresentanti di esso in quest’aula2 .

      Luigi XVI davanti alla Convenzione per il processo


    Anche Andrea, che fa sua la posizione del leader dei girondini Jacques Pierre Brissot,  si appella al senso di responsabilità dei deputati della Convenzione invitandoli a riflettere, prima del loro voto, sulla complessità della decisione e sulle conseguenze  dell’atto che stanno per compiere:


    Colleghi deputati rappresentanti dei cittadini francesi, con la gloriosa rivoluzione, compiuta dal popolo grazie all’unione di vere passioni come giustizia e uguaglianza e comuni obiettivi come il bene pubblico e la felicità di tutti, lo Stato di Francia lascia a tutto il mondo in eredità gli ideali di libertà, affinché questi possano moltiplicare e alimentare le speranze che noi abbiamo generato.
    I principali diritti dell’uomo per i quali noi abbiamo lottato sono: il diritto alla conservazione della propria esistenza e la libertà.
    Per sostenere questi ideali noi dobbiamo dare un’immagine di cambiamento dimostrando allo stesso tempo di attenerci con coerenza a ciò che noi aspiravamo e che abbiamo conseguito.
    Nonostante tutti noi siamo a conoscenza della colpevolezza del nostro sovrano nell’essersi dimostrato privo di virtù pubbliche, traditore della patria e nemico della repubblica, della libertà, del popolo, della rivoluzione, annuncio che i girondini voteranno contro la condanna a morte del re Luigi XVI, non per salvare la vita del nostro sovrano ma per difendere l’immagine del nostro paese di fronte agli altri Stati.
    Come possiamo rinnegare i diritti per i quali ci siamo battuti?
    Che immagine di Stato rinnovato diamo al mondo se condanniamo a morte il nostro re?
    Io chiedo fortemente a tutti i rappresentanti dei cittadini di riflettere e di pensare all’interesse pubblico e alle conseguenze che potrebbero portare i nostri voti e spero che in futuro non ci dovremo pentire della strada seguita oggi3 .
      Les principaux droits de l'homme sont celui de pourvoir  à la conservation de son l'existence, et la liberté

     

    Non meno interessanti comunque risultano le posizioni (e le argomentazioni di supporto) degli allievi che invece optano per la condanna a morte del  re.
    Una studentessa, Anna, si chiede:

    Si può definire re colui che non pensa al bene e ai bisogni del suo popolo? Colui che ha cercato di mantenere ad ogni costo il suo potere, andando quindi contro le necessità dei cittadini? Ma ancora, si può definire re colui che non prende decisioni, che rimane passivo davanti agli eventi?
    Riflettete, dobbiamo dare pietà ad un uomo che si è dimostrato vile scappando da Parigi durante una fase delicata della nostra Nazione e che ha alimentato l’instabilità sociale e la situazione di confusione politica in cui ci troviamo?
    Come se non bastasse, ci ha incoraggiati a intraprendere una guerra contro gli austro-prussiani, una guerra nella quale Luigi XVI riponeva le sue segrete speranze per restaurare il suo potere assoluto.
    Siamo riusciti a vincere questa guerra grazie alle sole nostre forze e abbiamo sconfitto alla fine i nemici della Francia. Ora rimane una sola minaccia per la sopravvivenza di questa gloriosa rivoluzione: la figura del re.
    Come possiamo noi non condannare un uomo che con le sue azioni ha messo in pericolo tutti noi, ci ha esposti a gravi pericoli  non curandosi del bene comune, della sorte di uomini, donne, bambini della nostra amata Patria?
    E in conclusione, se voi tuttora dopo il mio discorso mi chiedete ancora: “Ma chi siamo noi per condannare a morte Luigi XVI?”. Bé, Signori, noi siamo il popolo, il popolo che si oppone alla tirannia del sovrano e che ora, per dimostrare la sua forza e potenza, ucciderà colui che è stato il simbolo dell’Assolutismo4 .

    Il 21 gennaio 1793 Luigi XVI viene ghigliottinato a Parigi in Piazza della Rivoluzione


    Qualche breve considerazione

    Anche se l’argomento “condanna a morte del re” è stato quello che ha finito per catturare l’interesse della maggior parte  degli allievi, non sono mancate scelte e orientamenti diversi. Qualcuno, come Giada o Martina, ha voluto rivendicare di fronte all’Assemblea nazionale del 1791 i diritti delle donne in nome di un più esteso (e meno sessista)  concetto di uguaglianza, qualche altro, come Nico, ha realizzato un discorso compatibile con quello tenuto da un rappresentante del Terzo stato nella sala della Pallacorda il 20 giugno 1789 e così via, in un alternarsi certamente limitato di varianti, che ha dato luogo comunque a un confronto interessante di idee e posizioni e, quel che più conta nel contesto “lezione di storia”, alla riproduzione di informazioni in una situazione diversa da quella più strettamente disciplinare, che diventavano dunque acquisizioni (competenze) trasversali capaci di trasmigrare in altri ambiti e di essere utilizzate in modo autonomo.

     

    Il riflesso sull’insegnante

    Il lavoro che ho proposto agli allievi della quarta B non è stato senza riflesso sulla mia attività di docente. Come ogni approfondimento in cui si dà spazio all’iniziativa degli studenti ho dovuto procedere alla veridicità dei loro apporti. Ciò non è stato sempre facile, per molteplici ragioni. Alle difficoltà strutturali o istituzionali che ogni insegnante ben conosce (tempo contingentato, incombenze burocratiche, esigenze del programma…) si sono aggiunte questioni legate alla conoscenza disciplinare. Ad esempio uno studente, ipotizzando di essere un rappresentante del Terzo stato che si rivolge all’Assemblea nazionale nella sala della Pallacorda, così inizia il suo discorso: “Noi deputati siamo cittadini francesi provenienti da…”.

    In casi come questo (abbastanza frequenti negli elaborati che gli allievi mi avevano consegnato) più che verificare una generica  preparazione occorreva  accertare qualcosa di più  specifico: il grado di attendibilità delle scelte lessicali rispetto a un preciso riferimento storico (i termini “deputati” e “cittadini”  in quel contesto erano plausibili?).

    Nel momento in cui l’insegnante  si avventura in un campo “incognito”  non può fare affidamento  solo sulle sue acquisizioni “pregresse”; deve essere pronto a un confronto meno scontato e più aperto, con gli studenti e con la disciplina. L’insegnante può così di fronte alla classe  dimostrare un’altra dote: ammettere i propri limiti riconoscendo che alcune conoscenze richiedono competenze particolari e specialistiche, e che nessuno può essere così bravo e preparato da saper trovare sempre una risposta. In situazioni di incertezza si può  anche prendere tempo per andare ad appurare la natura di una informazione, magari sottoponendo a un esperto i propri dubbi.  Una dose di umiltà e un clima di maggiore franchezza tra docente e allievi è il risultato, non strettamente disciplinare ma fondamentale per il clima in cui si determina l’apprendimento, che un lavoro come questo si porta dietro, oltre naturalmente a chiedersi come un determinato avvenimento sia potuto accadere.

     

    SITOGRAFIA

    La felicità è un’idea nuova in Europa. Contributo al lessico della Rivoluzione francese
    http://www.openstarts.units.it/xmlui/bitstream/handle/10077/8299/Vetter-I.pdf?sequence=1
    M. Robespierre, Esposizione dei miei principi, maggio 1792                
     http://www.giovanniarmillotta.it/metodo/robespierre02.htm  

    M.  Robespierre, Discorso alla Convenzione, 24 aprile 1793
     http://www.giovanniarmillotta.it/metodo/robespierre03.htm

    M.  Robespierre, Discorso alla Convenzione,  10 maggio 1793
     http://www.giovanniarmillotta.it/metodo/robespierre04.htm

    E. J. Sieyès, Che cos'è il Terzo stato?
    http://www.storiaestorici.it/index.asp?art=241

    Cahiers de doléances
    http://www.pbmstoria.it/unita/04474n-01cs2/percorsi/txt/0704.php

    Abolizione diritti feudali
    http://www.pbmstoria.it/unita/04474n-01cs2/percorsi/txt/0706.php  

    Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino 1789
    http://www.dircost.unito.it/cs/docs/francia1789.htm  

    Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino 1793
    http://www.dircost.unito.it/cs/docs/francia180.htm  

    Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina
    http://www.consiglieraparitaroma.it/public/files/De%20Gouges%20stralci%20della%20Dichiarazione%20dei%20diritti%20delle%20donne.pdf

    Olympe de Gouges. Le donne e la rivoluzione
    http://www2.units.it/compalit2011/NIEDDU.pdf

    Risposta al cittadino Robespierre di Olympe de Gouges
    http://www.universitadelledonne.it/olympe.htm

    Il manifesto degli Eguali
    http://digilander.libero.it/education/dati_box/STO_2/BABEUF.pdf

     

    NOTE

    [1] Si tratta della quarta B ad indirizzo afm (amministrazione, finanza, marketing) dell’Istituto tecnico del settore economico “Odorico Mattiussi” di Pordenone. Tengo a precisare che è una classe di studenti attenti, in genere interessati alle proposte dell’insegnante, attivi dal punto di vista dello studio e della partecipazione.

    [2] Intervento realizzato da Marco Magini.

    [3] Autore di questo discorso è Andrea Pezzot.

    [4] Questo discorso è stato proposto da Anna Magarotti.

     

  • La storia di Ovadia Baruch. Una testimonianza filmica della Shoah. Laboratorio didattico

    Autore: Mariangela Binetti

     

    Di Mariangela Binetti i lettori di HL conoscono già il suo report dal Seminario di formazione dello Yad Vashem, nel quale si spiega la metodologia didattica che vi viene insegnata. Da quell’esperienza Mariangela ha ricavato il laboratorio che qui riportiamo, che è stato presentato ai docenti durante il seminario Conoscere, pensare, insegnare la Shoah, che troverete sempre su HL. Questo articolo si compone di una breve presentazione e del materiale allegato, pronto per l’uso. (HL)

     

    Ci sono due esigenze, che mi hanno spinto a progettare questo laboratorio: la prima didattica e la seconda professionale.

    L’esigenza didattica risiede nel fatto che, avendo ereditato una quinta Liceo linguistico abituata all’apprendimento mnemonico della Storia,  ignara, quindi, dei fondamenti di metodologia storica, disabituata all’argomentazione e incapace di problematizzare un fatto storico, urgeva coniugare in maniera stringente il discorso metodologico con la trasmissione delle conoscenze storiche indispensabili ad affrontare gli esami conclusivi del ciclo scolastico superiore (in previsione ovviamente degli Esami di Stato). Cosa c’è di meglio dell’uso di una testimonianza filmica di un sopravvissuto ad Auschwitz come documento storico?

    L’esigenza professionale risiedeva nel fatto che dovessi presentare un’attività didattica sulla Shoah al follow up romano dell’aprile 2013, riservato ai docenti che avevano frequentato il  Seminario di formazione sulla Shoah presso lo Yad Vashem di Gerusalemme, nel periodo dal 31 agosto al 9 settembre 2012. Il seminario è stato organizzato dal M.I.U.R. e dall’International School for Holocaust Studies (ISHS) dello Yad Vashem, nell’ambito del ICHEIC Program for Holocaust Education in Europe (su questo seminario si veda l’articolo già pubblicato su HL).
    Al follow up romano hanno preso parte, oltre ai 18 docenti italiani coinvolti,  Anna Piperno, IT for Cooperation on Holocaust Education, Remembrance and Research  del M.I.U.R., con il suo staff, e Yiftach  Ashkenatzy, educatore presso l’ISHS dello Yad Vahem.
        
    Ecco dunque l’idea di trasformare un docufilm, donatomi dallo Yad Vashem, in un progetto didattico. Si tratta di  May your memory be love. The history of Ovadia Baruch. Questo docufilm fa parte del gruppo delle testimonianze filmiche Witness and Education,  nelle quali i sopravvissuti raccontano la storia della loro vita nei luoghi in cui gli eventi si sono consumati. I sopravvissuti sono accompagnati nel loro viaggio da esperti dell’ISHS che pongono loro domande orientate in senso didattico, in modo che la storia individuale del superstite scorra parallelamente alla Storia generale. (Lo troverete nel materiale allegato)

    Ovadia Baruch, il protagonista, ha 20 anni quando, nel marzo 1943, viene deportato con tutta la sua famiglia dalla Grecia ad Auschwitz-Birkenau. L’intera famiglia venne rapidamente mandata a morte nelle camere a gas, mentre Ovadia riuscì a sopravvivere fino alla liberazione del campo, nel maggio 1945. Durante la permanenza ad Auschwitz, Ovadia incontra Aliza Tzarfati, una giovane ebrea originaria della sua città natale. I due si innamorano, a dispetto delle condizioni inumane in cui vivono.  Il film documenta la loro storia d’amore e di sopravvivenza nel campo di Auschwitz, il loro miracoloso incontro dopo l’Olocausto e la famiglia che hanno creato in Israele.  

    La tecnica narrativa sottesa al docufilm, unitamente alle linee guida della cosiddetta Filosofia didattica dell’ISHS hanno consentito un aggancio ripetuto alla programmazione disciplinare, nei tempi e nei modi descritti nel materiali allegati.  La testimonianza filmica di un sopravvissuto alla realtà concentrazionaria  può essere usata in classe in due modi:
    1)    mostrare uno spezzone del filmato, quello che riteniamo più significativo al raggiungimento dei nostri obiettivi;

    2)    mostrare l’intero filmato e osservare il personaggio agire, muoversi e raccontarsi in spazi e tempi diversi, prima e dopo l’Olocausto.

    L’uso della testimonianza del sopravvissuto consente di lavorare con l’empatia, ed è un ottimo strumento per combattere gli stereotipi. La storia di Ovadia Baruch, ad esempio, insegna che nei campi di sterminio sono stati deportati anche gli ebrei non polacchi; che esisteva un’importante comunità ebraica mediterranea,  con un suo portato di tradizioni culturali; che non tutti gli ebrei erano ricchi e colti.

     

    Allegati:


    May Your Memory Be Love. The history of Ovadia Baruch

    Alcune sequenze reperite su Youtube.  

    1.    Education
    2.    At the Jewish Museum and Synagogue in Salonika
    3.    Arrival at Auschwitz
    4.    Working at an Auschwitz sub-camp
    5.    Ovadia and Aliza's First Meeting
    6.    Archives at Auschwitz-Birkenau
    7.    The Return to Life

     

    Documenti in PDF

    Mappa mentale della Shoah

    Schema dell'Unità didattica

    Sequenza didattica

    Scheda alunni

     

    Documenti in Power Point

    Yad Vashem

     

     

  • La tua Kitty

    Laboratorio di scrittura dedicato ad Anne Frank, per la Giornata della Memoria 2014

    Autore: Marco Cecalupo
         
    Introduzione
    Cara Kitty,... La tua Anne. Così tutti abbiamo letto milioni di volte nel libro Het Achterhuis (Il retrocasa), più noto come il Diario di Anna Frank. E se Kitty fossi tu? Da questa semplice consegna a studenti di seconda media in una scuola di Reggio Emilia, si sviluppa la partecipazione alla Giornata della Memoria 2014.

     
    Abstract
    La tua Kitty è un laboratorio di scrittura epistolare empatica, nel quale gli studenti di due classi di seconda media di una scuola di Reggio Emilia hanno simulato di ricevere una pseudolettera inviata da Anna Frank alla sua migliore amica immaginaria Kitty. Dopo aver assunto il ruolo di Kitty, gli studenti hanno scritto delle lettere di risposta ad Anna. Le lettere di risposta sono state esposte in una biblioteca pubblica di quartiere in occasione della giornata della memoria 2014. Sono stati realizzati anche dei segnalibro con estratti delle lettere.

     

    Il Laboratorio

     

    E se Kitty fossi io, oggi?
    Quest'anno le mie classi di terza media (3D e 3E della scuola DaVinci di Reggio Emilia) hanno partecipato alla giornata della memoria con un lavoro... dell'anno scorso; studiavamo le scritture private/pubbliche (lettere, diari, blog, chat, ecc...) e ci siamo imbattuti nel cosiddetto Diario di Anna Frank, un insieme di pseudo lettere (inviate appunto da Anne a Kitty, un'amica immaginaria) scritte, riscritte, riviste, corrette, censurate e infine pubblicate in un libro da un certo numero di persone (autrice, papà, amici di famiglia, curatori, editore, ecc.), che milioni di altre persone hanno letto in tutto il mondo; abbiamo allora provato uno dei tanti nostri esperimenti di scrittura, e ci siamo chiesti: "E se Kitty fossi io, oggi?". Allora ho dato agli alunni una pseudolettera di Anne ciascuno, con la seguente consegna: "Tu sei Kitty, oggi ti è arrivata questa lettera, rispondi" (per la verità c'erano altre indicazioni tecnico-letterarie, per esempio incrociare la microstoria con la macrostoria, o fingere di non sapere cosa sarebbe accaduto ad Anne).

     

    I segnalibro
    In allegato trovate i segnalibro che pubblicizzano l'esposizione delle cinquanta lettere integrali scritte ad Anna Frank nel laboratorio di italiano dalle due attuali terze, che negli scorsi pomeriggi con un gruppo di alunni della 3D (Manal, Virginia, Tyrone, Francesca, Luisa, Amin e Antonio, che ringrazio) abbiamo sistemato su due grandi cartelloni nella Biblioteca Ospizio, la nostra biblioteca di quartiere che in questi tre anni ci ha ospitato spesso (per scegliere, leggere, scrivere, discutere, ascoltare, giocare, cercare, immaginare insieme), e dunque arricchito tantissimo.

    Per il fronte, abbiamo scelto insieme dal web le foto: Anna che sorride, Anna quasi mai sola, Anna all'aperto. Sul retro, ci sono degli estratti delle lettere di risposta, selezionati dagli studenti del gruppo, con non poca difficoltà (la consegna era: scegliete le dieci righe che vi fanno più emozionare, o che farebbero più emozionare la mamma o il papà di Anne, se le potessero leggere).


    Il senso della memoria
        
    Mi sono chiesto tante volte in questi giorni il senso di questa operazione, l'insegnamento che ne possono trarre i miei studenti, e ne ho parlato anche un po' con loro già l'anno scorso. Dunque una giornata della memoria senza campi, con ebrei e nazisti sullo sfondo, con parole e faccine che in un gioco di realtà/finzione (verosimile), rimbalzano dalla penna di un'adolescente alla tastiera di altri adolescenti di un altro spazio-tempo, che dimostrano di stare al gioco, cioè di saper dialogare. Che senso ha? Non ho trovato una risposta, ma le lettere mi piacevano, e sono andato avanti.

    Intanto gli studenti stanno già risolvendo due nuovi compiti: ricostruire lo sfondo di quella macrostoria e intervenire nel proprio presente. Il 27 gennaio 2014 la lezione/commemorazione è stata l'analisi di una pagina di un sito negazionista, sulla - a suo dire - controversa questione della cosiddetta "colonna di Kula", cioè il dispositivo meccanico per l'erogazione del Zyklon-B nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau.

    Qualche giorno dopo i miei studenti dovevano spiegare alla prof di scienze (che ha commemorato la giornata con una lezione di genetica sull'inesistenza delle razze) come era stato facile mettere in crisi l'intero l'impianto argomentativo del saggio di tale Robert Countess, specialista in greco del Nuovo Testamento.

    Qualcuno dal fondo dell'aula ha riassunto così: “Prof, il testo si incarta da solo!”. Forse il risultato sarà aver voglia di scrivere in inglese sul blog di Malala, fare meno "mi piace", indignarsi quando è necessario, aver voglia di partecipare?


     La parola agli studenti
        
    Questa è la presentazione del progetto scritta da due studentesse della classe 3D:

    La tua Kitty è stato un progetto che ci è servito per capire molte cose.

    Innanzitutto abbiamo dovuto immedesimarci in Kitty, provando a dare risposte ad Anna. Cosa che ci ha messi molto alla prova, perché tutti volevamo rispondere ad Anna nel migliore dei modi. Quindi abbiamo svolto questo ruolo di migliore amica ed abbiamo capito quanto fosse difficile per Anna vivere in quei tempi.

    Due giorni prima della giornata della memoria ci siamo riuniti in un piccolo gruppo, ed abbiamo fatto dei cartelloni. Dedicandoli ad Anna. Abbiamo messo solo le nostre risposte, primo perché le lettere di Anna sono famosissime, secondo per suscitare l'interesse delle persone nel momento in cui avessero letto le risposte.

  • Non c’è una fine. Camminare a Auschwitz con Piotr Cywiṅski

    Enrica Bricchetto

    Non c’è una fine. Camminare a Auschwitz con Piotr Cywiṅski

     

    Una lezione per il 27 gennaio che parta dall’oggi: è uscito il libro di Piotr Cywińsky, il direttore del sito memoriale di Auschwitz. In classe ci si può lavorare con quello che si trova in rete. Per conoscere, discutere, comprendere e rammemorare giacché “fare storia al tempo presente è una sfida”. 


     

     Intorno al libro

     

     

    Il modo in cui le informazioni circolano, rimangono e possono essere recuperate nella rete,  aiuta a costruire attività didattiche. Cliccando sul  link della scheda libro di Non è la fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz di Piotr Cywińsky, nel sito della casa editrice Bollati Boringhieri, chi avesse perso l’uscita degli articoli in tempo reale, può recuperare tutto: l’intervista che su “Repubblica” Glodek Goldkorn fa a Cywińsky,  l’analisi approfondita di Enrico Manera su Doppiozero,  le clip di Radio 1 e di Farehneit, su Radio 3 e infine  Una morale essenziale, la recensione di David Bidussa sulla “Domenica” de “Il Sole 24 ore”.  Mi sembra che sia stato già detto e scritto tutto quello che serve per decidere se  leggere o no  questo libro.  Di sicuro ce n’è abbastanza per lavorarci a scuola. 

     

    fig. 1 La scheda libro nel sito della casa editrice Bollati Boringhieri

     

     

    Con gli occhi del docente

      

    Ho pensato quindi che il libro di Cywińsky potesse essere messo al centro della mia lezione sul 27 gennaio del 2017, Giorno della Memoria. Ha un legame forte con l’oggi - parla di un’esperienza di vita e di lavoro - e, allo stesso tempo, apre molte porte sul passato. Del libro di Cywińsky ho fatto una lettura didattica che ho trasposto in un’esperienza da portare in classe.
    In questo articolo do conto  sia della progettazione sia della realizzazione della mia lezione - producendo tutti i materiali che possono servire al docente.


    Mentre leggevo il libro, da più parti ho avuto notizia - da Facebook e da un articolo su "Il Post" e su “La Stampa” del sito Yolocaust. de e, nel frattempo, è uscito il film Austerlitz  (se ne parla in questo sito). Anche questi c’entrano con la lezione sul 27 gennaio del 2017 che sto per raccontare.

     

     

    Il 27 gennaio e la narrazione storica

      

    Chi insegna storia incontra il popolo ebraico in molti momenti del suo discorso storico: quando si trattano le città e gli antichi regni intorno al 1000 a.C., quando nella Palestina romana, all’epoca di Tiberio, nasce, viene ucciso Cristo e il cristianesimo si diffonde; quando si parla della distruzione del tempio di Gerusalemme del 70 d.C. e della Diaspora, evento centrale e non facile comprendere fino in fondo per gli studenti.  Dal 135 d.C. in poi gli ebrei migrano per ogni dove e si stabiliscono in comunità con lingue e religioni diverse. Nell’occidente  cristiano gli ebrei, uniti dall’appartenenza alla comunità, dalla religione e dalla lingua, vivono a parte. Già dal IV sec. vengono emanate leggi che sanciscono a livello giuridico l’inferiorità degli ebrei e la loro marginalizzazione: non possono contrarre matrimoni con i cristiani, costruire sinagoghe troppo visibili  e possedere schiavi cristiani.  Dal 1215 il Concilio Lateranense IV prescrive che   indossino un segno distintivo  e con la peste del 1348 diventano individui pericolosi, in seguito anche oggetto di espulsioni.  Poi la Limpieza de Sangre, poi la costruzione dei ghetti, e il lungo travaglio della costruzione degli stati moderni in Europa. E ancora la diversa storia tra gli ebrei occidentali e quelli orientali, i pogrom che si intensificano soprattutto nell’Europa orientale, il passaggio dall’antigiudaismo cristiano all’antisemitismo e il progetto del sionismo fino alla politica nazista dello sterminio. Nell’affrontare queste tappe, in momenti diversi della formazione storica degli studenti, si precisa anche il lessico: dal mettere a fuoco il significato di  popolo eletto e popolo del libro, alla definizione dell’identità del popolo ebraico, alle distinzioni tra antigiudaismo, antiebraismo e antisemitismo.

     

     

    Ogni anno, il 27 gennaio

     

    fig. 2 Manifesto per il 72° anniversario della liberazione di Auschwitz

     

     Il 27 gennaio di ogni anno mi spinge a mettere a confronto le tematiche già affrontate relative al popolo ebraico con l’anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, in Italia la data della commemorazione della Shoah. Ogni anno cerco di mettere in relazione il 27 gennaio con un momento della storia dell’ebraismo e con quello che offre il dibattito pubblico. Antonio Brusa ha già riflettuto molto su come affrontare didatticamente il Giorno della Memoria, su come costruire una didattica della Shoah cognitivamente solida, basata su un incremento conoscitivo che consenta recepire in modo critico le scelte dei media su questo tema (vedi riferimenti bibliografici).  Penso che, in questo senso, l'attenzione ai contenuti storici e al loro uso pubblico vadano affrontati parallelamente.

     

    Ogni anno pubblicazioni di ricerca e  di riflessione o la  fiction (romanzi e film) propongono ai docenti nuove prospettive per tornare sul tema in modo non ripetitivo e soprattutto non soltanto commemorativo. Il partigiano Edmond di Aharon Appelfeld, per esempio, appena uscito da Guanda porta in una dimensione della Shoah molto diversa, quella dell’ebreo che reagisce, che resiste (recensione) o un film straordinario come Remember di Atom Egoyan (2016, trailer), che affronta, in modo profondo, il tema della memoria latente nelle vite di vittime e carnefici. Per il docente quindi molte sono le possibilità per tornare su un tema consueto in modo un po’ diverso e per allontanare il pericolo della Historia Magistra - un vero e proprio stereotipo che accomuna la maggior parte degli studenti ma anche degli adulti - che ripetono il mantra che bisogna conoscere per non rifare gli stessi errori. Se - come scrive David Bidussa La storia al tempo presente è una sfida, uno dei suoi momenti essenziali è “ cogliere le analogie che fanno sì che la storia faccia le rime, ma non si ripete sempre uguale, presenti dei tratti che consentano di fare delle comparazioni, o di vedere le analogie e le differenze, ma non di dare sempre la stessa risposta”. La storia serve per capire che cosa il genere umano è in grado di fare nel bene e nel male e, qualche volta anche il perchè.

     

     

    La proposta didattica

      

    L’anno scorso, in questo sito, ho recensito il romanzo di Carlo Greppi, Non restare indietro, e proprio Greppi, giovane storico dell’età contemporanea e scrittore, ha segnalato e tradotto il libro di Cywińsky, Non c’è una fine, scrivendo una bella postfazione sui viaggi della memoria. Quest’anno ho scelto una via più operativa. Il libro di Cywińsky è la risposta al perché ogni anno più di un milione di persone visitano il sito memoriale di Auschwitz e aiuta chi ci è già stato a capire di più; è un piccolo manuale per dare senso al racconto dello sterminio degli ebrei in Europa ma anche ad altri stermini, che sono venuti dopo. E’ un libro che serve per riflettere sull’aspetto umano della Shoah, intesa come azione di uomini verso uomini, genere umano verso genere umano.

     

    fig. 3 La presentazione del libro a Milano, il 13 gennaio, con autore e curatore (Articolo 21

     

     

    Metodo e strumenti

      

    Nelle mie classi gli studenti sono abituati a leggere e a lavorare sui materiali in digitale a casa, dai loro computer o soprattutto dai loro telefoni. Utilizzando il loro dispositivi, accedono al nostro ambiente di classe dove possono leggere le mie consegne e esplorare materiali, mettere e condividere i loro testi o i loro artefatti. Quasi tutti hanno scaricato sul telefono le app di Google Classroom, Google Drive, Google Doc e Presentazioni.
    Per quel che riguarda il metodo, da tempo in classe utilizzo il modello di lezione EAS (Episodi di Apprendimento Situato) messo a punto da Pier Cesare Rivoltella e sviluppato da me in ambito di didattica della storia, le cui caratteristiche si chiariranno procedendo nella lettura.

     

    Quest’anno in occasione del 27 gennaio, per la classe quarta, ho pensato di mettere insieme due esperienze: realizzare un EAS sul libro di Cywińsky e assistere a Il piacere dell’odio, che il regista e attore Marco Alotto - autore anche del testo - ha messo in scena con la compagnia Itaca teatro, composta da giovanissimi attori (teatro Astra di Torino, 23 gennaio 2017). Questo spettacolo teatrale, mostrando le forme che prende l’odio in varie esperienze di genocidi - inizia con Auschwitz, poi la Bosnia, Ruanda, Cecenia e di nuovo Auschwitz - ha richiamato il tema della responsabilità dell’individuo con una recitazione corale di grande intensità e coinvolgimento.

     

    Fig.4 La locandina dello spettacolo

     

     

    Lavorare in anticipo (a casa)

     

     La mia lezione in classe sul libro di Cywińsky è stata preceduta dalla seguente consegna:

    apri il link della scheda del libro Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz di P.Cywińsky  che trovi nel sito della casa editrice Bollati Boringhieri e:

    A. Ascolta le clip della radio;
    B. leggi l’intervista a Cywińsky su “Repubblica” del 9 gennaio 2017 e rispondi a queste domande:

    1. Chi è Cywińsky?
    2. Che lavoro fa Cywińsky?
    3. Perché per il suo lavoro sono necessarie “umiltà” e “insolenza”?
    4. Quali caratteri di autenticità - secondo Cywińsky si sono conservati a Auschwitz?
    5. Riporta la definizione di empatia che dà Cywińsky nell’intervista.
    6. Riscrivi quello che ti colpisce di più delle risposte di Cywińsky.
    7. Cerca informazioni su Glodek Goldkorn partendo da questo link.
    8. Analizza le domande di Goldkorn: ti sembra che sia d’accordo con quello che sostiene Cywińsky o no? In che parte dell’intervista emergono la personalità e la storia personale di Goldkorn?

     

    C. leggi l’articolo di E. Manera su “Doppiozero” e metti in evidenza, spiegandole con parole tue “le chiavi di ingresso” alla lettura del libro di Cywińsky proposte. Puoi farlo, creando una mappa digitale o un’infografica, in modo narrativo o in forma di elenco.

    D. Cerca i trailer dei tre film usciti quest’anno per il 27 gennaio (Austerlitz, In viaggio con Fanny, Nebbia in agosto) e scrivi, dalla sola visione del trailer, quale, secondo te, il tema di ognuno dei film e se sono opere di fiction o di non-fiction.

     

    L'attività a casa il giorno precedente alla lezione  deve essere caricata nell' ambiente Classroom. Questo significa che io posso, se voglio, iniziare la lezione avendo chiaro che cosa hanno fatto gli studenti e quali difficoltà hanno trovato. Vorrei precisare che ogni studente ha a disposizione la versione completa del lavoro da fare a casa. In realtà la sua realizzazione può avvenire a vari livelli. Alcuni vanno oltre quello che viene proposto loro. Altri adeguano le consegne ai propri stili di studio o alle loro modalità di apprendimento. Chi ha problemi di lettura può concentrarsi sulle clip radio e da lì ricava gran parte delle informazioni. Per le domande su Goldkorn, nel sito Feltrinelli c’è un’intervista che dà elementi sufficienti per capire chi è (link).

    Rispetto all’analisi di Manera - non scritta certo per adolescenti - la richiesta di mettere in evidenza le “chiavi di ingresso”, cioè gli aspetti individuati come più significativi, consente di orientarsi meglio nel testo. O ancora, questi studenti nel loro file di consegna possono dare risposte per parole chiave o in forma di schema. La fase anticipatoria dell'EAS - così viene definito il lavoro che precede la lezione - consente al docente di progettare nell’ottica della personalizzazione, necessaria in classi eterogenee come quelle attuali. Tale modalità di lavoro è facilitata dall’ambiente digitale e punta all’inclusione di tutti gli studenti nella proposta didattica.

     

     

    A scuola

      

    All'inizio della lezione il  gruppo classe era quindi  variamente informato. Avevo già guardato i loro lavori a casa,  perciò ho fatto una breve raccolta di dubbi o impressioni e poi ho preso  la parola per fare quello che nel metodo EAS  viene definito Framework. Qui il docente crea - in venti minuti - una cornice in cui include gli elementi più importanti ripresi dai materiali dati a casa e aggiunge informazioni, riflessioni e spunti per svolgere l’attività in classe.  Aver già fatto il lavoro a casa determina un coinvolgimento immediato.

     

    Ho scelto questa volta di fare una lezione narrativa, con il libro in mano sul libro. In effetti non lo faccio sempre, perché penso che anche le versioni digitali del libro siano il libro stesso: la carta o i pixel sono soltanto il supporto. In questa lezione, però, ho portato il libro. Quando lo faccio, quasi sempre qualcuno me lo  chiede  in prestito.
    Aggiungo anche che so, perché ne abbiamo già parlato, che la maggior parte dei miei studenti, come quasi tutti gli adolescenti, vorrebbero visitare Auschwitz (qualcuno lo ha già fatto) e guardano con grande interesse al periodo del fascismo e del nazismo. Conoscono anche un buon numero di film.

     

     

    Il Framework

     

     

    Fig. 5 Il portale del sito memoriale di Auschwitz

     

    Come sempre capita nel nostro lavoro  più tempo del previsto è stato occupato dalla raccolta dei dubbi sul lavoro a casa e anche sullo spettacolo. Ho comunque ascoltato e risposto.
    Essendosi  ridotto il tempo per la mia lezione,  ho deciso di proiettare una sorta di scaletta in cui avevo inserito gli aspetti di cui avrei voluto parlare, mettendo in grassetto le parole chiave. Ho capito che non avrei potuto toccare tutti quei temi e ho chiesto agli studenti di dirmi quali aspetti sembravano loro più interessanti. Ho ragionato su quelli e ho letto le parti corrispondenti del libro di Cywińsky. Questa scaletta può essere usata anche come guida per la lettura del libro o come spunto per cercare, al suo interno, i temi relativi alla Shoah.


    Ecco la scaletta:

     

    1.La foto in copertina. E’ Zeilek, ha nove anni, la foto lo ritrae appena arrivato a Auschwitz, un attimo prima di essere mandato a morte. E’ nell’Album Auschwitz  ed è il fratello di Lili Jacob che ha trovato l’Album. Oggi è il logo del museo (p.29).


    2. Il genere letterario. “ Questo libro, che mi sono impegnato a scrivere principalmente perché me l’hanno chiesto alcuni amici e che è stato scritto la sera tardi, nelle rare vacanze e talvolta nelle assenze per malattia, è una raccolta di considerazioni soggettive e di osservazioni –qualche volta molto personali sul Luogo che sommerge, del quale non si può essere all’altezza, e che non si potrà mai comprendere del tutto C’è un tono quasi di riflessione tra sé, che rende la lettura interessante e piena di porte di che si aprono, è un testo soggettivo ma ricco di informazioni storiche, traspare la preoccupazione di Cywiṅski di fornire alcune prove di quello che scrive ma anche una ricerca di approvazione. Sta facendo quello che è giusto per conservare Auschwitz (p.27).


    3. Il percorso di memoria dagli oggetti alle persone (p.29)


    4. Come avere sempre la percezione che in Auschwitz ci sono state le persone: Cywiṅski risponde personalmente a chi chiede informazioni sui propri parenti (p.35-36).


    5. Il tema dell’indifferenza umana: dove erano tutti gli uomini mentre il nazismo attuava la soluzione finale? Dove siamo noi oggi di fronte alla distruzione della città di Aleppo? Per questa ragione C. ritiene che la storia di Anne Frank abbia in sé un modello educativo sbagliato: era una vittima, non aveva chance, nessuno poteva salvarle o proteggerla, nemmeno la sua famiglia. Non è un modello in cui identificarsi (pp. 70-73). Ai giovani bisogna dare un modello attivo: siamo proprio sicuri che di fronte alle tragedie contemporanee non possiamo fare niente, un ragazzo polacco che sentiva le urla di Auschwitz poteva gettare un pezzo di pane oltre il filo spinato ?


    6. Il luoghi del crimine. Le lapidi di Treblinka, Chelmo e Sobibor e l’architettura del sito di Auschwitz, dove molto è rimasto (p. 38).
    7. Che cos’è il Museo oggi? Un museo, un memoriale, un cimitero, un sito memoriale? No, la parola per definirlo è Auschwitz: racchiude tutto. (p. 39).


    8. Archeologia del campo: la stella di David (p.42)


    9. Esiste un luogo che rappresenti l’intera Auschwitz? Auschwitz è Pars pro toto (50-51).


    10. C.osserva le ragazze e i ragazzi che entrano: rumoreggiano, chiacchierano tra loro ma escono in silenzio. Non ritiene di dover riprendere chi all’inizio sembra non rendersi conto di dove si trova. Sa che, tutti, escono diversi da come sono entrati. Sanno che entrano per vedere conoscere capire ma non sanno come escono (p.46).


    11. A Auschwitz ci sono più sopravvissuti che negli altri campi: era luogo di lavoro schiavo e centro di sterminio. Auschwitz ha una forma ancora decifrabile (p. 54)


    12. Come far comprendere oggi Auschwitz a livello simbolico. L'autore mette al centro della narrazione la struttura. La narrazione della memoria coincide con il luogo. Un luogo per molto tempo narrato dai sopravvissuti. Oggi non ci sono più ma le loro testimonianze rimangono. C’è un sostegno reciproco tra parole e il luogo. Sono un tutt’uno. Auschwitz non può rispecchiare una narrazione decisa a tavolino, un progetto educativo. Una narrazione così andrebbe oltre e Auschwitz perderebbe il suo significato universale (p.58-61).


    13. Dialogo e ed empatia: o senti il dolore o non lo senti. Punto e basta (p.68).


    14. Perché così tante persone visitano Auschwitz oggi? Perchè è un luogo di autenticità. L’autenticità è il paradigma di ogni sito memoriale e consente di vivere, non di visitare Auschwitz. Per questa ragione non devono esserci aggiunte narrative di tipo multimediale. Oggetti e strutture dicono tutto quello che si può dire. C. dunque propende per una conservazione minimalista, che mantenga quello che c’è e, pur prendendo in esame, i consigli di cambiamento che riceve, rimane fermo sul mantenimento di quello che c’è, almeno per quanto è possibile (p. 64).


    15. Il tempo ha un effetto catastrofico sul sito di Auschwitz, sui più di 150 edifici, qualcosa come 300 rovine, oltre 100000 scarpe, chilometri di recinzione di filo spinato ecc. Il restauro deve mantenere leggibile il luogo, sostituendo le parti che il tempo rovina.
    16. Passeggiare nel campo per percepirlo. Cogliere il contrasto con la vita normale che scorre incontro. Vedere la diversità delle stagioni. La passeggiata è un’esperienza di passaggio (pp.76-77).


    17. Spesso chi visita Auschwitz, soprattutto se è adolescente, domanda alla guida perché, nel percorso che va dalla Judenrampe alle camere a gas nessuno provava, almeno a scappare. Gli alleati dei nazisti erano: la famiglia e la speranza (pp.82-84 e conclusione a p. 87): tenere unite le famiglie e alimentare la speranza di essere trasferiti in campi di lavoro.


    18. Quante persone lavoravano a Auschwitz? C’erano 70.000 persone libere: soltanto 1600 furono processate dopo la guerra (89-90).


    19. Come si diventava SS (p.93).


    20. La Shoah dei bambini (pp. 98-101).


    21. Questo luogo non può essere normalizzato (pp.107-108)


    22. La responsabilità di Dio. Qui C. risponde da cattolico: “Perché l’uomo ha permesso che questo accadesse? (p.105).


    23. Di che cosa è memoria Auschwitz? La memoria “E’ la base e il compito di questo luogo”. Degli eventi, delle sofferenza, della morte, delle vittime, di tutti quelli che c’erano, dei sopravvissuti, dei carnefici e del loro odio ma anche dell’eroismo di alcuni (p.114).


    24. Perché è stato così difficile ricordare Auschwitz?Finché non sono cambiate le generazioni il senso della condivisione della colpa ha mantenuto il silenzio (p.116).

    25 Consapevolezza. “La memoria deve essere al servizio della consapevolezza e la consapevolezza deve essere costruita sulla memoria. Ed è qui che in genere il compito diventa molto più difficile. Provare a far capire ai giovani cosa significa che quasi un intero popolo è stato assassinato in Europa, e che in più si tratta del popolo che diede all’Europa cristiana le sue fondamenta, è immensamente problematico” (p.120).


    26 A Auschwitz l’Europa ha perso se stessa e le basi culturali, religiose, politiche su cui si fondava. Deve essere ripensata (p.122).


    27. Che cosa posso fare io? La responsabilità: “Oggi coloro che visitano Auschwitz provano a capire come si è arrivati a quest’inferno in terra, questo anus mundi. Maledicono chiunque non sia riuscito a fare tutto il possibile per impedire che accadesse, per opporsi. Camminando tra le recinzioni di filo spinato, si sentono vicini alle vittime. Vedendo le torrette di guardia tremano per l’empatia. A volte piangono, e non si può dubitare che le loro lacrime siano sincere. E poi tornano a casa (124).

     

     

    Il videostimolo

     

     

    fig. 6 Shoah, animazione di Giuliano Parodi. (link)

     

    In un EAS  al termine della parte del docente c’è sempre un videostimolo che  serve a introdurre elementi meno argomentativi e esplicativi,  più legati al piano emotivo.  Il videostimolo è uno stacco tra la prima e la seconda parte della lezione, predispone allo svolgimento della fase successiva.
    Per questa lezione e per questa occasione ho scelto Shoah , un video di animazione di Giuliano Parodi , che ho visto nella pagina Facebook di Enrica Ena, una collega della scuola primaria che lavora, facendo attività didattiche molto significative e profonde, con il metodo EAS ( link).

     

     

     L'attività in classe

      

    Il metodo EAS  richiede  che a questa fase, detta “operatoria”, si dedichi almeno un’ora.

    Per le classi digitali (che usano dispositivi propri o della scuola) ho previsto queste attività.

    1. Scaricate le prime pagine del libro di Cywińsky, usando l’applicazione Kindle. Leggete e individuate che cosa succede il 17 dicembre 1942. Sono tre fatti storici e simbolici. A quali considerazioni rimandano?

    2. Scrivete in poche righe alcune considerazioni sulle attività svolte fino qui.


    3. Immaginate di poter intervistare Cywińsky. Che cosa gli chiedereste?


    4. Esplorate il sito del memoriale di Auschwitz, individuare le fonti storiche o immagini del campo, sceglierne alcune e commentarle sceglierne alcune (link). Per questa attività si possono usare le seguenti app: Skitch, Thinglink.

     Se un docente decidesse di realizzare  questo EAS,  potrebbe sceglierne una da questo elenco, in base alla classe, al tempo e agli strumenti che ha. Il lavoro può essere fatto singolarmente o in piccolo gruppo. Quello che è importante è proporre un'attività realizzabile nel tempo previsto e che consenta agli studenti di aumentare le informazioni e la consapevolezza rispetto a tema tin questione.. 

     

     

    La discussione

     

     Al termine dell’attività, ho riproiettato il trailer di Austerlitz,il documentario girato con camera fissa che per un'intera giornata ha ripreso i visitatori, perlopiù giovani e per lo più distratti e rumorosi. Poi ho chiesto quanti dalla loro frequentazione dei social conoscevano il sito Yolocaust.de. (pochi). Abbiamo visitato il sito e visto i pochi fotomontaggi rimasti. 

    Ho sollecitato i loro commenti e le loro reazioni. La discussione è stata animata. Qualcuno ha osservato che il selfie si fa per ricordare dove si è stati. Ho cercato di arginare una deriva moralistica, sempre dietro l’angolo ("Io no lo farei mai!).  

     

    Questioni storiche, didattiche, di memoria

     

     Questo modello didattico, attraverso lo svolgimento delle sue parti, porta lo studente a apprendere in situazioni diverse: lavora guidato ma in autonomia a casa, a scuola ascolta il docente e si impegna  in attività di rielaborazione o creative. Infine ha uno spazio per la riflessione.

     

     Inoltre, come in questo caso, può condurre gli studenti nel vivo di un dibattito e può aiutare a capire che il giorno della Memoria non è un vuoto rituale, che parlare della Shoah interpella il nostro essere cittadini e coinvolge anche il mondo dei social che loro abitano o le loro abitudini, come fotografarsi continuamente. La Shoah è una questione di storia, di memoria e di empatia. Un’empatia che deve essere anche verso il mondo di oggi. E' un tema vivente.

     

     

    Piccola avvertenza finale

      

    L’EAS Non è la fine può essere realizzata per intero, se ne possono prendere delle parti o semplicemente modificarla.  
    Ho analizzato e approfondito il metodo EAS in ambito storico nel mio libro Fare storia con gli EAS. A lezione di Mediterraneo, Brescia, Morcelliana- Els, 2016, pp.188 dove suggerisco anche strumenti per il lavoro didattico e luoghi in cui reperire contenuti digitali.

     

      

    Riferimenti bibliografici

      

    PC. Rivoltella, Che cos’è un EAS. L’idea, il metodo, la didattica, Brescia, La Scuola, 2016
    A.Brusa, La terra di nessuno fra storia, memoria e insegnamento della storia. Didattica e non didattica della Shoah, in Popshoah, a cura di F.R. Recchia Luciani e C. Vercelli, Genova, Il Melangolo, 2016
    A. Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2011
    E. Traverso. Il passato:istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, Verona, Ombre Corte, 2006

     

     

    Siti web

     

    Memoriale Auschwitz

    Cremit(Centro di ricerva per i media, l'informazione e la tecnologia), Milano, Università Cattolica

    Deina, associazione viaggi  per i viaggi di memoria

     

  • Pentagramma rosso

    di Diletta Fornaciari, Marta Pisani, Elisa Venir, Cristiano Zanin

    Buio. È tutto ciò che vedo da ormai non so quanti giorni: il tempo ha cessato di scorrere, ho solo la certezza che sia ancora il 1945, il freddo mi penetra nelle ossa e la fame mi annebbia la vista. Ero pienamente consapevole che prima o poi questo sarebbe stato il mio destino, ma mai avrei creduto si sarebbe rivelato così logorante per la mia persona. La cella umida è soffocante e molto piccola, più simile ad una bara che a un ricettacolo per viventi in cui è impossibile rimanere sano di mente: non ci sono finestre, il che rende difficile distinguere il giorno dalla notte, anche se immagino sia giorno; non sento quei maledetti suoni che mi tormentano quando cala la sera: lamenti strazianti e urla bestiali, pianti in sloveno, croato e italiano, malamente coperti dall’abbaiare dei cani aizzati, dalle stazioni radio tedesche e dai motori delle loro camionette.
    Tra poco sentirò l’insostenibile odore di carne bruciata che accompagna le prime ore di ogni mattina, accrescendo l’angoscia per il mio inevitabile destino.

  • Quattro modelli di verifica in storia per la quinta. A distanza e in presenza

    di Cesare Grazioli

    1. Copiare o non copiare. Questo è un problema

    Insegnante di scuola superiore catapultato per la prima volta nella didattica a distanza, ho dovuto apprendere in fretta, molto sulla mia pelle e spero il meno possibile su quella dei miei studenti. Gli aspetti negativi sono evidenti a tutti, dalla difficoltà di mantenere i rapporti umani alla grande dilatazione del tempo di lavoro (che sembra essere la norma per tutti coloro che, fuori dalla scuola, fanno smart working da tempo). Ci sono però anche notevoli aspetti positivi: il più interessante è lo stimolo a progettare e a praticare forme di valutazione che evitino il plagio/aiutino/“interferenza esterna”, o comunque si vogliano chiamare le copiature.

    Sembra questo un problema che tocca con intensità diversa le differenti discipline: mi è parso ad esempio quasi paralizzante per Matematica e Inglese, quasi irrilevante per Informatica, ma qui parliamo di Storia e, per quanto mi riguarda, Storia nel Triennio di una scuola superiore (l’I.I.S. “Blaise Pascal” di Reggio Emilia, con indirizzi sia liceali sia tecnici). Ho definito interessante e stimolante questa sfida non certo perché io ami “giocare a guardie e ladri” con i miei studenti. La questione stimolante è che prove di verifica ed esercitazioni “non copiabili”, cioè per le quali non serva andare su internet né sia decisivo potere sbirciare il libro di testo, devono inevitabilmente andare oltre la semplice assimilazione di nozioni e mettere in gioco le capacità di ragionare nelle diverse forme che il sapere storico chiama in causa. In altri termini, devono essere verifiche di competenze.

    A questo proposito, penso che, malgrado il gran parlare – e lo scrivere nelle programmazioni – di competenze e abilità, forse la vera “prova del nove” di un insegnamento/apprendimento per competenze sta nella possibilità di somministrare (per noi) e di svolgere (per i nostri studenti) verifiche “non copiabili”.

    2. La storia è una materia pratica e scritta

    Chiarisco che mi riferisco a valutazioni su prove (individuali o di gruppo) scritte, che nell’esperienza mia e della mia scuola sono largamente prevalenti. So che molti colleghi in altre scuole continuano a privilegiare le interrogazioni orali, o addirittura a considerare la Storia “materia orale”. Non perderò tempo a confutare questo luogo comune “scolastichese”, del tutto infondato sul piano della Storia-disciplina, che viceversa è da sempre attività scritta e pratica nelle sue procedure di ricerca.

    Osservo invece, in modo molto pragmatico, che per fare almeno due o tre interrogazioni orali significative ad ogni studente in un quadrimestre, servirebbe una quantità di tempo scolastico abnorme, tale da dimezzare, o peggio, il già misero tempo d’aula (le due ore settimanali, cioè circa 50 ore nette all’anno, se va bene). Per tacere della abissale differenza di affidabilità e di significatività tra una verifica scritta che, a fine modulo, esplora tutto il percorso svolto, in modo equanime per tutti gli studenti, e un’interrogazione individuale (dopo la quale, tutti lo ricordiamo dai nostri trascorsi come studenti, per uno o due mesi non si apre più il libro!).

    3. Prove di verifica, ma anche esercitazioni

    Riconosco peraltro che la didattica a distanza presenta, anche su questo punto, situazioni nuove e diverse. Molti colleghi sono tornati alle interrogazioni orali perché scoraggiati dall’impossibilità di controllare i propri studenti in verifiche scritte a distanza. Più interessante è il fatto che, con gli orari di lezione a distanza ridotti (di circa 1/3) rispetto al normale quadro orario settimanale, si possono concordare interrogazioni a piccoli gruppi di 3-4 studenti per volta, fuori orario (in “buchi” della mattina, o al pomeriggio): è vero che queste interrogazioni costano a me insegnante 5 o 6 ore extra-orario, ma in compenso avrò un pacco in meno di verifiche scritte da correggere. In queste condizioni, farò anch’io una tornata di interrogazioni orali extra-orario, ma non è di queste che voglio parlare.

    Le verifiche di cui sto parlando hanno anche altre caratteristiche che ritengo molto positive, anzi di gran lunga più importanti del non essere “copiabili” (o di esserlo poco).

    In primo luogo, molte di esse riducono o addirittura azzerano la distanza e/o la differenza tra la fase della verifica e quella dell’apprendimento, tanto che in taluni casi possono essere collocate indifferentemente alla fine del percorso, appunto come verifiche, oppure diventare esse stesse la traccia del percorso di apprendimento per gli studenti, individuale o di gruppo.

    Inoltre si tratta di verifiche di tipologie molto diverse l’una dall’altra, proprio perché si adattano alle diverse competenze sollecitate e alle diverse metodologie di lavoro di volta in volta utilizzate. Al riguardo, penso che sia importante variare le tipologie di verifica, e che sia sbagliato somministrarle sempre della stessa tipologia, come se fosse l’unica possibile: nel caso più tipico, la serie delle tre o quattro domande aperte con 10-12 righe di spazio per le risposte, sulla falsariga della tipologia più seguita della vecchia terza prova d’esame.

    4. Primo modello: immagini e racconti. Storia mondiale dal 1945 ai primi anni settanta

    La prima verifica si è basata su un album di immagini, che già avevo presentato alla classe (in dimensioni maggiori, adatte a una presentazione) come forma di ripasso del modulo. Confesso che l’idea originaria era solo quella di un’esercitazione che servisse agli studenti per ricordare fatti e vicende e nomi di protagonisti, dunque di proporre un’esercitazione di riconoscimento di immagini.

    Poi però l’idea si è sviluppata, perché ho pensato che quelle immagini potessero valorizzare una delle grandi caratteristiche della Storia: il fatto che, come tante tessere di un mosaico, o pezzi di un lego, i singoli tasselli della storia possono essere combinati diversamente, e tali diverse combinazioni danno origine a “storie” diverse. Di fatto, ho chiesto a ciascuno studente di costruire una sua storia, anzi due. L’espediente di farlo partire per la prima storia non da un’immagine a sua scelta, bensì da quella corrispondente al suo numero d’ordine del registro (ad esempio: fare partire dalla immagine n.1 l’ipotetico studente Aldo Abate), ha fatto sì che la classe, composta da 26 studenti, abbia costruito 26 storie diverse. In questo modo era impensabile scambiarsi suggerimenti, perché ognuno doveva produrre un “pezzo unico”.

    Data la novità assoluta delle consegne, per non rischiare che qualcuno ne fosse del tutto disorientato, ho poi fornito un esempio svolto, come si vede qui sotto. Il tempo disponibile era di 2 ore per consegnare su Class-room la prima storia, quella più ampia, con me presente dall’altra parte dello schermo. Ho poi lasciato tempo per completare nel pomeriggio la seconda storia. Se si preferisce evitare questa complicazione e appesantimento del lavoro, si potrebbe anche limitare il compito chiedendo di costruire una sola storia, la prima. Pubblichiamo qui le foto in due versioni: la prima, formato grande e didascalie lunghe, potrà servire al docente per una presentazione; la seconda, in formato piccolo, potrà essere riprodotta e distribuita agli allievi, nel caso si voglia sperimentare questa prova di verifica. Il file pdf che contiene le consegne e un esempio svolto può essere scaricato qui.

    Consegne del primo modello

    Costruisci due storie a partire dalle immagini. La prima storia sarà centrata sui problemi politici del secondo dopoguerra; la seconda tratterà delle questioni economico-sociali e culturali. Segui le regole elencate sotto.

    Prima storia

    • Parti dall’immagine corrispondente al tuo numero d’ordine sul registro e scegli liberamente – in tutto l’album – almeno altre cinque immagini (meglio se di più), che, secondo te, hanno attinenza con la prima.
    • Dunque, se sei il primo nell’elenco prendi l’immagine n.1, se sei il secondo la n. 2 e così via. Nel tuo testo queste immagini saranno contrassegnate dai loro numeri.
    • Tieni presente che non puoi prendere più di tre immagini consecutive.
    • Oltre alle sei immagini dell’elenco, cercane altre due (su google immagini o su altri siti), che siano di soggetti diversi da quelli già scelti (ad es. se hai inserito Kennedy, non puoi inserire un’altra sua foto). Contrassegna queste nuove immagini con le lettere dell’alfabeto (perciò in totale userai almeno otto immagini).
    • Utilizza queste immagini per costruire la tua storia. Ogni volta che ne userai una, la dovrai citare nel tuo testo con il numero o la lettera corrispondenti.

    Seconda storia

    • Scegli cinque immagini, liberamente, a partire dal gruppo di immagini fra la n. 31 e la n. 40.
    • A queste ne puoi aggiungere altre tratte da internet, se lo ritieni opportuno, e contrassegnale anch’esse con le lettere dell’alfabeto.
    • Utilizza queste immagini per costruire la tua storia. Ogni volta che ne userai una, la dovrai citare nel tuo testo con il numero o la lettera corrispondenti.

    Caratteristiche del testo

    • I testi avranno un titolo significativo, dovranno essere corretti e scorrevoli nella forma e corredati dalle immagini scelte, che segnalerai nel testo con il numero o con la lettera dell’alfabeto corrispondenti.
    • I testi saranno in cartelle word, carattere Arial o Calibri, dimensioni 12, giustificato, interlinea singola.
    • Le immagini tratte dall’elenco saranno indicate con numeri o lettere in formato 12, in grassetto (es: 5). Le immagini extra saranno riprodotte al principio del testo. Le altre non devono essere riprodotte, basta citarne il numero). Le indicherai con una lettera in formato 12, in grassetto (es. A).
    • La prima storia sarà di lunghezza compresa tra 1 e 2 cartelle (con i margini che sto usando qui). La seconda potrà essere un po’ più breve.

    Esempio svolto / traccia di correzione

    Titolo: Il cambiamento del clima politico-sociale tra gli anni cinquanta e i sessanta. Immagini utilizzate: 9, 2, 13, 14, 10, 11, A, B, 22, C, 21, 17, 27, 39, 24, 25 (totale: 13 + 3 extra = 16)

    [Questo esempio è un po’ concentrato, perché finalizzato soprattutto a farti capire come devi muoverti; inoltre ha un numero di immagini maggiore di quello che ci si attende che tu utilizzi.]

    Negli anni cinquanta il clima politico, sociale e culturale nelle società avanzate fu molto teso sia a Est che ad Ovest, influenzato dalla durezza dello scontro a tutto campo di quel decennio, il più aspro della guerra fredda. Anche dopo la fine della guerra di Corea (9), che aveva fatto temere una terza guerra mondiale per di più con le nuove armi atomiche, e dopo la morte di Stalin (2) nello stesso anno, le cose cambiarono solo in parte. Nel mondo comunista, il nuovo segretario generale del partito comunista sovietico Nikita Krusciov (13) avviò la destalinizzazione e pose le basi per quello che venne poi definito il “disgelo” con l’Occidente, ma non allentò il clima repressivo nei confronti dei “paesi fratelli”, cioè gli alleati-sudditi dell’Europa orientale. Lo si vide soprattutto nel 1956, quando fu repressa con i carri armati la rivolta esplosa in Ungheria (14), senza che l’Occidente desse alcun segnale di reazione.

    "A. California,1964"/>

    "B. a Washington nel 1964"/>

    C. Una manifestazione studentesca nel ‘68

    Anche a Ovest, peraltro, la guerra fredda alimentò un clima molto teso, sia pure in forme e modi diversi. In particolare negli Stati Uniti, all’inizio del decennio esplose una specie di moderna “caccia alle streghe” che prese il nome di “maccartismo”, dal nome del senatore repubblicano Joseph McCarthey (10): egli lanciò una martellante campagna contro spie comuniste, vere o presunte, creando un’atmosfera di persecuzione soprattutto nel mondo della cultura, dell’arte e del cinema. Le vittime più illustri di quell’atmosfera furono i coniugi Julius ed Ethel Rosenberg, (11) processati per spionaggio a vantaggio dell’Urss e messi a morte sulla sedia elettrica nell’estate del 1953, nonostante la mobilitazione a loro favore da parte di un ampio movimento dell’opinione pubblica internazionale.

    Negli anni sessanta quel clima politico, sociale e culturale cambiò profondamente, perché emersero nuovi soggetti collettivi che contestarono i valori tradizionali, le gerarchie imperanti, i privilegi di alcuni e la mancanza di diritti di altri. Ciò accadde dapprima negli Stati Uniti, in particolare ad opera di due soggetti: gli studenti, soprattutto in California, nell’università di Berkeley presso San Francisco, ove nacque il movimento detto del “Free speech” (A); e la minoranza afro-americana, ancora soggetta di fatto a un regime di apartheid: famosa fu ad esempio la marcia di Washington del 1964 (B), che reclamò la parità dei diritti, guidata da un leader prestigioso, Martin Luther King (che sarebbe poi stato vittima dell’intolleranza e del razzismo che egli combatteva, nel 1968, quando fu assassinato 22).

    Tra i giovani studenti di quel movimento di contestazione si diffusero ampiamente parole d’ordine, slogan e valori anti-imperialisti e anticapitalisti, largamente influenzati dall’ideologia marxista (C): si contestava apertamente il crescente coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, durante gli anni della presidenza di Johnson (21), e si prendevano come modelli ed eroi alcuni personaggi di orientamento comunista come Che Guevara a Cuba (17) e Ho Chi minh (27), leader del Vietnam del Nord. Ciò accadde sia negli Stati Uniti sia in Europa, ove il momento culminante fu il cosiddetto Maggio francese, all’università della Sorbona a Parigi, ove gli scontri tra giovani e forze dell’ordine assunsero per giorni caratteri di guerriglia urbana (39).

    Anche nei paesi comunisti si diffusero movimenti di contestazione, che però furono repressi con la forza, come accadde nel caso della cosiddetta “Primavera di Praga”, ovvero il tentativo, da parte dello stesso gruppo dirigente del partito comunista cecoslovacco guidato da Alexander Dubcek (24), di creare un “socialismo dal volto umano”, cioè di attuare riforme: ma nell’estate del ’68 a Praga quel tentativo venne stroncato, così come era accaduto a Budapest, in Ungheria, dodici anni prima, dall’intervento delle forze armate del patto di Varsavia. Il leader sovietico Leonid Brezniev (25), promotore della repressione, formulò in quella occasione la teoria della “sovranità limitata” a cui dovevano sottostare i “paesi fratelli”, ovvero gli alleati-sudditi dell’Europa orientale.

    Commento

    Nell’insieme, la verifica ha funzionato piuttosto bene, con un ventaglio di prestazioni comprese tra un 8,5 e due 8 (cioè una verifica molto buona e due buone), nei casi di elaborati originali, ricchi e fluidi nella forma espositiva; e, all’estremo opposto, tre verifiche incerte (5,5) e una gravemente insufficiente (4,5). Questi casi negativi lo sono stati per due o più dei seguenti difetti: trattazioni frettolose e superficiali, con molti errori formali. Inoltre, non hanno riportato fatti o processi storici fondamentali per il percorso scelto. Prive di titolo. Quest’ultimo limite si è rivelato molto penalizzante, in particolare per il primo testo: è emerso chiaramente, infatti, che non si trattava affatto di una semplice dimenticanza e che il non avere deciso il titolo era indizio del problema di fondo, cioè non avere scelto un percorso, una focalizzazione, con la conseguenza che il testo appariva faticoso da seguire e poco efficace. La grande maggioranza delle prove, peraltro, si è distribuita nelle posizioni intermedie: sei casi di sufficiente (6), tre più che sufficienti (6,5), tre discreti (7) e tre abbastanza buoni (7,5).

    5. Secondo modello: argomentazioni e controversie. La Guerra fredda

    Credo che la seguente verifica non abbia bisogno di particolari spiegazioni. Gli argomenti e gli esempi a sostegno delle due tesi da sviluppare sono individuati e selezionati autonomamente dagli studenti, dal momento che l’argomento è trattato diffusamente nel libro di testo. Non si tratta, quindi, di un Debate, come è ormai in uso in molte scuole, e del quale presenterò un esempio di quarta in un prossimo intervento su HL, quanto piuttosto di un esercizio di argomentazione e di ricerca rapida sul testo.

    Consegne del secondo modello

    Sviluppa le due tesi seguenti A e B, portando argomenti ed esempi a loro sostegno, in modo da produrre due distinti saggi storiografici.

    • Nei due testi argomentativi dovrai curare anche l’efficacia comunicativa, che ovviamente comprende gli aspetti linguistico-formali.
    • Potrai consultare, moderatamente, il libro di testo.

    Tesi A

    Quasi subito dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, la guerra fredda precipitò nuovamente l’Europa in una condizione estremamente critica, e ad Est tragica: da Centro del mondo, infatti, il Vecchio Continente si trovò declassato al ruolo di periferia di due imperi (americano e sovietico), sotto l’incubo di una possibile guerra atomica, e l’Europa orientale sotto un regime oppressivo e negatore di ogni libertà politica ed economica.

    Tesi B

    A un'Europa che era da secoli, anzi da un millennio l’area più bellicosa del mondo, e che nel primo Novecento aveva conosciuto i due più sanguinosi e distruttivi conflitti della storia umana e orribili genocidi, la Guerra fredda regalò, sotto l’ombrello ingombrante ma protettivo delle due nuove superpotenze mondiali, l’inizio di un’epoca di pace interna eccezionalmente lunga (che dura tutt’ora); a Ovest essa assicurò anche un trentennio di straordinaria crescita economica, e l’avvio di un processo di unificazione politica che era impensabile fino a pochi anni prima.

    Esempio svolto/traccia di correzione

    Argomenti ed esempi a sostegno della tesi A

    Ad appena due anni dalla fine della seconda guerra mondiale, La Guerra fredda riportò a una situazione di tensione quasi paragonabile a una guerra vera e propria; anzi, forse peggiore, per l’incubo di una possibile guerra atomica provocata dalla corsa al riarmo attuata dalle due superpotenze: una guerra atomica di cui l’Europa sarebbe stata quasi certamente bersaglio e vittima, dato che la principale posta in gioco, tra le due superpotenze, era proprio il controllo o il vero e proprio dominio sull’Europa. Dunque l’Europa, abituata a sentirsi e di fatto ad essere “Centro del mondo”, o comunque ad avere da secoli un ruolo di primissimo piano, per la potenza economica, politico-militare e tecnologico dei suoi Stati più potenti, si trovò ad essere in balia di due nuove super-potenze, che la relegarono in un ruolo secondario e subalterno.

    L’Europa occidentale ebbe sì importanti aiuti economici dagli Usa, con il piano Marshall, ma quegli aiuti servirono soprattutto a legare gli Stati europei agli Usa (legame poi rafforzato con la nascita della Nato), e a condizionarli politicamente, tanto che tutti quei paesi finirono per avere al potere governi conservatori e filo-atlantici, che emarginarono all’opposizione i partiti di diverso orientamento; inoltre, in ultima analisi gli aiuti del Piano Marshall finanziavano in gran parte le aziende americane che producevano quelle merci.

    Molto più gravi, però, furono i condizionamenti subìti dai Paesi dell’Europa orientale, ai quali l’Urss impose il suo modello economico, sociale e politico (comprese le “purghe” staliniane che l’Urss aveva già subìto alla fine degli anni trenta), oltre che il suo dominio militare, e represse con la forza ogni tentativo di ribellarsi o di cercare strade parzialmente diverse: così accadde con il blocco di Berlino nel 1948, e ancora di più con la costruzione del muro nel 1961; accadde con le repressioni in Polonia e in Ungheria, nel 1956, e contro la “Primavera di Praga” in Cecoslovacchia nel 1968.

    Commento

    Nell’insieme, la verifica ha certamente funzionato, ossia è risultata attendibile e significativa. Gran parte degli studenti ha lavorato bene o abbastanza bene. Essi sono entrati nella logica del costruire due testi argomentativi di segno opposto, dato che di fatto la TESI A chiedeva di argomentare ed esemplificare i danni della guerra fredda per l’Europa, mentre la TESI B chiedeva di argomentarne ed esemplificarne i vantaggi, sempre per l’Europa.

    Un errore, o meglio un travisamento delle tesi riscontrato in un certo numero di elaborati, è stato il seguente: parlare solo dell’Europa orientale a proposito della prima tesi, e solo dell’Europa occidentale a proposito della seconda tesi; ovvero, di fatto, sostenere che la guerra fredda ha pesantemente danneggiato i paesi sotto il dominio sovietico mentre si è risolta in una grande vantaggio per l’Europa occidentale. E’ una posizione certamente sostenibile, e diversi storici lo hanno fatto. Però le due tesi che si dovevano sviluppare erano altre, come sopra riassunto e come emerge dalla traccia di correzione.

    Tra i punteggi, ci sono stati cinque 8, tre 7,5 e un 7; c’è stata qualche verifica appena sufficiente (6-), ma solo due sotto quella soglia: una incerta (5,5) e una sola gravemente insufficiente (3), nell’unico caso di alunno che, anziché lavorare in autonomia, è andato a pescare su internet, tra l’altro in modo poco efficace (perché la prova non si prestava a questo) e platealmente maldestro.

    6. Terzo modello: il finto testo personale. Nazismo e fascismo.

    Il motivo che mi spinge a presentare questo esempio e il successivo è che, mi pare evidente, anche in questi casi si tratta di verifiche che costringono a pensare, a mettere in campo competenze diverse, a fare i conti con la complessità e la problematicità della storia. Ho somministrato queste prove in presenza, ma penso che potrebbero tranquillamente essere utilizzate anche nella Dad.

    Consegne. Scrivi otto brevi testi con le caratteristiche qui sotto indicate

    • Sei un intellettuale italiano di orientamento liberale, e nella primavera del 1920 riporti sul tuo diario il tuo scoraggiamento per il clima politico e sociale del Paese.
    • Sei la fidanzata di uno squadrista di Ferrara, e a metà del 1922 racconti in una breve lettera a tuo zio, emigrato in Argentina, la situazione italiana, così come la senti descrivere dal tuo amato.
    • Sei un dirigente socialista e nel 1927 scrivi un telegramma a un tuo compagno di partito esule a Parigi, per aggiornarlo su quanto sta accadendo in Italia.
    • Winston Churchill

    • Sei un giovane tedesco che nel 1935, di ritorno dall’annuale raduno del partito a Norimberga, descrive quel raduno in una lettera alla madre (o alla fidanzata, scegli tu).
    • Sei lo stesso tedesco di cui sopra, che, in condizioni psicologiche completamente diverse, scrive al padre dal fronte russo ove egli si trova, alle porte di Stalingrado, all’inizio di gennaio del 1943.
    • Sei un ebreo polacco e nel 1940 scrivi da Varsavia a un tuo parente emigrato a Brooklyn (New York).
    • Sei Winston Churchill, appena nominato primo ministro nel maggio 1940 e in una chiacchierata informale e privata, con la tua consueta foga, rinfacci ai tuo predecessore Neville Chamberlain, che si è appena dimesso, le gravi conseguenze della linea politica da lui finora seguita.
    • Sei un giornalista americano del New York Times e prepari gli appunti (in forma di scaletta) per un reportage dall’Italia in cui descriverai ai tuoi lettori la complessa situazione politico-militare della penisola nell’estate del 1944.

    Commento

    Ho somministrato questa prova (come anche la prossima) alcuni anni fa, per cui non posso riferirne gli esiti in dettaglio come per le due precedenti. Ricordo le forti differenze tra chi era riuscito a “entrare nella parte”, cioè ad assumere il punto di vista richiesto, e chi non l’aveva fatto, con esiti, in alcuni casi, inverosimili, ma molto utili da essere riesaminati in sede di correzione. Ad esempio (nella seconda situazione proposta) il doversi mettere nei panni della fidanzata di uno squadrista rendeva inverosimile descrivere gli atti di quest’ultimo in modo “neutro” o addirittura critico, presentandoli come “violenze” o “atti criminali”; è infatti più probabile che quella fidanzata avrebbe esaltato i “nobili e generosi atti” dell’amato che contribuiva a “liberare finalmente l’Italia dalla canaglia sovversiva”, e così via.

    7. Quarto modello: due esempi di finte interviste

    A. Un questionario ai nonni sulla Seconda guerra mondiale

    Consegne

    Per incarico del tuo prof. di Storia hai dovuto preparare un questionario per intervistare i tuoi due nonni paterno e materno, uno reggiano e l’altro di origine calabrese. Entrambi avevano la tua età nel 1944, e hai chiesto loro se quell’anno videro o vissero in prima persona le seguenti situazioni. Scrivi accanto a ciascuna delle seguenti situazioni: R, se è stata vista o vissuta dal nonno reggiano; o C, se dal nonno calabrese; oppure E, se da entrambi; o N, se da nessuno dei due.

    • _____ vivere nel continuo pericolo dei bombardamenti degli Alleati.
    • _____ vivere nel pericolo dei bombardamenti tedeschi.
    • _____ arruolarsi nell’esercito regio a fianco delle truppe alleate, cioè anglo-americane .
    • _____ sopportare che il cibo e i beni essenziali fossero razionati col tesseramento.
    • _____ doversi nascondere per evitare di essere forzatamente arruolato nel nuovo esercito della Rsi.
    • _____ rispondere al “bando Graziani” e arruolarsi nell’esercito della Rsi.
    • _____ andare in montagna per unirsi alle formazioni partigiane.
    • _____ diventare un importante esponente del Clnai.
    • _____ operare clandestinamente nei Gap, i gruppi partigiani che facevano sabotaggi nelle città.
    • _____ subire il pericolo dei rastrellamenti e della conseguente deportazione nei lager in Germania.
    • _____ essere tentato di denunciare un conoscente ebreo, per avere la forte ricompensa fissata per legge.
    • _____ dover cercare per la famiglia, alla “borsa nera” (cioè di contrabbando, ad altissimo prezzo), un po’ di cibo in più di quello previsto dal razionamento.

    Commento

    Questo esercizio, brevissimo nell’esecuzione (dato che si tratta solo di scegliere per 12 volte una delle 4 lettere, come in un questionario a scelta multipla), può essere somministrato da solo, in 15-20 minuti, o essere inserito all’interno di una verifica più ampia sulla Seconda guerra mondiale. In entrambi i casi, risulta molto spiazzante per gli studenti. E’ da chiarire che l’esercizio ha senso solo se l’insegnante non ha già presentato a lezione queste situazioni, in modo che gli studenti siano costretti a ragionare su quante difficili scelte ci si potesse trovare a dovere compiere, in quel 1944, e quanto pesasse il trovarsi da una parte o dall’altra della Linea Gotica, in una situazione estrema come quella del nostro Paese in quel periodo storico.

    Anche se i risultati del questionario sono stati molto scarsi (come in questo caso è accaduto, per molti studenti, nei diversi anni in cui ho somministrato l’esercizio), qui non è importante il punteggio conseguito, bensì il fatto che, proprio per essersi dovuti scervellare per scegliere la lettera giusta, e spesso avendola sbagliata, poi in sede di correzione si è capito in quale complessa situazione i propri nonni-coetanei si erano trovati nel 1944. E’ il tipico caso in cui la valutazione ha comunque un prevalente valore formativo, e diventa anzi una potentissima occasione di apprendimento.

    B. Scrivere una finta intervista. Dal secondo dopoguerra ai primi anni novanta

    • Sei un esperto di storia orale e intervisti i seguenti personaggi (due immaginari, uno reale), per ricostruire la storia dell’età repubblicana attraverso testimonianze orali.
    • Fa attenzione: non chiedi loro di raccontare la propria biografia. Chiedi di raccontare.
    • la storia italiana dal loro punto di vista, cioè selezionando ciò che essi hanno vissuto come importante.
    • Scrivi la testimonianza sotto le rispettive biografie.

    Salvatore P. Nato nel 1935 a Palermo, orfano del padre (ucciso a Portella della Ginestra l’1.5.47), nel 1955 emigrò a Torino e poco dopo entrò a lavorare alla Fiat Lingotto; nel 1972 diventò membro del consiglio di fabbrica, come delegato del suo reparto (verniciatura); nel 1976 passò a fare il funzionario della Fiom (la categoria dei metalmeccanici della Cgil), incarico che ricopre quando viene intervistato, nel 1982, a 47 anni …

    … … spazio di 12-14 righe.

    Gianni A(gnelli) Nato nel 1921 a Torino, nipote del fondatore della Fiat, alla morte del nonno nel 1945 (e per la morte prematura del padre, Edoardo), vide condurre l’azienda di famiglia dal manager Vittorio Valletta, per un ventennio: in quegli anni, oltre a fare la “dolce vita”, fece esperienza dirigenziale come presidente della Juventus, fino a quando, nel 1966, assunse la presidenza della Fiat. Negli anni ’70 fu anche presidente della Confindustria. Dalla fine degli anni ’70 affidò la gestione diretta della Fiat al manager Cesare Romiti. Viene intervistato nel 1982, a 60 anni …

    … … spazio di 12-14 righe.

    Luisa B. Nata nel 1946 in Brianza, dopo il liceo si trasferì a Milano, dove frequentò l’Università statale, partecipando ai primi gruppi femministi e poi al movimento del ’68. Dopo la laurea in architettura nel ’71, visse per alcuni di anni in una Comune con altre donne, e fece lavori vari. Nel 1976 entrò in uno studio di design. Nel 1979 si mise in proprio, aprendo uno studio di design e arredamento, e negli anni successivi divenne una “donna in carriera”, con un’azienda che occupa alcuni dipendenti. Viene intervistata nel 1993, a 47 anni …

    … … spazio di 12-14 righe.

    Esempio/traccia di correzione

    Salvatore P. Nato nel 1935 a Palermo, …

    È verosimile che lui ricordi:

    • Le dure condizioni di vita nel Sud, sia economiche politiche per la repressione sulle lotte contadine, e per la presenza della mafia (vedi l’eccidio di Portella della Ginestra), e il fatto che la svolta della riforma agraria pose fine alle lotte ma non migliorò molto le condizioni di vita dei contadini del Sud, tanto che molti dovettero emigrare a Torino.
    • Il trauma iniziale, per le condizioni di lavoro nella grande fabbrica, e anche di vita, nella città del nord, per molti immigrati.
    • Il graduale inserimento degli immigrati nel nuovo clima di combattività operaia negli anni ’60, tra compagni in gran parte anch’essi giovani immigrati, dai fatti di Piazza Statuto.
    • Le nuove forme di lotta, dall’autunno caldo del ‘69, con le quali fu ottenuto un importante contratto di categoria, poi lo Statuto dei lavoratori; e i nuovi organismi, i consigli di fabbrica, che rappresentavano soprattutto gli operai di linea (non qualificati), come lui.
    • Il suo coinvolgimento a livello sindacale, in una fase in cui c’era una forte coscienza sociale e politica tra gli operai.
    • Le rivendicazioni nel segno dell’egualitarismo, entro cui ci fu l’importante conquista della riforma della scala mobile, che venne unificata per operai e impiegati di tutte le categorie (1975).
    • La tensione prodotta, anche nelle fabbriche, dal terrorismo, che il sindacato cercò di isolare.
    • La delusione per il mancato “sorpasso” elettorale nel ’76 del Pci rispetto alla Dc, e forse anche la delusione per i pochi risultati dei successivi governi di solidarietà nazionale.
    • Per il periodo più recente, il senso di sconfitta e di arretramento del movimento sindacale, dopo la vertenza dell’autunno dell’80, conclusasi dopo la marcia dei quadri a favore della Fiat.

    Gianni A(gnelli) Nato nel 1921 a Torino, …

    È verosimile che lui ricordi:

    • Gli anni della grande crescita della Fiat, condotta da Valletta, con i nuovi modelli, la 600 e poi la 500, utilitarie adatte a un mercato di massa per l’Italia.
    • Gli anni favorevoli del boom economico, con l’ottimismo, l’atmosfera esuberante di quegli anni, per lui e la sua cerchia, ma anche per gran parte della società, anche nella vita privata.
    • Le difficoltà crescenti dalla seconda metà dei sessanta ai settanta, sia per l’estremismo delle lotte operaie, sia per l’inazione dei governi, poco efficaci nel contenere l’inflazione, dai ‘70.
    • Le difficoltà strutturali dell’economia italiana, a causa del rialzo del prezzo del petrolio.
    • La moderazione dei vertici sindacali, che avevano consentito di siglare l’accordo sull’unificazione della scala mobile nel ‘75, quando egli era presidente della Confindustria (e che, visto retrospettivamente, egli considera forse un errore, perché quell’accordo doveva combattere l’inflazione, ma al contrario la alimentò).
    • L’eccessivo potere conquistato sui posti di lavoro dalle frange operaie più estremiste, cosa che aveva dato spazio al terrorismo.
    • La conflittualità esasperata che aveva messo in difficoltà le aziende, specie le maggiori e più sindacalizzate, come la sua, mentre l’inflazione continuava a crescere.
    • L’energica iniziativa del gruppo dirigente della Fiat, con a capo Romiti, che con una dura vertenza ha ridimensionato il sindacato e attuato una ristrutturazione che ha ridato competitività all’azienda.
    • La perdurante preoccupazione per le frange terroristiche, e per i conti pubblici dello Stato, anche se la situazione economica generale gli appare ora migliorata.

    Luisa B.

    Nata nel 1946 in Brianza…

    È verosimile che lei ricordi:

    • gli anni all’università, allora ancora frequentata da pochi studenti, e tra questi pochissime le ragazze, come lei, proveniente dalla provincia ancora tradizionalista.
    • per lei, proveniente dalla provincia molto tradizionalista, l’enorme differenza con la cultura giovanile urbana in cui si trovò catapultata, con le nuove mode, dalla minigonna alla musica leggera.
    • la politicizzazione nel movimento studentesco, con le occupazioni e le lotte nel Sessantotto.
    • il trauma delle bombe fasciste a Piazza Fontana alla fine del ’69, primo episodio della “strategia della tensione”.
    • l’emergere di una nuova coscienza femminile e femminista, con le lotte che portarono a molti cambiamenti nel costume, come la grande battaglia ai tempo del referendum sul divorzio, nel 1974, la legge sul nuovo diritto di famiglia, a metà dei 70, e l’altra battaglia importante, qualche anno dopo, del referendum a difesa della legge sull’aborto.
    • che nella seconda metà dei ’70 quel clima di lotte si era in gran parte spento, e al contempo era degenerato negli anni di piombo, che pesarono negativamente, e coinvolsero nella “lotta armata” anche alcune sue ex compagne di tante lotte studentesche e femministe.
    • che negli anni ’80 si è aperta una fase più favorevole all’iniziativa individuale, alla possibilità di fare carriera anche per le donne che hanno saputo valorizzare sia il proprio ruolo, sia le opportunità di nuovi settori lavorativi, nei servizi, e in aree non legate al tradizionale sistema della fabbrica fordista, anche grazie alle nuove tecnologie informatiche.
    • che in quegli stessi anni ’80 il nuovo Psi di Craxi sembrava in grado di modernizzare la vita politica italiana, superando l’immobilismo dei due maggiori partiti, Dc e Pci… … mentre ora, nel 1993, è delusa e scandalizzata per il sistema di corruzione che è emerso con le indagini del pool di Mani pulite, e preoccupata per il futuro dell’economia.

    Commento

  • Come nel caso delle precedenti interviste sulla Seconda guerra mondiale, anche queste tre “finte interviste” sulla storia del secondo dopoguerra le ho somministrate alcuni anni fa. Per quanto mi ricordi, i risultati erano stati molto diversi tra gli studenti, ovvero si erano rivelate altamente discriminanti.
  • Alcuni esiti erano stati davvero brillanti, ma molti avevano incontrato due tipi di difficoltà di segno opposto, che qui cerco di riassumere. Da una parte, la difficoltà di “assumere un punto di vista” cioè di selezionare gli aspetti della storia che è plausibile immaginare siano stati più rilevanti e significativi (cioè si siano depositati nella memoria) di soggetti sociali diversi come i tre proposti. Chi non c’è riuscito, ha ovviamente scritto storie ben poco diverse, o non ha saputo “ricordare”, ad esempio, le lotte alla Fiat Mirafiori nei modi opposti che dovrebbero emergere dai racconti del lavoratore immigrato e del proprietario dell’azienda.
  • Dall’altra parte, alcuni studenti si erano troppo “schiacciati” nella dimensione biografica, finendo per “ampliare” il profilo biografico già dato per ciascuno dei tre soggetti, e dunque avevano parlato di “se stessi”, non della storia d’Italia vista dalla propria prospettiva sociale.

    Possibili rimedi per evitare questi opposti rischi, o per limitarli, potrebbero essere i seguenti: fornire una delle tre storie come “esempio già svolto”; oppure, forse ancora meglio, assegnarne una delle tre come prova formativa, domestica, poi correggerla e, sulla base di questa correzione, assegnare in aula lo svolgimento delle altre due.

  • Raccontare storie e insegnare storia

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    Corso di aggiornamento per docenti di ogni ordine e grado

    A cura di Antonio Brusa in collaborazione con i Servizi Educativi e Culturali di Palazzo Ducale, con Mariangela Galatea Vaglio, Giuseppe Losapio e Raffaele Guazzone.

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    Peter Bichsel racconta di un suo amico che se ne andò in Africa ad ascoltare racconti africani.

    Si sedeva intorno al fuoco e ascoltava quei vecchi parlare. Gli piaceva un sacco, fino a quando si accorse che, solo con l’ascolto, non aveva imparato granché. Si rese conto che, per capire quei racconti, doveva tornare a casa e studiare la grammatica di quelle lingue e la storia di quelle popolazioni.

    Come conciliare il piacere dell’ascolto con la grammatica di una disciplina? E come realizzare questo obiettivo con una didattica partecipativa e, per quanto possibile, gradevole?

    È questo il tema di questo corso, nel quale si vedrà quanto siano false le opposizioni fra chi è per la “storia-racconto” e chi per la “storia-problema” e quanto stiano bene insieme gioco, immagini, carte di ogni genere, racconti e regole per pensare storicamente.

    Lo vedremo in un corso che unirà gli aspetti di riflessione teorica con proposte pratiche, applicabili nelle classi di ogni ordine e grado.

     

    Il corso si articola in 4 moduli di 2h ciascuno

     

    Programma 

    2 marzo, ore 17 – 19
    I MODULO
    Giocare e raccontare
    Antonio Brusa: Giochi di storia e racconti storici, dall’antichità ai giorni nostri. Lezione e proposte didattiche

    9 marzo, ore 17 – 19
    II MODULO
    Raccontare con i documenti
    Antonio Brusa: La lezione documentata
    Mariangela Galatea Vaglio: Il racconto dei documenti, il racconto dello storico.

    17 marzo, ore 17 – 19
    III MODULO
    Raccontare con i memi e altre immagini
    Antonio Brusa: immagini e storia
    Raffaele Guazzone: I meme. Dove trovarli, come costruirli e come raccontare storie. Materiali e proposte.

    23 marzo, ore 17 – 19
    IV MODULO
    Lo storytelling e la storia
    Giuseppe Losapio: Storytelling e racconti storici. Proposte didattiche
    Antonio Brusa: Tanti laboratori per imparare a pensare storicamente.

     


     Informazioni/Prenotazioni

    I posti sono limitati, su prenotazione a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

    tel. 010 8171604 (da martedì a venerdì ore 11-13; 14-16)

    Costi: € 60, totale 8 ore di formazione; € 40, totale 4 ore di formazione. Si prega di indicare in fase di prenotazione i giorni scelti. Ricordiamo che per il pagamento è possibile utilizzare il bonus della Card Docenti.

    Alla fine del corso sarà rilasciato attestato di partecipazione valido ai fini del riconoscimento formativo.

  • Scrivere la storia per finta, ma non troppo. La scrittura empatica come esercizio di storia e di italiano

    di Marco Cecalupo

    Abstract. A volte, la spettacolarizzazione della storia produce una forte sensazione di shock. Ma essere catapultati nel passato – e magari riviverlo – senza conoscerne le coordinate interpretative fa leva soltanto su empatia e immedesimazione superficiali, senza produrre un aumento di conoscenza. La descrizione di alcuni casi concreti, relativi alla Giornata della Memoria, offre elementi di critica a questo modello che possiamo definire sensazionalistico. Le esperienze didattiche di scrittura empatica tratte dal blog “I libri di Leo” dell'IC Leonardo da Vinci di Reggio Emilia – realizzate a margine di laboratori e giochi di HL – si propongono, invece, come modello cognitivo.

    1. Un presepe della shoah?

    La shoah tra i banchi del mercato, Venaria Reale (Torino)1. La shoah tra i banchi del mercato, Venaria Reale (Torino), Giornata della Memoria 2018. Fonte: la Repubblica (online)

    Qualche tempo fa, in occasione della Giornata della Memoria 2018, il Comitato Giorno della Memoria1 del Comune di Venaria Reale (Torino) organizzò e finanziò una iniziativa pubblica, presentata nell'edizione locale di Torino sul sito del quotidiano la Repubblica il 28 gennaio 2018 con le seguenti parole: «Soldati in divisa nazista dalle smorfie dure, un gruppo di donne terrorizzate con la stella gialla imposta agli ebrei che portano con sé le poche cose che sono riuscite a prendere in casa durante il rastrellamento, il cupo suono di una sirena, ordini abbaiati seccamente. È la rievocazione storica organizzata dal Comune di Venaria, alle porte di Torino, nel Giorno della Memoria: una marcia dolorosa in centro, e tra i banchi del mercato, che ha provocato grande commozione tra i passanti che si sono trovati all'improvviso a tu per tu con l'orrore della deportazione. Sul suo sito il Comune spiega di avere deciso l'iniziativa per sensibilizzare i cittadini sui temi dell'Olocausto e della discriminazione».

    Sul sito del Comune, in realtà, non siamo riusciti a leggere nulla più. Per esempio, nulla si diceva sulla consulenza storica dell'evento, e si poteva legittimamente nutrire qualche dubbio su un rastrellamento accompagnato da musica di violini in pieno giorno, oppure sulla completa assenza dalla scena di fascisti collaborazionisti italiani2. Non si trattò di una novità assoluta, un'iniziativa molto simile, che ha coinvolto anche giovanissimi studenti, è stata organizzata in occasione della Giornata della Memoria nel 2013 a San Marco in Lamis (Foggia)3.

    La simulazione della shoah a San Marco in Lamis (Foggia), 20132. La simulazione della shoah a San Marco in Lamis (Foggia), 2013. Fonte: www.foggiatoday.it

    Ne discussi con Antonio Brusa, ci ponemmo la questione dell'empatia nell'insegnamento della storia. Avevo definito quella discutibile iniziativa una sorta di “presepe vivente della shoah”, ed entrambi l'avevamo considerato un rito dannoso. Ma la nostra critica non fu di ordine storico, cioè in merito all'accuratezza documentale, ma piuttosto rivolta allo scarto interpretativo tra ciò che l'iniziativa si proponeva e il suo esito finale.

    Come si può definire la modalità utilizzata a Venaria Reale? Per alcuni aspetti, tra cui l'esposizione alle telecamere e la drammatizzazione caratteriale messa in scena dagli attori mediante i costumi, la mimica, la prossemica, l'espressione facciale e la recitazione, essa può essere paragonata ad un set cinematografico. Per altri versi, tra cui l'ambientazione in un luogo pubblico non interdetto ai passanti e l'apparente improvvisazione, si può caratterizzare come un flash-mob4. Ancora, la modalità potrebbe definirsi “teatro di strada”, ma non ci è dato sapere se i protagonisti fossero semplici figuranti dilettanti o attori professionisti. Più semplicemente, appare come una “rievocazione in costume”, anche in assenza di una chiara esplicitazione nei confronti dell'ignaro pubblico.

    Dal punto di vista della pedagogia e della didattica, in tutti i casi, non può definirsi una simulazione e non ha il carattere dell' “esperimento sociale” o del “candid-camera”, poiché è mancato l'aspetto della necessaria osservazione sperimentale delle reazioni degli astanti.

    Spostando l'attenzione dal significante al significato, ci chiedemmo: cosa ha rappresentato la scena per le persone che vi hanno assistito? Si trattava chiaramente di una questione a cui è interessata – oltre che la didattica – anche la public history, ma non fu facile rispondere a questa domanda poiché, come si è detto, nessuno (né gli organizzatori, né i giornalisti che hanno riferito la notizia sui media) si premurò di raccogliere in forma visiva o testuale le impressioni e le considerazioni del pubblico. Il giornalista de la Repubblica ha scritto di una «grande commozione», ma non sappiamo sulla base di quali informazioni ha tratto questo giudizio. Indirettamente, si potevano analizzare le riprese video5, che però non mostravano alcuna reazione evidente da parte dei presenti. Il pubblico suo malgrado si divideva equamente in due parti: coloro che si fermavano a guardare e gli altri che continuavano a camminare o a svolgere le proprie azioni ordinarie come se nulla stesse accadendo. Non si poteva dunque parlare di coinvolgimento o interazione del pubblico, se non in riferimento ai processi di identificazione propri del cinema, della TV e del teatro. Se qualcuno pensò qualcosa, la modalità non prevedeva, né è realmente avvenuto, che prendesse la parola o interferisse con la scena in atto, come ad esempio accade nei L.A.R.P. di ambientazione storica6. Il pubblico fu meramente spettatore dell'evento. Come, appunto, in una sorta di presepe vivente della shoah.

    A nostro avviso, l'interesse didattico era pressoché nullo. Nessuno penserebbe mai di convertire al cattolicesimo o di spiegarlo mediante un'osservazione attenta della rappresentazione vivente della Natività. D'altro canto, nella società dello spettacolo, nessuno si è mai sognato di interrompere una messa in scena, o quanto meno mai con l'intenzione di cambiarne la sceneggiatura7. Per riprendere la metafora religiosa, nessuno ha mai interrotto una via crucis per salvare Cristo dalla condanna a morte.

    2. Emozionare vs studiare?

    Eravamo quindi nel campo della Pop shoah8 descritto da Francesca R. Recchia Luciani e Claudio Vercelli, che nel loro recente volume ci ricordano come la spettacolarizzazione e «la sovraesposizione mediatica di un così dirompente evento storico, […] ricondotta ad una sorta di breviario dei buoni sentimenti, rischia di depauperarne proprio l'intrinseco valore civile»9.

    Dunque lo sterminio nazifascista e antisemita non prevede la possibilità di essere rappresentato o simulato con finalità didattiche? Possiamo citare diversi tentativi più riusciti in questo senso, ma innanzitutto occorre mettere in guardia tutti da questa banalizzazione della memoria dello sterminio. Alcune riflessioni critiche sono state scritte su «Historia Ludens» da Antonio Brusa a commento del film Austerlitz (del regista ucraino Sergei Loznitsa) e del progetto Yolocaust del fotografo israeliano Shahak Shapira10.

    Locandina del film Die Welle (L'Onda), di Dennis Gansel, 20083. Locandina del film Die Welle (L'Onda), di Dennis Gansel, 2008

    Sul piano letterario, il romanzo The Wave (L'onda), pubblicato dallo scrittore statunitense di letteratura per ragazzi Todd Strasser nel 1981, è basato proprio su un esperimento sociale (chiamato The Third Wave) svoltosi in una scuola della California nel 1969, in cui il docente di storia Ron Jones ha simulato l'instaurazione di un modello sociale gerarchico totalitario nella sua classe alla Cubberley High School di Palo Alto.

    Nei casi del libro (e del film11), si è trattato di un investimento intellettuale ed economico rilevante, ma ci sono state anche soluzioni a costo zero, come quelle condotte in un Liceo Artistico di Firenze nel 2011, in una scuola media di Vercelli nel 2017 e più di recente in tante altre scuole italiane.

    Nel Liceo Artistico di Porta Romana (Firenze) la professoressa Marzia Gentilini è entrata in classe il Giorno della Memoria dicendo: «È arrivata una circolare che un po’ mi preoccupa: entro il 15 di febbraio ciascuno di voi deve portare il certificato di nascita e di residenza. Non so se sia per il federalismo o cosa, ma pare che il ministero non paghi più la scuola se non siete nati a Firenze e se non sono prevalentemente nati a Firenze anche i vostri genitori e i vostri nonni. Ci faranno finire l’anno e poi ciascuno di voi deve tornare nei Paesi di provenienza della famiglia». Sull'edizione di Firenze online de «La Repubblica» si possono leggere anche le reazioni commosse e oppositive degli studenti. Rosa Maria De Giorgi, l’assessore all’istruzione, si complimentò con la docente e commentò pubblicamente: «La giornata della Memoria non deve essere un appuntamento rituale che si ferma a una pagina di un libro. La professoressa del liceo ha trovato la strada migliore per bucare lo schermo e attirare l’attenzione dei ragazzi, ha fatto indossare loro la follia di quel momento storico»12.

    Lezione shock al Liceo Artistico di Porta Romana (Firenze), Giornata della Memoria 20114. Lezione shock al Liceo Artistico di Porta Romana (Firenze), Giornata della Memoria 2011. Fonte: la Repubblica (online).

    In occasione della Giornata dei Giusti del 6 marzo 2017, nella scuola secondaria di primo grado “Pertini” di Vercelli, le professoresse Patrizia Pomati e Carolina Vergerio hanno diramato nelle cinque classi terze una finta circolare che imponeva ai ragazzi con almeno un genitore straniero (tutti informati dell'esperimento prima che venisse realizzato) che smettessero immediatamente di seguire le lezioni con i loro compagni e poi a giugno facessero due esami in più, uno per dimostrare “la conoscenza della lingua” e l'altro “la cultura italiana”. Anche in questo caso, gli studenti hanno reagito opponendosi con decisione all'allontanamento dei propri compagni di classe. La dirigente dell'Istituto Comprensivo commentò: «L'esperimento è andato benissimo. Ci aspettavamo ovviamente una reazione, ma non della portata di quella che c'è stata. Forse se ci fosse stata una reazione così forte anche allora le cose sarebbero andate diversamente»13.

    Mentre ne L'Onda la struttura gerarchica chiusa o la cultura e la pratica discriminatoria e violenta, tipiche del NSDAP, vengono semplicemente replicate dalla storia passata nel presente, gli esperimenti delle due scuole italiane hanno l'ambizione di attualizzare l'impianto giuridico-culturale delle istituzioni totalitarie e delle leggi razziali del 1938, spostando i termini del discorso in una dinamica socio-culturale del tempo presente: quella della migrazione e delle politiche migratorie. Entrambe le modalità, pur nella loro diversità, colgono l'aspetto centrale di una simulazione: il rapporto empatico tra il soggetto rappresentato e l'attore della rappresentazione. In altri termini, quegli studenti hanno sperimentato la vertigine, che secondo Roger Caillois è una delle componenti fondamentali e imprescindibili del gioco di simulazione14. In questi casi, si potrebbe dire tecnicamente che la simulazione non ha un pubblico che assiste, ma solo partecipanti attivi, chiamati a decidere, scegliere, prendere la parola e agire in conseguenza della situazione nuova che si è creata, con la possibilità (non solo teorica) di modificarla e in sostanza di determinarne l'esito.

    Se consideriamo le esperienze delle due scuole, la domanda ha rappresentato uno stimolo a pensare al rapporto tra sé e il mondo. Ci si è chiesti: cosa accadrebbe se le politiche migratorie prendessero una piega “eliminazionista”? È evidente che non si tratta solo del tentativo di una speculativa storia contro-fattuale o di una distopia fantascientifica, ma di un'apertura alla riflessione sulla realtà attuale. Si nasconde dunque una domanda ancor più stringente: qual è il nostro giudizio storico (comparato, potremmo dire) sulle attuali politiche migratorie in Italia, in Europa e nel resto del mondo?

    Secondo Antonio Brusa, in generale queste iniziative pongono il problema del rapporto fra empatia/sentimento e storia. Le due manifestazioni (quella di Venaria e quella nelle scuole), seppur diverse nelle modalità, sembrano mostrare una dinamica analoga: si presenta una situazione scioccante, si sollecitano sentimenti, e (nel secondo caso) si discute insieme. È pero difficile confrontare le due performance senza averle viste o senza averne una descrizione analitica: ciò impedisce di formulare un giudizio complessivo.

    Ma il modello che abbiamo sempre messo in cantiere come Historia Ludens è: situazione scioccante + analisi e lavoro storico = condizioni per esprimere un giudizio o uno stato d'animo. Questa fase, dunque, è concepita come un momento di sintesi dopo la fase analitica15. In questo modo, noi pensiamo che l'educazione storica "blocchi" il circuito lucrosissimo delle emozioni, e si ponga anche in un modo assai critico contro l'attuale emotional turn, che ha preso tutti, dai politici ai pedagogisti, ai dirigenti scolastici.

    3. Per un'empatia consapevole

    Qualche giorno dopo, durante la presentazione del Viaggio della Memoria 2018 a cura di Istoreco presso l'Università di Reggio Emilia, posi la stessa questione allo storico Piotr M. A. Cywiński16, direttore del memoriale e del museo di Auschwitz dal 2006. La sua risposta fu sostanzialmente simile: la spettacolarizzazione della storia è una modalità pericolosa perché, facendo leva sui sentimenti, distoglie dalla reale comprensione degli eventi, e rende inutile l'approccio cognitivo proprio delle ricerche storiche, l'unico che rende giustizia alla complessità del fenomeno shoah. Egli sperava che almeno le professoresse avessero preso spunto dalla simulazione per avviare lo studio della storia.

    E allora? Non si tratta di rinunciare ai sentimenti, all'empatia, alle forme di drammatizzazione, ma di invertire l'ordine dei fattori per ottenere un “prodotto” didattico fondato sulla consapevolezza. In breve, si può essere empatici con gli “altri” (nel tempo e nello spazio) solo dopo averli conosciuti e studiati, dopo aver contestualizzato il loro agire all'interno di un quadro storico-culturale che ci apparirà – per qualche verso, in aspetti marginali o in larga misura – diverso dal nostro.

    Nella mia pratica didattica quotidiana nell'IC Leonardo da Vinci di Reggio Emilia, ho provato più volte a sollecitare l'intelligenza degli studenti attraverso il decentramento cognitivo, soprattutto proponendo loro attività di scrittura empatica dopo aver svolto delle attività di studio di documenti, di gioco-laboratorio o di analisi dei contesti storici. I tre casi presentati in allegato di seguito – pubblicati sul blog del bookcrossing scolastico “I libri di Leo”17 – forniscono il risultato di questi tentativi, che sottopongo alla valutazione degli attenti lettori di questo sito.

    Il blog “I libri di Leo” è nato nel 2018, dopo due anni di attività di bookcrossing all'interno della scuola secondaria di secondo grado. Nel giugno 2019, conta in elenco più di 400 libri, più di 160 articoli suddivisi nelle sezioni: recensioni, eventi, scritture, regole, nuovi arrivi. Con trecento visitatori unici ogni mese, gestito da una trentina di studenti che scrivono e amministrano le pagine web, il blog rappresenta una modalità inclusiva e non valutativa di approccio alla lettura. Scrive Shalon (uno studente della classe 2E): «Tutti noi ci siamo iscritti perché crediamo che scrivere su questo sito non sia solo interessante, ma è anche un modo per appassionarci di più nei confronti della scrittura e della lettura, e può servire anche per conoscere le nostre attività. Abbiamo intervistato gli esperti che sono stati invitati a scuola, abbiamo scritto tante recensioni e pareri sui libri letti. Non importa che il giudizio sia sempre positivo, basta partecipare e scrivere il proprio pensiero».

     

    Allegati

    Allegato 1 – San Francesco. Immagini che raccontano storie
    Allegato 2 – Groenlandesi: The End
    Allegato 3 – Giustizia è fatta!

     

    Note

    1. Nel sito si possono leggere i principi generali del Comitato: «La Città di Venaria Reale, di concerto col Comitato promuove e sostiene attività dirette a diffondere e valorizzare il patrimonio storico, culturale e politico della Resistenza antifascista, contribuisce a far vivere ed affermare i principi della Costituzione Repubblicana, a ricordare gli orrori di quel periodo storico e ad assumere comportamenti [grassetto mio] affinché quello che è accaduto non possa più ripetersi».

    2. Sulla rimozione delle colpe in Italia, vedi: Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza 2013, e Massimo Castoldi (a c. di), 1943-1945: I «bravi» e i «cattivi». Italiani e tedeschi tra memoria, responsabilità e stereotipi, Donzelli 2016.

    3. Vedi la galleria fotografica sul sito di FoggiaToday.

    4. Termine di derivazione inglese che significa letteralmente “evento improvviso tra la folla”.

    5. Sono riportate in un filmato di oltre 30 minuti sul sito del quotidiano la Repubblica. È visibile anche una galleria fotografica dell'evento.

    6. LARP è l'acronimo di Live Action Role-Playing, in lingua italiana gioco di ruolo dal vivo (anche abbreviato in GRV). Sui LARP di ambientazione storica vedi Aladino Amantini, I Larp storici, in Chiara Asti (a c. di), Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica, Unicopli 2019.

    7. In occasione della rievocazione storica del 75° anniversario dello sbarco di Anzio, a Nettuno (Roma), un'anziana signora non è riuscita a resistere alla vista delle divise dei soldati tedeschi e «ha iniziato così a inveire contro i figuranti, colpendone anche uno con la borsetta», la Repubblica online, 21 gennaio 2019.

    8. Francesca R. Recchia Luciani, Claudio Vercelli (a c. di), Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico, il melangolo 2016. Il libro raccoglie gli Atti del convegno tenutosi all'Università di Bari il 16 e 17 ottobre 2015.

    9. Su «historialudens.it» si possono leggere la recensione del volume, di Raffaele Pellegrino; e l'articolo sul convegno, di Claudio Monopoli.

    10. Antonio Brusa, Lo scandalo del selfie (2017), su «historialudens.it».

    11. La trasposizione sul grande schermo del romanzo è stata operata dal regista tedesco Dennis Gansel con il film omonimo (Die Welle), nel 2008.

    12. Riportando la notizia dell'iniziativa sul suo blog, il maestro e pedagogista Marco Moschini cita un commento di Rosario Mazzeo, tratto dalla rivista «L'Educatore»: «È importante “sorprendere” perché ci sia un risveglio emotivo. “Stupore” è la prima flessione (reazione) della mente colpita in modo da essere attratta. Infatti il termine “stupore” (da steup, che in sanscrito vuol dire pungere, colpire), richiama l’emozione dell’essere colpito, e quindi del tenere sgranati gli occhi per poter meglio vedere. Più alto è il livello di sorpresa, più acquista importanza la proposta dell’insegnante, perché più alto è il risveglio emotivo».

    13. Si può leggere la notizia completa sulle edizioni locali online de La Stampa e de la Repubblica. Gli studenti, al termine della simulazione, hanno scritto le loro considerazioni finali, tra le quali leggiamo: «Mi sono sentito uno schifo perché non mi ritengo superiore ai miei compagni»; «So che se succedesse veramente i miei compagni si ribellerebbero e mi aiuterebbero»; «Abbiamo reagito così perché erano nostri amici, ma se una cosa è ingiusta, è ingiusta per tutti»; «Anche io ho la possibilità di cambiare le cose».

    14. Roger Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani 1981 (ed. orig. 1958).

    15. Nei giochi di simulazione di HL, il lavoro di analisi è precipuo nella fase di debriefing. Vedi una rassegna recente di giochi in Marco Cecalupo, E Cesare disse: “Si lanci il dado!”, in Chiara Asti (a c. di), Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica, Unicopli 2019.

    16. Piotr M. A. Cywiński, Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz, Bollati Boringhieri 2017 (ed. orig. 2012). Su HL puoi leggere: Enrica Bricchetto, Non c’è una fine. Camminare a Auschwitz con Piotr Cywiṅski, 2017. Su questi temi, vedi anche Enrica Bricchetto, Raccontare la storia? Non è soltanto questione di comunicazione, 2016.

    17. Nella sezione Scritture, oltre a quelli presentati qui, si possono leggere altre esperienze di scrittura empatica di studenti con i titoli evocativi: Grazie capo, Racchiuso in un sacco di emozioni, Secondo i nazisti, Il racconto di Esther, Memorie sotterrate, Una storia, Solo una madre, Il ricordo del passato, A cena con il nemico, Una lettera dall'Afganistan, Da quando sono entrata qui (inoltre, sono in corso di pubblicazione lettere simulate di operai inglesi del XVIII e XIX secolo). Sul diario di Anne Frank, vedi anche: Sono dalla tua parte, Anna!, e, su questo sito, l'articolo Marco Cecalupo, La tua Kitty, risultato di un laboratorio per la Giornata della Memoria 2014.

     

    Bibliografia dei laboratori

    1) Il laboratorio sull'iconografia e l'iconologia di san Francesco d'Assisi è pubblicato in:
    • Marco Cecalupo, San Francesco. Immagini che raccontano storie, in Quaderni, n. 7, Edizioni Istituto Alcide Cervi (Atti della 2° Summerschool Emilio Sereni “Il paesaggio agrario italiano medievale”, 24-29 agosto 2010), pp. 377-386.

    Il lavoro è basato su:
    • Chiara Frugoni, Francesco e l'invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto, Einaudi 1993 (in particolare il capitolo sesto, Francesco e la natura, la predica agli uccelli, pp. 233-268).
    • Chiara Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d'Assisi, Einaudi 1995.
    • Maurizio Chelli, Manuale dei simboli nell'arte. Il Medioevo, Edup 2002.
    • Erwin Panofsky, Il significato delle arti visive, Einaudi 1962 (ed. or. 1955).

    Sull'uso delle immagini nella ricerca storica:
    • Peter Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Carocci 2002 (ed.or. 2001).
    • Francis Haskell, Le immagini della storia. L'arte e l'interpretazione del passato, Einaudi 1997 (ed.or. 1993).
    • Carlo Ginzburg, Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Einaudi 2000.

    Sul laboratorio didattico con documenti iconografici:
    • Antonio Brusa, L'atlante delle storie, 2 voll., Palumbo 2010.
    • Elena Musci, Il laboratorio con le fonti iconografiche, in Paolo Bernardi (a c. di), Insegnare storia. Guida alla didattica del laboratorio storico, Utet 2006.
    • Franz Impellizzeri, Marco Cecalupo, Le immagini delle crociate, in Antonio Brusa (et al.), L'officina della storia, Laboratorio, vol. 1, Ed. Scol. Bruno Mondadori 2008.

     

    2) Il materiale del gioco-laboratorio sui groenlandesi è pubblicato in:
    • Elena Musci, Le colonizzazioni vichinghe, in Antonio Brusa, L'atlante delle storie. La sintassi della storia, vol. 2, Palumbo Editore 2010.
    Il laboratorio è basato sulle ricerche pubblicate in:
    • Jared Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi 2005 (ed. Orig. 2005).
    Una rassegna di giochi di storia a cura di Historia Ludens in:
    • Marco Cecalupo, E Cesare disse: “Si lanci il dado!”, in Chiara Asti (a c. di), Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica, Unicopli 2019.

     

    3) La traccia didattica del laboratorio su Walerjan Wròbel è ricavata da:
    • Antonio Brusa, Scipione Guarracino, Alberto De Bernardi, L'Officina della storia, Laboratorio 3, Ediz. Scol. Bruno Mondadori 2008 (a cura di Francesco Impellizzeri).
    Il riferimento storiografico da cui sono tratti i materiali del laboratorio è:
    • Christoph Ulrich Schminck-Gustavus, Mal di casa. Un ragazzo davanti ai giudici 1941-1942, Bollati Boringhieri 1994 (ed. or. 1986).

  • Studio di caso: il mondo della curtis*

    Autore: Cesare Grazioli

     * elaborato secondo le indicazioni contenute in Gli studi di caso. Insegnare storia in modo partecipato e facile di Antonio Brusa (per la Summer School dell’Insmli a Venezia nell’agosto 2014), ora in Novecento.org

     

    tempo previsto di lavoro in aula: 2 ore

     Il polittico di Irminone 

     

    Indice

    1.    Testo per gli studenti
    2.    I documenti
    3.    Attività didattiche
    4.    Esempi

     

    1.    Testo per gli studenti

    La curtis e il suo paesaggio agro-silvo-pastorale

    Una creazione duratura dei franchi, che si diffuse in tutto l’impero carolingio, fu la corte (curtis, detta anche villa), una forma di organizzazione del latifondo agrario che diventò la base del potere della nuova aristocrazia, laica ed ecclesiastica: una forma di potere sulle terre, e sui contadini che le lavoravano, poi definita dagli storici signoria fondiaria.  

    Per capire il funzionamento della corte, dobbiamo immaginare il paesaggio dell’Europa nei secoli prima del Mille, dominato dall’incolto e con una popolazione molto scarsa. Dall’Atlantico al Danubio (oltre il quale si estendeva l’immensa steppa euroasiatica) correva un manto compatto di boschi e foreste, “bucato” da radure di spazi disboscati, abitati e adibiti alle coltivazioni. In un certo senso, era l’opposto (come il negativo di una pellicola fotografica) del paesaggio tipico dell’altra sponda del Mediterraneo, unificata dall’Islam: là le oasi, isole alberate in un mare di sabbia, il deserto; qua, campi e prati come oasi nel mare alberato di boschi foreste e paludi.

    I villaggi agricoli – rari erano gli insediamenti in case sparse – erano raccolti al centro di queste “oasi senz’alberi”. A ridosso delle case, in legno coi tetti di paglia, vi erano gli orti e i frutteti, che richiedevano un lavoro più accurato. Attorno vi era l’anello degli arativi (cioè i campi arati e coltivati a cereali) e delle vigne; poi si estendeva quello dei prati spontanei, destinati all’allevamento di ovini, equini e bovini. Tutt’attorno era il bosco, ma anch’esso integrato nell’economia di villaggio. Le ghiande delle querce nutrivano i maiali allevati allo stato brado, la principale fonte di carne (poi salata ed essiccata) e di grassi (lardo e strutto). Il bosco forniva molto altro: legno, il solo combustibile e quasi l’unico materiale per costruire abitazioni e oggetti d’uso quotidiano;  miele selvatico, il principale dolcificante conosciuto;  frutti selvatici, pesci dagli stagni, selvaggina.

    I campi davano magri raccolti: il rendimento dei cereali (= il rapporto tra chicchi raccolti e seminati), oscillava  tra 2:1 e 3:1 (per avere un raffronto: oggi, per il grano il rapporto arriva a 20:1), ovvero si mieteva poco più di ciò che si era seminato, e che si doveva riseminare, se si voleva mangiare anche l’anno dopo. Però le risorse dei boschi e dei pascoli compensavano le basse rese agricole con un’alimentazione ricca di carne e di grassi animali, di frutta e di ortaggi. Si trattava dunque di un paesaggio e di un’economia agro-silvo-pastorali.

     

    La curtis, base della signoria fondiaria   

    Ogni corte comprendeva uno o più villaggi ed era divisa in:

    1) una pars dominica (o dominico), la parte che il signore (il dominus) faceva gestire a un suo amministratore; 2) una pars massaricia divisa in mansi (oggi diremmo poderi), affittati a famiglie di massari.   

    Sia i mansi sia il dominico, però, non erano costituiti di porzioni compatte di terra, ma disposti “a pelle di leopardo”: ogni manso, che equivaleva alla quantità di terra coltivabile dalla singola famiglia contadina, era formato da più porzioni disperse, anche lontane, inframezzate a porzioni di mansi di altre famiglie di massari, a piccole proprietà indipendenti (i cosiddetti allodi), e anche a mansi dipendenti da altre corti (cioè da altri signori); così era anche il dominico, formato da campi, prati spontanei, boschi e foreste.  

    Ciò che distingueva la pars dominica dalla pars massaricia  erano i modi con cui il signore si appropriava delle eccedenze (= quanto eccedeva il necessario per la sussistenza dei contadini), e anche la condizione giuridica dei contadini. Dal dominico, l’eccedenza dei raccolti andava nei magazzini del signore, detratta la quota che serviva a nutrire i contadini; questi erano di condizione servile e chiamati servi prebendari (perché retribuiti in natura con la “prebenda”: il cibo e l’alloggio). I massari, invece, erano affittuari che dovevano versare censi (o canoni: oggi diremmo affitti) in denaro o più spesso in natura, consegnando una parte (di solito un terzo o un quarto) dei prodotti del loro manso. Tra i massari molti erano coloni (cioè contadini liberi con contratti, non scritti, a lunghissima scadenza, trasmessi di padre in figlio), ma altri avevano gradi diversi di libertà, servitù, semi-libertà.  

    Oltre ai censi monetari o in natura, gli oneri dei massari comprendevano le corvées, giornate di lavoro gratuito sul dominico, in quantità molto variabili secondo le consuetudini locali: da alcune decine di giornate all’anno fino a tre giorni la settimana. Il signore ricavava poi altre entrate dai mulini ad acqua (o anche forni e birrerie) di sua proprietà, dei quali i contadini erano obbligati a servirsi, ovviamente pagando in denaro o in natura tale servizio: queste forme di monopolio erano chiamate bannalità, o diritti di banno. La signoria fondiaria non era dunque solo un rapporto economico, ma un sistema di potere dei signori sui contadini delle loro corti.


    Corvées e coltivazioni collettive   

    Su quell’intreccio così aggrovigliato, sia nella ripartizione delle porzioni di terra sia nei rapporti giuridici tra contadini e signori, si sovrapponeva un sistema comunitario di coltivazione, legato all’usanza della rotazione biennale: per ricostituire la fertilità del terreno se ne lasciava ogni anno metà a riposo, “a maggese”, per cui tutte le famiglie contadine coltivavano insieme la restante metà, a prescindere da dove fossero localizzate le loro porzioni di manso. Il frazionamento dei mansi in porzioni lontane evitava che tutta la terra di una famiglia fosse situata per un anno su due nel maggese, la terra non coltivata. C’erano poi alcune terre comuni destinate a usi collettivi, come il pascolo degli animali e la raccolta di legna.

    Considerando che in agricoltura c’è una forte stagionalità, ovvero serve poco lavoro in inverno e molto nelle fasi più intense dell’annata agricola (l’aratura e il raccolto), con quel sistema il signore poteva lasciare sul  dominico poche famiglie di servi prebendari, perché a loro si aggiungevano, nelle fasi più intense del lavoro, i massari con i loro turni di corvées; e le famiglie dei massari riuscivano comunque a lavorare i propri mansi anche durante i giorni di corvées di un loro membro. Le corvées servivano inoltre alle più disparate attività (trasporto di legna o di letame, scavo di fossi, costruzione o riparazione di edifici e di altre strutture), e consentivano al proprietario della corte di ricavare qualcosa (come la falciatura dell’erba, che diventava fieno, cioè foraggio per i bovini) anche dai mansi non affittati e rimasti vuoti: cosa non rara, data la scarsità di popolazione. L’azienda curtense  rappresentava dunque per i grandi proprietari un modo flessibile ed efficiente di gestire i fattori produttivi dell’Europa di quel tempo: terra sovrabbondante e poche braccia da lavoro.

    [Chiedo alla classe di leggere rapidamente il testo (senza sottolinearlo), poi fornisco i due documenti seguenti].

     

    2.    I documenti

     

    GLI INVENTARI DELLE CURTES

    In Francia, in Germania e nell’Italia padana si sono conservati numerosi inventari di corti dei secoli IX-X, quasi tutte di proprietà di monasteri (più ordinati dei signori laici nel registrare e conservare in archivio i propri documenti). Erano scritti su pergamene, cucite e ripiegate a soffietto. Perciò si chiamano “polittici” (dal greco polu-ptychè = molte pieghe). In apparenza aridi elenchi contabili, quegli inventari si sono rivelati fonti preziose su diversi aspetti del mondo della curtis alto-medievale.

     

    Doc. 1  Dall’inventario del monastero di Santa Giulia (Brescia): la corte di Griliano (secolo X)
    Ndr (=Nota del redattore):  i puntini di sospensione … corrispondono a deterioramento della pergamena su cui era scritto il documento originale

     

    Nella corte di Griliano ci sono 2 case con camino in muratura, 5 capanne, terra arativa per seminare 300 moggi [Ndr: 1 moggio = circa 50 litri], vigna che produce 30 anfore di vino, di prato…, e una foresta incolta. I servi che abitano nella corte sono 36: 11 maschi adulti, 11 femmine, 14 bambini; ci sono anche 20 porci, 9 capre, 8 oche, 20 polli; nel granaio 90 moggi di frumento, 30 moggi di segale, …di orzo, 10 moggi di legumi; un mulino, che rende 15 moggi l’anno.     
    Gli affittuari sono 28, i mansi disabitati 17: tutti insieme pagano 14 soldi, 22 moggi di grano, 13 pecore, 12 formaggi, 20 vomeri, 3 scuri, 1 mannaia, 2 forconi di ferro, e altre 100 libbre [Ndr: 1 libbra=quasi 0,5 kg] di ferro, 10 panni rustici, 5 staia di legumi, 11 polli, 55 uova; e i suddetti affittuari prestano ogni anno 2850 giornate di lavoro.

     

    da: G. Pasquali, Inventari altomedievali di terre, coloni e redditi, in Fonti per la Storia d’Italia, Ist. Storico Italiano per il Medioevo,1979


    Doc.2  Dall’inventario del monastero di San Tommaso di Reggio Emilia: la corte di Enzola (secolo X)

    Inventario del monastero di San Tommaso apostolo, che dipende dalla santa Chiesa di Reggio. Nella corte di Enzola [Ndr: oggi frazione di Poviglio, nella bassa pianura in provincia di Reggio Emilia] abbiamo seminato sul dominico 15 moggi di cereali e ne abbiamo raccolti 50; abbiamo ricavato anche 5 anfore di vino e 10 carri di fieno; in questo luogo abbiamo 3 buoi, con 2 gioghi, 2 vomeri, 2 carri, 4 zappe, 2 scuri, una mannaia, 4 falci per mietere, 12 maiali, un recipiente per il vino, 7 recipienti per il grano, 4 oche; tra servi e ancelle, maggiorenni e minorenni, ne abbiamo 13.
    La corte è dotata di 5 poderi [Ndr: = mansi], sui quali risiedono 25 coloni dipendenti; da essi abbiamo ricavato 140 moggi di cereali, 14 anfore di vino, 84 denari di buon argento, 51 polli, 255 uova, 114 opere [Ndr: =giornate di corvées], metà coi buoi e metà con le mani.
    [Ndr:  seguono le descrizioni di altre 4 corti simili ad Enzola, situate nelle campagne tra Parma e Reggio]

     

    da: B. Andreolli, M. Montanari, L’azienda curtense in Italia, Cleub, Bologna 1983, pp. 153-156

     

     
    3.    Attività didattiche

     

    3.1    Mettere in relazione testo e documenti

    Faccio notare alla classe che anche gli storici si sono serviti di questo tipo di fonti, gli inventari, per descrivere il funzionamento della curtis.

    Divido la classe in coppie, e chiedo a ogni coppia di sottolineare nel testo le parti che potrebbero essere state ricavate da questi due inventari: uno studente sottolinea con un colore le parti del testo che possono essere state tratte dal doc.1 (corte di Griliano), l’altro della coppia sottolinea con un colore diverso (o con un diverso tratto di matita) le parti che possono essere tratte dal doc.2 (corte di Enzola); poi entrambi integrano le proprie sottolineature con quelle fatte dal compagno.

    Dopo questa attività (circa 15 minuti), la classe fa un rapido confronto tra i risultati del lavoro delle coppie, per controllare che si sia giunti alle stesse conclusioni, e discute le eventuali differenze (circa 10-15 minuti).


    3.2    Lavorare sui documenti

    [Ora la classe si divide in gruppi di 4 studenti, ciascuno dei quali a sua volta diviso in due coppie, che confronteranno i due inventari (cioè ne faranno un’analisi comparata) secondo le due seguenti prospettive di indagine (a, b), con le rispettive domande da porre ai documenti (circa 30-40 minuti)]

     a.    Storia dell’economia agraria: produzione e produttività

    1. Che cosa si produceva e che animali si allevavano nelle corti?    
    2. E’ possibile ricavare i rendimenti (cioè il rapporto tra raccolto e semina) dei cereali?    
    3. Com’era il paesaggio rurale della corte (cioè, quale spazio avevano gli arativi, gli orti, i prati, la foresta)?
    4. Le due corti qui esaminate erano più o meno della stessa dimensione, o di ampiezza anche molto diversa?
    5. Tenendo conto dei diversi aspetti visti finora, si è in grado di capire quale delle due corti era più produttiva?

    b.    Storia sociale: i rapporti tra proprietari e contadini:

    1. Di quale condizione giuridica (liberi o servi) erano i contadini delle due corti?
    2. Quali erano gli oneri dei contadini (distinguendo quelli in denaro, in prodotti, in lavoro, e oneri bannali)?
    3. E’ possibile capire se vi era scarsità o abbondanza di popolazione sul territorio?
    4. Tenendo conto di tutto questo, si può capire in quale corte le condizioni dei contadini erano migliori?

    [Se rimane tempo, alla fine di questa analisi comparata dei due inventari, se ne confrontano i risultati: questa attività viene svolta nella prima parte dell’ora successiva.]

     

    3.3    Integrare il testo con notizie tratte dai documenti
    Nella restante parte della seconda ora di lavoro, ogni gruppo integra il testo con le informazioni aggiuntive emerse dall’analisi comparata dei due inventari, ovvero ne costruisce una specie di apparato critico: in corrispondenza delle parti del testo per il quale dalle fonti sono emerse informazioni aggiuntive o esplicative, indica i numeri che stanno per le note al testo (1, 2, 3, ecc.), e in un foglio a parte (che corrisponde allo spazio per l’apparato critico posto a fine capitolo), riporta i numeri e scrive brevi testi, appunto le note, corredate dal riferimento (ad es:  1. ………testo, di un massimo di 2-3 righe……, cfr. inventario di Enzola, riga 7-8).
    I gruppi che non fanno in tempo a finire, concluderanno a casa il lavoro di integrazione del testo.


    4. Esempi

    A seguire, un paio di esempi già svolti su come i gruppi dovrebbero costruire tale apparato critico.

    Gli esempi qui proposti non devono in alcun modo essere considerato l’unica soluzione possibile; al contrario, ce ne possono essere diverse plausibili. E’ ad esempio legittimo che un gruppo inserisca molte note (non più di una ogni due-tre righe, però), e un altro poche ma più ampie: l’importante è che siano pertinenti e sensate.


    Formule di apertura che potrebbe essere utile consigliare, per iniziare il testo della nota a piè di pagina, sono:
    “Ad esempio in alcuni casi, come a Griliano, accadeva che…”; “C’erano differenze anche notevoli tra corti diverse: talora, come a Griliano, la situazione era…., mentre in altre corti, come in quella di Enzola, ….”.

     

    Primo esempio, riferito all’inizio del secondo capoverso del primo paragrafo:
    «Per capire il funzionamento della corte, dobbiamo immaginare il paesaggio dell’Europa nei secoli prima del Mille, dominato dall’incolto e con una popolazione molto scarsa» (1)

    A questa nota, corrisponde a fondo pagina un testo come il seguente:

     1)    Che la popolazione fosse molto scarsa, lo si ricava dal fatto che in diverse corti c’erano molti mansi disabitati: ad esempio a Griliano, una corte dipendente dal monastero di Santa Giulia di Brescia, ben 17 mansi erano vuoti, rispetto ai 28 affidati a famiglie contadine. In altri casi, però, come a Enzola nella bassa pianura reggiana, tutti i mansi erano occupati, per cui il popolamento doveva essere piuttosto disomogeneo.

    Secondo esempio, riferito all’inizio dell’ultimo capoverso dello stesso paragrafo:
    «I campi davano magri raccolti: il rendimento dei cereali (= il rapporto …e seminati), oscillava  tra 2:1 e 3:1»(2)

    A questa nota, corrisponde a fondo pagina un testo come il seguente (o anche molto più breve di questo):

     2)    Non sempre gli inventari indicavano il rapporto tra raccolto e semina, perciò non sempre è possibile ricavare il rendimento dei cereali, ad esempio a Griliano. In alcuni casi, invece, si indica espressamente tale rapporto, ad esempio ad Enzola, dove era di 50 moggi di grano su 15 seminati, perciò con un rendimento di 3,3 : 1, che rispetto alle medie del tempo si può giudicare abbastanza alto [la parte seguente non è alla portata degli studenti: forse a causa della posizione favorevole di questa corte, nella bassa pianura, più fertile delle zone collinari o montagnose].

    E’ opportuno che un esempio già svolto (uno di questi due, o altri) venga fornito alla classe come modello da seguire.

  • The Saigon Execution: “La foto che fece perdere la guerra”

    Laboratorio su una foto iconica: lettura e contestualizzazione*

    di Antonio Brusa 

     

    The Saigon Executione la guerra del Vietnam

     

    saigonE. Adams/Associated Press, General Nguyễn Ngọc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon (1968)All’una e trenta della mattina del 31 gennaio del 1968 i marines nordvietnamiti e i vietcong (i guerriglieri comunisti del sud Vietnam) scatenarono l’offensiva del Têt (il Capodanno vietnamita). Ottantamila soldati attaccarono contemporaneamente le più importanti città del Vietnam del sud. Contavano sulla sollevazione della popolazione, stanca degli americani e della guerra, e sul rapido disfacimento delle truppe del Vietnam del Sud, che ritenevano un esercito-fantoccio al servizio degli Usa. Si lanciarono all’attacco convinti che non sarebbero più ritornati nei loro rifugi nella foresta e che avrebbero ributtato in mare gli invasori. La loro sconfitta fu cocente. La popolazione, per quanto antiamericana potesse essere considerata, non guardava affatto con simpatia i soldati del nord e non si ribellò. L’esercito sud-vietnamita difese strenuamente le città, mentre gli americani ebbero modo di scatenare per intero la loro potenza di fuoco su bande di guerriglieri venute finalmente allo scoperto. Le cifre non consentono dubbi: i combattenti comunisti contarono circa 60 mila morti; la coalizione americana circa 4.500 (La cronistoria della battaglia su “Retestorica”;) all’offensiva del Têt e agli eventi del ’68 è dedicato il sesto episodio della Guerra del Vietnam (PBS, 2017) di Ken Burst e Lynn Novick, significativamente intitolato Tutto cade a pezzi, che sarà oggetto di analisi nell’ultima parte di questo laboratorio: altri riferimenti si troveranno nella sitografia sui movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam, curata da Antonio Prampolini e pubblicata qui, su HL.

    2mappeL’Offensiva del Têt su Pinterest (a; https://www.pinterest.it/pin/417286721693184202/) e la guerra del Vietnam secondo l’Enciclopedia Treccani (b; http://www.treccani.it/enciclopedia/vietnam/)

    La battaglia che gli americani avevano vinto sul campo fu da loro persa politicamente. Pochi giorni dopo la sua fine, nel marzo del 1968, sospesero i bombardamenti nel Nord Vietnam, chiesero l’apertura di colloqui di pace e il presidente Lyndon B. Johnson decise di non ripresentarsi alle elezioni. Il generale William Westmoreland, comandante in capo delle armate americane, che aveva chiesto altri 200 mila soldati per concludere la guerra, fu richiamato in patria. Prese il via un estenuante e contorto percorso diplomatico che portò, nel 1975, a fermare il conflitto più lungo al quale gli Usa abbiano mai partecipato (G. Herring, America Longest War. 1950-1975 , Temple University Press, Philadelphia 1979).

    Sulle ragioni del sorprendente esito di quella battaglia, storici, politici e giornalisti hanno discusso a lungo. Hanno ragionato sul costo della guerra e il peso che questa aveva sulle finanze americane, sulla mobilitazione militare della quale il nord comunista aveva dato ampia dimostrazione, insieme con la sua tenacia nel resistere a un nemico enormemente più forte, sulle titubanze e i contrasti della dirigenza americana, sullo choc della gente che si sentì ingannata dai proclami trionfali di Johnson e Westmoreland (G. W. Hopkins, Historians and the Vietnam War. The Conflitcs Over Interpretations continue, in “Studies in Popular Culture”, 23, 2, 2000, pp. 99-108, 100).

     

    La foto iconica

    Fra le cause di questa sconfitta si citano spesso i media e, in particolare, alcune foto che ebbero un successo straordinario, dal momento che apparvero su giornali e tv di tutto il mondo. Erano immagini che colpivano il lettore. Non avevano bisogno di didascalie (No caption needed), talmente chiaro era il loro messaggio sulla brutalità della guerra. Erano foto iconiche. Robert Lariman e John Lucaites ci insegnano che per definire iconica una foto sono necessarie quattro caratteristiche:

    • è conosciuta da tutti,
    • evoca delle emozioni,
    • viene replicata all’infinito dai media,
    • continua a essere replicata nel corso del tempo (No Caption Needed: Iconic Photographs, Public Culture, and Liberal Democracy, Chicago, 2007).

    Questo genere di immagini “acquista immediatamente un carattere simbolico”: lo scrisse Wicki Goldberg, la studiosa che usò per prima questa espressione – foto iconica –  per distinguere quelle che avevano il potere metonimico di sintetizzare una storia in un colpo d’occhio e, qualche volta, addirittura di cambiarla (N. Smith Damen et al. (2018), The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon e W. Goldberg, The Power of Photography: How Photographs Changed our Lives, New York, 1991).

    Tutti ne conserviamo qualcuna in qualche angolo della memoria, come il miliziano ucciso durante la Guerra civile spagnola; o il vecchio siciliano che indica la strada al ragazzone yankee appena sbarcato in Sicilia nel 1943, entrambe frutto del genio visivo di Robert Capa; il bambino di Varsavia, immortalato da un anonimo fotografo al servizio di Hitler, e l’altro bambino, Ālān Kurdî, ripreso da Nilüfer Demir, morto sulla spiaggia di Bodrum. Le conserviamo non solo per la loro bellezza tecnica e per il loro carattere simbolico, ma perché attribuiamo loro un qualche significato profondo, un “valore” che le rende importanti ai nostri occhi.

    La guerra del Vietnam ce ne ha lasciate almeno sette:

    • The Burning Monkdi Malcom Browne (1963). Thích Quảng Đức era un monaco buddista che si diede fuoco per protestare contro il regime sud-vietnamita. “Nessuna fotografia nella storia del giornalismo ha mai generato le stesse emozioni di questa”, dichiarò John Kennedy.
    • Reaching out di Larry Barrows (1966), che informò gli americani che anche i marines potevano cadere in battaglia;
    • General Nguien Ngoc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon (1968) fu scattata da Eddie Adams per le strade di Saigon. È conosciuta anche con altri nomi: Rough Justice on a Saigon Street (Giustizia sommaria in una strada di Saigon), Têt execution o Saigon Execution, dizione che userò in questo contributo. Vinse il premio Pulitzer nel 1969 e, da allora, diventò il prototipo della foto che cambia la storia (M. Astor, A Photo That Changed the Course of the Vietnam War, 1 febbraio 2018, “N.Y. Times” e  R. Hamilton, Image and Context: The Production and Reproduction of The Execution of a VC Suspect by Eddie Adams, in J. Walsh et al. (eds.), Vietnam Images: War and Representation, Editorial Board, Lumiere (Co-operative Press Ltd 1989, p. 171).
    • And Babies? (1968) è il titolo del manifesto tratto dalla foto di Ron Haeberle, fotografo dell’esercito americano, che testimoniava le atrocità del massacro di My Lay, un evento che scosse l’opinione pubblica mondiale;
    • Kent State Massacre (1970), scattata da uno studente, John Filo, per testimoniare la sparatoria della Guardia Nazionale contro i giovani che protestavano contro la guerra del Vietnam;
    • Accidental Napalm(1972), di Nick Ut, la celebre foto della bambina nuda che fugge dal villaggio incendiato dal napalm;
    • Helicopter evacuation from Sai Gon(1975), di Hubert van Es che ritrae l’elicottero che imbarca i fuggiaschi dal terrazzo della residenza del capo della Cia a Saigon.

    Al principio del suo Flags of our Fathers(2006), il film che racconta le memorie ferite dei marines che issarono la bandiera americana sul monte Suribachi a Jwo Jima, Clint Easwood accosta The Saigon Execution alla celebre foto che ritrae la scena dell’alzabandiera (Raising the Flag on Iwo Jima), per la quale Joe Rosenthal guadagnò il Pulitzer in quello stesso 1945, proprio perché entrambe – si dice nel film - ebbero il potere di cambiare la storia: questa incoraggiando la popolazione americana a sostenere una guerra che pareva a molti troppo lunga e sanguinosa; quella, la Saigon Execution, convincendola della sua crudeltà inutile.

    The Saigon execution èinclusa da "Time"fra le cento foto che contrassegnano la storia contemporanea. Oltre a questa, il 1968 – un anno record! - ne conta altre tre: l’invasione di Praga, il saluto col pugno chiuso dei quattrocentisti neri alle olimpiadi del Messico e l’Earthrise, la foto del sorgere della terra scattata da Bill Anders mentre orbitava intorno alla luna.

    Su The Saigon execution imposterò un modello di laboratorio storico per questo genere di fonte visiva che ne permetta di mettere a fuoco i problemi storico-didattici e, al tempo stesso, fornisca ai docenti qualche idea concreta di lavoro

     

    Prima fase: lettura della fonte

    Una foto iconica si presta, quasi per natura, a un percorso che parte dall’approccio emotivo e si chiude con la riflessione critica. Lo organizzo in quattro fasi, che per ragioni di comodità vengono pubblicate in due puntate.

    Nella prima fase, dopo aver chiesto agli allievi di esprimere le proprie impressioni, li si guida alla lettura strutturata della fonte. Nella seconda, si sottopongono a revisione critica gli elementi ottenuti dalla lettura: confronto tra fonti diverse, valutazione della fonte e sua contestualizzazione. Nella terza, si affronta la questione del rapporto fra passato e presente, dal punto di vista della comunicazione e dei problemi etici che questa comporta. Nella quarta, infine, si focalizza l’attenzione degli allievi sul contributo che la storiografia può dare nella costruzione di una visione critica di quell’evento. Queste fasi sono organizzate, ancora, secondo un ordine progressivo di difficoltà. Le prime due sono composte da testi brevi, molto legati all’osservazione della fonte. Nelle successive, invece, i testi sono più lunghi e invitano a riflettere su questioni sociologiche, storiche e memoriali. Come si ribadirà in seguito, ogni fase può essere svolta sia nel modo tradizionale (lezioni e lettura dei testi: non mi occupo in questa sede della valutazione), sia in forme didattiche partecipate, delle quali si fornirà sempre un modello. Tuttavia, per favorire il docente che voglia provare strategie diverse, i brani sono di lunghezza breve (escluso gli ultimi due), in modo da poter essere “montati” altrimenti.

    Scrivono Jeffrey Walsh e James Aulich, i curatori di Vietnam Images: War and Representation (cit, pp. 1-9), che un’immagine cristallizza l’evento e lo decontestualizza. Il compito dello storico è quello di riportarlo nel suo contesto.  È questo lavoro che ci permette, da una parte, di capire in profondità quell’evento e, dall’altra, di rapportarci a quello correttamente, sia pure a distanza di quasi mezzo secolo. “Rapportarsi correttamente” vuol dire fare i conti con questioni quali la memoria pubblica, l’uso pubblico della storia, la cosiddetta “memoria condivisa” e i media, nuovi e vecchi, che sono lo strumento principale di socializzazione di questi problemi. Si tratta, dunque, di fare storia, ma al tempo stesso educazione alla cittadinanza e, come si vedrà soprattutto nella seconda parte (nelle proposte di Valerio Bernardi e Giulia Perrino), convocare intorno al tema posto dalla Saigon Execution altre discipline, come la filosofia e le scienze della comunicazione e artistiche.

    In questo laboratorio i documenti e i materiali non andrebbero presentati insieme, in un unico dossier, ma poco per volta, secondo le modalità che vengono di seguito indicate. Ho cercato di realizzare un’antica idea di Scipione Guarracino, che vagheggiava un’attività nella quale ad ogni nuovo documento gli allievi fossero spinti a modificare le conclusioni fino a quel momento raggiunte (S. Guarracino, La logica della ricerca e la didattica dell’archivio, in Didattica della storia e archivi. Atti degli incontri di studio, Caltanissetta, 1-2 dicembre 1986, a cura di C. Torrisi, Caltanissetta-Roma 1987, pp. 55-85). Mi sembra una buona strategia per far rivivere agli allievi il gusto della scoperta progressiva, tipico di una ricerca scientifica.

    Dopo aver motivato i ragazzi al lavoro e fornito gli elementi essenziali di contestualizzazione (date, luogo e motivi della guerra; cenni sull’Offensiva del Têt), l’insegnante presenta la foto, chiede di commentarla o di esprimere che cosa provano guardandola. Chiede, ancora, di ipotizzare che cosa essa rappresenti. In pratica, mette alla prova il potere della fonte iconica di suscitare emozioni senza bisogno di tante parole. Afferma un manuale recente: “La fotografia cattura perfettamente la drammaticità della morte e la disumanità della guerra. Il volto contratto del condannato e quello vuoto e rilassato dell’esecutore” (A. Graziosi, a cura di, Storie. Il passato nel presente, Giunti, Firenze 2019, p. 502). Il contrasto fra i due protagonisti della foto sollecita sentimenti e pensieri. Li si trascrive man mano che vengono espressi.

    Altre domande sono suggerite dallo stesso manuale: “le immagini della violenza contro i prigionieri vietcong ebbero un effetto dirompente nell’opinione pubblica americana”. Per riprendere il titolo di questo contributo, questa fu una foto “spartiacque”. Fino a quella foto, era stata una guerra di bravi ragazzi. Dopo, cominciò ad essere una sporca guerra. Perché? Chiediamo agli allievi di congetturare delle risposte.

     

    Una lettura strutturata

    Robert Hamilton fornisce un saggio di lettura denotativa di questa foto. Può essere una guida per mettere in luce particolari sfuggiti e stilare una descrizione analitica precisa.

     

    La fotografia mostra due figure principali. Una, in uniforme, è vista di profilo, con il braccio teso mentre punta una pistola alla testa dell’altra figura, che è in posizione frontale, veste una camicia a scacchi e ha le mani dietro la schiena. La fotografia include anche due figure marginali e l’ombra di una terza; ci sono alcune costruzioni in secondo piano, che vanno da destra verso sinistra, come uno scenario indistinto e poco chiaro.  Le due figure in primo piano stanno in piedi, in contrasto tonale con lo sfondo indistinto. La postura e l’espressione indicano che il colpo è stato appena sparato.

    La scena potrebbe indicare che “un soldato o un poliziotto spara a un civile disarmato per strada” (R. Hamilton, cit., p. 172).

     

    Angie Lovelace ci fornisce, invece, un modello di descrizione fortemente connotata, “semiotica”, come la definisce (Iconic photos of the Vietnam War era: A semiotic analysis as a means of understanting, 2010). In ogni caso, una descrizione molto partecipata.

    Il boia doveva essere consapevole della macchina fotografica puntata su di lui quando ha deciso di puntare la pistola contro il vietcong prigioniero. Ha girato il corpo e il viso lontano dall’obiettivo, nascondendo così la sua espressione e lo scopo della sua azione. Dal canto suo, il volto della vittima rivela paura e l’angoscia di essere ucciso.

    La camicia scozzese spiegazzata della vittima è l'opposto della mimetica tipica di un militare. Il suo abbigliamento dice a chi guarda che non è un militare, ma un cittadino che viene colpito a sangue freddo. Viene sparato a bruciapelo, senza processo, in una strada deserta. Non viene sparato con un mitra o un fucile, armi che in genere portano i soldati, ma con una pistola. Ciò accentua la disumanità della scena, perché questa non rappresenta più un’azione militare, ma l’odio fra due uomini, o, in questo caso, l’odio fra le due parti in conflitto

    La posizione delle braccia dei due personaggi mostra la disparità del potere. Il braccio del tiratore è steso orizzontalmente. Mentre preme il grilletto, i muscoli del suo braccio si tendono, mostrando il potere che sta esercitando sulla sua vittima. Le braccia del vietcong non sono visibili; sono legate dietro la schiena. Mostrano la sua privazione di potere e la sua impossibilità di reagire. Il vietcong è immobile. Nessuno lo sta trattenendo, ma non sta cercando di scappare. Ha accettato il suo destino. Non prova nemmeno a ruotare il suo corpo o a sottrarsi al colpo di pistola e al suo destino imminente.

    Il soldato a sinistra digrigna i denti. Il suo volto mostra l’emozione per l’atto raccapricciante che sta guardando.

    Questa foto crea empatia per la vittima e criminalizza l’esecutore. Si può anche non conoscere la situazione concreta, ma questo non impedisce di simpatizzare con la vittima e considerare questa scena inumana. Questa foto mostra un atto disumano, che enfatizza la disumanità della guerra del Vietnam nel suo complesso”  (A. Lovelace, cit., pp. 40-41).

     

    Procedimento didattico

    Questi due brani possono essere usati in vari modi. Possono essere spiegati oppure dati direttamente in lettura. Il docente li può tenere per sé e utilizzare come scaletta per domande guida per l’analisi, in un dialogo informale con gli allievi. Altrimenti, in modo più formale, proporrà di completare una tabella - individualmente o in gruppi - per poi controllarla avvalendosi delle descrizioni di Hamilton e Lovelace.

    Ciò che è importante, comunque, è tenere per fermo che più attenta è l’analisi del documento, più vivaci saranno le discussioni successive.

    Particolare della foto Descrizione analitica.   Significato                       
    Testa e volto dell'esecutore    
    Testa e volto della vittima    
    Corpo e braccia dell'esecutore    
    Corpo e braccia della vittima    
    Abbigliamento dell'esecutore    
    Abbigliamento della vittima    
    Armi    
    Personaggi secondari    
    Sfondo    

     

    La scena e i protagonisti

    In questa parte del laboratorio suggerisco di dividere la classe in tre gruppi. A tutti verrà consegnato il primo testo, la descrizione della scena (di seguito: testo a). Poi si suddivideranno le tre biografie (testi b, c, d), una per ciascun gruppo. Ogni gruppo, dunque, avrà due testi da leggere e commentare. Essendo testi brevi, si può prevedere un tempo ragionevolmente ridotto. Richard Stocktonpropone una ricostruzione dettagliata della vicenda, che può servire da guida all’insegnante per seguire il lavoro dei gruppi e gestire la discussione collettiva finale, facendo attenzione a non anticipare – e bruciare così – i temi che verranno presentati successivamente (The Story Behind Eddie Adams’ Iconic “Saigon Execution” Photo, 2020)

     

    a. La scena (per tutti i gruppi)

    Il primo febbraio i marines sudvietnamiti catturarono un sospetto vietcong presso la Pagoda buddista dove si era asserragliato un commando comunista. L’unica identificazione militare del prigioniero era una pistola, del tipo solitamente usato dagli ufficiali vietcong. Indossava una camicia a scacchi e pantaloncini corti. Fu condotto per la strada, con le mani legate dietro la schiena, di fronte al generale di brigata Nguyễn Ngọc Loan, capo della Polizia nazionale. Quando il prigioniero gli si avvicinò, Loan estrasse il revolver e lo agitò per allontanare i marines. Senza dire una parola, puntò la pistola alla tempia del prigioniero e premette il grilletto. L’uomo cadde per terra, mentre il sangue schizzava dalla ferita”. (Hamilton, p. 173). Poi, diretto verso i presenti, disse: “Questa gente uccide molti americani e molti dei nostri. Buddha mi perdonerà. (C. Bonnet, L'exécution de Saïgon: quand le photographe devient l'ami du tueur, “L’OBS”, 2017)

    saigon sequence

    Dalla sequenza delle foto si capisce che il reporter ha continuato a scattare anche dopo l’uccisione. Infatti, si vede il vietcong a terra e, nell’ultima inquadratura, un soldato americano che lo riprende, dopo che gli è stato posto sul petto un numero di riconoscimento. Poco dopo, non ripreso dal fotografo, passa un camion militare che raccoglie il corpo per seppellirlo in un posto ancora sconosciuto. 

     

    b. Nguyễn Ngọc Loan (1930 – 1998)

    Loan pizzeriaLoan nella sua pizzeria “Les trois continents” - in https://vietbao.com/a279394/ky-niem-voi-tuong-nguyen-ngoc-loan

    Aveva fatto l’aviatore nell’esercito del Vietnam del sud. Apprezzato per la sua bravura, ma anche grazie ad amicizie altolocate, fece carriera diventando generale e capo della polizia di Saigon. Svolgeva il suo lavoro con estremo rigore e spietatezza. Non faceva sconti a nessuno, nemmeno agli americani, che – difatti – lo consideravano un piantagrane fastidioso. Era adorato dai suoi uomini, tenacemente anticomunista e, al tempo stesso, convinto nazionalista, con un forte senso dello stato. Così lo descrive Pham Phong Dinh, un suo amico. Sappiamo, tuttavia, che fece accordi con la mafia locale, e dai proventi del traffico di oppio ricavava denaro da distribuire ai suoi agenti (Ho Dieu Anh and Spencer C. Tucker, voce Nguyễn Ngọc Loan, in Martin J. Manning and Clarence R. Wyatt (a cura di), Encyclopedia of Media and Propaganda in Wartime America, Clio, Oxford, 2011, p. 667).

     

    Aveva trentotto anni quando gli fu assegnato il compito di difendere il quartiere dove si trovava la Pagoda buddista, uno degli obiettivi dei guerriglieri durante l’Offensiva del Têt. La foto dell’esecuzione lo rese famoso e detestato in tutto il mondo. Tre mesi dopo l’Offensiva, fu ferito gravemente. Gli dovettero amputare una gamba. Trasportato in Australia per essere curato, venne riconosciuto e costretto a ritornare in Vietnam.

     

    Oriana Fallaci scrisse di lui che era la persona più odiata di Saigon. Lo aveva intervistato mentre era in ospedale. Gli chiese il motivo di quell’uccisione brutale. Lui rispose che il vietcong sparava senza uniforme. Era un vigliacco. Lo uccise perché fu preso da un moto di collera. “Forse fui veramente cattivo - concluse congedandosi dalla giornalista -  ma colui che uccisi era forse migliore di me?” (Niente e così sia, Rizzoli, Milano 1969, pp. 203-206)

     

    Nel 1975, quando il Vietnam del Nord vinse definitivamente la guerra, scappò negli Stati Uniti, dove aprì una pizzeria. La foto continuava a perseguitarlo anche qui. Denunciato per crimini di guerra, venne assolto da un tribunale americano: fra i testimoni a sua difesa ci fu lo stesso Eddie Adams, che nel frattempo era diventato suo amico. Morì di cancro nel 1998. Adams gli dedicò un elogio sul “Time”, nel quale scrisse: “in quella fotografia morirono due persone: il destinatario del proiettile e il generale Nguyễn Ngọc Loan. Io ho ucciso il generale con la mia macchina fotografica” (Eulogy: General Nguyen Ngoc Loan, “Time”, 27 luglio 1998).

     

     c. Nguyễn Văn Lém (1931 o 1932 – Saigon, 1 febbraio 1968)

    Nguyễn Văn Lém è stato un attivista vietnamita, membro del Fronte di Liberazione Nazionale, nelle cui fila combatteva col nome di battaglia di Bai Lop. Fu sommariamente giustiziato a Saigon dal capo della Polizia Nazionale della Repubblica del Vietnam, Nguyễn Ngọc Loan, durante l'offensiva del Têt, di fronte ad un cameraman dell'NBC e ad un fotografo dell'Associated Press, Eddie Adams. Il vietcong in questione era stato arrestato in quanto sospettato di aver ucciso un ufficiale sud vietnamita, sua moglie e sei dei suoi figli (uno dei quali sopravvisse). Nella stessa azione la sua unità, della quale Lém era l'ufficiale superiore, aveva inoltre sommariamente fucilato altri 31 civili. (Wikipedia e A. Miconi, Saigon Execution 1968: “The Photo that lost the War”, in “Problemi dell’informazione”, 63, 1, pp. 63-86).

     

    mogliePhilip Jones Griffiths, (1996), Nguyễn Thi Lop mostra un giornale con la foto del marito e la medaglia al valore del Vietnam, in https://pro.magnumphotos.com/Asset/-29YL5346576G.hIl giorno in cui fu ucciso, Nguyễn Thi Lop, sua moglie – che allora aveva 30 anni ed era incinta di un mese - vide i suoi vicini riuniti attorno a un giornale e si avvicinò loro. "Guarda Loan che uccide un vietcong!" uno di loro le disse. "Capii all'istante che era Lém", dichiarò in seguito Lop, "ma non potevo dire nulla, dovevo nascondere il mio dolore e portarmelo dietro come il fardello di un venditore ambulante mentre vagavo per la città cercando di scoprire in silenzio cosa fosse successo. Ero troppo terrorizzata per avvicinarmi alla sua unità per paura di essere identificata".

    Nel 1998, in occasione della morte del generale Loan, viene intervistata da un giornalista. È una bisnonna di 66 anni che non vuole dimenticare il passato. Ha battezzato sua figlia Loan “nel tentativo di purificare l'anima dell'uomo che lei chiama il male". Dice: “Una sola cosa avrei voluto: incontrare Loan e chiedergli perché aveva ucciso mio marito” (War secret dies with killer of Saigon, in “South China Morning Post”, 23 luglio 1998). Non serba rancore nei confronti del fotografo, perché solo grazie a lui – dice – si è conservato il ricordo di Lém, del quale non si trovò nemmeno il cadavere.

     

    Saigon Execution è esposta nel Museo della Guerra di Ho Chi Minh City (il nome odierno di Saigon). Nel nuovo contesto ha cambiato significato. Non testimonia la lotta fra mondo libero e comunismo né l’orrore della guerra. È il simbolo dei “tormenti del Vietnam” (R. Hamilton, cit., p. 181) e della guerra per la liberazione nazionale, per la quale Nguyễn Văn Lém è un eroe.

     

    d. Eddie Adams

    È il terzo protagonista di questa scena. Non compare nella foto, ma senza di lui quell’uccisione non sarebbe diventata l’Esecuzione di Saigon.

    Eddie Adams si era specializzato nei fotoreportage di guerra sotto le armi, avendo combattuto in Corea nel corpo dei marines, al principio degli anni ’50. Poi aveva cominciato a lavorare per l’Associated Press (AP), la più grande agenzia americana di fotogiornalismo. Nella sua lunga carriera ha scattato migliaia di foto, che gli avevano meritato oltre 500 premi e riconoscimenti di vario genere. Ma la foto per la quale è ricordato, e che lo rese celebre, fu proprio l’istantanea dell’uccisione di Nguyễn Văn Lém.

     

    meme lezamaIl fotografo vittima della sua foto. Montaggio (meme) di Julio Lezama, in Victimas o Victimarios, cit.Confessava di sentire quasi un senso di colpa per quella foto. Per lui, il Generale Nguyễn Ngọc Loan era una brava persona, un eroe che la foto trasformò in un mostro. In quei giorni Saigon era piena di cadaveri. Si sparava a vista contro chiunque. La foto non racconta tutta la storia – diceva - ma solo un pezzo. Racconta bugie e il generale ne era stato una vittima.

    Ma anche lui, in qualche modo, ne era una vittima. Si sentiva perseguitato da quella foto. Diceva di aver realizzato decine di reportage nei quali “nessuno si era fatto male”. Non gli piaceva di essere ricordato solo per quell’assassinio. Non sopportava, lui – ex-marine e sostenitore degli Usa – che la sua foto venisse usata come simbolo della politica militarista degli Stati Uniti dagli studenti che, nel frattempo, occupavano le Università e manifestavano nelle piazze di tutto il mondo. Non sopportava che fosse diventata “un dannosissimo e perfetto strumento di propaganda nelle mani del Vietnam del nord” (R. Hamilton, cit.,  p. 179).

     

    Quando il generale estrasse la pistola, pensava che l’avrebbe usata per minacciare il prigioniero, per farlo confessare. Dichiarò che non avrebbe mai immaginato che avrebbe sparato (BB news, 29 gennaio 2018). Ma, dopo il colpo, Loan si voltò verso di lui e disse che quell’uomo aveva ucciso molti americani e molti vietnamiti (qui Eddie Adams parla della Saigon Execution, nel 2008).

     

    Discussione e lezione conclusiva

    I tre gruppi, dopo aver letto e discusso brevemente le biografie, confrontano le loro conclusioni. Tutti insieme, poi, verificano le impressioni espresse all’inizio dell’attività. Erano corrette? Vanno modificate e in che modo? È accettabile l’assunto che una foto iconica “non ha bisogno di didascalie”?

    Può essere usato come “innesco della discussione” questo testo di Julio Lezama, che gioca molto sull’emotività. Nel caso l’unità di lavoro finisca qui, l’insegnante terrà conto – per la sua lezione conclusiva - dell’andamento del dibattito, dei problemi emersi e, soprattutto, dei nuovi dati presentati nella seconda fase.

     

    TRE FOTO

     (J. Lezama, Victimas o Victimarios, cit., con qualche modifica)

     

    Seconda fase. Lettura critica e contestualizzazione della fonte

    Adams pulitzerEddie Adams riceve il Premio Pulitzer nel 1969 e mostra la foto premiata, in J. Lezema, Victimas o Victimarios cit.

     

    Procedimento didattico

    Questa seconda fase si apre con uno schema riassuntivo delle conclusioni raggiunte, che si potrebbe comporre con l’aiuto di questa tabella:

     

      Le nostre conclusioni
    Eddie Adams  
    Nguyễn Ngọc Loan  
    Nguyễn Văn Lém  
    Impatto della foto con il pubblico  
    Incidenza della foto nella guerra  

     

    Anche in questa seconda fase consiglio tre gruppi di discussione:

    • sulla produzione della fonte iconica (testo e);
    • sul’affidabilità dei testimoni (testo f);
    • sul suo impatto sul pubblico (testo g).

    L’insegnante consegna a ciascun gruppo uno dei tre testi (e, f, g), insieme con quelli già esaminati nella prima fase (a, b, c, d). Quindi ogni gruppo avrà un dossier di cinque testi su cui lavorare, dei quali almeno due già letti e commentati. Essendo, anche in questo caso, testi brevi, si prevedrà un tempo ragionevolmente ridotto. Terminata l’analisi, ci si riunisce e si decidono le eventuali modifiche da apportare allo schema iniziale. Come per la fase precedente, se il lavoro ha preso troppo tempo, si può chiudere a questo punto con la lezione conclusiva. Altrimenti, si passerà alla terza fase.

     

    Il laboratorio di discussione

    Come abbiamo appena detto, l’insegnante consegna a ciascun gruppo il piccolo dossier e i gruppi si riuniscono separatamente per discuterlo. Questa volta, però, sono necessarie alcune avvertenze, dal momento che i nuovi testi metteranno in luce delle contraddizioni e faranno sorgere molti dubbi.

    La rete – e, in genere, la storia pubblica -  ci ha abituato a paralogismi, derivanti in larga misura dall’impianto argomentativo del negazionismo. Nel nostro caso in particolare, occorrerà fare attenzione alla regola del “falsum in uno, falsum in toto”, tipica dei legal thriller in tv e ampiamente usata nella storia “faidate”. Un testimone dice una bugia, dunque è screditato e la sua testimonianza va rigettata interamente. (Su questa “parastoria” sono già intervenuto qui, su HL).

    L’assunto storico, invece, è che tutti i testimoni “dicono bugie”, nel senso che raccontano la realtà dal loro punto di vista, e nel senso ancora che, col passare del tempo, cambiano opinione e riformulano la loro esperienza (la storiografia ha ampiamente lavorato su questi punti). Le regole della parastoria sono, a ben vedere, delle scorciatoie per pigri. La bravura dello storico è proprio quella di lavorare con pazienza sulle testimonianze, rispettandole tutte, eliminare “le scorie” e cercare di delineare una ricostruzione della realtà alla quale la fonte fa riferimento, mai facile e lineare, sempre piena di dubbi.

    Posti, dunque, di fronte a questi nuovi documenti, sarà possibile che gli allievi ricorrano a qualcuno degli espedienti conoscitivi parastorici: “allora tutto è falso”, “allora questo testimone è un imbroglione”, “allora non si può sapere cosa accadde”. Il docente sceglie se prevenire le possibili interpretazioni sbagliate con una breve lezione prima del laboratorio, oppure aspettare gli allievi al varco, con le loro interpretazioni spontanee, e discuterne con loro. “Ogni documento è menzogna. Sta allo storico di non fare l’ingenuo”: Jacques Le Goff scrisse questa regola aurea nel 1978. Vale anche per le foto iconiche (potrà essere utile attrezzarsi con la rilettura della voce monumento/documento dell’Enciclopedia Einaudi).

    Nella redazione del testo riassuntivo della discussione, dunque, il fatto in sé non va messo in dubbio. Susan Sontag, la celebre scrittrice e studiosa della fotografia, ci assicura che non c’è alcun motivo per sospettare dell’autenticità di quello che vediamo nella foto che Eddie Adams scattò il primo febbraio del 1968 (S. Sontag, Regarding pain of the Others, Picador, N.Y. 2003, p. 47). Le domande, le incertezze, le ipotesi, le suggestioni contrastanti riguarderanno i motivi di questa azione, le intenzioni dei protagonisti, il suo significato, il contesto e l’impatto che questa ebbe sulla società.

    Ecco i nuovi testi da consegnare agli allievi.

     

    e. La produzione della fonte

    Eddie Adams è solo uno dei 537 addetti stampa che seguono la guerra. L’Associated Press (AP), l’agenzia per la quale Adams lavora, è presente in forze con più di venti fotografi. Ogni giorno di guerra vengono scattate migliaia di foto. Solo poche di queste passano il filtro delle redazioni e vengono comprate dai media. Solo pochissime diventeranno le “foto che tutti guardano”, quelle che ti rendono famoso. Si può immaginare quanto sia spietata la concorrenza fra i reporter. Confessa Horst Faas, rivale acceso di Adams: "Cercavo di apparire sui giornali ogni giorno, per battere la concorrenza con foto migliori" (A. Hamilton, Horst Faas. The Chronicler of Vietnam who captured horror, 2012).

     

    E, per converso, poiché i media erano una macchina enorme che viveva delle loro foto, si può immaginare quale pressione le diverse agenzie fotografiche esercitassero sui fotoreporter, spingendoli a correre rischi a non finire pur di scattare un’istantanea di successo. Non dobbiamo dimenticare che, nel corso di quella guerra, ben 135 di loro persero la vita (T. Bartimus, A homage to the photojournalists lost to decades of war in Vietnam, 29 aprile 2020). 

     

    Adams era supportato da una troupe della NBC, una delle più importanti reti televisive americane, che lo seguiva nella sua caccia. Quella mattina, dunque, quando si seppe che un vietcong era stato catturato, il gruppo di giornalisti si precipitò per strada, seguì il drappello di soldati che scortava il prigioniero e, quando questi fu portato di fronte al generale, si schierò per riprendere ciò che sarebbe accaduto. Questo vuol dire che la foto mostra unicamente alcuni dei partecipanti alla vicenda. Ma il generale Loan non è solo con la sua vittima. Ha di fronte a sé un gruppo di fotoreporter e cameramen, con i loro assistenti, armati di macchine fotografiche, telecamere e microfoni. Sa che, attraverso loro, è osservato da un pubblico mondiale. Loan, quindi, vuol dare una lezione al mondo. “Non avrebbe giustiziato sommariamente il sospetto vietcong se non ci fossero stati dei giornalisti a testimoniarlo”, conclude lapidariamente Susan Sontag (S. Sontag, Regarding pain of the Others, Picador, N.Y. 2003, p. 47).

     

    È versaigon camera oscuraThe Saigon Execution, nella camera oscura, dopo essere stata sviluppata, viene messa ad asciugare.o che, successivamente, Adams ebbe a dolersi di questa foto. Aggiunse, per rincarare la dose, che era una foto sbagliata, fatta male, che non l’avrebbe mai voluta scattare (M. Persivale in “Corriere della Sera”, 24 dic. 2009) . Ma Peter Arnett, uno dei giornalisti americani più famosi e seguiti, racconta di quella notte in cui Adams sviluppò i negativi, aiutato proprio da Horst Faas che li esaminava con la lente di ingrandimento: rivela che quando questi vide la foto “mormorò 'maledetto' e consegnò il film a Eddie che lo guardò e lanciò un ‘whoop’ ". I due fotografi avevano capito a colpo d’occhio che quella foto valeva oro (In guerra con Eddie Adams, “The digital Journalist”, ottobre 2004). Infatti, quando il rollino giunse nella sede dell’AP, i giornalisti esplosero in esclamazioni di giubilo (R. Hamilton, cit., p. 182).

     

    f. L’affidabilità dei testimoni

     

    Non abbiamo testimonianze dirette e al tempo stesso complete della Saigon Execution. I testimoni raccontano i particolari poco per volta, spesso dopo anni. Per esempio: che cosa disse Loan, dopo aver ucciso il vietcong? Adams, in varie occasioni, dichiarò che pronunciò queste parole: "Ha ucciso molti dei miei uomini e molti della tua gente". Questa frase viene riportata concordemente dalla stampa del tempo (R. Hamilton, cit., pp. 175-176). Invece, secondo David D. Perlmutter, studioso di foto iconiche che scrive nel 2004, Lém avrebbe detto: “Molti americani sono stati uccisi in questi ultimi giorni e molti dei miei migliori amici vietnamiti. Ora lo capisci? Buddha lo capirebbe”. Altri, ancora, specificano: “Buddha mi perdonerà”. (C. Bonnet, cit., 2017). Ma noi possiamo pensare, leggendo l’intervista di Oriana Fallaci, che Loan era cristiano (“aveva un crocifisso al collo”). Quanto sono credibili le aggiunte?

     

    Inoltre: come faceva Loan a sapere che Lém aveva ammazzato senza pietà una famiglia intera? La sequenza delle foto, e più ancora il video girato dalla NBC, non sembrano lasciare spazio a un momento in cui il generale viene informato. Il prigioniero arriva e viene immediatamente giustiziato: il tutto in meno di dieci secondi. Nella ricostruzione di Ken Burns, il viet cong arriva, Loan ordina a un soldato di ucciderlo, e quando questo indugia, allontana tutti agitando la pistola, dice “ti giustizio” e lo uccide. (In The Execution of a vietcong, History Channel, 2016, min. 2.20-2.30, con spezzoni di intervista a Adams e alla moglie di Lém).

     

    Le precisazioni si aggiungono e si accavallano col passare del tempo: ha ucciso una famiglia intera, con i nonni e i bambini; no, era la famiglia di un amico di Loan; in più, ha ordinato la fucilazione di oltre trenta civili. Oriana Fallaci chiede a Loan perché non divulgò subito i crimini commessi da Lém. Lui rispose, con uno scatto di orgoglio, che non aveva bisogno di giustificazioni. Potremmo rivolgere la stessa domanda all’Amministrazione Usa, quando si accorse che la foto stava diventando uno strumento della propaganda antiamericana. Perché non dirlo subito, per fermare l’uso ostile di quella foto? Nel 1985, Ted Welch notava una contraddizione in una intervista che Adams aveva appena rilasciato a “Newsweek”. Questi, infatti, aveva affermato che “quell’uomo aveva ucciso il miglior amico di Loan e tutta la sua famiglia”. Welch trovava che questa coincidenza fosse difficile da credere, e si chiedeva perché Loan (o Adams stesso, aggiungiamo noi) non avesse divulgato questa informazione, data l’attenzione pubblica che l’esecuzione aveva richiamato” (R. Hamilton, pp. 181 s.).

     

    Lém, il vietcong, è veramente un assassino spietato? La moglie sostiene che non ha mai fatto nulla di male e che, in realtà, lo si è confuso con un'altra persona. Notizia ripresa dalla versione vietnamita di Wikipedia che mette in dubbio l’identità della vittima.

     

    g. L’impatto sociale della fonte

    Lo ripetono in molti, quasi come un mantra, nei commenti e nei libri che parlano della Saigon Execution: quella foto fu una bomba psicologica che allontanò la maggioranza della popolazione dal sostegno alla guerra e costrinse l’amministrazione americana a iniziare una procedura di sganciamento. È la foto che fece perdere la guerra.

     

    Sostiene questa tesi Peter Braestrup, fotoreporter tra i più impegnati in quella guerra (Big Story: How the American Press and Television reported the Crisis of Tet 1968: vedine la buona recensione di George Herring, 1979). Ma di parere decisamente diverso è Don Oberdorfer, anche lui un giornalista sempre presente sui campi di battaglia.

     

    Potremmo continuare con le citazioni: la discussione fra gli addetti ai lavori è inesauribile. Per trovare qualche punto fermo, dobbiamo uscire da quel dibattito e cercare tracce concrete dell’impatto popolare della foto. Se, dunque, andiamo a vedere i sondaggi, questi ci danno un risultato paradossale: da una parte aumentano coloro che pensano che la guerra verrà perduta; ma dall’altra, ed è questo che ci interessa, i sostenitori della guerra non diminuiscono affatto, anzi aumentano. Infatti, i contrari all’intervento americano, che erano il 52% nel febbraio del 1967, scesero al 42% un anno dopo, a foto già pubblicata (W. M. Hammond, The Tet Offensive and the News Media, in “ Army History”, 70, 2009, pp. 6-16, 9 ). David D. Perlmutter (2004) scrive che “non c’è nessuna prova che questa foto abbia avuto un effetto significativo sulla pubblica opinione americana”. E conclude il suo studio sulle fonti iconiche sostenendo che quello della “foto che fece perdere la guerra” è solo un mito. 

     

    Ciò che va in crisi – continuano a raccontarci le ricerche sul campo -  è la fiducia in Lindon Johnson, il Presidente americano. La gente non crede più che sia la persona adatta a guidare la nazione. Contro di lui si schierano, quindi, sia i pacifisti, che lo accusano di aver aumentato a dismisura l’impegno americano nel Vietnam, sia i "falchi frustrati", i sostenitori della guerra che lo avevano appoggiato fino a quel momento, ma che ora vogliono che venga sostituito da un nuovo condottiero. (P. Hagopian, The “Frustrated Hawks, Tet 1968, and the Transformation of American Politics, in “European Journal of American Studies, 2008, numero speciale sul ’68).

     

    Ma non si tratta di interpretazioni spontanee. Perché l’icona sviluppi le sua forza ha bisogno di persone, di apparati che ne guidino la lettura. Il potere sociale della foto non promana dall’immagine in quanto tale (N. Smith Dahmen et al., The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon).

     

    Quella foto fu usata dall’apparato propagandistico vietnamita e in tutto il mondo diventò il simbolo dell’aggressione americana. Fu autentica benzina per i movimenti contestatori pacifisti, ma – osserva Martin Kemp – “potremmo supporre che venisse usata anche per dire ai Vietcong : “ecco cosa vi può capitare …” (Christ to Coke. How image become ikon, Oxford U.P, 2012, p. 207). Forse fu proprio questa sua duttilità che non dissuase gli americani dal loro appoggio alla guerra e dal desiderio “di fargliela pagare” ai guerriglieri comunisti. D’altra parte, non ci erano riuscite le ben quarantamila immagini prodotte e fatte circolare dal movimento pacifista. Ciò che questa foto ottenne (o rinforzò) fu il giudizio negativo sul modo con il quale l’amministrazione stava conducendo quella guerra, ma non sulla guerra in sé. (D. Kunzle, Killingly Funny: US Posters of the Vietnam Era, in Vietnam lmages: War and Representation, cit., pp. 112-122).

     

    Inoltre, in quel 1968 avvennero altri fatti gravissimi che sconcertarono gli elettori americani e che influirono nell’orientarli politicamente: l’assassinio di Martin Luther King, il leader del movimento per i diritti civili dei neri (15 gennaio); l’assassinio di Bob Kennedy, il fratello di John, che privò del suo principale candidato l’ala progressista del partito Democratico (6 giugno). Il 20 agosto le truppe del patto di Varsavia invasero Praga e – evento probabilmente decisivo – il 26 agosto la Convention del partito Democraticosi spaccò fra i sostenitori della guerra – i falchi frustrati – e i pacifisti, . Questa degenerò in scontri violenti, nei quali intervenne brutalmente la polizia. Ha scritto di recente Louis Menand che da quel momento gli elettori bianchi abbandonarono il partito Democratico, come apparve chiaramente alle elezioni presidenziali del successivo 5 novembre, che consegnarono a Richard Nixon la palma del vincitore (David Culbert discute l’impatto complessivo di questi eventi sull’opinione pubblica americana in Television's Visual Impact on Decision-Making in the USA, 1968: The Tet Offensive and Chicago's  democratic National Convention in “Journal of Contemporary History”, 33, 3, 1998, pp. 419-449).

     

    La foto ebbe certamente il potere di deprimere il Presidente Johnson, al punto da spingerlo a non ripresentarsi per il secondo mandato. Ebbe un grande impatto sulle élites mediatiche, sui giornalisti, la gente di cultura, i politici, i giovani del Sessantotto. Sul resto della popolazione – la maggioranza - non sembra aver avuto lo stesso effetto. Con le parole di Perlmutter: “The Saigon Execution colpì Johnson, ma non la gente, che non si lascia convincere da una sola foto, e per la quale la vittima era comunque un nemico, uno che spara ai nostri ragazzi”. William M. Hammond è ancora più chiaro: “Quello che la maggior parte del pubblico pensava aveva poco a che vedere con quello che presumevano i critici dei media” (The Press in Vietnam as agent of defeat, in “Reviews in American History”, 17, 2,1989, pp. 313-323, 315).

     

    “Il punto cruciale, quindi, è che il contesto più importante - e spesso trascurato - della valutazione di un'immagine iconica sono i pregiudizi del pubblico; come sempre, credere è vedere. Le persone possono guardare qualsiasi immagine e creare ciò che vogliono farne. I commentatori d'élite si inoltrano su un terreno psicologico molto incerto quando affermano che qualsiasi immagine "naturalmente" provoca una certa reazione. Un'immagine può essere "divertente" per una persona e "rivoltante" per un'altra”. (N. Smith Dahmenet al., cit.).

     

    Il punto sul dibattito in classe

    Il dossier appena esaminato dovrebbe permettere alla classe di giungere a nuove conclusioni, con le quali modificare quelle che hanno aperto questa seconda fase.

    Che cosa ci dice della guerra del Vietnam questa foto, se la guardiamo al di fuori del suo contesto? Nulla di più di ciò che si deve dire, normalmente, di qualsiasi guerra. L’orrore della morte. Nelle guerre si uccide e si viene uccisi. La fonte aggiunge a questa informazione una emozione così violenta da indurre un forte senso di ripulsa. È probabile che questa sia la reazione di tutti, ieri come oggi. Ma “ripudiare la guerra in generale”, come abbiamo visto, non equivale al rigetto di quella guerra particolare.  

     

    Ciò che interessa lo storico non sono (soltanto) le reazioni emotive. Sono piuttosto i giudizi e le conseguenze che ne ricava il destinatario di quella foto. Questo laboratorio dovrebbe aver permesso di scoprire che, nel passato, ognuno vi ha ascoltato e visto cose diverse: il vietnamita, il giovane contestatore, il presidente Johnson o il suo successore, Richard Nixon, un esponente della minoranza colta o della maggioranza popolare americana. Ognuno ha visto nella foto qualcosa che confermava suoi convincimenti precedenti.

     

    Questo laboratorio, di conseguenza, ha posto il problema di cosa possiamo vederci noi. Innanzitutto, ci ha indotto a prendere qualche distanza dalla lettura spontanea di una fonte iconica. Forse è proprio questa che favorisce la mitologizzazione dell’immagine. Nell’analisi micro (la scena dell’esecuzione), abbiamo osservato, invece, che quella foto non ci racconta di protagonisti completamente cattivi, né di vittime del tutto innocenti. Per quanto riguarda il contesto generale, abbiamo intravisto una macchina poderosa, quella dei media, che agisce in una situazione politica e militare complessa, che si avvale di questa foto come di un potente strumento di combattimento. Quella foto, dunque, non ci informa sulla guerra (della quale non ci dice molto di più di quello che sappiamo da altre fonti e, oltre tutto, ce lo dice anche con qualche incertezza), ma è essa stessa un’arma di quella guerra. Se la guerra è un orrore, quella foto non va considerata da noi come uno “spiraglio per guardarlo meglio”, ma come uno degli strumenti in qualche modo coinvolto nella sua produzione.

     

    Certo, di molta parte delle testimonianze di guerra si può dire che sono talmente coinvolte nel conflitto da farne parte attiva. Lo specifico della foto iconica è proprio in quella sua potenza evocativa che fa pensare a tutti (anche a molti studiosi) che non ha bisogno di didascalie. No captions needed. Ma, senza parole, l’icona può essere piegata a molte interpretazioni e, quindi, usata da molti soggetti. "Il potere delle immagini iconiche non è una forza unica che copre tutte le eventualità. Piuttosto, un'immagine iconica può avere potenzialità diverse che possono o meno coincidere con l'interpretazione di quell'immagine o il modo in cui tale immagine viene impiegata”. (N. Smith Dahmen et al., cit., The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon).

     

    *questa è la prima parte di un articolo sulla Saigon Execution, a sua volta parte di un corposo intervento di HL sul Sessantotto, composto da due interventi su “Sessantotto. Un anno spartiacque”, scritti da me; da due sitografie sul Sessantotto e una sui movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam, scritte da Antonio Prampolini; una presentazione multimediale interattiva per svolgere il laboratorio con una LIM oppure a distanza, curata da Lucia Boschetti. 

  • The Saigon Execution. “La foto che fece perdere la guerra”. (Seconda parte)*

    Laboratorio su una foto iconica: il rapporto col presente. 
    Con un'appendice interdisciplinare di filosofia e storia dell'arte.

    di Antonio Brusa

     

    Introduzione

    Dopo aver analizzato e contestualizzato The Saigon Execution nella prima parte di questo laboratorio, ora cerchiamo di approfondire il rapporto fra noi e quel documento di cinquant’anni fa. Si tratta di lavorare in uno spazio quasi naturalmente interdisciplinare, dal momento che vi sono interessate filosofia, letteratura e le discipline della comunicazione in curricolo (visiva e no). Qui ci occuperemo solo del versante storico/storiografico, lasciando ai colleghi il compito di approfondire le tracce delle altre materie.

    01Fig. 1 E. Adams/Associated Press, General Nguyễn Ngọc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon (1968).Nguyen Hanhil regista del filmato della NBC, che come si è già visto, venne girato mentre Adams scattava la foto, confessa che quella scena è ancora oggi intollerabile (in “IndieWire”, 23 sett. 2017). Ha spiegato con efficacia Susan Sontag: “Chi guarda oggi, anche a molti anni di distanza da quando quella foto fu scattata, è come chi guardava allora… bene, uno può fissare queste facce a lungo e non raggiungere mai il fondo del mistero, e dell’indecenza, di essere una sorta di co-spettatore” (Regarding pain of the Others,  cit, pp. 47 s.).

    Più di cinquant’anni ci separano dalla nascita di quell’icona. Dentro questo mezzo secolo si sono susseguiti cambiamenti quali di rado studiamo in altri periodi storici. Con quella guerra è finito il trentennio postbellico di crescita galoppante che gli storici chiamano “l’età d’oro”. La successiva globalizzazione ha creato un nuovo scenario mondiale che, dopo la crisi del 2008 e quella attuale del Covid19, probabilmente ci riserva mutamenti ancora più radicali. In ciascuna di queste epoche, nonostante la loro diversità, l’icona di Saigon non ha cessato di scioccare chi la guardava. Ogni volta, come scrive Sontag, ha creato nello spettatore la sensazione di essere in quella strada di Saigon. Quando guardiamo la foto, quei cinquant’anni sembrano svanire: è la straordinaria capacità dell’icona di nascondere il tempo.

    Ricontestualizzare quella foto è anche capire la differenza fra il mondo nel quale venne prodotta e quello nel quale, noi, oggi, la osserviamo. È riuscire a “vedere” il tempo che si frappone come un filtro attivo fra noi e la fonte, modificandone continuamente il senso e, insieme, riuscire a collocarci nel “posto giusto” per guardare quell’evento.

    Il materiale di questa sezione può essere organizzato didatticamente in vari modi. Da quello più tradizionale, come supporto per una o due lezione, a modelli più interattivi e di discussione, sulla falsariga delle proposte precedenti. Divido il percorso ancora una volta in due fasi. Nella prima (la terza fase del percorso completo) si affronta la questione della differenza fra il nostro tempo e gli anni ’60 dal punto di vista della circolazione e della fruizione delle immagini. Successivamente, a partire dall’analisi del documentario di Ken Burns e Lynn Nowick War in Vietnam (visibile in Italia su Netflix), si porrà la questione fondamentale del rapporto fra la storia scientifica e l’uso pubblico del passato.

    Per la terza fase suggerisco di fornire agli allievi una tabella per fissare le idee durante la lettura del dossier, composto, possibilmente, da tutti i brani che qui sono riportati. La tecnica è quella già sperimentata. Il dossier si legge individualmente (anche a casa) o nel piccolo gruppo e si compila contestualmente la tabella. Poi si discutono le conclusioni in plenaria: interesserà scoprire se gli allievi comprenderanno fino in fondo la necessità di una solida educazione all’uso dei media e alla lettura delle immagini nella nostra società della comunicazione. I testi di questa sezione sono più lunghi e concettualmente più densi della sezione precedente. Quindi la durata di questa fase dipenderà dalla competenza della classe.

     

     

    Anni ‘60

    Oggi

    Osservazioni/conclusioni personali

    Numero immagini e strumenti per produrle

         

    Deperibilità immagini

         

    Soggetti produttori delle immagini

         

    Agenzie di produzione/regolazione della circolazione delle immagini

         

    Cultura/etica dei produttori di immagini

         

    Cultura/etica dei fruitori di immagini

         

     

    1. Terza fase: dalle icone ai selfie

    Numeri e differenze di mondi

     

    "Quest'anno scatteremo mille e duecento miliardi di foto", ha scritto nel 2017 Caroline Cakebread. Se l’incremento è quello descritto dal grafico – più o meno cento miliardi l’anno - le foto scattate in questo 2020 dovranno aggirarsi intorno ai millecinquecento miliardi. Al tempo della guerra del Vietnam il numero delle foto era sui 3 miliardi ogni anno. Una quantità imponente rispetto al passato, che già allora marcò la differenza fra quella guerra e tutte le precedenti. La medesima quantità diventa irrisoria se confrontata con quella dei tempi attuali, quando un miliardo di foto si consuma in quarantott’ore, e basta una settimana per produrre tutte le foto che si facevano allora in un anno. È una disparità che ci avvisa dell’enorme distanza (che non è solo tecnologica) fra il nostro mondo e quello di The Saigon Execution.

    02Fig. 2 Gli smartphone producono il boom fotografico 

    Infatti, se la rivoluzione della tecnologia è scandita dal passaggio della macchina analogica a quella digitale e, in questo scorcio di secolo, agli smartphone, ad essa si accompagna un rivolgimento culturale complessivo, dovuto al fatto che la rete trasforma il pubblico che guarda la foto nell’attore principale della sua diffusione. (Questa “rivoluzione fotografica” è parte della più vasta rivoluzione digitale, sulla quale si veda il dossier per le scuole curato da A. Cavalli, su “Mundus. Rivista di didattica della storia”, 3-4, 2009, pp. 62-90). 

    Saigon Execution venne stampata in piena “Golden Age” della fotografia. Era il periodo nel quale il sistema professionisti/agenzie/media dominava la circolazione delle immagini. Queste, come abbiamo già visto nella seconda fase di questo lavoro, erano realizzate da fotografi professionisti, spesso dipendenti da grandi agenzie; venivano selezionate dalle direzioni dei giornali e dei network e da queste distribuite in tutto il mondo. Questo sistema, che aveva gestito l’informazione su guerre, matrimoni regali, assassini di presidenti, morti di principesse, viene travolto quasi di colpo dallo “tzunami delle immagini”.

    Di colpo, i produttori di foto si sono moltiplicati all’infinito, e ciascuno di essi è diventato il possibile punto di partenza di una distribuzione mondiale.

     

    Una foto emblematica del presente

    03Fig. 3 J. Krums, The Hudson Miracle (2009) https://twitter.com/jkrums/status/1121915133?lang=e.The Hudson Miracle (2009)la foto dell'aereo fortunosamente ammarato nell'Hudson, fu scattata col suo cellulare da Janis Krumsun giovane emigrato lettone che si trovava per caso su un aliscafo di linea che, visto l’incidente, aveva sollecitamente virato per andare a salvare i passeggeri. L’aveva twittata ai suoi 170 followers, commentandola come si fa con gli amici: “C’è un aereo sull’Hudson. Sono sul ferry per recuperare le persone. Pazzesco”.  La foto divenne virale. In un battibaleno entrò nelle redazioni e nelle case della gente comune di tutto il mondo. I fotogiornalisti dell’AP arrivarono sul posto troppo tardi, beffati da uno sconosciuto. "E' la cronaca istantanea fatta dai cittadini",  commentò quel giorno la stampa Citizen photo of Hudson River plane crash shows Web's reporting power, in "Los Angeles Times", 15 gennaio 2009).

    Dentro quel commento vi era l’aspettativa dell’annullamento di due distanze: quella tra il fatto e la cronaca (dal momento che questa diventava istantanea) e quella fra il cittadino e il giornalista (dal momento che le due figure si identificavano).  The Hudson Miracle sembrava far emergere il lato positivo – democratico - di quell’11 settembre di otto anni prima, quando l’umanità intera vide compiersi sotto i suoi occhi l’attentato alle Torri gemelle.

     

    Icone perenni e icone a tempo

    Giudicato dall’osservatorio del XXI secolo, il mondo dello smartphone è quello della disintermediazione, opposto a quello di una camera oscura dove qualche Eddie Adams decide che cosa gli altri debbano vedere della guerra e come lo debbano vedere. Citizen-journalist contro Citizen Kane, potremmo dire con una facile battuta. Quel mondo, infatti, ci appare elitario, se lo confrontiamo al nostro, della produzione e del consumo di massa delle immagini. “C’era una golden age delle immagini iconiche, caratterizzata dal controllo top-down delle élites mediatiche. Ora, quest’era è finita, o sta finendo”. Ma in luogo di cedere il passo alla nuova età della democrazia informativa, il tempo nuovo sembra caratterizzato da “anarchia e da caos” (N. Smith Dahmen et al., cit.).

    Il caos si vede nelle immagini che si accavallano, si diffondono alla velocità della luce e scompaiono quasi con altrettanta rapidità. Anche quelle che diventano famose, e sono condivise da tutti nei social media, spariscono nel giro di pochi giorni. Sono le “hypericons” del XXI secolo. Questo neologismo designa icone a scadenza rapida, che durano a volte pochi giorni e svaniscono, trascinando spesso con sé le emozioni che hanno suscitato. 

    Un caso esemplare è quello della foto di Alan KurdiSi tratta di un’istantanea molto simile a quella di Adams, dal momento che venne scattata da una fotografa professionista per un’agenzia di foto (Turkish Dogan New Agency, 2015) e diventò rapidamente un’icona potente, capace di smuovere governi. A cinque anni di distanza, ha conservato una certa carica emotiva (non si può restare impassibili guardando quel bambino), ma la sua forza politica e sociale, diluitasi nelle centinaia di morti in mare e cambiato il clima politico generale, è ormai incapace di incidere, come pure fece per breve tempo, sulle misure restrittive anti-migrazione (Dahmen ed al., cit., pp. 295 ss.). .). Il pubblico, sommerso da questo “tzunami nel salotto”, è quasi anestetizzato dalle tragedie che commuovono e scorrono veloci sui vari display domestici. Ne sono disorientati anche i professionisti dell’immagine. James Estrin intervista giornalisti e addetti ai media che si interrogano sulla difficoltà di produrre immagini che vincano l'immenso rumore di fondo della rete, che restino nel tempo e, addirittura, se ci sarà ancora spazio per qualcuno che faccia il loro mestiere. (Fact and Fiction in Modern Photography, 2015).

     

    Krums e Adams. Due mondi a confronto

    Il caos e l’anarchia caratterizzano anche il soggetto centrale di questa nuova società della comunicazione, il cittadino produttore/consumatore di immagini. È, come annunciava il “Los Angeles Times”, il prototipo del nuovo cittadino democratico? Anche in questo caso, l’Hudson Miracle è emblematico.

    Il commento via twitter che Janis Krums invia agli amici è una sorta di didascalia che ci aiuta a trovare qualche risposta. “Pazzesco”, digita Krums. “Pazzesco!” esclamano quelli che riprendono incidenti stradali, tzunami e terremoti, animali domestici, un arresto, una scazzottata, e riversano tutto nella rete.  “Pazzesco, esagerato, forte, allucinante” non sono solo espressioni tipiche del gergo fra pari, ma sono anche il criterio e la ragione per la quale l’immagine viene prodotta e messa in circolazione. A differenza di Adams, Krums non ha il dovere di mostrare ai concittadini eventi che giudica notevoli. Ha, piuttosto, il piacere di condividere con gli amici qualcosa di divertente, eccitante, strano.

    In altri casi, è l’indignazione o il desiderio di giustizia a muovere il cittadino, come fu per Ramsey Orta, che nel 2014 filmò il poliziotto che strozzava il suo amico nero, Eric Garner, che morì lamentandosi di non riuscire a respirare: "I can't breathe". Una frase che è diventata il nome della foto virale, una canzone di Bea Miller, una tshirt dell’NBA, il grido di protesta delle comunità nere e che ha certamente contribuito (ma cinque anni dopo!) a punire il poliziotto assassino. Rapidamente dimenticata, com’è tipico delle hypericons, pochi l’hanno ricordata quando è tornata tragicamente alla ribalta per il fatto analogo avvenuto a Minneapolis (25 maggio 2020), messo in rete da una passante, Darnella Frazer che il giorno dopo è tornata sul luogo facendosi riprendere in un lungo video, a sua volta prontamente fatto girare online.  “I can’t breathe, quel grido di dolore che doveva cambiare il mondo (ma nulla è cambiato), titola Enzo Boldi su “Giornalettismo” (27/5/2020), uno dei pochi che accomunò da subito le due violenze. Per triste ironia, in questo flusso di immagini, l’unico cambiamento duraturo è stata la prigione, inflitta a Ramsey Orta con i pretesti più disparati, per i quali è ancora detenuto nel 2020. 04Fig. 4 I due I can’t breathe di Eric Gardner, New York 2014, e George Floyd, Minneapolis 2020 accostati da “Giornalettismo”. https://www.giornalettismo.com/george-floyd-i-cant-breathe/

     

    I selfie: condividere conoscenze o emozioni?

    Nella didascalia di Krums troviamo altri motivi di emblematicità. Il giovane, infatti, dopo aver dato la notizia (“c’è un aereo nell’Hudson”), comunica ai suoi followers che lui è proprio là dove si svolge la vicenda. Esserci. C’è un qualcosa di decisivo, del quale tutti parlano o parleranno, qualcosa di storico? Ci sono anch’io. È il mondo del selfie – del narcisismo digitale - che si celebra in quella foto. Krums, inoltre, si trova per caso in quel luogo: e anche questo è emblematico. Chi avrebbe mai detto che un giovane lettone, di passaggio a New York, avrebbe immortalato l’impresa di Chesley Sullenberger - Sully - il pilota che Clint Eastwood trasformò nell’eroe dell’omonimo film (2016)? Bene: quella foto, fortunosa quanto l’ammaraggio, ha regalato al suo autore una celebrità, che, per quanto effimera, gli ha procurato attraenti opportunità lavorative. Non è poco per un ragazzo di ventiquattro anni, con la testa piena di sogni ma senza un lavoro stabile. E’ il caso, dunque, che ti può far diventare l’autore di un’icona mondiale, come ti può far comprare il biglietto giusto del Gratta e Vinci (Christina Zdanovitcz, "Miracle on the Hudson" Twitpic changed his life CNN, 15 gennaio 2014 e S. Maistrello, Giornalismo e nuovi media. L’informazione al tempo delCitizen Journalist, Apogeo, Milano 2010, passim e cap. IV).

    Come le loro icone, Krums e Adams sono metonimie di due mondi, entrambi caratterizzati dalla pervasività delle immagini, ma opposti da molti punti di vista. Mentre il mondo di Adams è governato da soggetti razionali, che designano un’icona per scopi comunicativi o politici (qui non discutiamo se siano condivisibili o no), quello di Krums appare dominato dal ribollire di una varietà incommensurabile di intenzionalità individuali. Da una parte, troviamo professionalità spinte fino al rischio della vita; dall’altra, la voglia di eternare e condividere un brivido, non cambia molto se di complicità, di stupore, di orrore o di indignazione. Non è lontano dal vero (perché in rete ne abbondano esempi rivoltanti) che, se accadesse oggi, l’esecuzione di Saigon avverrebbe all’interno di un capannello di soldati e gente comune, armati tutti di cellulare. E questa, forse, sarebbe una nuova icona del XXI secolo.

    05Fig. 5 “La gente vittima degli attacchi terroristici usa i cellulari per registrare la propria esperienza” (AP, Londra, 7 luglio 2005)

    All’indomani degli attentati di Londra del 2005, Yoki Noguchi raccontava, dalle pagine della “Washington Post”, di una società futura dove innumerevoli Abraham Zapruder (il fotografo amatoriale dell’assassinio di J.F. Kennedy), grazie ai loro cellulari avrebbero assicurato ai loro concittadini un’informazione diretta e immediata. Sono in molti, dunque, a convenire con questo punto di vista e alcuni eventi, come il G8 (Genova, 2001), hanno dato anche agli italiani un assaggio di questa informazione democratica. Sfortunatamente, la connessione fra democrazia e rivoluzione digitale non pare una caratteristica stabile del XXI secolo. John Bridge e Helle Siøvag, analizzando quasi in diretta la copertura mediatica dell’assassinio di Benazir Bhutto (2007), esprimono un loro timore: “Non vorremmo concludere che questa marea crescente di riprese amatoriali, che scaturisce dagli eventi di un mondo in cambiamento, sia priva anche di un briciolo di quelle promesse rivoluzionarie contenute nella rivoluzione digitale” (Amateur images in the professional new, 2007).

     

    Icone sconsacrate

    06Fig. 6 “Con Blingee possiamo attenuare lo choc dei capitoli più oscuri della Storia” assicura Ultimate Outsider nel suo blog: http://blog.ultimateoutsider.com/2009/10/pimp-my-history.html

    “Icona”, di per sé, è un termine religioso che designa un oggetto sacro e immutabile. La foto iconica non è scalfita dal tempo, né gli uomini osano modificarla. È un’immagine “santificata”. È quasi naturale, dunque, che un’icona venga monumentalizzata, come è il caso – visto sopra - della Saigon Execution nel museo della guerra di Ho Chi Minh City; o trasformata letteralmente in un monumento, com’è accaduto all’alzabandiera di Jwo Jima nel cimitero di Arlington. L’icona del XXI secolo, all’opposto, non solo è caduca, ma è destinata a essere modificata da mille mouse, nel gioco inesauribile di meme, che ne “degradano progressivamente la portata simbolica”. E, in luogo di contribuire a diffondere un’immagine “santificata”, ne producono una “trivializzata” (S. Boudana et al., Reviving icons to death: when historic photographs become digital memes, in “Media, Culture & Society”, 2017, 39(8), pp. 1210– 1230, 1216).

    07Fig. 7 The Saigon Execution nella versione di Dolan & Bogs (comics a loro volta deformazioni dei personaggi classici di Walt Disney e dei Looney Tunes): https://knowyourmeme.com/photos/324948-dolan#trending-bar

    08Fig. 8 Hydra Online, Nam Flashback, 2016. La didascalia recita: "back in vietnam, they use hair dryers on us." https://steamcommunity.com/sharedfiles/filedetails/?id=827997981

    09Fig. 9 “Belle immagini possono essere utilizzate come sfondo del desktop, wallpaper o sfondo per il tuo cellulare”, recita la pubblicità di 4ever (http://immagini.4ever.eu/tag/26183/lego?pg=6), a sua volta una trivializzazione del lavoro di Mike Stimpson (https://www.urbancontest.com/photography/mike-stimpson-lego-starwars)

    Semiologi e studiosi di storia dell’arte prendono seriamente in esame questi meme. Ne leggono le potenzialità decostruttive, dissacranti, a volte il cinismo. Ma, quali che siano i valori che riescono scorgervi, questi sembrano esterni alla gamma dei significati che abbiamo visto accompagnare la storia della Saigon Execution. Sembra che il mondo attuale (o una parte di questo mondo) accetti di malavoglia di essere quel co-spettatore, del quale ci ha parlato Susan Sontag, quasi che ne rifiuti l’orrore insondabile, o non riesca a percepirlo. Questi giochi visivi sembrano voler chiudere con il passato e affermare un presente talmente distante da permettere di scherzare con raffigurazioni che per decenni sono state considerate sacre. Forse ci dicono che è finito il potere delle icone di comunicare valori, quei valori.

    Chiudo questa breve rassegna non con un meme, ma con il fotogramma di un film porno, che adopera la Saigon Execution come sfondo di una scena di sesso: autentico emblema del processo di sconsacrazione/trivializzazione delle icone (Sylvia Shin Huey Chong, The Oriental Obscene, Duke UP., Duran e London 2012, p. 92)

    10Fig. 10 “La violenza e l’oscenità sessuale si incontrano: la foto di Adam fa da sfondo a una scena erotica” (Sylvia Shin Huey Chong).

    Credo che questi materiali e questi ragionamenti ci autorizzino a usare anche per Saigon Execution le parole che Frédéric Rousseau ha riservato al Bambino di Varsavia, l’icona forse per antonomasia della Shoah: “L’immagine del Ghetto di Varsavia non è più un documento: ha smesso di essere uno strumento pedagogico; sfocata, travestita, abusata, stravolta, sequestrata, ha perduto la sua capacità di messa in guardia: non informa più; è erosa dagli usi distorti” (Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia, Laterza, Bari 2009, p. 152. I. Rossini ne scrive una recensione esaustiva nell’Officina della storia).

     

    Il mito della stampa indipendente

    Per chiudere il confronto fra passato e presente abbiamo bisogno di abbattere l’ultimo mito mediatico del Vietnam: che fu una guerra, forse la sola, nella quale la copertura dell’informazione fu completa e indipendente. Quindi, non fu unicamente questione di questa o quella foto: fu l’insieme dei media che, in luogo di sostenere l’amministrazione, come aveva fatto durante la Seconda Guerra mondiale, assunse un atteggiamento ostile che si rivelò fatale (questa tesi, oltre che da Nixon, fu sostenuta da Samuel Huntington alla Conferenza della Trilateral nel 1975: in D. Hattin, The "Uncensored War", Oxford U.P., N.Y., 1986, pp. 4 s ). Questo mito ha generato un’autentica malattia, la “sindrome del Vietnam”, che l’amministrazione Usa ha impiegato molti anni per curare e sostituire con l’Embed System, “il sistema di controllo e di repressione politica del pensiero, in nome della libertà, di maggior successo dai tempi dell’egemonia dell’impero romano” (Greg McLaughlin, The War Correspondent, Pluto Press, London 2016, p. 158).

     

    Diversi studiosi si sono adoperati per demolire la credenza di una stampa di guerra complessivamente avversa alla politica americana in Vietnam. Nonostante ciò, questa continua ad avere un largo credito ed è ampiamente riportata anche dai manuali. In essa c’è, indubbiamente, una parte di verità: quella che riguarda il gran numero di fotogiornalisti e cameramen che si aggiravano nel Vietnam del Sud; il fatto che gli Usa, non avendo mai dichiarato ufficialmente guerra al Vietnam del Nord, non emanarono quelle direttive che solitamente limitano l’attività della stampa durante un conflitto (per quanto abbiano cercato in molti modi di condizionarla); e, ovviamente, il confronto con il ferreo controllo dell’informazione (Embed System) che l’amministrazione americana attuò a partire dall’invasione di Granada (1983).

    Questo, però, non volle dire che i media – nel loro complesso - produssero una narrazione della guerra vietnamita critica, se non ostile, nei confronti dell’amministrazione americana, e nemmeno che, come scrive il corrispondente di guerra Robert Elegant, “quella guerra fu combattuta più sulle pagine dei giornali che sui campi di battaglia” (How to Lose A War: The Press and Viet Nam, 1981). Al contrario, una profusione di dati alla mano, William M. Hammond dimostra che la maggior parte dei servizi giornalistici sostenne l’amministrazione, anche dopo l’Offensiva del Tet, mentre al movimento pacifista venne riservato un trattamento in genere sfavorevole (W. M. Hammond, Reporting Vietnam: Media et Military at War,Lawrence, U.P. of Kansas, 1998: vedine la recensione).

     

    Etica, conoscenza e cittadinanza

    Come nacque, allora, questa falsa conoscenza? Fu opera principalmente di tre soggetti. In primo luogo dell’apparato militare, che aveva tutto l’interesse a trovare un capro espiatorio della disfatta (M. Griffin, Media Images of War, in “Media, War & Conflict”, 3,1, 2010, pp. 7– 41, 20 ); poi, della destra conservatrice, che sosteneva la tesi che la stampa aveva indebolito in modo irrimediabile il fronte interno; e infine, paradossalmente, della stampa progressista, che si difendeva rivendicando il ruolo di “cane da guardia” dei cittadini contro le menzogne della politica. Scrive Daniel Hattin che queste due ultime posizioni, per quanto politicamente inconciliabili, collaborarono di fatto nel creare la convinzione che i media furono contrari all’amministrazione. (The "Uncensored War", cit.)

    Al di là della documentazione imponente che questi storici mettono in campo (e senza entrare nei dettagli della discussione storiografica), qui ci interessa richiamare l’argomento culturale fondamentale che regge il loro discorso e che, in genere, è condiviso dagli studiosi della comunicazione. Il fatto cioè che il sistema informativo americano, che nasce e si consolida come “quarto ramo dello stato”, non poteva strutturalmente essere, e non lo fu in quell’occasione, “antiamericano”. Il dovere di informare correttamente, che in quel sistema è non solo un dato professionale ma anche una norma etico/politica, va collocato nel quadro di una lealtà verso lo stato mai messa in discussione, soprattutto, come nel caso del Vietnam, ai tempi della Guerra fredda. C’è una vocazione pedagogica di fondo in quell’idea di giornalismo, costruita sull’esigenza di soddisfare il “diritto” dei cittadini americani di tenere “sotto i propri occhi” ogni angolo del pianeta. Era un nesso politico forte, in America, quello fra realtà, media e cittadinanza.

    Quest’ultima considerazione ci permette di chiudere il confronto fra i due mondi dell’informazione – quello degli anni ’60 e l’odierno – completandolo col punto di vista etico. Nel mondo della “Golden Age”, il professionista dell’informazione, agente portante della “quarta colonna dello stato”, sente il peso del suo compito. Pensiamo ai tormenti sull’opportunità della Saigon Execution che afflissero Adams.  Nel mondo attuale, il soggetto esulta per il numero di like che la sua foto ha ottenuto. In quello passato, chi guarda la foto, ne ricava un’idea e l’utilizza per svolgere un ruolo nel gioco politico nazionale (votare, discutere di politica con gli amici, farsi un’opinione della guerra, prendere posizione ecc). In questo, chi guarda la foto e gli piace, può limitarsi a rimetterla in circolo senza altri intendimenti che quello di spartire un sentimento con i followers e di incrementare il loro numero. A quel mondo informativo, dunque, è connesso un profilo di cittadino e un intento di formazione alla cittadinanza che nel secondo sono assenti, o sono affidati unicamente alla sensibilità individuale. Questa mancanza di formazione ai media (nel produrli e nell’usufruirne) mostra tutta la sua criticità proprio oggi, al tempo dello “tzunami delle immagini”. (Sul tema dell’analfabetismo iconico si veda il mio Una grammatica delle immagini: la cultura iconografica tra manuali e didattica della storia, in “Visual History”, 3, 2017).

     

    2. Quarta fase. The American Tragedy, fra storia e archeologia dei sentimenti

    Dalla camera oscura all'aula: la foto in classe.

     

    In questa fase entra in gioco la storiografia e il suo rapporto con l’uso pubblico della storia. Anche in questo caso immagino due alternative. Quella tradizionale, con una lezione possibilmente animata dalla proiezione dei video indicati; e quella partecipata, con lettura, discussione in gruppi, e plenaria conclusiva. Ho introdotto, ancora, alcuni elementi di didattica. Sono naturali, da una parte, perché si inizia con una clip didattica americana; ma credo che siano utili alla fine del percorso formativo degli allievi per discutere con loro del senso della formazione storica (e in pratica, lavorare nel campo delle metaconoscenze).

     

    Guida alla lettura della clip

    The Vietnam War è un’imponente serie televisiva, girata da Ken Burns e Lynn Nowick per la PBS (2017), che in dieci puntate racconta la guerra del Vietnam, servendosi di spezzoni di filmati e di telegiornali, di foto d’epoca e di ben 79 testimonianze di sopravvissuti, rappresentanti di tutte le forze in campo. Attualmente fa parte del pacchetto di Netflix. Abbiamo già citato, al principio di questo articolo, la sesta puntata Tutto cade a pezzi,dedicata all’Offensiva del Têt, con l’episodio dell’esecuzione di Lèm. Qui dobbiamo richiamarla, perché è corredata da una unità di lavoro specifica per le scuole. (Tutta la serie offre un’ampia sezione dedicata alla scuola: Ken Burns in the classroom. Peraltro il sito Pbs learning media è gratuito, ricchissimo di unità di lavoro di storia contemporanea, interamente basate su materiali multimediali, che, rivisti criticamente, sono utilizzabili anche in Italia, grazie a Google traduttore e alla sottotitolatura delle clip).

    L’unità di lavoro dura due ore scolastiche di 50’. Comprende quattro clip della durata di 3/5 minuti ciascuna. Quella dell’uccisione di Lèm è la più breve, di 1.58’’. È corredata da istruzioni per i prof e dalla sequenza operativa (A media analysis activity), costituita da nove domande aperte e da una prova sintetica finale: “Scrivi un editoriale sull’Offensiva del Tet”.

    La clip Execution of a Viet Cong Soldier è centrata sul video della NBC, incastonato fra spezzoni di guerra e interviste. Si apre con un Lyndon Johnson che annuncia in tv che il tentativo comunista di ottenere una vittoria militare e psicologica è fallito. Seguono cadaveri e scene di combattimento, mentre la voce fuori campo spiega che queste immagini inondavano di violenza le case delle famiglie americane. Ora il filmato si blocca sulla foto di Adams. Un testimone oculare (non si specifica che è un marine americano) racconta che era vicinissimo ai due protagonisti. Ricorda che il fotografo scattò la foto nel momento preciso in cui il generale premeva il grilletto e che vide il proiettile uscire dalla testa di Lém. Il vietnamita morì sotto i suoi occhi. Aggiunge un commento sullo choc che quella foto provocò in America, e afferma che quella foto indusse gli americani a chiedersi se non stessero aiutando “quelli sbagliati”. Subito dopo, un altro testimone, un addetto stampa dell’esercito, conferma che quella foto, vista a pranzo o a colazione, riempì di orrore gli americani, al punto che si chiesero quando tutto questo sarebbe finito. E, per ultimo, un militare sud vietnamita conclude che quella foto mise in pessima luce l’esercito del suo paese, che (lo dice mentre scorrono le immagini del generale Loan che fuma sorridente) da quel momento venne considerato dagli americani un alleato sbagliato. Quella foto, sentenzia nelle ultime battute della clip, fu il turning point della guerra.

    11 12Fig. 11 Il presidente Lyndon B. Johnson e il giornalista Garnett D. “Jack” Horner https://prde.upress.virginia.edu/conversations/4005941

    La tesi interpretativa di Burns e Nowick emerge con chiarezza in un’altra clip di questo dossier: Press Coverage of the War. Questa si apre ancora una volta con Johnson che si lamenta del trattamento bugiardo che la stampa sta riservando alla guerra (si tace sul fatto che questa telefonata a un giornalista amico, Jack Horner della “Washington Star”, ha lo scopo di attaccare la stampa avversaria: qui la trascrizione completa della telefonata).

    Johnson protesta che non è possibile presentare come una disfatta una battaglia nella quale “il Buon Dio ci ha permesso di uccidere 20 mila nemici e noi abbiamo avuto solo 400 morti”. La voce fuori campo prosegue spiegando che i media si concentrarono solo su Saigon, mentre nel resto del paese i Vietcong venivano respinti dai sud vietnamiti e dagli americani. Fra il crepitio dei mitra e i soldati che corrono da tutte le parti, un giornalista informa i telespettatori che forse è stato ferito a una gamba (sic!). Si chiude con la frase infelicissima che un maggiore dell’esercito avrebbe detto a un reporter dopo la battaglia di Ben Tre, una città sita nel delta del Mekong: It became necessary to destroy the town to save it (“E’ stato necessario distruggere la città per salvarla”).

    Si può prevedere che cosa un allievo americano avrà risposto a domande quali: “secondo te la copertura mediatica fu corretta?” e che cosa avrà scritto nel compito finale, che gli raccomanda di spiegare, in forma convincente e in buona scrittura, “perché il pubblico americano si fece dell’Offensiva del Tet un’idea diversa da quella del Governo degli Stati Uniti”. Né sarà sbagliato pensare che questa unità di lavoro radicherà negli studenti la convinzione che la Saigon Execution fu una delle cause della sconfitta.

    Milioni di spettatori fanno di Ken Burns il public historian più ascoltato negli Usa. Qui ci interessa notare che, per la serie sulla guerra del Vietnam, Burns ha volutamente fatto a meno della presenza degli storici accademici. Ha dichiarato che sono noiosi e allontanano il pubblico con le loro sottigliezze e le loro continue discussioni. Invece - ecco la sua convinzione - occorre che la gente ascolti una narrazione condivisa da tutti e curi le ferite causate da questa tragedia. Per questo, la sua è una “storia dal basso”, che racconta una comune sofferenza: di vietnamiti comunisti e no, di americani militari e civili, pacifisti e guerrafondai. In conclusione la sua tesi sembra essere questa: poiché nel discorso pubblico la storia accademica è controproducente, meglio lasciar parlare le fonti: film, giornali, testimoni, canzoni e foto. (Andrew Gawtorpe, Ken Burns, The Vietnam War and the Purpose of History, in “Journal of Strategic Studies”, 43, 1, 2020, pp. 154-169,).

    Questa presa di distanza dalla storia professionale è l’occasione giusta per mettere in luce il contributo della disciplina nel compito di rapportarsi a un passato doloroso. Cerco di farlo sviluppando due ordini di ragionamento e tenendo conto – in particolar modo – delle questioni didattiche connesse: in primo luogo, l’ordine della narrazione complessiva, quello in pratica della storia generale (in realtà un problema poco sentito nella didattica anglosassone); in secondo luogo, le questioni di epistemologia e metodologia collegate con l’uso dei documenti.

    Il primo punto riguarda le grandi narrazioni all’interno delle quali collochiamo la guerra del Vietnam e il caso specifico della nostra foto. Oltre che dal punto di vista storiografico, queste sono fondamentali da quello formativo, perché “danno un senso” all’evento che a volte resta nella memoria degli allievi più a lungo del ricordo del fatto specifico. Sono, inoltre, indispensabili per collocare il singolo episodio entro una programmazione di lungo respiro sia per quanto riguarda il racconto storico complessivo (dell’annualità o del ciclo intero), sia per quanto riguarda lo sviluppo delle capacità di ragionamento storico.

    Il secondo mette in luce ancora meglio come un uso approssimativo (o spontaneo), comunque non professionale della metodologia storica, porta a conseguenze non del tutto accettabili. La “storia dal basso”, contro la “storia delle élite” richiama insistentemente slogan che siamo abituati a classificare come populisti.

     

    Testo a. Cosa potrebbe insegnare la storia generale: il "senso" della guerra. (da consegnare agli allievi)

    Craig Lockard, già una trentina d’anni fa, spiegava le possibilità conoscitive offerte della world history. Questa insegna che possiamo inserire quella guerra in tre diversi contesti spazio-temporali. Ciascuno di questi scenari cambia il “senso” della guerra e, in particolare, della scena che stiamo analizzando.

    Lo scenario regionale – del Vietnam -  ce la fa vedere come un episodio della lunga teoria di ribellioni, secondo alcuni studiosi millenaria, che ha punteggiato la resistenza del Vietnam, prima contro la pressione cinese, poi contro quella francese e americana e, da ultimo, di nuovo contro quella cinese. È la storia di un indomabile nazionalismo, che accomuna e al tempo stesso divide il vietcong e il generale, mentre Adams sembra un osservatore esterno. Se allarghiamo lo sguardo includendo nel nostro scenario gli Usa, entriamo in un secondo ambito spazio-temporale, quello della guerra fredda e della politica americana di controllo del mondo. In questo scenario troviamo da una parte il comunista Lèm e dall’altra i sostenitori del blocco occidentale, americani e sudvietnamiti.

    Per ultimo, ecco l’orizzonte mondiale – il più ampio – che non può che parlarci del processo di colonizzazione-decolonizzazione, che dalla metà del XIX secolo fino al secondo dopoguerra inoltrato, ha sconvolto molte parti del pianeta, e del quale la guerra del Vietnam è stato l’ultimo grande teatro, e che divide i nostri protagonisti ancora in modo diverso: da una parte i colonizzati indocinesi, dall’altra l’americano Adams e la sua corte di giornalisti, tormentati dai dubbi.  (C. Lockard, Meeting yesterday head-on.The Vietnam War in Vietnamese, American and World History, in “Journal of World History”, 5, 2, 1994), pp. 227-270;  George W. Hopkins, Historians and the Vietnam War: Conflicts over Interpretations continue, in  “Studies in Popular Culture”, 23, 2, 2000, pp. 99-108; N. F. Bradley e M B. Young (a cura di) Making Sense of the Vietnam Wars: Local, National, and Transnational, Oxford U.P., 2008)

    13Fig.12 Mel Gibson e il generale Hal More, la cui impresa viene raccontata in We Were Soldiers https://www.hollywoodreporter.com/news/lt-gen-hal-moore-depicted-we-were-soldiers-dies-at-94-975234La questione si fa più intricata se ci addentriamo nel dibattito storiografico americano. In estrema sintesi, questo può essere diviso in due campi (una rassegna informata, purtroppo non recentissima, è O. Bergamini, La guerra del Vietnam nella storiografia americana degli anni Novanta). Nel primo ci sono i “revisionisti neo-conservatori”. Le loro tesi si organizzano intorno a due capisaldi. Da una parte, la considerazione che quella del Vietnam fu una noble war. Questa espressione, che Ronald Reagan rese celebre, significa guardare a quel conflitto come uno scontro fra combattenti che hanno diritto, entrambi, all’onore della memoria (teoria spettacolarizzata nel film We Were Soldiers, di Randall Wallace, con Mel Gibson, 2002).

    Fu un tentativo sfortunato, “un atto di idealismo imprudente”, scrisse Norman Podhoretz, uno dei più influenti autori di questa corrente, dovuto all’urgenza di proteggere il mondo dalla tirannia comunista (Why We Were in Vietnam, Simon and Schuster, Michigan University, 1982, p. 210). Dall’altra, questa storiografia fa un largo uso della storia controfattuale, alla ricerca dei motivi che hanno portato alla sconfitta: “si sarebbe perso se …?” Dentro questi interrogativi, insieme con la burocrazia, gli errori militari e le incapacità politiche, ritroviamo la nostra foto: si sarebbe perso se la stampa non le avesse dato quel risalto? e se non avesse “accoltellato alla schiena” i combattenti, come scrisse Westmoreland nelle sue memorie?

    Sul versante opposto ecco la vasta famiglia degli “ortodossi”, con le numerose varianti interne. Il punto di partenza di questi storici (in realtà sono la maggior parte degli storici accademici, dal momento che alla scuola neoconservatrice appartengono, con pochissime eccezioni, giornalisti, politici e reduci) è che quella guerra non si poteva vincere, e che, perciò, all’analista tocca il compito di scoprire le cause, le evoluzioni militari, sociali e politiche che hanno influito sul corso degli eventi. A questa famiglia occorre aggiungere il recentissimo gruppo di storici che Andrew Preston chiama “i veri revisionisti”: sono studiosi vietnamiti, cinesi e americani che conoscono le lingue orientali, e perciò sono in grado di accedere alla documentazione originale e fornire una descrizione di prima mano della “Guerra Americana” (come viene chiamata in Vietnam).

    Non c’è accordo fra il mondo revisionista e quello ortodosso, e, all’interno di questo, fra storici di impostazione radicale, moderata o neo-vietnamita. Burns ha ragione. Il Vietnam, ancora dopo mezzo secolo, è un argomento divisivo. Tuttavia, ciò che il regista non comprende è che un conto è il conflitto delle memorie all’interno di una società, un conto è la controversia accademica. Questa è connaturata al ragionamento storiografico; è uno degli strumenti fondamentali attraverso il quale gli storici incrementano la conoscenza del passato. Privando il pubblico (e la scuola) di quel dibattito, Burns sottrae loro uno strumento di conoscenza e di formazione, indispensabile in un tempo di lacerazione delle memorie. Per giunta, priva il suo lavoro di formidabili elementi di controllo, che gli avrebbero impedito, per esempio, di raccontare che quella foto è il turning point della guerra, fatto – come abbiamo visto - ampiamente smentito dalla ricerca.

    Questa, peraltro, ha insistito sull’impossibilità di un qualsiasi turning point in una vicenda estremamente complessa, nella quale si sono fuse diverse guerre, un po’ come nella Resistenza italiana secondo la lezione magistrale di Claudio Pavone: la guerra di liberazione nazionalista e anticoloniale, la guerra ideologica (pro e contro il comunismo) e quella geopolitica mondiale, la guerra civile fra Nord e Sud e quella sociale ed economica fra città e campagna, fra mondo rurale e modernizzazione urbana, come la Cambogia avrebbe sperimentato di lì a poco. (J. Dumbrell, Rethinking the Vietnam War, Palgrave Macmillan, Basingstoke and New York, 2012. Vedine la discussione in A. Preston, Rethinking the Vietnam War. Ortodoxy and Revisionism, in “International Politics Reviews”, 1, 2012, pp. 37–48.). E, per tornare alla nostra foto, questa complessità si riflette interamente in quella scena e sui protagonisti, aumentando le nostre domande e i punti di vista a partire dai quali la possiamo osservare.

    14Fig. 13 La scena della roulette russa in The Deer Hunter https://www.youtube.com/watch?v=4wv2K3J__X0

    Spogliata della complessità, resta il sangue della battaglia e dei suoi martiri, vietnamiti o americani che siano. Come nel brano di Julio Lezama, che abbiamo letto sopra, tutti sono vittime. È una tragedia vietnamita, ma anche americana. Burns scava nel fatto storico per riportare alla luce un orrore che la nostra società fa fatica a percepire. Tom White definisce la sua ricerca "archeologia emotiva" (The Accidental Historian: Ken Burns Mines America's Past, 2003). Sono i sentimenti, dice Burns, che trasformano la storia nel farmaco che ci guarisce.  Così facendo, lo storico-regista si incanala lungo una linea interpretativa ben divulgata da Hollywood e aperta da Il Cacciatore di Michael Cimino (The Deer Hunter, 1978), nel quale le vere vittime sono quelle americane, impoverite in patria da una deindustrializzazione feroce che la Great Society (il piano di sviluppo economico promosso da Johnson) non era riuscita a fermare, e sottomesse, nell’inferno vietnamita, al gesto della pistola puntata alla tempia, iconicizzato da Adams e leit motiv del film (Andrea Miconi racconta bene il collegamento fra questa foto e la filmografia hollywoodiana: Saigon Execution, 1968: “The Photo that lost the War”, in “Problemi dell’informazione”, 63, 1, pp. 63-86).

    Allontanandosi dalla storia, Ken Burns sembra entrare nel grande circuito mondiale delle emozioni, al quale da un potente contributo proprio quello “tzunami delle immagini” che caratterizza la comunicazione iconica odierna. Procede nella direzione esattamente contraria della storiografia, che, stando alle parole di Andrew Preston, pur con tutte le sue divisioni, sta riuscendo “a far a meno delle battaglie emotive” per costruire una conoscenza più controllata e multiprospettica di quella guerra infelice (Preston, cit. p. 39). E noi sappiamo, dagli studi sui processi di riconciliazione, che, per lenire le ferite della memoria, non c’è nulla che possa sostituire l’accurata ricostruzione dei fatti unita al mutuo ri-conoscimento dei propri torti.

     

    Testo b. I rischi di una metodologia storica adattata: storia dal basso e fonti (da consegnare agli allievi)

    Torniamo alla clip didattica della Saigon Execution. Le fonti che vengono adoperate sono il filmato della NBC, la foto di Adams e tre testimoni, due americani e un sudvietnamita. Tutti militari. Non viene citato (nemmeno nel documentario per il pubblico) nessuno degli studiosi che abbiamo conosciuto in questo articolo, nessun giornalista famoso, nessun decisore politico. È una buona visualizzazione di quello che Ken Burns chiama “storia dal basso”.

    L’effetto primo che questa narrazione ottiene è quello dell’empatia. C’era della gente, lì. Guardava con i propri occhi, esattamente come oggi può accadere allo spettatore di un incidente automobilistico, che riprende e mette online il filmato. È gente come noi. Il regista riesce a comunicarci la sensazione di essere presenti, inorriditi come i co-spettatori di Susan Sontag. È un risultato da non sottovalutare, nella nostra società di “icone sconsacrate”.

    L’effetto secondo è quello della verità. Il marine racconta quello che ha visto, i particolari, il colpo, il sangue. Le parole confermano esattamente le immagini. Due fonti diverse coincidono alla lettera. Il regista ci convince che non è possibile che le cose siano andate diversamente: un sudvietnamita, alleato degli americani, spara a bruciapelo un “soldato” Vietcong (dice proprio così, non “guerrigliero”, forse in omaggio alla teoria della noble war). Anche questo è un risultato da non sottovalutare, nella società del complotto e delle fake news.

    C’è un terzo effetto, questa volta preoccupante, che potremmo chiamare del “trasferimento di fiducia”. Il marine/testimone ci fornisce due ordini di notizie: il primo riguarda la scena che ha visto; il secondo riferisce dell’eco che questa scena ebbe in America. Queste due informazioni hanno uno statuto epistemologico molto diverso. Il primo è quello dell’autopsia. È uno statuto molto solido, come abbiamo appena notato: ma non ha nulla a che spartire con il secondo, molto più incerto, che riguarda ciò che pensarono decine di milioni di americani (e che il testimone non può “aver visto”). Ed ecco che il regista riesce a far slittare il grado di fiducia/verità, che lo spettatore attribuisce alla prima informazione, anche alla seconda, quella che riguarda l’opinione pubblica americana. Ascoltate senza soluzione di continuità, entrambe le conoscenza acquistano, per il pubblico (e per l’allievo), la stessa marca di “verità”.

    Il quarto effetto è quello della conferma. Lo stesso processo di “trasferimento di fiducia” viene ripetuto per le testimonianze dell’addetto militare americano e del graduato sudvietnamita. Il regista conduce il pubblico a convincersi che le cose non poterono andare diversamente da come la clip ce le fa “vedere/ascoltare”. 

    È chiaro che il testimone appropriato del “terzo effetto” non potrebbe che essere uno studioso che ha censito migliaia di articoli di giornale, ha elaborato i sondaggi di milioni di cittadini americani e seguito l’evoluzione del pensiero sulla guerra dei costruttori di opinioni. Privandosi di questa testimonianza, inevitabilmente una “testimonianza dall’alto”, Burns si è fatto portavoce (credo inconsapevole) della vulgata della destra conservatrice. Un’atroce ironia per un sostenitore acceso, e pubblico finanziatore, dei democratici.

    Sembra che Burns e Nowick sbandierino la prospettiva della “storia dal basso” in una sorta di polemica contro la “storia ufficiale”. Forse rimarrebbero sorpresi nel sapere che non si tratta di una scelta controcorrente, quanto di una possibilità ampiamente prevista dalla storiografia. Ma utilizzare concettualizzazioni di provenienza scientifica, senza le adeguate “istruzioni per l’uso”, conduce a risultati che destano preoccupazione. Vediamo nel dettaglio.

    La prospettiva della “guerra raccontata dal basso” fu formalizzata da Antoine Prost e Jay Winter, quando misero ordine nella marea di studi (oltre cinquantamila) sulla prima guerra mondiale. La guerra, scrissero, può essere raccontata in tre “configurazioni”. Quella dall’alto (militare e politica), quella sociale, come scontro di gruppi e di economie, e quella culturale: la storia dal basso. Con le parole di Prost: “Questa concezione costruisce una guerra tragica, i cui principali attori non agiscono, ma subiscono. Sono vittime. Sono gente anonima che viene schiacciata da una situazione straordinaria, di fronte alla quale sono impotenti. Questa concezione della storia non è del tutto nuova. È nel periodo fra le due guerre che è stata promossa dai reduci. Emerge in certi racconti dei sopravvissuti delle trincee. Ma bisogna attendere gli ultimi due decenni perché acquisti la sua importanza con le storie della brutalizzazione, del dolore, della sofferenza, della violenza e della speranza”. (A. Prost, J. Winter, Penser la Grande Guerre. Un essai d’historiographie, Paris, Seuil, 2004; il virgolettato da una conferenza di Prost del 2015).

    Ognuna di queste concezioni ha la sua utilità, perché mette in risalto aspetti della guerra che non si scorgono da altre angolazioni. Ma, al tempo stesso, ognuna ha dei difetti. Nel caso della “storia dal basso”, questa fa perdere di vista le responsabilità individuali della guerra. Se tutti sono vittime, chi è il carnefice? Non si arriva, così, alla banalizzazione della guerra si chiede Gaines M. Foster? (With Defeat: Post-Vietnam America and the Post-Civil War South, “VQR. A national journal of Literature and discussion”, 1990).

    La prospettiva “dal basso” diventa dominante nella nostra società, anche perché viene favorita da due processi di rilevanza mondiale. Il primo è quello della “sacralizzazione della vittima”, frutto della costruzione della memoria di Auschwitz. Il secondo è quello dell’egemonia del culturalismo di matrice americana. Il punto di vista di Burns e Nowick sembra nascere da questa doppia spinta più che dalla consapevolezza storiografica. Ma come sappiamo da numerosissimi casi di storia pubblica, la vittimizzazione dei protagonisti produce spesso la loro equiparazione e, soprattutto, spinge molti a identificarsi empaticamente con loro.

    È ciò che queste fonti visive ci dicono essere accaduto in America. Ce lo spiega Sylvia Shin Huey Chong comparando la foto di Adams col film di Michael Cimino, e raccontandoci il paradosso dell’identificazione fra il guerrigliero Lèm e Nick (Christofer Warren), il prigioniero americano costretto alla roulette russa dal malvagio vietcong, nella scena madre del Cacciatore. Un rovesciamento delle parti reso imbarazzante dal fatto che erano proprio gli americani a costringere i vietnamiti a questo gioco prima di ucciderli, come appurò il processo per la strage di My Lai (Restgagging the War: The Deer Hunter and the Primal Scene of Violence, in “Cinema Journal”, 44, 2, 2005). Il rovesciamento si completa e diventa un fatto sociale quando il generale Loan venne segnalato in America come un individuo da far oggetto di riprovazione pubblica: il profugo vietnamita che negli Usa fa successo col suo ristorante, mentre i reduci sono costretti a una vita di stenti (Sylvia Shin Huey Chong, The Oriental Obscene: Violence and Racial Fantasies in the Vietnam Era, Duke UP, Durham and London, 2012, pp. 170 ss.).

    Shin Huey Chong, nello stesso libro, ci spiega un ulteriore passaggio, che riguarda le tre icone della guerra del Vietnam alle quale fu assegnato il ruolo di “foto che cambiarono la guerra”: quella di Adams, la foto della bambina ustionata dal napalm e quella dei sudvietnamiti che tentano disperatamente di imbarcarsi sull’elicottero americano (vedile nella prima parte di questo articolo). Fa osservare che in queste foto c’è una netta separazione fra i protagonisti delle violenze, tutti vietnamiti (del nord e del sud fa lo stesso: sono tutti “orientali”), e chi riprende la scena, che è un americano (da notare che il fotografo di Accidental Napalm, per quanto vietnamita, fu naturalizzato statunitense). La violenza, sembrano dire queste immagini, è solo dei vietnamiti, tutta al di là dei confini degli Usa.  È la razzializzazione del male. Questo si identifica con “l’oscenità orientale”, della quale i bianchi americani non sono responsabili, ma solo osservatori, magari inorriditi dalla cattiveria bestiale che li circonda.

    Staccata dalla ricostruzione storica, questa ricostruzione pubblica del passato, della quale la foto e i film esaminati sono delle autentiche “immagini iconiche”, assolve il presente: figlio di una “tragedia americana” degli anni ’60, della quale sono svaniti i responsabili storici, e vittima, nel corso del tempo, degli assalti e della denigrazione della stampa, delle élite intellettuali e di tutti coloro che, nel mondo, hanno contribuito a diffondere la sua immagine negativa.

     

    Riconciliarsi senza la storia?

    “L’ironia – dichiara Edward F. Palm, maggiore dei marines – è che, dopo tutto, sembra che abbiamo vinto” (30 aprile 2020: 45 years after Vietnam War ended, here's how we should remember it). Se quella guerra fu condotta per difendere il sistema consumistico-capitalista, ha indubbiamente ragione. Nel Vietnam attuale (in qualche modo sulla falsariga del suo attuale nemico principale, la Cina) convivono i resti del vecchio regime politico comunista, ma con assetti economici, culturali e sociali postbellici, certamente più simili a quelli americani che a quelli del frugalissimo Vietnam del Nord. Potremmo dire che dove ha perso William Westmoreland, Bill Gates ha vinto. Un trionfo per il softpower statunitense.

    A Saigon, nel 2019, si incontrarono Kim Jong Un e Donald Trump in un tentativo di riavvicinare Usa e Corea del Nord. Fu naturale, allora, paragonare i rispettivi dopoguerra. Mentre la Corea del Nord continua nel suo stato di belligeranza, il Vietnam ha intrapreso, ormai da un quarto di secolo, una fruttuosa politica di distensione con gli Usa. La sua società sembra essere passata, quasi senza soluzione di continuità, “dai bombardamenti al Big Mac”. Gli anziani ricordano le atrocità passate, ma i giovani ne conservano a stento qualche notizia. Denis D. Gray e Hau Dinh, corrispondenti dell’AP, raccolgono delle testimonianze. Dinh Thanh Huyen, una studentessa di 19 anni, dichiara: “Sono nata dopo la guerra e ne so qualcosa solo dai film americani e dai libri”. È in coda per entrare in un affollato McDonald’s ad Hanoi. Spiega che è felice che gli antichi nemici siano cambiati e si concede una bella massima: “La storia ci serve per imparare, non per conservare rancore” (“AP News”, 23 febbraio, 2019, From Bombers to Big Mac). Non sembra essere la sola: le inchieste ci informano che oltre il 70% dei vietnamiti vede positivamente gli Usa (Xuan Loc Doan, in “Asia Times”, 30 ag. 2018,).

    Questa strategia di riappacificazione ha coinvolto numerosi aspetti del rapporto fra i due stati: commerciali ed economici, geopolitici (il contenimento della Cina), la questione dei diritti umani e della libertà religiosa, i risarcimenti e la liberazione dei prigionieri di guerra, gli scambi di studenti, il turismo. Sembra che venga evitato accuratamente il tema della storia, o meglio (seguendo la classificazione di Prost e Winter), della “storia dall’alto”, quella che indaga sulle cause della guerra e sulle sue responsabilità (Frederick Z. Brown, Rapprochement Between Vietnam and United States, “Contemporary Southeast Asia”, 32, 3, 2010, pp. 317-42).

    Mentre Donald Trump e Kim Yong Un si incontravano a Saigon, sul delta del Mekong si svolgeva un altro incontro, senza dubbio più toccante. John Kerry, ex segretario di stato americano e candidato democratico alla presidenza, stringeva la mano a Vo Van Tam, un abitante della regione. Esattamente cinquant’anni prima, e proprio in quel luogo, i due si erano trovati faccia a faccia e avevano tentato di uccidersi. Edward Miller, storico e consigliere di Ken Burns, mette in rilievo la straordinaria efficacia simbolica di quel gesto. Ma si chiede: “Quale può essere il suo senso in una nazione, come gli Usa, lacerata fra ortodossi e revisionisti; e come il Vietnam, spaccato fra vietnamiti del nord e quelli del sud?”. Per questo, conclude, quello fra Usa e Vietnam è un “conflitto non conciliato” (Vietnam War perspective: the unreeconciled conflict, in “Usa Today”, 15 dicembree, 2019,).

    In effetti, la riconciliazione si dovrebbe attivare su tre fronti: uno esterno, fra i due stati, e gli altri due al loro interno. Ma ogni volta il suo presupposto dovrebbe essere quello dell’accertamento dei fatti e del riconoscimento vicendevole delle responsabilità. In questo compito il ruolo della storia è insostituibile. Ora, se dal punto di vista della ricerca questo percorso prosegue e si fa sempre più completo, in particolare con l’apporto della nuova storiografia vietnamita, dal punto di vista della storia diffusa c’è il prevalere di una vittimizzazione che non favorisce per nulla una rielaborazione corretta del proprio passato: perché dove c’è una vittima, c’è sempre un altro che svolge il ruolo del carnefice. E questo, normalmente, è proprio il soggetto con il quale ci si dovrebbe riappacificare.

    Il processo di riappacificazione non sembra marciare nemmeno dal punto di vista della storia insegnata. L’analisi dei manuali non è affatto incoraggiante. Nel Vietnam, nonostante i cambiamenti che abbiamo segnalato sopra, la manualistica sembra aver cristallizzato la narrazione degli anni ’70, con i buoni che combattono contro i cattivi e l’esercito del sud Vietnam imbelle e al servizio del nemico. Negli Usa la situazione non è migliore (si deve tener conto che lì i manuali non sono obbligatori e che gli insegnanti dispongono di numerosi strumenti alternativi, forniti direttamente da Università e centri di ricerca didattica). I manuali americani evitano con cura di parlare delle atrocità commesse dai loro soldati. Parlano delle sofferenze della guerra, ma solo di quelle americane. Conservano l’impostazione tradizionale nazionalista ed esaltatrice del “ruolo pacificatore” che gli Usa svolgono nel mondo. James W. Lowen, autore di Lies my teacher told me (un vendutissimo libro di debunking delle falsità contenute nei libri di testo: Atria Books 1995) studia anche le foto, che – meritoriamente – considera uno strumento fondamentale della comunicazione storica. Ci informa che abbondano quelle di marines che saltano dagli elicotteri e si fanno largo nella giungla, ma che scarseggiano proprio quelle iconiche. Si trova qualche volta la Accidental Napalm, mai la Saigon Execution. Questi manuali, adeguandosi al comportamento più diffuso dei docenti, evitano ciò che può essere, in classe o con le famiglie, fonte di controversia. La guerra del Vietnam, conclude, ha aperto una profonda ferita nella società americana: ma evitare di parlarne è il modo peggiore per curarla.  (Historical Reconciliation and United States History Texbooks about Vietnam, in “The Journal of Northeast Asian History”, 7, 2, 2010, pp. 37-59).

    Loan e Lèm sono l’uno accanto all’altro. Chi ha la pistola uccide l’altro. La scena sarebbe stata identica anche a parti inverse, perché i due protagonisti sono nemici totali. Oggi quei protagonisti dovrebbero interrogarsi sulle ragioni di quell’odio e discutere se queste hanno ancora motivo di sussistere. Il terzo protagonista è l’americano. Anche lui dovrebbe riflettere sui motivi che lo hanno spinto lì. Doveva difendere dei principi sacrosanti? Salvaguardare un ordine internazionale o dei propri interessi? Tentare di bloccare una guerra civile sanguinosa?

    Christian G. Appy propone questo esperimento mentale. Scrive: partiamo dal presupposto dell’intromissione in una guerra locale – che sia per un nobile motivo o per un tragico errore in questo momento non ci interessa - e immaginiamo di applicarla alla guerra di Secessione americana. Questa volta, la potenza straniera è l’Impero Britannico che appoggia il sud. Come chiameremmo noi, ora, quella guerra? “Probabilmente la seconda guerra di Indipendenza – risponde - e, per i neri, la prima guerra di Liberazione”.

    Preoccuperebbero anche noi italiani le conclusioni del suo ragionamento: “Se continuiamo a scusare la condotta americana in Vietnam come un intervento ben intenzionato, seppure tragico, piuttosto che un'affermazione intenzionale del potere imperiale, abbiamo meno probabilità di sfidare gli attuali gestori della guerra che ci hanno di nuovo impantanato in guerre che sembrano non finire mai, basate su false prove o pretesti profondamente fuorvianti” (What was the Vietnam War about?, in “The N.Y. Times”, 26 marzo 2018,).

     

    Nota didattica finale.

    Questo percorso è composto da quattro fasi, suddivise in due sezioni distinte, che su HL pubblichiamo separatamente per ragioni editoriali, ma che vanno lette insieme. Nella prima si propongono testi brevi centrati su elementi specifici ben riconoscibili: i personaggi, la foto, gli utilizzatori della foto. Nella seconda, invece, i testi sono più lunghi e soprattutto riguardano temi di riflessione storiografica: il ruolo delle immagini nella società, la differenza e il rapporto fra passato e presente, il rapporto fra immagini e formazione della cittadinanza, il rapporto fra storia professionale e storia pubblica e fra “ragione e sentimento”, la questione della riconciliazione e della rielaborazione collettiva dei passati dolorosi. Il percorso, dunque, è scandito dal semplice/concreto al complesso/astratto, nel modo consueto di qualsiasi buona didattica.

    Sottolineo due particolarità non del tutto tradizionali. Della prima si è già accennato all’inizio dell’articolo. Le informazioni non vengono date nella forma sistematica del saggio (tesi storiografiche, dibattito, elementi di novità proposti, racconto sequenziale degli eventi ecc.), ma in modo progressivo, per favorire un meccanismo “sintesi-scoperta-messa in discussione della sintesi-nuova scoperta” che cerca di partecipare agli allievi il piacere del “viaggio intellettuale alla scoperta di …”. Ho cercato di simulare il procedimento tipico dello storico (e in generale dello scienziato) di procedere per scoperte e aggiustamenti successivi. Avevo in mente, scrivendo questo articolo, l’esordio di un antico saggio di Edoardo Grendi sul “senso comune storico”, nel quale si paragona lo storico a un alpinista che, man mano che sale, ammira paesaggi sempre diversi (“Quaderni Storici”, XIV, 41, agosto 1979).

    La seconda particolarità è, probabilmente, più polemica nei confronti del “senso comune didattico”. Secondo questo, infatti, un percorso dovrebbe partire dagli elementi fattuali e solo alla fine giungere ai problemi, ricompensa finale di un itinerario che, invece, non può che essere di “duro lavoro”. A mio modo di vedere, questa impostazione è sbagliata: dal punto di vista pedagogico, perché i ragazzi si appassionano ai problemi e non alla mera acquisizione dei fatti ed è bene sfruttare questa propensione tutte le volte che è possibile. È anche incongruente dal punto di vista scientifico, se si tiene per ferma la tesi che Lucien Febvre amava ripetere, che dove non ci sono problemi non c’è storia.

    Di conseguenza, il materiale è organizzato in modo da porre problemi in ognuna delle quattro fasi in cui è suddiviso il percorso. Ovvio, dunque, che questi problemi non verranno mai “chiusi”, ma transiteranno nella fase successiva, arricchendosi di nuove domande. E, in ogni caso, spetterà al docente il compito della messa a punto finale, cioè di una “chiusura dei problemi” che, a sua volta, non potrà che essere – come ogni scoperta scientifica - provvisoria.

    Ferma restando la possibilità di usare questo materiale secondo un’impostazione del tutto frontale, qui si suggerisce una formula mista, nella quale diversi tipi di lezione (introduttiva, partecipativa, di riorganizzazione concettuale, indispensabile quest’ultima in un lavoro di aggiustamenti progressivi) si intrecciano con momenti operativi (lettura individuale, lettura e lavoro in piccoli gruppi, discussione in plenaria), mentre i materiali proposti sono scritti, iconografici (le diverse foto) e mediali (le clip didattiche o eventuali spezzoni di film o di documentari citati). La medesima impostazione “mista”, permette di utilizzare – se intervengono ragioni di tempo o di convenienza didattica - solo una parte di questo itinerario. In questo caso, nell’introduzione o nella conclusione, l’insegnante si incaricherà di riassumere in una lezione frontale le conoscenze che riterrà opportune per “incorniciare” il segmento operativo che ha selezionato. Come vedranno i più fedeli di HL, ci sarà una terza possibilità, con un uso ben strutturato dalle tecnologie, che è stata preparata da Lucia Boschetti.

    Non ho allegato nessuna tabella di valutazione: un po’ perché è l’aspetto che conosco meno del vasto campo della didattica della storia; un altro po’ perché sono affezionato a quel tipo di valutazione che puoi formulare osservando gli allievi al lavoro. Ma se qualche volenteroso la vorrà progettare, sarà il benvenuto.

    Mentre scrivevo questo articolo ho notato che, quasi ad ogni piè sospinto, spuntavano particolari che sembravano degni di approfondimento. Credo che sia il rischio principale per l’insegnante che vorrà sperimentare questo percorso. Occorre molta disciplina per stare dentro tempi contenuti: massimo due ore per la prima sezione e, forse, tre per la terza. D’altra parte, si sarà presumibilmente nella seconda parte dell’anno di terminale, e gli esami che incombono detteranno regole ferree di risparmio temporale.

    A parte le eventuali sperimentazioni, questo articolo vuole proporre un modello di utilizzazione didattica della foto iconica, che potrebbe essere applicato in linea di principio anche ad altri documenti simili. L’icona è una fonte particolare. Ha un forte appeal emotivo, si propone come una sintesi istantanea di un periodo o di un fatto complesso, ha una struttura estetica rimarchevole e, infine, è consacrata come icona da un’utilizzazione vastissima e duratura. Questa sua ricchezza aumenta esponenzialmente il potere di attrazione dell’immagine e tende a trasformarla in una trappola comunicativa quasi irresistibile. Si guarda la Saigon Execution e si pensa di aver capito tutto della guerra del Vietnam. Ma, non appena si scrosti l’aura di sacralità che avvolge l’icona, si scopre che questa è un veicolo di emozioni, idee e giudizi, elaborati nel corso del tempo da soggetti ben individuabili. Queste caratteristiche della fonte iconica autorizzano strategie didattiche che giocano nella terra di mezzo tra sentimenti, immaginazione, valori da una parte, e ragionamenti, deduzioni, prove dall’altra. Fra storia pubblica e storia scientifica. Autorizzano, ancora, operazioni didattiche che, nella stessa analisi della foto, permettono di individuare problemi di amplissima rilevanza spazio-temporale.

    Per questi motivi, ben trattata didatticamente, la fonte iconica si presta a diventare un momento forte di un’alfabetizzazione alla lettura delle immagini, e, al tempo stesso, l’ancoraggio mentale di conoscenze storiche che sono solitamente destinate al rapido oblio che segue la fine degli studi (per gli approfondimenti tecnici, rimando ancora al mio Una grammatica delle immagini: la cultura iconografica tra manuali e didattica della storia, in “Visual History”, 3, 2017,).

    *questa è la seconda parte di un articolo sulla Saigon Execution, a sua volta parte di un corposo intervento di HL sul Sessantotto, composto da altri due miei interventi su “Sessantotto. Un anno spartiacque”; da due sitografie sul Sessantotto e una sui movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam, scritte da Antonio Prampolini; seguirà ancora un articolo sulle tecnologie, scritto da Lucia Boschetti.

     

    Appendice

    Aperture interdisciplinari

     

    1. Filosofia

    di Valerio Bernardi

     

    Una foto, tre possibili letture filosofiche

     

    La foto realista

    Saigon Executionè una foto che fa parte della grande età della fotografia “realista”, quella che in Italia non ha rappresentato la guerra quanto “il dopo-guerra”: pensiamo qui soprattutto alle foto di Franco Pinna che accompagnarono le spedizioni di Ernesto De Martino negli anni 1950 e che pensavano di dare conto della realtà. In effetti una tale interpretazione del dato fotografico derivava da un’idea ben precisa che era scaturita anche nell’analisi della società di massa dei francofortesi. La famosa opera di Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica (cfr. la nuova edizione: Einaudi, Torino, 2017) scritta negli anni Trenta già dava conto di questa idea, anche se non dimenticava che colui che si trovava dietro la fotocamera (o telecamera) stesse interpretando il dato con i suoi occhi.

     

    La realtà manipolata

    L’idea che una foto rappresenti una “realtà manipolata” è entrata prepotentemente nel mondo del post-moderno e della società di photoshop (o programmi similari) e degli smartphone che permettono a chiunque (e non solo ai grandi fotografi che continuano comunque una certa tradizione di rappresentazione) di rappresentare la “propria” realtà.

    Di fronte a questa valanga di immagini risulta sempre più difficile leggere la foto come documento (lo vediamo nella composita proposta didattica qui fatta), ma anche come documento di vita. Le possibili letture filosofiche di una foto che possono essere fatte oggi in questa situazione (e che possono avere anche una loro applicazione didattica) sono, a nostro parere, tre e tengono tutte conto della situazione di shitstorm che può scatenarsi anche per le immagini oggi.  Chiameremo per comodità queste tre possibili interpretazioni, post-strutturalista, post-heideggeriana e analitica, sapendo di fare una forzatura storiografica, ma non dal punto di vista teoretico.

     

    La foto codice. Roland Barthes

    Nel primo caso, potremo dire che la lezione che viene ripresa è quella degli studi di Roland Barthes (La camera chiara, Einaudi, Torino, 2010) che dimostra che la foto è di per sé “codice” e che, pertanto, non riuscirà mai ad incontrare la verità oggettiva, in quanto è un’illusione tecnica che ritrae l’entrata degli esseri umani nello scatto in un determinato momento senza volerne definire l’autenticità. La foto, quindi, è un’ombra della Verità, simile alle ombre della caverna platonica. Essa, pertanto, esprime il “mio” punto di vista senza occuparsi della realtà. Anche le foto della Guerra del Vietnam avrebbero queste caratteristiche e quindi non servirebbero a narrare una storia, ma la storia del fotografo che le ha fatte.

     

    La foto punctum.Byung Chul-Han

    La seconda lettura, invece, deriva da quello che scrive Byung Chul-Han, docente di estetica in Germania ed uno dei più interessanti filosofi contemporanei. Per Chul-Han se è vero che la foto ha un suo codice, una delle sue caratteristiche è il punctum,ovvero il fissare un momento che può per noi suscitare essenzialmente sensazioni (gradevoli o sgradevoli che siano). Il problema è che questo, benché possa essere vero per le grandi foto del passato (quelle di tutto il XX secolo) lo è molto meno oggi. L’invasione del mezzo fotografico non ci dà più la possibilità di analizzare con calma una foto, perché noi siamo abituati a continue sequenze e a non provare di fatto sensazioni. Per salvare il bello (parafrasando il titolo del suo testo La salvezza del bello, Nottetempo, 2019), bisogna fare uno sforzo per superare la nostra società trasparente, dove non si riesce a vedere in profondità per tornare a provare quei sentimenti e quelle sensazioni che possono farci immedesimare e leggere l’immagine. Una domanda che ci dovremo porre per questo autore è: quante immagini come Saigon Execution, così vicine tecnicamente alla odierna pornografia, oggi riescono a narrarci qualcosa? Quanto il nostro “occhio” riuscirà a dare una giusta lettura di un’immagine che somiglia molto a quelle che noi tendiamo a scattare quanto vogliamo rappresentare la “cruda” realtà?

     

    La foto analitica. Nicholas Wolterstorff

    Un’ultima lettura, poi, proviene dal mondo anglosassone. I filosofi analitici negli ultimi anni hanno cercato di superare il concetto di bello che deriva dalla cosiddetta tradizione standard (quella che appunto risale a Platone e Aristotele) e si sono chiesti a cosa possano servire le espressioni artistiche in genere (e la fotografia in modo particolare). In questo caso gioca un ruolo fondamentale la memoria e la rievocazione. Per Nicholas Wolterstorff, infatti, un’opera d’arte (come lo sono diventate anche le fotografie che documentano ciò che è accaduto in Vietnam) non serve solo per la sua gradevolezza, ma soprattutto perché su di essa possiamo piangere, ridere, ricordare, meditare. La funzione dell’oggetto fotografico qui viene ad essere quello di una riflessione che prescinde anch’essa dal dato oggettivo, ma che recupera altri aspetti dell’opera d’arte (per comprendere meglio il concetto si veda: N. Wolterstorff, Why Philosophy of Art Cannot Handel Kissing, Touching, and Crying, in “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 61,1, pp. 17 - 27 ) come quello di suscitare emozioni a prescindere dal bello. Una foto come Saigon Execution ben depone a questo tipo di interpretazione.

     

    Tutte e tre le letture del dato fotografico (abbiamo esaminato quelle più puramente “filosofiche”) potrebbero essere di ulteriore approfondimento rispetto alla lettura storica e potrebbero introdurre alcune delle nozioni di estetica che oggi sono discusse e che possono anche essere oggetto di riflessione da parte degli studenti, in un percorso che sia di tipo interdisciplinare.

     

    2. Storia dell'arte

    di Giulia Perrino

     

    Un laboratorio di storia dell'arte sulla fonte iconica

     “Questo articolo vuole proporre un modello di utilizzazione didattica della foto iconica. Questa è una fonte particolare. Ha un forte appeal emotivo, si propone come una sintesi istantanea di un periodoo di un fatto complesso, ha una struttura estetica rimarchevole e, infine, è consacrata come icona da un’utilizzazione vastissima e duratura (…). Per questi motivi, ben trattata didatticamente, la fonte iconica si presta a diventare un momento forte di un’alfabetizzazione alla lettura delle immagini (…)”.

    Parto di qui per agganciare al laboratorio di Storia un mini-laboratorio di due ore nella disciplina che per eccellenza analizza le immagini nel corso del suo sviluppo storico, la Storia dell’Arte. L’occasione è ghiotta infatti per lavorare con gli studenti sul rapporto tra l’Immagine e il suo tempo (il tempo istantaneo della produzione, il tempo breve della fruizione, il tempo lungo – se c’è – della rifunzionalizzazione) e su quali siano le caratteristiche che rendono un’immagine iconica.

     

    I metodi di studio più adottati

    Uno degli approcci di lettura più impiegati (soprattutto nella manualistica corrente anche recente) per la lettura delle immagini resta quello estetico: si tratta di una caratteristica intrinseca alla disciplina che ne ha salvaguardato lo statuto in anni difficili (si veda Cesare De Seta, Perché studiare storia dell’arte, Donzelli 2008,  in particolare le pp. 41-44) per quanto mostri segni tangibili di invecchiamento. A questo approccio, hanno fatto da contraltare a partire dagli anni Ottanta del Novecento inserti metodologici di tipo storico-sociale, senza apprezzabili integrazioni con il metodo iconologico-iconografico.Solo in anni molto più recenti si è fatta strada una lettura sperimentale delle immagini e dei beni culturali in genere legata al concetto di patrimonio e al suo rapporto con il territorio.

    Per lo statuto scolastico della disciplina, sono impostazioni decisamente migliori rispetto anche solo a venti anni fa, ma che restano fondamentalmente slegate dal valore e dal senso trasversale e dalla potenzialità multidisciplinare che può offrire una lettura dell’immagine che le attraversi tutte, le discipline.

    In altre parole (e arrivando al dunque): ho una fotografia intitolata Saigon Execution e il collega di Storia ci sta costruendo su un laboratorio didattico. Che ci faccio? Come intervengo? Cosa aggiungo (e cosa se necessario tolgo)?

     

    Estetica ed emotività

    Può sembrare piuttosto retrò, ma io mi sento portata a tornare al senso originario, al valore intrinseco di ciò che noi chiamiamo arte, cioè al valore estetico. E ci torno però per un motivo: per usare specialmente il suo appeal emotivo. Un’immagine ha sempre dalla sua parte la fondamentale componente estetica che coinvolge la vista, lo sguardo, e procede secondo un canale di comunicazione che usa un linguaggio altro da quello testuale: si tratta di un canale che di solito smuove meccanismi profondi – ma non immediati - di comprensione, legati di solito alle emozioni (positive o negative). Questo lo sappiamo tutti. Ma cosa me ne faccio di queste consapevolezze per analizzare e interpretare l’immagine? Per capirne il senso e il significato anche sganciandola dal suo contesto (se mai poi per riconnetterla successivamente)? Come faccio a distinguere, per esempio, i suoi codici forti dai codici deboli (al proposito si consulti: Pina Belli D’Elia, Per una educazione al vedere, in Media Significati Metodi nella Formazione, a cura di V. A. Baldassarre [Quaderni della cattedra di Pedagogia Sperimentale, Università di Bari, 1], Modugno 1993, pp. 161-175)?

    Il Laboratorio inizia con la visione e dall’analisi di tutta la sequenza delle immagini del fotografo Adams (vedi la fig. 3 della prima parte di questo articolo). Entrando in medias res, senza particolari spiegazioni introduttive ma con una consegna chiara e in un tempo limitato (10 minuti) si chiede agli studenti, divisi in due gruppi, di indicare quale tra le 12 immagini proposte è quella ritenuta più forte e rappresentativa. In questa fase gli studenti non è necessario conoscano la storia legata alle immagini. Devono limitarsi a motivare la scelta compilando la griglia sottostante. In pratica, questa prima parte potrebbe coincidere, grosso modo, con quella prevista nel laboratorio di Storia e si potrebbe pensare di condurla insieme al collega di Storia, in compresenza.

    IMMAGINE

    Descrizione analitica (cosa vedo)

    Significato (cosa capisco, cosa mi sembra che stia succedendo)

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    2

       

    3

     

     

     

    Dopo aver terminato il Laboratorio di Storia, avendo anche maturato tutti gli elementi di discussione relativi alle informazioni fondamentali e di corredo che sono state restituite sul contesto storico del luogo e del tempo e sui protagonisti dell’episodio fotografico (il carnefice, la vittima, il fotografo), gli studenti riprendono il Laboratorio di Storia dell’Arte, per concentrare l’attenzione sull’analisi della sola immagine divenuta iconica, con l’obiettivo di valutare quali elementi hanno reso tale l’immagine.

     

    Icona fotografica e icone pittoriche

    La seconda parte del laboratorio sarà agganciata alla seconda parte del Laboratorio di Storia, laddove si discute del concetto di icona. Il lavoro questa volta parte da una breve definizione teorica dei concetti di immagine e di icona. Non è necessario però ripercorrere lineamenti classici di storia dell’arte bizantina. Si può lavorare invece discutendo in primis le definizioni (cosa è un’immagine, cosa è una icona) e proseguire presentando immagini simili sul piano iconografico a quella di partenza, evocando l’appeal emotivo cui si faceva riferimento all’inizio del lavoro.

    Facile è il paragone tra la vittima della Saigon Execution e il Cristo flagellato di Caravaggio. Meno scontato, ma forse altrettanto efficace è quello tra il personaggio a sinistra, colto di sorpresa in un ghigno sgradevole, e i ceffi che identificano – facendo leva sul senso estetico del brutto – i “cattivi” (nel senso originario di “prigionieri del male”) della Salita al Calvario di Bosh. Ci si può sbizzarrire usando anche confronti più coerenti sul piano temporale, per esempio mostrando i dipinti del tedesco Georg Grosz, che attacca il sistema della guerra in modo molto evidente nei suoi lavori espressionisti.

    Altri aspetti su cui si può lavorare, sempre nella direzione della ricostruzione del sistema di “segni” che compongono la scena, sono il rapporto tra superficie e sfondo; il ruolo delle comparse o delle figure di contorno; il rapporto tra bianco/nero e colore. In questo caso si può decidere di giocare la partita esclusivamente in ambito di Storia della Fotografia, proponendo confronti in ambiti di settore. Impossibile non ricordare gli scatti dei reportage di guerra di Robert Capa, di cui si propongono qui due scatti, tra cui quello notissimo del soldato ucciso durante la Guerra di Spagna (http://www.grandi-fotografi.com/robert-capa). Ma è soprattutto sui cataloghi on line della Magnum Photo (https://www.magnumphotos.com) o del Premio Internazionale World Press Photo (https://www.worldpressphoto.org/collection/photocontest/winners/2020) che si offrono innumerevoli spunti: e non da ultimo vanno considerati i lavori di fotografi socialmente impegnati come Sebastiao Salgado (ottima occasione per mostrare eventualmente in classe il film a lui dedicato da Wim Wenders, Il sale della terra).

    In tutti i paragoni proposti la lettura corretta dell’immagine passa comunque dal riconoscimento, dopo lettura e interpretazione dei segni, del soggetto iconografico e dunque dalla consapevolezza che lo studente – guidato dal docente – deve possedere dei fatti che stanno alla base della costruzione dell’immagine stessa: questo perché i fatti, cioè la narrazione degli episodi che vengono stigmatizzati nelle immagini, hanno un’incidenza precisa (che va ricostruita a posteriori) sia nel caso della costruzione dell’immagine fotografica (che appunto è costruita dal fotografo – mai improvvisatore – e questa è un’ottima occasione per smitizzare l’idea del fotografo che preme il dito sul grilletto guidato da un istinto magico o da pura fortuna, come si dice sia accaduto a Robert Capa per lo scatto del miliziano ferito a morte) sia dell’immagine dipinta dal pittore, che segue sempre, come noto, precisi canoni estetici che sono il prodotto del suo tempo, del tempo del pittore. E’ per questo che studiamo le immagini: per ricostruire attraverso i canoni estetici i valori e i costumi sociali del tempo, non il contrario.

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    La riflessione sull'icona

    A questo punto, dopo aver guidato la lettura delle immagini iconiche scelte (la fotografia e il dipinto) secondo parametri noti nella letteratura di settore (analisi della scena, disposizione dei personaggi, gestualità, espressività eccetera), si tornerà al lavoro iniziale: si compareranno dunque i risultati emersi nella prima griglia compilata, in cui si chiedeva ai due gruppi di studenti di indicare l’immagine più “forte” (e ora potremo sostituire l’aggettivo con forte con “iconica”) tra le dodici della sequenza e valutare, con discussione guidata, se la conoscenza dei fatti e il dibattito storico emerso nel Laboratorio di Storia intorno alla Saigon Execution possa ora cambiare la percezione degli studenti sul valore e sul senso dell’immagine iconica. In sostanza l’obiettivo finale che deve porsi il docente è quello di far riflettere gli studenti su una domanda e sulle sue risposte: cosa rende la foto in oggetto un’immagine così forte da diventare – tra le atre – iconica?

    Il docente avrà cura in questa fase di condurre la riflessione degli studenti sul doppio canale del campo estetico-visivo (lavorando sui segni ritenuti validi per indicare l’immagine o le immagini forti) e sul campo dei contenuti e del racconto intorno alle immagini (ovvero sulla storia, sui fatti e dunque sul significato dell’immagine nella lunga durata, nel tempo), cercando di far emergere il peso specifico di entrambe le componenti nella costruzione, nella fruizione e nella persistenza o durata nel tempo di una immagine iconica.

    Se resta tempo, può risultare molto stimolante chiedere agli studenti di riflettere insieme sul perché alcune immagini (come per esempio la Flagellazione di Caravaggio) perdurino nel loro valore di iconenel tempo e aprire un dibattito sull’opinione che gli studenti hanno maturato sul possibile valore di immagine iconica nel futuro della Saigon Execution.

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