laboratorio storico

  • Chi ripulisce i campi dopo la battaglia? Le guerre napoleoniche, come nessuno le studia

    Tratto da Shannon Selin*

    (traduzione di Valentina Arcidiacono e Raffaele Guazzone; adattamento e note didattiche di Antonio Brusa)


    Svegliarsi dopo la battaglia

    L’8 gennaio1807, al termine della sanguinosa battaglia di Eylau, nell’attuale regione russa di Kaliningrad, il soldato francese Jean Baptiste de Marbot si risveglia, dopo aver trascorso alcune ore in stato di incoscienza: è coperto di sangue e si trova su un carro, circondato da cadaveri. E’ completamente nudo, indossa solo il cappello perché, dandolo per morto, gli hanno portato via tutti i vestiti e gli oggetti personali.

    È lui stesso a raccontarci questa sgradevole esperienza.

    Abbandonato nella neve in mezzo a cumuli di morti e moribondi, incapace di muovermi in alcun modo, persi conoscenza pian piano, senza soffrire [...] Credo che il mio deliquio sia durato quattro ore. Quando ripresi i sensi mi ritrovai in una situazione orrenda. Ero completamente nudo, con addosso null’altro che il mio cappello e lo stivale destro. Uno dei barellieri, credendomi morto, mi aveva spogliato e, nel tentativo di portarsi via lo stivale rimasto, mi stava tirando per una gamba tenendomi un piede sul corpo. Senza dubbio era stato il suo strattone a farmi riprendere i sensi. Riuscii a mettermi seduto e a sputare i grumi di sangue che avevo in gola. L’impatto del proiettile da cui ero stato colpito aveva causato un’emorragia tale che avevo il volto, le spalle e il torace completamente neri, mentre il resto del corpo era chiazzato dal rosso del sangue che sgorgava dalla ferita. Cappello e capelli erano incrostati di neve sporca di sangue, avevo gli occhi scavati, dovevo essere orribile a vedersi. Ad ogni modo, il barelliere guardò dall’altra parte e se ne andò con le mie cose, ed io, per lo sfinimento totale, non riuscii nemmeno ad aprire bocca.

    Jean Baptiste de Marbot, The Memoirs of Baron de Marbot, tradotte da Arthur John Butler, Vol. 1, Londra, 1903, p. 216.

     

    Chi ripulisce, dopo la battaglia?

    Questa è proprio una di quelle questioni che i libri di storia non sono soliti raccontare perché normalmente si soffermano sulla vittoria o la sconfitta degli eserciti e sulle conseguenze politiche di tali avvenimenti. Pochi si chiedono: dopo una battaglia, che ne è delle migliaia di corpi, abbandonati per i campi?

    Ecco, ad esempio, come il generale inglese Robert Wilson descrive la scena dopo la battaglia di Heilsberg, del 10 giugno 1807, che i francesi combatterono contro i russi:

    Il terreno tra il bosco e le batterie russe, circa un quarto di miglio, era una distesa di corpi umani nudi, che amici e nemici avevano spogliato nottetempo, per quanto il numero dei cadaveri ricordasse loro costantemente la tragedia nella quale si trovavano. Una scena orribile a vedersi, ma da cui non si poteva distogliere lo sguardo.

    Robert Wilson, Brief Remarks on the Caracter and Composition of the Russian Army and Sketch of the Campaigns in Poland in the Years 1806 and 1807, Londra, 1810, p. 147.

    Si calcola che tra il 1803 e il 1815 le guerre napoleoniche si portarono via tra i 3,5 e i 6 milioni di persone, alcune a causa di azioni belliche (da 500.000 a 2 milioni) e il resto a causa di malattie.

    Che cosa ne fu di questi corpi? Chi si incaricò di ripulire quegli scenari raccapriccianti?

    Come in una curiosa imitazione dei processi naturali, in cui si alternano animali necrofagi, larve e batteri, notiamo l’azione di diversi soggetti che, uno dopo l’altro, sgombravano il terreno di battaglia.

    I primi erano proprio i soldati vincitori che raccoglievano armi e attrezzature del nemico, come scarpe, indumenti, oggetti personali di valore (orologi, bottigliette per liquori, medaglie, portasigari ecc.) in modo da integrare la loro esigua paga.

    In un secondo momento, giungevano le donne e dopo, se lo scontro era avvenuto nelle vicinanze di un villaggio, si univano a loro anche gli abitanti delle località vicine in cerca di qualcosa da portar via.

     

    A caccia di denti

    Successivamente arrivavano i saccheggiatori, i quali, poiché non trovavano quasi più nulla da rubare, si accanivano sui corpi: armati di pinze, si affannavano a estrarre i denti dei morti. Non soltanto i denti d’oro (naturalmente più rari e appartenenti solo agli ufficiali per il loro costo elevato), ma anche i denti normali, molto ricercati per fabbricare le dentiere.

    Nel 1814, in Spagna, il nipote del chirurgo inglese Astley Cooper ricevette la visita di un cacciatore di denti inviato dallo zio.
    Dopo aver chiesto a questo Butler, che si presentava in condizione di grande povertà, quale fosse lo scopo della sua visita, egli rispose che si trattava dei denti [...] ma quando lo interrogai sui mezzi che avrebbe impiegato per ottenerli, disse: “Oh, signore, lasci solo che scoppi una bella battaglia e non ci sarà più penuria di denti. Li strapperò al volo, non appena cominceranno a cadere i soldati” [...]
    Butler non era il primo [...]. Crouch e Harnett, due esumatori ben noti, lo avevano battuto sul tempo rifornendo le classi agiate di Londra con denti di simile provenienza.

    Bransby Blake Cooper, The Life of Sir Astley Cooper, Vol. 1 (Londra, 1843), pp. 401-402.
     

    Fig.1 Dentiere fabbricate con denti di Waterloo

     

    Si sa che, dopo la battaglia di Waterloo, il mercato delle dentiere conobbe un momento prospero poiché il numero di vittime procurò materiale in abbondanza e anche di notevole qualità data la giovane età dei soldati che persero la vita in quell’occasione. Questo era un dettaglio che si specificava negli annunci pubblicitari, tanto che le protesi di quell’epoca iniziarono ad essere chiamate “I denti di Waterloo”, sottolineandone appunto la garanzia di ottima qualità.

     

    Cremazioni, sepolture. E animali carnivori.

    Normalmente il vincitore destinava una quota del bottino, ricavato dalle spoliazioni dei cadaveri, per pagare la loro sepoltura, spesso in una fossa comune, con poche badilate di terra. Oppure si procedeva all’incinerazione dei cadaveri, per prevenire epidemie.

    La scelta dipendeva dall’urgenza, dato che, spesso, la guerra richiedeva di riprendere la marcia senza arrestarsi ulteriormente. In questo caso, era la natura a occuparsi della faccenda: avvoltoi, corvi, lupi, volpi. Tutti questi carnivori trovavano molto materiale a propria disposizione.

    Il capitano Jean-Roche Coignet così scrisse dopo la battaglia di Marengo, del 14 giugno 1800, combattuta tra francesi e austriaci:


    Davanti a noi il campo di battaglia brulicava di soldati austriaci e francesi che raccoglievano i morti e li accatastavano, trascinandoli con la cinghia del moschetto. Uomini e cavalli giacevano alla rinfusa, nel medesimo cumulo, e venivano dati alle fiamme per preservarci da un’epidemia. Sui cadaveri sparsi invece solo un po’ di terra, giusto per coprirli.
    Jean-Roch Coignet, The Note-Books of Captain Coignet, Soldier of the Empire, a cura di Jean Fortescue (New York, 1929), p. 81.

     
    Fig. 2 Adolfe E. G. Rohen, Battaglia di Marengo


    Il 2 marzo del 1807, tre settimane e mezzo dopo la difficile vittoria di Napoleone a Eylau, il 64° Bollettino della Grande Armata riportava un’immagine da brivido:

    È richiesto un lavoro enorme per sotterrare i morti… Si immaginino nello spazio di una lega quadrata nove/dieci mila cadaveri, quattro o cinque mila cavalli morti, rottami di moschetti e sciabole, il suolo ricoperto di palle di cannone; bossoli di obice e munizioni; ventiquattro pezzi di artiglieria, vicino ai quali giacciono i corpi dei loro equipaggi, caduti nel tentativo di portarseli via durante la ritirata. Tutto questo era ciò che più risaltava su un terreno coperto di neve.

    Jacques Peuchet, Campaigns of the Armies of France, in Prussia, Saxony, and Poland, tradotto da Samuel MacKay, Vol. 4 (Boston, 1808), p. 201.

     

    Dopo la battaglia di Borodino

    Anche il generale francese Philippe de Ségur diede una descrizione a forti tinte del campo di battaglia di Borodino (7 settembre1812), combattuta dai francesi nel corso della campagna di Russia, quando vi ritornò due mesi dopo la ritirata delle truppe napoleoniche:

    Proseguivamo la marcia assorti nei nostri pensieri, quando uno dei nostri, alzando lo sguardo, lanciò un grido d’orrore. Ci guardammo subito intorno: giaceva innanzi a noi una piana oppressa, brulla, devastata, tutti gli alberi tagliati a due piedi dal suolo, e poco oltre delle colline scoscese, la più alta delle quali sembrava deforme, pareva vagamente la cima di un vulcano spento. Il terreno accanto a noi era coperto ovunque da frammenti di elmetti e corazze, tamburi rotti, pezzi di fucile, brandelli di stendardi intrisi di sangue.
    In quell’angolo desolato giacevano quasi trenta mila cadaveri mezzi divorati; una pila di scheletri, in cima a una delle colline, sovrastava l’insieme. Era come se la Morte in persona avesse posto là il suo trono.

    Philippe de Ségur, History of the Expedition to Russia Undertaken by the Emperor Napoleon in the Year 1812, Vol. II (New York, 1872), p. 119.

     
    Fig. 3 Albrecht Adam, La battaglia di Borodino, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo (Il pittore fu testimone oculare di quella battaglia) 

     

    Il colpo di grazia

    Napoleone aveva ordinato all’VIII Corpo dei reggimenti di Westfalia di sotterrare i morti e trasportare i feriti, mentre il resto dell’esercito proseguiva il cammino verso Mosca. Ma una cosa era la teoria e un’altra la pratica. La sanità militare era piuttosto rudimentale. Si limitava all’amputazione per prevenire la cancrena. In più c’era il problema di reperire carri per il trasporto di coloro che non potevano camminare. Per tale ragione, si dovettero adottare misure estreme come quella di dare il colpo di grazia ai feriti gravi. Altri, invece, morirono lentamente e furono ritrovati in seguito, fermi nell’atto di mordere la carne dei loro cavalli.

    Gli uomini della Westfalia rimasero sul campo circondati da cadaveri e moribondi. Erano continuamente obbligati a cambiare posizione, per via della puzza [...] I soldati, dietro richiesta di alcuni feriti al culmine dell’agonia, inferivano il colpo mortale, voltandosi dall’altra parte mentre sparavano [...] Mentre cavalcava attraverso il campo il quinto giorno dopo la battaglia, von Borcke vide dei soldati feriti a terra accanto al cadavere di un cavallo, di cui masticavano la carne. Il 12 settembre gli uomini della Westfalia si spostarono a Mashaisk, che era stata abbandonata dagli abitanti, saccheggiata e ridotta in cenere per metà [...] Corpi bruciati giacevano tra le macerie delle case, i cui ingressi erano barricati dai cadaveri. L’unica chiesa [...] ospitava diverse centinaia di feriti e tanti cadaveri quanto il conto dei giorni [...] Venne ordinato ai soldati, della Westfalia, così come ai prigionieri russi, di rimuovere i corpi dalle case e dalle strade e di dare una ripulita all’intera città, prima che venisse occupata dalle truppe.

    Achilles Rose, Napoleon’s Campaign in Russia. 1812, New York, 1913, pp. 32-34.

     

    Tanti morti, che non li si può sotterrare

    Il sergente Adrien Bourgogne completò questa descrizione terribile, raccontando che a Borodino c’erano braccia, gambe e corpi disseminati ovunque. Erano stati sotterrati i soldati francesi e non quelli russi. Ma la fretta aveva obbligato a scavare fosse poco profonde e la pioggia torrenziale aveva rimosso la terra, portando le vittime in superficie.

    Dopo aver attraversato un fiumiciattolo, arrivammo al famoso campo di battaglia [Borodino], completamente coperto da morti e rottami di ogni tipo. Gambe, braccia, teste giacevano sul terreno. Il più dei corpi erano dei russi perché i nostri erano stati sepolti, nei limiti del possibile; ma siccome la cosa era stata fatta in fretta e furia, la pioggia battente aveva scoperto molti dei cadaveri. Era uno spettacolo triste, coi corpi che a malapena conservavano l’aspetto umano. La battaglia era stata combattuta cinquantadue giorni prima.

    Adrien Bourgogne, Memoirs of Sergeant Bourgogne, 1812-1813, a cura di Paul Cottin, New York, 1899, p. 60.

     
    Fig. 4 James Rouse (1816), Contadini che bruciano cadaveri a Hougoumont (Waterloo)

     

    Con i suoi oltre 80 mila morti, la battaglia di Borodino era stata una carneficina che sarebbe stata superata solo da quella della Somme, nel 1916. Uomini e animali. Ricorda Adam Zamoyski (Marcia fatale: 1812, Napoleone in Russia, Utet 2013), che, l’anno successivo, i russi trovarono sul campo 35478 carcasse di cavalli. 

    Il processo di sgombero dei campi era qualcosa la cui durata dipendeva da molte variabili: il fattore climatico, la gravità delle perdite e la disponibilità di soldati e gente del luogo. A Waterloo si ingaggiarono i contadini locali per ripulire il campo di battaglia. Sotto la supervisione del personale medico, procedevano coprendosi il viso con un panno per sopportare il fetore dei cadaveri. I defunti alleati venivano inumati e i francesi arsi. Le pire bruciarono per più di una settimana, alimentate negli ultimi giorni solo dallo stesso grasso umano.

    Le pire bruciarono per otto giorni, le fiamme alimentate esclusivamente dal grasso umano. C’erano cosce, braccia, gambe accatastate in un cumulo e quasi cinquanta operai, con fazzoletti sul naso, attizzavano il fuoco e le ossa con lunghe forche.

    Bernard Cornwell, Waterloo: The True Story of Four Days, Three Armies and Three Battles, New York, 2015, p. 325.

     

    Ossa come fertilizzanti

    Così, ancora dopo un anno, si potevano vedere le ossa dei combattenti. Fu questo il motivo per il quale venne affidato a un’impresa l’incarico di raccoglierle: gli scheletri erano destinati ad essere macinati per essere usati come fertilizzanti (a quanto pare di ottima qualità). Non è un mito, come è stato ben dimostrato da Joe Turne, che riporta, fra l’altro, la testimonianza di giornali del tempo. Un periodico britannico calcolava, nel 1822, che l’anno precedente erano stati importati da quei luoghi un milione di bushel (recipiente da 35 litri) di ossa umane ed equine, che, sbarcate nel porto di Hull in Inghilterra, venivano inviate alle trituratrici a vapore dello Yorkshire. Da lì si mandavano a Doncaster, dove c’era il principale mercato agricolo nazionale, e le si vendevano ai contadini.

    L’articolo si concludeva spiegando al lettore che le perdite al fronte, tutto sommato, avevano un loro risvolto utile.

    Si stima che più di un milione di bushel di ossa umane e no siano state trasportate l’anno scorso dall’Europa continentale al porto di Hull. I dintorni di Lipsia, Austerlitz, Waterloo e tutti gli altri luoghi dove, durante la recente sanguinosa guerra, vennero combattute le principali battaglie, sono stati spazzati allo stesso modo delle ossa dell’Eroe e del cavallo che montava. Raccolte da ogni angolo, sono state spedite al porto di Hull, e quindi inoltrate nello Yorkshire dove le società che macinano ossa si sono dotate di motori a vapore e potenti macchinari, con lo scopo di ridurle in piccoli grani. In questo formato vengono inviate principalmente a Doncaster, uno dei più grandi mercati agricoli di quella parte del paese, dove vengono vendute ai contadini per concimare i campi. Le sostanze oleose, decomponendosi gradualmente, insieme con il calcio delle ossa creano un concime più efficace di qualsiasi altra sostanza, e ciò è particolarmente vero per le ossa umane. È ormai provato oltre ogni dubbio, attraverso esperimenti su larga scala, che un soldato morto è un articolo di commercio particolarmente prezioso; al contrario, è giusto far sapere come i bravi agricoltori dello Yorkshire, per il loro pane quotidiano, siano in larga misura in debito con le ossa dei loro stessi figli. È evidente infatti che la Gran Bretagna abbia inviato una moltitudine di soldati a combattere le battaglie del paese sul continente europeo: essa ha quindi il diritto di importare le loro ossa come risorsa economica con cui ingrassare il proprio suolo!

    The New Annual Register, or General Repository of History, Politics, Arts, Sciences and Literature for the Year 1822 , Londra, 1823, p. 132.

    Fig. 5 Sfuggito ai predatori, questo scheletro di un soldato britannico morto a Waterloo è stato trovato e identificato dopo 200 anni

     

    Cacciatori di souvenir

    L’ultimo agente di pulizia è il “cacciatore di ricordi”. Dopo la sconfitta finale di Napoleone, in Inghilterra divenne di moda recarsi a visitare Waterloo, Parigi e gli altri luoghi legati all’Imperatore, come in una sorta di turismo organizzato.

    Passeggiare per i campi di battaglia in cerca di oggetti, senza badare troppo all’odore di morte e carne bruciata che ancora aleggiava nell’ambiente, divenne un autentico hobby: cappelli, lettere, munizioni, libri, corazze (ancor meglio se erano perforate dai proiettili), elmetti, bottoni e a volte qualche osso dimenticato sul campo. Ben presto la richiesta di reliquie alimentò una nuova attività commerciale: il collezionismo.

    Fig. 6 La palla di moschetto che ha ucciso il soldato britannico

     

    Nel 1816 un poeta satirico scrisse:

    Tutti ormai tornano dai viaggi parigizzati o waterlizzati [...] conosco un onesto gentiluomo che si è portato a casa un autentico pollice di Waterloo, con unghia e tutto il resto, e se lo conserva in una bottiglia di gin.

    Eaton Stannard Barrett, The Talents Run Mad; or, Eighteen Hundred and Sixteen: A Satirical Poem , Londra, 1816, pp. 18-19.

    Il giornalista scozzese John Scott, che visitò Waterloo il 9 agosto 1815, sette settimane dopo la battaglia, trovò un proiettile inglese da 12 libbre (5 chili e mezzo), che progettò di portare a casa “con le corazze e le altre spoglie della battaglia che mi sono assicurato”. Scrisse:

    L’amore straordinario per le reliquie mostrato dagli inglesi era causa di non poche soddisfazioni per i contadini che dimoravano vicino al campo, e di burle da parte dei nostri amici militari [...] Il nostro stesso gruppo non passò dal campo senza seguire l’esempio dei nostri compatrioti; ciascuno, credo, raccogliendo la propria piccola collezione di curiosità. Il terreno era completamente disseminato da frammenti di cartucce, pezzi di cuoio, cappelli, lettere, canzoni, diari, ecc., tanto da assomigliare, in buona misura, al sito dove si era tenuta una fiera, e dove diverse carovane di zingari avevano acceso i fuochi, a più riprese, per cucinarsi il vitto. Camminando, abbiamo raccolto molte di quelle cose; tuttora conservo nei miei archivi una lettera, evidentemente slavata dalla pioggia, datata 3 aprile, a giudicare dalla porzione ancora leggibile, inviata dallo Yorkshire; ho anche una pagina di un libro burlesco, intitolato “L’assassino scrupoloso”.
    A Hougoumont ho comprato un proiettile di mitraglia, una di quelli con cui il bosco di fronte doveva essere stato preso d’assalto, almeno a giudicare dai fori ancora visibili su ogni albero.
    Il tempo che era trascorso dalla data dello scontro aveva tolto alla scena quel tanto di orrore che mi era capitato di percepire fino a poco prima; ma il grande numero di tumuli, sparsi in ogni direzione – in alcuni casi montagnole di buone dimensioni – particolarmente vicino alla stradina sopra a La Haye Sainte, e soprattutto l’aspetto desolato di Hougoumont, dove l’odore degli ossari appesta l’aria in maniera morbosa, erano indizi sufficienti della temibile tempesta che aveva spazzato un tempo questo tranquillo distretto rurale.

    John Scott, Journal of a Tour to Waterloo and Paris, in company with Sir Walter Scott in 1815, Londra, 1842, pp. 46-48.

     

    Proposte didattiche

    Come è comune fra gli storici di lingua inglese, questo testo ha un andamento scorrevole, che abbiamo cercato di accentuare nella nostra trasposizione didattica: frasi brevi, sintassi controllata, documenti brevi e abbastanza facili da capire alla prima lettura. Per questo, potremmo suggerire una lettura in classe, senza troppe presentazioni, seguita da una discussione. Poiché il testo ha un forte impatto emotivo, se ne può rafforzare la presa con un minimo di “sceneggiatura”: l’insegnante legge le parti narrative, due o tre allievi (adeguatamente preparati in precedenza), leggono a turno i documenti. Alla lim si proiettano le immagini, che, come avrete notato, sono tutte di carattere documentario.

    In questa strategia didattica si fa molto conto, dunque, sugli aspetti emotivi della vicenda e, al tempo stesso, la documentazione viene adoperata più come rinforzo, illustrazione e sottolineatura, che come “strumento per la ricostruzione di un evento”. Se questa strada non appare in linea con la propria programmazione, se ne può tentare un’altra, di carattere più laboratoriale. Suggerirei, in questo caso, di scorporare i documenti (testi e immagini), stamparli in fogli separati e allestire con questi dei piccoli dossier.

    Si procede con la tecnica dell’ “archivio simulato”. Presentazione del problema, consegna del dossier (preferibilmente si lavori in piccoli gruppi). Assegnazione del compito (“siete degli storici che hanno a disposizione dei documenti per capire qualcosa delle campagne militari napoleoniche, che solitamente viene trascurata dai vostri colleghi studiosi”). Gli allievi vengono lasciati liberi di lavorare, se competenti. In caso contrario, si elabora una rapida traccia di lavoro, avendo cura che non sia troppo pedante (come classificare i documenti, come ricavare le notizie utili, come valutare il loro grado di affidabilità). Al termine, gli allievi vengono invitati a scrivere una breve relazione, supportata da frasi ricavate dai documenti, o da riferimenti alle immagini. Suggerirei, alla fine, di utilizzare il testo di questo articolo come termine di confronto, in modo che gli allievi possano rapportare il loro lavoro a quello di un esperto.

    Questa unità di lavoro ha una sua collocazione ovvia, nel curricolo. Tuttavia, potrà essere utile nel caso si affronti il tema della guerra, anche in altri momenti della programmazione. Si sarà notato, inoltre, come permetta una magnifica apertura ad una delle branche più avvincenti dell’archeologia: quella militare. Lo scavo di un campo di battaglia consente di ritrovare le tracce di notizie tratte dalla documentazione scritta e, al tempo stesso, di “fotografarne” gli attimi più drammatici. Ecco alcuni suggerimenti, per iniziare a documentarsi e per discutere:

    Sulla campagna di Russia: https://www.artec3d.com/it/cases/ricerche-archeologiche-sul-campo-di-battaglia-originario-di-borodino; fossa comune in Lituania: http://www.oltremagazine.com/site/index.html?id_articolo=490;
    Su Waterloo: Hougoumont: https://www.rtbf.be/info/regions/brabant-wallon/detail_waterloo-des-fouilles-aux-abords-de-la-ferme-d-hougoumont?id=8968612; Waterloo: http://waterloo.skynetblogs.be/archive/2009/10/16/waterloo-histoire-locale-archeologie.html ; sul ritrovamento del soldato britannico:  http://spw.wallonie.be/dgo4/tinymvc/apps/patrimoine/views/Documents/archeologie/soldat1815/Catalogue-waterloo-web-EN.pdf

    Infine, per affrontare alcune questioni profonde, legate a questo tema: Sara Santoro, Archeologia, identità e guerra
    http://www.rivistailmulino.it/journal/articlefulltext/index/Article/Journal:RWARTICLE:83958

    *Il testo è tratto da: Shannon Selin, How were Napoleonic battlefields cleaned up? , che ringraziamo per averci concesso di pubblicare questo adattamento; è integrato con la sua trasposizione spagnola, di Jorge Alvarez, Cómo se limpiaban los campos de batalla de las guerras napoleónicas e con altre precisazioni che mi sono sembrate utili per il lavoro in classe. Le foto, dove non specificato, sono quelle proposte da Selin, il cui sito, inoltre, è ricchissimo di racconti, materiali e indicazioni di studio, in genere di storia militare.

  • Il valore del cibo nel Medioevo

    Autori: Marina Rosset e Alessandro Contino

    SOMMARIO

    UdL “Il valore del cibo nel Medioevo”

    Inquadramento del tema

    Metodologia didattica

    Declinazione dei contenuti, sviluppo e valutazione

    VERIFICA PER COMPETENZE

    RI-CONTESTUALIZZAZIONE

    DIAGRAMMA DELLE LEZIONI

    ALLEGATI

    BIBLIOGRAFIA

    APPENDICE INTERDISCIPLINARE

    Inquadramento del tema
    Alla base di questo progetto sta la volontà di allargare il percorso disciplinare di Storia di una classe prima di una SSPG a una storia sociale aperta e interdisciplinare, come prescritto dalle Indicazioni Nazionali. Si trattano perciò elementi di Storia dell’alimentazione in chiave culturale. Per cultura alimentare si intende un insieme di aspetti che fanno del cibo un elemento che caratterizza “la vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un gruppo etnico”1 .

    Lo spazio di riferimento è l’Europa, anche se in alcuni momenti le coordinate saranno allargate ad altre zone del bacino del Mediterraneo e al mondo arabo. I passaggi che verranno riletti sono: la nascita dei regni romano barbarici, la diffusione del monachesimo in Europa e la nascita dell’Islam, lo sviluppo comunale e il radicarsi della signoria territoriale. Questi temi sono riletti metaforicamente come: il cibo è incontro tra culture, il cibo è un precetto della religione, il cibo come ricchezza e povertà e il cibo come sogno.

    La prima fase rilegge l’incontro tra romani e barbari e sviluppa la caratteristica conviviale ed etnica della cucina che mette a contatto e amalgama popoli che vivono lo stesso territorio. Questo tipo di argomentazione porta a una riflessione sull’attualità e l’intercultura. Con i focus di Italiano, Geografia e Scienze si passa poi a una riflessione sui semi come metafora del rispetto della diversità e di tolleranza. Nella seconda fase, si trattano aspetti alimentari legati alle tre religioni monoteiste, partendo dalla diffusione del monachesimo e dalla nascita dell’Islam. In questa fase gli studenti di religione musulmana sono chiamati a un ruolo da protagonisti, diventando mediatori culturali. La terza fase si occupa di alcuni stereotipi: il contadino, il signore, il cittadino. Legata alla trattazione della società medievale, essa intende, attraverso l’analisi di testi storiografici e fonti, portare gli studenti a identificare le abitudini alimentari e quindi a fare inferenze sulle caratteristiche vere o presunte dei personaggi che abitano il basso Medioevo. Si riflette poi nella quarta fase sui giudizi che le fonti mediano, aprendo la discussione su stereotipi e pregiudizi sia nella storia che nella quotidianità, tema del focus di educazione alla cittadinanza. Nella quinta fase l’epoca del radicamento della signoria territoriale, con il rafforzamento del potere personale dei signori a scapito del contado spesso privato dei terreni comuni, viene riletta nella chiave dell’immaginario collettivo che porta al paese di Cuccagna. Si apre qui la discussione sulla fame, come argomento interdisciplinare.

    Metodologia didattica
    L’UdL punta soprattutto sulla didattica del fare, culminante col laboratorio storico sul modello proposto da Antonio Brusa. L’avvio è affidato a un lavoro in apprendimento di gruppi cooperativi  secondo l’approccio del group investigation2, che parte dalla domanda a cui le successive fasi dell’Unità daranno una risposta dal punto di vista storico-culturale. Ci sono anche altri lavori in gruppo, cooperativi e non, lezioni dialogate, dibattiti. Si punta inoltre sull’uso delle tecnologie per coinvolgere gli alunni che manifestano difficoltà di attenzione e/o di apprendimento e per stimolare un lavoro casalingo e un dialogo a distanza tra compagni e con l’insegnante. In particolare si fa uso della piattaforma virtuale dove sono anche somministrati i questionari di autovalutazione e viene gestita parte della metacognizione.

    Declinazione dei contenuti, sviluppo e valutazione
    Fase  1 (2 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Cos’è il cibo per l’uomo?

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTI:
    La domanda principale, gli ambiti per i gruppi (cibo come amicizia, cibo come religione, cibo come ricchezza e povertà, cibo come sogno), le linee guida con cui poter spiegare l’immagine, il supporto informatico (tablet o pc).

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI:
    Trovare un’immagine, darne la spiegazione scritta in base all’ambito assegnato, esporre alla classe, auto-valutare il proprio contributo.

    DESCRIZIONE DELL’ATTIVITA’:
    Gli alunni sono divisi in quattro gruppi da cinque alunni con ruoli diversi, hanno a disposizione due tablet (o pc) con i quali navigare in rete e trovare delle immagini relative agli ambiti. Scelgono un’immagine e costruiscono una spiegazione dell’immagine relativa che esporranno alla classe nella lezione successiva.

    SETTING DELL’AULA: isole di banchi

    VALUTAZIONE: l’insegnante valuta i gruppi e il prodotto dell’esposizione. Gli alunni si auto-valutano sulla piattaforma (vedi allegati).


    ALLEGATI: vedi allegati fase 1.


    Fase 2  (2 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Il cibo è occasione di incontro tra culture.

    PRECONOSCENZE: Migrazioni barbariche e caduta dell’Impero romano.

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTI:
    Testi storiografici dal testo “La fame e l’abbondanza” sull’alimentazione romana e sulla alimentazione delle popolazioni germaniche. Tabella con spazi vuoti per gli alunni BES.

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI:
    Produrre una mappa concettuale a partire dalle fonti, cercare e trascrivere la ricetta di famiglia, esporre la ricetta ad un compagno e riportare quella del compagno ad un’altra coppia.

    DESCRIZIONE DELL’ATTIVITA’:
    Prima lezione: gli alunni sono divisi in coppie e realizzano due mappe concettuali che riassumono i contenuti dei testi (l’alimentazione dei romani, l’alimentazione dei germani). Gli alunni con BES ricostruiscono i contenuti e completano una tabella. Successivamente per dare una cornice di senso più vicina agli studenti, viene assegnato come compito a casa la ricerca della ricetta di famiglia che viene impiegata nella lezione successiva per aprire un confronto culturale all’interno della classe. Seconda lezione: Una volta tornati in classe gli alunni vengono divisi in coppie, uno studente intervista il compagno sulla “ricetta di famiglia” e poi i ruoli si invertono; si uniscono due coppie (vengono quindi formati gruppi di quattro alunni) e i contenuti delle interviste vengono riportati oralmente dallo studente che ha fatto l’intervistatore (intervista a tre passi).

    SETTING DELL’AULA: standard.

    VALUTAZIONE: l’insegnante valuta gli elaborati (mappe concettuali, ricette). Gli studenti valutano le esposizioni delle ricette dei compagni.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 2 

    Fase 3: (4 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Il cibo come precetto religioso

    PRECONOSCENZE: La diffusione del monachesimo in Europa e la nascita dell’Islam.  

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTE: lettura di brani tratti dall’Antico Testamento, da regole monastiche, da “I gusti del Medioevo” di Massimo Montanari, una tabella per il confronto delle tipologie di fonti storiche.

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI: leggere e comprendere dei testi, completare delle tabelle riassuntive.

    DESCRIZIONE DELL’ATTIVITA’. Prima lezione: l’insegnante propone una serie di lezioni sul rapporto tra cibo e religione che faccia scoprire i precetti alimentari dettati dalle principali religioni monoteiste. L’insegnante legge i testi e ricorda alla classe la differenza tra fonte primaria e fonte secondaria. L’insegnante guida gli alunni a ricavare una tabella che illustri gli usi alimentari legati alla religione ebraica e a quella cristiana del periodo storico appena affrontato.

    Seconda lezione: sono presi in esame i precetti alimentari della religione musulmana attraverso testi e interventi di alunni musulmani concordati con l’insegnante. Anche in questo caso viene realizzata insieme una tabella. Segue un confronto con quella realizzata in precedenza.

    In queste due lezioni, gli alunni BES sono invitati a intervenire e sono coinvolti nella stesura pratica della tabella alla LIM, cercano immagini che illustrino i temi affrontati. I prodotti realizzati e i materiali valutati dall’insegnante verranno condivisi attraverso la piattaforma.

    Nella terza lezione l’insegnante predispone un lavoro a coppie che parte dall’analisi di un breve brano tratto da “Il riposo della polpetta” o da “Il pentolino magico”4, da un breve testo storiografico scelto tra quelli esaminati insieme nelle lezioni precedenti e da una fonte iconografica sul tema. Gli studenti sono chiamati a leggere e a interrogare il testo divulgativo di Montanari cercando informazioni richieste dall’insegnante (esercizio di allenamento verso l’interrogazione). Le informazioni vengono poi condivise con la guida dell’insegnante, completando una tabella (allegato 7).

    Nella quarta lezione  gli studenti vengono invitati a confrontare le informazioni del testo della lezione precedente con il testo storiografico. L’insegnante si offre come guida cercando di indirizzare il lavoro alla ricerca delle informazioni che sono più attinenti all’argomento, tralasciando i contenuti estranei. Nella seconda parte della lezione le coppie vengono invitate a realizzare un elaborato di 150 parole citando le fonti.

    SETTING DELL’AULA: standard

    VALUTAZIONE: vengono valutati gli interventi nelle lezioni dialogate e il prodotto finale del lavoro di coppie. Nell’ultima lezione viene lasciato spazio per un momento di autovalutazione dialogata.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 3

    Fase 4: (4 ore)
    TITOLO DELLA FASE: Il cibo è anche una questione di ricchezza o povertà

    PRECONOSCENZE: società feudale e sviluppo comunale nel tardo Medioevo

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTE: una fonte scritta di Giovanni de Mussis (XIV secolo) con la descrizione dei banchetti di nozze di Piacenza5; materiali per il lavoro jigsaw (brani tratti dal manuale di storia e dai testi di Montanari e una novella in versi di Wernher der Gartenaere); griglia per il lavoro in jigsaw.

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI: analisi guidata di una fonte. compilazione di tabelle, creazione di mappe concettuali o mentali.

    DESCRIZIONE DELLE ATTIVITA’: nella prima lezione l’insegnante descrive gli aspetti dello stereotipo del contadino che fa da collegamento tra l’elemento storico generale e quello della storia della cultura alimentare costituto dallo stereotipo del contadino. Si passa all’analisi della fonte  di de Mussis condotta secondo il metodo think-pair-share, con la mediazione dell’insegnante attraverso domande stimolo: quanti giorni dura il banchetto? quante portate ci sono? quali tipi di alimenti sono prevalenti? Si delineano le idee di sfarzo e abbondanza dell’alimentazione dei signori. A casa la riflessione continua in piattaforma con un dibattito gestito dall’insegnante e stimolato da altre fonti quali la descrizione del matrimonio tra Isabella d’Este e Annibale Bentivoglio, organizzato nel 1487 a Bologna, descritto dal cronista Ghirarducci6 .

    La seconda e la terza lezione si concentrano sullo stereotipo del contadino attraverso fonti, testi storiografici e testi divulgativi. Viene utilizzata la struttura per l’apprendimento cooperativo jigsaw: la classe viene divisa in gruppi di tre; a ciascun gruppo viene assegnato un portfolio di documenti (l’insegnante assegna a ciascun membro i testi che ritiene adeguati alle capacità); i ragazzi leggono i propri brani poi si riuniscono in gruppi che hanno la stessa fonte e la interrogano; rientrati nel gruppo base, le informazioni vengono messe a confronto; agli studenti viene richiesto poi di fare delle inferenze che portano dalla dieta del contadino al suo stile di vita e alla considerazione che ne emerge dai testi.

    Al termine del lavoro di gruppo, si svolge una discussione in classe mediata dall’insegnante per raccogliere gli elementi dello stereotipo del contadino. Segue una discussione in piattaforma.

    La quarta lezione verte sulla differenza dei consumi tra città e campagna. L’insegnante legge alcuni brani tratti da Gusti nel Medioevo, chiedendo agli alunni di compilare una tabella di comprensione. Segue la realizzazione di una mappa concettuale condivisa in cui emergano le diverse caratteristiche dell’alimentazione del contadino, del signore e del cittadino. A uno degli alunni BES viene affidato il compito di stilare l’elaborato con un programma alla LIM. Agli alunni stranieri viene chiesto di realizzare una semplice mappa mentale per ciascun stereotipo.

    SETTING DELL’AULA: isole di banchi

    VALUTAZIONE: Attraverso una griglia di osservazione, concordata con gli studenti, vengono valutati gli interventi in classe e in piattaforma e le competenze sociali e civiche messe in atto nel lavoro di gruppo.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 4.

     

    Fase 5: (4 ore)
    TITOLO: il cibo come sogno “Il paese di Cuccagna”

    PRECONOSCENZE: lavoro sulle fonti svolto nelle fasi precedenti, le principali caratteristiche della signoria territoriale.

    MATERIALI PRODOTTI DAL DOCENTE: documenti per il laboratorio

    CONSEGNE PER GLI STUDENTI: svolgere le fasi del laboratorio

    DESCRIZIONE DELLE ATTIVITA’:
    La quinta fase è un laboratorio storico, come teorizzato da Antonio Brusa7. Gli studenti sono chiamati a lavorare in autonomia, mettendo in pratica le competenze acquisite. Dopo aver affrontato le caratteristiche della signoria territoriale gli alunni sono chiamati a riflettere sulle conseguenze dell’ampliamento del potere signorile sulle campagne e sulla privazione di un’importante fonte di sostentamento, ovvero i terreni comuni. La fame infatti diviene un pensiero martellante, nella testa oltre che nello stomaco, creando nell’immaginario collettivo l’utopia alimentare del paese di Cuccagna. La classe viene divisa in gruppi di quattro ai quali l’insegnante assegna i ruoli di coordinatore, segretario e responsabile del materiale, mentre gli alunni con bisogni educativi speciali vengono inseriti come elementi osservatori, muniti di griglia, e gestori del gettone di parola. Ai gruppi viene affidato un portfolio contenente:
    -    un brano tratto da païs de Coquagne8 ;
    -    un breve brano storiografico tratto da Montanari9;
    -    un brano tratto da Il pentolino magico10;
    -    un’immagine del paese di Cuccagna;
    -    un intruso.
    Il lavoro è concentrato nelle prime tre lezioni, mentre la quarta è dedicata alle esposizioni. Gli elaborati finali vengono condivisi sulla piattaforma.

    SETTING DELL’AULA: isole di banchi

    VALUTAZIONE: la valutazione del lavoro di gruppo sulle diverse competenze trasversali (sociali e civiche, consapevolezza ed espressione culturale) viene effettuata durante il processo con griglie di osservazione, tenendo conto anche di quelle elaborate dagli studenti osservatori. Viene eseguita una valutazione in itinere attraverso i prodotti delle singole fasi e i feedback nel corso dell’attività in classe. Infine è valutato il prodotto finale.

    ALLEGATI: vedi allegati fase 5

    VERIFICA PER COMPETENZE
    Alla fine dell’anno è prevista una verifica sommativa che richiede agli studenti di utilizzare in un contesto nuovo le competenze acquisite. Viene fornita loro una fonte (semplice per i BES) sulla quale rifare il laboratorio storico. E’ inoltre richiesto loro di correlare gli argomenti della presente UdL con quelli del percorso curricolare spiegando la relazione e mettendoli in una linea del tempo. Per valutare le conoscenze viene richiesto di legare attraverso dei concetti chiave il percorso tradizionale con quello sull’alimentazione, realizzando un breve testo su uno degli argomenti trattati.

    RI-CONTESTUALIZZAZIONE
    In questo lavoro si è prediletto l’aspetto interculturale, data la composizione etnicamente eterogenea del gruppo classe. Volendo riproporre il lavoro si può pensare di limitare l’aspetto culturale e lavorare di più su quello storico. Si può inoltre pensare a un approccio più locale con un laboratorio di fonti inerenti al proprio territorio.

    DIAGRAMMA DELLE LEZIONI


                                                                   
    ALLEGATI
    FASE 1: Che cos’è il cibo per l’uomo?
    ALLEGATO 1

    LINEE GUIDA PER LA DESCRIZIONE DELL’IMMAGINE:

    ●    Come è rappresentato il cibo?
    ●    Che tipo di cibo c’è nell’immagine?
    ●    Ci sono altre figure (oggetti, persone, animali) oltre al cibo?
    ●    Che relazione c’è fra il cibo e queste altre figure?
    ●    Quale significato dai a questa immagine?
    ●    Inventa uno slogan da mettere sotto l’immagine.

    ALLEGATO 2

    FASE 2: Il cibo come incontro
    ALLEGATO 1
    “I romani, stando a Plinio il Vecchio, non ebbero forni pubblici per la cottura del pane prima del II secolo avanti Cristo. In precedenza consumavano soprattutto zuppe, polente, focacce. Appresero poi l’arte del lievito e della panificazione, che, sembra, gli egiziani avevano messo a punto per primi, diffondendola tra le genti del Mediterraneo orientale”. (p. 60)
    da M. Montanari, Gusti del Medioevo, p. 60

    “L’ideologia alimentare romana si costruisce attorno a una triade di prodotti, il pane, il vino e l’olio, assunti - riprendendo la tradizione greca - a vero e proprio simbolo di una certa idea di “civiltà”, legata, nel mondo greco e romano, all’agricoltura come modo di produzione tipico dell’uomo, che, separandosi dal mondo della natura e delle bestie, costruisce la propria esistenza in modo per così dire artificiale, inventando tecniche di sfruttamento dell’ambiente naturale che finiscono per trasformarlo profondamente, disegnando un paesaggio nuovo, quello dei campi, delle vigne, degli alberi coltivati, da cui l’uomo, lui solo, riesce a ricavare dei prodotti che, a loro volta, trasformati secondo tecniche esse stesse esclusive dell’uomo, gli forniscono un cibo (il pane), una bevanda (il vino) e un grasso (l’olio) che non esistono allo stato naturale e per ciò stesso simboleggiano la capacità di ritagliarsi uno spazio “civile” in mezzo alla natura selvaggia [...]. Anche la pastorizia, anche la caccia rientrano fra le attività produttive; anche la carne compare - eccome - sulle tavole romane, per non parlare del formaggio, delle uova e di altri prodotti di origine animale. La carne stenta, tuttavia, a conquistare un’immagine alta, totalmente positiva, perché legata a forme di sfruttamento del territorio ritenute più “naturali”, meno “civili” [...]. La letteratura latina restituisce immagine che assegnano soprattutto ai cibi vegetali, a quelli prodotti con il lavoro dei campi, il ruolo di identificare il proprio modello di civiltà. I popoli che vivono soprattutto di caccia e pastorizia, dando alla carne un ruolo centrale nel loro regime alimentare, sono pertanto rappresentanti come “incivili” o “barbari” [...] Procopio scrive che i lapponi “non ricavano alcun cibo dalla terra… ma si dedicano solamente alla caccia”, e Giordane parla degli scandinavi che vivono “solamente di carni”.
    da M. Montanari, Gusti del Medioevo, p. 69-70

    “Anche quelli che un tempo si chiamavano <<barbari>>, legati a tradizioni di tipo pastorale più che agricolo, e a un modello alimentare prevalentemente carnivoro, subirono il fascino del nuovo modello alimentare e contribuirono in maniera decisiva alla diffusione nel continente della ‘cultura del pane’”.
    da M. Montanari, Gusti del Medioevo, p. 62

    Testi sono tratti da M. Montanari, La fame e l’abbondanza,pp. 12-14
    ROMANI:
    “[…] i latini chiamavano ager, l’insieme dei terreno coltivati, rigorosamente distinti dal saluto, la natura vergine, non-umana, non-civile, non-produttiva. […] l’economia del bosco e della palude erano […] realtà marginali”.

    “[…] agricoltura e arboricoltura erano il perno dell’economia e della cultura dei greci e dei romani […]. Grano, vite, ulivo ne erano i punti di forza: una triade di valori produttivi e culturali che quelle civiltà avevano assunto a simbolo della propria identità. «Ogni cosa che le mie figlie toccano si trasforma in grano, o in vino puro, o in oliva»: le parole di Anio, re e sacerdote di Delo, che Ovidio rappresenta in una delle Metamorfosi, la dicono lunga sulle abitudini e sui desideri alimentari (il mito di Anio non è anche un’utopia?) di questa gente. […] Accanto ad essi svolgevano un certo ruolo l’orticoltura (soprattutto) e la pastorizia ovina […]. Su queste realtà si disegnava un sistema di alimentazione - vogliamo chiamarlo ‘mediterraneo’? - a forte caratterizzazione vegetale, basato sulle farinate e sul pane, sul vino, sull’olio, sulle verdure: il tutto integrato da un po’ di carne e soprattutto un po’ di formaggio (pecore e capre si utilizzavano prevalentemente come bestie vive, per il latte e la lana)”.

    BARBARI:
    “Le popolazioni celtiche e germaniche, da secoli avvezze a percorrere le grandi foreste del Centro e del Nord Europa, avevano sviluppato una forte predilezione per lo sfruttamento della natura vergine e degli spazi incolti. La caccia e la pesca, la raccolta dei frutti selvatici, l’allevamento brado nei boschi (soprattutto maiali, ma anche equini e bovini) erano attività centrali e caratterizzanti del loro sistema di vita. […] la carne era il valore alimentare di primo grado. Non il vino si beveva (conosciuto solo nelle zone di confine dell’impero) ma il latte di giumenta e i liquidi acidi che se ne derivavano; o il sidro, tratto dalla fermentazione dei frutti selvatici; o la birra, là dove si coltivavano cereali nelle piccole radure sottratte alla foresta. Non l’olio si usava per ungere e per cucinare […] ma il burro e il lardo”.

    PUNTI DI UNIONE:
    “[…] anche i germani consumavano cereali, pappe d’avena o focacce d’orzo (non però pane di frumento, vero simbolo dell’alimentazione mediterranea); anche i romani mangiavano carne di porco (che gli imperatori facevano distribuire al popolo della capitale, assieme al pane)”.

    ALLEGATO 2
    GRIGLIA PER L’ATTIVITA’ DEGLI ALUNNI con BES:

     

    ALLEGATO 3
    COMPITO: Ricetta di famiglia
    Gli studenti sono invitati a chiedere ai propri genitori una ricetta significativa della “tradizione famigliare” della quale dovranno elaborare una descrizione seguendo i seguenti punti:

    1.    tradizione della ricetta (da quale ramo familiare giunge)
    2.    occasione particolare in cui il piatto viene proposto
    3.    ricetta
    4.    piccolo approfondimento sugli alimenti tipici che vengono utilizzati (se ad esempio derivano dalla cultura di un paese o una regione d’origine differente da quella in cui la famiglia risiede).


    ALLEGATO 4
    IL BUON MODELLO  PER LA RICETTA DI FAMIGLIA
    La domenica andavamo a pranzo dalla mamma di mia mamma, nonna Emma. Lei e sua nuora Lillina dal venerdì sera si alternavano presso la fiammella minima che asciugava il ragù, rraù, in lingua e palato locali. Il nostro arrivo a mezzogiorno in anticamera era accolto da un alleluia di ragù diritto nel naso. Quel sugo era l’applauso di uno stadio in piedi dopo un gol, era un abbraccio, un salto e una cascata dentro le narici. Mai più potrò riavere quell’arrembaggio al vertice dei sensi, che sta per me in qualche ghiandolina dell’olfatto. A tavola, condito con la pasta grossa, mi sedevo composto, ma dentro di me stavo in ginocchio di fronte alla scodella.

    È stata la mia porzione di manna, pane dei cieli, apparecchiata da due sacerdotesse dei fornelli, dai loro riti notturni. Erano bocconi che imponevano silenzio. A me si chiudevano anche gli occhi. Le forchette nei piatti raccoglievano il frutto della conoscenza. La bocca piena gorgheggiava una laude. Non ho temperamento mistico, ma quel poco che mi è toccato in sorte l’ho assaggiato, l’ho avuto sulla lingua durante le domeniche d’infanzia. Quella mensa estiva assume nel ricordo la forma di un altare.

    Da loro due, Emma e Lillina, ho poi ricevuto notizie dettagliate per la composizione della parmigiana di melanzane, piatto preferito dell’età adulta. La preparavano facendo passare il frutto per tre fuochi. Tagliate a fette le melanzane, le mettevano al sole, la fiamma più potente, ad asciugarsi dall’acqua e addensare il sapore. Poi le friggevano, indorando di festa la cucina. Ultimo fuoco il forno, dopo averle distese a strati, ognuno ricoperto di sugo, basilico, mozzarella e una manciata di formaggio parmigiano. Tre fuochi concorrevano alla pietanza che meglio coincide per me con la parola casa.
    Senza mamma pratico l’astinenza da quel cibo, un esilio alimentare. Il lutto si sconta alla tavola invece che al cimitero.
    Tratto da De Luca, E. Il più e il meno, pp. 18-19

    ALLEGATO 5
    ESEMPIO DI RICETTA MEDIEVALE
    Polenta di fave o “macco”
    Prendi fave infrante e scelte bene e quando le avrai bollite, tolta l’acqua, lava molto bene e rimettile nello stesso vaso con poca acqua tiepida e sale, in modo che siano ben coperte dall’acqua, e gira spesso col cucchiaio; quando saranno cotte, togli dal fuoco e schiaccia fortemente con un cucchiaio, poi lascia riposare un po’ e quando scodellerai aggiungi del miele o dell’olio soffritto con cipolle, e mangia.
    Montanari, M. Gusti del Medioevo, p. 188

    ALLEGATO 6


     FASE 3: Il cibo come precetto religioso
    ALLEGATO 1
    Alimentazione ebraica
    Letture dalla Bibbia:
    Poi il Signore Iddio piantò un giardino in Eden a oriente e quivi pose l’uomo che aveva formato. Il Signore Iddio fece germogliare dal suolo ogni specie di alberi piacevoli d’aspetto e buoni a mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino, e l’albero della conoscenza del bene e del mare. […] Il Signore Iddio prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, affinché lo coltivasse e lo custodisse, e dette all’uomo quest’ordine: “Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non mangiare! Poiché il giorno in cui ne mangiassi, di certo morresti”.
    Genesi (2, 8-17)


    “Il Signore disse a Mosè e ad Aronne: “Riferite agli Israeliti: Questi sono gli animali che potrete mangiare fra tutte le bestie che sono sulla terra. Potrete mangiare d'ogni quadrupede che ha l'unghia bipartita, divisa da una fessura, e che rumina. Ma fra i ruminanti e gli animali che hanno l'unghia divisa, non mangerete i seguenti: il cammello, perché rumina, ma non ha l'unghia divisa, lo considererete immondo; l'ìrace, perché rumina, ma non ha l'unghia divisa, lo considererete immondo; la lepre, perché rumina, ma non ha l'unghia divisa, la considererete immonda; il porco, perché ha l'unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, lo considererete immondo. Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri; li considererete immondi.
    Questi sono gli animali che potrete mangiare fra tutti quelli acquatici. Potrete mangiare quanti hanno pinne e squame, sia nei mari, sia nei fiumi. Ma di tutti gli animali, che si muovono o vivono nelle acque, nei mari e nei fiumi, quanti non hanno né pinne né squame, li terrete in abominio”.Levitico (11, 1-12)

    Ecco, il Signore degli eserciti preparerà su questo monte, a tutti i popoli, un convito di carni grasse, un banchetto di vini squisiti, di carni succulente, di vini pregiati. Anzi su questo monte egli stesso strapperà il velo del volto di tutti i popoli, e la coltre che copre tutte le nazioni, e distruggerà la morte per sempre. Il Signore asciugherà le lacrime su ogni volto e toglierà l’onta del suo popolo, la farà scomparire da tutta la terra, ché il signore ha parlato. Isaia (25, 6-8)

    IMMAGINE 1

      IMMAGINE 2
      IMMAGINE 3


    ALLEGATO 2
    L’alimentazione cristiana

    “Il pane di frumento si caratterizza per tutto il Medioevo come un prodotto di lusso, ed è proprio per rifiutare questo lusso che gli eremiti scelgono di privarsene, preferendogli il pane d’orzo con un chiaro intento penitenziale. [...] il vescovo di Lamgres Gregorio, che faceva penitenza con pani d’orzo, ma, per non apparire troppo presuntuoso, li mangiava di nascosto, tenendoli sotto il pane di frumento che offriva agli altri e che fingeva di consumare con loro”.
    Montanari, Gusti del Medioevo, p. 66


    “Nella cosiddetta “Regola del Maestro” (VI secolo) si prescrive che le micae panis, che dopo ogni pasto rimangono sulla tavola, siano raccolte con attenzione e conservate in un vaso. Ogni settimana, il sabato sera, i monaci le metteranno in padella con un po’ di uova e farina e ne faranno una piccola torta da mangiare tutti insieme, rendendo grazie a Dio prima dell’ultima coppa di bevanda calda che conclude la giornata”.
    Montanari, Gusti nel Medioevo, p. 68


    “Il cibo sia parco; lo si consumi alla sera, rifuggendo la sazietà e, nel bere, l’ubriachezza: esso sostenti senza nuocere. Sia costituito da ortaggi, legumi, farina impastata con acqua, assieme a una piccola pagnotta, perché non sia aggravato il ventre né appesantita la mente. Coloro che desiderano i premi eterni devono curarsi soltanto di ciò che è veramente utile e vantaggioso; pertanto ci si deve moderare sia nelle necessità materiali che nella fatica. Questo infatti è il vero discernimento: conservare integra la possibilità del progresso spirituale macerando la carne con l’astinenza; ma se l'astinenza oltrepasserà la misura, sarà non una virtù bensì un vizio: la virtù infatti custodisce e comprende molti beni. Si deve perciò digiunare tutti i giorni, così come tutti i giorni ci si deve ristorare; e mentre ogni giorno ci si deve nutrire, si deve gratificare il corpo poveramente e parcamente; infatti si deve mangiare ogni giorno, dato che ogni giorno si deve progredire, pregare, lavorare e leggere.
    Dalla regola di San Colombano III. Il cibo e la bevanda (V)
    fonte: http://ora-et-labora.net/regolacolombano.html

    Volendo tenere il debito conto delle necessità individuali, riteniamo che per il pranzo quotidiano fissato - a seconda delle stagioni - dopo Sesta o dopo Nona, siano sufficienti due pietanze cotte, in modo che chi eventualmente non fosse in condizioni di prenderne una, possa servirsi dell'altra.

    Dunque a tutti i fratelli devono bastare due pietanze cotte e se ci sarà la possibilità di procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se ne aggiunga una terza.

    Quanto al pane penso che basti un chilo abbondante al giorno, sia quando c'è un solo pasto, che quando c'è pranzo e cena.

    In quest'ultimo caso il cellerario ne metta da parte un terzo per distribuirlo a cena.

    “Nel caso che il lavoro quotidiano sia stato più gravoso del solito, se l'abate lo riterrà opportuno, avrà piena facoltà di aggiungere un piccolo supplemento, purché si eviti assolutamente ogni abuso e il monaco si guardi dall'ingordigia.

    Perché nulla è tanto sconveniente per un cristiano, quanto gli eccessi della tavola, come dice lo stesso nostro Signore: "State attenti che il vostro cuore non sia appesantito dal troppo cibo".
    Quanto poi ai ragazzi più piccoli, non si serva loro la medesima porzione, ma una quantità minore, salvaguardando in tutto la sobrietà.
    Tutti infine si astengano assolutamente dalla carne di quadrupedi, a eccezione dei malati molto deboli. Dalla regola di San Benedetto Capitolo XXXIX - La misura del cibo

    "<<Ciascuno ha da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro>> ed è questo il motivo per cui fissiamo la quantità del vitto altrui con una certa perplessità. Tuttavia, tenendo conto della cagionevole costituzione dei più gracili, crediamo che a tutti possa bastare un quarto di vino a testa. Quanto ai fratelli che hanno ricevuto da Dio la forza di astenersene completamente, sappiano che ne riceveranno una particolare ricompensa. Se però le esigenze locali o il lavoro o la calura estiva richiedessero una maggiore quantità, sia in facoltà del superiore concederla, badando sempre a evitare la sazietà e ancor più l'ubriachezza. Per quanto si legga che il vino non è fatto per i monaci, siccome oggi non è facile convincerli di questo, mettiamoci almeno d'accordo sulla necessità di non bere fino alla sazietà, ma più moderatamente, perché <<il vino fa apostatare i saggi>>. I monaci poi che risiedono in località nelle quali è impossibile procurarsi la suddetta misura, ma se ne trova solo una quantità molto minore o addirittura nulla, benedicano Dio e non mormorino: è questo soprattutto che mi preme di raccomandare, che si guardino dalla mormorazione.”
    Dalla regola di San Benedetto, Capitolo XL - La misura del vino
    Fonte: http://ora-et-labora.net/RSB_it.html#Cap39


     ALLEGATO 3
    Alimentazione islamica:
    “[...] da quanto, fra VII e VIII secolo, l’islam si impose sul versante meridionale del Mediterraneo, questo si trasformò da un grande lago comune - quale era in epoca romana - a un mare di confine. Ecco dunque fronteggiarsi, e magari incontrarsi, ma sempre per sponde opposte, due mondi diversi, due diverse civiltà, religioni, culture. Ed evidentemente il mondo, la civiltà del pane era quella della sponda settentrionale - o almeno, così si rappresentava: c’è una grande tensione ideologica tra gli scrittori cristiani che durante il periodo delle crociate rivendicavano il pane come segno della propria identità e qualificavano come “focacce mal cotte” il pane degli arabi, che a stento meritava quel nome”.
    Montanari, M.Gusti nel Medioevo, p. 62.

    “Vi son dunque proibiti gli animali morti, il sangue, la carne del porco, gli animali che sono stati macellati senza l’invocazione del nome di Dio, e quelli soffocati e uccisi a bastonate, o scapicollati o ammazzati a cornate e quelli in parte divorati dalle fiere, a meno che voi non li abbiate finiti sgozzandoli, e quelli sacrificati sugli altari idolatrici; e v’è anche proibito di distribuirvi fra voi a sorte gli oggetti: questo è un’empietà. Guai, oggi, a coloro che hanno apostatato dalla vostra religione: voi non temeteli, ma temete me! Oggi v’ho reso perfetta la vostra religione e ho compiuto su di voi i miei favori, e M’è piaciuto di darvi per religione l’Islam. Quanto poi a chi vi è costretto per fame o senza volontaria inclinazione al peccato, ebbene Dio è misericorde e pietoso.”
    Dal Corano (Sura della Mensa: V, 3)

    ALLEGATO 4
    Il pane: esempio di paragone tra cultura alimentare ebraica e cristiana.
    “Sicuramente la [l’arte del lievito e della panificazione] la conobbero gli ebrei, che tuttavia mantennero nei confronti del pane un atteggiamento ambiguo: da un lato esso rappresentava una fondamentale risorsa dell’alimentazione quotidiana; dall’altro era incluso - in quanto cibo fermentato, cioè “corrotto” rispetto alla purezza originaria della materia prima - fra i prodotti che non potevano godere dello statuto ideologico alto, sacrale. Il cristianesimo, invece, fece del pane - assieme al vino, altro prodotto fermentato - l’alimento sacro per eccellenza, lo strumento di comunione eucaristica con la divinità. Fu una scelta che consapevolmente significò la rottura con la tradizione ebraica: non a caso uno dei motivi di scontro fra la Chiesa latina e quella greca, ufficialmente separatesi nell’XI secolo, fu l’accusa, fatta dagli ortodossi ai cattolici, di avere abbandonato la “vera” tradizione cristiana del pane fermentato e di essersi avvicinati, con l’introduzione nel culto dell’ostia azzima, all’antico modello ebraico”.
    Montanari, M. Gusti del medioevo, p. 60

    ALLEGATO 5
    La melanzana: esempio di stereotipo che passa attraverso il cibo
    “Melanzana è una di quelle parole che si definiscono connotative perché contengono in sé il giudizio dell’oggetto rappresentato. L’etimologia non lascia spazio a equivoci: viene dal lontano mala insana, frutto insano pericoloso per la salute. La parola nacque sul finire del medioevo per qualificare negativamente il cibo che oggi tanto ci appassiona. Per catalogarlo fra le cose da evitare. Pomo sdegnoso lo chiama Bartolomeo Scappi, il cuoco più rappresentativo dell’Italia rinascimentale. Ma perché questo “sdegno”? per un pregiudizio sembrerebbe, di natura sociale: la melanzana diventò rapidamente una risorsa della cucina povera e fu perciò disdegnata dalla buona società. Come altre piante orientali la melanzana fu portata in Europa dagli arabi, che, ne l corso del Medioevo, la impiantarono in Sicilia e in Spagna. Già menzionata nei racconti del duecento Novellino, essa è rappresentata iconograficamente nei Tacuina sanitatis del Trecento.”
     Montanari M. Gusti del medioevo, p. 31


    ALLEGATO 7

                       

    FASE 4: Il cibo è anche una questione di ricchezza o povertà (o il cibo come status sociale)

    ALLEGATO 1
    “A sentire Giovanni de Mussis che scrive nel 1388, la città di Piacenza si era trasformata in una specie di paese di Bengodi: <<nel cibo tutti fanno meraviglie, soprattutto nei banchetti di nozze che per lo più seguono quest’ordine: vini bianchi e rossi per cominciare, ma prima di tutto confetti di zucchero. Come prima portata danno un cappone o due, e un grande pezzo di carne per ciascun tagliere è [=ogni due persone], cotto alla lampada con mandorle e zucchero e altre buone spezie. Poi danno carni arrostite in gran quantità, ossia capponi, polli, fagiani, pernici, lepri, cinghiali, caprioli o altro, secondo la stagione dell’anno. Poi danno torte giuncate, con confetti di zucchero sopra. Poi frutta. Infine, dopo aver lavate le mani, prima che si levino le tavole si dà a bere e un confetto di zucchero sopra. Infine, dopo aver lavate le mani, prima che si levino le tavole si dà da bere a un confetto di zucchero, e poi ancora da bere. Al posto delle torte e delle giuncate , alcuni danno all’inizio del pranzo delle torte fatte con uova, formaggio e latte, con sopra una buona quantità di zucchero. Per cena si danno, all’inverno, gelatine di carni selvatiche, di cappone, gallina o vitello o gelatine di pesci; poi arrosto di cappone e di vitello; poi frutta.”
    Montanari, M. La fame e l’abbondanza, p. 91

    ALLEGATO 2
    DESCRIZIONE DEL MATRIMONIO TRA ISABELLA D’ESTE E ANNIBALE BENTIVOGLIO
    “Il convito - simile a tanti altri di cui abbiamo notizia nelle cronache o nei trattati di cucina - durò sette ore, dalle 20 alle 3 di notte, durante le quali furono serviti: piccoli antipasti e cialde, con vino dolce di varie qualità; piccioni arrosto, fegatelli, tordi pernici <<con ulive confette et uva>>, e pane; un castello di zucchero <<con li merli e torri molto artificiosamente composto>>, pieno di uccelli vivi che, appena il piatto fu recato in sala uscirono fuori volando <<comn gan piacere e diletto de’ convitati>>; vennero po un capriolo e uno struzzo, attorniati da vari <<pastelletti>>, teste di vitello , capponi lessi, petti e lonze di vitello, capretti, salsicce, piccioni, con <<minestra et sapori>>, ossia salse; poi furono presentati pavoni, <<vestiti con le loro penne a guisa che facessero la ruota>>, uno per ciascuno signore invitato; poi mortadelle, lepri e caprioli cotti in guazzetto, ma rivestiti con la loro pelle in modo così perfetto <<che si mostravano vivi>>; dietro ad essi vennero tortore e fagiani, <<che dal becco loro ne uscivano fiamme e fuoco>> accompagnati con agrumi e varie salse. Poi torte di zucchero con mandorle, giuncate>> (forme di ricotta) e biscotti; e ancora teste di capretti e tortore, pernici arrosto, e un castello pieno di conigli che uscirono fuori correndo con gran divertimento dei convitati; indi <<pastelletti di coigli>>  e <<capponi vestiti>>.
    Montanari, M., La fame e l’abbondanza, pp.116-117

    NB: tutto il capitolo “Cucina ricca, cucina povera” (pp. 181-193) de Gusti del Medioevo di Massimo Montanari, ed. Laterza, 2012 si presta come approfondimento per questa fase. Qui sono scelti alcuni brani rappresentativi.

    NEGLI ALLEGATI 3, 4 e 5, i testi tratti da Montanari, M. Gusti nel Medioevo
    ALLEGATO 3
    LA CARNE
    CONTADINO: “Le carni erano bollite a lungo nella pentola appesa sul focolare di ogni casa contadina: a ciò portava la loro consistenza, particolarmente coriacea sia perché gli animali, liberi di muoversi in spazi aperti per gran parte della loro vita, sviluppavano una muscolatura soda e compatta, sia perché i contadini si cibavano spesso di animali vecchi, già sfruttati per il lavoro, o comunque cresciuti per più anni, per aumentarne il peso.” (p. 51)

    “Ai contadini, pur fra mille limitazioni, resterà il maiale attraverso gli usi residui del bosco comune o signorile, e in nuove forma di allevamento stabulare che negli ultimi secoli del Medioevo acquistano crescente importanza. Maiale cioè, soprattutto, carne conservata: è il sale, grande protagonista dell’alimentazione contadina, a consentire un po’ di dispensa per i mesi difficili, un minimo di sicurezza contro i capricci delle stagioni.” (p. 76)

    SIGNORE: “Se la carne è per eccellenza l’alimento che dà forza, esso sarà per eccellenza il cibo del potere, in virtù di un implicito passaggio intermedio (la forza come elemento primario del potere) che la cultura medievale dà in qualche modo per scontato. Il potente è il guerriero, colui che combatte meglio degli altri ed è in grado di batterli. La forza si costruisce in primo luogo con la carne. La carne è cibo del guerriero [...]. Nel IX secolo l’imperatore Lotario prescrive l’astinenza dal consumo di carne per coloro che si sono macchiati di grave colpa nei confronti del sovrano; contemporaneamente li obbliga a deporre le armi. [...] Infine i signori tengono a riservare a se stessi la pratica della caccia, che ha un ruolo essenziale nella definizione e della rappresentazione dell’identità nobiliare. ” (pp. 74-75)

    “Nel XIV e nel XV secolo nessuno sembra dubitare che le carni meglio convenienti alla dieta aristocratica siano quelle dei volatili: pernici, fagiani, quaglie. [...] I volatili esprimono infatti [...] un diverso ideale di vita e di alimentazione: la leggerezza. Il volatile vola e perciò è leggero [..]. La sua leggerezza vuol dire finezza, vuol dire carni delicate, adatte ad un’élite di cortigiani (o all’alta borghesia cittadina) che non rappresentano più la loro eccellenza in termini di forza muscolare, bensì di capacità intellettuale (politica, ndr).” (pp. 78-79)

    ALLEGATO 4
    IL PANE
    “[...] cominciò a caratterizzare e definire il regime alimentare “povero”, quello a cui si attenevano i contadini e più in generale i ceti subalterni. Per tutti costoro il consumo di pane rimase, per secoli, altissimo e decisivo: nei paesi europei, razioni giornalieri di 700-800 grammi, fino a un chilogrammo e più, sono attestate come normali nel Medioevo e oltre, almeno fino all’Ottocento. Questo alimento forniva la parte più consistente dell’apporto calorico quotidiano: dal 50 al 70% [...].” (p. 63)

    CONTADINO: “Nelle case contadine, il pane si mangiava - a Dio piacendo - tutti  i giorni: “come è costume dei rustici” (sicut mos rusticorum habet), un colono di cui racconta Gregorio di Tours riceveva ogni mattina dalla moglie un pane, e non cominciava a mangiarlo prima di averlo fatto benedire dal prete. Ma non dobbiamo pensare che il pane si facesse ogni giorno [...] i grandi pani della mensa contadina erano fatti per durare almeno una settimana.” (pp. 63-64)
    “[...] il pane dei poveri era scuro perché fatto - interamente o in parte - con cereali inferiori: segale, avena, orzo, spelta, miglio, panìco… una folla di prodotti che per secoli ha scandito il ritmo dell’alimentazione contadina.” (pp. 64-65)

    SIGNORE: “Nei banchetti principeschi, alle numerose carni si affiancava di regola il pane, distribuito in “ceste dorate” [...]. Solo che era un pane di qualità diversa. La differenza si coglieva a prima vista, in un dato di natura cromatica: il pane dei ricchi era bianco, perché fatto con frumento puro”. (p. 64)

    ALLEGATO 4
    FORMAGGIO VS CARNE
    “Un tipico prodotto della gastronomia povera, che la cultura medievale, come l’antica, associa soprattutto al mondo dei contadini e dei pastori, è il formaggio. Tuttavia anche in questo caso si avvia nel Medioevo un percorso di nobilitazione legato sia a fattori di gusto, sia all’immagine del formaggio come cibo “di magro”, sostitutivo della carne nei giorni di astinenza infrasettimanale e di vigilia e poi, dal XIV-XV secolo, anche in quaresima.” (p. 190).

    ALLEGATO 5
    IL CITTADINO e LA CARNE
    CITTADINO. “[...] il pubblico cittadino del pieno e del basso Medioevo non dà più la preferenza alla carne di maiale bensì a quella di bovino (in particolare vitello e vitella) o, addirittura, a quella di ovino, pecora o castrone, che i testi di dietetica considerano pessima. [...] In tutta Europa i consumi cittadini sembrano snobbare l’amato porco e puntare altrove. E’ anche una questione di peso: allevare un maiale, sacrificarlo e prepararlo a dovere, facendone prosciutti, salami e tranci salati, è operazione perfettamente congrua alle dimensioni e alla esigenze della famiglia contadina. Allevare e trattare un bovino è più un’operazione di mercato, dove qualcuno prepara e vende a molti.” (p. 77)

    CONFRONTO: “[...] è il sale,  grande protagonista dell’alimentazione contadina, a consentire un po’ di dispensa [...]. Le élites sociali, invece, amano la carne fresca, freschissima: l’uso medievale prevede talvolta la frollatura delle carni (soprattutto quelle di animali selvatici, più sode e coriacee)  ma spesso il consumo avviene subito dopo l’abbattimento della bestia. [...] Al contrasto signore/contadino (nei secoli centrali del Medioevo, ndr), ereditato dall’alto Medioevo, si aggiunge e si sovrappone quello fra cittadino e contadino. [...] (lo stile di alimentazione) del contadino rimane in prevalenza fondato sul consumo diretto, cioè sulle risorse che egli stesso riesce a produrre: fra le carni, soprattutto il maiale, pur se non mancano, fin dall’alto Medioevo, tracce significative di consumo di bovini (il bosco medievale nutriva anche questi) e, nelle regioni più ricche di prati naturali, ovini. Poi il pollame domestico: qualche gallina, oche, anatre. Il cittadino invece - si dice “il cittadino” senza aggettivi: il signore e il borghese di ceto, ma in qualche misura anche il popolo minuto - può contare, in condizioni di normalità, su un mercato ben rifornito e politicamente protetto: garantire il cibo alla comunità è il primo dovere di ogni pubblica amministrazione [...]. I banchi delle botteghe e del mercato debbono rispondere ad ogni richiesta [...]. In certe città saranno le stesse corporazioni a gestire il mercato della carne e quello del pesce, talora coesistenti ma più spesso alternati, nel corso delle settimane e dei mesi”. (pp.76-77)

    IL CITTADINO E IL PANE
    CITTADINO: “Nelle città anche i poveri mangiavano pane bianco - sempre che non vi fosse carestia: circostanza che, peraltro, si verificava con sconsolante regolarità.” (p. 65)

    ALLEGATO 6
    Nella Germania del XIII secolo, il vecchio contadino Helmbrecht (protagonista dell’omonima novella in versi di Wernher der Gartenaere) raccomanda a figlio la “sua” dieta di farinacei sostenendo che carne e pesce sono riservati ai signori: “Tu devi vivere di ciò che tua madre ti dà. Bevi acqua, caro figlio mio, piuttosto che comprare il vino con le ruberie [...]. Settimana dopo settimana tua madre ti cuoce la buona pappa di miglio: questa devi mangiare e ingozzarti piuttosto che dare un palafreno rubato in cambio di un’oca [...]. Figlio, mescola la segale con l’avena, piuttosto che mangiare pesce coprendoti di vergogna”. Ma il figlio non ci sta: “Beviti pure l’acqua, padre mio, io voglio bere il vino, e mangiati il polentone, io invece voglio mangiare quello che chiamano pollo arrosto”.
    Montanari, M., La fame e l’abbondanza, p. 73

    ALLEGATO 6
    TABELLA PER IL CONFRONTO DEI TESTI

    FASE 5: Il cibo come immaginario collettivo
    ALLEGATO 1
    "[...] di spigole, salmoni e aringhe sono fatti i muri di tutte le case; le capriate sono di storioni, i tetti di prosciutti e correnti di salsicce [...]. Di pezzi di carne arrosto e di spalle di maiale sono circondati tutti i campi di grano; per le strade si rosolano grasse oche che si girano da sole su se stesse, e da vicino sono seguite da candida salsa all'aglio; e vi dico che per ogni dove, per i sentieri e per le vie, si trovano tavole imbandite, con sopra candide tovaglie: tutti quelli che ne hanno voglia possono mangiare e bere liberamente; senza divieto né opposizione ciascuno prende ciò che desidera, pesce o carne, e chi volesse portarsene via un carro potrebbe farlo a suo piacimento [...]. Ed è sacrosanta verità che in quella contrada benedetta scorre un fiume di vino [...] per metà di vino rosso, del migliore che si possa trovare a Beaune o oltremare; per l'altra metà di vino bianco, del più generoso e prelibato che mai sia stato prodotto a Auxerre, a La Rochelle o a Tonnerre".
    Brano tratto da “Païs de Coquaigne”, Fabliau francese del XIII secolo.

    Il carattere elitario dei consumi cane si definirà anche in termini qualitativi: la selvaggina, in modi più o meno accentuati a seconda delle regioni, sarà riservata alle tavole “alte” della società. Pratiche sistematiche di delimitazione del territorio restringeranno a pochi l’uso della foresta, o proibiranno l’esercizio della caccia nelle «riserve». Figure leggendarie come quella di Robin Hood, che percorre la foresta in spregio ai divieti imposti dai nobili, sono anche «immagine utopica di un mondo in cui si potesse andare a caccia e mangiar carne» - come scrive Rodney Hilton. Analogamente, la carne - di ogni genere e specie, bell’e pronta e cucinata in tanti modi diversi - è la presenza più cospicua nei paesi di Cuccagna che l’immaginario popolare si raffigura forniti di ogni bendidio: un’utopia alimentare che si diffonde a iniziare dal XIII secolo e permane lungo tutta l’età moderna, svelando, come altra faccia di sé, il quotidiano paese della fame (o almeno dell’insoddisfazione).
    Da Montanari, M., Gusti del Medioevo, pp. 75 -76.

    Oppressi dalla paura della fame e insoddisfatti nel loro desiderio di mangiare molto e bene, gli uomini del Medioevo amarono sognare che vi fosse un paese benedetto in cui il cibo era sempre disponibile in abbondanza, senza neppure il bisogno di lavorare per procurarselo: un posto simile al Paradiso Terrestre della Bibbia dove, però, non si trovavano solo erbe e frutti deliziosi, ma soprattutto carni di ogni specie, succulente e ben condite. Mangiar carne a volontà, infatti, era il primo desiderio della povera gente, che nella vita reale, invece, mangiava in prevalenza cibi vegetali (cereali, legumi, verdure).

    Questo paese immaginario fu chiamato «Cuccagna» e fu descritto in numerosi testi, in molte lingue europee. Un poemetto francese del XII secolo ci assicura che tutti i campi sono recintati con pezzi di carne arrosto e spalle di maiale; per le strade, grosse oche si rigirano da sole sugli spiedi, cospargendosi di una saporita salsa all’aglio; ovunque, per i sentieri e per le vie, si incontrano tavole imbandite, elegantemente apparecchiate con candide tovaglie, e chiunque ne abbia voglia può sedersi a mangiare: carne di cervo o di uccelli, arrostita o lessata, ognuno prende ciò che desidera e può portarne via dei carri, se vuole. I muri delle case sono fatti di pesci squisiti (spigole, salmoni, aringhe); i tetti di storioni e di prosciutti; le cornici di salsicce. In mezzo alla campagna scorre un fiume di vino, per metà rosso, per metà bianco, dei più prelibati che si possano trovare.

    Chissà se qualcuno credeva davvero che simili fantasie… Certo è che nella letteratura medievale (e anche in quella moderna) vengono messi in scena personaggi ingenui e sempliciotti, a cui viene fatto credere che Cuccagna esista realmente. Così accade, ad esempio, in una novella di Giovanni Boccaccio - un celebre scrittore italiano del Trecento -, dove un gruppo di amici gioca uno scherzo a Calandrino, raccontandogli le meraviglie che sostengono di aver visto a Bengodi (così Boccaccio chiama il nostro paese): «vi era una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavano persone che non facevano altro che far gnocchi e ravioli e cuocerli in brodo di cappone, e poi li facevano rotolare giù, e chi più ne pigliava, più ne mangiava».

    In un testo spagnolo del Cinquecento, un’opera teatrale scritta da Lope de Rueda, due ladroni si prendono gioco del povero Mendrugo:
    - Siediti qui con noi, che ti raccontiamo delle meraviglie del paese di Cuccagna.
    - Di quale paese, signore?
    - Del paese in cui si frustano gli uomini che vogliono lavorare.
    - Oh, che bel paese! Raccontatemi, vi prego…
    - Avvicinati e ascolta. Nel paese di Cuccagna scorre un fiume di miele, e al suo fianco un fiume di latte. Fra i due fiumi c’è una sorgente da cui escono panini al burro e allo zucchero, bagnati in formaggio fresco.
    - Che posto straordinario! Non mi farò ripetere l’invito due volte.
    - Taci e ascolta: nel paese di Cuccagna, gli alberi hanno il tronco fatto di lardo; le foglie sono frittelle dolci, e i frutti sono bignè che, quando cadono nel fiume di miele, navigano dicendo: Màsticami! Màsticami!
    - E cosa c’è d’altro?
    - Le strade sono lastricate con rossi d’uova e tra un rosso e l’altro vi sono dei pasticci di carne con pezzetti di lardo.
    - Lardo arrostito?
    - Arrostito, certo; e che grida: Inghiottimi! Inghiottimi!
    - Mi pare già di averlo sulla lingua…
    - Ma ascolta ancora: nel paese di Cuccagna vi sono degli spiedi lunghi trecento piedi, tutti pieni di pollastri e capponi, di pernici, conigli e francolini.
    - Oh che acquolina in bocca!
    - E a fianco di ogni uccello c’è un maialino che attende solo di essere tagliato, e dice: Divorami! Divorami!
    - Ah, come vi ascolto volentieri! Starei tutto il giorno a sentir parlare di cose da mangiare…
    - Ma non è finita. Il paese di Cuccagna è tutto pieno di vasetti di marmellata, di confetture di zucca e di limone, di marzapani e di frutti canditi.
    - Piano, signore, raccontate piano…
    - Ci sono confetti e fiaschi di vino, e ogni cosa è lì che dice: Bevimi! Mangiami! Bevimi! Mangiami!
    - Mi pare quasi di avere già bevuto e mangiato…
    - E per finire, nel paese di Cuccagna ci sono pentolini di riso con le uova e il formaggio…
    - Come quello che ho qui con me?
    - Proprio così: come il pentolino che è arrivato pieno e che il diavolo si è portato via!
    Distratto dalla succulenta conversazione, il povero Mendrugo non si è accorto che anche la sua povera pignatta di riso si è svuotata. I due ladroni se la ridono sotto i baffi, per lui sarà un giorno di digiuno.
    da Montanari, M., Il pentolino magico, p. 77.

     
    Pieter Bruegel il Vecchio, Il paese della cuccagna, 1567, olio su tela.

     
    Jodocus van de Hamme, Abbondanza dei campi, 1650, Olio su tela.

    GRIGLIA UTILIZZABILE PER TUTTE LE FASI DEL LABORATORIO

     

    BIBLIOGRAFIA
    Brusa, A., Laboratorio di storia, La Nuova Italia, Firenze, 1991.

    Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza,  Roma-Bari, 1993

    Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola, Editori Laterza, Roma-Bari, 2012

    Il pentolino magico, Editori Laterza, Roma-Bari, 1995

    Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009

    Sharan, Y. e Sharan, S., Gli alunni fanno ricerca, Edizioni Erickson, Trento, 1998

    Shiva, V., Storia dei semi, Feltrinelli, Milano, 2013

    Zuin, E., I saperi disciplinari nel curricolo per competenze, Centro studi Erickson, Trento, 2013.


    Manuali per la SSPG:

    Brusa, A., Gurracino, S., De Bernardi, A., L’officina del tempo, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, Milano 2007.


    SUGGERIMENTI PER LE PIATTAFORME

    Per quanto riguarda le piattaforme si suggeriscono le seguenti:

    https://www.fidenia.com/

    http://www.edmodo.com

    https://www.schoology.com/

    https://myhomeworkapp.com/

    APPENDICE INTERDISCIPLINARE

    Si propongono dei collegamenti interdisciplinari allo scopo di arricchire e approfondire l’argomento dell’UDL.

    Focus di Italiano (fase 1): se si vuole legare l’attività con un momento interdisciplinare, la lettura accompagnata dal commento dei testi “Ciò che piace fa bene”, p. 117, “La pasta e gli italiani: un’identità una e molteplice”, p. 197 tratti da “Il riposo della polpetta” di Massimo Montanari11 , si prestano. Si tratta di articoli di giornale con taglio divulgativo caratterizzati dalla precisione nelle informazioni scientifiche propria di uno storico, ma stilisticamente abbastanza semplici così da essere fruibili da ragazzi di prima media.

    Focus di Italiano, Educazione alla cittadinanza e Scienze (fase 2): il tema è “semi come metafore della cultura: si incontrano ma senza prevaricazioni”, il che porta a una riflessione sull’importanza della biodiversità. Si propone la lettura del brano “C’è seme e seme” dal testo Storia dei semi di Vandana Shiva, con lettura e comprensione del testo invitando la classe a scrivere le proprie idee sulla piattaforma piattaforma per poi ridarne un testo collettivo. Per stimolare il dibattito l’insegnante può proporre sulla piattaforma o in classe la visione del frammento del film di Ermanno Olmi “Terra madre” in cui si parla della banca mondiale dei semi alle (delle) Isole Svalbard.  Il documento redatto insieme può essere stampato e messo in una cartella/portfolio che andrà ad alimentarsi nelle fasi successive e rimarrà a testimonianza del percorso trasversale fatto.
    A questo lavoro si aggancia un’ora di educazione alla cittadinanza che legge la storia dei semi in chiave metaforica e la interpreta alla luce dell’integrazione e della tolleranza, tornando così al discorso del cibo come incontro affrontato nell’ora di storia.

    Focus di Educazione alla cittadinanza (fase 4): una lezione dialogata simile a un dibattito, nei limiti delle competenze di una prima media. Proponendo come spunto la mappa concettuale finale, la discussione sarà indirizzata verso i conflitti sorti all’interno della classe e causati proprio dal dare etichette ai compagni perché “diversi”.

    Focus di attualità (fase 5): “La fame oggi”. Lezione dialogata sulle cause delle carestie in età medievale e collegamento con l'attualità prendendo spunto da materiali di approfondimento predisposti dall’insegnante (testi, filmati, documenti, carte e grafici).

    Focus di Arte e immagine (fase 5): laboratorio artistico con realizzazione di un albero della cuccagna in cui ciascuno studente mette il proprio oggetto del desiderio.

    NOTE

    1. Definizione del Devoto-Oli, Vocabolario della lingua italiana.
    2. Sharan, Y. e Sharan, S., Gli alunni fanno ricerca, Edizioni Erickson, Trento, 1998
    3. “La melanzana: cibo da gente basse e da ebrei”, p. 31, “La leggerezza del monaco”, p. 128, “Gastronomia monastica”, p. 132, “Silenzio di mangia”, p. 168, “La gola filosofale”, p.134, “Carnevale e quaresima”, p. 161, “Dieta quaresimale”, p. 163.
    4.“Il pane che viene dal cielo”, p. 11, “La religione del pane”, p. 52, “Il piacere e la rinuncia”, p. 67.
    5. Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 91-92.
    6. Dal materiale per il percorso tematico “Il pranzo è servito” della mostra Il cibo nell’arte, Capolavori dei grandi maestri dal Seicento a Warhol. In Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 116-117.
    7. Brusa, A., Laboratorio di storia, La Nuova Italia, Firenze, 1991.
    8. Netta versione offerta da Massimo Montanari, v. Montanari, M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 119.
    9. Montanari, M., Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola, Editori Laterza, Roma-Bari, 2012, pp. 75-76.
    10. “Il paese di Cuccagna”, p. 77
    11.   In particolare, in questa parte si possono leggere, come spunto di riflessione sui significati del cibo e della cultura alimentare, “Ciò che piace fa bene”, p. 117, “La pasta e gli italiani: un’identità una e molteplice”, p. 197.

  • Lezione 7a. La primavera delle donne romane. Un esempio di laboratorio con variazioni didattiche

    di Antonio Brusa

     

    a. Il problema storico

    Valerio Massimo (I sec. a.C- I sec. d. C) aveva un’idea precisa delle donne. Lui, nato povero, aveva fatto la sua fortuna al servizio di Sesto Pompeo, figlio di Pompeo il Grande. Il suo patrono gli aveva permesso di entrare nell’alta società romana, presso la quale cominciò a vendere i suoi libri. Il suo best seller – Detti e fatti memorabili (Factorum et dictorum memorabilium, libri IX) - fu copiato e letto per secoli.

    In quel libro troviamo le donne romane. C’erano donne da non imitare, come quella signora che osò avventurarsi fuori di casa a capo scoperto. “La legge comanda che solo i miei occhi possano giudicare della tua bellezza”, sentenziò il marito, punendola duramente. E le andò bene, perché, se fosse andata a vedere i giochi da sola, o si fosse fermata per strada a spettegolare, questi l’avrebbe ripudiata senza batter ciglio. Ma terribilmente peggio andò a quella ragazza che si era innamorata del suo maestro, senza riflettere sul particolare che fosse uno schiavo. Bene fece suo padre – commentò serio il nostro scrittore – a uccidere entrambi.

    E le donne da ammirare? Valerio le descrive tutte insieme, nel capitolo sull’amore fra moglie e marito. Vi troviamo Giulia, moglie di Pompeo, che si spaventò a morte quando le portarono la veste del marito sporca di sangue. Roba da poco, si era trattato di una rissa. Ma lei pensò che fosse ferito gravemente. Era incinta. Cadde a terra e morì. Porzia, invece, moglie di Bruto (l’assassino di Cesare), quando seppe che il marito si era suicidato, disperata cercò di imitarlo. I parenti, che lo sapevano, avevano fatto sparire saggiamente coltelli e pugnali. Lei, allora, afferrò dei carboni ardenti e li ingoiò. Più o meno come Artemisia, regina di Caria, un regno che si trovava nell’attuale Turchia, che, non contenta di aver costruito per il marito Mausolo una tomba così bella che fu considerata una delle sette meraviglie del mondo, volle trasformare il proprio corpo nel suo sepolcro, e ne bevve le ceneri.

    Le donne romane dovevano essere pronte a difendere l’illibatezza da ragazze e la fedeltà da spose. In questo, dovevano dimostrare un coraggio virile. Di Lucrezia, che tutti i romani ricordavano come esempio di pudore, Valerio dice che aveva un animo da uomo, che solo per un maligno errore del caso era finito nel corpo di una donna.

    La Roma antica non doveva essere un bel posto per le donne, potremmo concludere, dopo aver letto il libro di Valerio Massimo. Ma dipende da quanto gli crediamo. Perché, se proviamo a girare per il foro e per i tribunali, o sbirciamo nelle case nobiliari, nelle cui stanze si tramavano spesso i destini di Roma, qualche dubbio ci viene. Lì vedremo donne che discutono cause ai processi, o fanno discorsi nelle basiliche (e non di rado vincono); donne che organizzano complotti e attività politiche, e cambiano amanti come si cambiano i vestiti. In pratica, si comportano esattamente come i loro coetanei maschi, Cesare, Catilina, Cicerone.

    Il fatto è che Detti e fatti memoriabili è una raccolta di aneddoti che voleva insegnare ai contemporanei - soprattutto alla gente altolocata alla quale ormai Valerio Massimo sentiva di appartenere - i “buoni comportamenti di un tempo”. Dei buoni esempi da imitare. Ora, se qualcuno sente il bisogno di fare le prediche agli altri, vuol dire che questi, a suo giudizio, non si stanno comportando bene. Quindi Valerio sceglieva quegli aneddoti proprio perché le donne facevano il contrario di quello che lui riteneva giusto. Uscivano di casa, andavano al circo, parlavano con chi volevano loro, promuovevano azioni politiche e, nei tribunali, accanto alla voce dei grandi oratori, risuonavano anche voci femminili.

    Non era il solo a pensarla così. Pensiamo a Sempronia, donna straordinaria, intelligente, colta bella, capace di far politica come pochi, che viene descritta da Sallustio come una escort di lusso. O a Clodia Pulcra, donna dell’alta società che apparteneva alla famiglia Claudia, una delle più prestigiose e antiche di Roma. Lei non si era limitata alla conduzione della sua fastosa abitazione, come una brava “matrona”. Era una delle matronae emancipatae del primo secolo a.C. Nel suo salotto si parlava di letteratura, si programmavano colpi di stato e campagne elettorali. Era il braccio politico di suo fratello Clodio, il grande sostenitore di Cesare. Donna bellissima e disinibita, fra i suoi amanti contò lo stesso Cesare, Pompeo e il grande poeta Catullo, che le dedicò poesie appassionate, chiamandola col nome di Lesbia. Si trovò implicata in un processo politico, nel quale Cicerone, il più temuto oratore romano, difendeva l’accusato, Celio, e lei fu la sfortunata testimone dell’accusa. Cicerone la distrusse con un’invettiva che ci è rimasta, e che potrete leggere nel dossier che segue.

    Non era sempre stato così. Nei tempi antichi era stata dura. Le donne chiuse in casa, velate, non potevano nemmeno bere un bicchiere di vino. Era questo il mos maiorum, il “costume dei padri”. Ma ora il vento era cambiato. Valerio, purtroppo per lui, aveva avuto la sventura di vivere in un periodo – gli ultimi decenni della Repubblica e i primi dell’impero - che gli storici chiamano “la primavera delle donne romane”.

    Non durò molto quella primavera. Se Valerio Massimo era uno scrittore di successo, voleva dire che aveva molti lettori che erano d’accordo con lui, e tanti altri romani importanti, come abbiamo visto: Sallustio, Plinio e Cicerone. Erano uomini di potere. Per loro, tutto il mondo doveva imparare dai romani la severità del mos maiorum. Quindi, si dettero da fare per rimettere le donne al loro posto. Per di più, quando – nel II secolo - si affermò la dinastia Flavia, i nuovi imperatori stabilirono che i funzionari dell’impero dovessero esibire una condotta rigorosa. Dovevano dare il buon esempio al popolo. E, come accade in queste situazioni, chi ci va di mezzo è la sessualità femminile. Il caso di Gallitta, vissuta al tempo di Traiano, è emblematico. Era la moglie di un funzionario imperiale, che si era innamorata di un altro ed era stata accusata di adulterio. Il marito, però, le voleva troppo bene e non si decideva a denunciarla. Niente da fare. Lo scandalo andava eliminato. Gallitta fu condannata all’esilio. Era questa la nuova morale. Noi la conosciamo molto bene, perché ad essa si ispirò una nuova religione che si stava piano piano diffondendo nell’impero. Il Cristianesimo.

     

    b. Il mini-archivio di documenti (con alcune immagini che raccontano la fortuna del mito)

     

    01Fig.1: Antonio Lagorio, detto il Genovesino, Suicidio di Lucrezia (XVII sec.)

    Lucrezia

    Esempio della pudicizia romana, Lucrezia, il cui animo virile per un maligno errore del caso era capitato in un corpo femminile, fu stuprata dal figlio del re Tarquinio il Superbo. Con parole amarissime denunciò l’ingiuria di fronte ai familiari riuniti e, con un pugnale che aveva nascosto sotto il vestito, si uccise.

    Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium, VI, 1, 1

      

    La figlia di Ponzio Aufidiano

    Ammiriamo la forza d’animo di Ponzio Aufidiano, cavaliere romano, che avendo sua figlia perso la verginità con il suo maestro, Fannio Saturnino, non contento di aver fatto suppliziare quello schiavo scellerato, uccise anche la ragazza. Così, per non celebrare le nozze vergognose, ne celebrò il triste funerale.

    Id, VI, 1, 3

     

    La moglie di Sulpicio Gallo

    Cacciò la moglie perché se ne era andata in giro a capo scoperto. “La legge, disse, comanda che solo i miei occhi possano giudicare la tua bellezza. La circostanza che ti sia fatta vedere in giro in maniera troppo provocante ti rende necessariamente sospetta e colpevole”.

    Idem, ibidem, 3, 10

     

    La moglie di Antistio Vetere

    Quinto Antistio Vetere scoprì la moglie per strada che parlottava di nascosto con una liberta (una schiava liberata). Allora, preoccupato per gli sviluppi che questa colpa poteva comportare, ripudiò la moglie - cioè la cacciò e la costrinse a divorziare - perché è meglio prevenire il peccato che vendicarlo.

    Id., 3, 11

     

    La moglie di Publio Sempronio Sopho

    Publio Sempronio Sopho ripudiò la moglie per il solo fatto che era andata ai giochi senza avvisarlo.

    Id, 3, 12

     

    Caia Afrania

    Caia Afrania, moglie di un senatore, era una donna litigiosa, in tribunale si difese sempre da sé: non perché le mancassero gli avvocati, ma perché era l’impudenza fatta persona. E così, stancando ininterrottamente i giudici con le sue urla, divenne la personificazione dell’intrigo femminile, al punto che alle donne di cattivi costumi si suole appioppare il soprannome di “Caia Afrania”.

    Ibidem

     

    Porzia

    I tuoi castissimi amori, Porzia, saranno celebrati per secoli, perché, non appena venisti a sapere che tuo marito Bruto, sconfitto a Filippi da Augusto, si suicidò, non avendo la possibilità di ucciderti anche tu, perché i parenti te lo impedivano, non avesti paura di metterti in bocca dei carboni accesi e di imitare col tuo spirito femminile la morte virile di tuo padre: e io non so dire chi di voi sia stato di animo più forte, perché lui si uccise con la spada, come molti; ma tu ti sei data una morte nuova, che nessuno aveva mai udito.

    Valerio Massimo, ibidem, Libro IV

     

    Giulia, figlia di Giulio Cesare

    Un grande amore legava Giulia, la figlia di Cesare, a suo marito Pompeo. Un giorno le riportarono indietro la veste di Pompeo, tutta sporca di sangue. C’era stato un tumulto al campo Marzio, durante l’elezione degli edili, una carica politica romana. Dei feriti si erano avvicinati a Pompeo e ne avevano imbrattato la veste col loro sangue. Ma Giulia pensò che gli avessero fatto qualche violenza, si spaventò e cadde a terra tramortita. Per l’agitazione sopraggiunsero le doglie, dal momento che era incinta, abortì e morì di colpo. E fu un disastro per tutto il mondo, perché con la sua morte si sciolse quel vincolo di parentela fra Cesare e Pompeo, che fino ad allora aveva garantito pace e tranquillità, e ne nacquero furiose guerre civili.

    Valerio Massimo, ibidem, libro IV

     

    La moglie di Egnazio Metennio

    Poiché aveva bevuto del vino dalla botte, fu uccisa a frustate dal marito, e Romolo (il primo re di Roma) lo assolse dall’omicidio. Un’altra donna, che aveva forzato la cassetta dove erano le chiavi della cantina, fu costretta dai suoi parenti a morire di fame. I parenti baciavano le proprie donne proprio per accertarsi se queste puzzassero di vino.

    Plinio il Vecchio, Storia Naturale.

     

    02Fig.2: J.-B. Suvée, (1795) Cornelia, madre dei Gracchi. 

    Cornelia

    Cornelia, la madre dei Gracchi, poiché una signora campana, che era sua ospite, le stava mostrando i suoi gioielli, la interruppe e, indicando i figli che erano tornati da scuole, le disse: “Questi sono i miei gioielli”.

    Valerio Massimo, ibidem, Libro IV, cap. IV

     

    Ortensia

    Ortensia, figlia del grande oratore Quinto Ortensio Ortalo, poiché erano state imposte alle donne delle tasse pesantissime, e non osando nessuno prendere la loro difesa, discusse lei, con coraggio e bravura, la causa in tribunale: riproducendo, infatti, l’eloquenza di suo padre, ottenne per le donne l’esonero dalla maggior parte delle tasse.

    Valerio Massimo, ibidem.

     

    Sempronia

    Sempronia partecipò alla congiura di Catilina per conquistare il potere a Roma. Era una donna, ma aveva compiuto azioni temerarie più di un uomo. La fortuna le aveva dato tutto: la nascita, la bellezza, il marito, i figli. Conosceva la letteratura greca e quella latina. Cantava e ballava con eleganza, più che non sia concesso a una donna onesta. Sapeva fare tutto ciò che spinge gli uomini a innamorarsi. Il pudore e la dignità erano l’ultima cosa per lei. Teneva poco al denaro e al buon nome.

    Andava a caccia degli uomini che le piacevano. Non manteneva quasi mai la parola data. Non pagava i debiti e fu perfino complice di alcuni delitti. Per la lussuria e la povertà si era rovinata. Eppure, non mancava di intelligenza. Componeva versi e battute di spirito, sapeva esprimersi con modestia, con languidezza o con sfrontatezza. E possedeva una buona dose di umorismo.

    Sallustio, La congiura di Catilina, XXV, 1-5

     

    Gallitta

    Gallitta era sposa di un tribuno militare, che stava per presentarsi come candidato alle cariche pubbliche. Si era innamorata di un centurione e perciò era stata accusata di adulterio. Il caso fu portato al giudizio dell’imperatore Traiano. Questi punì il centurione, licenziandolo dall’esercito e esiliandolo. Ma la colpa era stata punita solo per metà. Il marito di Gallitta, infatti, non si decideva a sporgere denuncia per amore di sua moglie. Anzi se l’era tenuta ancora in casa, anche dopo l’imputazione di adulterio, come se fosse soddisfatto di aver allontanato il rivale. Però, la donna andava necessariamente condannata anche contro voglia: perciò, fu mandata in esilio.

    Plinio il giovane, Lettere.

     

    03Fig.3: Charles Guillaume Brun, 1860, Lesbia e il passero

    Clodia Pulcra

    Ammettiamo che una donna senza marito abbia aperto la sua casa alle voglie di ognuno e si sia messa a condurre una vita da prostituta; che si sia data a frequentare le feste di uomini conosciuti appena, in città, in villa, in mezzo al gran mondo, che frequenti una località di svago come Baia, vicino Napoli; ammettiamo infine che una donna si faccia giudicare per quella che è non solo per come si muove e si veste, per il genere di persone di cui si circonda, per l'ardore che mette negli sguardi e per la licenziosità dei discorsi, ma anche per quel suo abbracciare e baciare la gente, per il contegno che tiene sulle spiagge, per le gite in barca e per i banchetti che frequenta.

    Cicerone, Pro Caelio.

     

    c. Le proposte didattiche

     

    1. Un laboratorio ludico: Il Bingo delle donne romane

    Materiali: i documenti del dossier, stampati possibilmente in foglietti separati (14 in tutto)

    10 carte/gettoni, ognuno dei quali riporta una di queste scritte:

    - Famiglia
    - Marito
    - Figli
    - Comportamento delle donne in pubblico
    - Comportamento delle donne in privato
    - Virtù delle donne
    - Difetti delle donne
    - Rapporto delle donne con la politica
    - Donne e cultura
    - Somiglianze e differenze fra uomini e donne

    Scopo del gioco: cercare nei documenti notizie utili

    Tempo: 45 min.

    Procedimento

    La classe viene divisa in gruppi. Ad ognuno di questi viene consegnato il dossier dei 14 documenti. L’insegnante lo presenta brevemente e descrive il gioco.

    L’insegnante estrae da un contenitore, dove li ha deposti precedentemente, un gettone per volta e legge l’indicazione relativa. Ad ogni gettone, gli allievi devono indicare quali notizie su quell’argomento si trovano nei documenti. L’insegnante controlla e assegna uno o più punti, a seconda delle notizie trovate. Se qualcuno fa obiezione, rilevando un errore dell’altro gruppo, e questa obiezione è accolta, prende il punto che viene tolto all’avversario.

    Il gioco va condotto rapidamente (20 min max).

    Debriefing: l’insegnante e gli allievi rivedono i documenti e li discutono (10 min.)

    Fine dell’attività: l’insegnante fa una lezione ricapitolativa del problema, servendosi del testo qui presentato (15 min).

     

    2. Lezione documentata

    Materiali: i documenti del dossier, stampati possibilmente in foglietti separati (14 in tutto)

    Scopo dell’attività: collegare testo e documenti

    Tempo: 30 min. max /60 con la prova eventuale

    Servendosi del testo qui presentato, l’insegnante prepara la lezione. Fa attenzione che in questa non siano mai citati i nomi dei personaggi. Distribuisce agli allievi, divisi in gruppi, i documenti. Li avverte che, quando si fermerà, vuol dire che sta pensando a un documento. Gli allievi dovranno indicare quale.

    Per favorire questa attività, il testo si basa, quasi frase per frase, sui documenti del dossier.

    Questa attività può essere graduata. Sarà molto semplice se l’insegnante citerà gli episodi quasi alla lettera (“una volta una donna rubò le chiavi della cantina”); diventerà più complicata man mano che il testo avrà una forma più astratta (era proibito alle donne assumere sostanze inebrianti). (20 min)

    Debriefing: si riflette sul rapporto fra testo (la lezione) e documenti (10 min.)

    Eventuale prova: l’insegnante assegna ad ogni allievo quattro documenti scelti a caso. L’allievo dovrà scrivere un breve testo, citandoli correttamente. (30 min)

     

    3. Miniarchivio con fonti omogenee

    Materiali: i documenti del dossier, stampati possibilmente in foglietti separati (14 in tutto)

    Scopo dell’attività: simulare la ricerca storica; capire la differenza fra interrogazione e interpretazione; motivare affermazioni facendo riferimento a documenti.

    Tempo: 2 h

    Procedimento

    L’insegnante divide la classe in gruppi e assegna a ciascuno di questi il dossier di documenti, preparato come indicato sopra. Presenta l’attività, invitando gli allievi a immaginare che ogni gruppo sia un Dipartimento di storici, che deve presentare una relazione ad un convegno sulle donne romane. Se i gruppi sono quattro. Ad ognuno verrà assegnato un tema, ricavati (scelto o estratto a sorte) dall’elenco delle carte/gettoni, riportato nel gioco sopra. (10 min.)

    Prima fase: Interrogare (20 min.)

    Ogni gruppo dovrà cercare il maggior numero di notizie riguardanti il tema scelto. Le trascriverà su una scheda, corredata fatta secondo questo modello:

    Titolo della scheda: Le donne per strada
    Contenuto: Dovevano andare a capo coperto
    Fonte: Valerio Massimo, Detti e Fatti memorabili, cap. VI

    Per accelerare il lavoro, l’insegnante suggerirà (se gli allievi non l’hanno capito da soli), che conviene distribuirsi i documenti, e scrivere contemporaneamente le schede.

    Al termine, ogni gruppo comunica quante notizie ha ricavato. Se lo ritiene opportuno, l’insegnante interviene, aiutando i gruppi in difficoltà.

    L’insegnante chiede a ogni gruppo di comunicare agli altri, brevemente, che cosa ha trovato.

    Seconda fase: interpretare

    L’insegnante invita a controllare gli autori dei documenti. Sono tutti maschi. Informa gli allievi sulle idee che gli uomini del tempo avevano delle donne, spiega il significato del “mos maiorum). Invita a rileggere le notizie trovate e a interpretarle (vanno lette in genere “all’incontrario). (15 min)

    Terza fase: costruire un testo

    Ogni gruppo prepara una relazione sull’argomento scelto, nella quale citerà i documenti opportuni. (15 min. Eventuale lavoro a casa)

    Quarta fase: La discussione

    Ogni gruppo affida a un suo oratore il compito di leggere (o recitare) la relazione. Dopo averle ascoltate, i gruppi faranno le loro osservazioni: rilevano documenti non letti, letti male, interpretazioni che non funzionano. Ogni osservazione accettata attribuisce un punto al gruppo. Il gruppo che ribatte con successo all’osservazione prende un punto. (40 min.)

    Quinta fase: Lezione conclusiva

    L’insegnante fa una lezione sintesi, nella quale si serve del testo qui presentato, inquadra il tema nel periodo storico generale, tiene conto anche dei problemi emersi nel corso dell’attività. (20 min.)

    Sesta fase: prova (eventuale)

    L’insegnante affida a ciascun allievo la scrittura di un testo, su uno dei temi non assegnati dell’elenco. Sono sei temi: quindi si possono dare compiti differenziati.

    Esempi di testo

    I due esempi mostrano che non è necessario scrivere testi lunghissimi e che, inoltre, questo esercizio può dar luogo a riferimenti semplici (come nel primo testo) e complessi, come nel secondo. Nel primo, infatti, i riferimenti sono puntuali, a frasi che si trovano facilmente nei documenti. Nel secondo, invece, nelle note bisogna scrivere delle argomentazioni, che non trovano un riscontro diretto nella documentazione, ma sono frutto di nostri ragionamenti.

    a. Testo descrittivo: per ogni frase segnata dal numero, riportare in calce il documento dal quale l’informazione è stata ricavata.

    Le donne romane camminavano velate per le strade (1) e non potevano parlare con nessuno (2). In casa erano sottoposte a una disciplina severissima da parte della famiglia (3). Non potevano bere vino (4). Non potevano innamorarsi liberamente di chi volevano (5).

    Alcune però studiavano (6), sapevano suonare e diventavano celebri nei tribunali (7).

    b. Testo interpretativo: le frasi segnate dai numeri possono essere dimostrate con dei ragionamenti ricavati dai documenti del dossier.

    Gli scrittori romani – tutti maschi – ci hanno tramandato dei ritratti parziali delle donne romane (1). Infatti, quando descrivono delle donne attive, autonome e presenti nella società, tendono a metterle in cattiva luce (2). Il loro ideale di virtù è essenzialmente maschile: e a questo le donne devono adeguarsi (3).

    L’idea di questo laboratorio e le descrizioni delle donne vengono dal libro di Corrado Petrocelli, Il silenzio e la stola, Sellerio, Palermo 1990, che sarà utile per cercare altre notizie sulla condizione femminile a Roma. A questo si potranno aggiungere F. Dupront, La vita quotidiana nella Roma repubblicana, Laterza, Bari 1990, molto attenta alla storia delle donne nel periodo preso in esame da questo laboratorio. Negli ultimi decenni la storiografia delle donne e di genere si è enormemente arricchita. In rete si può sfruttare l’utile sintesi di Francesca Lamberti, L’identità romana: pubblico, privato, famiglia, in G. Traina (a cura di), Storia d'Europa e del Mediterraneo, Sez. III. L'ecumene romana, Vol. 6, Da Augusto a Diocleziano, Salerno Editrice, Roma 2009, p. 667-707, ora in:

    https://www.academia.edu/4234674/L_identit%C3%A0_romana_pubblico_privato_famiglia_in_AA_VV_cur_G_Traina_Storia_dEuropa_e_del_Mediterraneo_Sez_III_Lecumene_romana_Vol_6_Da_Augusto_a_Diocleziano_Salerno_Editrice_Roma_2009_p_667_707

  • Lezione 7b. La grammatica dei documenti e i modelli di laboratorio storico

    di Antonio Brusa

    3571575800 948c79a366 cFonte1. La grammatica dei documenti

    Il modello di ricerca secondarizzato che qui presento è frutto, da una parte, della riflessione sulla grande quantità di ricerche didattiche, tante volte spontanee, che sono state fatte in Italia fra gli anni Settanta e Ottanta, spesso in antagonismo con la didattica tradizionale e l’uso del manuale; dall’altra, lo devo allo studio della metodologia storica, un campo molto familiare a un medievista. Da queste fonti ho ricavato un modello di ricerca, adattato alle scuole in quattro fasi operative:

    Scegliere / Interrogare / Interpretare / Scrivere.

    Ho chiamato questo modello “la grammatica dei documenti” la sigla è SIIS, perché mi sembra individuare le operazioni di base di una ricerca. Di seguito spiegherò le singole fasi e in che modo le si possano secondarizzare. Ma fin d’ora si può capire che questo modello ha alcuni vantaggi. È semplice, molto legato alla ricerca storica, facilmente comprensibile anche dai non esperti di pedagoghese. Può diventare il filo conduttore che dà coerenza formativa ai laboratori, diversi per tema e tipo di documento, che verranno inseriti nel curricolo. A ognuna di queste “parole” possono corrispondere attività piuttosto semplici, che permettono all’allievo di “riempire la parola di esperienza”, in modo che, col tempo, le espressioni “interroga un documento”, o “interpreta un documento” diventino consegne dal significato condiviso, realizzabili con procedure riconosciute e valutabili.

    a. Scegliere

    Quando lo storico entra in un archivio non prende tutti i documenti. Ne sceglie solo quelli che pensa siano utili alla sua ricerca. Questa operazione non potrà mai essere riprodotta in classe in scala 1/1. La quantità di documenti che uno storico vaglia per il suo lavoro è semplicemente improponibile per un non professionista. Questa operazione si deve simulare: dato, per esempio, un piccolo dossier di documenti, preparato per la bisogna, si possono invitare gli allievi a scegliere quelli che servirebbero loro nel caso fossero degli storici economici o politici, o volessero sapere qualcosa della vita delle donne o l’evoluzione dei trasporti. La struttura di questa esercitazione è semplicissima. Può essere adattata a tutti i livelli di scolarità, dal momento che può essere realizzata con documenti iconografici, materiali o scritti, di ogni periodo e di difficoltà variabile di lettura. Ecco qualche esempio:

    - Si prepari un dossier di cartoline illustrate degli anni Sessanta. Si chiede agli allievi di immaginare di essere degli storici che vogliono conoscere quel periodo. Che cosa potrebbero sapere da quelle immagini? Si fa l’elenco delle possibili informazioni; si classificano le cartoline (quelle che danno notizie economiche, sui trasporti, sulle abitazioni, sul vestire ecc.). Si prova a vedere quale tipo di domande sul passato questo piccolo dossier privilegia e che cosa non ci fa sapere.

    - Ritagliamo da vecchi manuali (o scarichiamo dalla rete) foto di documenti materiali o iconici della società che stiamo studiando. Ecco l’archivio del … “Voi siete gli storici che hanno avuto l’incarico di conoscere tutto su quel periodo. Che cosa riuscireste a sapere?” Dividiamo la classe in gruppi, assegnando a ciascuno di questi il compito di svolgere una particolare ricerca: gli storici economici, politici, religiosi, artistici ecc. Chi sarà lo storico più fortunato? O quello che rimarrà quasi a bocca asciutta? C’è qualche documento che interessa più storici? Dei documenti che non interessano nessuno?

    - Scegliamo, dal museo cittadino, il reparto attinente al periodo che si studia. Nelle varie teche sono conservati oggetti che possono dirci qualcosa. Anche se non si è studiato quel periodo, ciò che è importante è spingere gli allievi a interrogare quegli oggetti. In questo caso, occorrerà pregare la guida di limitarsi a rispondere alle domande degli allievi. Il gioco sarà quello di scoprire quale storico uscirà soddisfatto dalla visita a questo museo.

    I selettori corrispondono alle branche nelle quali si articola la grande famiglia storiografica (dalla storia dell’economia a quella dell’alimentazione), che ovviamente varieranno a seconda della composizione del dossier. Ma potremmo scegliere anche selettori di grande astrazione, come “il tempo”. In un modello di escursione, preparato durante un master di Didattica del Paesaggio storico, abbiamo invitato i partecipanti a selezionare lungo un percorso dato gli oggetti o i particolari del paesaggio che, a loro giudizio, facevano pensare a tempi diversi. In quell’occasione, scegliemmo un percorso che in un paio di chilometri portava dal neolitico ai tempi attuali (in Italia non mancano occasioni di questo genere). Con meno ambizioni, ma uguale frutto, si può ripetere lo stesso esercizio di scelta nel percorso che da casa porta a scuola, alla ricerca dei tempi diversi che attraversano un itinerario abituale1.

    Questa attività, per quanto semplice e condotta con mano leggera (basta classificare i documenti e dire grosso modo che cosa se ne potrebbe ricavare), ha un grande significato storiografico. Guida gli allievi a capire che i documenti non esistono in natura. È lo storico che, scegliendo dei resti del passato, li trasforma nella materia prima dello storico. Un documento non esiste in sé, ma è creato dallo storico. L’allievo che conosce il senso di questa operazione entrerà in un archivio con occhi probabilmente, diversi, perché acquisteranno un senso quelle file e file di faldoni, e lui avrà qualche possibilità di valutare il lavoro dello storico, che in questo mare magno, deve essere capace di individuare i documenti che gli servono.

    b. Interrogare

    Nella metodologia ottocentesca i documenti “parlavano”. Lo storico doveva limitarsi a dare loro voce. Si racconta che Fustel de Coulanges, al termine di una lezione così entusiasmante da strappare un lungo applauso, osservò - indicando con un gesto della mano un personaggio invisibile alle sue spalle - che il pubblico doveva piuttosto applaudire Lei, la Storia, che aveva parlato per bocca sua. Il Novecento ha rivoluzionato questo approccio. I documenti sono muti, anche quelli scritti, addirittura quelli orali. Non furono prodotti per raccontare delle storie, ma per le necessità pratiche dei tempi: fare una guerra, sbarcare il lunario, costruire una città o un’abitazione. Siamo noi moderni che li interroghiamo e ne ricaviamo le informazioni. Trasformiamo quegli “oggetti di uso” in “strumenti di conoscenza”.

    Quindi, “interrogare” è l’insieme delle domande che rivolgiamo a un documento. Questo appare bene nei documenti riportati nelle parti laboratoriali dei manuali, che sono in genere provvisti di un questionario. Ma proprio a questo punto, occorre fare attenzione2. L’oggetto si trasforma in documento nel momento in cui lo interroghiamo, non quando diamo le risposte. Risolvere un questionario prefabbricato, dunque, non è un’operazione di laboratorio, ma un normale test di comprensione. Ma come rendere gli allievi capaci di interrogare un documento? Qui la storia rivela una delle sue difficoltà nascoste, perché non esiste una griglia di interrogazione che possa andare bene per ogni genere di documento.

    Se esamino un documento materiale (una selce preistorica, un falcetto medievale, una spoletta settecentesca o una stilografica moderna) ci sono alcune domande standard, facili da imparare, che possono farmi capire cos’è una “domanda alla quale il documento risponde”. Sono di due tipi: le domande che riguardano la struttura dell’oggetto (di che cosa è fatto? Chi lo ha fabbricato? Con quale tecnica e con quali materiali?) e la sua funzione (a cosa serve? Chi lo usa?). Queste domande ci fanno intuire alcuni aspetti di quella società, facilmente ricavabili da semplici inferenze: se degli operai hanno realizzato questo oggetto, allora ci saranno delle fabbriche, dei padroni, dei capitali ecc3.

    Se il documento materiale è una moneta, le cose cambiano un po’. Devo imparare che c’è un recto, dove in genere c’è un simbolo o un personaggio politico, e un verso, con delle scritte o altre raffigurazioni. Ognuno di questi particolari mi fa intuire la presenza di una divinità, di una carica pubblica o di un progetto politico (pensate al Plus ultra scritto sulle colonne d’Ercole affiancate a un planisfero, raffigurate nei “pezzi da otto” dell’impero spagnolo)4. O pensate alla differenza degli Euro. Perché le banconote riproducono monumenti di fantasia, non riconducibili a monumenti esistenti negli stati dell’Unione, mentre le monete sono fortemente nazionalizzate?

    Se il documento è iconografico, converrà interrogarsi sui personaggi e i particolari raffigurati - più l’analisi è fine, maggiori saranno le notizie che ne ricavo - e, poi, chiedersi che cosa quell’immagine vuole raffigurare (una vittoria, un fatto doloroso, un messaggio politico ecc) e quale uso ne è stata fatta5.

    Una fonte orale, paradossalmente, sarà la più difficile da interrogare. Al contrario di quello che può apparire (ecco finalmente un documento parlante!), la fonte va accuratamente costruita in classe da allievi che sanno interrogare il testimone6.

    Anche i documenti scritti variano a seconda del tipo. Una carta medievale, ad esempio, ha una parte centrale (il dispositivo) nella quale si descrive l’oggetto della compravendita, la dote matrimoniale o il lascito testamentario. Se ne ricavano buone informazioni su aspetti di storia sociale del periodo. Una cronaca, però, non risponderà affatto alle medesime domande. Occorrerà cambiare questionario: ci dirà poco della società, probabilmente molto dell’idea di potere che si aveva a quel tempo. Se abbiamo sottomano una legge, occorre fare attenzione: ciò che mi dice spesso è un’immagine in negativo della realtà (se la legge commina una certa pena per i furti, non vuol dire che i furti non ci sono più: al contrario, più le leggi insistono, più devo pensare che i furti sono un reale problema per quei tempi).

    Insomma, per quanto si possano individuare domande tutto sommato semplici e quindi gestibili da allievi di secondaria, la loro tipologia è alquanto varia ed è impossibile insegnarla per bene e per intero. Ma in una scuola non interessa questa completezza. Interessa capire come lo storico lavora. Dunque, prepariamo piccoli dossier di oggetti materiali per la preistoria; immagini di tombe per l’antico Egitto; delle monete per la civiltà greca; epigrafi per quella romana. Serviranno magnificamente per piccoli laboratori sulla vita sociale di quei popoli. Come nella bottega dell’artigiano, mostriamo agli allievi come si interroga il primo documento del nostro dossier. Un paio li interrogheremo insieme. Consegniamo agli allievi (individualmente o in gruppi) i restanti documenti, sfidandoli a cercare il maggior numero di notizie. Sapranno interrogarli? Forse sul primo laboratorio le domande saranno poche e dovremo integrarle energicamente. Ci sarà un secondo laboratorio e forse un terzo, nel quale le cose andranno meglio7.

    c. Interpretare

    Interroghiamo il documento e questo ci risponde. Ci ha detto la verità? Per lo storico moderno la risposta è netta. No. “Ogni documento è menzogna, scrive Jacques Le Goff, e prosegue: sta allo storico di non fare l’ingenuo”. I documenti raccontano sempre delle falsità. A volte lo fanno intenzionalmente, perché i loro autori presentano una versione interessata o semplicemente personale dei fatti; a volte soltanto perché quei documenti (materiali, iconici o scritti) rappresentano un aspetto forzatamente parziale di quella data società, a volte solo perché della gran massa dei documenti prodotti da una società, sono rimasti unicamente quelli che abbiamo sotto mano8. Per poter utilizzare le risposte del documento, lo storico le deve “interpretare”. Deve chiedersi chi ha prodotto quel documento, per quale scopo, in quale contesto, come il documento è stato conservato (informazione che spesso trascuriamo, ma che è vitale: i documenti della gente comune di solito non vengono conservati). Queste sono le notizie che la filologia classica chiama extra fontes, che qualche volta troviamo in calce ai documenti riportati nei manuali, riassunte spesso in modo inutilizzabile e quasi mai lette dagli allievi. In un laboratorio, invece, queste notizie vanno prese molto sul serio. Dopo aver interrogato i documenti, l’insegnante mette in guardia gli allievi, illustrando autori e contesti e chiedendo di rivedere attentamente le informazioni raccolte. Come le modificheranno, se dovranno tener conto di queste nuove conoscenze? Anche in questo caso la metafora della bottega ci aiuta: facciamo vedere prima noi, e poi chiediamo agli allievi di imitarci. Quando saranno pratici, faranno da soli e dovranno essere loro a chiedere aiuto, quando si trovano impossibilitati a interpretare un documento.

    d. Scrivere

    Ricavate le notizie utili dal dossier documentario, è possibile stendere una breve relazione. Scrivere. La prima volta che proporrete questo esercizio in classe, attendetevi dei risultati deludenti. La scrittura dello storico non è affare per principianti. E non perché lo storico si esprima in modo astruso. Anzi: più è semplice nella sua esposizione, più è complicato il suo lavoro e, paradossalmente, anche quello del lettore. La vera difficoltà di un testo storico è che scorre su due registri: in alto (per così dire) quello della narrazione. In basso, quello delle fonti che la supportano passo dopo passo. È, in pratica, la pagina di un testo accademico - testo + note – per molti il simbolo di un’erudizione noiosa, ma per gli storici (e per chi conosce la storia) strumento della comunicazione scientifica. E quando un testo è divulgativo o manualistico? Allora viene il difficile, perché bisognerebbe immaginare il fiume di note che scorre sotto quel testo all’apparenza così fluido e piacevole. Ed è una difficoltà che è scaricata tutta sul lettore: o lui riesce a ipotizzare delle fonti, oppure prenderà quel testo come un racconto, uno dei tanti che si possono fare sul passato, e che, in fondo, anche lui, se ci si mettesse, potrebbe scrivere.
    Dunque, scrivere in questo modello di laboratorio è organizzare le notizie raccolte dai documenti in un testo dal senso compiuto. Non è facile. Le prime volte conviene che il “maestro” scriva lui il testo, lasciando all’allievo il compito di aggiungere le note ai momenti giusti, al principio indicati dal maestro. Man mano, nei laboratori successivi, si aumenteranno gli spazi di autonomia: “mettere le note nei posti giusti, senza che questi vengano indicati dal professore”; “completare un testo, iniziato dal professore”; “scrivere un testo sulla base di una scaletta indicata”; “scrivere autonomamente un testo, utilizzando tutte le informazioni raccolte dal dossier”.
    Un buon esercizio è quello di scrivere due volte il testo. La prima volta dopo l’interrogazione. La seconda dopo l’interpretazione. Se il laboratorio è ben costruito, l’allievo avrà modo di apprezzare la potenza dell’interpretazione storica, che l’avrà costretto a modificare in profondità il primo testo.
    La scrittura, solitamente valutata come luogo della creatività, nel campo storico è uno strumento strettamente professionale. Quindi la valutazione riguarderà la correttezza dell’impiego della documentazione, il fatto che sia stata ben interpretata, un’interrogazione attenta ed analitica, l’eventuale uso di altre notizie, ricavate per esempio dal manuale o da altri repertori controllati. Si tratta di operazioni che non vanno disgiunte dalla “comunicazione diretta”. Per esempio, man mano che l’allievo progredisce, lo si potrebbe invitare a dotare il testo manualistico di note (utilizzando per questo la documentazione riportata nello stesso manuale, o aggiungendo dei documenti ben scelti). Un buon esercizio è quello di “inventare le note”. Ecco l’incipit della vita di Bodo il contadino (si trova in molti manuali, altrimenti si ricorra al sempre magnifico libro di Eileen Power, Vita nel Medioevo, Einaudi, Torino, varie edizioni: ho visto che ne esistono adattamenti per le superiori, direi inutili, date la bellezza e la leggibilità del testo originale). Bastano trenta righe: si provi a immaginare da quali fonti la storica ha ricavato la notizia che Bodo non sapeva nemmeno il Pater Noster, che era circondato da api, che aveva una famiglia ecc. Ma si prenda, subito dopo, una descrizione della giornata di Carlo Magno (può andare bene anche la descrizione che trovate nella Treccani online, con l’avvertenza di togliere i riferimenti a Eginardo) e proponete lo stesso esercizio: da quali fonti si può ricavare la notizia che Carlo era molto alto, gli piaceva mangiare, si arrabbiò parecchio durante l’incoronazione e fece costruire una splendida residenza a Aquisgrana? Bodo e Carlo: non importa che le fonti siano quelle precise. Avremo raggiunto il nostro scopo se l’allievo ipotizzerà fonti di genere diverso. La cronaca scritta da un sapiente della corte e la scodella trovata in uno scavo, le fondamenta di una reggia e i pali di fondazione di una capanna.

     

    2. Le competenze finali del percorso laboratoriale

    In fondo non occorrono elenchi infiniti. Le competenze sono racchiuse nel significato della parola: “storia = vedo e racconto”. Come faccio a “vedere” dei popoli che non esistono più, si chiedeva Erodoto di fronte al suo pubblico di ateniesi avidi di storie? Interrogo vecchi racconti, testimonianze di marinai, osservo templi e statue antiche. La storia è la scienza dell’invisibile. Ricostruisce realtà che non si vedono a partire da tracce. Lo storico lo fa a livello professionale: e in questo sarà la sua competenza (più o meno profonda, lo diranno i suoi colleghi). Il cittadino consapevole della delicatezza del lavoro dello storico, ne capisce e ne apprezza i prodotti: e in questo consisterà la sua competenza. Oggi, questa capacità è molto più difficile e necessaria che nel passato. Fino a qualche decennio fa forse non era nemmeno richiesta, dal momento che le conoscenze storiche che circolavano erano per la maggior parte prodotte dagli storici. Nel moderno supermercato delle conoscenze, invece, il reparto storia straborda di prodotti storici fabbricati da una pluralità di soggetti. E non sempre quelli più luccicanti sono quelli affidabili. Riconoscerli, per un cittadino comune, è pressoché impossibile, a meno che non sappia come lo storico lavora e non abbia frequentato un po’ il suo laboratorio. Da questo punto di vista, l’educazione storica di base assomiglia a quella alimentare. Non è necessario conoscere per filo e per segno ogni alimento del supermercato: basta sapere alcune cose riguardo la filiera di produzione, la quantità di calorie, il trattamento del cibo. Può sembrare un obiettivo minimo: ma se si riflette sull’abnorme uso di storia che fanno gli stati, i gruppi di pressione, gli enti locali, l’industria dell’entertainment, si comincerà ad apprezzare l’importanza che ha la capacità di distinguere una storia fatta per conoscere il passato, da un’altra, fatta per ottenere un obiettivo politico o economico.

    C’è un altro aspetto della nostra società che richiede forti competenze di laboratorio storico. Lo si è già richiamato in apertura. Noi viviamo talmente immersi nelle informazioni sul mondo, che abbiamo la sensazione di essere presenti ovunque: dove c’è un attentato, una crisi politica, una manifestazione, dove si sciolgono i ghiacciai, la gente muore di fame o al party di qualche vip. La realtà è che siamo seduti nel nostro salotto e i media ci scaricano delle notizie, ponendoci un aut aut ineludibile. O siamo capaci di trasformare queste notizie in fonti, oppure saremmo debitori inconsapevoli degli scopi per i quali quelle notizie sono state prodotte e ci sono state inviate. La storia è il più grande laboratorio costruito dall’umanità per trasformare in fonti le notizie più disparate. In esso si è accumulata una sapienza tecnica millenaria, che oggi si rivela una risorsa per la formazione di un cittadino che sa costruirsi una propria immagine del mondo.

    Per quanto riguarda più strettamente la Grammatica dei documenti, osservo che l’allievo può impadronirsi di capacità sufficienti di scelta, di interrogazione e di scrittura, intesa come immagine o ricostruzione autonoma, anche parziale e provvisoria, di una realtà a partire dai documenti a propria disposizione (per “sufficiente” intendo sempre un livello di padronanza che ti permette di riconoscere il tuo eventuale errore). Sull’interpretazione, però, non si può derogare dal fatto che occorre avere delle informazioni specifiche e precise: e queste te le può dare il professore o uno storico. Proporrei, in questo caso, il concetto di “competenza negativa”: sapere che non si può usare come documento una certa informazione o una certa immagine, se non se ne conoscono l’autore, gli scopi e la contestualizzazione. Potete immaginare le sue applicazioni: “Correda la tua relazione di immagini, scegliendo dalla rete solo quelle che puoi usare come fonti”.

    Lezione 6c. Modelli di laboratorio con i documenti scritti

     

    3. Modelli di laboratorio

    Con la grammatica della storia possiamo confezionare una notevole quantità di modelli di laboratorio. Non è necessario che in ogni attività siano presenti sempre tutte e quattro le operazioni. Come si vedrà, a volte si privilegiano i rapporti fra testo e documenti (scrittura), a volte l’interrogazione, a volte la scelta. In alcuni casi si potrà tentare un lavoro più complesso che simuli a tutto tondo il lavoro dello storico. Molte di queste attività sono state progettate e sperimentate in epoca pre-digitale. Appropriate tecnologie non potranno che renderle più fluide, ricche e divertenti. Ecco una piccola antologia.

    a. Il Tesoretto di Nonno Francesco

    Questo fu il nome che Luciana Bresil dette a un’attività che era stata progettata dagli insegnanti della “Rinascita”, una scuola media sperimentale di Milano, dove avevo lavorato nel corso degli anni Ottanta. Nella versione di Luciana, l’insegnante mette in una scatola una decina di oggetti, scelti in modo da richiamare vita e avventure del “nonno Francesco”, un vecchio signore nato al principio del Novecento. Gli allievi li estraggono uno per volta e fanno le loro ipotesi - li interrogano - su che cosa ci fanno conoscere della vita di questo signore. Fra i laboratori che ho insegnato è certamente quello che ha riscosso più successo. Copiato e ricopiato da tanti, ora fa parte del bagaglio di molti docenti, che, magari non conoscendo il lavoro e le prove che ha richiesto la sua messa in opera, pensano che sia un’attività spontanea. Chi voglia riproporlo, conviene che lo legga nella sua versione originale, per poi adattarlo alla sua classe9. Qui mi limito ad aggiungere che fu un’attività progettata in sostituzione di quelle unità didattiche di ingresso sul “mestiere dello storico” che stavano diventando le aperture rituali dei manuali (e lo sono ancora, a quanto vedo) e sulla cui utilità fortunatamente molti insegnanti nutrono seri dubbi.

    In questo laboratorio, infatti, gli allievi cominciano a formalizzare il concetto di documento come un “qualcosa dal quale posso ottenere delle informazioni attraverso delle domande”. È il primo passo di un percorso che, col tempo, preciserà il concetto e l’uso che ne fa lo storico.

    b. Il documento commentato

    Illustrando alla stampa la riforma degli esami di licenza, Luca Serianni annunciava che la commissione da lui presieduta aveva abolito la prova di tipo B, quella sul saggio breve, perché giudicata troppo difficile, e l’aveva sostituita con il compito di commentare un solo documento, ritenuto più agevole10. A questa commissione sarebbe bastato dare uno sguardo oltralpe, dove il Commentaire è una prova standard abituale, per rendersi conto dell’errore11. Commentare un documento, infatti, richiede che l’allievo lo sappia ben interrogare, ricavandone tutte le notizie utili, sappia collegare queste notizie con i fatti generali del periodo, le sappia interpretare e contestualizzare, conosca in che modo quel documento è stato usato nei tempi successivi e quali problemi interpretativi ha suscitato. J.-B. Noè descrive così questo compito (tralascio le indicazioni delle righe di testo da scrivere, sulle quali in Francia si è piuttosto pignoli, come ben sanno i docenti EsaBac)12.

    L’introduzione:

    - Definizione della natura del documento: articolo di giornale, lettera, costituzione, un trattato di pace, un discorso, un estratto da un libro, delle memorie ecc.
    - Presentazione dell’autore: redigere una rapida biografia. Attenzione a tener conto della data del documento. Se si tratta di un discorso di De Gaulle del 1943, evitare di scrivere che fu presidente della Repubblica.
    - Rapida descrizione del contesto del documento e dei fatti storici che permettono di capirne il contenuto.
    - Analisi dei punti essenziali del documento. Occorre individuare i temi principali: questi costituiranno la scaletta del commento seguente.

    Il commento:

    - Bisogna evitare due pericoli: fare una dissertazione sul tema evocato dal documento o dimenticarla completamente
    - Non redigere una parafrasi del documento, cioè ripetere il testo con parole diverse, senza spiegarlo
    - Conviene seguire un filo narrativo appropriato al documento
    - Organizzare il commento in due o tre parti, nelle quali vanno citate e spiegate parti del testo.

    La conclusione:

    - In questa parte si illustra l’interesse e la portata storica del documento. Che cosa aggiunge alla conoscenza o alla comprensione di un’epoca?
    Non è poco. E, per lo meno, è una prova di pari difficoltà di quella eliminata. Come quella, andrà preparata in apposite esercitazioni, mancando le quali sarà ugualmente insormontabile. Per quanto si tratti di un solo documento, quest’attività non deve essere considerata di grado iniziale, ma va proposta ad allievi già competenti, dal momento che non richiede solo la buona padronanza delle questioni epistemologiche e metodologiche relative alla documentazione, ma anche una buona capacità di andare a cercare informazioni sulla biografia, sul periodo, sulla rilevanza storiografica ecc.
    Può succedere che l’allievo mascheri la sua incapacità imparando a memoria il commento da scrivere. Me ne accorsi al principio del mio lavoro all’università, ricevendo le confidenze degli studenti (allora quasi miei coetanei) che, dovendo portare all’esame la Magna Charta, mi chiedevano se dovessero “imparare” sia il documento sia il commento del professore. Per loro, che non avevano mai lavorato su un documento (la spiegazione del professore non sostituisce il lavoro personale sulla fonte), il momento nel quale questi chiedeva di commentare un articolo della Magna Charta era di autentico terrore.

    c. Il racconto documentato

    Grazie anche alla diffusione delle tecnologie, vedo aumentare il numero dei docenti che intervallano la loro lezione con proiezione di documenti o altri materiali audiovisivi. Questa pratica mi ha dato l’idea di un tipo di laboratorio che ho chiamato “racconto documentato”. Si organizza in questo modo. Preparate la vostra lezione, scegliete i documenti opportuni e riuniteli in un dossier. Preparatene quattro/cinque copie e datele ai quattro/cinque gruppi nei quali avrete diviso la classe. Lasciate una decina di minuti per osservarli. Poi iniziate la lezione. L’accordo con la classe è che, quando vi fermerete, gli allievi dovranno indicare il documento che in quel momento dovrebbe essere citato. Il tutto può essere reso più accattivante se chiamerete un allievo a fare da arbitro, e assegnare i punteggi ai gruppi che arrivano prima degli altri. Ho provato per la prima volta questo modello quando scrissi una breve storia della porcellana, un materiale di quelli che sanno raccontare la storia del mondo13. Se avrete la pazienza di leggerla, troverete una storia in grado di disegnare un quadro di storia mondiale fra età medievale e moderna, e, al tempo stesso, di innescare una discussione vivace sugli stereotipi identitari. Il racconto è corredato da una quindicina fra documenti iconografici e scritti (questi ultimi molto brevi: ed è una regola tassativa per questo genere di laboratorio).

    Una variante che ho visto al MuSe di Trento potrebbe rendere ancora più divertente questa attività. Qui c’era una operatrice che in una mezz’oretta ha tenuto sulla corda una trentina di visitatori, raccontando la storia dell’evoluzione umana. Il segreto era nell’uso di Kahoot!, un videogioco che fa già parte del bagaglio didattico di diversi insegnanti. Ogni tanto, infatti, l’operatrice si fermava e proponeva una domanda con quattro possibili risposte. I visitatori rispondevano con il loro cellulare; sullo schermo uscivano immediatamente i diagrammi delle risposte; seguiva un rapido commento e si andava avanti. Con l’uso di Kahoot!, dunque, quando l’insegnante si ferma, in luogo delle domande proietta quattro immagini di documenti, fra le quali gli allievi devono scegliere quella che ritengono giusta. Gli errori, ovviamente, sono manna per la discussione nel debriefing finale.

    Ho trovato utile chiedere agli allievi (l’ho fatto anche con i prof ai quali insegnavo questa tecnica) di citare correttamente il documento (lettera del mercante x, miniatura del secolo XII, ecc.), laddove la tentazione è quella di limitarsi a segnalare il numero del documento. Senso del laboratorio? Ovviamente, al di là dell’argomento scelto, il rapporto fra testo e documenti (quindi, la quarta operazione della nostra grammatica). La difficoltà si può calibrare agevolmente. Si possono redigere versioni adatte ai bambini della primaria (con documenti solo iconografici e rimandi al testo molto evidenti) e da ultimo anno delle superiori (con molti documenti scritti e soprattutto con rimandi che richiedono riflessioni storiografiche).

    d. Lo studio di caso

    Ho preparato questo modello nel corso del mio lavoro presso l’Istituto Parri (la rete nazionale degli istituti della Resistenza). Si tratta di una variante di un modello di laboratorio che si trova nei manuali francesi. Funziona in questo modo. Si prepara un breve testo, riassuntivo del tema del laboratorio, e lo si correda con un numero limitato di documenti (nelle mie raccomandazioni ho sempre pregato i colleghi di metterne cinque o sei: inutilmente. Quando un insegnante prepara un laboratorio, è ossessionato dall’abbondanza). Si consegna il tutto agli allievi (individualmente o in gruppo, questo lo decide il docente). Si lascia un po’ di tempo per dare uno sguardo al materiale. Si propongono le operazioni:

    - Contestualizzare. Il tema va inquadrato nel manuale. Dunque, si invita l’allievo a sfogliarlo e a cercare in quali pagine lo si potrebbe inserire.
    - Cercare il rapporto fra documenti. Se i documenti sono stati ben scelti, hanno dei possibili riferimenti vicendevoli.
    - Cercare il rapporto fra i documenti e il testo. In quale punto del testo inserireste i documenti (o delle frasi ricavate da questi)?
    - Costruire un nuovo testo, frutto dell’incorporamento nel testo assegnato delle notizie ricavate dai documenti.

    Su Novecento.org troverete i dettagli per realizzare questo laboratorio e, soprattutto, una notevole quantità di esempi sulla storia novecentesca. Tali da farvi stare tranquilli per l’ultimo anno delle superiori14.

    e. Mini-archivio con documenti omogenei (scritti e iconografici)

    Sono i primi modelli di laboratorio che ho sperimentato. Venti anni di esperienza in centinaia di classi sono un buon curricolo. Nel Laboratorio, i tre volumi di attività didattiche che scrissi al principio degli anni Novanta insieme con Luciana Bresil, se ne trovano una ventina esempi, dalla storia antica a quella contemporanea. Ogni attività si basa su un piccolo dossier di documenti di un solo tipo (carte medievali, dipinti tombali egiziani, testamenti, articoli di giornali, graffiti moderni ecc.). Il motivo, spiegato sopra, dipende dalle griglie di interrogazione e dalle precauzioni interpretative, che in storia variano da un tipo di documento all’altro. Con questo tipo di mini-archivio si può spiegare la griglia su alcuni documenti e osservare se gli allievi sanno interrogare e interpretare autonomamente gli altri. Ogni mini-archivio è corredato da testi modello, sui quali l’allievo può lavorare.

    f. Mini-archivi con documenti disomogenei

    Sono i laboratori didattici più vicini al lavoro reale dello storico. Questi, infatti, raccoglie documenti di ogni genere, tutti quelli che servono per portare a termine la sua ricerca. Ho pensato che quando si affronta un argomento micro (una persona o un evento) la traccia narrativa e la cronologia sono una facile guida del lavoro e, per quanto riguarda il sistema di interrogazione può funzionare il modello letterario-giornalistico delle 5W, ben conosciuto dai docenti. Mentre i lavori su fonti omogenee privilegiano temi di storia strutturale (vita quotidiana, economia, storia di genere, ecc.), i lavori con documenti disomogenei funzionano meglio con la storia eventografica15.

    g. Laboratori progressivi

    Questo è l’ultimo modello di laboratorio che ho preparato. In realtà, si rifà a un antico desiderio di Scipione Guarracino, che sosteneva che il laboratorio didattico perfetto sarebbe stato quello nel quale i documenti non verrebbero forniti in un solo dossier, ma razionati in modo da mostrare agli allievi “come si cambia idea” man mano che varia il parco documentario al quale ci si riferisce. Il caso che ho affrontato è pubblicato in tre puntate su Historia Ludens. Si basa su una sola foto, scattata durante la guerra del Vietnam, nota come la Saigon Execution (il guerrigliero vietnamita che viene freddato con un colpo alla testa in una strada di Saigon). È un laboratorio temporizzato. Prima si presentano agli allievi i dati riguardanti i protagonisti della vicenda, chiedendo loro di farsene un’idea, che viene poi trascritta. Poi si forniscono dati di contestualizzazione sul sistema informativo attivo durante quella guerra, e infine, i dati riguardanti la storia interpretativa di quella foto, nella società americana, fino ai nostri giorni. Ad ogni step gli allievi vengono invitati a riprendere la storia scritta in precedenza e a modificarla. È un modello che si presta molto all’uso delle tecnologie, come ha mostrato Lucia Boschetti, sempre su Historia Ludens16.

     


     

    1 L. Perla, A. Brusa, V. Vinci, Insegnare il paesaggio storico. Tratteggio didattico co-epistemologico, in “Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research”, 9, 20, 2017, pp. 125-150.

    2 Sui deludenti apparati operativi dei nostri manuali, vedi l’analisi di R. Sánchez Ibáñez, K. Valentina Famà, A. Escribano Miralles, I livelli cognitivi nei manuali di Storia dell'Istruzione Secondaria Superiore in Italia, in “Didattica della storia”, 2, 15, 2020, pp. 180-195.

    3 Il maestro indiscusso di questa branca della didattica è Joan Santacana Mestre, docente di archeologia e didattica all’università di Barcellona, nel cui sito (https://didcticadelpatrimonicultural.blogspot.com/) troverete, alla rubrica la historia del mundo contada por los objectos, oggetti che risponderanno magnificamente alle vostre domande di storia, come sedie, letti matrimoniali, scarpe, spolette, carte, strumenti scientifici e medici, armi di ogni età e indumenti di ogni tipo. Il progetto di Santacana è di raccogliere 1500 oggetti. È già a buon punto, e questo fa del suo sito uno strumento privilegiato per qualsiasi insegnante, anche italiano: lo spagnolo è lingua amica e Google traduttore farà il resto.

    4 Luigi Cajani spiega l’importanza della numismatica nell’insegnamento della storia e fa l’esempio del real de a ocho, la moneta d’argento spagnola che per tre secoli fu la moneta mondiale di scambio, fino a che, dalla metà dell’Ottocento, fu soppiantata dal dollaro: Numismatica e didattica della storia: il real de a ocho e la globalizzazione moderna, in “Didactica historica”, 4, 2018, pp. 127-132.

    5 Su questo si veda il mio Una grammatica delle immagini: la cultura iconografica tra manuali e didattica della storia, in “Visual History”, 3, 2017, pp. 145-156, la bibliografia essenziale a p. 154.

    6 C. Marcellini, Testimoni a scuola. Una riflessione sull’uso delle fonti orali per la didattica della storia, in “Novecento.org”, 4, 2014, in
    http://www.novecento.org/pensare-la-didattica/testimoni-a-scuola-una-riflessione-sulluso-delle-fonti-orali-per-la-didattica-della-storia-996/.

    7 L’intera gamma dei laboratori qui presentati in A. Brusa, L. Bresil, Laboratorio. Percorsi e materiali di lavoro, 3 voll., B. Mondadori, Milano 1994-1996. Si vedano ancora le unità didattiche, in particolare quelle sulle epigrafie latine, nel cd allegato a A. Brusa, A. Ferraresi, P. Lombardi (a cura di), Un'officina della memoria. Percorsi di formazione storica a Pavia tra scuola e università. Omaggio a Giulio Guderzo, Unicopli, Milano 2008. Altri modelli in E. Perillo, C. Santini (a cura di), Il fare e il fare vedere nella storia insegnata. Didattica laboratoriale e nuove risorse per la formazione storica e l'educazione ai beni culturali, Polaris, Faenza 2004.

    8 J. Le Goff, Monumento/documento, in Enciclopedia Einaudi, Torino 1978, vol. V, pp. 38-43, ora in: 
    http://dasservizi.uniroma1.it/pdf/dispense/ciancarelli/17_2_Jacques_Le_Goff.pdf.

    9 A. Brusa, L. Bresil, cit., pp. 72 s.

    10 Riassumo la questione e il dibattito in Uno su cento. Il tema storico alla prova della maturità, in Historia Ludens, 17 ott. 2018,
    http://www.historialudens.it/didattica-della-storia/317-uno-su-cento-il-tema-storico-alla-prova-della-maturita.htm.

    11 Viviane Couzinet ci offre una rassegna di testi di metodologia sul Commentaire adottati nelle scuole francesi: Commentaire: Documents. Leçon d’histoire, leçon de méthode, in “Communication et langages”, 140, 2004. Dossier : Du «document numérique» au «textiel», pp. 19-29 ora in
    https://www.persee.fr/doc/colan_0336-1500_2004_num_140_1_3264.

    12 J.-B. Noè, Méthode du commentaire de texte en histoire, 22 ott. 2018, in:
    http://www.jbnoe.fr/Methode-du-commentaire-de-texte-en-histoire#:~:text=Objet%20du%20Commentaire%20de%20document,commentaire%20qui%20explique%20le%20document.

    13 A. Brusa, Trasparente come l’acqua, in Historia Ludens, 15 gen. 2013,
    http://www.historialudens.it/didattica-della-storia/40-trasparente-come-l-acqua-gli-oggetti-che-raccontano-il-mondo-la-porcellana-ipotesi-di-uso-didattico-di-una-bella-mostra.html

    14 A. Brusa, Gli studi di caso. Insegnare storia in modo partecipato e facile, in Novecento.org, 3, dic. 2014,
    http://www.novecento.org/pensare-la-didattica/gli-studi-di-caso-insegnare-storia-modo-partecipato-e-facile-730/.
    Nei numeri fra il 2014 e il 2017 si troverà una buona quantità di studi di caso. Francesco Monducci ha ripreso questa tecnica, con alcuni esempi in Lo studio di caso con documenti di varia tipologia, in F. Monducci (a cura di), Insegnare storia. Il laboratorio storico e altre pratiche attive, Utet, Torino 2018, pp. 283-302, con una buona bibliografia specifica alle pp. 300 s.

    15 Un esempio è il laboratorio che ho costruito sul libro di Christoph U. Schminck-Gustavus, Mal di casa. Un ragazzo davanti ai giudici, Bollati Boringhieri, Torino 1994, che racconta la storia di un ragazzino polacco condannato a morte da un tribunale nazista. Il laboratorio didattico è basato su documenti processuali e dichiarazioni raccolte da testimoni, in A. Brusa, L. Bresil, Laboratorio cit., vol. 3, pp. 146 ss.

    16 A. Brusa, The Saigon Execution: “La foto che fece perdere la guerra”. Laboratorio su una foto iconica: lettura e contestualizzazione, in Historia Ludens, 19 giugno e 26 giugno; L. Boschetti, The Saigon Execution. Il laboratorio a distanza, 30 luglio.

  • Lo studio in classe delle fonti storiche

    Autore: Francesca Vinciotti


    Cosa ci può insegnare “Teaching History”

     

    Indice

    Introduzione
    L’insegnamento tradizionale
    Le novità degli anni ‘70
    I primi problemi in classe sulle fonti
    Strane proposte su Boadicea
    Lavori forse troppo difficili per gli studenti
    Un esempio ben fatto sulla prima guerra mondiale
    Le fonti su internet
    Le fonti letterarie
    Le fonti visive
    La cartografia come fonte storica
    La fotografia come fonte storica
    Un modello di lavoro su fonti fotografiche
    Le vignette satiriche

     

    Introduzione
    Il tema dello studio delle fonti storiche e di come proporle in classe è uno tra i più presenti diTeaching History, la rivista didattica che è il punto di riferimento degli insegnanti inglesi, a partire dagli anni ‘90. La modalità di azione didattica privilegiata è quella della ricerca/inchiesta su uno specifico tema, partendo dall’analisi di un gruppo di fonti. Questo tipo di attività viene solitamente posto al termine di un ciclo di lezioni su un dato periodo o argomento storico. In questo articolo, vengono presentati in ordine i problemi didattici relativi alle principali categorie di fonti, da quelle letterarie a quelle visive: le fonti maggiormente trattate dalla rivista.
    La centralità dell’uso delle fonti storiche nella didattica e la sua importanza nella formazione del docente, traspare sia dagli avvisi pubblicitari riportati dalla rivista, sia dai corsi di formazione, organizzati daiNational Archives  (Accredited Master Module, Transatlantic Teachers Programme, eContinuing Professional Development with the Historical Association).
    Questo articolo è ricavato dalla tesi di laurea in Storia moderna, discussa alla Sapienza nel 2014, con relatore Luigi Cajani. Historia Ludens ringrazia il prof. Cajani e la prof. Vinciotti per aver acconsentito a questa pubblicazione. (HL)


    Manchette pubblicitaria di tre corsi di formazione sull’uso didattico delle fonti, promossi dai National Archives      


    L’insegnamento tradizionale

    Per comprendere i cambiamenti avvenuti nello studio della storia ed in particolare nell’uso delle fonti a scuola si rivela molto utile la lettura dell’articolo1  del 1995 “Stories or Sources” (Storie o fonti) di Clare Hake e Terry Hayden2 . Gli autori presentano in primo luogo una rapida descrizione dei cambiamenti avvenuti nella didattica della storia negli ultimi decenni. Fino agli anni ’70 la tipica lezione era costruita su una prima mezz’ora di lezione frontale, nella quale l’insegnante raccontava un fatto o evento storico e una seconda mezz’ora in cui gli studenti scrivevano un breve testo su quanto ascoltato oppure rispondevano alle domande: “questo era il lavoro dello storico accademico stabilire il ricordo storico ed il lavoro dell’insegnante di scuola era ricevere tale scienza e presentarla in forma semplificata agli studenti3. L’abilità richiesta al docente era principalmente quella di saper “raccontare storie” e spiegarle in modo chiaro, mentre gli studenti dovevano ricordare le informazioni e saperle esporle in forma orale e scritta.


    Le novità degli anni ‘70

    Tra gli anni ’70 e ’80 del XX secolo si diffusero le idee legate alla “New History”, che enfatizzavano l’aspetto dell’interpretazione storica e l’analisi critica delle fonti storiche. Questi concetti si consolidarono e divennero operativi quando anche l’analisi delle fonti venne inserita nel National Curriculum ed all’interno dell’esame GCSE (General Certificate of Secondary Education). A seguito di tali cambiamenti il modello più comune di lezione è divenuto quello nel quale si presenta agli studenti un certo numero di fonti su un dato tema con delle domande che aiutino ad analizzarle. A metà degli anni ’90, quando scrivono Hake e Hayden, la maggior parte dei libri di testo è costituita quasi esclusivamente da una coppia di pagine su un dato argomento con una breve introduzione e poi dalle quattro alle sei brevi fonti, con alcune domande. Dove non sia disponibile un libro di testo, i docenti utilizzano comunque questa stessa formula, predisponendo loro stessi il materiale.

    Tuttavia questo modello, se da un lato ha aiutato a sviluppare il senso critico degli studenti, dall’altro ha spesso avuto come conseguenza che gli alunni perdessero di vista “il quadro generale” a livello logico e cronologico degli avvenimenti storici. Gli autori si inseriscono dunque nel dibattito in corso sui due modelli didattici, facendo presente che la storia è costituita da entrambi gli elementi “il racconto” e “le fonti”. I due aspetti si dovrebbero dunque bilanciare nella lezione di storia. Per cui è senz’altro compito del docente presentare la storia anche in modo problematico, ma senza pretendere di utilizzare gli stessi metodi adottati nello studio della disciplina accademica.

    In sostanza, dicono i due autori, è bene ricordarsi che ci si trova sempre di fronte a bambini e ragazzi, per cui anche la metodologia della ricerca storica deve essere presentata in modo adeguato alla fascia d’età, tenendo presente che molti studenti si sentono confusi e frustrati e non stimolati dalla presentazione di un fatto in modo problematico e con molte variabili. Si dovrebbe quindi tornare ad una spiegazione degli eventi, fornire un quadro d’insieme e poi analizzare in modo critico le fonti solo su un particolare aspetto o sulla micro storia. In tal senso gli autori auspicano un cambiamento dei libri di testo, con l’inserimento di un’ampia sezione di testo, intervallata dalla presentazione di alcune fonti. Suggeriscono inoltre di ritornare ad inserire, oltre alle domande, anche esercizi di sintesi ed esercizi volti alla scrittura di temi e relazioni. Spetta però soprattutto al docente, concludono, tornare a farsi “narratore”, spiegare il passato e creare i collegamenti tra la storia e le fonti, inserirle nel contesto storico, “dovrebbe anche essere dedicato più tempo alla spiegazione della relazione tra fonti e storia, in modo che gli alunni abbiano sempre in mente che dalle stesse fonti possono essere ricostruite diverse interpretazioni storiche4 .


    I primi problemi in classe sulle fonti

    I problemi descritti da Hake ed Hyden sembrano però persistere ancora negli anni successivi. Se da un lato infatti, sia nelNational Curriculum (1999 e 2005) che nei libri di testo, si cerca di porre rimedio alla difficoltà degli studenti di legare gli eventi in un quadro organico, al fine di ricostruire “un quadro generale” dei vari periodi storici, dalla lettura di molti degli articoli nella rivista emerge ancora grande difficoltà nell’uso delle fonti in classe da parte sia degli studenti che degli stessi docenti. Emblematico il caso presentato nella rubricaME MOVE ON, nella quale insegnanti tirocinanti o alle prime armi o che comunque abbiano delle difficoltà, presentano i loro problemi nella didattica e ricevono consigli da un mentore.

    In questo caso5 a porre la questione è Josie, una PGCE (Postgraduate Certificate in Education)history student, che ha notato una notevole difficoltà da parte dei suoi studenti ad utilizzare gli esercizi sulle fonti predisposti dal dipartimento di storia della scuola. Josie racconta di aver proposto ai suoi alunni dello Year 8 (corrispondente alla nostra seconda media) due immagini sull’Inghilterra del 1500, chiedendo loro di descriverle e provare quindi a raccontare come era l’Inghilterra in quel periodo. Il 95% degli studenti è riuscito a descrivere le immagini, ma solo il 50% è riuscito a fare delle inferenze e pochissimi sono poi riusciti ad inserire le fonti all’interno dei testi scritti su quel periodo. Josie si è domandata come migliorare le abilità dei suoi studenti nel trarre inferenze dalle fonti e poi ricollegarle con il quadro complessivo delle loro conoscenze e come porsi nei confronti del dipartimento di storia e del tutor, per evitare che le sue osservazioni potessero sembrare delle forti critiche al loro operato. Se le domande sono chiare, le risposte fornite dal redattore della rubrica sono invece molto vaghe, suggeriscono a Josie di leggersi alcuni articoli sul tema e di essere molto diplomatica.


    Strane proposte su Boadicea

    Piuttosto sconcertante il modello proposto in un articolo6 del 2011 da Robert Guyer7 per analizzare e problematizzare l’uso delle fonti storiche per gli studenti dallo Year 7 al 13 (cioè dagli 11 ai 16  anni). L’autore sottolinea infatti come desideri analizzare più a fondo le fonti proposte. Sceglie dunque per la sua attività di trattare la storia di Boadicea (senz’altro una scelta accattivante, per inglesi, dal momento che si tratta della regina che riuscì a opporsi fermamente alle legioni romane). Le fonti utilizzate sono state: gli Annali di Tacito, di Cassio Dione, il capitolo Queen of the Iceniin People in History (1957) di R.J. Unstead e “Boadicea”, il cap. 1 di Michael Wood, in In Search of the Dark Ages (1981). Ogni testo è stato quindi diviso in quattro parti, corrispondenti più o meno a quattro parti della storia e gli alunni, divisi in gruppi di sei, dopo aver letto dalle quattro fonti il loro pezzo di storia, dovevano presentarlo attraverso una breve recita o in altro modo. Naturalmente nelle rappresentazioni vi sono stati molti anacronismi, ma l’esercizio era essenzialmente finalizzato a ricordare e comprendere la storia nell’insieme. La fase successiva è stata invece destinata all’analisi critica delle fonti seguendo una griglia di domande e comparando prima le due antiche e poi le due moderne, per ricostruire infine come gli scrittori moderni avevano utilizzato le fonti antiche. Si tratta, per la seconda parte dell’attività proposta, di un lavoro veramente complesso rispetto alla fascia di età per la quale è presentata ed infatti non è chiaro con quali classi e di che abilità l’autore abbia svolto queste lezione, né sono riferiti in alcun modo i risultati del lavoro degli studenti.


    Lavori forse troppo difficili per gli studenti

    Similmente anche nell’articolo8, Equiano-voice of silent slaves di Andrew Wrenn9 del 2002 (Oulaudah Equiano è uno dei pochissimi schiavi neri che riuscì a scrivere le sue memorie), le attività descritte sembrano pretendere forse troppo dalle capacità di analisi critica degli studenti. L’idea di Wrenn è quella di mettere in relazione “a little story” con “the big picture”. L’attività si colloca nel contesto dello studio del commercio triangolare nel key Stage 3, nell’ambito di un progetto intitolato Slave, Subject and citizen; a thinking citizen’s project (Schiavo suddito e cittadino, un progetto dedicato alla cittadinanza) realizzato da studenti ed insegnanti della Chesterton Community College (11-16 comprehensive school) di Cambridge. Il progetto era focalizzato non solo sul commercio degli schiavi e la sua abolizione nell’Impero Inglese, ma anche sulle diverse forme di schiavitù presenti ancora oggi nel mondo.

    Wrenn fa presente come nello studio del commercio degli schiavi sia spesso assente proprio la voce degli africani che ne erano protagonisti, per questo il docente ha voluto sottoporre agli studenti come fonte l’autobiografia di Olaudah Equiano, un africano rapito nella zona dell’attuale Nigeria, fatto schiavo da bambino e poi divenuto un importante esponente dell’abolizionismo in Inghilterra. Il racconto della descrizione del Middle Passage sulla nave negriera è spesso presente in molti libri di testo inglesi (purtroppo è introvabile in quelli italiani), ma il docente ha proposto agli alunni più ampi stralci della biografia di Equiano, in particolare sulla sua giovinezza. Agli studenti è stata quindi proposta la visione di alcune parti di un documentario della BBC su Equiano, nell’ambito di una serie di puntate chiamate “Hidden Empire” e dedicate a fare luce su particolari esempi di orrore ed oppressione durante l’Impero Inglese.

    Wrenn ha quindi fatto notare ai suoi allievi come alcune parti meno edificanti della vita di Equiano fossero state lasciate in ombra ed alcune clip del documentario sono state comparate con i corrispondenti passi dell’autobiografia. Gli alunni dovevano quindi discutere delle differenze individuate e provare a stabilire cosa avrebbero invece incluso o escluso loro, se avessero dovuto realizzare il documentario. Secondo l’autore è infatti essenziale promuovere negli studenti lo studio delle “interpretazioni della storia”. Peccato che Wrenn non riporti quali siano stati i risultati di questo lavoro con gli studenti. Senz’altro più semplice l’attività collegata alla cittadinanza, destinata a far riflettere gli studenti, sempre attraverso la lettura di passi dell’autobiografia, sulla complessità dell’identità di Equiano: da un lato orgoglioso di essere africano e dall’altro di essere inglese (pur avendolo gli inglesi reso schiavo), devoto metodista, ma desideroso di difendere le pagane credenze africane, una vita iniziata come figlio di un capo africano e conclusa come un gentlemen sposato con una moglie inglese e bianca.

    Particolarmente indicativo delle difficoltà non risolte nell’uso delle fonti in classe è la riflessione di Christen Counsell10 nell’editoriale del n. 113 della rivista pubblicato nel 2003. La Counsell critica la tendenza di docenti e libri di testo a fornire come fonti storiche dei testi molto brevi, ritenendo che essi siano più semplici da comprendere per gli studenti, mentre spesso è proprio vero il contrario, un testo più ampio con maggiori dettagli, una più lunga narrazione, sebbene più faticoso da leggere risulta alla fine più chiaro agli studenti. Forse i testi più brevi sono più semplici per gli insegnanti, suggerisce con un po’ di malignità la Counsell, perché richiedono meno impegno per preparare la lezione? E’ evidente che il metodo utilizzato per selezionare, presentare ed analizzare le fonti storiche continua ad essere motivo di ampio dibattito nella comunità degli insegnanti.


    Un esempio ben fatto sulla prima guerra mondiale

    Un bell’esempio di lavoro sulle fonti è descritto in modo accurato da Sally Evans, Chris Grier, Jemma Philips e Sara Colton11 nell’articolo Please send socks. How much can Reg Wilkes tell us about the Great War (Per favore speditemi calzini. Quanto può raccontarci Reg Wilkes sulla Grande Guerra), pubblicato nel 200412 .
    Gli autori raccontano come nel corso del loro PGCE (Postgraduate Certificate in Educadion) course abbiano avuto modo di studiare i materiali originali e le lettere di un soldato, Reg Wilkes, che aveva combattuto nella prima guerra mondiale. Questo materiale, in originale almeno per alcuni oggetti o fotocopiato a colori, è stato portato in classe ed ha fornito la base per un ciclo di sei lezioni, per consentire di comprendere un episodio storico tramite gli occhi di un individuo. Reg è un soldato che descrive la sua vita in trincea, scrive alla famiglia ed agli amici, annota per sé quello che gli accade giornalmente in un diario. La parte attiva nella guerra per Reg termina nel luglio 1916 a Somme durante la battaglia di Delville Wood, nella quale viene ferito. Ricoverato nell’ospedale di Ipswich, viene poi congedato nel 1917 e ritornerà dalla sua famiglia a Bloxwich, dove vivrà fino al 1980. Agli studenti è stata fatta una breve presentazione di Reg Wilkes ed è stata presentata una doppia linea del tempo parallela, su una linea erano indicati gli eventi della vita di Reg e sull’altra quella della storia della guerra. Le lezioni sono state costruite per consentire di passare gradualmente dalla microstoria alla macrostoria secondo il seguente schema:

    Lezione 1    Chi era Reg e perché era così impegnato nel 1914?
    Lezione 2    Quanto può raccontarci Reg sulla vita in trincea?
    Lezione 3    Quanto può raccontarci Reg sulla battaglia di Somme?
    Lezione 4    Quanto può raccontarci Reg sulle relazioni con gli altri durante la guerra?
    Lezione 5    Le lettere di Reg ci raccontano tutto quanto è necessario sapere dell’esperienza di un soldato durante la Grande Guerra?
    Lezione 6    Quanto può dirci Reg Wilkes sulla Grande Guerra?

    Gli alunni hanno affrontato i temi delle differenti lezioni sempre partendo dalle fonti. Inizialmente hanno fatto fatica a leggere la grafia di Reg, ma in breve tempo si sono abituati. I dettagli presenti nelle lettere ed in particolare sulla vita in trincea hanno molto colpito gli studenti, dalla richiesta di calzini ai familiari, alla descrizione del cibo e della monotonia delle giornate. La prima attività di studio delle fonti, quella della lezione 2, è stata maggiormente guidata attraverso la stesura di una griglia nella quale vi erano alcune affermazioni sulla vita in trincea e gli studenti dovevano dire se erano d’accordo o meno.

    Nella terza lezione, sulla battaglia di Somme, sono state introdotte anche altre fonti, quali video clip, cartoline ecc, e la storia della battaglia è stata seguita dal punto di vista di Reg usando il suo diario. La lezione si è conclusa con la pagina bianca del diario del 27 luglio, per creare una certa aspettativa su quello che poteva essere avvenuto. Naturalmente nella lezione successiva sono stati presentati i brevi appunti scarabocchiati sul suo ferimento. Nell’ultima lezione agli studenti è stato chiesto di utilizzare tutto quello che sapevano su Reg e l’idea che si erano fatti di lui per scrivere un testo di 250 parole di accompagnamento ad una sua foto per una mostra in un museo. La limitazione nel numero di parole ha incoraggiato gli studenti a pensare attentamente a come strutturare il testo e ad utilizzare un linguaggio molto conciso. Anche qui mancano delle considerazioni finali sulla risposta degli alunni a questa attività, ancor più se, come si può arguire dal testo, ognuno dei docenti ha presentato l’attività in classi e scuole diverse, per cui sarebbe stato possibile anche un confronto.


    Le fonti su internet

    Ancora molto attuale il tema presentato da Ben Walsh13 in un articolo14 del 2008 intitolato Stories and sources: the need for historical thinking in an information age (Storie e fonti: la necessità del pensiero storico nell’epoca dell’informazione) sui problemi degli studenti (e non solo) nel ricercare informazioni e fonti tramite Internet. In particolare Walsh sottolinea che uno strumento come Wikipedia viene spesso sopravvalutato ed utilizzato con scarsa consapevolezza e, con non poca malignità, riporta parte di un discorso del 10 aprile 2007 dell’allora segretario all’educazione Alan Johnson: “Internet è stata una forza incredibilmente positiva nell’istruzione. Internet consente a chiunque di accedere ad informazioni che una volta erano riservate a chi poteva permettersi di abbonarsi all’Enciclopedia Britannica ed era preparato a muoversi nel suo dedalo di indici e contenuti. La moderna tecnologia consente a tutti di ampliare gli strumenti usati da studenti, insegnanti e scuole”.

    Evidentemente commenta Walsh, Johnson non ha chiaro il concetto che informazione ed educazione non sono la stessa cosa, che la tecnologia di per sé non è un valore ed il paragone tra Enciclopedia Britannica e Wikipedia è a tal punto fuori luogo, che persino Larry Sanger, cofondatore di Wikipedia, si è sentito in dovere di intervenire il giorno dopo, dalle pagine del Times, per replicare al segretario dell’istruzione15. Walsh prosegue quindi riportando la sua esperienza, svolta nel marzo del 2006 presso la Open University nell’ambito del progetto “The Arguing in History”.

    A 18 alunni dello Year 9 (corrispondente alla nostra terza media) coinvolti nel progetto era stato chiesto di svolgere una ricerca su un particolare argomento utilizzando Internet. Una volta svolta la ricerca, tutti potevano ricordare il contenuto di quello che avevano letto e di aver utilizzato Google come motore di ricerca. Solo tre ricordavano vagamente quale era il sito che avevano consultato e ritenevano potesse essere Wikipedia.

    Si tratta di un’esperienza che in realtà tutti gli insegnanti vivono quotidianamente, ciò che conta per gli studenti è la velocità nel trovare le informazioni; da dove vengano e l’autorità della fonte sono domande che neppure li sfiorano. Ci si limita a cliccare sul primo sito della lista e nella maggior parte dei casi gli studenti non hanno neppure coscienza del fatto che Google non è una fonte, ma semplicemente un motore di ricerca. Il docente deve quindi guidare lo studente all’uso del metodo storico anche quando si utilizzano fonti informatiche. Non vi è altra soluzione che quella di svolgere delle ricerche usando internet insieme ai propri studenti, magari dando prima loro un tema e facendogli svolgere la loro ricerca usando Google e Wikipedia e poi guidandoli a ricercare informazioni sullo stesso tema, usando siti di musei ed archivi, comparando quindi la qualità delle informazioni reperite e le loro fonti. Alla fine questa attività darà grande soddisfazione agli studenti e fornirà loro uno strumento per l’uso critico di Internet, non solo per lo studio della storia, ma per la vita in genere.


    Le fonti letterarie

    Tra le fonti letterarie, le meno utilizzate sono sicuramente quelle poetiche, per più che ovvie ragioni, prime fra tutte le maggiori difficoltà di comprensione e decodifica di questi testi. Quando si decide di presentare una fonte letteraria di tipo poetico, essa è il più delle volte abbinata ad un’altra fonte in prosa o visiva.

    Molto interessante, proprio perché molto rara, l’idea di mettere al centro di un ciclo di lezioni delle poesie tradotte dal Nahuatl del Messico Atzeco del docente Nicolas Kinloch16. L’insegnante ha svolto questa attività17 in una classe di studenti dello Year 8 (corrispondente alla nostra seconda media) di abilità miste, presso la Netherhall School di Cambridge. Kinloch ha scelto la poesie “Flower-songs”, una fonte poco nota e poco utilizzata, per offrire un’immagine della società Atzeca meno stereotipata rispetto a quella fornita dalle fonti occidentali, soprattutto spagnole. L’attività si è articolata in tre lezioni ed in un esercizio da svolgere a casa.

    Nel corso della prima lezione il professore ha incoraggiato gli studenti, che non avevano ancora studiato questo argomento, a stendere una lista18 di informazioni su quello che sapevano già del popolo azteco ed una sugli europei dl XVI secolo19. Per quanto riguarda gli aztechi la maggior parte degli studenti si è focalizzata sui sacrifici umani. Anche il cannibalismo è stato spesso menzionato. Gli studenti tendevano a leggere questi riti nei termini di vero e proprio sadismo, più che di obblighi religiosi, riecheggiando le cronache dell’epoca della conquista spagnola. L’aggettivo utilizzato più spesso dagli allievi per descrivere questa cultura è stato “primitivo”. Al contrario l’immagine degli europei del 1500 risultava abbastanza positiva.

    Nel corso della seconda lezione Kinloch ha fornito ai suoi studenti un breve quadro sulla poesia azteca, spiegando che questi testi non erano scritti, ma trasmessi oralmente e furono raccolti dai conquistatori spagnoli ed ha quindi proposto loro alcune poesie20 da leggere e sulle quali riflettere sulla base di una griglia di domande. La terza lezione è consistita in un dibattito, nel quale gli alunni dovevano motivare le loro risposte al questionario e spiegare che cosa avevano appreso della cultura azteca dalle poesie. Infine il professore ha chiesto loro se la lettura delle poesie aveva in qualche modo modificato le loro idee sul popolo azteco. L’esercizio per casa consisteva nello scrivere un’ampia risposta alla seguente domanda: “gli aztechi erano vittime consenzienti di sacrifici umani?”.

    In generale Kinloch ha notato, sia nel corso del dibattito che poi leggendo le risposte scritte, che gli allievi erano rimasti impressionati dalla complessità e raffinatezza della poesia azteca e gli aggettivi usati per descrivere questo popolo non erano più solo primitivo e triste, ma anche coraggioso, amante della bellezza, felice. Anche sui sacrifici umani, molti studenti avevano rivisto le loro precedenti idee, scrive ad esempio uno di loro: “questa poesia dimostra che la gente azteca riteneva un fatto positivo morire in un sacrificio. Essi credevano anche che essere le vittime di un sacrificio fosse la stessa cosa che essere uccisi in guerra o nel campo di battaglia. Così, forse essi ritenevano che fosse giusto morire per il proprio paese e la propria gente nel modo in cui era possibile. Ciò non doveva essere motivo di paura21.


    Le fonti visive

    Dal 2004 iniziano ad apparire nella rivista in modo abbastanza regolare anche degli articoli dedicati all’uso ed all’analisi delle fonti visive nelle classi di storia.

    In particolare Jane Card22 nel suo articolo23 Picturing place: what you get may be more than what you see (Rappresentare un luogo: quello che si ottiene può essere più di quello che si vede) mette in evidenza come ormai nei libri di testo di storia via sia una grande abbondanza di immagini, ma come assai raramente esse siano trattate dagli stessi insegnanti come fonti da analizzare in modo critico. Più spesso sono semplicemente considerate un modo per “dare colore al passato”. Erroneamente ritenute di più semplice comprensione per lo studente rispetto a quelle scritte, tali fonti visive sono spesso utilizzate come stimolo iniziale della lezione, per catturare l’interesse degli studenti. Spesso avviene invece il contrario: le immagini possono infatti essere lette a più livelli, ma un’analisi approfondita richiede sofisticate abilità di decodifica che debbono essere prima insegnate allo studente ed ancor prima apprese dal docente stesso. La Card sottolinea come gli alunni, quando prendono confidenza con il lavoro di lettura e analisi delle immagini, si appassionino con entusiasmo a questa “ricerca di significati nascosti” presenti nelle fonti visive.

    Secondo l’autrice occorre preparare accuratamente gli studenti a questa attività, non è sufficiente che gli alunni diano una rapida occhiata all’immagine. Devono invece essere in grado di descriverla in modo dettagliato e sistematico e saper dare un nome preciso agli oggetti ed alle persone rappresentati. Il che vuol dire padroneggiare da un lato l’abilità linguistica (scritta e orale) della descrizione e dall’altro disporre di un ampio bagaglio di informazioni sull’immagine che deve essere “letta” e sul contesto storico. Solo a questo punto si può provare a decodificare con una certa profondità l’immagine, stimolando poi in classe eventuali discussioni.

    Jane Card propone alcuni esempi di attività di studio relative ad illustrazioni anti puritane del periodo di Carlo I, ad incisioni del XVIII secolo (Beer Street and Gin Lane) per esplorare gli aspetti della società e del crimine in questo periodo ed il ritratto di Mr and Mrs Andrews (1749) per analizzare gli effetti economici e sociali dell’introduzione dei campi chiusi. In tutti i casi le immagini sono corredate di un box contenente informazioni utili sull’immagine e su particolari aspetti rilevanti del periodo storico in esame e di un altro riquadro contenete una scaletta dettagliata di domande che guidano in modo progressivo prima alla descrizione e poi all’ interpretazione dei vari significati dell’immagine.

    Il ritratto di due signori inglesi diventa la fonte da cui ricavare informazioni sulle recinzioni nelle campagne


    La cartografia come fonte storica

    Sempre nel numero 116 di Teaching History24, Evelyn Sweerts e Marie-Claire Cavanagh25 si occupano di un’altra tipologia di fonti visive spesso trascurate nella scuola: le mappe e carte geografiche antiche. Si tratta di fonti molto complesse che richiedono l’uso contemporaneo di abilità sia storiche che geografiche, che spesso mettono in difficoltà gli stessi docenti. Per questo la Sweertes e la Cavanagh, rispettivamente docenti di storia e geografia, hanno predisposto un progetto trasversale storico-geografico per gli studenti dello Year 7 (corrispondente alla nostra prima media) della London Comprehensive School, dove insegnavano, organizzato in 5 lezioni (una geografica e quattro storiche) incentrate sulla Mappa Mundi e The Travels of Sir John Mandeville.

    Le autrici si rendono conto che l’utilità delle mappe antiche come fonte storica possa non risultare immediatamente evidente in tutti i suoi aspetti, per cui dedicano un ampio spazio alle finalità del loro progetto. Solitamente infatti nell’insegnamento della storia si tende ad utilizzare soprattutto carte tematiche o a confrontare carte geografiche di epoche diverse per evidenziare i cambiamenti politici avvenuti. In realtà se si utilizzano carte e mappe antiche esse contengono ben più che una semplice informazione su luoghi allora conosciuti, città e confini tra gli stati, ma sono una fonte secondaria molto importante per comprendere la visione del mondo di chi ha redatto la carta, ciò che era importante inserire e perché, in sostanza “Essi hanno disegnato una carta del loro mondo: noi possiamo disegnare una carte della loro mente”. In particolare la Mappa Mundi prodotta nel 1290 ed il testo medievale di viaggio The Travels of Sir John Mandeville si prestano molto bene ad analizzare il concetto di “sé” e di “altro” dell’epoca medievale.
    Mappa mundi del 1290


    Tutto ciò richiede però un lavoro piuttosto complesso. La lezione geografica è stata volta a sviluppare in primo luogo il senso dell’orientamento dei ragazzi sulle mappe e quindi ad analizzare le differenze nella rappresentazione tra la Mappa Mundi e le altre rappresentate con la MC Arthur’s Universal Corrective, la proiezione di Peters e la proiezione di Mercatore.
    Le lezioni di storia invece sono state organizzate con lavori a coppie e brainstorming per analizzare i due documenti seguendo una griglia di domande. Tuttavia nell’articolo ne vengono solo suggerite alcune (perché la mappa è orientata ad est? Cosa rappresentano le creature ai bordi della mappa?), ma non viene fornito alcuno schema preciso che invece sarebbe stato utile, visto che, soprattutto la Mappa Mundi, non è un documento ordinariamente presente nei libri di testo di storia inglesi, né viene fornita in proposito una bibliografia ampia. Per questo nel complesso l’articolo pur essendo interessante come spunto, richiede poi una grande mole di lavoro di ricerca per sviluppare effettivamente una lezione in classe.


    La fotografia come fonte storica

    L’importanza ai fini didattici dell’uso delle fonti visive ed in particolare delle fotografie è attestato come sempre anche dal rilievo con il quale viene ad esempio pubblicizzato sulla rivista il sito HERITAGE EXPLORER IMAGES FOR LEARNING, una banca dati ricchissima di fotografie, con chiavi di ricerca per luogo, tema o parola chiave e con attività già predisposte basate sul National Curriculum.
     

    Tra i lavori su questo genere di fonti, interessante, per quanto di difficile attuazione, l’uso delle fotografie proposto da Caille Sugarman-Banaszak26 nel suo articolo27 Stepping into the past: use images to travel through time (Camminando nel passato: usare le immagini per viaggiare nel tempo).

    L’autore ha proposto ai suoi alunni come preparazione del viaggio in Polonia e ad Auschwitz una serie di foto degli stessi luoghi risalenti agli anni intorno al 1920 e 1930 e durante la seconda guerra mondiale. E’ stata quindi svolta una prima attività di confronto in classe, poi le stesse foto sono state riutilizzate nel corso del viaggio di studio per orientarsi, ritrovare quegli stessi luoghi e fotografarli. Una volta ritornati a scuola, è stato fatto un ulteriore confronto. Gli studenti si sono naturalmente appassionati alla ricerca, ma soprattutto hanno riscoperto realmente la “memoria dei luoghi”.

    A margine dell’articolo l’autore presenta anche una sua riflessione su come proporre agli studenti le immagini della Shoah. Nel corso della sua esperienza si è infatti reso conto che presentare immagini di cadaveri, di persone torturate ed uccise, spesso suscita un effetto opposto a quello desiderato, contribuendo a disumanizzare le vittime. Per cui è preferibile usare immagini di vita, ritratti individuali e di famiglia, ma soprattutto si è rivelato utile presentare agli studenti i disegni e le poesie (fortunosamente scampati alla distruzione) di alcuni dei 15000 bambini che hanno vissuto nel ghetto di Terezin.

    A ciascun alunno è stata proposta una selezione di immagini e poesie realizzate dai bambini del ghetto, con una serie di domande alle quali rispondere per riflettere sui simboli e sui materiali (pochi e poveri) utilizzati per realizzare i disegni. Queste testimonianze di vita sono potenti e immediatamente consonanti con quelle dei ragazzi, ma necessitano comunque di un lavoro di indagine ed analisi per analizzarle in profondità. Infine a ciascuno studente è stato chiesto sia di elaborare una riflessione o un lavoro creativo (disegno, musica ecc) per commemorare la Shoa, sia di progettare un museo virtuale sulla Shoa.


    Un modello di lavoro su fonti fotografiche

    Sempre incentrato sull’uso di fotografie come fonte storica è l’articolo28 di Morgan Baynham29 pubblicato nel 2010 nella rubrica triumphs Show ed intitolato Headteachers, Hungarians and Hats: using family photos to bring the diversity of Jewish lives to life (Presidi, ungheresi e cappelli: utilizzare le foto di famiglia per mostrare la diversità delle vite degli ebrei).

    Baynham desiderava mostrare ai suoi studenti dello Year 9 un quadro della vita degli ebrei prima, durante e dopo la Shoah. La lezione cui fa riferimento nell’articolo è la prima del ciclo dedicata a come vivevano gli ebrei negli anni ‘20 e ‘30 del 1900. In particolare il concetto chiave della lezione era quello della “diversità”, far vedere come fossero diverse le vite degli ebrei nelle tante nazioni in cui vivevano all’epoca, al fine di cercare di scardinare quei luoghi comuni che vennero poi fatti propri dal regime nazista nella rappresentazione degli ebrei.

    Il docente per preparare la lezione si è servito del database interattivo sulla Memoria Ebraica, che dispone di un vasto archivio fotografico in cui spesso le immagini sono accompagnate da una breve descrizione della storia della famiglia cui si riferiscono. Baynham ha scelto le foto più sorprendenti che è riuscito a trovare: ne ha selezionate sei riferite a nazioni diverse (Francia, Germania, Romania, Turchia).

    La lezione è stata introdotta rapidamente con l’analisi di una carta tematica relativa alla distribuzione della popolazione ebrea in Europa nel 1933. Quindi il docente ha invitato gli alunni a lavorare a coppie ed ha consegnato ad ogni coppia una busta sigillata, nella quale vi erano le sei immagini sopra menzionate. Gli studenti dovevano quindi scegliere l’immagine che li interessava di più e svolgere degli esercizi scanditi secondo una precisa sequenza temporale. I primi due minuti dovevano essere dedicati alla descrizione di tutti i dettagli possibili della foto, il secondo lasso di tempo era dedicato a formulare delle domande sulle immagini (Chi possono essere queste persone? Da dove vengono? Cosa stanno facendo?). Il terzo intervallo di tempo è stato utilizzato per fare delle ipotesi e rispondere alle domande prima formulate.

    Una volta terminato questo lavoro, il professore ha consegnato agli studenti un’altra busta chiusa, in cui vi era la descrizione delle immagini e la storia delle persone ritratte nella foto. E’ stato poi avviato un dibattito, nel quale è stato possibile confrontare le ipotesi fatte dagli studenti e la reale storia delle fotografie e provare a trarre delle conclusioni sull’attività svolta. Al termine del lavoro Baynham è rimasto molto sorpreso dalla mole di informazioni che i ragazzi erano riusciti scoprire in una singola immagine e dall’impegno che avevano mostrato “nel fare gli storici”. Inoltre la maggior parte degli studenti aveva colto quello che era il concetto centrale della lezione, osservando che gli ebrei conducevano “ordinary lives” e che l’essere ebreo costituiva solo un singolo aspetto della loro identità. Svolgere una lezione di questo tipo, per introdurre inseguito il tema dell’Olocausto, è stato funzionale, secondo il docente, a presentare agli alunni gli ebrei come persone, come loro, e non come vittime o dati statistici.


    Le vignette satiriche

    L'articolo30 intitolato Developing multiperspectivity trough cartoon analysis: strategies for analysing different views of three watersheds in modern German history (Sviluppare la capacità di osservare da diversi punti di vista attraverso le vignette umoristiche: strategie per analizzare visioni differenti nella storia moderna della Germania), apparso nel 2010, è dedicato all’analisi di una particolare fonte visiva, cioè le vignette satiriche. In esso l’autore, Ulrich Schnakenberg31, propone in maniera chiara e semplice un modello di analisi di questo tipo di fonte da utilizzare in classe ed anche alcune significative esemplificazioni. Schankenberg fornisce subito un quadro generale in cui evidenzia quali sono i pro ed i contro all’uso delle vignette in classe: se da un lato infatti esse sono molto amate dagli studenti, come del resto le immagini in genere ed i film, e sicuramente costituiscono un ottimo stimolo iniziale per catturare la loro attenzione, di contro spesso si rivelano immagini difficili da decodificare in quanto ricche di simboli e personificazioni. Il dettaglio di questa analisi è fornito in tre distinti box di differente colore dedicati rispettivamente alle ragioni per cui utilizzare questa tipologia di fonte in classe, alle difficoltà che possono sorgere nell’uso di questa fonte ed alle caratteristiche stilistiche tipiche delle vignette. 

    Note

    [1] Teaching History 1995 n. 78, Stories or Sources, pp. 20-22.

    [2] Terry Hyden nel 1995 lavorava all’Institute of Education, University of London; Clare Hake alla Oxford University nel dipartimento di Educational Studies.

    [3] Aldrich R.E., Class and gender in the study and teaching of history in England in the twentieth century, in Historical Studies in Education,vol 1n. 1, 1989.

    [4] Teaching History 1995 n. 78, pp. 22.

    [5] Teaching History 2001 n. 103, Move me on. This issue’s problem: Josie, PGCE history student, is finding that her use of department’s exercises on sources is not improving pupil’s understanding of evidence, pp. 42-45

    [6] Teaching History 2001 n. 103, Working with Boudicca Texts, pp. 32-36.

    [7] Robert Guyver è Senior lecturer alla Faculty of Education, Sport and Technology in the College of St mark and ST Jhon, Plymouth.E’ stato membro del DES National Curriculum History Working Group che ha scritto il National Curriculum per la Storia.

    [8] Teaching History 2002 n. 107, pp. 13-19.

    [9] Andrew Wrenn è General Adviser for History, Cambridgeshire LEA.

    [10] Teaching History 2003 n. 111, p. 3.

    [11] Sally Evans, Chris Grier, Jemma Philiphs e Sarah Colton erano tutti insegnanti tirocinanti alla Warwik University nel 2003, dal 2004 insegnano in differenti comprensive school nel Midlands.

    [12] Teaching History 2004 n. 114, pp. 7-16.

    [13] Ben Whalsh ha molti anni di esperienza nel settore dell’educazione e dell’insegnamento, è stato capo dipartimento ed è ora scrittore di libri di testo per la scuola secondaria. Tiene corsi sull’uso dell’ICT nella storia ed è membro dell’Historical Association Secondary Education Commitee.

    [14] Teaching History 2008 n. 133, pp. 4-9.

    [15] The Time , 11 April 2007.

    [16] Nicolas Kinloch è capo del dipartimento di storia e di russo alla Netherhall School (11-18 comprehensive), Cambridge.

    [17]Teaching History 2003 n. 112, Confounding expectation at key stage 3: flower songs from an indigenous empire, pp, 38-43

    [18] Ecco un esempio di risposte tipiche alla domanda “what kind of people were the Mexica?”.: “cut people’s hearts out, worshipped the sun, were good at building, like going to war, wore costumes with feathers and stuff, liked eating people, were very gloomy”.

    [19] Ecco un esempio di risposte tipiche alla domanda “what kind of people were 16 th-century Europeans?”: “were very religious, were good at painting, believed in justice, had a good technology (ships, guns), were not very clean, sometimes went to war, liked watching plays”.

    [20] Riporto alcuni dei testi poetici presentati da Kinloch (TH 2003 n. 112, p. 41) nel suo articolo come esempio (naturalmente in traduzione inglese):

    1) Flowers have come!/To refresh/And delight you, princess./You see them briefly/As they dress themselves,/ Spread their petals/Perfect only in spring/Countless golden flowers!//The flowers have come/to the skirt of the mountain.

    2) Could it be true we live on earth?/ On earth forever?// Just one brief instant here.// Even the fines stones begin to split,/ even gold is tarnished,/Even precious bird-plumes/ Shrivel like a cough./ Just on brief instant here.

    3) Heart, have no fright./There on the battlefield/ I cannot wait to die/by the blade of sharp obsidian./ Our hearts want nothing more than a war/death.// You who are in the struggle:/ I am anxious for a death/from sharp obsidian./ our hearts want nothing but a war/death.

    [21] Teaching History 2003 n. 112, pp. 42-43.

    [22] Jane Card è Head of History alla Didcot Girl’s School (11-18 comprehensive), Didcot, Oxfordshire e ricercatrice e scrittrice sull’uso delle fonti visive nell’insegnamento della storia.

    [23] Teaching History 2004 n. 116, pp. 16-20.

    [24] Teaching History 2004 n. 116, pp. 21-26.

    [25] Evelyn Sweerts e Marie-Claire Cavanagh insegnano alla European School Brussels II, Belgium, ma il progetto presentato fa riferimento all’attività di insegnamento da loro svolta in passato presso la London Copprhensive School.

    [26] Caille Sugarman-Banaszak insegna storia presso il Parkside Community College (11-16 comprehensive) di Cambridge ed è Holocaust Education Fellow all’Imperial War Museum.

    [27] Teaching History 2008 n. 130, pp. 24-29.

    [28] Teaching History 2010 n. 141, pp. 18-19.

    [29] Morgan Baynam è NQT ed insegna alla Compton School. La lezione cui si riferisce e stata svolta nel corso del suo PGCE alla Highgate Wood School.

    [30] Teaching History 2010 n. 139, pp. 32-39.

    [31] Ulrich Schnakenberg è direttore del dipartimento di storia a Filder Benden, un 10-19 Gymnasium in Moers, Germania.

  • Un laboratorio storico wiki sul muro di Berlino

    Autore: Laura Paviotti

     

    Questo laboratorio e il gemello sull’emigrazione (di Silvia Furlanetto) provengono dal Tfa di Udine/Trieste, coordinato, per quanto riguarda la storia, da Andrea Zannini. Come vedrete, sono proposte di lavoro che vanno provate e riprovate. Credo che dobbiamo capire quasi tutto della didattica digitale. Interazione immediata fra allievi e docenti, grandi quantità di materiali, materiali di genere diverso, e il mezzo – infine – che invita gli allievi a scrivere, dialogare e collaborare. Queste sono le premesse. Ma non dobbiamo fermarci a queste, altrimenti, finito l’effetto novità, anche questa se ne andrà nella soffitta delle illusioni perdute. (HL)

     

    Indice

    • Lo schema del Lab
    • Punti di partenza : alcuni termini per orientarsi
    • Le fonti : preselezione da parte del docente
    • Le fonti : i video
    • Le fonti : i siti
    • Le fonti : gli articoli di giornale
    • Le fonti : le testimonianze
    • I gruppi
    • L’elaborato finale e il ruolo del docente

     

    Lo schema del laboratorio

     

    Destinatari: classe quinta di scuola secondaria superiore.

    Momento didattico in cui inserire il laboratorio: secondo quadrimestre.

    Tipologia di fonti: articoli di giornale da archivio, testimonianze scritte, video e siti con materiali interattivi, contributi storiografici.

    Tempi: 2 ore nell’aula di informatica per la presentazione dell’ambiente di apprendimento virtuale, l’esposizione del progetto con le relative attività e la suddivisione in gruppi di lavoro. Il resto del percorso può essere svolto in orario extrascolastico, gestendo accuratamente le scadenze di consegna: 3 giorni per il completamento dei link iniziali, 10 giorni per visionare i materiali ed eventualmente aggiungerne di nuovi, 1 settimana per la stesura dell’elaborato finale da parte di ogni gruppo. Al termine del percorso, si possono dedicare 2/3 ore all’esposizione delle relazioni finali.

    Obiettivi. Per la prima fase: stimolare l’interazione di gruppo in un compito di problem solving creativo (sviluppare un’ipotesi; discuterne i punti di forza e di debolezza; inventare la soluzione di un problema che non presuppone una risposta esatta). Per la seconda fase: elaborare un testo narrativo sulla base di documenti storici, assumendo una focalizzazione interna contestualizzata all’epoca e all’ambiente considerati. Per la terza fase: verbalizzare la relazione di un’esperienza, analizzando il processo che ha condotto alle diverse scelte e mettendo in evidenza i punti di forza e di debolezza e le modalità d’interazione e cooperazione. Si attiverà dunque una riflessione metacognitiva sul percorso. L’insegnante dovrà attribuire il ruolo di relatore a un componente di ogni gruppo.

     

    Pagina di partenza: alcuni termini per orientarsi.

     

    Nella home-page l’insegnante dispone parole e immagini per orientare un brainstorming sul periodo interessato: “cortina di ferro”, “guerra fredda”, “perestroika”, “Patto di Varsavia”, “Patto atlantico”, “DDR”, “RFT”, “Vopos”, “Stasi”. Cliccando su di esse, si apre un link che manda alla pagina dove ogni ragazzo può contribuire e condividere le informazioni sull’argomento.

     

     


    Le fonti: preselezione da parte del docente-guida e selezione autonoma.

     

    Dopo aver selezionato i materiali, l’insegnante li suddivide in quattro pagine, sulla base della tipologia delle fonti:

    • video
    • articoli di giornale
    • testimonianze
    • siti

    Ogni link a una fonte è corredato da domande guida, che servono per far nascere la discussione e orientarla. Questa si svolge nella pagina stessa, attraverso la discussion (thread mode) allo scopo di creare una sorta di piazza virtuale, dove ci si confronta, si argomentano le proprie idee e si mettono alla prova le proprie capacità critiche.

    Allo steso tempo, ogni gruppo dispone di una propria pagina, nella quale ciascun partecipante annota le informazioni che considera rilevanti per il compito specifico. Anche la discussione fra i membri del gruppo sulla correttezza e la pertinenza delle annotazioni avviene nella pagina attraverso la discussion: l’idea è quella di sollecitare un modus operandi tipico dei gruppi di ricerca.

    Per facilitare il lavoro dei ragazzi è auspicabile non pubblicare il materiale in un’unica soluzione, perché ci sarebbe il rischio di scoraggiare gli allievi o di farli disperdere in un mare di informazioni.

    Gli studenti, pertanto, dovranno muoversi tra la documentazione per individuare le notizie utili rispetto al loro percorso di ricerca (vedi sotto). Qualsiasi nuova fonte proposta dagli alunni dovrà essere corredata da una scheda di presentazione in cui si discuta la sua attendibilità (vedi schedatura.pdf).

     

    Le fonti: i video

     

    1. Henry Schipper, The Berlin Wall, 2003, da “History Channel”1


    Parte 1
    Domanda guida: “La costruzione del Muro suscita delle reazioni molto diverse: perché?”

    Parte 2
    Domanda guida: “Perché l’”Occidente” non si muove? Quale scopo e quale necessità fanno nascere la retorica del Muro come “barriera protettiva antifascista”?o anticomunista?

    Parte 3
    Domanda guida: “Che significato ha la frase di Kennedy “Ich bin ein Berliner”? Perché la sua visita mette in rilievo le difficoltà di una risoluzione del problema?”

    Parte 4
    Domanda guida: “L’intervento di Schabowski dà origine a un equivoco che contribuisce a portare alla caduta del muro; tuttavia successivamente sarà uno dei pochi a scontare la pena per reati contro i fuggiaschi. Perché questa contraddizione? Che cosa è  realmente successo?”

     

    RIFLESSIONE FINALE : “Il controllo totale non è la soluzione di tutti i problemi. Che ne pensi?”

     


    2. Martin Vaughan Cook, Escape from GDR, 2007 da “Discovery Channel2”2

     

    Parte 1 (in inglese)

    Parte 2

    Parte 3

    Parte 4

    Parte 5

    Parte 6

    Domanda finale: “molti materiali di questi video sono gli stessi del reportage di History Channel, ma ti sembra che siano usati in modo analogo? Il taglio documentaristico è lo stesso? Se no, quale diversa luce getta sugli eventi?”

     

    Le fonti: i siti

     

    Si consiglia di fornirli in un’unica soluzione dopo la visione dei video. Sono di consultazione per ogni gruppo che potrà trovare informazioni-quadro sugli argomenti trattati e una presentazione globale della città. Inoltre, le carte e le ricostruzioni interattive propongono un approccio ludico senza peraltro discostarsi dal rigore storico.

    Il muro di Berlino3
    Mauer Museum4
    Berlin.de: Numeri e fatti5 (interessanti carte interattive)
    La storia del muro dalla costruzione fino al crollo6 

     

    Le fonti: gli articoli di giornale

     

    Consiglierei di fornirli a gruppi di tre, secondo una progressione cronologica che potrebbe aiutare a focalizzare il mutamento (psicologico e di giudizio) dell’opinione pubblica nei riguardi del Muro. Gli ultimi tre articoli sono inoltre corredati da domande che stimolano una riflessione anche sul vissuto personale dell’allievo e sull’attualità

     

    L’opinione pubblica nel 1984

    1. Lucio Caracciolo, I figli del muro, “La Repubblica”, 6 maggio 1984, p. 22

    Domanda guida: “Che ruolo hanno secondo te la voglia di viaggiare (almeno attraverso la letteratura) e l’esotismo nella psicologia dei berlinesi dell’est?”

     

    2. Enrico Filippini, I Muri di Berlino, “La Repubblica”, 10 ottobre 1984, p. 24
    Domanda guida: “Perché Berlino viene definita una città “sperimentale”?”

     

    3. Andrea Tarquini, Oltre il Muro per sfuggire la noia, “La Repubblica, 24 ottobre 1984, p. 14
    Domanda guida: “La tentazione di andarsene non è ancora morta, tra la gente di questo paese, cui pure in fondo non manca gran che; certo molto meno che ai polacchi o ai romeni”: come giustifichi questa affermazione dell’inviato italiano Andrea Tarquini?”

     

    L’opinione pubblica nel 1985

    1. Andrea Tarquini, Speranze dietro il Muro, “La Repubblica”, 13 aprile 1985, p. 13

    Quale immagine delle differenze tra est e ovest ricavi da questo articolo? Ti sembra che cambino rispetto all’inizio della divisione?

     

    2. Silvia Giacomoni, Quel Muro? Un gioiello, “La Repubblica”, 21 marzo 1987, p. 18 (di Silvia Giacomoni)

    Quale immagine delle differenze tra est e ovest ricavi da questo articolo? Ti sembra che cambino rispetto all’inizio della divisione? (Domanda in comune con l’articolo precedente).

     

    3. Bernardo Valli, L’orgoglio di sentirsi tedeschi, “La Repubblica”, 7 febbraio 1986, p. 7 (di Bernardo Valli)

    Che cosa significa secondo te l’affermazione dell’architetto Branzi “si tratta di una cultura vissuta sempre come alla soglia di un avvenimento che non si attua mai”?

     

    L’opinione pubblica nel 1987/1989

    1. Vanna Vannuccini, Ma qual è la vera Berlino, “La Repubblica”, 15 luglio 1987, p. 13

    “La grande maggioranza dei profughi, o degli aspiranti tali, sono gente tra i venti e i quarant' anni, figli dunque del nuovo Stato e della sua cultura, quasi tutti con un livello di educazione superiore, una generazione di tecnici e di intellettuali a cui ogni Stato usa affidare le sue speranze, il suo futuro e la sua sopravvivenza”: come vedi, la “fuga dei cervelli” non è un fenomeno moderno. Che conseguenza ha, anche nel mondo d’oggi?

     

    2. Alberto Cavallari, Ma Gorby avanza a tempo di rock, “La Repubblica”, 25 giugno 1988, p. 1

    La musica come strumento di denuncia in senso lato: esistono esempi ancora oggi?

     

    3. Piero Benetazzo, Cinquecento tedeschi dell’est fuggono dal confine, “La Repubblica”, 20 agosto 1989, p. 12

    In che modo questo articolo del 1989 preannuncia quella che sarà poi la caduta del Muro?

     

    Le fonti: le testimonianze

     

    Possono essere fornite in un unico momento attraverso 3 link che rimandano ai tre sottoraggruppamenti (sull’evento della caduta del Muro, sulla vita a est e a ovest, sui tentativi di fuga oltre il Muro) in modo che siano consultate già in base all’indirizzo della ricerca.

     

    1. Sull’evento della caduta del muro:

    La caduta del muro di Berlino: io c'ero!7 (di  Matteo Quero )

    Giordano Bruno Guerri, per Il Giornale, 2009, mauerspechte.pdf

    Alviani Alessandro, per La Stampa, 2009, testimonianza di Padre Fuhrer sulla manifestazione non violenta che porterà alla caduta del Muro. caduta.pdf

    Maier Charles S., Il crollo. La crisi del comunismo e la fine della Germania est, Il Mulino, Bologna 1999; pp. 345-360: il contesto politico dell’unificazione.

    Darnton Robert, Diario berlinese 1989-1990, Einaudi, Torino, 1992; pp.49-60: dopo il crollo, il Muro visto da est e da ovest; le ragioni dell'evento.

     

    2. Sulla vita nei settori orientale e occidentale di Berlino

    Thomaneck J.K.A, Niven Bill, La Germania dalla divisione all'unificazione, il Mulino, Bologna 2005, pp.57-62 : la retorica politica e i simboli costruiti in modo speculare tra est ed ovest.

    Crescere al confine tra le due Germanie - Intervista a Gunther Schaefer8: Emilio Esbardo intervista Gunther Schaefer per « Il Nuovo Berlinese »

    Rava Enzo, Vita quotidiana drammatica e balorda dietro il Muro di Berlino, Manifestolibri, Roma 2004, pp. 7-13


    3. Sui tentativi di fuga oltre il Muro:

    Il Tunnel della Libertà ideato da Luigi e Mimmo, due studenti italiani a Berlino - Emilio Esbardo intervista Ellen Sesta per « Il Nuovo Berlinese »

    Gelb Norman, Il Muro. Quando a Berlino si giocarono i destini del mondo, Mondadori, Milano 1987; pp.272-4 e pp.326-332

     

    I gruppi

     

    In base ai percorsi di ricerca più adatti a un laboratorio didattico di questo tipo e al numero medio di alunni in una classe, si formano 4 gruppi. La formazione dei gruppi dev’esserepredisposta dall’insegnante, in base alle caratteristiche degli alunni: è bene, infatti, che ci siano competenze e motivazioni diverse, e che la preparazione sia eterogenea all’interno di ogni gruppo.

     

    Gruppo a) Vivere vicini, vivere in due mondi diversi.

    Sottogruppo 1 - Berlinesi orientali

    Sottogruppo 2 - Berlinesi occidentali

     

    Gruppo b) Il Muro: separati d’improvviso.  

    Sottogruppo 1 - Chi progetta il Muro

    Sottogruppo 2 - Chi progetta la fuga oltre il Muro

     

    Il Gruppo (a) cercherà di ricostruire attraverso le fonti  le diverse condizioni di vita nell’est e nell’ovest di Berlino, immedesimandosi in un cittadino dell’epoca.

    Il Gruppo (b) farà uno studio più tecnico del progetto del Muro, dei suoi dispositivi per impedire la fuga e delle modalità utilizzate invece per attraversare quel confine.

     

    L’elaborato finale e il ruolo del  docente

     

    La produzione scritta finale prevede il racconto dell’esperienza (scappare, costruire, vivere), immedesimandosi in un ipotetico cittadino berlinese della seconda metà del ‘900. Per la sua stesura si sfrutterà la possibilità fornita da wiki di scrittura collaborativa: ognuno può aggiungere la sua parte integrandola in un testo unico. I parametri di valutazione terranno conto della correttezza nell’uso della lingua e delle strutture narrative, ma anche nell’uso delle informazioni storiche acquisite durante il percorso.

    La valutazione finale, a livello individuale, terrà conto del monitoraggio dell’interazione sul wiki (sarà necessario giudicare la qualità dei post e può essere uno strumento utile, anche se solo per un rilevamento quantitativo, l’assessment). Per una valutazione di gruppo, invece, si prenderà in esame il prodotto finale di scrittura collaborativa e la relazione davanti alla classe. Quest’ultima dovrà ripercorrere le tappe e le motivazioni che hanno condotto alle scelte fino all’elaborazione del risultato finale, guidando così una riflessione metacognitiva sull’esperienza.

     

    Note

    1. History Channel, ora noto come “History”, è un canale televisivo di divulgazione storica di origine statunitense. Il documentario proposto è stato supervisionato per History dal Dr. Patrick Major, Professor della University of Reading il cui settore d’interesse specifico è la storia della Germania durante la Guerra Fredda.
    2. Discovery Channel è un’emittente televisiva internazionale. Per questo documentario si è fatto riferimento ai principali centri di studio e archivi di Berlino: Berliner Mauer Archiv; The Berlin Hohenschonhausen Memorial; Dokumentationszentrum Bernauer Strasse; Museum of the Wall Haus am Checkpoint Charlie; Normannenstrasse Reserach and Memorial Centre.
    3. Questo sito è editato e gestito da Wolfgang Pruscha originario di Düsseldorf  e laureato all'università di Düsseldorf in letteratura e lingua tedesca e in storia. Ora vive a Villa Vicentina e insegna lingua e letteratura tedesca.
    4. Questo è il sito ufficiale del Museum am Checkpoint Charlie di Berlino.
    5. “Berlin.de” è il sito ufficiale della capitale.
    6. “Il Nuovo Berlinese” è una rivista online di approfondimento culturale su Berlino, fondata nel 2011 da Emilio Esbardo e rivolta a lettori di lingua italiana.
    7. Vd. nota 3
    8. Vd. nota 6

     

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