metodologia

  • Manuali per la scuola e manuali per l’università: un seminario romano

    di Daniele Boschi

    Ecco una buona notizia per quelli che amano la storia: l’Università di Roma Tor Vergata ha istituito un “Laboratorio permanente di didattica della storia”.

    Una delle prime attività è stata l’organizzazione di un seminario sui manuali di storia (vedi la locandina allegata), nel quale docenti e ricercatori universitari, insegnanti delle scuole, autori e redattori di manuali di storia hanno riflettuto insieme sullo sviluppo storico, le caratteristiche e le diverse modalità di utilizzo di questi importanti, anche se molto discussi, strumenti didattici.

    I manuali scolastici di storia hanno alle spalle un tradizione plurisecolare

    Come ha ricordato nella sua relazione Luigi Cajani, i manuali scolastici di storia hanno alle spalle una lunga tradizione che risale al XVII secolo. Fra i manuali del ‘600 spicca quello del tedesco Johann Buno, che affiancava al testo numerose immagini, per aiutare i più giovani scolari a memorizzare i fatti e i personaggi più importanti1. Il manuale di Buno ebbe grande successo, e così pure quello ottocentesco di Laure de Saint-Ouen, che oltre ad accompagnare il testo con simboli e immagini presentava, alla fine di ogni capitolo, numerose domande, non tutte nozionistiche, per facilitare la rielaborazione e la memorizzazione dei contenuti2.

    Le fonti storiche nei manuali scolastici in Italia dal secondo dopoguerra a oggi

    Il confronto fra il passato remoto dei manuali e quelli del dopoguerra, fa risaltare i due fatti nuovi, che contraddistinguono le preoccupazioni didattiche dei giorni nostri: le fonti (documenti storici e brani storiografici) e gli apparati di esercizi.

    J. Buno, Elefante1. Dalle Historische Bilder di Johann Buno: sullo sfondo di un gigantesco elefante, una folla di immagini illustra i principali eventi storici del quinto secolo d.C.

    In una prima fase, fino agli anni ’70 del ‘900, le fonti erano spesso raccolte in volumi distinti dal manuale vero e proprio. Tra i primi libri di testo ad unire il profilo storico generale e le fonti, va ricordato il fortunato manuale di Antonio Desideri, Storia e storiografia, uscito nel 1978. Un ulteriore passo in avanti fu compiuto da Alberto De Bernardi e Scipione Guarracino nel 1987 con L’operazione storica, che alle fonti accompagnava un importante apparato di esercizi. Questo manuale è rimasto un modello insuperato; ma è estremamente significativo che esso abbia riscosso un buon successo soltanto fra gli insegnanti più preparati, mentre ha avuto una scarsissima adesione fra la massa dei docenti, al punto che fu ritirato dopo pochi anni.

    Questa sorta di ostilità aiuta a comprendere il ritorno (molto evidente negli ultimi anni) verso libri di testo che danno più importanza alla dimensione narrativa della storia e lasciano meno spazio alle fonti, non di rado inserendole all’interno di apparati didattici di scarsa qualità, curati dalle redazioni delle case editrici piuttosto che dagli autori dei manuali.

    L’uso dei manuali scolastici da parte di docenti e studenti

    Ma in che modo docenti e studenti usano, o dovrebbero usare, i manuali di storia nelle scuole? Come Antonio Brusa ha ricordato nella sua relazione, la riflessione teorica su questo tema ha inizio già negli anni ’70; tuttavia, da allora fino ad oggi, ben pochi dati empirici sono stati raccolti sulle reali pratiche didattiche.

    Riprendendo le premesse e i risultati di una ricerca condotta negli anni ’80 su un campione abbastanza ampio di insegnanti e studenti della scuola media3, Brusa ha sostenuto che il primo fondamentale obiettivo che gli insegnanti dovrebbero porsi non è quello di “spiegare” il manuale, ma piuttosto quello di rendere gli studenti autonomi nella lettura e nello studio del libro di testo. Gli studenti non dovrebbero essere abituati a “restituire” ciò che hanno letto, ma ad esporre e a discutere i risultati delle loro ricerche sul libro di testo. Si tratta di un’attività che andrebbe impostata e programmata a partire da obiettivi molto elementari, per raggiungere poi gradualmente risultati via via più ambiziosi. Non tutti i manuali si prestano allo stesso modo alla realizzazione di questo tipo di lavoro e sono vive le resistenze degli insegnanti ad abbandonare la prassi didattica più tradizionale.

    Peraltro, la situazione attuale è molto diversa rispetto agli anni Ottanta, sia per la grande eterogeneità dei contenuti che si riversano nei manuali (iconografici, digitali, di storia pubblica ecc.), sia per il minore interesse delle case editrici e delle stesse politiche pubbliche rispetto alle esigenze formative specifiche delle singole discipline. Permane però l’esigenza di una chiarificazione teorica riguardo alle potenzialità e ai limiti dell’uso didattico dei manuali di storia e sarebbe l’ora di avviare una seria ricerca empirica sulle effettive modalità del loro impiego nelle scuole.

    Si possono migliorare i libri di testo?

    Per rispondere a questa domanda, Vito Loré è partito dai risultati dell’indagine, da lui realizzata insieme a Riccardo Rao, sulla trattazione della storia medioevale nei libri di testo scolastici della scuola secondaria4. La loro ricerca ha evidenziato la persistenza di numerosi stereotipi ed errori, che gli studiosi hanno individuato da parecchi decenni. I luoghi comuni si addensano attorno ad uno stereotipo quadro: la netta e ormai improponibile dicotomia fra un alto Medioevo caratterizzato da una larghissima dominanza del localismo a livello politico ed economico, dalla diffusione del “feudalesimo”, dalla corruzione morale del clero, e un basso Medioevo caratterizzato in maniera diametralmente opposta.

    J. Buno, Attila2. Particolare dell’immagine riprodotta nella figura 1: Attila, il “flagello di Dio”, e sopra di lui Giulio Valerio Maggioriano, imperatore romano d’Occidente dal 457 al 461

    Secondo Lorè, la cattiva tessitura dei libri di testo nella parte relativa al Medioevo potrebbe essere ricondotta a un certo distacco fra la didattica universitaria e la didattica scolastica, verificatosi probabilmente fra i tardi anni Settanta e i primi anni Ottanta del Novecento. A ciò si aggiunge l’enorme dilatazione e polverizzazione del mercato editoriale verificatasi negli ultimi decenni: oggi l’offerta di manuali per le scuole di ogni ordine è amplissima e non esistono manuali che abbiano una posizione realmente dominante sul mercato.

    In conclusione, Loré suggerisce tre tipi di rimedi: in primo luogo, le case editrici potrebbero dotarsi di “lettori” competenti, capaci di individuare i punti critici dei manuali già in catalogo, o in corso di redazione; in secondo luogo, gli autori dei nuovi libri di testo scolastici dovrebbero dovrebbe essere tenuti, quasi da contratto, a costruire il loro testo sulla base di manuali universitari recenti, assunti come riferimento; in terzo luogo sarebbe opportuno che i manuali scolastici, come tutti gli altri prodotti editoriali, fossero regolarmente recensiti, in modo tale da evidenziare il loro livello di aggiornamento scientifico.

    I manuali di didattica della storia

    Nel confronto con i problemi della didattica scolastica, risaltano le particolarità di quella universitaria. A differenza di quelli scolastici (che, lo ricordiamo, sono centinaia e alcuni di questi risalgono agli anni ’60 del secolo scorso), i manuali di didattica della storia sono recenti e molto pochi. Uno dei più noti è quello di cui è coautore Walter Panciera5, che nella sua relazione ha illustrato le problematiche inerenti alla realizzazione di questo particolare strumento didattico.

    I manuali di didattica della storia sono destinati in primo luogo alla preparazione degli studenti dei corsi di laurea in scienze della formazione primaria; in secondo luogo alla formazione degli studenti dei corsi di laurea in storia, molti dei quali diventeranno poi docenti nelle scuole secondarie; e infine alla formazione in servizio degli insegnanti. Non è semplice rispondere in modo efficace con uno stesso testo alle attese e ai bisogni formativi di queste tre diverse categorie di potenziali “utenti”. Sarebbe opportuno e utile differenziare i manuali secondo i diversi ordini e gradi del sistema scolastico.

    Inoltre, se è abbastanza agevole definire il quadro epistemologico della disciplina, risulta più problematico fornire indicazioni e consigli circa i metodi e le strategie didattiche: infatti, mentre abbondano proposte di modelli e di buone pratiche, è raro che essi siano stati validati attraverso un serio lavoro di sperimentazione didattica che ne abbia dimostrato l’efficacia. Infine, per avere un quadro completo di questo genere di manualistica, occorrerebbe allargare lo sguardo dai testi che trattano della didattica della storia in generale a quelli dedicati a specifiche metodologie, come la didattica laboratoriale o quella digitale, o a singoli argomenti storici.

    I manuali universitari di storia: una prima inchiesta

    Per lungo tempo i docenti universitari di storia hanno utilizzato gli stessi manuali adottati nel triennio delle scuole superiori, in particolare nei Licei. Ma specialmente dopo la riforma universitaria del 1999, quella che ha introdotto il sistema del “3+2”, la situazione è cambiata, e in molti corsi universitari di base vengono ora utilizzati manuali di storia pensati e scritti per l’Università (anche se in molti casi si tratta di ampliamenti o rielaborazioni di libri di testo per i Licei).

    Stefano Mangullo e Fernando Salsano hanno illustrato i primi risultati emersi da un sondaggio sui manuali di storia nei corsi universitari di base, promosso dal “Laboratorio permanente di didattica della storia” dell’Università di Roma Tor Vergata. Il dato più interessante è la generale soddisfazione dei docenti per i manuali in uso, che tendono infatti ad essere confermati per più anni. Tra i manuali più usati vi sono quello di Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto per la storia contemporanea, quello di Carlo Capra per la storia moderna e quello di Andrea Zorzi per l’età medioevale.

    Un manuale di storia per le università

    J. Buno, Odoacre3. Particolare dell’immagine riprodotta nella figura 1: Odoacre toglie la corona dal capo e lo scettro dalle mani di Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano d’Occidente

    Marco Bellabarba e Vincenzo Lavenia hanno presentato il loro nuovo manuale, Introduzione alla storia moderna6, che qui è interessante perché è un modello molto diverso dai manuali per le scuole. Infatti, presenta una prima parte tematica che affronta questioni di carattere generale, spesso fortemente connesse con il mondo attuale: dalle migrazioni al rapporto con l’ambiente, dal lavoro alla famiglia, dalle emozioni alle forme della comunicazione, per indicare solo alcuni degli argomenti trattati. La seconda parte, invece, ricostruisce i principali fatti storici in ordine cronologico, ma si contraddistingue per un approccio non eurocentrico e per l’accento posto su luoghi e momenti chiave spesso trascurati dai testi scolastici, come ad esempio la fine della “pax mongolica” nell’Asia del XIV secolo, o la cacciata dei “moriscos” dalla Spagna all’inizio del Seicento.

    Un manuale di storia economica

    Un altro interessante manuale universitario di recente pubblicazione è la Storia economica globale del mondo contemporaneo, curata da Carlo Fumian e Andrea Giuntini7, che lo ha presentato durante il seminario. È un libro di testo per studenti universitari, ma pensato anche per un pubblico più ampio, e ambisce a differenziarsi da altri manuali di storia economica per il suo approccio globale e transnazionale. Pur essendo incentrato sul mondo contemporaneo, il testo prende avvio da una sintesi molto ampia del periodo che va dalla metà del XV secolo fino al XIX, lunga epoca nella quale prese forma il sistema capitalistico globale. Sul web è possibile leggere una interessante intervista ai due autori sui temi trattati nel loro libro: dalla industrializzazione in età contemporanea alla rivoluzione commerciale, dalle migrazioni alla diffusione di povertà e disuguaglianze, dalla nascita dell’impresa “globale” al destino dello Stato-nazione.

    Un campo di ricerca da scoprire

    Le relazioni e la discussione che ad esse ha fatto seguito hanno messo in evidenza lo stato fluido della didattica universitaria e scolastica: da una parte legate a modelli tradizionali, che non vengono seriamente messi in discussione, dall’altra lanciate verso innovazioni interessanti, ma per ora scollegate da una puntuale verifica della loro reale ricaduta ed efficacia didattica. In comune, i due ordini di insegnamento hanno il fatto che la ricerca sulla didattica della storia è la grande assente. Quella sulla didattica scolastica, nata con grandi speranze negli anni ’80 del secolo scorso, ora rischia di scomparire per mancanza di ricercatori specializzati; quella sulla didattica universitaria, al contrario, non ha visto mai la luce (in Italia e solo ora se ne parla a livello internazionale). Iniziative come questa del “Laboratorio permanente di didattica della storia”, dunque, sono da sottolineare proprio per il loro carattere sperimentale e coraggioso: ci auguriamo tutti che la didattica della storia possa finalmente accreditarsi nelle istituzioni, in modo che queste possano fornire un contributo stabile e serio alla formazione dei docenti.

     

    * Le immagini sono state cortesemente fornite da Luigi Cajani.

    __________

    1. Johann Buno, Historische Bilder. Darinnen Idea Historiae Universalis : Eine kurtze Summarische Abbildung Der fürnehmsten Geist-und Weltlichen Geschichte durch die vier Monarchien, Lüneburg, 1672.

    2. Laure de Boen de Saint-Ouen, Histoire ancienne mnémonique : avec emblêmes et portraits : méthode nouvelle pour apprendre l'histoire d'une manière prompte et ineffaçable, Parigi, 1837.

    3. Cfr. Antonio Brusa, Guida al manuale di storia. Per insegnanti della scuola media, Roma, Editori Riuniti, 1985.

    4. Loré non è stato fisicamente presente al seminario, ma ha trasmesso il testo della sua relazione. I risultati della ricerca di Loré e Rao sono stati pubblicati nell’articolo Medioevo da manuale. Una ricognizione della storia medievale nei manuali scolastici italiani, “Reti Medievali Rivista”, 18, 2 (2017).

    5. Walter Panciera - Andrea Zannini, Didattica della storia. Manuale per la formazione degli insegnanti, Firenze, Le Monnier, 2006.

    6. Marco Bellabarba - Vincenzo Lavenia (a cura di), Introduzione alla storia moderna, Bologna, Il Mulino, 2018.

    7. Carlo Fumian - Andrea Giuntini (a cura di), Storia economica globale del mondo contemporaneo, Roma, Carocci Editore, 2019.

  • Medioevo, Alpi e didattica museale

    Autore: Antonio Brusa


    Che cosa c’è che tiene insieme questi argomenti così diversi? Be’, il fatto che sono l’anima dell’ultimo numero di “Mundus”, una rivista di didattica della storia, l’unica esistente in Italia, tanto bella (lo dice chi la sfoglia, non il direttore), quanto sconosciuta: questo lo dice il direttore.

    La gran parte degli articoli è concentrata sul medioevo. Si parla della sua influenza sulla moda, ma soprattutto vi sono molte proposte didattiche, fra le quali segnalo il magnifico gioco di Angelo Delli Santi. Si svolge in una città medievale, dopo il Mille. E’ Bari, ma potrebbe essere un qualsiasi altro centro urbano del tempo. Chi gioca, impersona le grandi famiglie che, per svolgere la loro attività (comprare, sposarsi, fare testamento ecc.) hanno bisogno di documenti. Perciò devono darsi da fare con notai e pergamene, con tutto ciò, insomma, che fa la gioia di un diplomatista attuale (o preoccupa lo studente all’esame). I ragazzi apprenderanno il senso e l’uso di una fonte importante, la “carta medievale”, il più delle volte trascurata dalla nostra  manualistica.

    Il tema delle Alpi è affrontato in un dossier, curato da Alessandro Cavalli. La corona alpina è esaminata, regione per regione, ma di ognuna di esse si mette in rilievo un tema, di sicuro interesse didattico. Ho trovato (e mostrato agli insegnanti di Trento) che le Alpi sono un deposito didatticamente ricchissimo, che può essere sfruttato dal docente che spiega la preistoria (ad esempio il primo popolamento della Val d’Aosta), o il medioevo (l’insediamento dei Walser o la costituzione delle micro-comunità); l’età moderna, con le sue guerre di religione (le valli valdesi), per arrivare a quella contemporanea, con i paesaggi della Prima guerra mondiale e le questioni di confine, che hanno accompagnato e seguito la tragedia della Seconda.

    Infine, la didattica museale. O meglio dei “Piccoli Musei”. L’idea fu di Massimo Tarantini, quando organizzò a Siena l’incontro di una decina di piccole realtà museali italiane. Aveva notato (e poi visitando i siti gli ho dato pienamente ragione) che in questi musei, a volte minuscoli, il personale organizza attività magnifiche. Sopperisce con l’intelligenza didattica alla mancanza della spettacolarità dei grandi musei. E i risultati si vedono, sia nel numero di visitatori (decine di migliaia l’anno: molti di più di tanti siti di pregio italiani) sia nelle idee che, a partire dal loro lavoro, possiamo tradurre in classi e in realtà anche distanti.

    Ho avuto, come ho accennato sopra, il piacere di presentare questo numero in una sede eccezionale, il Muse di Trento. E’ andata così bene che vi torneremo (insieme con Romana Scandolari, che lavora appunto in un piccolo museo, quello di Ledro che potete ammirare nella copertina di “Mundus”) per presentare “Il Guinnes dei Primati”, un gioco che vede in competizione uomini e scimmie, per scoprire chi ha dato vita al processo evolutivo migliore (ne parleremo). Il 19 novembre la presento a Torino, grazie alla disponibilità del Cidi, insieme con Giuseppe Sergi e Fabio Fiore.

    Poi, se vi viene il desiderio di prenderla, andate sul sito della Palumbo. Vi troverete il primo numero scaricabile e gli altri, magari da acquistare.

  • Mimesis o montaggio? Verità e menzogna dell’immagine fotografica

    Il Civico Archivio Fotografico del Castello Sforzesco di Milano, il Dipartimento di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano e l'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia riprendono una collaborazione già avviata nel 2013 per proporre al pubblico un ciclo di incontri, a cura di Maurizio Guerri.

    «Da un secolo e mezzo l'immagine fotografica si è inserita nell'orizzonte conoscitivo dell'uomo mutandone il senso e riconfigurandone le funzioni. L'immagine fotografica non è semplicemente un'immagine che si aggiunge in modo neutro ad altri tipi di immagini in ambito artistico, scientifico ecc.; piuttosto la fotografia ha mostrato innanzitutto di mutare il senso il ruolo e la funzione di tutte le pratiche conoscitive del passato. La fotografia non si aggiunge agli altri tipi di immagini rapportandosi a essi in modo neutro, ma ne trasforma la funzione in primo luogo facendo di esse immagini. La fotografia per sua natura si rapporta alle altre modalità di produzione di immagini come oggetti del proprio sguardo.

    Uno dei modi attraverso cui la peculiarità dell'immagine fotografica e la potenza del suo sguardo emergono nella riflessione di filosofi, artisti, scienziati è la questione intorno alla natura mimetico-riproduttiva o creativa-immaginativa dell'immagine fotografica. Il dibattito intorno a tale questione - che inizia con la diffusione stessa della pratica fotografica e prosegue fino ai nostri giorni - si consolida intorno a due poli contrapposti con molteplici variazioni e con infinite implicazioni teoriche: da una parte si sottolinea che la natura dell'immagine fotografica risiede in una dimensione riproduttiva del reale da cui la sua forza di oggettività.

    Proprio su questo assunto – che la fotografia sia una riproduzione più oggettiva delle cose, rispetto agli altri tipi di immagini - si fonda il rapporto che domina a livello di senso comune il nostro sguardo. D'altra parte, una serie di autori hanno messo in luce come l'immagine fotografica sia essenzialmente frutto di un taglio, di un montaggio e la sua forza rappresentativa risieda piuttosto nella possibilità di liberare la conoscenza umana dalla fede in una realtà fissa, data una volta per tutte.
    Obiettivo del laboratorio è quello di considerare alcuni dei testi teorici e delle esperienze artistiche più rilevanti all'interno di questo dibattito sull'immagine fotografica, cercando di porre in relazione la fondamentale questione filosofica con discipline diverse come la cultura visuale, la storia, la storia dell'arte, la storia e la pratica della fotografia.» (testo di Maurizio Guerri).

    Il Civico Archivio Fotografico del Castello Sforzesco di Milano, nato agli inizi del Novecento grazie all’impegno di Luca Beltrami, conserva 850.000 fotografie originali dal 1839 ai nostri giorni ed è un istituto che unisce alle attività di conservazione e valorizzazione del patrimonio iniziative volte a promuovere la cultura fotografica, storica e contemporanea, in collaborazione con realtà istituzionali, associazioni, università, musei. Silvia Paoli, storico dell'arte e della fotografia, docente universitario e membro del Consiglio Direttivo della Sisf (Società Italiana per lo studio della fotografia), ne è Conservatore dal 2001. Tra i suoi ultimi lavori: S. Paoli (a c. di), Luca Beltrami (1854 – 1933). Storia, arte e architettura a Milano, Cinisello Balsamo (MI), Silvana Editoriale, 2014, catalogo della mostra, Milano, Castello Sforzesco, Sala Viscontea, Sala dei Pilastri, Sala del Tesoro, 26 marzo – 29 giugno 2014.

    Qui il programma degli incontri

  • Musei e didattica in un paese serio

    Autore: Antonio Brusa


    Roser Calaf considera questo sito come il culmine della sua attività di studiosa di didattica presso l'Università di Oviedo. Mette in linea la valutazione qualitativa dei programmi educativi di quattordici musei spagnoli (per il momento), dal Von Thyssen di Madrid, fino ai musei dei dinosauri delle Asturie, quelli minerari del nord della Spagna o il museo archeologico di Huelva.

  • Nasce un nuovo master, tra Roma e Lucca, dedicato allo studio delle fonti storiche

    di Tommaso Rossi

    Lumsa

    L’istruzione universitaria italiana offre molti percorsi post lauream eccellenti nelle discipline umanistiche: in Storia, Archivistica, Archeologia e Storia dell’Arte. Nonostante la ricchezza e la proliferazione di percorsi specifici quali master e scuole di specializzazione manca ancora, però, un’offerta rivolta a coloro che, provvisti di un titolo di laurea magistrale in discipline umanistiche o architettoniche, intendano ampliare il proprio bagaglio di conoscenze alla metodologia della ricerca storica e all’utilizzo e alla consapevolezza delle fonti documentarie, artistiche e archeologiche.

    Per tali motivi, dopo un complesso lavoro scientifico di collazione tra i vari percorsi e curricula dei master esistenti in Italia, LUMSA e Accademia Maria Luisa di Borbone hanno pensato ad un nuovo modo di “conoscere” la documentazione presente nei nostri ricchissimi archivi. È nato così il master biennale di 2° Livello in Analisi delle Fonti e Metodologia della Ricerca Storica, che mira a fornire un approccio completo alla metodologia indispensabile a guidare coloro che saranno interessati nel mondo della ricerca. L’idea è quella di introdurre il laureato nell’ambiente della ricerca attraverso insegnamenti specifici e specialistici di Storia, dal Medioevo all’Età Contemporanea, arricchendo il percorso con Storia della Chiesa, Storia degli ordini cavallereschi e Storia delle dinastie.

    Il percorso è stato poi arricchito con la conoscenza approfondita dell’Archivistica e pensato come cantiere di esperienze seminariali di stampo teorico e pratico. Uno stage e un elaborato finale concluderanno il master. In definitiva, tale itinerario formativo si propone come orientamento al mondo del lavoro e della ricerca ma con nuovi approcci in particolare nei confronti delle discipline storico-documentarie. Tra gli sbocchi occupazionali sarà possibile ottenere crediti formativi universitari utili per l’abilitazione alle varie classi di concorso per l’insegnamento nella scuola di primo e secondo grado, nonché costituire un titolo di specializzazione per concorsi pubblici.

    Coloro che concluderanno il percorso, inoltre, otterranno titoli e conoscenze utili per diventare direttori, dirigenti, funzionari e dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in particolare per gli Archivi di Stato, per le Università, per enti pubblici e privati di natura economica, scolastica, documentaristica e di ricerca, enti locali come Comuni e Fondazioni, personale preposto a servizi statistici, a biblioteche, a mezzi di diffusione telematica della documentazione, nonché a ruoli di dirigenza di opere di restauro architettonico per i quali sia prevista non solo la laurea in Architettura, ma anche un titolo specialistico di conoscenza della storia e delle fonti per una corretta ricostruzione “storica” del bene culturale sul quale si lavora. Possibilità di sbocco nella varie soprintendenze archivistiche e bibliografiche, per i beni artistici e architettonici e paesaggistici.

    LUMSA e Accademia Maria Luisa di Borbone, inoltre, per permettere un’ampia partecipazione al master, hanno bandito anche due borse di studio a totale copertura delle quote di partecipazione ai corsi. Le iscrizioni terminano il 20 settembre 2018.

    Programma del master

    Regolamento per la domanda di borse di studio

    Modulistica

  • Passarono dalla Casa Rossa

    Autore: Francesco Terzulli

    Storie di internati fra il 1940 e il 1947


    Su HL si trovano già altri interventi sulla Casa Rossa, che possono fornire l’introduzione a questo “archivio di biografie”, che dobbiamo alla passione di Francesco Terzulli. Come usarlo in classe? In attesa di proposte degli insegnanti, suggerisco questo facile stratagemma. Stampate le biografie, avendo cura di stamparle su pagine separate. Preparate, in questo modo, un piccolo archivio, con il quale “giocare” in classe. Mescolatele e poi proponete agli allievi di classificarle. Qui ho lasciato la classificazione di Terzulli, in modo che vi serva per controllo. Fate scoprire loro di quanti tipi fossero gli internati, da quali regioni provenissero, per quali motivi venissero internati e in quanti periodi si può suddividere la storia della Casa Rossa. Poi, potrete suggerire agli allievi di “preparare un mostra di quelli che passarono dalla Casa Rossa”, cercando di illustrarla con foto e didascalie appropriate, che mettano in collegamento queste biografie con le vicende della “grande storia”. (HL)

     

    Indice

    PRIMA STAGIONE

    Internati inglesi (luglio-agosto 1940)
    Internati ebrei  (1940-1943)
    Internati slavi e italiani non ebrei  (1940-1943)

    SECONDA STAGIONE

    Ex fascisti in colonia di confino (1945-1946)

    TERZA STAGIONE

    Le donne senza nome (1947) nelle cronache del Messaggero

    CRONOLOGIA ESSENZIALE DI CASA ROSSA/MASSERIA GIGANTE

    BIBLIOGRAFIA


                            

    Dietro quel muro comincia un altro mondo- Accidenti che razza di muro, e che ci sono le belve feroci?- No, serve soltanto per i cristiani, anzi per tutti i cristiani. I fascisti ci mettevano gli antifascisti, gli antifascisti ci hanno messo i fascisti; i tedeschi gli italiani, gli italiani i tedeschi, a seconda come girava la ruota...la ruota della storia, la guerra, la pace, la politica. Ora è la volta delle donne...è capace che un giorno tocchi pure a noi.
    (dalla sceneggiatura di Donne senza nome, 1949)


    PRIMA STAGIONE

    INTERNATI INGLESI  (luglio-agosto 1940)

    Arthur

    Arthur, famoso commediografo anglo-napoletano e biografo della famiglia artistica dei De Filippo, arriva il 29.6.1940 da Napoli, parte il 28.8.1940 per il campo di concentramento di Salsomaggiore. Questa la sua biografia: «Arthur Spurle, figlio di padre inglese e di madre napoletana, è nato a Napoli il 1907. L’amore per il teatro Arthur Spurle l’ha ereditato dalla madre e dal nonno materno. La madre, giovinetta, appassionata di canto e di teatro – il cui “salotto”, al tempo delle romantiche “periodiche”, era frequentato dal tenore Fernando De Lucia, dal maestro Bertolini, allievo di Giuseppe Verdi, da Salvatore Gambardella, il celebre autore di ‘O marenariello -, era assidua frequentatrice all’epoca d’oro del teatro a Napoli, del “Nuovo”, del “Sannazaro”, del “Mercadante”, del “Fiorentini” e del “San Carlo”. Passata a nozze, più che raccontare al suo prediletto primogenito le favole di Cenerentola e di Cappuccetto Rosso, narrava le divertenti storie di Scarpetta, di Pantalena, di Pulcinella De Martino e della bell’Adelina Magnetti; mentre il nonno materno, figliuolo di un ufficiale borbonico, portava il ragazzetto dai lunghi capelli rosseggianti nelle sale dei teatri di prosa e varietà. Nel ragazzo anglo-napoletano si andò a mano a mano sviluppando quella passione cui doveva dedicare tutta la vita. Non è facile descrivere quello che Arthur ha raccolto nell’arco di tempo di quasi un cinquantennio. Diciamo subito, a suo onore, che egli è riuscito a salvare dalla dispersione e dalla distruzione il glorioso patrimonio di quasi due secoli di vita del teatro napoletano. Una preziosa miniera, un patrimonio di inestimabile valore artistico e fonte inesauribile di studio: una gran massa di libri sul teatro, sedicimila volumi, e cinquemila copioni manoscritti di tutti quanti i generi napoletani, ed anche tutto quanto il teatro italiano e straniero dell’Ottocento e Novecento. Un archivio di migliaia di rari ritratti di attori, attrici, cantanti, autori; autografi, programmi e locandine, documenti, diari, cimeli. Canzoni e fascicoli piedigrotteschi di tutte le Case Editrici Musicali, dall’800 in poi. All’inizio del secondo conflitto mondiale, Spurle venne internato in Campi di concentramento ad Alberobello (Bari), nel Castello di Scipione e nel Castello di Montechiarugolo (Parma), indi trasferito quale internato civile di guerra a Monteromano, a Grotte di Castro (Viterbo) e Pergola (Pesaro), riuscendo infine a mettersi in salvo, dopo l’armistizio, varcando le linee di combattimento sul versante Adriatico, dove era attestata la 8^ Armata inglese. Riprese il suo posto al Consolato Generale di Gran Bretagna di Napoli, dove ha svolto il suo lavoro per un trentennio presso l’Ufficio Stampa. Ha dato alle scene brillanti lavori: Aprimi il Paradiso, Non scherzate con la dinamite, I papà preferiscono…il bambino, Una famiglia moderna, Il bar della fortuna, Accadde così, rappresentati con vivo successo. Ha terminato di scrivere un classico umoristico: Il salotto di donna Leonora, ricostruzione del teatro comico di metà Ottocento con la maschera di Pulcinella, e con motivi musicali dell’epoca. Nel 1964, la Rai, sul programma nazionale, gli dedicò una puntata di “Gente del nostro tempo”, una trasmissione che si proponeva di presentare ai radioascoltatori le persone “benemerite” nei diversi campi dell’arte, della cultura, delle scienze. Nel 1972, al Teatro di corte di Palazzo Reale di Napoli, ricevette il “Premio speciale Ernesto Murolo” riservato a cultori d’arte particolarmente distintisi per la loro attività nell’interesse del Paese».

     

    Ghangimal

    Ghangimal, nato a Hiderabad (India), 46 anni, hindu, inglese di nazionalità indiana, arriva il 29.6.1940 da Napoli, parte il 28.8.1940 per il campo di concentramento di Salsomaggiore. La moglie di Ghangimal conserva la cittadinanza italiana con l’iscrizione al P.N.F. Fascio Femminile di Napoli mentre i suoi due figli sono iscritti alla G.I.L. Ghangimal è un nazionalista indiano, che indossa con orgoglio l’abito Ghandista ogni volta che si reca in India, la sua terra oppressa dagli inglesi: «egli è seguace di Gandhi e con fervido entusiasmo plaudì, anche per questa ragione, sempre al Duce che la causa dell’oppressa India e di tutte le Nazioni oppresse ha sostenuto e sostiene nella costante Sua alta opera di Governo liberatore di ogni oppressione. All’atto della dichiarazione di guerra dell’Inghilterra, per un provvedimento d’indole cautelativa di ordine generale, in relazione alla qualità di suddito di una Nazione straniera benché oppressa dall’Inghilterra egli fu inviato in campo di concentramento.(…) L’infelice ha conservato più alta che mai la fede nel Fascismo e nella liberazione dai popoli oppressi dall’Inghilterra ed è pronto a aderire al movimento degli “Amici dell’India”, cooperando con tutte le proprie forze al raggiungimento della liberazione della propria Nazione». Egli si definisce «Indiano di origine, ma Italiano di elezione e di anima», e aspira a tornare alla vita libera, all’azione irredentista dei nazionalisti indiani: è stato costretto a non assumere la cittadinanza italiana per tema di rappresaglie nella propria patria soggetta agli inglesi, in occasione dei viaggi per abbracciarvi la mamma. Ha due figli di tenera età, nati in Italia, «ma non denunziati al Consolato Inglese perché già votati prima della nascita, dalla mia volontà alla cara Italia, mia patria d’elezione».

    Ihamatrul

    Ihamatrul, nato a Hiderabad (India) , 19 anni, hindu, inglese di nazionalità indiana, arriva il 29.6.1940 da Napoli, parte il 28.8.1940 per il campo di concentramento di Salsomaggiore. Sarà anche a Corropoli dove sarà arrestato per aver tentato di evadere: «al Segretario Politico del luogo, che gli domandava come fosse uscito dal Campo, rispondeva nei seguenti termini: “I soldi sono merda ed io ne ho tanti e li spendo per ottenere quello che voglio” – ed all’interdizione di tacere, così si esprimeva: “Finirà presto e poi si vedrà”». Insieme ad altri due indiani, in un’osteria, «pronunciava frasi ironiche al cartello pubblicitario esposto al pubblico con la scritta “Silenzio! Il nemico è in ascolto”». Il Pretore di Nereto lo condanna alla prigione per dieci giorni ma, in aggiunta a questo periodo, è trattenuto in carcere altri trentadue giorni, suscitando le vive proteste della Legazione Svizzera in Italia, che cura gli interessi degli inglesi in Italia, per la palese violazione da parte italiana delle disposizioni del Codice dei prigionieri di guerrain materia di pene giudiziarie e disciplinari e che chiede un rimborso per questo periodo supplementare, nel quale l’internato indiano ha dovuto completare a proprie spese l’insufficiente vitto ricevuto. A tale richiesta si oppone il Prefetto di Teramo, che lo fa diffidare, non riuscendo a trasferirlo su un’isola.

     

    John

    John, nato a Napoli, 22 anni, cattolico, inglese, studente, arriva il 29.6.1940 da Napoli, parte il 28.8.1940 per il campo di concentramento di Salsomaggiore. Testimonianza:

    «Alcuni giorni dopo la dichiarazione di guerra, mio fratello Charles ed io fummo invitati in Questura (Pozzuoli, Napoli) per comunicazioni, non facemmo più ritorno a casa se non alla fine della guerra. La famiglia in serata fu avvisata che eravamo stati trasferiti a Poggioreale (il carcere di Napoli) e che potevano visitarci e portare indumenti. Dalla questura di Pozzuoli fummo trasferiti alla Questura di Napoli dove trovammo altri inglesi, conoscenti e non. Dalla questura di Napoli fummo trasferiti al carcere di Poggioreale e rinchiusi in celle. Dopo alcuni giorni fummo avvisati dagli agenti di custodia che ci avrebbero trasferiti. Infatti il gruppo dei diciassette fummo trasferiti in manette alla stazione centrale di Napoli partenza per Bari. Da Bari ci trasferirono, questa volta senza manette, all’Istituto agrario di Alberobello.

    Logicamente l’Istituto non era attrezzato per ospitare notte e giorno internati, mancava anche la cucina ed i gabinetti erano pochi ed insufficienti. Con buona volontà di tutti, compresi i tre carabinieri addetti alla nostra sorveglianza, - persone molto gentili e comprensivi - , riuscimmo a sistemarci abbastanza bene. Le autorità crearono la mensa che ognuno di noi pagava dal soldo che il Governo Italiano passava ad ogni internato (lire cinque al giorno). A coloro che erano considerati benestanti non veniva dato il sussidio quindi dovevano provvedere a proprie spese al mantenimento. Logicamente si fece reclamo, essendo i nostri beni sequestrati e dati in consegna al Banco di Napoli di cui non ci rimetteva nulla. In fine ci venne riconosciuto il sussidio anche agli altri ritenuti benestanti che eravamo la maggior parte. I tre Indiani trovarono difficoltà per il mangiare e si cucinavano direttamente. Il tempo lo passavamo a passeggiare, scrivere studiare perché alcuni non parlavano inglese.

    I carabinieri molto gentili con facilità ci davano il permesso di andare in paese a fare spese e loro non hanno mai avuto di che lagnarsi di noi internati. Si visitavano i Trulli, si parlava con i paesani, in altri termini buona accoglienza. Dopo alcune settimane venne internato nel nostro campo un ferroviere italiano che purtroppo dopo alcuni giorni  dopo il nostro trasferimento a Salsomaggiore, morì di tifo (in realtà il suo decesso fu dovuto a peritonite, n.d.r.). Dopo un mese di permanenza in diciassette, diventammo quasi cinquanta inquantochè furono trasferiti nel nostro campo alcuni ebrei. Gente calma, mai attriti fra di noi, alcuni con problemi per il mangiare, molti non in buona salute a cui veniva dato il permesso per recarsi in Paese dal medico addetto al campo. Il signor  Enrico, professore di pianoforte e di altri strumenti, delle volte ci allietava con la chitarra. In tutti i modi non davamo fastidi alle autorità e non avevamo fastidi.

    Dopo due mesi fummo trasferiti al Castello di Salsomaggiore assolutamente non adatto ad ospitare molte persone quasi un centinaio, internati provenienti da tutta Italia. A nostra richiesta tramite il Governo Svizzero il Ministero degli Interni italiano inviò un ispettore accompagnato da un funzionario svizzero. Vista l’impossibilità del castello di ospitare tante persone, un gruppo fu trasferito al Castello di Montechiarugolo, alcuni furono inviati in paesini come internati liberi uniti alle famiglie che, a loro volta, erano stati internati liberi in paesini a loro scelta. Nel Castello di Montechiarugolo trovammo altri internati in maggioranza jugoslavi (marittimi). A Montechiarugolo avemmo dei fastidi con il Commissario che intendeva il Campo di concentramento prigione, non avevamo il permesso di mettere sulla tavola da pranzo le tovaglie, un bicchiere per tre persone, mangiare acquiccio, una volta alla settimana carne. Immediatamente si fece reclamo. Il ministero mandò immediatamente un prefetto accompagnato questa volta dal Console Svizzero. Ottenemmo immediatamente tutto anche il permesso di recarci a Reggio Emilia dal dentista o cure mediche. Dalla Svizzera ricevevamo tutto il necessario per vivere bene, pacchi con vestiario, cappotti, cioccolata, sigarette, scatolame e sussidi inglesi. Logicamente avevamo tanta di quella roba che distribuivamo a quelli d’altre nazionalità che non ricevevano aiuti dai loro governi, agli agenti e carabinieri pacchi completi.

    Nel Castello di Montechiarugolo, facevamo teatro, concerti, alla domenica messa cantata con coro diretto da Direttore d’orchestra nostro internato. Molti, dopo quasi un anno, hanno avuto il permesso di raggiungere le famiglie da internati liberi. Io e mio fratello raggiungemmo mamma e papà a Canino, provincia di Viterbo. Bene accolti dai paesani, completamente liberi di andare al cinema e per il paese. Da Canino fummo trasferiti come internati liberi a Loro Ciuffenna, provincia di Arezzo. Sempre ben voluti dalle autorità e dalla popolazione. A Loro Ciuffenna ci raggiunse l’armistizio. Divenimmo liberi cittadini però non fu possibile ritornare a casa per mancanza di mezzi di trasporti. Sempre a Loro Ciuffenna ci incolse la ritirata dei tedeschi e dovemmo darci alla macchia sui monti e con altri paesani davamo aiuto ai vari soldati Inglesi fuggiti dai campi di concentramento militari. All’arrivo delle truppe inglesi fummo completamente liberati».

     

    INTERNATI EBREI  (1940-1943)

    Amsterdam Arthur di Joseph

    Nato a Offenbach am Main il 27.3.1922, 18 anni, negoziante di pelletterie, tedesco, arriva da Milano il 28.7.1940, parte per il comune di Fermignano il 20.12.1941, straniero genericamente sospetto.  Arrestato a Urbino (PS) il 12.8.1944 da tedeschi, detenuto nel carcere di Forlì; morto in Italia, in eccidio, per mano tedesca: Forlì, campo d’aviazione, 5 settembre 1944.

    Aurelio

    Nato a Zelina, 32 anni, ex jugoslavo, arriva dal carcere di Padova il 15.12.1942, parte il 6.9.1943 per il campo di concentramento di Farfa Sabina, internato dalla Questura di Lubiana (insieme al padre Giulio) il 27.12.1942; «i soprascritti stranieri risulterebbero appartenenti alla razza ebraica e sarebbero di nazionalità croata. I predetti profughi da Zagabria, per sottrarsi alle note persecuzioni degli ustascia, entrarono clandestinamente nel Regno nel giugno dello scorso anno e risedettero temporaneamente in questa città fino al novembre o dicembre successivo, epoca in cui ottenuto indebitamente il lasciapassare per il Regno partirono alla volta di Padova.(…) Stante la circostanza della razza e per di più trattandosi di profughi dai territori ex jugoslavi emigrati in Italia clandestinamente, tenuto conto di quanto riferito dall’Ispettore Generale, questo Ufficio propone che vengano fermati ed internati in un campo di concentramento del Regno. L’ispettore generale di Polizia , in data 10 ottobre 1942, ha mandato la seguente nota alle questure di Lubiana e di Padova: da alcuni mesi alloggiano nell’albergo “Italia” di Molcesino (Verona) due sloveni provenienti da Lubiana. Dovrebbe trattarsi di padre e figlio. Sere or sono ebbi occasione di essere presentato ed intrattenermi con essi, in conversazione ed ho potuto farmi la precisa netta convinzione di trovarmi di fronte a due “belle figure di patrioti jugoslavi”. Ricordo che, ritenendo che essi fossero due simpatizzanti dell’Italia inizia la conversazione col chiedere se mancassero da molto da Lubiana e se questa fosse ora tranquilla. A tale domanda, i due reagirono vivacemente con le seguenti frasi:” Come può essere tranquilla…non sarà mai tranquilla se non le verrà data la sua indipendenza”. Ad altre mie domande, risposero con frasi del genere: “Gli sloveni non possono avere fiducia nell’Italia, perché dagli sloveni dell’Istria hanno saputo come si sta sotto l’Italia. Noi sotto la Jugoslavia si stava bene, avevamo i nostri rappresentanti al Governo Nazionale, eravamo considerati e ben trattati. Erano i croati che non andavano d’accordo con i serbi non noi. Anche noi non andavamo d’accordo con i croati. Voi pretendete che noi parliamo l’italiano e che la lingua ufficiale sia l’italiano, mentre ciò non era affatto preteso dalla Jugoslavia».

    Bermann Moritz

     di Wilhelm, nato a  Leinberg in Germania il 28.5.1882, 58 anni, fotografo, tedesco, arriva da Milano il 28.7.1940, parte per la provincia di Chieti il 20.12.1941, straniero genericamente sospetto.  Arrestato in provincia di Firenze nel dicembre 1943 da italiani. Detenuto a Bagno a Ripoli campo, Firenze, Milano carcere. Deportato da Milano il 30.1.1944 a Auschwitz. Ucciso all’arrivo a Auschwitz il 6.2.1944.

    Davide

    Ex jugoslavo (serbo), arriva il 19.9.1942 dal carcere di Treviso, internato dalla Prefettura di Treviso il 21 agosto 1942: «provenienti dalla Dalmazia furono internati nel dicembre u.s. nel comune di Cavaso del Tomba gli ebrei in oggetto, i quali da qualche tempo conducono tenore di vita non conforme al loro stato d’internamento. Irrequieti e ribelli a qualsiasi disciplina non ottemperano alle prescrizioni loro imposte e si allontanano dalla loro sede senza autorizzazione per recarsi persino a Venezia, in compagnia di alcune distinte signorine del luogo forse in buona fede ed ignare delle conseguenze a cui si esponevano a causa della diversità della razza, hanno accettato le loro insistenti manifestazioni di affetto e di simpatia permettendo anche di farsi fotografare o che essi apponessero affettuose dediche sulle fotografie. Questo stato di cose ha prodotto sfavorevolissime impressioni nel piccolo paese di Cavaso del Tomba ed ha provocato anche qualche scandalo tra alcune famiglie per cui hanno dovuto intervenire le autorità locali. Rendendosi necessario l’immediato allontanamento dei predetti ho disposto che venissero fermati e rinchiusi nelle locali carceri a disposizione della Questura, in attesa delle determinazioni di codesto Ministero, cui propongo che vengano inviati in un campo di concentramento».

    Feintuch Mayer di Henia

    Nato a Kalisz (Polonia) il 10.12.1897, 43 anni, fabbricante, tedesco, arriva da Milano il 28.7.1940, parte per il c.c. di Ferramonti il 27.7.1941, straniero genericamente sospetto. Arrestato a Castelnuovo Garfagnana (LU) il 30.11.1943 da italiani. Detenuto a Bagni di Lucca campo, Lucca carcere, Firenze carcere, Milano carcere. Deportato da Milano il 30.1.1944 ad Auschwitz. Deceduto in luogo e data ignoti.

    Giacomo

    Nato a Roma, 32 anni, commerciante,  italiano, arriva il 16.9.1942 dal carcere di Roma, parte il 19.12.1942 per l’internamento in provincia di Pesaro, internato dalla Questura di Roma il 12.8.1942; «precettato (il 23 giugno 1942) e adibito quale manovale ai lavori di svasamento delle golene del Tevere, è stato segnalato dal Commissariato di P.S. di S.Paolo per avere, l’11 luglio u.s., rifiutato l’acconto spettantegli affermando non essere quello il denaro dovutogli. Poiché il capo-cantiere cercava di fargli comprendere che, essendo stato classificato con rendimento del 25% rispetto agli ariani, aveva diritto al salario di £.0,90 all’ora, Giacomo, alzando la voce, inveiva contro il capo-squadra, minacciando persino di passare a vie di fatto, ed asserendo, fra l’altro, che voleva spaccare la testa a tutti. Tale incidente, se rimanesse impunito, sarebbe indubbiamente di cattivo esempio per tutti gli ebrei precettati (…) perché il provvedimento serva di esempio agli altri che si trovano nelle sue stesse condizioni, Giacomo è stato associato nelle locali carceri giudiziarie».

    Ladislao

    Nato a Budapest, 33 anni, medico,  apolide ex ungherese, arriva il 25.7.1942 dal c.c. di Civitella del Tronto, parte il 21.11.1942 per il c.c. di Ferramonti; nota della Questura di Bari del 28.8.1942: «per quanto nessun rapporto informativo sia pervenuto sul conto del predetto, è necessario esercitare nei suoi confronti oculata vigilanza, essendo stato segnalato dalla Prefettura di Teramo come elemento altezzoso, prepotente e litigioso». Ladislao si trova ad Alberobello per punizione perché, nel precedente luogo d’internamento, «è riuscito a contrarre relazione amorosa con una signorina del luogo ed a prestare nascostamente la sua opera di medico in una delle case coloniche non molto distanti dal campo stesso». Ladislao chiede ben presto di essere trasferito da Alberobello, «anche sotto forma di un internamento in un istituto di cura (tubercolosario, manicomio, ospedaletto di provincia) ove potrebbe rendersi utile, se non come medico, come infermiere o tecnico addetto alla sala operatoria, alla sterilizzazione, radiologia, laboratorio d’analisi etc .» Ladislao vuole continuare le ricerche relative a due studi scientifici: il primo riguarda un filo di sutura radiopaco che permette di controllare, con semplice radiografia, lo stato delle suture interne (utile nelle diagnosi di complicazioni postoperatorie negli operati di stomaco e d’intestino), mentre l'altro si riferisce ad un cranio trasparente e permette una comparazione in tutte le proiezioni tipiche ed atipiche della craniologia Röntgen. I due studi volutamente pratici «per causa delle leggi razziali, che impedivano la pubblicazione di studi scientifici, sono di mia assoluta proprietà intellettuale, dall'idea all'esecuzione quasi completa.  I vari studi tecnici e tutto il lavoro fu eseguito da me solo, senza alcun aiuto o facilitazione, senza l'ausilio dell'attrezzatura di un istituto scientifico o industriale quando nella fase conclusiva nel settembre del 1940 fui arrestato a Milano dove mi trovai per studiare gli aspetti industriali della questione.  Coll'arresto ed il conseguente internamento, persi buona parte del mio materiale di studio, che non potei più recuperare e fui impedito di offrire, come era mia intenzione, al Governo Italiano i risultati del mio lavoro». La richiesta di Ladislao, tesa anche ad avere qualche strumento per proseguire le ricerche, è accompagnata dalla seguente nota del direttore del campo d’Alberobello: essendo di razza ebraica non si acconsente di esercitare la sua professione di medico.

     Marco

    Nato a Roma, 23 anni, manovale, italiano, internato dalla Questura di Roma il 4.11.1942, arriva il 15.12.1942 dal carcere di Roma, parte l’11.8.1943 perché liberato con disposizione telegrafica del 6 agosto 1943: «occupato quale mobilitato civile fin dal 19 agosto u.s. nei lavori stradali presso l’impresa C. sulla via Cassia Vecchia, dal 5 all’8 settembre u.s. abbandonò il lavoro senza giustificato motivo. Diffidato, in data 9 detto, a riprendere senza indugio lavoro, il giorno successivo riprese lavoro, ma lo abbandonò nuovamente il 15 detto, senza più ripresentarsi alla ditta alla quale era stato assegnato. Avendo, pertanto, il M. dato prova di cattiva volontà di adempiere agli obblighi impostigli si propone che il medesimo venga internato in un campo di concentramento».

    «Sono andato via da Alberobello nei primissimi giorni di agosto del 1943, dopo la caduta di Mussolini. I carabinieri mi avevano avvisato: “Stai attento ché ti arriverà il fonogramma e partirai subito!”. Infatti una bella mattina uno di loro mi disse:”Ueh, romano, svelto che te mannano a casa!” E io:”ma me stai a prendere in giro!” “No, no, guarda, ecco il fonogramma!”. Fui prosciolto e in treno ritornai a Roma. Qui dopo l’8 settembre mi sono trovato nella bufera delle persecuzioni. Devo ringraziare un sacerdote, don Molvino  e tutta la sua diocesi: ci ha tenuto lì e ci ha salvato non solo a me ma anche a molti altri. Ci nascondeva nelle catacombe di quella chiesa di via Donna Olimpia, a Monteverde, dove abitavo con la mia famiglia. Eravamo sempre una ventina. Siamo rimasti nascosti lì dalla persecuzione dei tedeschi fino alla liberazione di Roma. Durante le persecuzioni, poi, è stato preso mio fratello che è morto in Germania ma non ricordo dove. Io vorrei che si sappia che non tutti gli italiani sono stati cattivi. Vorrei ringraziare tutto il paese di Alberobello perché sono stati veramente bravi e buoni. La prima volta che ho avuto contatto concreto con loro, o meglio urto, perché per me che uscivo dal carcere era un urto, ebbi un’impressione perfetta, un aiuto sostanzioso, quel pane che mi serviva per vivere».

    cartolina diretta a un internato ebreo di Casa Rossa (1943)

     

    Mario

    Nato a Mantova, 31 anni, rappresentante di commercio, italiano, arriva il 12.8.1942 da Mantova, parte il 6.9.1943 per il campo di lavoro di Castelguido; ha una sorella internata nel c.c. di Solofra (AV), internato dalla Prefettura di Mantova il 30.6.1942, «la sua appartenenza alla razza ebraica non gli ha, finora, procurato nocumento alcuno, anzi, per la sua mentalità, forse il vantaggio di non farlo richiamare alle armi. Egli ostenta il suo comodo tenore di vita, è arrogante nel suo modo di fare e nel suo contegno in pubblico, ed anche di recente, il 13 di questo mese, ad una persona che, riferendosi al provvedimento legislativo della precettazione per l’avviamento al lavoro degli ebrei, gli diceva che ormai sarebbe andato a lavorare, ebbe a rispondere che a lavorare ci sarebbero andati gli altri, e che egli, intanto, se ne andava a Pegli a fare i bagni, facendo seguire alle parole un gesto volgarissimo con il braccio, all’indirizzo del suo interlocutore. Mario, per fingere di vivere onestamente, suole prelevare, da qualche negozio, dei tagli d’abito che poi rivende, ma tali miseri introiti non gli possono consentire il tenore di vita dispendioso che egli in effetti conduce, sempre elegante ed azzimato, sempre con donne, sempre sfaccendato nei caffè e nei locali pubblici». Soltanto il 25 agosto del 1943, a seguito di riesame della sua pratica, il Capo della Polizia gli concede la revoca dell’internamento ma il provvedimento giunge ad Alberobello troppo tardi: il 6 settembre è trasferito a Castel di Guido, insieme ad altri 57 internati. Come tutti gli altri si dà alla macchia e soltanto il 14 settembre si presenta alla Questura di Roma dove è formalmente liberato e rimpatriato a Mantova con foglio di via obbligatorio. Molti mesi dopo la chiusura del Campo, la sorella di Mario mostrerà di averne perso le tracce e di soffrire le nuove apprensioni per le persecuzioni razziali scattate dopo l’Armistizio: «Sono ancora tra i vivi per miracolo. Il mio pensiero è per te e per tutti i famigliari. Puoi immaginare il mio tormento non sapere nulla del mio Sandrino, della mamma, papà e tutti. Ho spedito da Solofra un messaggio, spero che arrivi così almeno la mamma non sta in pena per me. Vorrei che tu fossi ancora costà (nel campo di Alberobello, n.d.r.) perché se tu fossi a Mantova ti sarebbe capitata una sorte peggiore. Penso quanto soffriranno i miei cari».

    Secondo

    Nato a Ferrara, 34 anni, industriale, italiano, arriva il 24.4.1942 dal c.c. di Manfredonia, parte il 30.7.1942 in licenza per Bologna, internato dalla Prefettura di Ferrara il 4.6.1940; «l’israelita Secondo è uno dei pochi ebrei di Ferrara che, allorché vennero emanati i noti provvedimenti razziali, assunsero subito un palese atteggiamento di resistenza alla legge e di ostilità al Regime, tanto da provocare frequenti reazioni nell’elemento fascista. Il predetto è figlio di un vecchio e convinto assertore delle ideologie socialiste il quale, dopo ripetute diffide, è stato recentemente sottoposto ai vincoli dell’ammonizione per i suoi continui apprezzamenti sfavorevoli al Regime e per le frasi astiose con cui critica l’attuale politica dell’Italia. Cresciuto alla scuola paterna, il medesimo non ha mostrato mai di simpatizzare per il Fascismo ed all’atto dell’applicazione delle leggi razziali, vedendosi leso nei propri interessi economici, manifestò subito il proprio odio verso il Governo Nazionale, criticandone le direttive politiche con parole che spesso assumevano forma di propaganda deprimente e sobillatica. Il suo contegno fece allora sospettare che egli avesse rapporti con l’Internazionale Ebraica e da varie fonti fu segnalato come individuo pericoloso. In una nota del 14.12.1939 trasmessa da codesto Ministero a questo Ufficio veniva descritto come disfattista. Le indagini eseguite per accertare la di lui attività non consentirono la raccolta di elementi sufficienti per la sua sottoposizione a provvedimenti di polizia; si poté però constatare come egli, accompagnandosi agli ebrei più sospetti, parlasse con loro di politica e traesse frequentemente dai commenti ai fatti del giorno occasione per pronosticare una guerra che, a suo dire, avrebbe consentito, con la rovina del fascismo e del nazionalsocialismo, la vendetta degli israeliti perseguita dagli Stati totalitari. Ora che la guerra pare imminente, Secondo, che per l’ammonizione del padre ed il disprezzo a cui è fatto segno dai fascisti del luogo, nutre un’avversione più intensa verso il fascismo e l’arianismo, torna a manifestare con maggiore frequenza e con maggiore inopportuna loquacità, le teorie sovversive di cui è imbevuto prospettando con malcelata letizia i rischi di una guerra. È, quindi, probabile, che i suoi principi antinazionali possano stringerlo in un prossimo futuro a compiere qualunque azione illecita ai danni del Regime. Con la sua sorda propaganda disfattista, egli potrebbe inoltre destare allarme, deprimere lo spirito pubblico e compromettere la resistenza della nazione di fronte al nemico».  

    Umberto

    Nato a Roma, 37 anni, impiegato, italiano, internato dalla Questura di Roma il 10.6.1940: arriva l’11.8.1941 dal c.c. di Isola Gran Sasso, parte il 13.1.1942 per il c.c. di Urbisaglia; il 24 aprile 1942 è internato nel comune di Camerino ma, poiché in quel comune e a Castelraimondo sono successi incidenti provocati da suo fratello  Vittorio, è trasferito nel comune di Capestrano (AQ) «tenuto conto che il predetto venne segnalato quale critico aspro della politica razziale e simpatizzante del partito comunista». Umberto  è iscritto al Partito Nazionale Fascista dal 1919, ha fatto parte della squadra di azione nazionalista dal 1920 ed è stato tesserato all’associazione antibolscevica. Durante una licenza a Roma, l’ebreo  Umberto, che aveva un negozio in Piazza Capranica, è segnalato da uno zelante avvocato italiano perché è visto «circolare liberamente per Roma» e sulla lettera è annotato a penna «è un elemento pericoloso!». Ad agosto del 1943 la madre di Umberto chiede ancora la liberazione del figlio, «valendo a ricomporre almeno in parte la dispersa famiglia della scrivente che ha un figlio in America, un internato e l’altro condannato a 20 anni di reclusione per reati politici».

    Urbach Leo di Hermann

    Nato a Vienna il 23.6.1914, 26 anni, orologiaio, tedesco, arriva da Milano il 28.7.1940, parte il 2.12.1941 per il c.c. di Bagni di Lucca,straniero genericamente sospetto. Arrestato a Bagni di Lucca (LU) il 30.11.1943 da italiani. Detenuto a Bagni di Lucca campo, Lucca carcere, Firenze carcere, Milano carcere. Deportato da Milano il 30.1.1944 a Auschwitz. Liberato.


    Zaitscheck Hans di Leopold

    Nato a Vienna il 14.11.1909, 31 anni, tedesco, arriva il 28.7.1940 da Milano, parte il 3.11.1940 per un comune della provincia di Foggia (Castelnuovo della Daunia?), straniero genericamente sospetto. Detenuto a Fossoli campo. Deportato da Fossoli il 5.4.1944 ad Auschwitz. Deceduto in data e luogo ignoti.

    Zeller Arthur di Beniamino

    Nato a Vienna il 23.12.1910, 30 anni, pellicciaio, tedesco, arriva il 28.7.1940 da Milano, parte il 14.7.1941 per il c.c. di Ferramonti, straniero genericamente sospetto. Arrestato da italiani, detenuto a Fossoli campo. Deportato da Verona il 2.8.1944 ad Auschwitz. Deceduto in luogo e data ignoti.

    china dipinta da un ebreo internato a Casa Rossa (1942)


    INTERNATI SLAVI E ITALIANI NON EBREI (1941-1943)

    Alfredo

    Nato a Genzano di Roma, 44 anni, italiano, fabbro, arriva il 13.7.1943 dalla colonia di confino di Pisticci, parte il 1°.9.1943 per Roma perché liberato, già confinato dalla Questura di Roma il 16.11.1936; «anarchico schedato, svolge propaganda contro il Regime e il Duce, si è legato al noto repubblicano  Dante, uno dei dirigenti del gruppo “Giustizia e Libertà”».

    Anteheo

    Nato a Mohronog (Lubiana), 28 anni, ex jugoslavo, impiegato, arriva il 4.8.1942 dal carcere di Ferrara, parte il 6.11.1942 per Ferrara, internato dalla Prefettura di Ferrara il 19.6.1942; «Anteheo ricevette per via postale una lettera scritta in provincia di Lubiana ed imbucata a Padova da un soldato giunto colà in licenza, con la quale una sua amica gli comunicava che diversi suoi parenti erano stati fucilati dalle truppe d’occupazione e lo rimproverava per avere abbandonato la sua “Patria” al fine di risiedere tranquillamente nello stato nemico del suo popolo. Anteheo, in preda al dolore causatogli dalla notizia della fine dei suoi congiunti, dopo avere abbondantemente bevuto, chiuse con gesto violento, alla presenza degli altri appigionanti, la radio della pensione che trasmetteva i “commenti ai fatti del giorno”, dicendo che era ora di finirla con questa guerra. Quindi, dopo avere compiuto un gesto di sprezzo verso lo scudetto littorio che uno degli astanti portava all’occhiello, si ritirò in camera sua e a degli studenti che, impietositi per il suo stato, cercavano di confortarlo, narrò che tutti i suoi congiunti erano stati uccisi da camicie nere della M.V.S.N. e che lui intendeva rientrare a Lubiana per raggiungere i ribelli nel bosco e vendicarsi contro gli italiani». Esalta l’attività dei ribelli jugoslavi, fa apologia del delitto politico e manifesta odio per il Fascismo. Afferma che la responsabilità della guerriglia è del Comando Italiano il quale dopo aver promesso l’impunità a coloro che avessero deposto le armi per tornare alle loro case, ha adottato gravi provvedimenti nei loro confronti. «Ad una domanda rivoltagli sui motivi per cui nutre contro la Milizia un odio maggiore di quello che manifesta per l’esercito, lo stesso spiegò che le ragioni sono palesi ove si pensi che la Milizia è una forza armata che simboleggia il Regime Fascista. Fece osservare che in Italia coloro che non condividono la politica del Regime agiscono sempre con tanta imprudenza da farsi subito identificare dalla Polizia e spiegò come, al suo paese, si operi con più decisione, tanto da procedere alla soppressione violenta delle figure politiche invise, armando la mano di un sicario che, nell’atto in cui compie l’attentato, viene subito ucciso dal mandante il quale elimina così le prove dell’organizzazione del delitto ed ha la possibilità di far credere di aver ucciso l’attentatore o in preda all’ira generata in lui per l’uccisione di una eminente personalità o al fine di impedire il gesto insano».

    Cristofaro

    Nato a Konjevrate, 56 anni, ex jugoslavo, contadino, arriva il 16.9.1942 dal carcere di Sebenico, parte il 5.4.1943 per Zara per revoca dell’internamento, internato dalla Prefettura di Zara il 25.7.1942; «Ha un figlio a Zagabria allievo ufficiale degli ustascia, risulta individuo di sentimenti notoriamente a noi contrari. Insieme ad un certo frate del luogo, ora esponente degli ustascia della zona ed anche dopo la nostra occupazione non ha tralasciato, sebbene più copertamente, di svolgere la sua attività politica, in modo a noi ostile, facendo attivissima propaganda irredentista croata. Come è noto il governo di Zagabria ha arbitrariamente effettuato dei richiami nelle sue FF.AA. di cittadini nativi e residenti nel territorio annesso. In tale occasione il Cristofaro. avrebbe nel suo esercizio di osteria invitato i presenti ad ubbidire agli ordini dei Croati per contribuire a assediare gli italiani della Dalmazia. Insieme al suddetto frate, Cristofaro pare mantenga stretti contatti con le autorità croate; è stato accertato comunque che i due – sprovvisti di ogni autorizzazione – si recano sovente nello stato croato. Tra la popolazione locale costui cerca di ingenerare l’odio contro l’Italia e l’attaccamento alla Croazia con ogni sorta di mezzi. (…) Nel suo esercizio – frequentatissimo da tutte le persone più sospette in linea politica – è esposto al posto d’onore un grande quadro di Ante Pavelic. Solo dietro invito dell’Arma, il M. si è poi deciso ad incollare in un angolo dell’osteria due piccoli ritratti del Re Imperatore e del Duce, ricavati da due ritagli di giornali. È questo un particolare alquanto significativo». Del croato Crsta, ex capo degli ustascia di Konievrate e collaboratore del sacerdote Bernardo, anch’egli ustascia croato, il Governo Italiano dovrà occuparsi per un caso diplomatico sollevato dalla Legazione di Croazia, secondo la quale l’internato deve essere rimpatriato in Croazia perché «era buon croato e noto per le sue simpatie verso l’Italia fascista. Come tale è noto a molte personalità politiche croate». Per non inimicarsi l’alleato Pavelić, il Duce concede a Crsta la grazia e lo libera, dopo aver avuto dal prefetto di Zara una liberatoria, motivata dalla dichiarazione dell’interessato di volersi trasferire definitivamente nel territorio della Croazia.

    Francesco

    Nato a Mattuglie, 42 anni, italiano, meccanico, arriva il 24.9.1942 dal carcere di Fiume, parte il 29.12.1942 per il Sanatorio Antitubercolare di Bassano del Grappa, internato dalla Prefettura di Fiume il 2.8.1942; «da tempo svolgeva propaganda disfattista fra i militari ed esercitava la ricettazione di indumenti militari. Ammise che, unitamente al Vladimiro, aveva spinto i militari a rubare indumenti dell’Esercito per venderli a loro che, a loro volta, avrebbero provveduto a venderli a Fiume presso ricettatori. Ammise anche che il Vladimiro aveva svolto propaganda disfattista asserendo che l’Asse non avrebbe mai potuto vincere la guerra perché la Russia era superiore per uomini e per mezzi bellici; che l’Italia aveva fatto male ad allearsi con la Germania perché fra poco i tedeschi avrebbero comandato in Italia e che infine in questi territori si stava molto meglio prima, quando c’era il dominio jugoslavo o austriaco, che adesso che c’è il Fascismo. Negò però una partecipazione diretta a tale propaganda disfattista».

    Giovanni

    Nato a Lissa, 27 anni, ex jugoslavo, contadino, arriva il 9.8.1942 dalla colonia di confino di Pisticci, parte il 6.9.1943 per il campo di lavoro di Castelguido, internato dalla Prefettura di Spalato il 29.7.1941; «comunista indiziato di propaganda antifascista ed antiitaliana, dichiara che tra non molto vincerà lo stato bolscevico e che il Duce e il Fuhrer saranno deportati in Siberia per essere fatti morire di fame insieme ai traditori della Russia e che a si sarà a Lissa vendetta contro iscritti e simpatizzanti del P.N.F. e che la lira precipita verso la svalutazione».

    Ivan

    Nato a Civitavecchia, 36 anni, italiano, cattolico, marmista, arriva il 7.8.1942 dal Campo di Ariano Irpino, parte il 13.10.1942 per revoca internamento, anarchico schedato, più volte arrestato, carcerato e confinato; il 2.9.1928 è assegnato alla Colonia di confino di Lipari per 5 anni; il 21.9.1932 è tradotto a Ponza; il 2.12.1932 per atto di clemenza del Duce, in occasione del Decennale della Rivoluzione Fascista, è prosciolto dal rimanente periodo di confino; il 30.7.1940 è tradotto a Ventotene come elemento pericoloso all’ordine pubblico “nelle attuali contingenze”; il 3.10.1941 arriva al campo di concentramento di Fabriano; il 16.1.1942 è internato nel comune di Lauro, in provincia di Avellino; il 15.4.1942 è proposto per l’allontanamento dal comune di Lauro: «ha serbato atteggiamento equivoco, preferendo la compagnia di altri internati per motivi politici, coi quali chiacchiera continuamente, criticando l’attività dell’amministrazione comunale e degli organi del Partito e non mancando, sempre che se ne offra la possibilità, di fare propaganda di idee sovversive».

    Nicola

    Nato a Poglizza, 40 anni, ortodosso, ex jugoslavo, contadino, arriva il 16.9.1942 dal carcere di Zara, parte il 29.12.1942 per la colonia di confino di Pisticci, internato dalla Prefettura di Zara il 27.7.1942; «è tipo parolaio, di carattere prepotente. In linea politica risulta che sotto l’ex governo jugoslavo faceva parte del partito comunista. Dopo l’annessione ha continuato a nutrire gli stessi sentimenti divenendo, quando l’occasione glielo permetteva, propagandista antiitaliano, cercando a tal scopo di avvicinare i contadini del luogo per convincerli all’idea comunista.(…) durante l’inverno scorso avrebbe portato oltre il fiume Zrmania  acquavite e vino destinato ai ribelli della Zika e che non molto tempo fa è andato profetizzando tra quelli che poteva avvicinare l’imminente vittoria russa sulle potenze dell’Asse, minacciando coloro che si astenevano dal parteggiare per i ribelli con la prospettiva che un giorno sarebbero stati chiamati a rendere conto di quello che avevano fatto, mentre i loro fratelli combattevano contro le truppe italiane. Inoltre è andato dicendo che non sono rispondenti a verità le vittorie che i giornali italiani comunicano come riportate sui nostri nemici perché è invece la Russia che sta vincendo».

    Pietro

    Nato a Ponte di Veglia, 31 anni, ex jugoslavo, carpentiere, arriva il 14.9.1942 dal carcere di Capodistria, parte l’11.2.1943 per il Sanatorio Antitubercolare di Teramo, internato dalla Prefettura di Fiume; «Pietro che è contabile della cooperativa contadini di Ponte, composta di individui tutti con tendenze comuniste, è ritenuto uno dei capi dell’organizzazione comunista di Ponte che teneva in soggezione tutta la popolazione del luogo con la minaccia di rappresaglie per il giorno in cui in seguito alla vittoria della Russia, i comunisti avranno assunto il dominio politico dell’isola. Secondo voci confidenziali la stessa organizzazione comunista è in relazione con comunisti di Sussa ed avrebbe dovuto agire, al primo cenno, eseguendo azioni di terrore, specialmente contro gli ex nazionalisti jugoslavi e tutti coloro che avevano avvicinato gli italiani, per gettarsi poi alla macchia dell’isola; Pietro che si recava a Sussa e spesso anche a Veglia, presso il farmacista Giovanni, noto comunista fermato il 24 corrente, è ritenuto l’individuo che manteneva i collegamenti fra gli elementi comunisti e ne trasmetteva gli ordini».

    Spiridione

    Nato a Zara, 41 anni, italiano, commerciante di generi alimentari, arriva il 15.8.1942 dal campo di concentramento di Ariano Irpino (AV) (era già stato internato nel comune di Savignano di Puglia (AV) da cui fu trasferito per indisciplina su richiesta del locale podestà: «nel campo dell’alimentazione dà prova di sentimenti antitaliani che nel pubblico sono appresi con senso di disgusto (sei pasti al giorno)», parte il 6.9.1943 per il campo di lavoro di Castelguido, internato dalla Prefettura di Zara il 30 settembre 1941; «pericoloso in linea morale e politica; condannato da diversi tribunali del Regno per precedenti penali, noto pregiudicato per reati contro la proprietà, ammonito e vigilato speciale. Specula in materia annonaria: vende generi razionati a persone non munite di tessera annonaria e a prezzi superiori a quelli stabiliti, rifiuta di vendere albicocche in scatole “Cirio” ad ufficiali del Regio Esercito, più volte chiuso il negozio. Di sentimenti croati, capace di svolgere azione contraria agli interessi nazionali e disfattista e se, al riguardo non si sono potute avere prove concrete, si ha peraltro, la convinzione che egli per la non comune scaltrezza ha saputo occultamente svolgere tale attività malgrado l’assidua vigilanza cui è stato sempre sottoposto».

    Tullio

    Nato a Savelli (Catanzaro), 40 anni, italiano,  manovale, arriva il 18.8.1942 da Catanzaro, parte il 18.10.1942 per la colonia di confino delle Tremiti, internato dalla Prefettura di Catanzaro; «anarchico; allusioni sull’ingiusto comportamento delle Autorità sullo sfruttamento della massa operaia impiegata nelle segherie locali, sull’esoso trattamento da parte dei datori di lavoro, sull’esiguità dei salari… Licenziato dalle segherie per indisciplina, scarso rendimento, disubbidienza, ingiurie e minacce ai dirigenti, ha trascorso cinque anni al confino di polizia per atti terroristici commessi all’estero; fa subdola e incessante opera di propaganda e sobillazione fra gli operai del suo comune. Atteggiamento oltraggioso e minatorio verso Autorità e gerarchie fasciste».

        
     biglietto della Croce Rossa Internazionale diretto a un internato di Casa Rossa (1942)


    SECONDA STAGIONE

    EX FASCISTI condannati dalla Commissione provinciale per il confino di polizia di Bari (1945-46).

     

    Antonio

    Nato a Brindisi, condannato a 1 anno di confino: «è ex squadrista, ferito per la causa fascista, marcia su Roma e sciarpa littorio. È stato un fervente fascista e propagandista. Ha ricoperto cariche di capo nucleo, capo settore e componente il direttorio del fascio di Brindisi. Di carattere violento e manesco, ha partecipato a spedizioni punitive a carico di elementi ritenuti di sentimenti antifascisti. Nel 1942 venne espulso dal PNF per assenteismo e per incomprensione dei doveri fascisti». Il 7 ottobre 1943, dalle carceri di Brindisi dove è rinchiuso, avanza un’istanza di grazia al Re: «da 24 giorni mi trovo rinchiuso in carcere senza aver commesso alcun delitto; l’unica colpa che mi si addebita è quella di essere un ex squadrista. In quel lontano 1921, appena ventenne, trasportato dall’entusiasmo e dall’ardore della mia giovane età, non avendo potuto dare il mio contributo alla Patria durante la guerra vittoriosa, credetti compiere opera onesta e patriottica dare il mio umile e modesto contributo di cittadino e di italiano, nell’arretrare quell’ondata di bolscevismo che minacciava di abbattersi nella nostra cara Italia».

    Consalvo

    Nato ad Andria. È segretario del fascio di Andria nel 1921, è componente la prima federazione fascista di Terra di Bari nel 1921-22, è comandante del secondo battaglione delle squadre di azione fasciste nello stesso periodo di tempo; è deputato al Parlamento della 27^ legislatura. Secondo il Delegato Marzano le cariche rivestite da Consalvo dimostrano che «tutto questo a me sembra sia in punto di fatto prova più che sufficiente di avere tenuto una condotta ispirata ai metodi ed al malcostume del fascismo perché quale segretario del fascio di Andria fu il promotore e l’organizzatore delle squadre fasciste di azione, quale componente della prima Federazione fascista di Terra di Bari fu uno dei promotori del movimento fascista in questa Provincia; quale deputato della 27^ legislatura fu uno che concorse al colpo di stato del 3 gennaio 1925, votando le leggi che soppressero completamente la libertà in Italia»  È prosciolto dalla Commissione Provinciale per il Confino nell’ottobre 1945. Nel 1923 Consalvo è prosciolto per il reato d’incendio doloso del circolo “Matteo Renato Imbriani” di Andria, avvenuto il 30 ottobre 1922; nel 1944 è prosciolto per non aver commesso il fatto, operato da fascisti per rappresaglia contro elementi del partito nazionalista a causa di un conflitto interno.

    Francesco

    Condannato a 2 anni di confino. Nei primi di agosto del 1941 nella piazza antistante il Fascio di Bitonto si trasmetteva il giornale radio delle ore 20:  Vito che vendeva in piazza oggetti di bicicletta fu avvicinato da due persone che gli chiesero perché non si era tolto il cappello; alla risposta che “era stato distratto da alcuni acquirenti”, fu fatto salire nella Casa del Fascio. Qui il Segretario Politico lo rimproverò dicendogli che se avesse avuto dell’olio di ricino glielo avrebbe dato e lo fece uscire da una porta di sinistra. Fuori Vito trovò altri che lo aggredirono colpendolo con schiaffi e con pugni:  Francesco lo colpì violentemente al viso. Vito uscì in lacrime ma non andò dal medico né sporse denunzia allora, per paura di rappresaglie ma aspettò il 22 novembre 1944 per la querela. Per il Pretore di Bitonto le percosse e le minacce sono punibili con pena detentiva non superiore ai 3 anni ma, poiché i reati sono stati commessi per motivi fascisti anteriormente al 17 ottobre 1942 (data dell’amnistia di cui al Regio Decreto n.1156) li dichiara estinti.

    Francesco

    Squadrista e sciarpa littorio, già comandante dei Vigili Urbani di Barletta. «Il 12 settembre 1943 le truppe tedesche, occupando Barletta, mitragliarono 11 vigili urbani, che tutti decedettero ad eccezione del vigile Francesco Paolo, che rimase soltanto ferito. Con esposto del 12 febbraio 1944, le vedove dei Vigili Urbani trucidati accusavano Francesco, squadrista e sciarpa littorio, comandante del Corpo dei Vigili Urbani di Barletta di essersi salvato dall’eccidio facendo valere quelle sue qualifiche e abbandonando i vigili alla mercé delle truppe tedesche. Dalla istruzione compiuta nessun elemento di responsabilità è risultato a carico del Francesco» il quale, secondo la dichiarazione del vigile «avrebbe avuto il torto di non aver accolto l’esortazione dei vigili ad essere lasciati liberi e a chiudere l’ufficio di Polizia Urbana, prima dell’arrivo dei tedeschi» Per il magistrato il fatto addebitato al Francesco non è delitto comune e non integra alcuna ipotesi incriminata ai sensi del Decreto n.159 del 27.7.1944; il 13 dicembre 1944 il Giudice Istruttore di Trani dichiara l’impromovibilità dell’azione penale. Nell’ottobre del 1943 è internato in un campo di concentramento per 2 anni dalla Commissione del IX Corpo d’Armata Territoriale di Bari.

    Giuseppe

    Condannato a 2 anni di confino nella seduta del 28.6.1945. La moglie avanza un’istanza di liberazione a Badoglio ad ottobre del 1943: «il 2 corrente in Bitonto fu fermato dai Reali carabinieri e tradotto a Trani mio marito Giuseppe, per ragioni politiche. Non voglio nascondervi che egli, malauguratamente, 21 anni or sono si trovò coinvolto nell’esecrabile Fascismo unicamente per difesa personale, perché, quale figlio di commerciante, suo padre, nel corso del dopoguerra subì danni alla persona ed agli averi ad opera di persone turbolente che in quell’epoca infestavano il Paese. Passata la furia dei primi tempi egli tornò alla vita normale privata senza esercitare più alcuna attività politica».

    Lorenzo

    Condannato a 1 anno di confino. Imputato per avere, in concorso con altri armati di pistola, costretto con violenza Riccardo, contro il quale puntavano pistole, ad omettere di fare propaganda per i comunisti spagnoli ad Andria il 23 aprile 1936: nel 1945 è prosciolto per estinzione del delitto di minaccia aggravata: così derubricato il capo d’imputazione perché non sussiste il delitto di violenza.

    Luigi

    Nato a Barletta, 36 anni, sarto, “arrestato il 21 giugno 1945 perché accusato di essere stato al nord fervente mussoliniano e propagandista, collaboratore e spia dei nazifascisti. Assegnato al confino per anni due dalla CP di Bari con ordinanza del 19 novembre 1945”. Secondo la denunzia circostanziata di un combattente delle formazioni “Giustizia e Libertà” di Castagnole d’Asti, Luigi, volontario dopo l’8 settembre 1943 nella Guardia Nazionale Repubblicana di Asti, fu iscritto al Partito Fascista Repubblicano di Torino ed operò con componenti delle Brigate Nere di Asti e con un maresciallo delle SS italiano: avrebbe denunziato più volte l’azionista in questione perché “aveva rifiutato l’adesione alla R.S.I. e perché face parte di formazioni armate di partigiani”. Chiede con ricorso l’annullamento del provvedimento per erronea valutazione dei fatti addebitati ma la Commissione d’Appello per gli assegnati al Confino con ordinanza del 22 marzo 1946 respinge il ricorso, confermandogli gli addebiti, anche perché il ricorrente «si accompagnava spesso con elementi dell’esercito repubblicano». Il Prefetto di Bari propone al Capo della Polizia di trasferirlo in località più lontana e d’altra provincia per evitare che in futuro possa allontanarsi nuovamente da Alberobello: la contravvenzione agli obblighi del confino varrà a Luigi il rifiuto della sua nuova domanda di proscioglimento o di commutazione dell’ulteriore periodo di confino in ammonizione.

    Luigi

    Ex segretario politico del P.N.F. di Molfetta, condannato a 2 anni di confino. Insieme al Federale di Bari era stato già giudicato e condannato a sei mesi di reclusione dal Tribunale Penale di Trani per violenza privata ai danni del professor Carlo, docente del Liceo classico di Molfetta, che aveva manifestato ad una scolaresca sentimenti “anglofili”: nel novembre del 1935 schiaffeggiò il professore e lo costrinse a bere 40 grammi di olio di ricino, anche se sostenne di averlo fatto per ordine del Federale, il quale, invece, fu assolto per insufficienza di prove.

    Simone

    Nato a Conversano, già sottoposto all’ammonizione, già proposto per la dispensa dal servizio dalla Commissione Provinciale di Epurazione per il personale dipendente dagli Enti Locali, condannato a 3 anni di confino nel novembre 1945. La Commissione Centrale d’Appello esamina il suo ricorso avverso il confino in data 17 giugno 1946. Il comunista Vito denunzia che l’ex ispettore federale di Conversano all’8 settembre «era ancora il duce del paese. Era ancora la persona che continuava ad avere influenza sulle autorità costituite, tanto da mandare a casa mia il maresciallo dell’Arma per arrestarmi quale disertore; ma al quale io rispondevo che disertori e traditori della patria erano tutti quegli ufficiali fascisti che avevano disarmati i soldati obbligandoli, poi, a fuggire; e che invece di pensare a me, pensasse a prendere seri provvedimenti a carico di questi fascisti, che son vissuti per venti anni succhiando il sangue della povera gente e che ora si preparano a far scoppiare una guerra civile». Un ricordo: « un mio zio socialista il primo maggio portava fiori sulla tomba di Di Vagno e un custode del cimitero squadrista lo segnalò al Fascio di Conversano a Simone».


    TERZA STAGIONE

    STRANIERI INDESIDERABILI (1947-1949)
    (Le cronache di Corrado Calvo sulle signorine di Alberobello riportate su Il Messaggero nel gennaio del 1947)                                   

     

    Le “indesiderabili”. Cento donne ad Alberobello

    «In un pomeriggio del 14 gennaio giunse su una delle colline che attorniano Alberobello una comitiva di cento donne. Vestivano nelle fogge più strane, alcune con pellicce siberiane, altre con pantaloni da montagna; una sparuta minoranza sfoggiava abiti elegantissimi, ma consunti dal tempo. Parecchie avevano vestiti usuali adattati frettolosamente. Apriva il corteo una piccola tedesca di ventitré anni, che recava in braccio un bambino di ventidue mesi, mezzo sepolto fra maglie e scialli; lo chiudeva una donna anziana jugoslava e occhialuta, che si sosteneva al braccio della giovane figlia. Fra la tedesca e la jugoslava c’era la rappresentanza dell’Europa centro meridionale: polacche, romene, ungheresi, greche e francesi. Ad eccezione della matura donna jugoslava, tutte erano giovani e generalmente di aspetto piacevole e prosperoso. Venivano da Fossoli con i loro fagotti senza valore e nel lasciare un campo di concentramento per un altro, non sembravano troppo emozionate. Erano ad accoglierle a quattro chilometri da Alberobello la rossa costruzione della Scuola di Agraria, un commissario di P.S. grosso e paziente ed uno sparuto nucleo di carabinieri con giberne e moschetti. La vecchia scuola di agricoltura, con la sua aria di rustico maniero, da tempo ha dimenticato la scienza della terra, da quando, cioè, i cancelli di ferro solido si incastrarono fra le aiole per accogliere alcuni manipoli di ex gerarchi in attesa di giudizio. Ora i cancelli rimangono aperti e si chiudono soltanto la notte quando le cento donne e il bambino si sono addormentati. Campo di concentramento vero e proprio non può dirsi questo di Alberobello, ultima tappa di smistamento e di avvio. Non esistono fili spinati, non esistono fucili mitragliatori ai punti di varco: non c’è aria di prigionia, perché le donne che qui soggiornano sono buone, remissive; obbedienti a quel punto estremo di stanchezza, che non dà la forza di reagire, con un carico di pensieri e di dolori, che forse un’intera esistenza non riuscirà a smaltire.

    internata slava a Casa Rossa (1947)       

     

    Amori di guerra

    Al campo di Fossoli giunsero alla spicciolata, una per una da diverse vie e per ognuna di esse i giornali narrarono un fatto sotto il titolo di “straniere indesiderabili”. Venivano dai più lontani paesi d’Europa, risucchiate dalla guerra, che le agganciò per quello che la donna ha di più naturale: l’amore. E dietro questa scia irresistibile, queste donne abbandonarono le loro case in cima ai monti, nel fondo delle valli, nel cuore delle città e, accecate da un’avventura arcana, marciarono senza guardare le strade, sconfinando senza avvedersene, cadendo senza sentirlo, legate a uomini che andavano dietro alla guerra e di tutto quello di provvisorio che la guerra comporta: i sentimenti compresi. Un giorno queste donne, riaprendo gli occhi, si trovarono sole: il compagno della guerra le aveva tradite o veleggiava per lidi inaccessibili. Sorprese dal dopoguerra, del dopoguerra esse seguirono le torbide leggi e nel tentativo disperato di trovare nuove vie e nuove speranze, esse si invischiarono al punto da diventare “straniere indesiderabili”.    

    Le naufraghe

    Il Governo Italiano ne ha seguito per anni l’attività, ne ha identificato la condotta e si è deciso, come era suo diritto, ad intervenire, dando alla sua azione di forza un senso di umanità, che trascende l’arido dispositivo del regolamento di polizia. La preoccupazione di difendersi da una attività illegale svolta nel proprio territorio e il desiderio di normalizzare la situazione penosa di centinaia e centinaia di fanciulle, anima l’attuale provvedimento. Dopo le peregrinazioni da un campo all’altro, le ragazze straniere giungono ad Alberobello, all’ultima tappa. Durante la loro permanenza su queste colline la polizia studia i loro incartamenti e interessa le autorità diplomatiche per il rimpatrio di coloro che in patria hanno ancora speranze ed affetti o per avviare verso paesi disposti a riceverle coloro che o non vogliono rientrare o preferiscono tentare l’ultima carta del giuoco. Nel frattempo, tutte aspettano e più d’una fra le più giovani si abbandona a lontani progetti. Innanzi a queste naufraghe il commissario fin dal primo giorno ha deposto la burbanza professionale; ha messo a loro disposizione i locali e allargando le braccia ha detto: Sistematevi alla meglio, col minor fastidio possibile per voi e per me”, i vasti cameroni si sono riempiti di brande, vesti, tramezzi e cenci di mille colori. I primi giorni tutte alla rinfusa; poi è avvenuta la selezione:le tedesche con le tedesche nello stanzone più grande, al comando di una donnona giovane, che quando parla alza il mento come un oberleutnant; le slave con le slave, attorno ad una russa che parla poco e scrive spesso a pezzi grossi. Le minoranze hanno fatto lega e vanno lietamente d’accordo. La  donna jugoslava trascorre le giornate sotto le coperte con la figlia e il piccolo Mandrich, passa di stanza in stanza a fare da tramite fra le varie nazionalità. Wilma, la madre, è la tedesca piccolina, che ama appartarsi per cantare, è di sangue francese e sul suo capo biondo è passata una storia avventurosa che vi racconterò a parte.

    Strani tipi

    Assai per tempo, la mattina, comincia il passeggio sullo spiazzale erboso davanti alla palazzina. Il regolamento lo vieterebbe fino all’arrivo del filo spinato, ma il direttore ha fatto uno strappo e ne è felice. A star ferme tutto il giorno, le camerate sentirebbero di prigione. All’aria libera è assai diverso. La maggior parte preferisce sdraiarsi al sole; le altre, in piedi, conversano. La tedesca di un sobborgo di Berlino, inizia la sua maratona in venti metri di spazio. Raggiunto un lato del campo, ella si volge di scatto e cammina con passo spedito come chi tema di far tardi ad un convegno. Così per ore e ore, in venti metri ha percorso abbondantemente la distanza che la separa da Berlino. È la più taciturna. Dicono che sia stata tre giorni sotto le macerie di una casa e che abbia assistito alla morte del suo fidanzato, un esile americano, in un incidente d’auto. Una romena, abile danzatrice, prova di tanto in tanto, sotto gli occhi di un carabiniere, qualche passo di danza e una grossa ungherese si congestiona per accompagnarla col canto. Il giorno passa così, monotono e grigio e mai nessuna di quelle tragedie personali esplode in pianto o isterismi. Ogni rimpianto è contenuto, ogni dolore dissimulato. Solo verso sera, quando il tramonto dà ai trulli l’aspetto di templi indiani o di antichi sepolcri, il movimento della casa rossa si fa più lento. Le giovani si raccolgono in gruppi nelle camerate o sotto gli alberi senza parlare, insensibili al freddo. Persino la tedesca di Berlino rallenta il passo come se fosse giunta e si ferma, gli occhi perduti nella vallata che si riempie di nebbia. Ciascuna di quelle donne naufraga per proprio conto nella sua sventura senza speranza. La piccola Wilma, seduta all’ingresso del campo, si tiene un ginocchio fra le mani e si dondola piano cantando: “Es geht meine Seele – wo deine Stimme ruft…” Va la mia anima dove la tua voce mi chiama…Il piccolo Mandrich ai suoi piedi scalpita e sorride innocente alzando il capo al carabiniere di guardia. È il solo a quell’ora a sorridere in mezzo a tanti oscuri pensieri».

    Le donne di Alberobello. Un dramma uguale per tutte

    «Le cento ragazze di Alberobello non parlano mai di politica. Quest’ultima presuppone un ottimismo e una fiducia negli uomini che nessuna di queste sbandate possiede, avendo ricevuto dalla politica e dagli uomini tanto quanto basta per inclinare al pessimismo. Le slave fanno qualche volta eccezione alla regola, al corrente come sono di certe situazioni internazionali che le toccano da vicino, ma preferiscono non parlarne. Le tedesche, ad ogni domanda, sorridono diffidenti ed hanno l’aria di chi cade dalle nuvole. Le polacche dicono di non capirci nulla e, forse, sono le sole a dir la verità.

    pausa di lavorazione ad Alberobello del film "Donne senza nome"(1949)

     

    Il compositore impiccato

    Quassù non c’è radio, non giungono giornali e nessuna sente la necessità di queste cose. Le più accanite fumatrici hanno smesso di colpo il vizio non potendo rifornirsi di sigarette.  Chi ancora dispone di un mozzicone di rossetto lo adopera con parsimonia e lo passa generosamente a qualche compagna di stanza. Alcune, fra le più disilluse, rimpiangono Fossoli con le sue abbondanti minestre. Qui le razioni sono più scarse e il freddo fa sentire la differenza. In compenso, la cucina è affidata ad una ragazza di Lubiana, florida e sorridente, che fa del suo meglio per dare alle pietanze un gusto accettabile. Anna M. la bella cuciniera di Alberobello sposò un soldato italiano al tempo della nostra occupazione in Jugoslavia e col marito si trasferì a Modena. Poi il soldato morì e la ragazza fu messa in un campo di concentramento perché straniera. Ora un bambino di tre anni vive con i genitori di lui e che regolarmente scrivono alla donna assicurandola del loro interessamento preso le autorità italiane. I racconti che fanno queste donne in uno scadente italiano sono sempre confusi e frammentari. Nascondono qualche cosa di assai vicino alla loro sofferenza, soffermandosi all’antefatto. Il resto è chiuso nel segreto delle loro anime e nei fascicoli personali delle polizie. La polacca Litza era una studentessa di agraria, innamorata cotta di un sergente tedesco, pianista e compositore. Una mattina, i tedeschi sgombrarono il villaggio all’avvicinarsi dei russi e il sergente musicista non ebbe nemmeno il tempo di salutare la giovanissima Litza.  La giovane non si sgomentò, fece un fagotto, lasciò la cantina dove s’era stabilita con i suoi e nottetempo s’avviò verso occidente per ricongiungersi con il compositore.  Tre settimane vagò nella foresta e fece in tempo a vedere il suo amico pendere da un albero, dove insieme con gli altri lo avevano impiccato alcuni partigiani, meno affezionati alla musica e più sensibili a certe efferatezze commesse nei dintorni. Litza volle dimenticare quello spettacolo raccapricciante e si attaccò ad un camerata del morto che, stanco di combattere, scelse la via più breve e andò a consegnarsi dopo inenarrabili peripezie alla prima pattuglia di americani.  Litza stanca del viaggio, accettò il Corned Beef, si assuefece alla razione del combattente e, qualche tempo dopo, a bordo di una jeep varcò le Alpi. Qui finisce l’antefatto. Il successivo svolgimento del dramma è del tutto simile a quello delle altre donne. È nel corso di uno di questi drammi che, ad esempio, viene al mondo il piccolo Mandrich, che ora in questo breve spiazzo sta imparando a sgambettare.

    Mandrich, leggero fardello

    Alla piccola Wilma non piace parlarne. Tutt’al più, il suo dolore si rifugia in quelle canzoni cantate a voce bassa quasi rauca, accompagnate dal movimento lento di tutto il corpo. La sua disgrazia cominciò da una buona azione. Un soldato francese ferito trovò nella sua casa di campagna assistenza e conforto e, quando fu guarito, si sentì irrimediabilmente innamorato della piccola tedesca dagli occhi verdi. In Provenza, i due vissero insieme. Wilma aveva perduto tutti in un mitragliamento a bassa quota. Il francese viveva con una sorella che gestiva un piccolo caffè. Una sera la ferita si riaprì e si aggravò. Al termine di tre giorni il giovane morì e Wilma si trovò sola con una creatura sul punto di nascere. La cognata non era cattiva, ma Wilma era tedesca e ciò bastava per guastarle il sangue, ora che il fratello era morto. La giovane decisa di finirla e, seguendo l’esempio di molte altre, stava per spiccare il salto da un ponte, quando un americano la trattenne. Il caritatevole Johnny capì la situazione e si intenerì. Niente paura. Egli avrebbe provveduto a tutto, l’avrebbe protetta e quando il baby sarebbe venuto al mondo lo avrebbero allevato insieme. Il baby nacque in Italia, ma lo stesso giorno della sua nascita l’amico protettore scomparve. Wilma inghiottì amaro, prese il leggero fardello e passo passo lo ha portato fino al recinto di Alberobello. Tutte le vite si somigliano quassù e dietro le parole usuali e le conversazioni insignificanti passano lagrime silenziose. L’ondata terrificante della guerra è passata, ma la risacca ha portato a riva dolenti rottami. Non sarà facile sciogliere quelle anime inaridite, anche perché la speranza è una pianta che non cresce fra queste mura. A giorni la vecchia scuola di Agraria accoglierà altre venti ragazze straniere colte improvvisamente dalla polizia nella loro vita equivoca. È una novità che interessa. Marisa, l’ungherese alta e lentigginosa si torce comicamente le mani. “Ma dunque – ella dice alle compagne – non sono finite ancora queste vedove di guerra?”. La battuta non fa ridere e irrita le tedesche, che in quel momento parlavano di “ritornarsene a casa”. “Tornarsene a casa” è un modo di dire come un altro, è un modo di passare il tempo e di ingannare se stesse, un’allucinazione creata dalla malinconia e dalla riflessione.

    Lettere senza risposte

    La nostra visita volge alla fine. Nel giro, il direttore ha raccolto un fascio di lettere che ciascuna donna ha consegnato con garbo, dirette a uomini e donne di altri campi di concentramento. Quasi sulla porta Liuma, una grassa romena trafelata ci raggiunge e consegna la sua lettera. È indirizzata a un albanese di Coritza. Liuma lo conobbe sulle montagne di Ciafa Mandres, quando nei tempi sereni ella trasmigrava con la sua gente per pascere le pecore attorno alle capanne di color vermiglio. Sono passati sei anni e Liuma scrive ancora, puntualmente con la testardaggine d’una montanara, anche se non ha ricevuto mai una lettera, anche se la greca, che è sua amica, la motteggia un poco e la chiama pazza. La carrareccia gira attorno alla casa, poi si precipita verso il paese. Sotto gli ulivi bassi, il piccolo Mandrich strepita, alle prese con la russa che vuole lavarlo per forza. Ai limiti del campo le altre, sedute per terra, aspettano. Dal tetto si leva un malinconico filo di fumo che il vento disperde nell’aria».

     

    CRONOLOGIA ESSENZIALE DI CASA ROSSA/MASSERIA GIGANTE

    Periodo Avvenimenti
    1887  Testamento di don Francesco Gigante per la fondazione di una Scuola Agraria
    1896-1939  Scuola Pratica d'Agricoltura (1906-1931) Scuola Tecnica Agraria (1932-1939) Scuola elementare (1916-1939) Ospizio per orfani di guerra Ospizio per alunni dell'O.N.M.I.
     
    1940- settembre1943

    PRIMA stagione Campo Internamento:

    •    civili di nazionalità inglese (tra essi indiani, maltesi, irlandesi), prevalentemente residenti a Napoli, ritenuti atti a portare le armi.

    •    Arriva, successivamente, il gruppo che rimarrà aCasa Rossapiù tempo: ebrei stranieri tedeschi o provenienti da stati caduti in potere della Germania, che, pur non essendo considerati formalmente nemici, sono internati in quanto ebrei e, quindi, ritenuti capaci di svolgere azioni contrarie agli interessi di uno stato totalitario amico come la Germania. Arrivano anche ebrei polacchi, ex cecoslovacchi e apolidi.

    . Vengono internati, poi, ebrei italiani antifascisti,ebrei politicamente sospetti,cittadini sottoposti a misure di polizia per motivi politici, anarchici e slavi della Dalmazia e della Venezia Giulia, che hanno svolto azione antifascista ed antiitaliana nelle terre occupate dalle potenze dell'Asse in Jugoslavia; molti di questi ultimi sono dirottati ad Alberobello, solo perché l'esercito italiano di occupazione non ha reperito un sufficiente numero di prove per passarli per le armi. Molti ebrei italiani sono internati ad Alberobello per disubbidienza alle disposizioni sulla precettazione civile a scopo di lavoro.

    1945-1946 SECONDA stagione. Colonia di Confino politico:ex fascisti confinati politici, altri uomini imputati per gravi fatti di sangue conseguenti a tragici episodi diepurazione dal basso,scatenati da folle inferocite per la mancata epurazione istituzionale, ex militi della Decima Mas.
    1947  TERZA stagione. Campo perindesiderabili:lesegnorinerastrellate senza documenti; sbandate al seguito dell'esercito americano nella pineta di Tombolo; ex collaborazioniste dei nazisti; semplici prostitute; donne dei paesi dell'Est che temono il nuovo regime sovietico negli anni più difficili della guerra fredda.
    1947-1949  

    TERZA stagione. Campo per famiglie didisplaced persons.tedeschi ma anche albanesi musulmani, austriaci già cittadini italiani altoatesini che avevano optato con Hitler per la nuova cittadinanza e che ora erano detestati sia dai connazionali che dai nostri, jugoslavinon titiniin fuga dal proprio paese, donne dei Sudeti tedescofoni sottoposte a brutali sevizie dai sovietici, perché già privilegiate dai nazisti, russi ortodossinon bolscevichie cittadini di stati baltici, inseguiti da emissari dell'Armata Rossa, disertori di vari eserciti, ebrei stranieri cacciati dai campi alleati di raccolta per violazione di leggi italiane soprattutto nell’ infuocata vigilia elettorale del 1948, ebrei polacchi indesiderati in patria (dove si assisteva a nuovipogromantisemiti, questa volta opera di polacchi e non di tedeschi), che speravano di emigrare in Palestina.                                                                                  

    1956-1977  Casa di Rieducazione minorile maschile con il funzionamento presso di essa di un istituto professionale agrario, con la finalità di istruire e di dotare di un diploma di qualifica in meccanica agraria gli allievi internati. L'Istituto poteva essere frequentato da minori di cui l'Autorità Giudiziaria avesse disposto l'affidamento al servizio sociale ed anche da alunni esterni, ma con la previa autorizzazione del Direttore dei Centri di rieducazione stipulante.
    2001  Il 21 febbraio 2001 Elisa Springer, famosa sopravvissuta ad Auschwitz, visitò laCasa Rossae dichiarò: «non posso ammettere che questa struttura diventi un posto di divertimento perché è stato comunque un luogo di sofferenza. Provo una certa emozione, perché campi come questo sono stati il trampolino per campi più grossi e poi per i veri e proprilager.Penso a quanta gente è stata qui e poi ha perso la vita. Mi oppongo a questi tentativi di distruggere la memoria. Dobbiamo fare di tutto perché questo campo rimanga in vita».
    2002  L'undici novembre 2002, l'Associazione ebraicaKeren Kayemeth Leisraelfece dono al Comune di Alberobello di un ulivo proveniente dalle colline di Gerusalemme, che fu messo a dimora in un'aiuola del Belvedere di Piazza Giangirolamo, nei pressi della chiesa di santa Lucia, con una targa con questa scritta in italiano e in ebraico: «Ulivo delle colline di Gerusalemme al Comune di Alberobello per l'ospitalità offerta dai suoi cittadini durante le persecuzioni razziali. Dono del Keren Kayemeth Leisrael».
    2007  Il 5 dicembre 2007 la Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Puglia ha dichiaratoCasa Rossabene di interesse storico-artistico, sottoposto alle tutele del decreto legislativo 22 gennaio 2004 n.42.
    2009  In data 5 febbraio 2009 si è costituita la Fondazione Casa Rossa Onlus, con sede sociale in Bari, con l'intento di valorizzare il notevole patrimonio storico e culturale che ha avuto nel passato la famosa struttura in Alberobello denominataCasa Rossa.


    Bibliografia

    K. VOIGT, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945,II voll., La Nuova Italia, Firenze, 1996.

    F. TERZULLI, La Scuola Francesco Gigante ad Alberobello tra il 1896 e il 1939, in «Riflessioni. Umanesimo della Pietra», Martina Franca, luglio 2003.

    C.S. CAPOGRECO, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Torino, Einaudi, 2004.

    F. TERZULLI, La Casa Rossa. Un campo di concentramento ad Alberobello, Mursia, Milano, 2003.

    F. TERZULLI, La memoria della Casa Rossa, in «Riflessioni. Umanesimo della Pietra», Martina Franca, luglio 2008.

    Film Donne senza nome- Le indesiderabili, 1949, regia di Géza von Radvànyi

  • Pentagramma rosso

    di Diletta Fornaciari, Marta Pisani, Elisa Venir, Cristiano Zanin

    Buio. È tutto ciò che vedo da ormai non so quanti giorni: il tempo ha cessato di scorrere, ho solo la certezza che sia ancora il 1945, il freddo mi penetra nelle ossa e la fame mi annebbia la vista. Ero pienamente consapevole che prima o poi questo sarebbe stato il mio destino, ma mai avrei creduto si sarebbe rivelato così logorante per la mia persona. La cella umida è soffocante e molto piccola, più simile ad una bara che a un ricettacolo per viventi in cui è impossibile rimanere sano di mente: non ci sono finestre, il che rende difficile distinguere il giorno dalla notte, anche se immagino sia giorno; non sento quei maledetti suoni che mi tormentano quando cala la sera: lamenti strazianti e urla bestiali, pianti in sloveno, croato e italiano, malamente coperti dall’abbaiare dei cani aizzati, dalle stazioni radio tedesche e dai motori delle loro camionette.
    Tra poco sentirò l’insostenibile odore di carne bruciata che accompagna le prime ore di ogni mattina, accrescendo l’angoscia per il mio inevitabile destino.

  • Piccole Storie 1. Racconti di preistoria

    “Credo che la storia, la buona storia, sia così bella e affascinante, così piena di misteri e così aggrovigliata, che è l’ambiente ideale per viverla attraverso i giochi. Penso, perciò, che i giochiziari siano vuoti di senso non perché sono zeppi di parole crociate ma perché si rifanno a una storia inerte, elencativa e vecchia. […] Un gioco storico ha la possibilità di appassionare e, quindi, di divertire, se nasce da un problema storico attraente. Da una storia viva.”

    La casa editrice la meridiana manda in libreria Piccole Storie 1. Giochi e racconti di preistoria per la primaria e la scuola dell’infanzia, del prof. Antonio Brusa, pubblicato nella collana di didattica ludica p come gioco, che spazza via i pregiudizi e rimette ordine nella didattica della storia a partire dalla scuola primaria, il ciclo a cui i nuovi programmi ministeriali affidano in maniera quasi esclusiva lo studio della preistoria.

    Per leggere l'articolo...

  • PopShoah? Immaginari e pratiche di memoria pubblica intorno al genocidio ebraico

    Autore: Claudio Monopoli

     

    Varcata la soglia del settantesimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, dieci anni dopo l’istituzione della Giornata mondiale della memoria, diventa un interrogativo imprescindibile chiedersi come insegnare la Shoah, fuori dalla retorica della celebrazione, immersi come siamo nel nuovo universo immaginario del XXI secolo. E’ l’universo dei nati dopo il 2000, pieno di immagini nuove, e in numero infinitamente superiore, di quelle che lo studente degli anni '90 poteva trovarsi ad osservare. L’origine di questo cambiamento sta nel fatto che quell’evento è divenuto oggetto di una possente industria culturale, fatta di libri, film, fiction, social media. Oggi, la Shoah è anche un insieme di immagini e concetti appartenenti alla cultura pop.

    Una ragazza si fa fotografare presso il Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa di Berlino (da un social)

     

    Come insegnare, dunque, la Shoah in questa nuova situazione? Rispondere a questo interrogativo è stato l’obiettivo della quarta edizione del Corso di Storia e Didattica della Shoah dell’Università degli Studi di Bari. “Popshoah? Immaginari e pratiche collettive intorno all’uso pubblico della memoria dello sterminio degli ebrei d’Europa” è il titolo del convegno, organizzato da Francesca Romana Recchia Luciani e Claudio Vercelli, (16 e 17 ottobre 2015), rivolto a docenti e studenti universitari.

    Il suo primo obiettivo è stato quello di delineare le modalità attraverso le quali la Shoah diventa un oggetto culturale di massa. Se prima a questo termine si associavano atmosfere di indicibilità, ora l’evento storico, proprio a causa della sua forte mediatizzazione, è diventato una metafora narrativa o, ancor di più, una semplice ambientazione per trame di libri o film. L’analisi della produzione cinematografica, proposta da Claudio Gaetani, rivela che è addirittura possibile parlare dei format “Holocaust film”, un genere le cui formule narrative sono usate anche in rappresentazioni di altro tipo, come quelle fumettistiche. Come osservato da Recchia Luciani, questa utilizzazione dell’evento storico provoca una perdita del senso del dramma stesso e crea un fertile terreno per la costruzione di ideologie revisioniste o negazioniste.

     La bambina dal cappottino rosso del film Schindler's List.

    Proiezione a cura della Comunità ebraica di Roma presso Largo 16 ottobre, 7 aprile 2013 (inizio del Yom Ha Shoah)

     

    Per un insegnamento rivolto agli studenti di oggi, cronologicamente lontani da quegli eventi, sarebbe necessaria una rappresentazione non spettacolarizzata, attraverso la quale recuperare il senso del dramma reale. Invece, la produzione filmica americana sembra orientarsi in direzione opposta. Ad esempio, l’immagine della bambina dal cappottino rosso, di Schindler’s List (ne ha parlato Damiano Garofalo), diventa un simbolo, soggetto a riprese e citazioni sul web e nelle fiction televisive, ormai privato di ogni collegamento alla tematica della Shoah. Non solo. Tale processo è stato ripetuto ed applicato anche alla figura di Anne Frank, il cui celeberrimo diario viene spesso utilizzato come testo scolastico sul tema. Oltre alla trasformazione in un “quasi-giallo” della famiglia Frank, testimoniata dalle recensioni al sito web della Casa di Anne Frank, le produzioni americane di Broadway e l’adattamento cinematografico di George Stevens, forniscono, secondo Fiorenza Loiacono, una prospettiva edulcorata della storia di Anne Frank, in cui la Shoah diviene sfondo marginale di una storia squisitamente adolescenziale, arricchita da ideologie individualistiche. Un processo di edulcorazione che si esaspera nella “carinizzazione” della figura della povera ragazza ebrea, operata dai manga giapponesi.

    "Carinizzazione" della figura di Anna Frank attraverso il manga giapponese di Megumi Sugihara e Naoko Takase

     

    Se, di fronte ad un tale panorama culturale, la costruzione negli studenti della memoria storica appare necessaria, tuttavia essa non può essere immaginata come un risultato da conseguire tramite il “rito” della celebrazione. La forma della ritualità e della consuetudine, spiega Cristiano Bellei, pone fine alle domande e moltiplica, in realtà, le banalizzazioni sul tema; così, ad esempio, per uno studente l’ “ebreo” può divenire sinonimo di “perseguitato”, al di fuori di ogni comprensione ed interrogativo circa le reali origini della persecuzione stessa.

    E’ necessario trovare e percorrere quella che Natascia Mattucci definisce la stretta strada che intercorre fra banalizzazione e sacralizzazione, per ricostruire una percezione lontana sia dai miti di indicibilità sia dalle spettacolarizzazioni. E’ un obiettivo che può essere ottenuto, se seguiamo il lavoro di Raffaella Di Castro, ascoltando le testimonianze dei parenti delle vittime della Shoah: testimoni di “secondo livello”, nati fra gli anni '60 e '80, le cui storie oscillano fra una voglia di apertura pubblica delle storie familiari e la necessità di custodirle nella dimensione privata.

    Il punto fondamentale, che occorre necessariamente tener presente per l’insegnamento della Shoah, è la “presentificazione” dell’evento storico. A partire da questo fenomeno, Claudio Vercelli invita i docenti a prendere coscienza, insieme agli studenti, sia delle costruzioni politiche operate sul concetto di Shoah, che includono anche contrapposizioni puramente dialettiche fra foibe e lager, sia dell'utilizzo decontestualizzato di immagini e concetti sul tema negli ormai diffusissimi social network. Come illustrato da Antonio Brusa, il compito del docente è quello di aiutare gli studenti a formarsi una coscienza storica. Questa è il frutto della rielaborazione delle conoscenze storiche e della memoria individuale. Non è, dunque, quello di partecipare a una celebrazione o alla custodia di una memoria pubblica. L’insegnante di storia insegna a studiare quell’oggetto, ormai lontano nel tempo, sia nella sua dimensione “verticale” di momento tragico dell’antisemitismo di lunga durata; sia in quello “orizzontale”, di contestualizzazione all’interno della politica generale di sterminio dei nazisti. Tre sono le configurazioni didattiche suggerite: l’analisi della pianificazione dall’alto del processo di sterminio; lo studio “dal basso”, dei soggetti che vi parteciparono, come vittime o oppressori o bystander; la costruzione culturale che ha accompagnato e ridefinito nel tempo questo processo.

    Osservando questo tema dal punto di vista storiografico, Guri Schwarz ritiene che, oltre alla memoria letterale, ovvero quella legata al contesto e all’unicità dell’evento, esista anche la memoria di tipo esemplare, che connette il singolo oggetto storico ad una o più idee generali. Tali memorie non solo possono coesistere, ma insieme generano anche le differenti interpretazioni storiografiche del tema, come quella che legge la Shoah come punto di arrivo dell’antisemitismo nella Storia d’Europa, o quella che considera tale evento un tassello di una più ampia storia di violenza e genocidi da collegare anche al contesto coloniale.

    Oltre ad una corretta e consapevole strutturazione dell’insegnamento in classe, occorre acquisire una piena consapevolezza dei possibili strumenti didattici. Il concetto stesso di “luogo della memoria”, ha spiegato Elena Pirazzoli, si presenta molto più ampio di come spesso viene inteso ed utilizzato. Per luogo, infatti, non si intende solo un elemento geograficamente localizzato, ma si può anche indicare una qualsiasi unità significativa, anche astratta, che rappresenta un simbolo per una comunità. Ciascun luogo di memoria può essere soggetto di “invenzione”, sia nel senso di scoperta del significato o evento storico ad esso correlato, sia nel senso di una costruzione immaginativa, quando a tale luogo vengano attribuiti significati storici, come accade a molti monumenti commemorativi. Anche i “viaggi della memoria” sono uno strumento didattico, che attraverso il tempo ha modificato usi e significati. Bruno Maida racconta le diverse fasi storiche del processo che ha reso il “viaggio della memoria”, da pratica riservata ai familiari delle vittime della Shoah, a strumento didattico. L’obiettivo di tale viaggio, suggerisce lo studioso, non deve essere la costruzione di ideologie da parte dello studente, ma l’invito ad un’acquisizione di senso di cittadinanza consapevole e partecipe.

    Foto ricordo di studenti di scuola media in occasione nel "Viaggio della memoria" del 2012

     

    L’immaginario, in conclusione, costituisce un filtro e un canale, attraverso il quale la società e gli allievi di oggi si connettono col passato tragico dello sterminio. Le conoscenze che esso veicola sono potenti e di effetto. Costituiscono da una parte un formidabile strumento di attrazione; dall’altra un altrettanto formidabile pericolo di perdere capacità di interrogarsi sugli eventi e di percepirne la drammaticità. Compito della scuola è, esattamente, tener vive le domande e costruire intelligenze capaci di farlo.

  • Presentazione del volume "Politica e istituzioni in Umbria"

    Manuale di educazione alla cittadinanza (di Valerio Marinelli)

    Verrà presentato mercoledì 14 ottobre alle ore 10,30 presso la Sala Verde del Liceo Ginnasio "Tacito" di Terni il volume di Valerio Marinelli Politica e Istituzioni in Umbria. Manuale di educazione alla cittadinanza.

  • Programma dello Short Master

    Università degli Studi “Aldo Moro”


    For. Psi. Com/CRIAT centro interuniversitario ricerca territorio

     

    Il paesaggio storico come risorsa didattica per lo studio della storia e della geografia

    Short Master

     

    Coordinatore: Antonio Brusa (Università degli Studi di Bari)
    Direttore scientifico: Loredana Perla (Università degli Studi di Bari)

     

    Struttura dello Short Master:

    Il master si compone di 4 moduli costituiti da

    • incontri teorici (venerdì pomeriggio),
    • laboratori didattici (sabato pomeriggio): svolti sui temi delle lezioni
    • escursioni dimostrative (domenica mattina).

     

    MODULO 1Introduzione e impianto generale

    23-24-25 settembre

     

    Venerdì (16.00-19.00): Introduzione e impianto del corso: Il paesaggio storico come risorsa didattica.

    Antonio Brusa: il punto di vista didattico

    Loredana Perla: la prospettiva pedagogica

    BiagioSalvemini: la prospettiva di ricerca

     
    Sabato (16.00-19.00): presentazione dei laboratori

    Valentina Ventura: i giochi didattici

    Giuseppe Losapio: lo storytelling e il laboratorio didattico

    Giulia Perrino: i segni sul territorio

    Giuliano De Felice: archeostorie

    Sergio Chiaffarata: le associazioni che operano sul territorio

    In plenaria. Viviana Vinci: la valutazione

     

    Domenica mattina: Escursione a Mola di Bari

    Valentina Ventura/Giulia Perrino/Sergio Chiaffarata

    Il paesaggio storico: i segni sul territorio. Mola di Bari dalla preistoria al Novecento.
           

     

    MODULO 2 Dalla preistoria fino all’Alto Medioevo
    7-8-9 ottobre

     

    Venerdì (16.00-19.00): lezioni

    Valentina Ventura: Etnogenesi e spazializzazione

    Elisabetta Todisco: La territorializzazione romana

    Nunzia Mangialardi: Come si destruttura un territorio? Il paesaggio pugliese dal tardoantico al medioevo

     

    Sabato (16.00-19.00): laboratori didattici sulla preistoria, storia antica e alto medievale

    Introduzione Antonio Brusa

    Lavori di gruppo (esempi, modelli e esercitazioni)

    Valentina Ventura: gioco

    Giuseppe Losapio: storytelling

    Giulia Perrino: itinerario turistico

    Giuliano De Felice: cortometraggio/app

    Sergio Chiaffarata: smartapp

    In plenaria: Viviana Vincididattica

     

    Domenica: Escursione di studio

    Valentina Ventura: gioco sul Neolitico (Lama Conte Valentino)

     

     

    MODULO 3 Medioevo e prima età moderna
    28-29-30 ottobre

     

    Venerdì (16.00-19.00): lezioni

    Pasquale Favia: Il riemergere di logiche territoriali nel Medioevo

    Saverio Russo: I paesaggi agropastorali aperti, dall’età moderna a oggi

    Annastella Carrino: Le “quasi città”, dall’età moderna ad oggi

     

    Sabato (16.00-19.00): Laboratori didattici sulla storia medievale e moderna

    Introduzione Antonio Brusa

    Lavori di gruppo (esempi, modelli e esercitazioni)

    Valentina Ventura: gioco

    Giuseppe Losapio: storytelling

    Giulia Perrino: itinerario turistico

    Giuliano De Felice: cortometraggio/app

    Sergio Chiaffarata: smartapp

    In plenaria, Viviana Vinci: osservazioni didattiche

     

    Domenica mattina: escursione di studio

    Sergio Chiaffarata

    Viaggiare nel tempo attraverso lo spazio: il villaggio rupestre Bari

     

     

    MODULO 4 Tarda età moderna ed età contemporanea
    18-19-20 novembre

     

    Venerdì (16.00-19.00): Lemmario essenziale del paesaggio contemporaneo

    BiagioSalvemini: “Insediamento”

    Angela Barbanente: “Paesaggio”

    Dino Borri: “Pianificazione”

     

    Sabato (16.00-19.00): laboratori didattici sulla storia recente

    Introduzione Antonio Brusa

    Lavori di gruppo (esempi, modelli e esercitazioni)           

    Valentina Ventura: gioco

    Giuseppe Losapio: storytelling

    Giulia Perrino: itinerario turistico

    Giuliano De Felice: cortometraggio/app

    Sergio Chiaffarata: smartapp

     

    Discussione finale sulla cittadinanza attiva

     

    Domenica mattina e pomeriggio: escursione di studio
            

    Sergio Chiaffarata

    Paesaggi di guerra e di pace, tra Altamura, Gravina e Corato

  • Qualche riflessione sulla “Questione Armena” a cento anni dal Genocidio

    Autore: Mario Spagnoletti

     

    Fatti storici e giuridici

    Con il riassetto politico-diplomatico consegnato nel Trattato di Losanna firmato tra la Turchia e le Potenze dell’Intesa nel luglio del 1923, il conseguente rafforzamento della nuova e indipendente Repubblica di Turchia e l’esaurirsi della vendetta armena contro i principali responsabili del genocidio riparati all’estero, sull’intera vicenda dello sterminio del popolo armeno calò - come è noto- una pesante coltre di silenzio destinata a protrarsi per decenni. Solo con la crescente attenzione germinata nel secondo dopoguerra nei confronti della Endlösung, pianificata dalla Germania nazista contro il popolo ebraico, il caso armeno ritornerà all’attenzione della pubblica opinione e della storiografia, qualificandosi come il primo esempio storico di “genocidio” sulla base dei parametri fattuali e giuridici stabiliti nella Risoluzione delle Nazioni Unite n. 96 del 1946 e nella successiva Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1948.

    A leggere, sia pur frettolosamente, l’articolo II di detta Convenzione, che qualifica appunto il genocidio come “crimine di diritto internazionale” e lo identifica con “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale” mediante una serie di condotte tipiche e tipizzate (uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica e mentale di membri del gruppo; sottoposizione deliberata del gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica totale o parziale; misure miranti a impedire le nascite all’interno del gruppo; trasferimento forzato di bambini da un gruppo ad un altro), è difficile negare che nel caso dei massacri generalizzati del popolo armeno non ricorrano tutte o quasi tutte le fattispecie incriminatrici sopra elencate. Il lungo silenzio, che ha avvolto una delle tragedie più orribili della storia contemporanea (il numero complessivo delle vittime resta ancora indeterminato, nonostante gli studi succedutisi, e comunque oscilla tra un minimo 800.000 e un massimo di 1.500.000) era il prodotto di una rimozione collettiva che trovava la propria ragion d’essere nella difficile gestione di una tale eredità da parte del governo kemalista impegnato a costruire l’identità della neonata Repubblica.

     

    Il corto circuito fra storia e memoria

    Tra memoria e storia si venne, pertanto, a creare - come acutamente ha sottolineato Marcello Flores - un corto circuito in cui uso pubblico della memoria e uso politico della storia si intrecciarono proprio quando più opportuno sarebbe stato separarle. In questo “tentativo collettivo di dimenticare” da parte del popolo turco, la “rimozione” assume un significato ed uno scopo densi e specifici, che Taner Akcamsi sforza così di precisare: “evitare le conseguenze, emotive o morali causate dai ricordi dei massacri armeni [...] Tuttavia questa storia è anche percepita come oltraggio e umiliazione, dovuti in larga misura alle continua sconfitte militari, perdite di territori. In altre parole il desiderio di dimenticare la storia non deriva unicamente dai sensi di colpa”. Quello degli armeni è dunque un caso altamente emblematico: un popolo ha subito il primo genocidio del XX secolo ad opera del governo dei Giovani Turchi e la Turchia, ancor oggi, continua a proclamare la propria innocenza storica, compiendo un vero e proprio “assassinio della memoria”: “la politica dello Stato turco sul genocidio armeno – argomenta Antonia Arslan - è di negazione, mentre l’atteggiamento della società è di distacco”.

    E’ appena il caso di rammentare, peraltro, che al presente ogni pubblica discussione sulle violenze contro gli armeni è considerata un reato, utilizzando l’ampia fattispecie incriminatrice prevista dal pur solo cosmeticamente novellato Codice Penale Turco (2008), il cui art: 301 recita: “Una persona che insulta pubblicamente la nazione turca, lo Stato della Repubblica di Turchia, la Grande Assemblea nazionale della Turchia, il governo della Repubblica di Turchia o i corpi giudiziari dello Stato, è punita con la reclusione a sei mesi a due anni. Una persona che insulta pubblicamente le organizzazioni militari o di sicurezza dello Stato è condannata alla pena prevista dal primo comma. Le manifestazioni di pensiero a scopo di critica non costituiscono reato.Le indagini per questo reato sono soggette all’autorizzazione del Ministero di giustizia.” Si possono comprendere, in questa prospettiva, gli ingranaggi del negazionismo turco, incernierati su di una triplice argomentazione ben schematizzata da Yves Ternon: il rovesciamento delle responsabilità, con l’accusa agli armeni di essere stati sempre infidi; il rigetto di ogni intenzionalità del progetto e della pianificazione dello sterminio; la falsificazione del numero della popolazione armena residente nell’Impero Ottomano, che risulta significativamente sottocensita.

    I negazionisti hanno lavorato e lavorano trascurando molteplici testimonianze essenziali, mettendo in dubbio le testimonianze dirette perché inficiate dal soggettivismo e costruendo addirittura false fonti. Meraviglia, perciò, che anche uno storico statunitense come Guenter Lewy si lasci fuorviare dalla vulgata ufficiale turca, negando l’autenticità della maggior parte delle fonti storiche (rendiconti diplomatici, testimonianze di politici, racconti dei superstiti, documentazione fotografica) sulla base della ingenua metodologia rankiana dello “es wie eigentlich gewesen” e giungendo a depotenziare il genocidio in una serie di non pianificati “massacri”.

     

    Una storia ancora contemporanea

    La verità è che le tre radici ideologiche alla base di quella vera e propria operazione di pulizia etnica che portò alla scomparsa del popolo armeno sono vive ancor oggi, a cento anni di distanza, intrecciandosi e potenziandosi reciprocamente, sicché a giusta ragione Levi della Torre poteva annotare nel 2003: “Il pensiero unico è un’idea falsa che non si accorda con il concetto di civiltà. [...] Il negazionismo della Turchia è un ritorno al passato tragico che in visione unica tende a riproporsi”. Di qui la necessità “eticamente forte” di una rivisitazione complessiva della cultura, dell’identità e della tragedia del popolo armeno che rappresentano un nodo forte ed inestricabile nella coscienza democratica dell’Europa contemporanea, ancora attraversata da correnti di “pensiero unico” e da intollerabili rigurgiti di etno-centrismo. D’altra parte, in quell’aureo volumetto che raccoglie le Sei lezioni sulla storia, Edward Carr ci aveva lucidamente ammonito a meditare su un fatto incontrovertibile: “Il passato è comprensibile solo alla luce del presente, e possiamo unicamente comprendere il presente alla luce del passato”.

    Risiede proprio qui la perdurante necessità di un’analisi a tutto campo della “questione armena”, delle sue drammatiche scansioni, della sua infinitamente tragica contabilità, dell’annientamento fisico di un popolo ma non della sua identità e cultura, del suo inerire profondamente all’infezione ultra-nazionalista che attraversò l’Europa nel primo Novecento, della sua paradigmaticità anche per gli anni successivi, per l’olocausto del popolo ebraico e per il nostro inquietante presente. Resta permanente valido per la questione armena e per i tanti massacri indifferenziati e le pulizie etniche dei giorni nostri, quel dolente e inquietante interrogativo proposto dal regista Atom Egoyan nel suo film Ararat: “ Ragazzo mio qual è la causa ancor oggi di tutto questo dolore? Non è aver perso delle persone care o la nostra terra... E’ la consapevolezza di poter essere odiati così tanto. Che razza di umanità è che ci odia fino a questo punto e con che coraggio insiste nel negare il suo odio, finendo così per farci ancora più male?”.

     

    Bibliografia

    Marcello FLORES. Il genocidio degli Armeni, Bologna, Il Mulino, 2007

    Taner AKCAM, Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’Impero Ottomano alla Repubblica, Milano, Guerini e Associati, 2006

    Antonia ARSLAN, Hushèr. Voci italiane di sopravvissuti armeni, Guerini e Associati, Milano, 2001

    Yves TERNON, Dunegationisme. Mémoire et tabou, Paris. Desclée de Brouwer, 1999

    Guenter LEWY, Il massacro degli Armeni. Un genocidio controverso, Torino, Einaudi, 2008

    Eduard CARR, Sei lezioni sulla storia, Torino, Einaudi, 1966

  • Quattro modelli di verifica in storia per la quinta. A distanza e in presenza

    di Cesare Grazioli

    1. Copiare o non copiare. Questo è un problema

    Insegnante di scuola superiore catapultato per la prima volta nella didattica a distanza, ho dovuto apprendere in fretta, molto sulla mia pelle e spero il meno possibile su quella dei miei studenti. Gli aspetti negativi sono evidenti a tutti, dalla difficoltà di mantenere i rapporti umani alla grande dilatazione del tempo di lavoro (che sembra essere la norma per tutti coloro che, fuori dalla scuola, fanno smart working da tempo). Ci sono però anche notevoli aspetti positivi: il più interessante è lo stimolo a progettare e a praticare forme di valutazione che evitino il plagio/aiutino/“interferenza esterna”, o comunque si vogliano chiamare le copiature.

    Sembra questo un problema che tocca con intensità diversa le differenti discipline: mi è parso ad esempio quasi paralizzante per Matematica e Inglese, quasi irrilevante per Informatica, ma qui parliamo di Storia e, per quanto mi riguarda, Storia nel Triennio di una scuola superiore (l’I.I.S. “Blaise Pascal” di Reggio Emilia, con indirizzi sia liceali sia tecnici). Ho definito interessante e stimolante questa sfida non certo perché io ami “giocare a guardie e ladri” con i miei studenti. La questione stimolante è che prove di verifica ed esercitazioni “non copiabili”, cioè per le quali non serva andare su internet né sia decisivo potere sbirciare il libro di testo, devono inevitabilmente andare oltre la semplice assimilazione di nozioni e mettere in gioco le capacità di ragionare nelle diverse forme che il sapere storico chiama in causa. In altri termini, devono essere verifiche di competenze.

    A questo proposito, penso che, malgrado il gran parlare – e lo scrivere nelle programmazioni – di competenze e abilità, forse la vera “prova del nove” di un insegnamento/apprendimento per competenze sta nella possibilità di somministrare (per noi) e di svolgere (per i nostri studenti) verifiche “non copiabili”.

    2. La storia è una materia pratica e scritta

    Chiarisco che mi riferisco a valutazioni su prove (individuali o di gruppo) scritte, che nell’esperienza mia e della mia scuola sono largamente prevalenti. So che molti colleghi in altre scuole continuano a privilegiare le interrogazioni orali, o addirittura a considerare la Storia “materia orale”. Non perderò tempo a confutare questo luogo comune “scolastichese”, del tutto infondato sul piano della Storia-disciplina, che viceversa è da sempre attività scritta e pratica nelle sue procedure di ricerca.

    Osservo invece, in modo molto pragmatico, che per fare almeno due o tre interrogazioni orali significative ad ogni studente in un quadrimestre, servirebbe una quantità di tempo scolastico abnorme, tale da dimezzare, o peggio, il già misero tempo d’aula (le due ore settimanali, cioè circa 50 ore nette all’anno, se va bene). Per tacere della abissale differenza di affidabilità e di significatività tra una verifica scritta che, a fine modulo, esplora tutto il percorso svolto, in modo equanime per tutti gli studenti, e un’interrogazione individuale (dopo la quale, tutti lo ricordiamo dai nostri trascorsi come studenti, per uno o due mesi non si apre più il libro!).

    3. Prove di verifica, ma anche esercitazioni

    Riconosco peraltro che la didattica a distanza presenta, anche su questo punto, situazioni nuove e diverse. Molti colleghi sono tornati alle interrogazioni orali perché scoraggiati dall’impossibilità di controllare i propri studenti in verifiche scritte a distanza. Più interessante è il fatto che, con gli orari di lezione a distanza ridotti (di circa 1/3) rispetto al normale quadro orario settimanale, si possono concordare interrogazioni a piccoli gruppi di 3-4 studenti per volta, fuori orario (in “buchi” della mattina, o al pomeriggio): è vero che queste interrogazioni costano a me insegnante 5 o 6 ore extra-orario, ma in compenso avrò un pacco in meno di verifiche scritte da correggere. In queste condizioni, farò anch’io una tornata di interrogazioni orali extra-orario, ma non è di queste che voglio parlare.

    Le verifiche di cui sto parlando hanno anche altre caratteristiche che ritengo molto positive, anzi di gran lunga più importanti del non essere “copiabili” (o di esserlo poco).

    In primo luogo, molte di esse riducono o addirittura azzerano la distanza e/o la differenza tra la fase della verifica e quella dell’apprendimento, tanto che in taluni casi possono essere collocate indifferentemente alla fine del percorso, appunto come verifiche, oppure diventare esse stesse la traccia del percorso di apprendimento per gli studenti, individuale o di gruppo.

    Inoltre si tratta di verifiche di tipologie molto diverse l’una dall’altra, proprio perché si adattano alle diverse competenze sollecitate e alle diverse metodologie di lavoro di volta in volta utilizzate. Al riguardo, penso che sia importante variare le tipologie di verifica, e che sia sbagliato somministrarle sempre della stessa tipologia, come se fosse l’unica possibile: nel caso più tipico, la serie delle tre o quattro domande aperte con 10-12 righe di spazio per le risposte, sulla falsariga della tipologia più seguita della vecchia terza prova d’esame.

    4. Primo modello: immagini e racconti. Storia mondiale dal 1945 ai primi anni settanta

    La prima verifica si è basata su un album di immagini, che già avevo presentato alla classe (in dimensioni maggiori, adatte a una presentazione) come forma di ripasso del modulo. Confesso che l’idea originaria era solo quella di un’esercitazione che servisse agli studenti per ricordare fatti e vicende e nomi di protagonisti, dunque di proporre un’esercitazione di riconoscimento di immagini.

    Poi però l’idea si è sviluppata, perché ho pensato che quelle immagini potessero valorizzare una delle grandi caratteristiche della Storia: il fatto che, come tante tessere di un mosaico, o pezzi di un lego, i singoli tasselli della storia possono essere combinati diversamente, e tali diverse combinazioni danno origine a “storie” diverse. Di fatto, ho chiesto a ciascuno studente di costruire una sua storia, anzi due. L’espediente di farlo partire per la prima storia non da un’immagine a sua scelta, bensì da quella corrispondente al suo numero d’ordine del registro (ad esempio: fare partire dalla immagine n.1 l’ipotetico studente Aldo Abate), ha fatto sì che la classe, composta da 26 studenti, abbia costruito 26 storie diverse. In questo modo era impensabile scambiarsi suggerimenti, perché ognuno doveva produrre un “pezzo unico”.

    Data la novità assoluta delle consegne, per non rischiare che qualcuno ne fosse del tutto disorientato, ho poi fornito un esempio svolto, come si vede qui sotto. Il tempo disponibile era di 2 ore per consegnare su Class-room la prima storia, quella più ampia, con me presente dall’altra parte dello schermo. Ho poi lasciato tempo per completare nel pomeriggio la seconda storia. Se si preferisce evitare questa complicazione e appesantimento del lavoro, si potrebbe anche limitare il compito chiedendo di costruire una sola storia, la prima. Pubblichiamo qui le foto in due versioni: la prima, formato grande e didascalie lunghe, potrà servire al docente per una presentazione; la seconda, in formato piccolo, potrà essere riprodotta e distribuita agli allievi, nel caso si voglia sperimentare questa prova di verifica. Il file pdf che contiene le consegne e un esempio svolto può essere scaricato qui.

    Consegne del primo modello

    Costruisci due storie a partire dalle immagini. La prima storia sarà centrata sui problemi politici del secondo dopoguerra; la seconda tratterà delle questioni economico-sociali e culturali. Segui le regole elencate sotto.

    Prima storia

    • Parti dall’immagine corrispondente al tuo numero d’ordine sul registro e scegli liberamente – in tutto l’album – almeno altre cinque immagini (meglio se di più), che, secondo te, hanno attinenza con la prima.
    • Dunque, se sei il primo nell’elenco prendi l’immagine n.1, se sei il secondo la n. 2 e così via. Nel tuo testo queste immagini saranno contrassegnate dai loro numeri.
    • Tieni presente che non puoi prendere più di tre immagini consecutive.
    • Oltre alle sei immagini dell’elenco, cercane altre due (su google immagini o su altri siti), che siano di soggetti diversi da quelli già scelti (ad es. se hai inserito Kennedy, non puoi inserire un’altra sua foto). Contrassegna queste nuove immagini con le lettere dell’alfabeto (perciò in totale userai almeno otto immagini).
    • Utilizza queste immagini per costruire la tua storia. Ogni volta che ne userai una, la dovrai citare nel tuo testo con il numero o la lettera corrispondenti.

    Seconda storia

    • Scegli cinque immagini, liberamente, a partire dal gruppo di immagini fra la n. 31 e la n. 40.
    • A queste ne puoi aggiungere altre tratte da internet, se lo ritieni opportuno, e contrassegnale anch’esse con le lettere dell’alfabeto.
    • Utilizza queste immagini per costruire la tua storia. Ogni volta che ne userai una, la dovrai citare nel tuo testo con il numero o la lettera corrispondenti.

    Caratteristiche del testo

    • I testi avranno un titolo significativo, dovranno essere corretti e scorrevoli nella forma e corredati dalle immagini scelte, che segnalerai nel testo con il numero o con la lettera dell’alfabeto corrispondenti.
    • I testi saranno in cartelle word, carattere Arial o Calibri, dimensioni 12, giustificato, interlinea singola.
    • Le immagini tratte dall’elenco saranno indicate con numeri o lettere in formato 12, in grassetto (es: 5). Le immagini extra saranno riprodotte al principio del testo. Le altre non devono essere riprodotte, basta citarne il numero). Le indicherai con una lettera in formato 12, in grassetto (es. A).
    • La prima storia sarà di lunghezza compresa tra 1 e 2 cartelle (con i margini che sto usando qui). La seconda potrà essere un po’ più breve.

    Esempio svolto / traccia di correzione

    Titolo: Il cambiamento del clima politico-sociale tra gli anni cinquanta e i sessanta. Immagini utilizzate: 9, 2, 13, 14, 10, 11, A, B, 22, C, 21, 17, 27, 39, 24, 25 (totale: 13 + 3 extra = 16)

    [Questo esempio è un po’ concentrato, perché finalizzato soprattutto a farti capire come devi muoverti; inoltre ha un numero di immagini maggiore di quello che ci si attende che tu utilizzi.]

    Negli anni cinquanta il clima politico, sociale e culturale nelle società avanzate fu molto teso sia a Est che ad Ovest, influenzato dalla durezza dello scontro a tutto campo di quel decennio, il più aspro della guerra fredda. Anche dopo la fine della guerra di Corea (9), che aveva fatto temere una terza guerra mondiale per di più con le nuove armi atomiche, e dopo la morte di Stalin (2) nello stesso anno, le cose cambiarono solo in parte. Nel mondo comunista, il nuovo segretario generale del partito comunista sovietico Nikita Krusciov (13) avviò la destalinizzazione e pose le basi per quello che venne poi definito il “disgelo” con l’Occidente, ma non allentò il clima repressivo nei confronti dei “paesi fratelli”, cioè gli alleati-sudditi dell’Europa orientale. Lo si vide soprattutto nel 1956, quando fu repressa con i carri armati la rivolta esplosa in Ungheria (14), senza che l’Occidente desse alcun segnale di reazione.

    "A. California,1964"/>

    "B. a Washington nel 1964"/>

    C. Una manifestazione studentesca nel ‘68

    Anche a Ovest, peraltro, la guerra fredda alimentò un clima molto teso, sia pure in forme e modi diversi. In particolare negli Stati Uniti, all’inizio del decennio esplose una specie di moderna “caccia alle streghe” che prese il nome di “maccartismo”, dal nome del senatore repubblicano Joseph McCarthey (10): egli lanciò una martellante campagna contro spie comuniste, vere o presunte, creando un’atmosfera di persecuzione soprattutto nel mondo della cultura, dell’arte e del cinema. Le vittime più illustri di quell’atmosfera furono i coniugi Julius ed Ethel Rosenberg, (11) processati per spionaggio a vantaggio dell’Urss e messi a morte sulla sedia elettrica nell’estate del 1953, nonostante la mobilitazione a loro favore da parte di un ampio movimento dell’opinione pubblica internazionale.

    Negli anni sessanta quel clima politico, sociale e culturale cambiò profondamente, perché emersero nuovi soggetti collettivi che contestarono i valori tradizionali, le gerarchie imperanti, i privilegi di alcuni e la mancanza di diritti di altri. Ciò accadde dapprima negli Stati Uniti, in particolare ad opera di due soggetti: gli studenti, soprattutto in California, nell’università di Berkeley presso San Francisco, ove nacque il movimento detto del “Free speech” (A); e la minoranza afro-americana, ancora soggetta di fatto a un regime di apartheid: famosa fu ad esempio la marcia di Washington del 1964 (B), che reclamò la parità dei diritti, guidata da un leader prestigioso, Martin Luther King (che sarebbe poi stato vittima dell’intolleranza e del razzismo che egli combatteva, nel 1968, quando fu assassinato 22).

    Tra i giovani studenti di quel movimento di contestazione si diffusero ampiamente parole d’ordine, slogan e valori anti-imperialisti e anticapitalisti, largamente influenzati dall’ideologia marxista (C): si contestava apertamente il crescente coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, durante gli anni della presidenza di Johnson (21), e si prendevano come modelli ed eroi alcuni personaggi di orientamento comunista come Che Guevara a Cuba (17) e Ho Chi minh (27), leader del Vietnam del Nord. Ciò accadde sia negli Stati Uniti sia in Europa, ove il momento culminante fu il cosiddetto Maggio francese, all’università della Sorbona a Parigi, ove gli scontri tra giovani e forze dell’ordine assunsero per giorni caratteri di guerriglia urbana (39).

    Anche nei paesi comunisti si diffusero movimenti di contestazione, che però furono repressi con la forza, come accadde nel caso della cosiddetta “Primavera di Praga”, ovvero il tentativo, da parte dello stesso gruppo dirigente del partito comunista cecoslovacco guidato da Alexander Dubcek (24), di creare un “socialismo dal volto umano”, cioè di attuare riforme: ma nell’estate del ’68 a Praga quel tentativo venne stroncato, così come era accaduto a Budapest, in Ungheria, dodici anni prima, dall’intervento delle forze armate del patto di Varsavia. Il leader sovietico Leonid Brezniev (25), promotore della repressione, formulò in quella occasione la teoria della “sovranità limitata” a cui dovevano sottostare i “paesi fratelli”, ovvero gli alleati-sudditi dell’Europa orientale.

    Commento

    Nell’insieme, la verifica ha funzionato piuttosto bene, con un ventaglio di prestazioni comprese tra un 8,5 e due 8 (cioè una verifica molto buona e due buone), nei casi di elaborati originali, ricchi e fluidi nella forma espositiva; e, all’estremo opposto, tre verifiche incerte (5,5) e una gravemente insufficiente (4,5). Questi casi negativi lo sono stati per due o più dei seguenti difetti: trattazioni frettolose e superficiali, con molti errori formali. Inoltre, non hanno riportato fatti o processi storici fondamentali per il percorso scelto. Prive di titolo. Quest’ultimo limite si è rivelato molto penalizzante, in particolare per il primo testo: è emerso chiaramente, infatti, che non si trattava affatto di una semplice dimenticanza e che il non avere deciso il titolo era indizio del problema di fondo, cioè non avere scelto un percorso, una focalizzazione, con la conseguenza che il testo appariva faticoso da seguire e poco efficace. La grande maggioranza delle prove, peraltro, si è distribuita nelle posizioni intermedie: sei casi di sufficiente (6), tre più che sufficienti (6,5), tre discreti (7) e tre abbastanza buoni (7,5).

    5. Secondo modello: argomentazioni e controversie. La Guerra fredda

    Credo che la seguente verifica non abbia bisogno di particolari spiegazioni. Gli argomenti e gli esempi a sostegno delle due tesi da sviluppare sono individuati e selezionati autonomamente dagli studenti, dal momento che l’argomento è trattato diffusamente nel libro di testo. Non si tratta, quindi, di un Debate, come è ormai in uso in molte scuole, e del quale presenterò un esempio di quarta in un prossimo intervento su HL, quanto piuttosto di un esercizio di argomentazione e di ricerca rapida sul testo.

    Consegne del secondo modello

    Sviluppa le due tesi seguenti A e B, portando argomenti ed esempi a loro sostegno, in modo da produrre due distinti saggi storiografici.

    • Nei due testi argomentativi dovrai curare anche l’efficacia comunicativa, che ovviamente comprende gli aspetti linguistico-formali.
    • Potrai consultare, moderatamente, il libro di testo.

    Tesi A

    Quasi subito dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, la guerra fredda precipitò nuovamente l’Europa in una condizione estremamente critica, e ad Est tragica: da Centro del mondo, infatti, il Vecchio Continente si trovò declassato al ruolo di periferia di due imperi (americano e sovietico), sotto l’incubo di una possibile guerra atomica, e l’Europa orientale sotto un regime oppressivo e negatore di ogni libertà politica ed economica.

    Tesi B

    A un'Europa che era da secoli, anzi da un millennio l’area più bellicosa del mondo, e che nel primo Novecento aveva conosciuto i due più sanguinosi e distruttivi conflitti della storia umana e orribili genocidi, la Guerra fredda regalò, sotto l’ombrello ingombrante ma protettivo delle due nuove superpotenze mondiali, l’inizio di un’epoca di pace interna eccezionalmente lunga (che dura tutt’ora); a Ovest essa assicurò anche un trentennio di straordinaria crescita economica, e l’avvio di un processo di unificazione politica che era impensabile fino a pochi anni prima.

    Esempio svolto/traccia di correzione

    Argomenti ed esempi a sostegno della tesi A

    Ad appena due anni dalla fine della seconda guerra mondiale, La Guerra fredda riportò a una situazione di tensione quasi paragonabile a una guerra vera e propria; anzi, forse peggiore, per l’incubo di una possibile guerra atomica provocata dalla corsa al riarmo attuata dalle due superpotenze: una guerra atomica di cui l’Europa sarebbe stata quasi certamente bersaglio e vittima, dato che la principale posta in gioco, tra le due superpotenze, era proprio il controllo o il vero e proprio dominio sull’Europa. Dunque l’Europa, abituata a sentirsi e di fatto ad essere “Centro del mondo”, o comunque ad avere da secoli un ruolo di primissimo piano, per la potenza economica, politico-militare e tecnologico dei suoi Stati più potenti, si trovò ad essere in balia di due nuove super-potenze, che la relegarono in un ruolo secondario e subalterno.

    L’Europa occidentale ebbe sì importanti aiuti economici dagli Usa, con il piano Marshall, ma quegli aiuti servirono soprattutto a legare gli Stati europei agli Usa (legame poi rafforzato con la nascita della Nato), e a condizionarli politicamente, tanto che tutti quei paesi finirono per avere al potere governi conservatori e filo-atlantici, che emarginarono all’opposizione i partiti di diverso orientamento; inoltre, in ultima analisi gli aiuti del Piano Marshall finanziavano in gran parte le aziende americane che producevano quelle merci.

    Molto più gravi, però, furono i condizionamenti subìti dai Paesi dell’Europa orientale, ai quali l’Urss impose il suo modello economico, sociale e politico (comprese le “purghe” staliniane che l’Urss aveva già subìto alla fine degli anni trenta), oltre che il suo dominio militare, e represse con la forza ogni tentativo di ribellarsi o di cercare strade parzialmente diverse: così accadde con il blocco di Berlino nel 1948, e ancora di più con la costruzione del muro nel 1961; accadde con le repressioni in Polonia e in Ungheria, nel 1956, e contro la “Primavera di Praga” in Cecoslovacchia nel 1968.

    Commento

    Nell’insieme, la verifica ha certamente funzionato, ossia è risultata attendibile e significativa. Gran parte degli studenti ha lavorato bene o abbastanza bene. Essi sono entrati nella logica del costruire due testi argomentativi di segno opposto, dato che di fatto la TESI A chiedeva di argomentare ed esemplificare i danni della guerra fredda per l’Europa, mentre la TESI B chiedeva di argomentarne ed esemplificarne i vantaggi, sempre per l’Europa.

    Un errore, o meglio un travisamento delle tesi riscontrato in un certo numero di elaborati, è stato il seguente: parlare solo dell’Europa orientale a proposito della prima tesi, e solo dell’Europa occidentale a proposito della seconda tesi; ovvero, di fatto, sostenere che la guerra fredda ha pesantemente danneggiato i paesi sotto il dominio sovietico mentre si è risolta in una grande vantaggio per l’Europa occidentale. E’ una posizione certamente sostenibile, e diversi storici lo hanno fatto. Però le due tesi che si dovevano sviluppare erano altre, come sopra riassunto e come emerge dalla traccia di correzione.

    Tra i punteggi, ci sono stati cinque 8, tre 7,5 e un 7; c’è stata qualche verifica appena sufficiente (6-), ma solo due sotto quella soglia: una incerta (5,5) e una sola gravemente insufficiente (3), nell’unico caso di alunno che, anziché lavorare in autonomia, è andato a pescare su internet, tra l’altro in modo poco efficace (perché la prova non si prestava a questo) e platealmente maldestro.

    6. Terzo modello: il finto testo personale. Nazismo e fascismo.

    Il motivo che mi spinge a presentare questo esempio e il successivo è che, mi pare evidente, anche in questi casi si tratta di verifiche che costringono a pensare, a mettere in campo competenze diverse, a fare i conti con la complessità e la problematicità della storia. Ho somministrato queste prove in presenza, ma penso che potrebbero tranquillamente essere utilizzate anche nella Dad.

    Consegne. Scrivi otto brevi testi con le caratteristiche qui sotto indicate

    • Sei un intellettuale italiano di orientamento liberale, e nella primavera del 1920 riporti sul tuo diario il tuo scoraggiamento per il clima politico e sociale del Paese.
    • Sei la fidanzata di uno squadrista di Ferrara, e a metà del 1922 racconti in una breve lettera a tuo zio, emigrato in Argentina, la situazione italiana, così come la senti descrivere dal tuo amato.
    • Sei un dirigente socialista e nel 1927 scrivi un telegramma a un tuo compagno di partito esule a Parigi, per aggiornarlo su quanto sta accadendo in Italia.
    • Winston Churchill

    • Sei un giovane tedesco che nel 1935, di ritorno dall’annuale raduno del partito a Norimberga, descrive quel raduno in una lettera alla madre (o alla fidanzata, scegli tu).
    • Sei lo stesso tedesco di cui sopra, che, in condizioni psicologiche completamente diverse, scrive al padre dal fronte russo ove egli si trova, alle porte di Stalingrado, all’inizio di gennaio del 1943.
    • Sei un ebreo polacco e nel 1940 scrivi da Varsavia a un tuo parente emigrato a Brooklyn (New York).
    • Sei Winston Churchill, appena nominato primo ministro nel maggio 1940 e in una chiacchierata informale e privata, con la tua consueta foga, rinfacci ai tuo predecessore Neville Chamberlain, che si è appena dimesso, le gravi conseguenze della linea politica da lui finora seguita.
    • Sei un giornalista americano del New York Times e prepari gli appunti (in forma di scaletta) per un reportage dall’Italia in cui descriverai ai tuoi lettori la complessa situazione politico-militare della penisola nell’estate del 1944.

    Commento

    Ho somministrato questa prova (come anche la prossima) alcuni anni fa, per cui non posso riferirne gli esiti in dettaglio come per le due precedenti. Ricordo le forti differenze tra chi era riuscito a “entrare nella parte”, cioè ad assumere il punto di vista richiesto, e chi non l’aveva fatto, con esiti, in alcuni casi, inverosimili, ma molto utili da essere riesaminati in sede di correzione. Ad esempio (nella seconda situazione proposta) il doversi mettere nei panni della fidanzata di uno squadrista rendeva inverosimile descrivere gli atti di quest’ultimo in modo “neutro” o addirittura critico, presentandoli come “violenze” o “atti criminali”; è infatti più probabile che quella fidanzata avrebbe esaltato i “nobili e generosi atti” dell’amato che contribuiva a “liberare finalmente l’Italia dalla canaglia sovversiva”, e così via.

    7. Quarto modello: due esempi di finte interviste

    A. Un questionario ai nonni sulla Seconda guerra mondiale

    Consegne

    Per incarico del tuo prof. di Storia hai dovuto preparare un questionario per intervistare i tuoi due nonni paterno e materno, uno reggiano e l’altro di origine calabrese. Entrambi avevano la tua età nel 1944, e hai chiesto loro se quell’anno videro o vissero in prima persona le seguenti situazioni. Scrivi accanto a ciascuna delle seguenti situazioni: R, se è stata vista o vissuta dal nonno reggiano; o C, se dal nonno calabrese; oppure E, se da entrambi; o N, se da nessuno dei due.

    • _____ vivere nel continuo pericolo dei bombardamenti degli Alleati.
    • _____ vivere nel pericolo dei bombardamenti tedeschi.
    • _____ arruolarsi nell’esercito regio a fianco delle truppe alleate, cioè anglo-americane .
    • _____ sopportare che il cibo e i beni essenziali fossero razionati col tesseramento.
    • _____ doversi nascondere per evitare di essere forzatamente arruolato nel nuovo esercito della Rsi.
    • _____ rispondere al “bando Graziani” e arruolarsi nell’esercito della Rsi.
    • _____ andare in montagna per unirsi alle formazioni partigiane.
    • _____ diventare un importante esponente del Clnai.
    • _____ operare clandestinamente nei Gap, i gruppi partigiani che facevano sabotaggi nelle città.
    • _____ subire il pericolo dei rastrellamenti e della conseguente deportazione nei lager in Germania.
    • _____ essere tentato di denunciare un conoscente ebreo, per avere la forte ricompensa fissata per legge.
    • _____ dover cercare per la famiglia, alla “borsa nera” (cioè di contrabbando, ad altissimo prezzo), un po’ di cibo in più di quello previsto dal razionamento.

    Commento

    Questo esercizio, brevissimo nell’esecuzione (dato che si tratta solo di scegliere per 12 volte una delle 4 lettere, come in un questionario a scelta multipla), può essere somministrato da solo, in 15-20 minuti, o essere inserito all’interno di una verifica più ampia sulla Seconda guerra mondiale. In entrambi i casi, risulta molto spiazzante per gli studenti. E’ da chiarire che l’esercizio ha senso solo se l’insegnante non ha già presentato a lezione queste situazioni, in modo che gli studenti siano costretti a ragionare su quante difficili scelte ci si potesse trovare a dovere compiere, in quel 1944, e quanto pesasse il trovarsi da una parte o dall’altra della Linea Gotica, in una situazione estrema come quella del nostro Paese in quel periodo storico.

    Anche se i risultati del questionario sono stati molto scarsi (come in questo caso è accaduto, per molti studenti, nei diversi anni in cui ho somministrato l’esercizio), qui non è importante il punteggio conseguito, bensì il fatto che, proprio per essersi dovuti scervellare per scegliere la lettera giusta, e spesso avendola sbagliata, poi in sede di correzione si è capito in quale complessa situazione i propri nonni-coetanei si erano trovati nel 1944. E’ il tipico caso in cui la valutazione ha comunque un prevalente valore formativo, e diventa anzi una potentissima occasione di apprendimento.

    B. Scrivere una finta intervista. Dal secondo dopoguerra ai primi anni novanta

    • Sei un esperto di storia orale e intervisti i seguenti personaggi (due immaginari, uno reale), per ricostruire la storia dell’età repubblicana attraverso testimonianze orali.
    • Fa attenzione: non chiedi loro di raccontare la propria biografia. Chiedi di raccontare.
    • la storia italiana dal loro punto di vista, cioè selezionando ciò che essi hanno vissuto come importante.
    • Scrivi la testimonianza sotto le rispettive biografie.

    Salvatore P. Nato nel 1935 a Palermo, orfano del padre (ucciso a Portella della Ginestra l’1.5.47), nel 1955 emigrò a Torino e poco dopo entrò a lavorare alla Fiat Lingotto; nel 1972 diventò membro del consiglio di fabbrica, come delegato del suo reparto (verniciatura); nel 1976 passò a fare il funzionario della Fiom (la categoria dei metalmeccanici della Cgil), incarico che ricopre quando viene intervistato, nel 1982, a 47 anni …

    … … spazio di 12-14 righe.

    Gianni A(gnelli) Nato nel 1921 a Torino, nipote del fondatore della Fiat, alla morte del nonno nel 1945 (e per la morte prematura del padre, Edoardo), vide condurre l’azienda di famiglia dal manager Vittorio Valletta, per un ventennio: in quegli anni, oltre a fare la “dolce vita”, fece esperienza dirigenziale come presidente della Juventus, fino a quando, nel 1966, assunse la presidenza della Fiat. Negli anni ’70 fu anche presidente della Confindustria. Dalla fine degli anni ’70 affidò la gestione diretta della Fiat al manager Cesare Romiti. Viene intervistato nel 1982, a 60 anni …

    … … spazio di 12-14 righe.

    Luisa B. Nata nel 1946 in Brianza, dopo il liceo si trasferì a Milano, dove frequentò l’Università statale, partecipando ai primi gruppi femministi e poi al movimento del ’68. Dopo la laurea in architettura nel ’71, visse per alcuni di anni in una Comune con altre donne, e fece lavori vari. Nel 1976 entrò in uno studio di design. Nel 1979 si mise in proprio, aprendo uno studio di design e arredamento, e negli anni successivi divenne una “donna in carriera”, con un’azienda che occupa alcuni dipendenti. Viene intervistata nel 1993, a 47 anni …

    … … spazio di 12-14 righe.

    Esempio/traccia di correzione

    Salvatore P. Nato nel 1935 a Palermo, …

    È verosimile che lui ricordi:

    • Le dure condizioni di vita nel Sud, sia economiche politiche per la repressione sulle lotte contadine, e per la presenza della mafia (vedi l’eccidio di Portella della Ginestra), e il fatto che la svolta della riforma agraria pose fine alle lotte ma non migliorò molto le condizioni di vita dei contadini del Sud, tanto che molti dovettero emigrare a Torino.
    • Il trauma iniziale, per le condizioni di lavoro nella grande fabbrica, e anche di vita, nella città del nord, per molti immigrati.
    • Il graduale inserimento degli immigrati nel nuovo clima di combattività operaia negli anni ’60, tra compagni in gran parte anch’essi giovani immigrati, dai fatti di Piazza Statuto.
    • Le nuove forme di lotta, dall’autunno caldo del ‘69, con le quali fu ottenuto un importante contratto di categoria, poi lo Statuto dei lavoratori; e i nuovi organismi, i consigli di fabbrica, che rappresentavano soprattutto gli operai di linea (non qualificati), come lui.
    • Il suo coinvolgimento a livello sindacale, in una fase in cui c’era una forte coscienza sociale e politica tra gli operai.
    • Le rivendicazioni nel segno dell’egualitarismo, entro cui ci fu l’importante conquista della riforma della scala mobile, che venne unificata per operai e impiegati di tutte le categorie (1975).
    • La tensione prodotta, anche nelle fabbriche, dal terrorismo, che il sindacato cercò di isolare.
    • La delusione per il mancato “sorpasso” elettorale nel ’76 del Pci rispetto alla Dc, e forse anche la delusione per i pochi risultati dei successivi governi di solidarietà nazionale.
    • Per il periodo più recente, il senso di sconfitta e di arretramento del movimento sindacale, dopo la vertenza dell’autunno dell’80, conclusasi dopo la marcia dei quadri a favore della Fiat.

    Gianni A(gnelli) Nato nel 1921 a Torino, …

    È verosimile che lui ricordi:

    • Gli anni della grande crescita della Fiat, condotta da Valletta, con i nuovi modelli, la 600 e poi la 500, utilitarie adatte a un mercato di massa per l’Italia.
    • Gli anni favorevoli del boom economico, con l’ottimismo, l’atmosfera esuberante di quegli anni, per lui e la sua cerchia, ma anche per gran parte della società, anche nella vita privata.
    • Le difficoltà crescenti dalla seconda metà dei sessanta ai settanta, sia per l’estremismo delle lotte operaie, sia per l’inazione dei governi, poco efficaci nel contenere l’inflazione, dai ‘70.
    • Le difficoltà strutturali dell’economia italiana, a causa del rialzo del prezzo del petrolio.
    • La moderazione dei vertici sindacali, che avevano consentito di siglare l’accordo sull’unificazione della scala mobile nel ‘75, quando egli era presidente della Confindustria (e che, visto retrospettivamente, egli considera forse un errore, perché quell’accordo doveva combattere l’inflazione, ma al contrario la alimentò).
    • L’eccessivo potere conquistato sui posti di lavoro dalle frange operaie più estremiste, cosa che aveva dato spazio al terrorismo.
    • La conflittualità esasperata che aveva messo in difficoltà le aziende, specie le maggiori e più sindacalizzate, come la sua, mentre l’inflazione continuava a crescere.
    • L’energica iniziativa del gruppo dirigente della Fiat, con a capo Romiti, che con una dura vertenza ha ridimensionato il sindacato e attuato una ristrutturazione che ha ridato competitività all’azienda.
    • La perdurante preoccupazione per le frange terroristiche, e per i conti pubblici dello Stato, anche se la situazione economica generale gli appare ora migliorata.

    Luisa B.

    Nata nel 1946 in Brianza…

    È verosimile che lei ricordi:

    • gli anni all’università, allora ancora frequentata da pochi studenti, e tra questi pochissime le ragazze, come lei, proveniente dalla provincia ancora tradizionalista.
    • per lei, proveniente dalla provincia molto tradizionalista, l’enorme differenza con la cultura giovanile urbana in cui si trovò catapultata, con le nuove mode, dalla minigonna alla musica leggera.
    • la politicizzazione nel movimento studentesco, con le occupazioni e le lotte nel Sessantotto.
    • il trauma delle bombe fasciste a Piazza Fontana alla fine del ’69, primo episodio della “strategia della tensione”.
    • l’emergere di una nuova coscienza femminile e femminista, con le lotte che portarono a molti cambiamenti nel costume, come la grande battaglia ai tempo del referendum sul divorzio, nel 1974, la legge sul nuovo diritto di famiglia, a metà dei 70, e l’altra battaglia importante, qualche anno dopo, del referendum a difesa della legge sull’aborto.
    • che nella seconda metà dei ’70 quel clima di lotte si era in gran parte spento, e al contempo era degenerato negli anni di piombo, che pesarono negativamente, e coinvolsero nella “lotta armata” anche alcune sue ex compagne di tante lotte studentesche e femministe.
    • che negli anni ’80 si è aperta una fase più favorevole all’iniziativa individuale, alla possibilità di fare carriera anche per le donne che hanno saputo valorizzare sia il proprio ruolo, sia le opportunità di nuovi settori lavorativi, nei servizi, e in aree non legate al tradizionale sistema della fabbrica fordista, anche grazie alle nuove tecnologie informatiche.
    • che in quegli stessi anni ’80 il nuovo Psi di Craxi sembrava in grado di modernizzare la vita politica italiana, superando l’immobilismo dei due maggiori partiti, Dc e Pci… … mentre ora, nel 1993, è delusa e scandalizzata per il sistema di corruzione che è emerso con le indagini del pool di Mani pulite, e preoccupata per il futuro dell’economia.

    Commento

  • Come nel caso delle precedenti interviste sulla Seconda guerra mondiale, anche queste tre “finte interviste” sulla storia del secondo dopoguerra le ho somministrate alcuni anni fa. Per quanto mi ricordi, i risultati erano stati molto diversi tra gli studenti, ovvero si erano rivelate altamente discriminanti.
  • Alcuni esiti erano stati davvero brillanti, ma molti avevano incontrato due tipi di difficoltà di segno opposto, che qui cerco di riassumere. Da una parte, la difficoltà di “assumere un punto di vista” cioè di selezionare gli aspetti della storia che è plausibile immaginare siano stati più rilevanti e significativi (cioè si siano depositati nella memoria) di soggetti sociali diversi come i tre proposti. Chi non c’è riuscito, ha ovviamente scritto storie ben poco diverse, o non ha saputo “ricordare”, ad esempio, le lotte alla Fiat Mirafiori nei modi opposti che dovrebbero emergere dai racconti del lavoratore immigrato e del proprietario dell’azienda.
  • Dall’altra parte, alcuni studenti si erano troppo “schiacciati” nella dimensione biografica, finendo per “ampliare” il profilo biografico già dato per ciascuno dei tre soggetti, e dunque avevano parlato di “se stessi”, non della storia d’Italia vista dalla propria prospettiva sociale.

    Possibili rimedi per evitare questi opposti rischi, o per limitarli, potrebbero essere i seguenti: fornire una delle tre storie come “esempio già svolto”; oppure, forse ancora meglio, assegnarne una delle tre come prova formativa, domestica, poi correggerla e, sulla base di questa correzione, assegnare in aula lo svolgimento delle altre due.

  • Racconta una deputata della Costituente

    1946-2016 settantesimo Anniversario della nascita dell'Assemblea Costituente e della Repubblica Italiana. Nell'ambito del progetto del CIDI Torino "Racconta una deputata della Costituente", si terranno due incontri di formazione per docenti e studenti partecipanti al progetto. Mercoledì 18 novembre: Come trasformare l'attualità in oggetto didattico, Laboratorio del tempo presente a cura di Antonio Brusa (Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia); martedì 15 dicembre: Come raccontare biografie per immagini a cura di Paola Olivetti (direttrice ANCR), Chiara Cremaschi (Regista), Federica Tabbò (Museo Diffuso).

    Qui la locandina dell'evento.

     

  • Ravished Armenia. Che cosa ci può raccontare una foto falsa.

    Autore: Antonio Brusa

    Il fatto e l’immagine
    Avevo notato questa foto cercando in rete materiali sul genocidio degli armeni. Una didascalia scarna ne esaltava l’atrocità: “Una fila di ragazze cristiane, nude, crocifisse”. A file of naked crucified Christian girls. Oltre alla sua efferatezza, però, alcuni particolari mi avevano dissuaso dall’adoperarla nelle mie lezioni sulle immagini e la guerra. Il fatto che le croci testimoniassero un lavoro di falegnameria (il braccio è a incastro), difficilmente conciliabile con i patiboli affrettati, che vediamo in altre fonti fotografiche di quello sterminio; il fatto che le pose delle ragazze richiamassero quelle “artistiche” dei crocifissi, con la precauzione dei capelli che coprono le nudità; la scenografia stessa della foto, ben centrata con la fuga delle croci in prospettiva, chiara opera di mano professionale.

    Fig. 1Startling image from the above showing the crucifixion of Christian girls by the Turks in 1915


    Infatti, si tratta del fotogramma di un film del 1919, Ravished Armenia, prodotto dal colonnello William N. Selig, “l’uomo che inventò Hollywood”, come lo definisce Andrew A. Erish, che ne ha scritto la biografia. Questo film fu ritirato dopo un paio di anni, anche a causa delle proteste turche e del timore che avrebbe potuto sollecitare sentimenti antibritannici nelle terre dell’impero, che Francia e Inghilterra si erano spartite, come bottino della Prima guerra mondiale.  In realtà, la vita effimera di questo film coincise con quella brevissima della Prima Repubblica armena, annessa all’Urss nel 1920.

    Il film riappare con la nascita dell’attuale Repubblica armena (1988). Pochi anni dopo, infatti, ne vengono riscoperti alcuni spezzoni (1994) dai quali si ricavano due film: Ravished Armenia e Credo. Nel 2009, l’ Armenian Genocide Resource Center, della California del Nord, ne ha pubblicato un restauro, per un totale di quasi 24 minuti. Di recente,  Donna-Lee Frieze ha scritto che “dal momento che il film originale non esiste più, la sua funzione come strumento del ricordo è terminata. I nuovi film funzionano come fantasmi (ghosts)” (Three films, one Genocide. Armenian Genocide through “Ravished Armenia (s)”, in N. Eltringham, P. Maclean, Remembering Genocide, Routledge, N.Y., 2014, pp. 38-53).

    Tecnicamente, perciò, quell’immagine di donne crocifisse è un “documento falso”. Anzi, un fantasma del primo falso, dovremmo dire riprendendo le parole di Frieze. Tuttavia, troverete con difficoltà spiegazioni della sua natura così complicata e ingannevole, nelle versioni che circolano nella rete. Alcuni, come abbiamo visto sopra, si limitano ad una didascalia descrittiva. Altri avvertono che si tratta di un “documentario”, o commentano con un laconico “immagini del genocidio”, quando non ne fanno un uso politico esplicito (“testimonianza della barbarie dell’Islam”).

    Fig. 2 La didascaliarecita: “Armene crocifisse nella regione di Der-es-Zog. Alcune donne sono messe in salvo perché, come si vede nell’immagine, i beduini arabi le hanno tirate giù dalla croce.

     

    Le smentite che circolano sono, come è facile pensare, di parte turca. Commentando questo fotogramma, che mostra un’improbabile azione di salvataggio, il sito della Word Turkish Coalition sottolinea  che  viene presentato come vero da una storica tedesca che lavora in Armenia, Tessa Hoffmann. E  lascia intendere che questa è solo una delle tante falsificazioni antiturche.

    Benedetta Guerzoni, ricercatrice presso l’Istoreco (Istituto Storico della Resistenza di Reggio Emilia), ci mette in guardia sulle fonti della vicenda armena. L’uso politico delle testimonianze e delle immagini relative corre lungo tutto il Novecento. In gioco era il riconoscimento, da parte della comunità internazionale, del massacro prima, e poi, dopo il 1945,  del genocidio. E’ comprensibile, quindi, l’invito alla prudenza, formulato dalla studiosa.  Quelle pienamente affidabili, tuttavia, sono una massa così imponente da non lasciare dubbi sulla ferocia dello sterminio, come dimostra nel suo Cancellare un popolo. Immagini e documenti del genocidio armeno  (Mimesis, Sesto San Giovanni 2013), un libro dal quale traggo gran parte delle mie informazioni.

    Guerzoni, infatti,  affronta il caso delle crocifissioni (pp. 314-331), togliendoci ogni incertezza:  per quanto quelle immagini siano un “documento falso”, i fatti a cui si riferiscono sono veri, e purtroppo assai peggiori. Riporta le parole di Aurora Mardiganian, la ragazza che sopravvisse e raccontò quella vicenda: “I turchi non facevano le croci in questo modo. I turchi facevano piccole croci appuntite, facevano spogliare le ragazze, e dopo averle violentate le impalavano. Gli Americani le mostrano in modo più civilizzato. Non possono mostrare cose così terribili” (Quitrovate il testo originale inglese, ancora più crudo della versione che riferisco).

     

    Il falso e il vero nella rete

    Quindi, ci troviamo di fronte al documento falso di un episodio vero. Che cosa possiamo apprendere da un oggetto così strano e contraddittorio?  La confusione è aumentata dal fatto che, nella rete, queste immagini circolano  insieme con documenti autentici, mescolate a volte in modo indissolubile.

    Ne è un esempio questo video, che si presenta con queste parole: “Nel 1919, fu realizzato un film sul massacro e la deportazione degli armeni, basato sulla testimonianza di Aurora Mardiganian, che ne fu anche interprete”. Inizia con scene di archivio della guerra mondiale, poi prosegue mostrando le sequenze, scandite da secche didascalie, che illustrano le varie fasi – tutte ampiamente testimoniate - del massacro: il disarmo dei soldati armeni, i condannati che si scavano la fossa, le uccisioni, le deportazioni, ecc. Il sottofondo musicale accentua il senso della tragedia. Dopo un po’, il fruitore non riesce più a capire se sta guardando un documentario o una fiction.  Ciò che legge è vero; ciò che vede è falso, o indecidibile.

     

    Aurora Mardiganian e le sue memorie
    Nel 1917, Aurora, fuggita rocambolescamente dall’Armenia, incontra a New York un giovane sceneggiatore, Harvey Gates, che si offre per aiutarla a scrivere le sue memorie. Ha una storia drammatica da rivelare, quella dello sterminio della sua gente, un evento le cui notizie circolavano già in Occidente, sollecitate anche dal fatto che la Turchia era alleata con gli Imperi centrali. Le memorie escono dapprima a puntate nelle riviste di Hearst e poi in volume, l’anno seguente. Un successo di oltre 300 mila copie.

    Il racconto  inizia con la Pasqua del 1915, quando Aurora ha 14 anni. Husain Pasha, potente fratello del Sultano, l’aveva chiesta più volte per arricchire il suo harem, dove custodiva già una dozzina di ragazze cristiane. Il padre, ricco uomo di affari armeno, ha più volte rifiutato, sfidando la sua ira. Ma ora, che sono cominciate le persecuzioni, è rischioso dire di no. Per giunta, Husain offre, in cambio della ragazza, la salvezza della famiglia. Ma il padre rifiuta ugualmente, e per loro comincia l’inferno. La famiglia viene massacrata e lei, Aurora, venduta e costretta a marce estenuanti, durante le quali è testimone delle orribili vicende dello sterminio. Riesce a fuggire. Raggiunge Tiflis, e dopo un giro lunghissimo, l’America.

     
    Figg. 3 e 4 La copertina dell’edizione recente di Ravished Armenia (2014),  pubblicata da Indo-European Publishing, riprende il manifesto pubblicitario del film del 1919

     

    Il film
    La storia di Aurora è avvincente. Del suo potenziale commerciale si accorgono  Harvey Gates e sua moglie,  che riescono a diventare i custodi legali del libro. Se ne avvede rapidamente anche il colonnello Selig, che realizza il film e ne compra i diritti, come sappiamo da Anthony Slide, autore di Ravished Armenia and the Story of Aurora Mardiganian (University Press of Mississipi, 2014, introduzione). Sono due notizie essenziali, per interpretare la natura di questo documento e per valutare la tradizione armena, che, comprensibilmente, mette in rilievo il ruolo delle associazioni armene nella realizzazione del film; il fatto che al soccorso dei perseguitati fu destinata una parte di quei trenta milioni di dollari, che l’intera operazione fruttò: una quantità enorme di denaro, commenta Atom Egoyan, regista armeno-canadese, nella sua prefazione al libro di Slide.

    E, infine, per capire la figura stessa di Aurora, una ragazza che spesso viene designata come la “Giovanna d’Arco” dell’Armenia) e la precorritrice di Anna Frank.

    Fig. 5 Il manifesto dell’American Commettee  mette in rilievo il fatto che i proventi saranno destinati a salvare le vite dei perseguitati.

     Il film viene realizzato con la partecipazione di Aurora, che interpreta se stessa, supportata da un cast di attori professionisti e con un notevole impiego di comparse armene, emigrate in California. Girato nel 1918, esce l’anno successivo. Se ne fanno presentazioni ufficiali, prima negli Usa, poi in Inghilterra.
    Il regista del film, Oscar Apfel, afferma di aver puntato tutto sulla veridicità. Non si è tirato indietro nemmeno di fronte agli episodi più cruenti. E’ vero, dice, qualcuno voleva eliminare delle scene, come quella del vecchio prete a cui strappano le unghie, ma lui si è opposto, perché solo in questo modo, dice, la gente poteva rendersi conto di ciò che era accaduto in Armenia. In Inghilterra, tuttavia, queste scelta viene contestata. Dopo una proiezione preliminare, si impone la censura di alcune scene, perché “sono insultanti” e, per di più, il titolo stesso del film viene cambiato. Ora si chiama Auction of souls (“Anime all’asta”). Il film, si afferma, è basato sul rapporto di Lord Brice, un ex ambasciatore, inviato dall’Inghilterra in  Turchia per verificare le notizie sull’eccidio. Aurora non viene nemmeno citata.

       
    Figg. 6 e 7 I due articoli del N.Y Times si riferiscono alle scelte diverse, compiute da Inghilterra e Usa, per la proiezione del film. In Inghilterra, questo viene censurato a causa di alcune scelte considerate indecenti e insultanti per il pubblico. In America, al contrario, si decide che quelle scene sono necessarie per far comprendere appieno quale fosse la condizione della popolazione armena.

     

    Becoming Aurora

    Il suo nome era Arshaluys, che vuol dire “Luce del mattino”. Impronunciabile per un americano, venne cambiato con “Aurora”, così come il cognome, Mardinian, venne trasformato in Mardiganian. La mandarono a scuola, perché sapeva poche parole di inglese. La intervistavano, e man mano che stendevano il testo, lo sottoponevano all’approvazione di testimoni autorevoli, fra i quali appunto Lord Brice. Il libro nacque in questo modo. Poi, quando le chiesero di interpretare se stessa, nessuno la preparò al trauma di rivivere scene angosciose. In seguito, lei confessò lo spavento provato sulla scena, vedendosi circondata da gente col fez in testa, convinta che fosse stata riconsegnata ai turchi, per essere uccisa. Mentre giravano la sua fuga, cadde, provocandosi delle fratture. La fasciarono e lei dovette continuare a recitare. “Presumibilmente, il pubblico immaginò che quelle fasce coprissero delle ferite inferte dai turchi, piuttosto che dai barbari di Hollywood”. Così Sushan Avagyan, in un saggio dal titolo eloquente: Becoming Aurora.

    Quando il film uscì, le venne chiesto di presenziare alle proiezioni. Cominciò a girare nelle varie città americane, per avvalorare lo spettacolo con le sue parole. Ha commentato di recente Timothy Long:“Non possiamo immaginare ciò che poteva sentire una vittima, che doveva recitare se stessa, dopo aver dettato la propria storia, interpretando la ricostruzione filmica e raccontando e ri-raccontando la propria orribile vicenda in tante e sconosciute città americane”.

    Dopo un anno, Aurora crolla. E’ prossima al suicidio. Ma lo spettacolo deve continuare. Allora, selezionano sette ragazze, simili a lei, che presenzieranno alle proiezioni al suo posto. Aurora è entrata nel celebrity system americano.

    Fig. 8 Nel 2007 Atom Egoyan  mette in scena a Toronto le sette repliche di Aurora. Rovescia l’inganno hollywoodiano. Non esiste più un’ “Aurora originale”, ma i sette simulacri prendono vita, raccontano la propria tragedia e coinvolgono gli spettatori in un processo di revisione critica del passato.

     

    I modelli della fonte letteraria

    Sushan Avagyan, una studiosa armena che lavora presso l’Università dell’Illinois, si interroga sullo strano dialogo che poté avvenire fra una ragazza che conosceva appena l’inglese e uno scrittore che non sapeva una parola di armeno. Un testo non è solo una collezione di fatti. Un racconto, una amazing story, è anche altro. E questo altro, scrive la studiosa, è opera di Harvey Gates, non di Aurora.

    Gates lavora su tre piani. Il primo, è quello della opposizione fra cristiani e musulmani:  “Gates enfatizza la dimensione religiosa delle atrocità turche, commesse ai danni degli armeni”. Trasforma Aurora in una sorta di personificazione dell’Armenia e le fa dire:  I often wonder if the good people of America know what the Armenians are—their character. . . . My people were among the first converts to Christ. They are a noble race and have a literature older than that of any other peoples in the world.

    Il secondo piano è l’adozione dei modelli narrativi propri di quei racconti di schiavi neri fuggitivi, che stavano ottenendo un grande successo presso il pubblico americano. La stessa costruzione di Ravished Armenia ne segue le modalità di “fabbricazione”: si intervistava l’ex-schiavo, si scriveva in pochi mesi il suo racconto in forma autobiografica, si cercava qualche testimonianza autorevole, per avvalorarne la credibilità.

    Il terzo piano è quello della sensibilità puritana americana. Gates “usa molte varianti eufemistiche di stupro, come ravished, outraged, o betrothed”.

    Parla di harem e di vizio, non di sesso. Sa che si deve adeguare ai codici e ai tabù del suo pubblico.

     

    La donna e la costruzione del nemico

    Avagyan continua la sua requisitoria, aggiungendo che, mentre il romanzo cerca di sterilizzare le brutalità della gendarmeria turca, il film ne esalta gli aspetti sessuali, trasformando le donne in oggetto, e confinando, in questo modo, l’orrore in un secondo piano.

    While the text tried to sanitize the brutalities of the Turkish gendarmerie, the film went as far as to deliver a sensational exposé of sexual transgression that objectified women and girls, thus downplaying the gravity of the committed crimes.

    La pubblicità che precede e accompagna le proiezioni è estremamente esplicita:

     “Con altre ragazze nude, la bella Aurora è venduta per ottantacinque centesimi”; “La storia sensazionale della depravazione turca”; “Ragazze impalate con le spade” (Slide, pp. 51 s).

    E’ una campagna pubblicitaria, sintetizza Donna-Lee Frieze,  centrata su quattro parole chiave: rape, redemption, religion, race.

    Conclude Benedetta Guerzoni:

    “La tragica realtà delle violenze subite e testimoniate si confonde con l’utilizzo propagandistico, che ne enfatizza il lato morboso a scopo di delegittimazione del nemico. Come in altri casi, anche questo è una conferma di quanto l’iconografia armena abbia risentito delle condizioni contestuali, prima politiche, poi di guerra: in questo modo si spiega anche la strumentalizzazione della questione armena, che viene “inglobata” nel sistema mediatico vigente, in quanto ad esso funzionale. Il film era quindi coerente con la più ampia rappresentazione delle vittime, e delle donne in particolare, durante il periodo bellico. Richiami simbolici molto precisi e codificati sembrano infatti fare da filo rosso alla rappresentazione della donna vittima, non solo armena, come oggetto sessuale su cui il clima di violenza proietta tutta la propria forza. La donna vittima, soggetto debole, è, come si sa, funzionale alla propaganda, ma la pervasività di questo simbolo fa riflettere anche sul peso della violenza nella società civile dell’epoca” (pp.320 s).

    Fig. 9 La fotografia di Aurora Mardiganian, abbigliata con il costume tradizionale, campeggia nella copertina della prima edizione di Ravished Armenia

     

    Il falso come fonte storica

    Che cosa, dunque, si può imparare da una fonte falsa? Secondo la metodologia del fake, predominante in Internet e visibilmente mutuata più da Law & Order che da Marc Bloch, quando si individuano in una testimonianza delle incrinature e quando, soprattutto, gli autori di una certa fonte appaiono viziati da un qualche sospetto, quella fonte diventa inservibile. Conseguentemente, falsum in uno falsum in toto, al processo si perde clamorosamente. E’ la logica tipica di ogni negazionismo.

    Per gli storici non è così. Il falso è una fonte preziosa, perché lascia intravedere particolari e aspetti che, a volte, le fonti dirette nascondono. Occorre solo saper cercare. Se cerchiamo notizie sull’uccisione di quelle sedici povere ragazze, il falso non ci dice nulla. Anzi ci inganna sulle modalità dell’esecuzione. Ma su questo punto, lo storico mette in campo altre risorse: la fonte orale, nel nostro caso, e incroci e verifiche con altre testimonianze.

    Il falso comincia a parlare quando lo interroghiamo sulla sua fabbricazione: sul perché e sul modo con il quale venne realizzato; quando ci interroghiamo sul suo uso, sull’accoglienza che ebbe presso il pubblico. Nel nostro caso, questo falso ha rivelato l’identikit di gruppi umani cinici, che non hanno arretrato di fronte all’utilizzazione (per politica, per guadagno e anche per una nobile causa) di una tragedia. Ha mostrato, sullo sfondo, una società che, per attaccare un nemico, esibiva gli aspetti peggiori di sé. Benedetta Guerzoni ci conforta in questa lettura,  citando un passo, quasi contemporaneo al film, di H. D. Lasswell (Propaganda Technique in the World War I, N.Y 1927), secondo il quale una giovane donna, stuprata dal nemico, suscita una segreta soddisfazione in una massa di stupratori per delega dall’altra parte del fronte. Questa crocifissione finta, dunque, è fonte non della barbarie dei turchi, quanto piuttosto di quella del mondo novecentesco occidentale. Quelle donne bianche, nude e crocifisse sono la chiara visualizzazione di uno slogan: rape, redemption, religion, race.

    Se, inoltre, riflettiamo sul fatto che queste immagini erano in origine dei prodotti di fiction, che solo in seguito, per slittamenti progressivi, sono state utilizzate come documenti storici, che circolano in quanto documenti nel contesto attuale dell’internet, allora siamo autorizzati a considerarle fonti di una barbarie a noi contemporanea.

    Questo falso ci racconta, infine, la storia di una ragazza di sedici anni, che, scampata ad una tragedia, divenne vittima della violenza e dell’avidità dei suoi salvatori.

  • SCRIVERE LA STORIA E INSEGNARLA

    L'estate sta finendo e ci attende un autunno intenso tra Short Master sul paesaggio pugliese e Seminari...buon anno scolastico e buon lavoro a tutti.

  • Scrivere la storia per finta, ma non troppo. La scrittura empatica come esercizio di storia e di italiano

    di Marco Cecalupo

    Abstract. A volte, la spettacolarizzazione della storia produce una forte sensazione di shock. Ma essere catapultati nel passato – e magari riviverlo – senza conoscerne le coordinate interpretative fa leva soltanto su empatia e immedesimazione superficiali, senza produrre un aumento di conoscenza. La descrizione di alcuni casi concreti, relativi alla Giornata della Memoria, offre elementi di critica a questo modello che possiamo definire sensazionalistico. Le esperienze didattiche di scrittura empatica tratte dal blog “I libri di Leo” dell'IC Leonardo da Vinci di Reggio Emilia – realizzate a margine di laboratori e giochi di HL – si propongono, invece, come modello cognitivo.

    1. Un presepe della shoah?

    La shoah tra i banchi del mercato, Venaria Reale (Torino)1. La shoah tra i banchi del mercato, Venaria Reale (Torino), Giornata della Memoria 2018. Fonte: la Repubblica (online)

    Qualche tempo fa, in occasione della Giornata della Memoria 2018, il Comitato Giorno della Memoria1 del Comune di Venaria Reale (Torino) organizzò e finanziò una iniziativa pubblica, presentata nell'edizione locale di Torino sul sito del quotidiano la Repubblica il 28 gennaio 2018 con le seguenti parole: «Soldati in divisa nazista dalle smorfie dure, un gruppo di donne terrorizzate con la stella gialla imposta agli ebrei che portano con sé le poche cose che sono riuscite a prendere in casa durante il rastrellamento, il cupo suono di una sirena, ordini abbaiati seccamente. È la rievocazione storica organizzata dal Comune di Venaria, alle porte di Torino, nel Giorno della Memoria: una marcia dolorosa in centro, e tra i banchi del mercato, che ha provocato grande commozione tra i passanti che si sono trovati all'improvviso a tu per tu con l'orrore della deportazione. Sul suo sito il Comune spiega di avere deciso l'iniziativa per sensibilizzare i cittadini sui temi dell'Olocausto e della discriminazione».

    Sul sito del Comune, in realtà, non siamo riusciti a leggere nulla più. Per esempio, nulla si diceva sulla consulenza storica dell'evento, e si poteva legittimamente nutrire qualche dubbio su un rastrellamento accompagnato da musica di violini in pieno giorno, oppure sulla completa assenza dalla scena di fascisti collaborazionisti italiani2. Non si trattò di una novità assoluta, un'iniziativa molto simile, che ha coinvolto anche giovanissimi studenti, è stata organizzata in occasione della Giornata della Memoria nel 2013 a San Marco in Lamis (Foggia)3.

    La simulazione della shoah a San Marco in Lamis (Foggia), 20132. La simulazione della shoah a San Marco in Lamis (Foggia), 2013. Fonte: www.foggiatoday.it

    Ne discussi con Antonio Brusa, ci ponemmo la questione dell'empatia nell'insegnamento della storia. Avevo definito quella discutibile iniziativa una sorta di “presepe vivente della shoah”, ed entrambi l'avevamo considerato un rito dannoso. Ma la nostra critica non fu di ordine storico, cioè in merito all'accuratezza documentale, ma piuttosto rivolta allo scarto interpretativo tra ciò che l'iniziativa si proponeva e il suo esito finale.

    Come si può definire la modalità utilizzata a Venaria Reale? Per alcuni aspetti, tra cui l'esposizione alle telecamere e la drammatizzazione caratteriale messa in scena dagli attori mediante i costumi, la mimica, la prossemica, l'espressione facciale e la recitazione, essa può essere paragonata ad un set cinematografico. Per altri versi, tra cui l'ambientazione in un luogo pubblico non interdetto ai passanti e l'apparente improvvisazione, si può caratterizzare come un flash-mob4. Ancora, la modalità potrebbe definirsi “teatro di strada”, ma non ci è dato sapere se i protagonisti fossero semplici figuranti dilettanti o attori professionisti. Più semplicemente, appare come una “rievocazione in costume”, anche in assenza di una chiara esplicitazione nei confronti dell'ignaro pubblico.

    Dal punto di vista della pedagogia e della didattica, in tutti i casi, non può definirsi una simulazione e non ha il carattere dell' “esperimento sociale” o del “candid-camera”, poiché è mancato l'aspetto della necessaria osservazione sperimentale delle reazioni degli astanti.

    Spostando l'attenzione dal significante al significato, ci chiedemmo: cosa ha rappresentato la scena per le persone che vi hanno assistito? Si trattava chiaramente di una questione a cui è interessata – oltre che la didattica – anche la public history, ma non fu facile rispondere a questa domanda poiché, come si è detto, nessuno (né gli organizzatori, né i giornalisti che hanno riferito la notizia sui media) si premurò di raccogliere in forma visiva o testuale le impressioni e le considerazioni del pubblico. Il giornalista de la Repubblica ha scritto di una «grande commozione», ma non sappiamo sulla base di quali informazioni ha tratto questo giudizio. Indirettamente, si potevano analizzare le riprese video5, che però non mostravano alcuna reazione evidente da parte dei presenti. Il pubblico suo malgrado si divideva equamente in due parti: coloro che si fermavano a guardare e gli altri che continuavano a camminare o a svolgere le proprie azioni ordinarie come se nulla stesse accadendo. Non si poteva dunque parlare di coinvolgimento o interazione del pubblico, se non in riferimento ai processi di identificazione propri del cinema, della TV e del teatro. Se qualcuno pensò qualcosa, la modalità non prevedeva, né è realmente avvenuto, che prendesse la parola o interferisse con la scena in atto, come ad esempio accade nei L.A.R.P. di ambientazione storica6. Il pubblico fu meramente spettatore dell'evento. Come, appunto, in una sorta di presepe vivente della shoah.

    A nostro avviso, l'interesse didattico era pressoché nullo. Nessuno penserebbe mai di convertire al cattolicesimo o di spiegarlo mediante un'osservazione attenta della rappresentazione vivente della Natività. D'altro canto, nella società dello spettacolo, nessuno si è mai sognato di interrompere una messa in scena, o quanto meno mai con l'intenzione di cambiarne la sceneggiatura7. Per riprendere la metafora religiosa, nessuno ha mai interrotto una via crucis per salvare Cristo dalla condanna a morte.

    2. Emozionare vs studiare?

    Eravamo quindi nel campo della Pop shoah8 descritto da Francesca R. Recchia Luciani e Claudio Vercelli, che nel loro recente volume ci ricordano come la spettacolarizzazione e «la sovraesposizione mediatica di un così dirompente evento storico, […] ricondotta ad una sorta di breviario dei buoni sentimenti, rischia di depauperarne proprio l'intrinseco valore civile»9.

    Dunque lo sterminio nazifascista e antisemita non prevede la possibilità di essere rappresentato o simulato con finalità didattiche? Possiamo citare diversi tentativi più riusciti in questo senso, ma innanzitutto occorre mettere in guardia tutti da questa banalizzazione della memoria dello sterminio. Alcune riflessioni critiche sono state scritte su «Historia Ludens» da Antonio Brusa a commento del film Austerlitz (del regista ucraino Sergei Loznitsa) e del progetto Yolocaust del fotografo israeliano Shahak Shapira10.

    Locandina del film Die Welle (L'Onda), di Dennis Gansel, 20083. Locandina del film Die Welle (L'Onda), di Dennis Gansel, 2008

    Sul piano letterario, il romanzo The Wave (L'onda), pubblicato dallo scrittore statunitense di letteratura per ragazzi Todd Strasser nel 1981, è basato proprio su un esperimento sociale (chiamato The Third Wave) svoltosi in una scuola della California nel 1969, in cui il docente di storia Ron Jones ha simulato l'instaurazione di un modello sociale gerarchico totalitario nella sua classe alla Cubberley High School di Palo Alto.

    Nei casi del libro (e del film11), si è trattato di un investimento intellettuale ed economico rilevante, ma ci sono state anche soluzioni a costo zero, come quelle condotte in un Liceo Artistico di Firenze nel 2011, in una scuola media di Vercelli nel 2017 e più di recente in tante altre scuole italiane.

    Nel Liceo Artistico di Porta Romana (Firenze) la professoressa Marzia Gentilini è entrata in classe il Giorno della Memoria dicendo: «È arrivata una circolare che un po’ mi preoccupa: entro il 15 di febbraio ciascuno di voi deve portare il certificato di nascita e di residenza. Non so se sia per il federalismo o cosa, ma pare che il ministero non paghi più la scuola se non siete nati a Firenze e se non sono prevalentemente nati a Firenze anche i vostri genitori e i vostri nonni. Ci faranno finire l’anno e poi ciascuno di voi deve tornare nei Paesi di provenienza della famiglia». Sull'edizione di Firenze online de «La Repubblica» si possono leggere anche le reazioni commosse e oppositive degli studenti. Rosa Maria De Giorgi, l’assessore all’istruzione, si complimentò con la docente e commentò pubblicamente: «La giornata della Memoria non deve essere un appuntamento rituale che si ferma a una pagina di un libro. La professoressa del liceo ha trovato la strada migliore per bucare lo schermo e attirare l’attenzione dei ragazzi, ha fatto indossare loro la follia di quel momento storico»12.

    Lezione shock al Liceo Artistico di Porta Romana (Firenze), Giornata della Memoria 20114. Lezione shock al Liceo Artistico di Porta Romana (Firenze), Giornata della Memoria 2011. Fonte: la Repubblica (online).

    In occasione della Giornata dei Giusti del 6 marzo 2017, nella scuola secondaria di primo grado “Pertini” di Vercelli, le professoresse Patrizia Pomati e Carolina Vergerio hanno diramato nelle cinque classi terze una finta circolare che imponeva ai ragazzi con almeno un genitore straniero (tutti informati dell'esperimento prima che venisse realizzato) che smettessero immediatamente di seguire le lezioni con i loro compagni e poi a giugno facessero due esami in più, uno per dimostrare “la conoscenza della lingua” e l'altro “la cultura italiana”. Anche in questo caso, gli studenti hanno reagito opponendosi con decisione all'allontanamento dei propri compagni di classe. La dirigente dell'Istituto Comprensivo commentò: «L'esperimento è andato benissimo. Ci aspettavamo ovviamente una reazione, ma non della portata di quella che c'è stata. Forse se ci fosse stata una reazione così forte anche allora le cose sarebbero andate diversamente»13.

    Mentre ne L'Onda la struttura gerarchica chiusa o la cultura e la pratica discriminatoria e violenta, tipiche del NSDAP, vengono semplicemente replicate dalla storia passata nel presente, gli esperimenti delle due scuole italiane hanno l'ambizione di attualizzare l'impianto giuridico-culturale delle istituzioni totalitarie e delle leggi razziali del 1938, spostando i termini del discorso in una dinamica socio-culturale del tempo presente: quella della migrazione e delle politiche migratorie. Entrambe le modalità, pur nella loro diversità, colgono l'aspetto centrale di una simulazione: il rapporto empatico tra il soggetto rappresentato e l'attore della rappresentazione. In altri termini, quegli studenti hanno sperimentato la vertigine, che secondo Roger Caillois è una delle componenti fondamentali e imprescindibili del gioco di simulazione14. In questi casi, si potrebbe dire tecnicamente che la simulazione non ha un pubblico che assiste, ma solo partecipanti attivi, chiamati a decidere, scegliere, prendere la parola e agire in conseguenza della situazione nuova che si è creata, con la possibilità (non solo teorica) di modificarla e in sostanza di determinarne l'esito.

    Se consideriamo le esperienze delle due scuole, la domanda ha rappresentato uno stimolo a pensare al rapporto tra sé e il mondo. Ci si è chiesti: cosa accadrebbe se le politiche migratorie prendessero una piega “eliminazionista”? È evidente che non si tratta solo del tentativo di una speculativa storia contro-fattuale o di una distopia fantascientifica, ma di un'apertura alla riflessione sulla realtà attuale. Si nasconde dunque una domanda ancor più stringente: qual è il nostro giudizio storico (comparato, potremmo dire) sulle attuali politiche migratorie in Italia, in Europa e nel resto del mondo?

    Secondo Antonio Brusa, in generale queste iniziative pongono il problema del rapporto fra empatia/sentimento e storia. Le due manifestazioni (quella di Venaria e quella nelle scuole), seppur diverse nelle modalità, sembrano mostrare una dinamica analoga: si presenta una situazione scioccante, si sollecitano sentimenti, e (nel secondo caso) si discute insieme. È pero difficile confrontare le due performance senza averle viste o senza averne una descrizione analitica: ciò impedisce di formulare un giudizio complessivo.

    Ma il modello che abbiamo sempre messo in cantiere come Historia Ludens è: situazione scioccante + analisi e lavoro storico = condizioni per esprimere un giudizio o uno stato d'animo. Questa fase, dunque, è concepita come un momento di sintesi dopo la fase analitica15. In questo modo, noi pensiamo che l'educazione storica "blocchi" il circuito lucrosissimo delle emozioni, e si ponga anche in un modo assai critico contro l'attuale emotional turn, che ha preso tutti, dai politici ai pedagogisti, ai dirigenti scolastici.

    3. Per un'empatia consapevole

    Qualche giorno dopo, durante la presentazione del Viaggio della Memoria 2018 a cura di Istoreco presso l'Università di Reggio Emilia, posi la stessa questione allo storico Piotr M. A. Cywiński16, direttore del memoriale e del museo di Auschwitz dal 2006. La sua risposta fu sostanzialmente simile: la spettacolarizzazione della storia è una modalità pericolosa perché, facendo leva sui sentimenti, distoglie dalla reale comprensione degli eventi, e rende inutile l'approccio cognitivo proprio delle ricerche storiche, l'unico che rende giustizia alla complessità del fenomeno shoah. Egli sperava che almeno le professoresse avessero preso spunto dalla simulazione per avviare lo studio della storia.

    E allora? Non si tratta di rinunciare ai sentimenti, all'empatia, alle forme di drammatizzazione, ma di invertire l'ordine dei fattori per ottenere un “prodotto” didattico fondato sulla consapevolezza. In breve, si può essere empatici con gli “altri” (nel tempo e nello spazio) solo dopo averli conosciuti e studiati, dopo aver contestualizzato il loro agire all'interno di un quadro storico-culturale che ci apparirà – per qualche verso, in aspetti marginali o in larga misura – diverso dal nostro.

    Nella mia pratica didattica quotidiana nell'IC Leonardo da Vinci di Reggio Emilia, ho provato più volte a sollecitare l'intelligenza degli studenti attraverso il decentramento cognitivo, soprattutto proponendo loro attività di scrittura empatica dopo aver svolto delle attività di studio di documenti, di gioco-laboratorio o di analisi dei contesti storici. I tre casi presentati in allegato di seguito – pubblicati sul blog del bookcrossing scolastico “I libri di Leo”17 – forniscono il risultato di questi tentativi, che sottopongo alla valutazione degli attenti lettori di questo sito.

    Il blog “I libri di Leo” è nato nel 2018, dopo due anni di attività di bookcrossing all'interno della scuola secondaria di secondo grado. Nel giugno 2019, conta in elenco più di 400 libri, più di 160 articoli suddivisi nelle sezioni: recensioni, eventi, scritture, regole, nuovi arrivi. Con trecento visitatori unici ogni mese, gestito da una trentina di studenti che scrivono e amministrano le pagine web, il blog rappresenta una modalità inclusiva e non valutativa di approccio alla lettura. Scrive Shalon (uno studente della classe 2E): «Tutti noi ci siamo iscritti perché crediamo che scrivere su questo sito non sia solo interessante, ma è anche un modo per appassionarci di più nei confronti della scrittura e della lettura, e può servire anche per conoscere le nostre attività. Abbiamo intervistato gli esperti che sono stati invitati a scuola, abbiamo scritto tante recensioni e pareri sui libri letti. Non importa che il giudizio sia sempre positivo, basta partecipare e scrivere il proprio pensiero».

     

    Allegati

    Allegato 1 – San Francesco. Immagini che raccontano storie
    Allegato 2 – Groenlandesi: The End
    Allegato 3 – Giustizia è fatta!

     

    Note

    1. Nel sito si possono leggere i principi generali del Comitato: «La Città di Venaria Reale, di concerto col Comitato promuove e sostiene attività dirette a diffondere e valorizzare il patrimonio storico, culturale e politico della Resistenza antifascista, contribuisce a far vivere ed affermare i principi della Costituzione Repubblicana, a ricordare gli orrori di quel periodo storico e ad assumere comportamenti [grassetto mio] affinché quello che è accaduto non possa più ripetersi».

    2. Sulla rimozione delle colpe in Italia, vedi: Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza 2013, e Massimo Castoldi (a c. di), 1943-1945: I «bravi» e i «cattivi». Italiani e tedeschi tra memoria, responsabilità e stereotipi, Donzelli 2016.

    3. Vedi la galleria fotografica sul sito di FoggiaToday.

    4. Termine di derivazione inglese che significa letteralmente “evento improvviso tra la folla”.

    5. Sono riportate in un filmato di oltre 30 minuti sul sito del quotidiano la Repubblica. È visibile anche una galleria fotografica dell'evento.

    6. LARP è l'acronimo di Live Action Role-Playing, in lingua italiana gioco di ruolo dal vivo (anche abbreviato in GRV). Sui LARP di ambientazione storica vedi Aladino Amantini, I Larp storici, in Chiara Asti (a c. di), Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica, Unicopli 2019.

    7. In occasione della rievocazione storica del 75° anniversario dello sbarco di Anzio, a Nettuno (Roma), un'anziana signora non è riuscita a resistere alla vista delle divise dei soldati tedeschi e «ha iniziato così a inveire contro i figuranti, colpendone anche uno con la borsetta», la Repubblica online, 21 gennaio 2019.

    8. Francesca R. Recchia Luciani, Claudio Vercelli (a c. di), Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico, il melangolo 2016. Il libro raccoglie gli Atti del convegno tenutosi all'Università di Bari il 16 e 17 ottobre 2015.

    9. Su «historialudens.it» si possono leggere la recensione del volume, di Raffaele Pellegrino; e l'articolo sul convegno, di Claudio Monopoli.

    10. Antonio Brusa, Lo scandalo del selfie (2017), su «historialudens.it».

    11. La trasposizione sul grande schermo del romanzo è stata operata dal regista tedesco Dennis Gansel con il film omonimo (Die Welle), nel 2008.

    12. Riportando la notizia dell'iniziativa sul suo blog, il maestro e pedagogista Marco Moschini cita un commento di Rosario Mazzeo, tratto dalla rivista «L'Educatore»: «È importante “sorprendere” perché ci sia un risveglio emotivo. “Stupore” è la prima flessione (reazione) della mente colpita in modo da essere attratta. Infatti il termine “stupore” (da steup, che in sanscrito vuol dire pungere, colpire), richiama l’emozione dell’essere colpito, e quindi del tenere sgranati gli occhi per poter meglio vedere. Più alto è il livello di sorpresa, più acquista importanza la proposta dell’insegnante, perché più alto è il risveglio emotivo».

    13. Si può leggere la notizia completa sulle edizioni locali online de La Stampa e de la Repubblica. Gli studenti, al termine della simulazione, hanno scritto le loro considerazioni finali, tra le quali leggiamo: «Mi sono sentito uno schifo perché non mi ritengo superiore ai miei compagni»; «So che se succedesse veramente i miei compagni si ribellerebbero e mi aiuterebbero»; «Abbiamo reagito così perché erano nostri amici, ma se una cosa è ingiusta, è ingiusta per tutti»; «Anche io ho la possibilità di cambiare le cose».

    14. Roger Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani 1981 (ed. orig. 1958).

    15. Nei giochi di simulazione di HL, il lavoro di analisi è precipuo nella fase di debriefing. Vedi una rassegna recente di giochi in Marco Cecalupo, E Cesare disse: “Si lanci il dado!”, in Chiara Asti (a c. di), Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica, Unicopli 2019.

    16. Piotr M. A. Cywiński, Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz, Bollati Boringhieri 2017 (ed. orig. 2012). Su HL puoi leggere: Enrica Bricchetto, Non c’è una fine. Camminare a Auschwitz con Piotr Cywiṅski, 2017. Su questi temi, vedi anche Enrica Bricchetto, Raccontare la storia? Non è soltanto questione di comunicazione, 2016.

    17. Nella sezione Scritture, oltre a quelli presentati qui, si possono leggere altre esperienze di scrittura empatica di studenti con i titoli evocativi: Grazie capo, Racchiuso in un sacco di emozioni, Secondo i nazisti, Il racconto di Esther, Memorie sotterrate, Una storia, Solo una madre, Il ricordo del passato, A cena con il nemico, Una lettera dall'Afganistan, Da quando sono entrata qui (inoltre, sono in corso di pubblicazione lettere simulate di operai inglesi del XVIII e XIX secolo). Sul diario di Anne Frank, vedi anche: Sono dalla tua parte, Anna!, e, su questo sito, l'articolo Marco Cecalupo, La tua Kitty, risultato di un laboratorio per la Giornata della Memoria 2014.

     

    Bibliografia dei laboratori

    1) Il laboratorio sull'iconografia e l'iconologia di san Francesco d'Assisi è pubblicato in:
    • Marco Cecalupo, San Francesco. Immagini che raccontano storie, in Quaderni, n. 7, Edizioni Istituto Alcide Cervi (Atti della 2° Summerschool Emilio Sereni “Il paesaggio agrario italiano medievale”, 24-29 agosto 2010), pp. 377-386.

    Il lavoro è basato su:
    • Chiara Frugoni, Francesco e l'invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto, Einaudi 1993 (in particolare il capitolo sesto, Francesco e la natura, la predica agli uccelli, pp. 233-268).
    • Chiara Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d'Assisi, Einaudi 1995.
    • Maurizio Chelli, Manuale dei simboli nell'arte. Il Medioevo, Edup 2002.
    • Erwin Panofsky, Il significato delle arti visive, Einaudi 1962 (ed. or. 1955).

    Sull'uso delle immagini nella ricerca storica:
    • Peter Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Carocci 2002 (ed.or. 2001).
    • Francis Haskell, Le immagini della storia. L'arte e l'interpretazione del passato, Einaudi 1997 (ed.or. 1993).
    • Carlo Ginzburg, Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Einaudi 2000.

    Sul laboratorio didattico con documenti iconografici:
    • Antonio Brusa, L'atlante delle storie, 2 voll., Palumbo 2010.
    • Elena Musci, Il laboratorio con le fonti iconografiche, in Paolo Bernardi (a c. di), Insegnare storia. Guida alla didattica del laboratorio storico, Utet 2006.
    • Franz Impellizzeri, Marco Cecalupo, Le immagini delle crociate, in Antonio Brusa (et al.), L'officina della storia, Laboratorio, vol. 1, Ed. Scol. Bruno Mondadori 2008.

     

    2) Il materiale del gioco-laboratorio sui groenlandesi è pubblicato in:
    • Elena Musci, Le colonizzazioni vichinghe, in Antonio Brusa, L'atlante delle storie. La sintassi della storia, vol. 2, Palumbo Editore 2010.
    Il laboratorio è basato sulle ricerche pubblicate in:
    • Jared Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi 2005 (ed. Orig. 2005).
    Una rassegna di giochi di storia a cura di Historia Ludens in:
    • Marco Cecalupo, E Cesare disse: “Si lanci il dado!”, in Chiara Asti (a c. di), Mettere in gioco il passato. La storia contemporanea nell’esperienza ludica, Unicopli 2019.

     

    3) La traccia didattica del laboratorio su Walerjan Wròbel è ricavata da:
    • Antonio Brusa, Scipione Guarracino, Alberto De Bernardi, L'Officina della storia, Laboratorio 3, Ediz. Scol. Bruno Mondadori 2008 (a cura di Francesco Impellizzeri).
    Il riferimento storiografico da cui sono tratti i materiali del laboratorio è:
    • Christoph Ulrich Schminck-Gustavus, Mal di casa. Un ragazzo davanti ai giudici 1941-1942, Bollati Boringhieri 1994 (ed. or. 1986).

  • Socrate e l’Incredibile Hulk

    Autori: Mariangela Galatea Vaglio e Antonio Brusa

    II mondo antico nel romanzo giallo e di fantasy: una rassegna storica e didattica.

    Indice:
    1.    Il genere giallo, fra Grecia e Roma (M.G. Vaglio)
    2.    Il Fantasy, dalle nebbie del nord al Mediterraneo classico (M.G.Vaglio)
    3.    Suggestioni didattiche (A. Brusa)
    4.    Bibliografia


    1.    Il genere giallo, fra Grecia e Roma

    Fra i tanti generi della narrativa di consumo, quello che gode maggiormente dei favori del pubblico è sicuramente il giallo. Il genere, che nei paesi anglosassoni viene più correttamente definito mistery story, è un romanzo in cui il centro dell’azione è l’indagine attorno ad un delitto. Nasce sul finire dell’ottocento, nel pieno fulgore dell’epoca positivista. I due padri riconosciuti sono l’americano Edgar Allan Poe, e l’inglese Arthur Conan Doyle, creatore dell’immortale Sherlock Holmes.

    Nel corso dei suoi cento e più anni di vita il genere si è sviluppato e codificato, suddividendosi a sua volta in sottogeneri che annoverano centinaia di migliaia di cultori ed appassionati. Si hanno così il giallo classico o all’inglese, dove tutta l’azione si gioca su una schermaglia puramente celebrale fra detective ed assassino (o fra autore e lettore); il giallo d’azione (talvolta anche indicato come giallo all’americana) dove i protagonisti sono spesso gangster e la descrizione dell’ambiente sociale dei personaggi, lo sfondo, diviene primario. Sottogenere collegato al giallo classico va considerato anche il romanzo di spionaggio, in cui la trama si incentra su grandi intrighi internazionali che vengono sventati da agenti segreti in servizio più o meno regolare. Ognuno di questi sottogeneri meriterebbe una approfondita trattazione a parte, e per ciascuno di essi esiste già una nutrita bibliografia. Il genere giallo infatti più di ogni altro della narrativa di consumo si distingue per l’enorme varietà di autori e per la diversità di esiti e di valore letterario dei romanzi appartenenti ad esso. Hanno scritto gialli all’inglese tanto Agatha Christie che Jorge Luis Borges, si sono occupati di storie di spionaggio sia Graham Green che Ian Fleming, e risulta assai difficile confinare nel limbo della cosiddetta paraletteratura scrittori come Chandler, Simenon, Vasquez Montalban, Pennac. La nostra attenzione sarà focalizzata su di una serie di romanzi gialli scritti da autori diversi che però hanno la comune caratteristica di aver scelto come ambientazione dei loro delitti immaginari l’evo antico o di aver ripreso alcune tematiche della tradizione classica. Perché ? E quali sono gli aspetti dell’antico che vengono sfruttati in tali romanzi ? Andiamolo a scoprire.

    Le radici del giallo ed il pensiero classico
    Nessun autore classico, è superfluo dirlo, ha mai scritto dei gialli, almeno nella accezione più rigida del termine. In realtà due sono almeno gli scritti antichi che potrebbero fregiarsi del titolo di gialli, o per lo meno di racconti con indagine: l’episodio biblico di Susanna ed i Vecchioni ed il racconto del Faraone egiziano Rhampsinitus narrato da Erodoto. Nessuno dei due passi, però, si occupa di un omicidio. Tuttavia il giallo, proprio per la sua impostazione severamente razionalista, ha sempre rivendicato una discendenza in qualche modo diretta dal mondo e dalla cultura classica. La stessa impostazione del genere è aristotelica, richiedendo unità di tempo (il delitto avviene il giorno X e da quel momento parte l’indagine che continua senza soluzione di continuità fino alla soluzione), di luogo (centro dell’azione è il luogo dell’omicidio, le indagini si snodano quasi tutte nella medesima città) d’azione (il delitto su cui si indaga è uno solo, gli altri eventualmente sono consequenziali ad esso, quando si scopre il colpevole termina l’azione). La struttura narrativa, poi, si articola in una serie di azioni che fanno salire l’attesa fino allo scioglimento finale, che ha un effetto di una vera e propria catarsi sul lettore. L’investigatore infine ragiona, da Sherlokh Holmes in avanti, secondo criteri rigidamente aristotelici, usando sillogismi per collegare i vari indizi. .

    Socrate, l’investigatore
    Un rapporto più diretto fra la filosofia antica ed il mondo del giallo viene presupposto da due racconti di Breni James, scrittrice attiva negli anni ’50, che pubblicò sulla Ellery Queen’s Mistery Magazine, in cui l’investigatore protagonista era Socrate e che ricalcano nelle movenze l’impostazione dei dialoghi platonici.

     
    Socrates solves another murder (1955).

    Nel primo di essi, Socrate risolve un omicidio, comincia il giorno stesso in cui si conclude il Simposio di Platone. Tornando a casa Socrate si trova coinvolto nella morte del pitagorico Tideo, schiacciato da una statua di Eros, ed in quella del di lui amante, Echesicrate, ritrovato impiccato nella sua casa. Socrate per far luce sul duplice omicidio si serve del medesimo metodo di indagine che usa per i dibattiti filosofici, cioè un fuoco di fila di domande, di cui dà l’impressione di conoscere già la risposta :

    SOCRATE : Allora, Aletto, chi ci ha preceduti in questa richiesta?
    ALETTO : Per l’acqua ? Nessuno
    SOCRATE : Può l’acqua purificatrice essere attinta da un pozzo o da altra fonte comune ?
    ALETTO : No, deve essere ottenuta da un sacerdote o da una sacerdotessa :
    SOCRATE : E c’è qualche altro sacerdote più vicino alla casa di Tideo ?
    ALETTO : No. Io sono la più vicina.
    SOCRATE : Allora possiamo desumere che l’acqua sia stata ottenuta qui
    (...) ALETTO : Tu hai un demone come consigliere !
    ARISTODEMO : O no, Aletto, è come dice Cebe : Socrate può porre una domanda ad una persona in modo tale che ne venga fuori solo la risposta vera  .

    Edipo e Roger Ackroyd
    Ma, a parte  questi richiami alla tradizione classica, analizzando la procedura standard del plot (cioè della trama) del giallo tipo - delitto, indagine portata avanti tramite una serie di interrogatori condotti dall’investigatore, esame degli indizi e risoluzione finale a sorpresa -  si è giunti a sostenere che almeno un precedente classico  vero e proprio e di tutto rispetto per il giallo ci sarebbe: l’Edipo Re.

    “Edipo - scrive Giorgio Galli  - sarebbe stato il primo ad investigare sulla causa del turbamento dell’ordine e della violazione della legge. E se così fosse il plot sarebbe geniale, perché farebbe dell’autore dell’indagine l’autore stesso del crimine. Una sorta di anticipazione dell’Agatha Christie del caso di Roger Ackroyd ”. Sulla affinità fra la struttura dell’Edipo re ed il giallo concorda anche Walter Burkert . Del resto, nessun nume tutelare potrebbe essere più appropriato di questo personaggio mitologico, noto proprio come abile solutore d’enigmi.

    La Pizia di Durrenmatt
    Forse non sarà allora un caso che proprio uno degli ultimi rimaneggiamenti della leggenda di Edipo sia stato scritto da un autore che, se è riduttivo definire un giallista, certo ha usato spesso e volentieri la forma del giallo per i suoi racconti, ovvero Friederich Durrenmatt. In La morte della Pizia (1976) lo scrittore racconta nuovamente la leggenda di Edipo. La protagonista è la Pizia stessa che, venuta a conoscenza di come il suo antico oracolo, inventato per puro caso, sia divenuto poi realtà, ripercorre a ritroso tutta la storia di Edipo, scoprendo che solo una serie incongrua di circostanze fatali e di intrighi politici ha portato la profezia a compiersi apparentemente. Durrenmatt conclude che “la verità resiste in quanto tale soltanto se non la si tormenta”  ed il mito greco viene usato, e smontato, per dimostrare l’impossibilità di conoscere la verità per l’uomo in un mondo in cui avvenimenti che lui razionalizza attraverso spiegazioni complesse sono in realtà frutto del caso.

    Il nome della Rosa e Aristotele
    Se La morte della Pizia di Durrenmatt non è propriamente un giallo nel senso rigoroso del termine, ma un racconto di indagine in senso lato in cui la tradizione della logica classica di stampo aristotelico viene stravolta a tutto vantaggio di una interpretazione nichilista, vi è un giallo vero e proprio in cui, in maniera del tutto analoga, la tradizione classica aristotelica viene fatta miseramente fallire nel tentativo di venire a capo di una serie di misteriosi delitti: si tratta de Il Nome della Rosa di Umberto Eco. Il detective protagonista, fra’ Guglielmo da Baskerville (come il “Mastino” di Conan Doyle), è un fine cultore dello Stagirita, che, alle prese con una serie di delitti all’interno di una abbazia, applica rigorosamente le deduzioni razionali agli indizi, salvo scoprire che il meraviglioso castello da lui costruito lo porta ad individuare il colpevole per puro caso :

    “Non v’era una trama” disse Guglielmo “ E io l’ho scoperta per sbaglio” L’asserto era contraddittorio e non capii se Guglielmo voleva che lo fosse...” Sono arrivato a Jorge attraverso uno schema apocalittico che sembrava reggere tutti i delitti, eppure era casuale...Sono arrivato a Jorge inseguendo il disegno di una mente perversa e raziocinante, e non vi era alcun disegno, ovvero Jorge stesso era stato sopraffatto dal proprio disegno iniziale e dopo era iniziata una catena di cause e di concause e di cause in contraddizione fra loro, che avevano proceduto per conto proprio, creando relazioni che non dipendevano da alcun disegno... l’ordine che la nostra mente immagina è come una rete, o come una scala, che si costruisce per raggiungere qualcosa. Ma dopo si deve gettare le scala, perché si scopre che, seppure serviva, era priva di senso”

    Va detto che nel Nome della Rosa il fattore scatenante dei delitti è il possesso del secondo libro della Poetica di Aristotele: il tentativo di nascondere questo libro spinge all’omicidio Jorge, ex bibliotecario cieco dell’abbazia. E certo una qualche ironia è sottesa alla scelta proprio di un libro di Aristotele come movente per gli omicidi.

    Per quanto ambientato dunque nel Medioevo, il libro di Eco riprende il tema della cultura classica e soprattutto il problema della riattualizzazione del pensiero classico in epoche seriori.

    Nel giallo contemporaneo, dunque, la tradizione di infallibilità della logica aristotelica classica, che la James giustamente individuava come la matrice da cui il giallo si sviluppa (e Socrate a buon diritto è il padre di tutti gli investigatori), si presenta incrinata, non più sufficiente a spiegare e chiarire i comportamenti umani.  Questi gialli antiaristotelici e fatalisti sono figli della polemica filosofica contemporanea. Il nichilismo, beffardo e senza speranza in Durrenmatt, più mediato in Eco, vince la razionalità  degli antichi. La catastrofe -  e si usa volutamente un termine aristotelico - dell’omicidio non è più spiegabile razionalmente, né imputabile ad un fato predeterminato e quindi, in qualche maniera, logicamente ricostruibile almeno a posteriori dalla razionalità dell’essere umano, ma dipende dal puro caso che concatena circostanze diverse ed imprevedibili.  Siamo, per il giallo, pericolosamente vicini al punto di non ritorno, giacché il genere per sua natura richiede alla fine una soluzione razionale. Esattamente come l’indagine filosofica, non a caso alle prese in questa fine di millennio con il medesimo problema.

    Il pugnale sotto la toga : il giallo storico e Roma antica
    Un sottogenere fortunato del genere giallo è il giallo storico, ovvero una storia di delitti ambientata in una qualsiasi epoca storica passata. Grande autore del genere fu - nel periodo d’oro del giallo all’inglese - John Dickson Carr, che ambientò numerosi suoi romanzi in svariate epoche, dalla fine del ‘600 all’’800. Attualmente le ambientazioni favorite dai giallisti vanno dal periodo vittoriano a quello medioevale, affollato da una serie di scrittori come Ellis Peters o Paul Harding, oltre al già citato Eco, che hanno inventato investigatori quasi sempre in abito talare.

    Ma una nuova tendenza di successo fra i giallisti pare essere quella di ambientare i loro misteriosi delitti a Roma antica, in periodi variabili dalla Roma dei Giulio Claudi a quella dei Flavi, da quella degli Antonini a quella dei Severi.

    La scelta di Roma antica per delitti d’epoca è una moda relativamente recente, che si può far risalire all’incirca all’inizio degli anni ’90. Prima di questa data gli unici gialli ambientati nell’antichità risultano essere C’era una volta (Death comesat the End, 1941), di Agatha Christie, che si svolge ai tempi dell’Egitto faraonico, ed una serie di racconti di Wallance Nichols, scritti negli anni ’60 ed aventi per protagonista lo schiavo investigatore Sollius, operante alla corte di Marco Aurelio e Commodo. Non si può escludere che la possibilità di scegliere come sfondo la Roma dei Cesari sia stata favorita anche dalle evoluzioni del costume nella nostra società: l’ambientazione in un mondo in cui le categorie della morale, specie di quella sessuale, erano molto più ‘aperte’ sarebbe risultata difficile da far accettare al pubblico per un giallista degli anni ’20 o ’30, periodo in cui le mistery stories si segnalavano per il moralismo conservatore.

    Il mondo antico in questa serie di romanzi viene tratteggiato in generale con una certa sapienza. Gli autori dimostrano di essersi informati sulla vita quotidiana dell’antica Roma, di cui conoscono bene usanze, vezzi e tipografia. Frequentemente durante il racconto inseriscono pause in cui spiegano ai lettori lo svolgimento di feste o cerimonie particolari della vita romana. Roma, inoltre, fu la grande e vera metropoli dell’antichità, ed anche questa caratteristica la favorisce per essere scelta come sfondo. Il giallo ha fra le sue peculiarità quella di essere un genere essenzialmente metropolitano. Roma antica può essere considerata la proiezione per il mondo classico di quello che Londra e Parigi furono per il giallo della fine dell’Ottocento. Roma, ombelico del mondo in cui si incrociavano tutte le razze, in cui confluivano le ricchezze di tutto l’impero e nel cui senato si discuteva, fra congiure ed intrighi, le sorti dell’orbe, è dunque lo scenario più adatto per ogni tipo di giallo, da quello classico a quello di spionaggio. Essa presenta così tante affinità con il mondo moderno al lettore viene richiesto solo il minimo sforzo di assorbire qualche nozione specifica, peraltro fornita graziosamente dagli autori, per poi godersi un ennesimo esempio del suo genere preferito.

    Publio AurelioStazio, un bravo ragazzo
    Prendiamo in considerazione ad esempio i romanzi di Danila  Comastri Montanari. L’autrice ha esordito nel 1990 con un giallo dal titolo Mors tua, cui sono seguiti in rapida successione altri quattro romanzi (In Corpore Sano, Cave Canem, Morituri te salutant, Parce sepulto). Il protagonista della serie è il senatore Publio Aurelio Stazio, patrizio romano colto, bello, ricco, moderatamente libertino e con la spiccata tendenza ad inciampare in cadaveri. L’ambientazione è sotto il regno dell’imperatore Claudio, di cui Aurelio Stazio è stato allievo, quando ancora lo zoppo rampollo dei Giulio Claudi era uno studioso grigio e balbuziente sbertucciato da tutta la famiglia. I luoghi in cui la Comastri ambienta i suoi delitti sono quelli topici di Roma antica: le domus della nobilitas, il circo e le scuole dei gladiatori, le ville della Campania, la scuola di retorica.
     
    Le sintesi e le anteprime dei libri di Danila Comastri Montanari

    Oltre che da studi sulla vita di Roma antica, la Comastri Montanari si fa influenzare anche, evidentemente, da fonti che con l’antichità non hanno a che fare. Il suo ritratto dell’imperatore Claudio, considerato un monarca saggio, uno studioso in fondo simpatico, risente, più che delle fonti coeve, della lettura delle due biografie romanzate di Claudio scritte da Robert Graves, Io Claudio e Il divo Claudio. Presi invece in pieno dalla commedia latina sono i due servi che si occupano del senatore Stazio. La società romana della Comastri è una società quasi identica a quella in cui siamo abituati a vivere, ed i personaggi che Aurelio Stazio frequenta sono tipi dei giorni nostri in abiti antichi.

    Nel corso delle sue numerose indagini il senatore interroga una mima che viene descritta come una pornostar dell’epoca; in In corpore sano l’antagonista di Aurelio è la greca Mnesarete, donna medico, coinvolta in una sordida storia di aborti clandestini; in Cave Canem il senatore smaschera la colpevole e scopre uno scambio avvenuto in fasce tra due neonati intuendo con qualche millennio di anticipo le leggi della genetica di Mendel; in Parce Sepulto, infine, Stazio ha come contraltari sia Giunia Irenea, matematica greca di costumi assai liberi, sia Elio Corvino, affarista e banchiere spregiudicato che in quanto a sete di denaro non  risulterebbe secondo a nessuno speculatore di Wall Street.

    Il senatore Stazio, che ha tutte le stigmate dell’eroe di feuilleton e come tale rimane, in buona sostanza, un ‘bravo ragazzo’, dimostra per molti argomenti una sensibilità tipica da ventesimo secolo: così, ad esempio, quando scopre, per caso, di essere proprietario di insulae malsane e cadenti le fa rimettere prontamente a nuovo, si preoccupa dell’educazione di due ragazzini poveri che incrocia, si comporta in modo politicamente corretto con gli appartenenti alle minoranze etniche (infatti intrattiene rapporti di amicizia con un mercante ebreo che gli affida l’indagine per la morte della figlia) e religiose (si imbatte persino in una comunità cristiana, che naturalmente rispetta),  tratta umanamente e libera in blocco l’intera sua familia urbana e, nonostante si connoti come un instancabile seduttore, rimane rigidamente eterosessuale.

    Il pigro Ponzio Epafrodito
    Altro autore di gialli togati è il catanese Rosario Magrì. La Roma in cui ambienta la serie dei suoi romanzi (due fino ad oggi, La Statua d’oro del 1984 e Il sale in bocca del 1990) è quella dei Severi. Protagonista delle indagini è Ponzio Epafrodito, comandante dei vigili di Ostia, un cinquantenne pigro e disincantato, sostanzialmente indifferente alle beghe del potere. Le sue avventure, più che alla categoria del giallo classico, vanno ascritte a quella del romanzo di spionaggio o d’intrigo internazionale. Il capo dei vigili si trova invischiato ad esempio, ne Il sale in bocca, in una oscura vicenda di profezie etrusche e cerca di recuperare un amuleto cui danno la caccia Giulia Domna, Caracalla, Geta, l’ultima discendente della gens Tarquinia, e un Arabo commerciante d’incenso agente dei Parti. Sostanzialmente identiche nell’impostazione anche le avventure di Marco Didio Falco, detective privato vero e proprio nella Roma di Vespasiano, eroe di diversi romanzi della giallista inglese Lindsey Davies (Le miniere dell’imperatore, 1989, cui fanno seguito, non ancora tradotti in italiano: Shadow in Bronze, 1990; Venus in Copper, 1991; The Iron Hand of Mars, 1992; Poseidon’s Gold, 1993).  

                              

    Spie e complotti al tempo di Cesare
    Sempre al filone del giallo di spionaggio va ascritto anche S. P. Q. R. di John Maddox Roberts (1990). Il romanzo è ambientato negli ultimi anni della Repubblica. Il protagonista, il giovane Decio Cecilio Metello, un vigintiviro alle prime armi, indagando sulla morte di due liberti scopre una congiura per rovesciare i consoli in carica che coinvolge Crasso, Pompeo, Giulio Cesare, Ortensio Ortalo, Publio Clodio ed ha come mente ispiratrice Clodia, ambiziosa e sfrenata dark lady dei sette colli. Fugaci apparizioni sono riservare a Cicerone e a Milone, qui avventuriero appena giunto nell’Urbe, che aiuta e salva Cecilio Metello da un agguato di Clodio. Maddox Roberts, scrittore di libri fantasy noto per essere il continuatore della saga di Conan il Barbaro, ha scritto altri quattro romanzi ed un racconto che hanno per protagonista Cecilio Metello e lo seguono per tutta la sua carriera: The Catiline Cospiracy (1991), The Sacrilege (1992), The temple of the Muses (1992), Saturnalia (1993) e Mightierthan the sword  (1996).
    Le trame, come si nota, sono assolutamente analoghe a quelle dei gialli ambientati nella nostra epoca. Unica caratteristica interessante nei due ultimi plot riassunti è la analogia della scelta come personaggi ambigui (agenti dei Pirati cilici o dei Parti) di mediorientali, mentre in genere gli ebrei sono connotati positivamente (interpretazione che gli autori non desumono certo da fonti classiche, poiché Greci e Romani furono sempre piuttosto diffidenti verso i discendenti di Mosè).

    L’Occidente, analogo di Roma
    La tentazione di leggere in ciò una proiezione, probabilmente inconscia negli stessi autori, delle paure che attanagliano il mondo Occidentale di questa fine di millennio, che, nel gioco di alleanze internazionali è legato ad Israele mentre non riesce a scalfire il blocco omogeneo del Mondo Arabo, è forte. Roma in questo caso si connoterebbe come ‘civiltà analoga’ anche in un senso più pregnante.
    Caduto il muro di Berlino e terminato l’antagonismo con l’ex blocco Sovietico, l’Occidente, proprio come Roma Antica, si trova a fronteggiare un Medioriente che non riesce a comprendere, ma che non può abbandonare a sé stesso per motivi di sicurezza. Il tipo dell’orientale subdolo ed infido, che dispone di grandi capitali per corrompere e sviare la politica internazionale dell’Occidente a proprio vantaggio, è un cliché già ampiamente presente nella produzione di gialli di spionaggio ambientati nella nostra epoca, e, dopo le Twin Towers, non solo nei libri di spionaggio. In Roma antica tale tipo di orientale può vantare il precedente storico e letterario di alto livello, cioè Giugurta, che sbarcò nell’Urbe convinto che tutto lì si potesse comprare (“Quippe Romae omnia venire in animo haeserat”, Sall. Bell. Iug.  XXVIII, 1) Una ipotesi che gli avidi senatori romani si prodigarono in ogni maniera a confermare esatta.

    Atei, agnostici e monaci
    Altro tratto che accomuna tutti gli investigatori in toga è il sostanziale scetticismo in materia di fede religiosa. L’investigatore di gialli nasce, abbiamo visto, in periodo positivista e si connota come un razionalista convinto. Tuttavia nessun detective viene mai descritto dagli autori di gialli classici come dichiaratamente ateo (si è già detto che il giallo è un genere di narrativa di consumo, quindi ben raramente gli autori citano particolari che potrebbero offendere o in qualche modo indispettire il loro pubblico): sul problema si glissa. Nei gialli ambientati nel medioevo la totalità degli investigatori appartiene al clero (Guglielmo da Baskerville, fratello Cadfael, fratello Althestan, sorella Fidelma) pur se ad ali particolarmente illuminate ed aperte al razionalismo.
    Per alcuni degli investigatori in toga, il problema del rapporto con la religione cristiana non si pone per motivi di ambientazione cronologica. Due almeno sono invece i casi di aperta critica al cristianesimo. Publio Aurelio Stazio è dichiaratamente un epicureo, contrario per principio ad ogni forma di religione repressiva ed insofferente, per quanto rispettoso, alle rigide e per lui assurde regole delle comunità ebraiche e paleocristiane con cui ha a che fare.

    “Aurelio nutriva scarsa fiducia nell’esistenza di un dio qualunque, ivi compresi Giove Olimpico e gli altri Numi, ai quali offriva compunti sacrifici nelle ricorrenze prescritte, più per una strana lealtà verso i protettori ufficiali della sua patria che per timore di ritorsioni celesti ; inoltre era convinto che, se gli Immortali fossero esistiti, si sarebbero ben guardati dall’intervenire nelle faccende umane. (Mors tua, p. 41)”

    Giovanni l’Eunuco, seguace di Mitra
    Credente, ma di Mitra, è invece Giovanni l’Eunuco, gran Ciambellano dell’imperatore Giustiniano, inventato da Mary Reed e Eric Mayer nel racconto Un mistero bizantino (in Tempo di Delitti). Giovanni, incaricato da Giustiniano di ritrovare la reliquia della Croce di Cristo rubata dalla chiesa di Costantinopoli durante le sommosse di Azzurri e Verdi (le fazioni sportive, che non di rado assumevano carattere politico), scopre il colpevole, ma, non potendo ricuperare la reliquia autentica bruciatasi, la sostituisce con un pezzo di legno qualsiasi :

    “Perché, in fondo, cos’era quella reliquia se non superstizione ? E in ogni caso, ora gli Azzurri non avrebbero avuto alcun vantaggio soprannaturale, pensò Giovanni l’Eunuco, servo di Mitra e sostenitore dei Verdi, mentre camminava lentamente verso casa.”

    E’ ragionevole pensare che tali attestazioni di scetticismo molto spinto, quasi al limite dell’ateismo vero e proprio, siano concesse ai personaggi proprio grazie ai mutamenti intervenuti negli ultimi anni nella nostra società. In un mondo sempre più secolarizzato, aumenta il numero di lettori che si può riconoscere con facilità nel pagano ed incredulo Stazio più che in qualche cristiano suo contemporaneo. Anche in questo caso la narrativa di consumo si rivela, oltre che fonte di svago, anche importante attestazione dei cambiamenti sociali avvenuti nella mentalità della società contemporanea.  

    2.    Il fantasy, dalle nebbie del Nord al Mediterraneo classico.

    Il genere fantasy, strictu sensu, dovrebbe comprendere unicamente racconti ambientati in un mondo dalla cronologia incerta fra il futuro ed il medioevo ancestrale, i cui protagonisti sono eroi cavallereschi attorniati da un contorno di fate, elfi e gnomi. Esempi classici di romanzi fantasy possono essere considerati quelli di Tolkien, il vero inventore del genere. Il Fantasy si connota quindi come un genere essenzialmente legato alle leggende di ambientazione nordica, e che quindi nulla dovrebbe aver a che fare con la classicità. Tuttavia qui il termine sarà usato in una accezione un po’ più vasta, per comprendere anche una serie di romanzi d’avventura in cui però i protagonisti si trovano ad aver a che fare con avvenimenti legati, ad esempio, all’avverarsi di antiche profezie testimoniate da fonti classiche. Questo tipo di fantasy si pone dunque a mezza via tra il fantasy propriamente detto ed il romanzo d’avventura alla maniera di Jules Verne o Salgari. Inoltre sono comparsi sul mercato anche alcuni romanzi propriamente fantasy, che propongono però come protagonisti i personaggi della mitologia classica, tentando quindi di trasportare l’ambientazione del genere dalle sconfinate plaghe del nord all’ambiente mediterraneo. Proprio come il giallo, anche il fantasy conta centinaia di migliaia di appassionati e non è un genere solamente letterario. Anzi, si può dire che la grande diffusione sia avvenuta grazie al cinema. Infatti in questa accezione larga del termine che qui si propone, vanno considerati come appartenenti al genere fantasy anche, ad esempio, i film della trilogia di Indiana Jones, che hanno goduto di un successo planetario.

    Il lato oscuro della classicità.
    Romanzi d’avventura che si rifacciano a suggestioni dell’antichità non sono certo una novità nel panorama della narrativa di consumo. Da sempre il mistero emanato da antiche maledizioni, città scomparse e tombe profanate è alla base di racconti, romanzi e fumetti. Tuttavia questi scritti raramente si occupavano di misteri riguardanti direttamente il mondo greco o latino. Dai Racconti del terrore di Arthur Conan Doyle all’Atlantide di Pierre Benoît (e all’Isola Misteriosa di Jules Verne) l’attenzione degli autori ha preferito indirizzarsi o verso il mondo egizio, pullulante di maledizioni di faraoni, mummie assassine e quant’altro, o verso il mito di Atlantide continente perduto, che, seppure inventato da Platone, si era arricchito di mistero nel corso dei secoli e comunque riguardava pur sempre una civiltà diversa da quella greca classica.

    La renitenza a riprendere alcuni temi direttamente dal patrimonio mitico e storico della classicità, che pure non manca di spunti, era probabilmente dovuta all’immagine eccessivamente razionalistica che per lungo tempo si è avuta della società greca e romana.  Illuminante per quanto riguarda questa falsa immagine che era diffusa dell’antico è un passo di Eric Dodds :

    “Qualche anno fa, al Museo Britannico, mentre osservavo le sculture del Partenone, un giovane mi si avvicinò e mi disse con aria preoccupata : “Quel che vi confesso è un’enormità, lo so, ma questa roba greca non mi commuove affatto.” “Molto interessante” risposi “ Saprebbe forse definire le ragioni di questa indifferenza ?” Rifletté un paio di minuti e poi : “ Be’ non so se mi spiego : è tutto così tremendamente  razionale!”...Ad una generazione che ha educato la propria sensibilità sull’arte africana o azteca, sulle opere di uomini come Modigliani o Henry Moore, l’arte dei Greci e la cultura greca possono apparire prive di senso di mistero, incapaci di penetrare gli strati più profondi e meno coscienti dell’esperienza umana..”

    Lo stesso Dodds si incaricò poi di indagare proprio i lati oscuri dell’antico, dimostrando quanto di irrazionale vi fosse sotto alla superficie apparentemente levigata della società antica.  Non è escluso che questi lavori abbiano contribuito ad aprire la strada agli scrittori fantasy, che infatti paiono andar a cercare per scrivere le loro opere proprio questi aspetti irrazionali, barbarici verrebbe da dire, della classicità stessa.

    Valerio Massimo Manfredi, tra miti antichi e complotti moderni
    Se già nei gialli ambientati nella Roma antica vi è la tendenza a descrivere i culti più strani praticati nell’Urbe, tale fascino per le leggende fosche domina nei romanzi fantasy e d’avventura di Valerio Massimo Manfredi, antichista e scrittore.
    Manfredi tende a scegliere come punto di partenza per le sue trame i ‘buchi neri’ della tradizione classica, ovvero profezie oscure, varianti poco note di saghe conosciutissime, informazioni marginali di scrittori come Plinio o Erodoto. In Palladion si riprende in mano la confusa leggenda, piena di varianti contraddittorie, del Palladio di Troia. La trama complessa  che si svolge ai giorni nostri finisce col coinvolgere i Bronzi di Riace, e assume i tratti di una spy story mitologica.Sempre ambientato nel presente è L’Oracolo. Il romanzo prende le mosse dalla profezia di Tiresia ad Ulisse riguardante l’ultima odissea del re itacense, un viaggio terrestre che Ulisse per destino dovrà compiere prima di poter morire serenamente. Ma il fato di Ulisse si incrocia al destino di un giovane studioso, la cui vita viene sconvolta dal colpo di stato in Grecia, durante il quale muore la giovane di cui è innamorato. Per vendicarne l’omicidio, lo studioso inizia una serie di vendette, che vengono scandite al ritmo di passi di profezie contenute in autori classici. Suo collaboratore diviene un misterioso personaggio dalle molte identità, che alla fine si rivela come lo stesso Ulisse, mai morto e deciso a sfruttare, con la sua consueta astuzia, il piano del giovane per portare a termine il viaggio pronosticatogli da Tiresia millenni addietro.

    Fra l’antichità e gli anni Trenta si svolge invece la trama de La torre della Solitudine, in cui un giovane archeologo, un monsignore astronomo coadiuvato da Guglielmo Marconi, la regina di una tribù africana sono tutti alla ricerca di una misteriosa torre che riceve ancor più misteriosi segnali dallo spazio profondo. Loro unica guida alcune annotazioni sul popolo dei Blemmi di Plinio ed il confuso memoriale di un aruspice Etrusco.
    Fantasy vera e propria invece può essere considerato il romanzo Le Paludi di Esperia, in cui si rinarra la leggenda di Diomede, esule in terra italica, operando una collazione fra informazioni provenienti dalle fonti classiche (Odissea, scoliastica, accenni di Licofrone, frammenti di storici minori) e i dati delle più recenti scoperte archeologiche.
    Della chiara razionalità antica che tanto annoiava il giovane interrogato da Dodds, come si vede, resta poco. Il mondo di Manfredi pare discendere in linea retta dalle necromanzie della maga tessala di Lucano, o da tutta quella tradizione di racconti orrorifici, visioni di fantasmi e narrazioni di prodigi strani di cui Luciano si faceva aperta beffa nel suo Incredulo. Siamo esattamente nello stesso mondo in cui opera il personaggio forse più famoso di Steven Spielberg, Indiana Jones, archeologo e studioso, non a caso, di esoterismo. Dei tre film che hanno per protagonista il personaggio (I Predatori dell’Arca Perduta, Indiana Jones ed il tempio maledetto, Indiana Jones e l’ultima Crociata), due toccano di striscio il mondo classico, essendo Indiana Jones impegnato nella ricerca della mitica Arca dell’Alleanza nel primo, e dell’altrettanto mitico Santo Graal nel terzo.  Anche qui ciò che del mondo antico affascina sono i lati esoterici, ovvero quei misteri che, sfiorando il soprannaturale, non sono spiegabili attraverso le razionalità pura e semplice.

    Un Hercules debole in storia
    L’antico descritto dunque da Manfredi e Spielberg sembra rispondere bene alla richiesta di un mondo classico più barbarico, oscuro, esotico. Sulla stessa linea pare muoversi anche la più recente rilettura televisiva della mitologia greca, la serie di telefilm Hercules prodotta da Sam Raimi e trasmessa anche in Italia.  Le storie della mitologia qui sono ridotte a puro pretesto. Si ha l’impressione che gli sceneggiatori conoscano poco o nulla delle leggende che tentano di citare, dopo averne sentito forse vagamente parlare. A parte Hercules e Iolao, persino l’onomastica dei personaggi è quasi del tutto casuale ed anellenica. Della leggenda originale resta, almeno per un certo numero di puntate, l’antagonismo fra Hercules e Giunone. Ma poi la sceneggiatura vira verso il fantasy e s’imbastarda con elementi nordici, per cui Hercules combatte con gli dei del Wahalla, ha avventure nell’Irlanda degli Elfi, incrocia Merlino e re Artù, coadiuvato da un’amazzone, Xena, protagonista a sua volta di una serie di telefilm in proprio.

    Il target cui questi prodotti si rivolgono è chiaramente un mercato americano in cui la percezione e la stessa conoscenza della mitologia greca è al di sotto di qualsiasi soglia minima. Hercules, muscoloso supereroe che ricorda più che altro gli eroi del wrestling, con i suoi occasione aiutanti talvolta incontra anche personaggi storici, come Cleopatra, Cesare, Antonio ed Augusto. A parte l’assoluta fantasiosità della cronologia, non è un caso che tali personaggi siano gli unici abbastanza noti anche ad un pubblico statunitense medio basso, in quanto pur sempre protagonisti di tragedie di Shakespeare. Insomma, è la cultura (scarsissima) del pubblico che determina, al di là di qualsiasi lettura più sofisticata, chi mandare in scena. Al contrario di quanto avveniva, anche con troppa ingenua pretenziosità, nei Kolossal hollywoodiani dell’età d’oro che volevano almeno tentare di erudire i propri spettatori, qui l’unica cosa che si cerca è di tenerli davanti al teleschermo. Hercules è solo una versione più antica dell’Incredibile Hulk.

    3.    Suggestioni didattiche

    A lezione di metodo
    Prima ancora di occuparci del suo contenuto, è il genere giallo in quanto tale che stabilisce una forte relazione con la narrazione storica, e quindi con la didattica. Lo illustra bene Ellen O’ Gorman, nel suo raffronto serrato fra racconto storico e racconto giallo. Entrambi (lo storico e lo scrittore) seguono strategie parallele e perseguono obiettivi analoghi (O’Gorman, 1999, pp. 20 s). Infatti, entrambi:

    -    Cercano la soluzione di un enigma
    -    Ci riescono attraverso il vaglio di evidenze materiali e l’accurata interrogazione di testimoni
    -    Lavorano sotto un solo padrone: la verità

    Il giallo (scrive bene O’Gorman) più che la storia del passato (il crimine) racconta la storia della sua scoperta. Paradossalmente, quindi, è più trasparente del racconto storico, che, molto spesso (e nei manuali sempre), tiene nascosto il percorso di ricerca. Paradossalmente ancora, il grande pubblico (e gli allievi in particolare) possono prendere conoscenza di questo percorso e osservare come funzionano le sue “regole di ragionamento”, più leggendo un romanzo giallo che un testo di storia. E’ come se l’autore della comunicazione storica “snobbi” la rivelazione delle sue “regole per pensare”, che tende a considerareun affare interno alla sua comunità. Le valuta una sorta di storia di secondo grado, rispetto alla “scoperta” che gli preme comunicare. Le estrapola, magari, e le presenta a parte, in una prefazione metodologica o le nasconde nel sottosuolo delle note a piè pagina. Al contrario, il giallista fonda la sua comunicativa proprio sul racconto del percorso. I suoi errori, gli intoppi, le fonti, le obiezioni, le scoperte, le avversità e la soddisfazione della scoperta finale sono precisamente il sale della vicenda che racconta.
    Ma c’è un secondo parallelismo, non meno interessante, che la studiosa mette in rilievo analizzando i racconti dei gialli “hard boiled”, i cui protagonisti appaiono, a prima vista, quanto più distanti dal pacioso mestiere dello storico. Philip Marlowe e colleghi, infatti, sono detective fortemente implicati nelle storie che vivono, esattamente come lo storico (dice Ellen O’Gorman): ma anche in questo caso, mentre lo storico tende a contenere (se non a occultare) questo suo coinvolgimento, l’autore del giallo ne fa un elemento di forza della sua narrazione.

    Questa analogia storiografica disegna il primo campo operativo didattico, quello che dell’apprendimento delle regole del ragionamento storico, cosa che nella vulgata scolastica passa col nome di “metodo storico”. E’ un’analogia che già (sulla scorta delle notissime indicazioni di Carlo Ginzburg) molti manuali suggerivano, soprattutto nelle prime pagine, quando si illustra ai ragazzi il “mestiere dello storico”. Sono sempre stato convinto che queste pagine (per quanto gli editori mi obblighino pressantemente a scriverle) non siano di grande utilità, studiate come sono al principio dell’anno, quando ancora l’allievo non si è fatta un’idea accettabile di storia. Il racconto giallo, allora, con la sua capacità di appassionamento, può fornire il destro per mettere a fuoco la trafila del lavoro del detective, e quindi dello storico.

    Veniamo ai contenuti
    Tanto più, e veniamo al caso specifico, se il giallo è di argomento storico. In questo campo la letteratura didattica anglosassone è molto ricca di esempi e di rilievi critici.

    Grant Rodwell, uno studioso autraliano, ne ha fatto oggetto di una lunga ricerca, con esempi, pratiche e riflessioni. Sfortunatamente per noi, il suo è un lavoro strettamente legato ai problemi didattici del suo paese, e in particolare al cruccio di integrare la storia dei nativi nella “grande storia”, quella dei bianchi. Mi interessa, però, cogliere il suo entusiasmo per un metodo di lavoro che fa largo uso di romanzi storici. Rodwell sostiene che questa letteratura aiuta gli allievi a comprendere in profondità i fatti del passato, li appassiona e trasforma il passato in un “presente esteso” (Rodwell 2013, pp. 231 ss). Egli oppone il romanzo storico al racconto manualistico. Secondo i docenti (così riferisce), i manuali raccontano di “forze astratte e impersonali”, al contrario dei romanzi che presentano figure concrete e vive. Un’opinione diffusa, questa, che la dice lunga sulla considerazione dei manuali presso gli insegnanti di tutto il mondo. Aggiungono Tomlinson, Tummels e Richgels (p. 102), anche lorocontrapponendo fiction e libri di testo: “i manuali sono un deposito di informazioni che gli studenti memorizzano senza sviluppare giudizi e prospettive”.

    Anche Keith Barton, uno studioso americano particolarmente attento alla funzione civile dell’apprendimento storico, conviene con la bontà dell’idea di usare la narrativa storica. Ne sottolinea, però, alcuni aspetti critici. Lo studente, avverte, si lascia prendere dalle storie, più che dalla storia. E’ attratto dall’intreccio, dalla sequenza degli eventi. Si fa catturare dai personaggi. Questa partecipazione emotiva rischia di attenuare le osservazioni critiche e l’analisi dei contesti, che spesso sono quelli che più si prestano ad un collegamento con la storia. Problemi seri, dunque, ai quali fa riscontro un vantaggio straordinario, dato dal fatto che una storia romanzata sollecita a pensare alle alternative, e quindi a distaccarsi da una storia mnemonica, fatta di sequenze obbligate di fatti. “Le storie, conclude, possono motivare fortemente a cercare il senso delle cose, ma i discenti devono contrastare la tendenza (…) a credere acriticamente in quello che leggono”.

    La potenza evocativa e dei romanzi storici, dunque, è profondamente ambivalente. Da una parte surroga la freddezza della storia manualistica e appassiona il lettore; dall’altra, proprio il forte coinvolgimento attiva atteggiamenti di credulitàeccessiva, che contrastano con quell’acquisizione dello spirito critico, che ogni insegnante considera un portato specifico dell’apprendimento storico.

    L’empatia
    Dichiara un’insegnante, intervistata da Barbara K. Stripling,  nel corso della sua ricerca nella quale ha sperimentato l’uso combinato di racconti storici e di fonti primarie:“Non voglio costruire una mentalità “noi contro gli altri”. Voglio che gli studenti capiscano come le cose accadano, perché la gente faccia determinate cose, perché la gente prenda certe decisioni nel contesto del suo tempo”. Si parla di “empatia”, uno degli obiettivi certamente congruo con l’uso della fiction.
    La ricercatrice ne richiama le due facce. L’empatia cognitiva, cioè la capacità di calarsi nelle vesti di un determinato personaggio, di capire i suoi punti di vista, di intuire la molteplicità delle scelte a sua disposizione e di rivivere il suo contesto storico. Ma c’è anche l’empatia emozionale, cioè la capacità di interpretare i sentimenti del personaggio, di comprendere i suoi sentimenti e di identificarsi con lui (2011, pp. 184 s): e, come nel caso della ricerca in questione, di saper rapportare correttamente alle fonti le congetture elaborate a partire dal romanzo.

    Sette buone ragioni per usare i romanzi storici
    TarryLindquist, una maestra eletta come“insegnante ideale” dal National Council for Social Studies, ha riassunto le ragioni per le quali  “insegna storia con i romanzi storici”. La narrativa storica, secondo lei:

    1.    Sollecita la curiosità dei ragazzi
    2.    Mette i ragazzi allo stesso livello, quelli bravi in storia e quelli poco studiosi
    3.    Insiste sui dettagli di vita quotidiana
    4.    Immerge i ragazzi dentro la storia
    5.    Presenta la complessità della storia, le scelte dei personaggi
    6.    Promuove la molteplicità delle prospettive, i differenti punti di vista
    7.    Integra bene gli studi sociali nel curricolo

    C’è un “ma”: non tutti i romanzi storici si prestano a questo lavoro. Lindquist ne elenca le caratteristiche indispensabili. Seleziona storie:

    1.    ben raccontate, non in conflitto con la documentazione
    2.    che presentano personaggi realistici
    3.    che descrivono contesti autentici
    4.    e criticano stereotipi e luoghi comuni

    La ricerca su didattica e racconto storico
    Come si vede, la selezione è rigorosa. Delle opere viste sopra, ad esempio, rimarrebbero solo i racconti polizieschi, mentre – tra le opere di fantasy – occorrerebbe scegliere con oculatezza. Mi sembra, oltretutto, che una ricerca volta a selezionare opere utilizzabili in classe, all’interno della narrativa storica disponibile in Italia, richiederebbe tempo e investimenti. Qui, si palesa la profonda differenza fra il nostro paese e altri mondi. Da noi, la ricerca del materiale e delle strategie di uso sono demandate alla bravura e alla buona volontà del docente. Oltreoceano, invece, sono supportata da istituti di ricerca e da regole per la ricerca.

    Eric e Robin Groce (2005) partono dal principio che, proprio perché il compito del docente è quello di fornire informazioni valide sul passato, è necessario dotarsi di criteri precisi e sicuri, per scegliere i romanzi storici e per utilizzarli. Occorre, concludono, disporre di una definizione corretta di “narrativa storica”; stabilire regole precise per la selezione; individuare le regole per l’uso e certificarle; consegnare al docente il knowhow didattico necessario.

    Biblioteche a disposizione delle scuole

     
    Una storica locandina del Children Book Council (1921) e alcuni romanzi storiciconsigliati per il 2014 

    Il docente non è solo in questo lavoro. Il Children Book Council  è un’associazione no-profit nordamericana, che opera fin dal 1919. Riunisce le maggiori case editrici (dalla Walt Disney, alla Penguin, a National Geographic) e, dal 1972, offre agli insegnanti una lista di romanzi storici utilizzabili in classe. L’Associazione dei Librai americani (ALA) pubblica ogni anno una lista di libri “notevoli”, classificati per età (giovani, medi, grandi, e tutte le età). Lo Smithsonian Institute raccoglie e consiglia libri di avventure storiche, anche questi classificati per età. Fra questi, ho trovato un mistery – Chi sono io? –ambientato durante la guerra civile, costruito in forma di gioco/enigma, nel quale l’allievo, a partire da elementi storici (foto, documenti, oggetti, informazioni), deve ricostruire un personaggio del tempo. Il libro è dotato di suggerimenti didattici per il docente, con le indicazioni per inserirlo all’interno degli standard (i programmi).

    La pratica didattica. Un esempio
    Trovo, in una lunga e accurata messa a punto di Sarah K.Herz, un modello di attività che può essere riprodotto anche in una classe italiana. Ne faccio un adattamento, dividendo il lavoro in tre fasi: lettura, ricerca e discussione.
    Lettura (individuale): dopo aver studiato un certo periodo, si assegna il racconto di fiction in lettura a tutta la classe. Sarà, ovviamente, un racconto ambientato nel periodo studiato.

    Ricerca (in gruppi): a ciascun gruppo si assegna un compito: analizzare il contesto, i personaggi, la vicenda: la griglia di ricerca viene indicata di seguito). Questa fase serve agli allievi per analizzare l’opera, da un punto di vista, che permetta un ragionamento storico.
    Discussione (collettiva):  con la guida del docente, la classe elabora un giudizio sintetico sul libro. Di seguito presento l’elenco delle domande, che il docente ha presenti, per guidare la discussione (eviterei di ucciderla somministrandole per iscritto).

    Griglie di analisi(per il lavoro di gruppo)
    Primo gruppo: Contestualizzazione

    a. L’autore ha descritto accuratamente il periodo?
    b. Elenca dei dettagli che descrivano aspetti che si riferiscono al periodo studiato: luoghi, mezzi di trasporto, costumi e vestiti, vita urbana o rurale, abitudini religiose o sociali.
    c. Ci sono dettagli autentici sull’ambientazione?
    d. L’ambientazione è compatibile con il periodo? Riporta dei dettagli.

    Secondo gruppo: Personaggi

    a. Riconosci qualche personaggio storico? elencali.
    b. Le figure storiche appartengono al periodo indicato?
    c. Controlla il racconto con i dati del manuale: i personaggi sono precisi?
    d. Ci sono personaggi inventati?
    e. Elenca i tratti negativi e positivi di almeno quattro personaggi. Riporta i brani che ne parlano.
    f. Spiega come i personaggi si inseriscono nell’ambientazione storica.
    g. I personaggi storici sono importanti nella trama del racconto?

    Terzo gruppo: la vicenda

    a. La vicenda è costruita intorno a qualche fatto storico specifico?
    b. I personaggi partecipano a qualche fatto storico ben conosciuto?
    c. Il conflitto intorno al quale la vicenda è costruita è fittizio o reale?

    Guida per la discussione (per l’insegnante)

    a. Perché l’autore ha scelto di inserire questo particolare storico nel suo racconto?
    b. L’autore ci rivela dei particolari della storia o dei personaggi che non conoscevate?
    c. Possiamo considerare questo un racconto storico?
    d. Questo racconto è ben fondato su fonti storiche?
    e. Conoscendo la definizione di “romanzo storico”, potete considerarlo tale?
    f. di quali condizioni sociali l’autore parla?
    g. quali sono i commenti che l’autore fa su queste condizioni sociali?
    h. Le condizioni sociali illustrate nel racconto possono essere messe in relazione con le nostre?
    d. I personaggi rivelano qualcosa del tema sociale di fondo del racconto?
    e. Il racconto ci fa capire qualcosa delle condizioni sociali e dei problemi del tempo?
    f. Da questo racconto vengono fuori opinioni diverse sul periodo?

    4.    Bibliografia

    Narrativa

    ASHLEY, M. ( a cura di),Tempo di Delitti,  Milano,1996
    CHRISTIE, A.,L’assassinio di Roger Ackroyd, Milano, 1986. Il libro in Italia è noto anche con il titolo di Dalle nove alle cinque.
    CHRISTIE, A.,C’era una volta, Milano, 1988
    COMASTRI MONTANARI, D.,Mors tua,  Milano, 1990
    COMASTRI MONTANARI, D.,In corpore sano, Milano, 1991
    COMASTRI MONTANARI, D.,Cave Canem, Milano, 1993
    COMASTRI MONTANARI, D.,Morituri te salutant, Milano, 1995
    COMASTRI MONTANARI, D.,Parce sepulto, Milano, 1996
    DAVIES, L.,Le miniere dell’imperatore,  Milano, 1994
    DODDS, E.,I Greci e l’irrazionale, Firenze, 1978
    DURENMATT, F.,La morte della Pizia, Milano, 1988
    ECO, U., Il Nome delle Rosa,  Milano, 1980
    ECO, U.,Dieci modi di sognare il Medioevo, in  Sugli Specchi ed altri saggi, Bompiani Milano, 1985 pp.78-89
    ECO, U., L’abduzione di Uqbar, in Sugli Specchi ed altri saggi, cit., pp.161-172
    GALLI, G., La politica dietro il giallo,  prefazione a E. Mandel,Delitti per Diletto, storia sociale del romanzo poliziesco, Milano 1990
    MADDOX ROBERTS, J.,S.P.Q.R., Milano, 1994
    MAGRI’, R.,Il sale in bocca, Milano, 1990
    MAGRI’, R.,La statua d’oro, Milano, 1984
    MANDEL, E.,Delitti per Diletto, storia sociale del romanzo poliziesco, Milano 1990
    MANFREDI, V.M., Palladion, Milano 1985
    MANFREDI, V.M.,  Lo scudo di Talos, Milano, 1988
    MANFREDI, V.M., L’oracolo, Milano, 1990
    MANFREDI, V.M.,Le paludi di Hesperia, Milano, 1994
    MANFREDI, V.M.,La torre della Solitudine,Milano, 1996
    MC CULLOUGH, C., I giorni del potere, Milano, 1990.
    JAMES, B.,Socrate risolve un omicidio, in Tempo di Delitti, a cura di M. Ashley,  Milano,1996, pp. 36-42

    Didattica

    BARTON, K., A Balanced and Critical Approach to Historical Fiction,http://teachinghistory.org/issues-and-research/roundtable-response/25287
    GROCE E., GROCE R., Authenticating Historical Fiction: Rationale and Process, in “Educational Researche and Perspectives”, 32, 1, 2005
    HERZ, S.K, Using Historical Fiction in the History Classroom, http://www.yale.edu/ynhti/curriculum/units/1981/cthistory/81.ch.10.x.html
    LINDQUIST T., Seven Reasons I Teach With Historical Fiction, http://www.scholastic.com/teachers/article/why-how-i-teach-historical-fiction#Pocahontas
    MARTIN D., Exploring Historical Fiction, http://teachinghistory.org/teaching-materials/ask-a-master-teacher/25626
    RODWELL G., Whose History? Engaging History Students through Historical Fiction, Univ. Of Adelaide Press, Adelaide 2013, reperibile online
    STRIPLING. B. K., Teaching the Voices of HistoryThroygh Primary Sources and Historical Fiction: A Case Study of Teacher and LibrarianRoles, iSchool Information Science and Technology - Dissertations. Paper 66, http://surface.syr.edu/it_etd
    TOMLINSON, C., M., TUMMEL, M.O,  RICHGELS, D., J., The Content and writing of History in Textbooks and trade Books, in Tunnell, M., Ammon, eds, The story if our seves: Teaching history trhough children’s literature, Porrtsmouth, 1993

  • stori@. La storia nell'era digitale.

    Appuntamento a Piacenza, dal 7 al 9 marzo. Per parlare di Storia nell’era digitale. Di seguito il programma del Corso di Formazione per docenti delle scuole primarie e superiori.

    Scarica il programma in pdf.

  • The Saigon Execution: “La foto che fece perdere la guerra”

    Laboratorio su una foto iconica: lettura e contestualizzazione*

    di Antonio Brusa 

     

    The Saigon Executione la guerra del Vietnam

     

    saigonE. Adams/Associated Press, General Nguyễn Ngọc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon (1968)All’una e trenta della mattina del 31 gennaio del 1968 i marines nordvietnamiti e i vietcong (i guerriglieri comunisti del sud Vietnam) scatenarono l’offensiva del Têt (il Capodanno vietnamita). Ottantamila soldati attaccarono contemporaneamente le più importanti città del Vietnam del sud. Contavano sulla sollevazione della popolazione, stanca degli americani e della guerra, e sul rapido disfacimento delle truppe del Vietnam del Sud, che ritenevano un esercito-fantoccio al servizio degli Usa. Si lanciarono all’attacco convinti che non sarebbero più ritornati nei loro rifugi nella foresta e che avrebbero ributtato in mare gli invasori. La loro sconfitta fu cocente. La popolazione, per quanto antiamericana potesse essere considerata, non guardava affatto con simpatia i soldati del nord e non si ribellò. L’esercito sud-vietnamita difese strenuamente le città, mentre gli americani ebbero modo di scatenare per intero la loro potenza di fuoco su bande di guerriglieri venute finalmente allo scoperto. Le cifre non consentono dubbi: i combattenti comunisti contarono circa 60 mila morti; la coalizione americana circa 4.500 (La cronistoria della battaglia su “Retestorica”;) all’offensiva del Têt e agli eventi del ’68 è dedicato il sesto episodio della Guerra del Vietnam (PBS, 2017) di Ken Burst e Lynn Novick, significativamente intitolato Tutto cade a pezzi, che sarà oggetto di analisi nell’ultima parte di questo laboratorio: altri riferimenti si troveranno nella sitografia sui movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam, curata da Antonio Prampolini e pubblicata qui, su HL.

    2mappeL’Offensiva del Têt su Pinterest (a; https://www.pinterest.it/pin/417286721693184202/) e la guerra del Vietnam secondo l’Enciclopedia Treccani (b; http://www.treccani.it/enciclopedia/vietnam/)

    La battaglia che gli americani avevano vinto sul campo fu da loro persa politicamente. Pochi giorni dopo la sua fine, nel marzo del 1968, sospesero i bombardamenti nel Nord Vietnam, chiesero l’apertura di colloqui di pace e il presidente Lyndon B. Johnson decise di non ripresentarsi alle elezioni. Il generale William Westmoreland, comandante in capo delle armate americane, che aveva chiesto altri 200 mila soldati per concludere la guerra, fu richiamato in patria. Prese il via un estenuante e contorto percorso diplomatico che portò, nel 1975, a fermare il conflitto più lungo al quale gli Usa abbiano mai partecipato (G. Herring, America Longest War. 1950-1975 , Temple University Press, Philadelphia 1979).

    Sulle ragioni del sorprendente esito di quella battaglia, storici, politici e giornalisti hanno discusso a lungo. Hanno ragionato sul costo della guerra e il peso che questa aveva sulle finanze americane, sulla mobilitazione militare della quale il nord comunista aveva dato ampia dimostrazione, insieme con la sua tenacia nel resistere a un nemico enormemente più forte, sulle titubanze e i contrasti della dirigenza americana, sullo choc della gente che si sentì ingannata dai proclami trionfali di Johnson e Westmoreland (G. W. Hopkins, Historians and the Vietnam War. The Conflitcs Over Interpretations continue, in “Studies in Popular Culture”, 23, 2, 2000, pp. 99-108, 100).

     

    La foto iconica

    Fra le cause di questa sconfitta si citano spesso i media e, in particolare, alcune foto che ebbero un successo straordinario, dal momento che apparvero su giornali e tv di tutto il mondo. Erano immagini che colpivano il lettore. Non avevano bisogno di didascalie (No caption needed), talmente chiaro era il loro messaggio sulla brutalità della guerra. Erano foto iconiche. Robert Lariman e John Lucaites ci insegnano che per definire iconica una foto sono necessarie quattro caratteristiche:

    • è conosciuta da tutti,
    • evoca delle emozioni,
    • viene replicata all’infinito dai media,
    • continua a essere replicata nel corso del tempo (No Caption Needed: Iconic Photographs, Public Culture, and Liberal Democracy, Chicago, 2007).

    Questo genere di immagini “acquista immediatamente un carattere simbolico”: lo scrisse Wicki Goldberg, la studiosa che usò per prima questa espressione – foto iconica –  per distinguere quelle che avevano il potere metonimico di sintetizzare una storia in un colpo d’occhio e, qualche volta, addirittura di cambiarla (N. Smith Damen et al. (2018), The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon e W. Goldberg, The Power of Photography: How Photographs Changed our Lives, New York, 1991).

    Tutti ne conserviamo qualcuna in qualche angolo della memoria, come il miliziano ucciso durante la Guerra civile spagnola; o il vecchio siciliano che indica la strada al ragazzone yankee appena sbarcato in Sicilia nel 1943, entrambe frutto del genio visivo di Robert Capa; il bambino di Varsavia, immortalato da un anonimo fotografo al servizio di Hitler, e l’altro bambino, Ālān Kurdî, ripreso da Nilüfer Demir, morto sulla spiaggia di Bodrum. Le conserviamo non solo per la loro bellezza tecnica e per il loro carattere simbolico, ma perché attribuiamo loro un qualche significato profondo, un “valore” che le rende importanti ai nostri occhi.

    La guerra del Vietnam ce ne ha lasciate almeno sette:

    • The Burning Monkdi Malcom Browne (1963). Thích Quảng Đức era un monaco buddista che si diede fuoco per protestare contro il regime sud-vietnamita. “Nessuna fotografia nella storia del giornalismo ha mai generato le stesse emozioni di questa”, dichiarò John Kennedy.
    • Reaching out di Larry Barrows (1966), che informò gli americani che anche i marines potevano cadere in battaglia;
    • General Nguien Ngoc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon (1968) fu scattata da Eddie Adams per le strade di Saigon. È conosciuta anche con altri nomi: Rough Justice on a Saigon Street (Giustizia sommaria in una strada di Saigon), Têt execution o Saigon Execution, dizione che userò in questo contributo. Vinse il premio Pulitzer nel 1969 e, da allora, diventò il prototipo della foto che cambia la storia (M. Astor, A Photo That Changed the Course of the Vietnam War, 1 febbraio 2018, “N.Y. Times” e  R. Hamilton, Image and Context: The Production and Reproduction of The Execution of a VC Suspect by Eddie Adams, in J. Walsh et al. (eds.), Vietnam Images: War and Representation, Editorial Board, Lumiere (Co-operative Press Ltd 1989, p. 171).
    • And Babies? (1968) è il titolo del manifesto tratto dalla foto di Ron Haeberle, fotografo dell’esercito americano, che testimoniava le atrocità del massacro di My Lay, un evento che scosse l’opinione pubblica mondiale;
    • Kent State Massacre (1970), scattata da uno studente, John Filo, per testimoniare la sparatoria della Guardia Nazionale contro i giovani che protestavano contro la guerra del Vietnam;
    • Accidental Napalm(1972), di Nick Ut, la celebre foto della bambina nuda che fugge dal villaggio incendiato dal napalm;
    • Helicopter evacuation from Sai Gon(1975), di Hubert van Es che ritrae l’elicottero che imbarca i fuggiaschi dal terrazzo della residenza del capo della Cia a Saigon.

    Al principio del suo Flags of our Fathers(2006), il film che racconta le memorie ferite dei marines che issarono la bandiera americana sul monte Suribachi a Jwo Jima, Clint Easwood accosta The Saigon Execution alla celebre foto che ritrae la scena dell’alzabandiera (Raising the Flag on Iwo Jima), per la quale Joe Rosenthal guadagnò il Pulitzer in quello stesso 1945, proprio perché entrambe – si dice nel film - ebbero il potere di cambiare la storia: questa incoraggiando la popolazione americana a sostenere una guerra che pareva a molti troppo lunga e sanguinosa; quella, la Saigon Execution, convincendola della sua crudeltà inutile.

    The Saigon execution èinclusa da "Time"fra le cento foto che contrassegnano la storia contemporanea. Oltre a questa, il 1968 – un anno record! - ne conta altre tre: l’invasione di Praga, il saluto col pugno chiuso dei quattrocentisti neri alle olimpiadi del Messico e l’Earthrise, la foto del sorgere della terra scattata da Bill Anders mentre orbitava intorno alla luna.

    Su The Saigon execution imposterò un modello di laboratorio storico per questo genere di fonte visiva che ne permetta di mettere a fuoco i problemi storico-didattici e, al tempo stesso, fornisca ai docenti qualche idea concreta di lavoro

     

    Prima fase: lettura della fonte

    Una foto iconica si presta, quasi per natura, a un percorso che parte dall’approccio emotivo e si chiude con la riflessione critica. Lo organizzo in quattro fasi, che per ragioni di comodità vengono pubblicate in due puntate.

    Nella prima fase, dopo aver chiesto agli allievi di esprimere le proprie impressioni, li si guida alla lettura strutturata della fonte. Nella seconda, si sottopongono a revisione critica gli elementi ottenuti dalla lettura: confronto tra fonti diverse, valutazione della fonte e sua contestualizzazione. Nella terza, si affronta la questione del rapporto fra passato e presente, dal punto di vista della comunicazione e dei problemi etici che questa comporta. Nella quarta, infine, si focalizza l’attenzione degli allievi sul contributo che la storiografia può dare nella costruzione di una visione critica di quell’evento. Queste fasi sono organizzate, ancora, secondo un ordine progressivo di difficoltà. Le prime due sono composte da testi brevi, molto legati all’osservazione della fonte. Nelle successive, invece, i testi sono più lunghi e invitano a riflettere su questioni sociologiche, storiche e memoriali. Come si ribadirà in seguito, ogni fase può essere svolta sia nel modo tradizionale (lezioni e lettura dei testi: non mi occupo in questa sede della valutazione), sia in forme didattiche partecipate, delle quali si fornirà sempre un modello. Tuttavia, per favorire il docente che voglia provare strategie diverse, i brani sono di lunghezza breve (escluso gli ultimi due), in modo da poter essere “montati” altrimenti.

    Scrivono Jeffrey Walsh e James Aulich, i curatori di Vietnam Images: War and Representation (cit, pp. 1-9), che un’immagine cristallizza l’evento e lo decontestualizza. Il compito dello storico è quello di riportarlo nel suo contesto.  È questo lavoro che ci permette, da una parte, di capire in profondità quell’evento e, dall’altra, di rapportarci a quello correttamente, sia pure a distanza di quasi mezzo secolo. “Rapportarsi correttamente” vuol dire fare i conti con questioni quali la memoria pubblica, l’uso pubblico della storia, la cosiddetta “memoria condivisa” e i media, nuovi e vecchi, che sono lo strumento principale di socializzazione di questi problemi. Si tratta, dunque, di fare storia, ma al tempo stesso educazione alla cittadinanza e, come si vedrà soprattutto nella seconda parte (nelle proposte di Valerio Bernardi e Giulia Perrino), convocare intorno al tema posto dalla Saigon Execution altre discipline, come la filosofia e le scienze della comunicazione e artistiche.

    In questo laboratorio i documenti e i materiali non andrebbero presentati insieme, in un unico dossier, ma poco per volta, secondo le modalità che vengono di seguito indicate. Ho cercato di realizzare un’antica idea di Scipione Guarracino, che vagheggiava un’attività nella quale ad ogni nuovo documento gli allievi fossero spinti a modificare le conclusioni fino a quel momento raggiunte (S. Guarracino, La logica della ricerca e la didattica dell’archivio, in Didattica della storia e archivi. Atti degli incontri di studio, Caltanissetta, 1-2 dicembre 1986, a cura di C. Torrisi, Caltanissetta-Roma 1987, pp. 55-85). Mi sembra una buona strategia per far rivivere agli allievi il gusto della scoperta progressiva, tipico di una ricerca scientifica.

    Dopo aver motivato i ragazzi al lavoro e fornito gli elementi essenziali di contestualizzazione (date, luogo e motivi della guerra; cenni sull’Offensiva del Têt), l’insegnante presenta la foto, chiede di commentarla o di esprimere che cosa provano guardandola. Chiede, ancora, di ipotizzare che cosa essa rappresenti. In pratica, mette alla prova il potere della fonte iconica di suscitare emozioni senza bisogno di tante parole. Afferma un manuale recente: “La fotografia cattura perfettamente la drammaticità della morte e la disumanità della guerra. Il volto contratto del condannato e quello vuoto e rilassato dell’esecutore” (A. Graziosi, a cura di, Storie. Il passato nel presente, Giunti, Firenze 2019, p. 502). Il contrasto fra i due protagonisti della foto sollecita sentimenti e pensieri. Li si trascrive man mano che vengono espressi.

    Altre domande sono suggerite dallo stesso manuale: “le immagini della violenza contro i prigionieri vietcong ebbero un effetto dirompente nell’opinione pubblica americana”. Per riprendere il titolo di questo contributo, questa fu una foto “spartiacque”. Fino a quella foto, era stata una guerra di bravi ragazzi. Dopo, cominciò ad essere una sporca guerra. Perché? Chiediamo agli allievi di congetturare delle risposte.

     

    Una lettura strutturata

    Robert Hamilton fornisce un saggio di lettura denotativa di questa foto. Può essere una guida per mettere in luce particolari sfuggiti e stilare una descrizione analitica precisa.

     

    La fotografia mostra due figure principali. Una, in uniforme, è vista di profilo, con il braccio teso mentre punta una pistola alla testa dell’altra figura, che è in posizione frontale, veste una camicia a scacchi e ha le mani dietro la schiena. La fotografia include anche due figure marginali e l’ombra di una terza; ci sono alcune costruzioni in secondo piano, che vanno da destra verso sinistra, come uno scenario indistinto e poco chiaro.  Le due figure in primo piano stanno in piedi, in contrasto tonale con lo sfondo indistinto. La postura e l’espressione indicano che il colpo è stato appena sparato.

    La scena potrebbe indicare che “un soldato o un poliziotto spara a un civile disarmato per strada” (R. Hamilton, cit., p. 172).

     

    Angie Lovelace ci fornisce, invece, un modello di descrizione fortemente connotata, “semiotica”, come la definisce (Iconic photos of the Vietnam War era: A semiotic analysis as a means of understanting, 2010). In ogni caso, una descrizione molto partecipata.

    Il boia doveva essere consapevole della macchina fotografica puntata su di lui quando ha deciso di puntare la pistola contro il vietcong prigioniero. Ha girato il corpo e il viso lontano dall’obiettivo, nascondendo così la sua espressione e lo scopo della sua azione. Dal canto suo, il volto della vittima rivela paura e l’angoscia di essere ucciso.

    La camicia scozzese spiegazzata della vittima è l'opposto della mimetica tipica di un militare. Il suo abbigliamento dice a chi guarda che non è un militare, ma un cittadino che viene colpito a sangue freddo. Viene sparato a bruciapelo, senza processo, in una strada deserta. Non viene sparato con un mitra o un fucile, armi che in genere portano i soldati, ma con una pistola. Ciò accentua la disumanità della scena, perché questa non rappresenta più un’azione militare, ma l’odio fra due uomini, o, in questo caso, l’odio fra le due parti in conflitto

    La posizione delle braccia dei due personaggi mostra la disparità del potere. Il braccio del tiratore è steso orizzontalmente. Mentre preme il grilletto, i muscoli del suo braccio si tendono, mostrando il potere che sta esercitando sulla sua vittima. Le braccia del vietcong non sono visibili; sono legate dietro la schiena. Mostrano la sua privazione di potere e la sua impossibilità di reagire. Il vietcong è immobile. Nessuno lo sta trattenendo, ma non sta cercando di scappare. Ha accettato il suo destino. Non prova nemmeno a ruotare il suo corpo o a sottrarsi al colpo di pistola e al suo destino imminente.

    Il soldato a sinistra digrigna i denti. Il suo volto mostra l’emozione per l’atto raccapricciante che sta guardando.

    Questa foto crea empatia per la vittima e criminalizza l’esecutore. Si può anche non conoscere la situazione concreta, ma questo non impedisce di simpatizzare con la vittima e considerare questa scena inumana. Questa foto mostra un atto disumano, che enfatizza la disumanità della guerra del Vietnam nel suo complesso”  (A. Lovelace, cit., pp. 40-41).

     

    Procedimento didattico

    Questi due brani possono essere usati in vari modi. Possono essere spiegati oppure dati direttamente in lettura. Il docente li può tenere per sé e utilizzare come scaletta per domande guida per l’analisi, in un dialogo informale con gli allievi. Altrimenti, in modo più formale, proporrà di completare una tabella - individualmente o in gruppi - per poi controllarla avvalendosi delle descrizioni di Hamilton e Lovelace.

    Ciò che è importante, comunque, è tenere per fermo che più attenta è l’analisi del documento, più vivaci saranno le discussioni successive.

    Particolare della foto Descrizione analitica.   Significato                       
    Testa e volto dell'esecutore    
    Testa e volto della vittima    
    Corpo e braccia dell'esecutore    
    Corpo e braccia della vittima    
    Abbigliamento dell'esecutore    
    Abbigliamento della vittima    
    Armi    
    Personaggi secondari    
    Sfondo    

     

    La scena e i protagonisti

    In questa parte del laboratorio suggerisco di dividere la classe in tre gruppi. A tutti verrà consegnato il primo testo, la descrizione della scena (di seguito: testo a). Poi si suddivideranno le tre biografie (testi b, c, d), una per ciascun gruppo. Ogni gruppo, dunque, avrà due testi da leggere e commentare. Essendo testi brevi, si può prevedere un tempo ragionevolmente ridotto. Richard Stocktonpropone una ricostruzione dettagliata della vicenda, che può servire da guida all’insegnante per seguire il lavoro dei gruppi e gestire la discussione collettiva finale, facendo attenzione a non anticipare – e bruciare così – i temi che verranno presentati successivamente (The Story Behind Eddie Adams’ Iconic “Saigon Execution” Photo, 2020)

     

    a. La scena (per tutti i gruppi)

    Il primo febbraio i marines sudvietnamiti catturarono un sospetto vietcong presso la Pagoda buddista dove si era asserragliato un commando comunista. L’unica identificazione militare del prigioniero era una pistola, del tipo solitamente usato dagli ufficiali vietcong. Indossava una camicia a scacchi e pantaloncini corti. Fu condotto per la strada, con le mani legate dietro la schiena, di fronte al generale di brigata Nguyễn Ngọc Loan, capo della Polizia nazionale. Quando il prigioniero gli si avvicinò, Loan estrasse il revolver e lo agitò per allontanare i marines. Senza dire una parola, puntò la pistola alla tempia del prigioniero e premette il grilletto. L’uomo cadde per terra, mentre il sangue schizzava dalla ferita”. (Hamilton, p. 173). Poi, diretto verso i presenti, disse: “Questa gente uccide molti americani e molti dei nostri. Buddha mi perdonerà. (C. Bonnet, L'exécution de Saïgon: quand le photographe devient l'ami du tueur, “L’OBS”, 2017)

    saigon sequence

    Dalla sequenza delle foto si capisce che il reporter ha continuato a scattare anche dopo l’uccisione. Infatti, si vede il vietcong a terra e, nell’ultima inquadratura, un soldato americano che lo riprende, dopo che gli è stato posto sul petto un numero di riconoscimento. Poco dopo, non ripreso dal fotografo, passa un camion militare che raccoglie il corpo per seppellirlo in un posto ancora sconosciuto. 

     

    b. Nguyễn Ngọc Loan (1930 – 1998)

    Loan pizzeriaLoan nella sua pizzeria “Les trois continents” - in https://vietbao.com/a279394/ky-niem-voi-tuong-nguyen-ngoc-loan

    Aveva fatto l’aviatore nell’esercito del Vietnam del sud. Apprezzato per la sua bravura, ma anche grazie ad amicizie altolocate, fece carriera diventando generale e capo della polizia di Saigon. Svolgeva il suo lavoro con estremo rigore e spietatezza. Non faceva sconti a nessuno, nemmeno agli americani, che – difatti – lo consideravano un piantagrane fastidioso. Era adorato dai suoi uomini, tenacemente anticomunista e, al tempo stesso, convinto nazionalista, con un forte senso dello stato. Così lo descrive Pham Phong Dinh, un suo amico. Sappiamo, tuttavia, che fece accordi con la mafia locale, e dai proventi del traffico di oppio ricavava denaro da distribuire ai suoi agenti (Ho Dieu Anh and Spencer C. Tucker, voce Nguyễn Ngọc Loan, in Martin J. Manning and Clarence R. Wyatt (a cura di), Encyclopedia of Media and Propaganda in Wartime America, Clio, Oxford, 2011, p. 667).

     

    Aveva trentotto anni quando gli fu assegnato il compito di difendere il quartiere dove si trovava la Pagoda buddista, uno degli obiettivi dei guerriglieri durante l’Offensiva del Têt. La foto dell’esecuzione lo rese famoso e detestato in tutto il mondo. Tre mesi dopo l’Offensiva, fu ferito gravemente. Gli dovettero amputare una gamba. Trasportato in Australia per essere curato, venne riconosciuto e costretto a ritornare in Vietnam.

     

    Oriana Fallaci scrisse di lui che era la persona più odiata di Saigon. Lo aveva intervistato mentre era in ospedale. Gli chiese il motivo di quell’uccisione brutale. Lui rispose che il vietcong sparava senza uniforme. Era un vigliacco. Lo uccise perché fu preso da un moto di collera. “Forse fui veramente cattivo - concluse congedandosi dalla giornalista -  ma colui che uccisi era forse migliore di me?” (Niente e così sia, Rizzoli, Milano 1969, pp. 203-206)

     

    Nel 1975, quando il Vietnam del Nord vinse definitivamente la guerra, scappò negli Stati Uniti, dove aprì una pizzeria. La foto continuava a perseguitarlo anche qui. Denunciato per crimini di guerra, venne assolto da un tribunale americano: fra i testimoni a sua difesa ci fu lo stesso Eddie Adams, che nel frattempo era diventato suo amico. Morì di cancro nel 1998. Adams gli dedicò un elogio sul “Time”, nel quale scrisse: “in quella fotografia morirono due persone: il destinatario del proiettile e il generale Nguyễn Ngọc Loan. Io ho ucciso il generale con la mia macchina fotografica” (Eulogy: General Nguyen Ngoc Loan, “Time”, 27 luglio 1998).

     

     c. Nguyễn Văn Lém (1931 o 1932 – Saigon, 1 febbraio 1968)

    Nguyễn Văn Lém è stato un attivista vietnamita, membro del Fronte di Liberazione Nazionale, nelle cui fila combatteva col nome di battaglia di Bai Lop. Fu sommariamente giustiziato a Saigon dal capo della Polizia Nazionale della Repubblica del Vietnam, Nguyễn Ngọc Loan, durante l'offensiva del Têt, di fronte ad un cameraman dell'NBC e ad un fotografo dell'Associated Press, Eddie Adams. Il vietcong in questione era stato arrestato in quanto sospettato di aver ucciso un ufficiale sud vietnamita, sua moglie e sei dei suoi figli (uno dei quali sopravvisse). Nella stessa azione la sua unità, della quale Lém era l'ufficiale superiore, aveva inoltre sommariamente fucilato altri 31 civili. (Wikipedia e A. Miconi, Saigon Execution 1968: “The Photo that lost the War”, in “Problemi dell’informazione”, 63, 1, pp. 63-86).

     

    mogliePhilip Jones Griffiths, (1996), Nguyễn Thi Lop mostra un giornale con la foto del marito e la medaglia al valore del Vietnam, in https://pro.magnumphotos.com/Asset/-29YL5346576G.hIl giorno in cui fu ucciso, Nguyễn Thi Lop, sua moglie – che allora aveva 30 anni ed era incinta di un mese - vide i suoi vicini riuniti attorno a un giornale e si avvicinò loro. "Guarda Loan che uccide un vietcong!" uno di loro le disse. "Capii all'istante che era Lém", dichiarò in seguito Lop, "ma non potevo dire nulla, dovevo nascondere il mio dolore e portarmelo dietro come il fardello di un venditore ambulante mentre vagavo per la città cercando di scoprire in silenzio cosa fosse successo. Ero troppo terrorizzata per avvicinarmi alla sua unità per paura di essere identificata".

    Nel 1998, in occasione della morte del generale Loan, viene intervistata da un giornalista. È una bisnonna di 66 anni che non vuole dimenticare il passato. Ha battezzato sua figlia Loan “nel tentativo di purificare l'anima dell'uomo che lei chiama il male". Dice: “Una sola cosa avrei voluto: incontrare Loan e chiedergli perché aveva ucciso mio marito” (War secret dies with killer of Saigon, in “South China Morning Post”, 23 luglio 1998). Non serba rancore nei confronti del fotografo, perché solo grazie a lui – dice – si è conservato il ricordo di Lém, del quale non si trovò nemmeno il cadavere.

     

    Saigon Execution è esposta nel Museo della Guerra di Ho Chi Minh City (il nome odierno di Saigon). Nel nuovo contesto ha cambiato significato. Non testimonia la lotta fra mondo libero e comunismo né l’orrore della guerra. È il simbolo dei “tormenti del Vietnam” (R. Hamilton, cit., p. 181) e della guerra per la liberazione nazionale, per la quale Nguyễn Văn Lém è un eroe.

     

    d. Eddie Adams

    È il terzo protagonista di questa scena. Non compare nella foto, ma senza di lui quell’uccisione non sarebbe diventata l’Esecuzione di Saigon.

    Eddie Adams si era specializzato nei fotoreportage di guerra sotto le armi, avendo combattuto in Corea nel corpo dei marines, al principio degli anni ’50. Poi aveva cominciato a lavorare per l’Associated Press (AP), la più grande agenzia americana di fotogiornalismo. Nella sua lunga carriera ha scattato migliaia di foto, che gli avevano meritato oltre 500 premi e riconoscimenti di vario genere. Ma la foto per la quale è ricordato, e che lo rese celebre, fu proprio l’istantanea dell’uccisione di Nguyễn Văn Lém.

     

    meme lezamaIl fotografo vittima della sua foto. Montaggio (meme) di Julio Lezama, in Victimas o Victimarios, cit.Confessava di sentire quasi un senso di colpa per quella foto. Per lui, il Generale Nguyễn Ngọc Loan era una brava persona, un eroe che la foto trasformò in un mostro. In quei giorni Saigon era piena di cadaveri. Si sparava a vista contro chiunque. La foto non racconta tutta la storia – diceva - ma solo un pezzo. Racconta bugie e il generale ne era stato una vittima.

    Ma anche lui, in qualche modo, ne era una vittima. Si sentiva perseguitato da quella foto. Diceva di aver realizzato decine di reportage nei quali “nessuno si era fatto male”. Non gli piaceva di essere ricordato solo per quell’assassinio. Non sopportava, lui – ex-marine e sostenitore degli Usa – che la sua foto venisse usata come simbolo della politica militarista degli Stati Uniti dagli studenti che, nel frattempo, occupavano le Università e manifestavano nelle piazze di tutto il mondo. Non sopportava che fosse diventata “un dannosissimo e perfetto strumento di propaganda nelle mani del Vietnam del nord” (R. Hamilton, cit.,  p. 179).

     

    Quando il generale estrasse la pistola, pensava che l’avrebbe usata per minacciare il prigioniero, per farlo confessare. Dichiarò che non avrebbe mai immaginato che avrebbe sparato (BB news, 29 gennaio 2018). Ma, dopo il colpo, Loan si voltò verso di lui e disse che quell’uomo aveva ucciso molti americani e molti vietnamiti (qui Eddie Adams parla della Saigon Execution, nel 2008).

     

    Discussione e lezione conclusiva

    I tre gruppi, dopo aver letto e discusso brevemente le biografie, confrontano le loro conclusioni. Tutti insieme, poi, verificano le impressioni espresse all’inizio dell’attività. Erano corrette? Vanno modificate e in che modo? È accettabile l’assunto che una foto iconica “non ha bisogno di didascalie”?

    Può essere usato come “innesco della discussione” questo testo di Julio Lezama, che gioca molto sull’emotività. Nel caso l’unità di lavoro finisca qui, l’insegnante terrà conto – per la sua lezione conclusiva - dell’andamento del dibattito, dei problemi emersi e, soprattutto, dei nuovi dati presentati nella seconda fase.

     

    TRE FOTO

     (J. Lezama, Victimas o Victimarios, cit., con qualche modifica)

     

    Seconda fase. Lettura critica e contestualizzazione della fonte

    Adams pulitzerEddie Adams riceve il Premio Pulitzer nel 1969 e mostra la foto premiata, in J. Lezema, Victimas o Victimarios cit.

     

    Procedimento didattico

    Questa seconda fase si apre con uno schema riassuntivo delle conclusioni raggiunte, che si potrebbe comporre con l’aiuto di questa tabella:

     

      Le nostre conclusioni
    Eddie Adams  
    Nguyễn Ngọc Loan  
    Nguyễn Văn Lém  
    Impatto della foto con il pubblico  
    Incidenza della foto nella guerra  

     

    Anche in questa seconda fase consiglio tre gruppi di discussione:

    • sulla produzione della fonte iconica (testo e);
    • sul’affidabilità dei testimoni (testo f);
    • sul suo impatto sul pubblico (testo g).

    L’insegnante consegna a ciascun gruppo uno dei tre testi (e, f, g), insieme con quelli già esaminati nella prima fase (a, b, c, d). Quindi ogni gruppo avrà un dossier di cinque testi su cui lavorare, dei quali almeno due già letti e commentati. Essendo, anche in questo caso, testi brevi, si prevedrà un tempo ragionevolmente ridotto. Terminata l’analisi, ci si riunisce e si decidono le eventuali modifiche da apportare allo schema iniziale. Come per la fase precedente, se il lavoro ha preso troppo tempo, si può chiudere a questo punto con la lezione conclusiva. Altrimenti, si passerà alla terza fase.

     

    Il laboratorio di discussione

    Come abbiamo appena detto, l’insegnante consegna a ciascun gruppo il piccolo dossier e i gruppi si riuniscono separatamente per discuterlo. Questa volta, però, sono necessarie alcune avvertenze, dal momento che i nuovi testi metteranno in luce delle contraddizioni e faranno sorgere molti dubbi.

    La rete – e, in genere, la storia pubblica -  ci ha abituato a paralogismi, derivanti in larga misura dall’impianto argomentativo del negazionismo. Nel nostro caso in particolare, occorrerà fare attenzione alla regola del “falsum in uno, falsum in toto”, tipica dei legal thriller in tv e ampiamente usata nella storia “faidate”. Un testimone dice una bugia, dunque è screditato e la sua testimonianza va rigettata interamente. (Su questa “parastoria” sono già intervenuto qui, su HL).

    L’assunto storico, invece, è che tutti i testimoni “dicono bugie”, nel senso che raccontano la realtà dal loro punto di vista, e nel senso ancora che, col passare del tempo, cambiano opinione e riformulano la loro esperienza (la storiografia ha ampiamente lavorato su questi punti). Le regole della parastoria sono, a ben vedere, delle scorciatoie per pigri. La bravura dello storico è proprio quella di lavorare con pazienza sulle testimonianze, rispettandole tutte, eliminare “le scorie” e cercare di delineare una ricostruzione della realtà alla quale la fonte fa riferimento, mai facile e lineare, sempre piena di dubbi.

    Posti, dunque, di fronte a questi nuovi documenti, sarà possibile che gli allievi ricorrano a qualcuno degli espedienti conoscitivi parastorici: “allora tutto è falso”, “allora questo testimone è un imbroglione”, “allora non si può sapere cosa accadde”. Il docente sceglie se prevenire le possibili interpretazioni sbagliate con una breve lezione prima del laboratorio, oppure aspettare gli allievi al varco, con le loro interpretazioni spontanee, e discuterne con loro. “Ogni documento è menzogna. Sta allo storico di non fare l’ingenuo”: Jacques Le Goff scrisse questa regola aurea nel 1978. Vale anche per le foto iconiche (potrà essere utile attrezzarsi con la rilettura della voce monumento/documento dell’Enciclopedia Einaudi).

    Nella redazione del testo riassuntivo della discussione, dunque, il fatto in sé non va messo in dubbio. Susan Sontag, la celebre scrittrice e studiosa della fotografia, ci assicura che non c’è alcun motivo per sospettare dell’autenticità di quello che vediamo nella foto che Eddie Adams scattò il primo febbraio del 1968 (S. Sontag, Regarding pain of the Others, Picador, N.Y. 2003, p. 47). Le domande, le incertezze, le ipotesi, le suggestioni contrastanti riguarderanno i motivi di questa azione, le intenzioni dei protagonisti, il suo significato, il contesto e l’impatto che questa ebbe sulla società.

    Ecco i nuovi testi da consegnare agli allievi.

     

    e. La produzione della fonte

    Eddie Adams è solo uno dei 537 addetti stampa che seguono la guerra. L’Associated Press (AP), l’agenzia per la quale Adams lavora, è presente in forze con più di venti fotografi. Ogni giorno di guerra vengono scattate migliaia di foto. Solo poche di queste passano il filtro delle redazioni e vengono comprate dai media. Solo pochissime diventeranno le “foto che tutti guardano”, quelle che ti rendono famoso. Si può immaginare quanto sia spietata la concorrenza fra i reporter. Confessa Horst Faas, rivale acceso di Adams: "Cercavo di apparire sui giornali ogni giorno, per battere la concorrenza con foto migliori" (A. Hamilton, Horst Faas. The Chronicler of Vietnam who captured horror, 2012).

     

    E, per converso, poiché i media erano una macchina enorme che viveva delle loro foto, si può immaginare quale pressione le diverse agenzie fotografiche esercitassero sui fotoreporter, spingendoli a correre rischi a non finire pur di scattare un’istantanea di successo. Non dobbiamo dimenticare che, nel corso di quella guerra, ben 135 di loro persero la vita (T. Bartimus, A homage to the photojournalists lost to decades of war in Vietnam, 29 aprile 2020). 

     

    Adams era supportato da una troupe della NBC, una delle più importanti reti televisive americane, che lo seguiva nella sua caccia. Quella mattina, dunque, quando si seppe che un vietcong era stato catturato, il gruppo di giornalisti si precipitò per strada, seguì il drappello di soldati che scortava il prigioniero e, quando questi fu portato di fronte al generale, si schierò per riprendere ciò che sarebbe accaduto. Questo vuol dire che la foto mostra unicamente alcuni dei partecipanti alla vicenda. Ma il generale Loan non è solo con la sua vittima. Ha di fronte a sé un gruppo di fotoreporter e cameramen, con i loro assistenti, armati di macchine fotografiche, telecamere e microfoni. Sa che, attraverso loro, è osservato da un pubblico mondiale. Loan, quindi, vuol dare una lezione al mondo. “Non avrebbe giustiziato sommariamente il sospetto vietcong se non ci fossero stati dei giornalisti a testimoniarlo”, conclude lapidariamente Susan Sontag (S. Sontag, Regarding pain of the Others, Picador, N.Y. 2003, p. 47).

     

    È versaigon camera oscuraThe Saigon Execution, nella camera oscura, dopo essere stata sviluppata, viene messa ad asciugare.o che, successivamente, Adams ebbe a dolersi di questa foto. Aggiunse, per rincarare la dose, che era una foto sbagliata, fatta male, che non l’avrebbe mai voluta scattare (M. Persivale in “Corriere della Sera”, 24 dic. 2009) . Ma Peter Arnett, uno dei giornalisti americani più famosi e seguiti, racconta di quella notte in cui Adams sviluppò i negativi, aiutato proprio da Horst Faas che li esaminava con la lente di ingrandimento: rivela che quando questi vide la foto “mormorò 'maledetto' e consegnò il film a Eddie che lo guardò e lanciò un ‘whoop’ ". I due fotografi avevano capito a colpo d’occhio che quella foto valeva oro (In guerra con Eddie Adams, “The digital Journalist”, ottobre 2004). Infatti, quando il rollino giunse nella sede dell’AP, i giornalisti esplosero in esclamazioni di giubilo (R. Hamilton, cit., p. 182).

     

    f. L’affidabilità dei testimoni

     

    Non abbiamo testimonianze dirette e al tempo stesso complete della Saigon Execution. I testimoni raccontano i particolari poco per volta, spesso dopo anni. Per esempio: che cosa disse Loan, dopo aver ucciso il vietcong? Adams, in varie occasioni, dichiarò che pronunciò queste parole: "Ha ucciso molti dei miei uomini e molti della tua gente". Questa frase viene riportata concordemente dalla stampa del tempo (R. Hamilton, cit., pp. 175-176). Invece, secondo David D. Perlmutter, studioso di foto iconiche che scrive nel 2004, Lém avrebbe detto: “Molti americani sono stati uccisi in questi ultimi giorni e molti dei miei migliori amici vietnamiti. Ora lo capisci? Buddha lo capirebbe”. Altri, ancora, specificano: “Buddha mi perdonerà”. (C. Bonnet, cit., 2017). Ma noi possiamo pensare, leggendo l’intervista di Oriana Fallaci, che Loan era cristiano (“aveva un crocifisso al collo”). Quanto sono credibili le aggiunte?

     

    Inoltre: come faceva Loan a sapere che Lém aveva ammazzato senza pietà una famiglia intera? La sequenza delle foto, e più ancora il video girato dalla NBC, non sembrano lasciare spazio a un momento in cui il generale viene informato. Il prigioniero arriva e viene immediatamente giustiziato: il tutto in meno di dieci secondi. Nella ricostruzione di Ken Burns, il viet cong arriva, Loan ordina a un soldato di ucciderlo, e quando questo indugia, allontana tutti agitando la pistola, dice “ti giustizio” e lo uccide. (In The Execution of a vietcong, History Channel, 2016, min. 2.20-2.30, con spezzoni di intervista a Adams e alla moglie di Lém).

     

    Le precisazioni si aggiungono e si accavallano col passare del tempo: ha ucciso una famiglia intera, con i nonni e i bambini; no, era la famiglia di un amico di Loan; in più, ha ordinato la fucilazione di oltre trenta civili. Oriana Fallaci chiede a Loan perché non divulgò subito i crimini commessi da Lém. Lui rispose, con uno scatto di orgoglio, che non aveva bisogno di giustificazioni. Potremmo rivolgere la stessa domanda all’Amministrazione Usa, quando si accorse che la foto stava diventando uno strumento della propaganda antiamericana. Perché non dirlo subito, per fermare l’uso ostile di quella foto? Nel 1985, Ted Welch notava una contraddizione in una intervista che Adams aveva appena rilasciato a “Newsweek”. Questi, infatti, aveva affermato che “quell’uomo aveva ucciso il miglior amico di Loan e tutta la sua famiglia”. Welch trovava che questa coincidenza fosse difficile da credere, e si chiedeva perché Loan (o Adams stesso, aggiungiamo noi) non avesse divulgato questa informazione, data l’attenzione pubblica che l’esecuzione aveva richiamato” (R. Hamilton, pp. 181 s.).

     

    Lém, il vietcong, è veramente un assassino spietato? La moglie sostiene che non ha mai fatto nulla di male e che, in realtà, lo si è confuso con un'altra persona. Notizia ripresa dalla versione vietnamita di Wikipedia che mette in dubbio l’identità della vittima.

     

    g. L’impatto sociale della fonte

    Lo ripetono in molti, quasi come un mantra, nei commenti e nei libri che parlano della Saigon Execution: quella foto fu una bomba psicologica che allontanò la maggioranza della popolazione dal sostegno alla guerra e costrinse l’amministrazione americana a iniziare una procedura di sganciamento. È la foto che fece perdere la guerra.

     

    Sostiene questa tesi Peter Braestrup, fotoreporter tra i più impegnati in quella guerra (Big Story: How the American Press and Television reported the Crisis of Tet 1968: vedine la buona recensione di George Herring, 1979). Ma di parere decisamente diverso è Don Oberdorfer, anche lui un giornalista sempre presente sui campi di battaglia.

     

    Potremmo continuare con le citazioni: la discussione fra gli addetti ai lavori è inesauribile. Per trovare qualche punto fermo, dobbiamo uscire da quel dibattito e cercare tracce concrete dell’impatto popolare della foto. Se, dunque, andiamo a vedere i sondaggi, questi ci danno un risultato paradossale: da una parte aumentano coloro che pensano che la guerra verrà perduta; ma dall’altra, ed è questo che ci interessa, i sostenitori della guerra non diminuiscono affatto, anzi aumentano. Infatti, i contrari all’intervento americano, che erano il 52% nel febbraio del 1967, scesero al 42% un anno dopo, a foto già pubblicata (W. M. Hammond, The Tet Offensive and the News Media, in “ Army History”, 70, 2009, pp. 6-16, 9 ). David D. Perlmutter (2004) scrive che “non c’è nessuna prova che questa foto abbia avuto un effetto significativo sulla pubblica opinione americana”. E conclude il suo studio sulle fonti iconiche sostenendo che quello della “foto che fece perdere la guerra” è solo un mito. 

     

    Ciò che va in crisi – continuano a raccontarci le ricerche sul campo -  è la fiducia in Lindon Johnson, il Presidente americano. La gente non crede più che sia la persona adatta a guidare la nazione. Contro di lui si schierano, quindi, sia i pacifisti, che lo accusano di aver aumentato a dismisura l’impegno americano nel Vietnam, sia i "falchi frustrati", i sostenitori della guerra che lo avevano appoggiato fino a quel momento, ma che ora vogliono che venga sostituito da un nuovo condottiero. (P. Hagopian, The “Frustrated Hawks, Tet 1968, and the Transformation of American Politics, in “European Journal of American Studies, 2008, numero speciale sul ’68).

     

    Ma non si tratta di interpretazioni spontanee. Perché l’icona sviluppi le sua forza ha bisogno di persone, di apparati che ne guidino la lettura. Il potere sociale della foto non promana dall’immagine in quanto tale (N. Smith Dahmen et al., The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon).

     

    Quella foto fu usata dall’apparato propagandistico vietnamita e in tutto il mondo diventò il simbolo dell’aggressione americana. Fu autentica benzina per i movimenti contestatori pacifisti, ma – osserva Martin Kemp – “potremmo supporre che venisse usata anche per dire ai Vietcong : “ecco cosa vi può capitare …” (Christ to Coke. How image become ikon, Oxford U.P, 2012, p. 207). Forse fu proprio questa sua duttilità che non dissuase gli americani dal loro appoggio alla guerra e dal desiderio “di fargliela pagare” ai guerriglieri comunisti. D’altra parte, non ci erano riuscite le ben quarantamila immagini prodotte e fatte circolare dal movimento pacifista. Ciò che questa foto ottenne (o rinforzò) fu il giudizio negativo sul modo con il quale l’amministrazione stava conducendo quella guerra, ma non sulla guerra in sé. (D. Kunzle, Killingly Funny: US Posters of the Vietnam Era, in Vietnam lmages: War and Representation, cit., pp. 112-122).

     

    Inoltre, in quel 1968 avvennero altri fatti gravissimi che sconcertarono gli elettori americani e che influirono nell’orientarli politicamente: l’assassinio di Martin Luther King, il leader del movimento per i diritti civili dei neri (15 gennaio); l’assassinio di Bob Kennedy, il fratello di John, che privò del suo principale candidato l’ala progressista del partito Democratico (6 giugno). Il 20 agosto le truppe del patto di Varsavia invasero Praga e – evento probabilmente decisivo – il 26 agosto la Convention del partito Democraticosi spaccò fra i sostenitori della guerra – i falchi frustrati – e i pacifisti, . Questa degenerò in scontri violenti, nei quali intervenne brutalmente la polizia. Ha scritto di recente Louis Menand che da quel momento gli elettori bianchi abbandonarono il partito Democratico, come apparve chiaramente alle elezioni presidenziali del successivo 5 novembre, che consegnarono a Richard Nixon la palma del vincitore (David Culbert discute l’impatto complessivo di questi eventi sull’opinione pubblica americana in Television's Visual Impact on Decision-Making in the USA, 1968: The Tet Offensive and Chicago's  democratic National Convention in “Journal of Contemporary History”, 33, 3, 1998, pp. 419-449).

     

    La foto ebbe certamente il potere di deprimere il Presidente Johnson, al punto da spingerlo a non ripresentarsi per il secondo mandato. Ebbe un grande impatto sulle élites mediatiche, sui giornalisti, la gente di cultura, i politici, i giovani del Sessantotto. Sul resto della popolazione – la maggioranza - non sembra aver avuto lo stesso effetto. Con le parole di Perlmutter: “The Saigon Execution colpì Johnson, ma non la gente, che non si lascia convincere da una sola foto, e per la quale la vittima era comunque un nemico, uno che spara ai nostri ragazzi”. William M. Hammond è ancora più chiaro: “Quello che la maggior parte del pubblico pensava aveva poco a che vedere con quello che presumevano i critici dei media” (The Press in Vietnam as agent of defeat, in “Reviews in American History”, 17, 2,1989, pp. 313-323, 315).

     

    “Il punto cruciale, quindi, è che il contesto più importante - e spesso trascurato - della valutazione di un'immagine iconica sono i pregiudizi del pubblico; come sempre, credere è vedere. Le persone possono guardare qualsiasi immagine e creare ciò che vogliono farne. I commentatori d'élite si inoltrano su un terreno psicologico molto incerto quando affermano che qualsiasi immagine "naturalmente" provoca una certa reazione. Un'immagine può essere "divertente" per una persona e "rivoltante" per un'altra”. (N. Smith Dahmenet al., cit.).

     

    Il punto sul dibattito in classe

    Il dossier appena esaminato dovrebbe permettere alla classe di giungere a nuove conclusioni, con le quali modificare quelle che hanno aperto questa seconda fase.

    Che cosa ci dice della guerra del Vietnam questa foto, se la guardiamo al di fuori del suo contesto? Nulla di più di ciò che si deve dire, normalmente, di qualsiasi guerra. L’orrore della morte. Nelle guerre si uccide e si viene uccisi. La fonte aggiunge a questa informazione una emozione così violenta da indurre un forte senso di ripulsa. È probabile che questa sia la reazione di tutti, ieri come oggi. Ma “ripudiare la guerra in generale”, come abbiamo visto, non equivale al rigetto di quella guerra particolare.  

     

    Ciò che interessa lo storico non sono (soltanto) le reazioni emotive. Sono piuttosto i giudizi e le conseguenze che ne ricava il destinatario di quella foto. Questo laboratorio dovrebbe aver permesso di scoprire che, nel passato, ognuno vi ha ascoltato e visto cose diverse: il vietnamita, il giovane contestatore, il presidente Johnson o il suo successore, Richard Nixon, un esponente della minoranza colta o della maggioranza popolare americana. Ognuno ha visto nella foto qualcosa che confermava suoi convincimenti precedenti.

     

    Questo laboratorio, di conseguenza, ha posto il problema di cosa possiamo vederci noi. Innanzitutto, ci ha indotto a prendere qualche distanza dalla lettura spontanea di una fonte iconica. Forse è proprio questa che favorisce la mitologizzazione dell’immagine. Nell’analisi micro (la scena dell’esecuzione), abbiamo osservato, invece, che quella foto non ci racconta di protagonisti completamente cattivi, né di vittime del tutto innocenti. Per quanto riguarda il contesto generale, abbiamo intravisto una macchina poderosa, quella dei media, che agisce in una situazione politica e militare complessa, che si avvale di questa foto come di un potente strumento di combattimento. Quella foto, dunque, non ci informa sulla guerra (della quale non ci dice molto di più di quello che sappiamo da altre fonti e, oltre tutto, ce lo dice anche con qualche incertezza), ma è essa stessa un’arma di quella guerra. Se la guerra è un orrore, quella foto non va considerata da noi come uno “spiraglio per guardarlo meglio”, ma come uno degli strumenti in qualche modo coinvolto nella sua produzione.

     

    Certo, di molta parte delle testimonianze di guerra si può dire che sono talmente coinvolte nel conflitto da farne parte attiva. Lo specifico della foto iconica è proprio in quella sua potenza evocativa che fa pensare a tutti (anche a molti studiosi) che non ha bisogno di didascalie. No captions needed. Ma, senza parole, l’icona può essere piegata a molte interpretazioni e, quindi, usata da molti soggetti. "Il potere delle immagini iconiche non è una forza unica che copre tutte le eventualità. Piuttosto, un'immagine iconica può avere potenzialità diverse che possono o meno coincidere con l'interpretazione di quell'immagine o il modo in cui tale immagine viene impiegata”. (N. Smith Dahmen et al., cit., The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon).

     

    *questa è la prima parte di un articolo sulla Saigon Execution, a sua volta parte di un corposo intervento di HL sul Sessantotto, composto da due interventi su “Sessantotto. Un anno spartiacque”, scritti da me; da due sitografie sul Sessantotto e una sui movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam, scritte da Antonio Prampolini; una presentazione multimediale interattiva per svolgere il laboratorio con una LIM oppure a distanza, curata da Lucia Boschetti. 

Questo sito utilizza cookies tecnici e di terze parti per funzionalità quali la condivisione sui social network e/o la visualizzazione di media. Chiudendo questo banner, cliccando in un'area sottostante o accedendo ad un'altra pagina del sito, acconsenti all’uso dei cookie. Se non acconsenti all'utilizzo dei cookie di terze parti, alcune di queste funzionalità potrebbero essere non disponibili.