Autore: Antonio Brusa

 

 

 

Ricavo dal libro di Francesca Romana Recchia Luciani quelle che mi sembrano “le conoscenze storiche essenziali per la giornata della memoria”, un momento che molti (della scuola come dell’Università) vorrebbero smettesse i panni della celebrazione e della commemorazione per acquistare quelli dello studio.

Per realizzare questo obbiettivo occorre costruire la profondità temporale della Shoah. Questa si articola su tre livelli. I tempi lunghissimi dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo, che accompagnano l’intera storia del cristianesimo e delle società che a questa religione si rifanno. I tempi intermedi della scientifizzazione del concetto di razza (e quindi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento). Il tempo breve, infine, quello dei dodici anni dell’esperienza nazista.

Zoomando su quest’ultimo periodo, si osserva il percorso che conduce alla “Soluzione finale”, e quindi a Auschwitz. Anche questo è un percorso niente affatto lineare. Le sue prime mosse sono quelle della violenza diffusa che culmina con le rapine, le botte e le uccisioni della Notte dei Cristalli. Poi si cambia registro. Basta violenza nelle città, i nazisti provano a utilizzare le strutture dello stato: leggi e burocrazia. Gli ebrei vengono censiti, segregati, spogliati progressivamente, messi ai margini della società, costretti a emigrare. L’entrata in guerra – infine -  mette i nazisti di fronte agli ebrei dell’Europa orientale. Fino ad allora se l’erano vista con gli appena 500 mila ebrei interni, ora devono vedersela con i milioni di ebrei slavi, ungheresi,  baltici.

Ci si avvia alla fase finale. Anche questa segue un percorso tortuoso. Fermo dal punto di vista ideologico, si avvale di soluzioni empiriche, messe a punto qua e là: la logistica, sperimentata da Eichmann in Austria; le uccisioni di malati e di portatori di handicap; gli omicidi di massa degli ebrei, ai quali si danno sia gli Einsatzgruppen, sia le popolazioni civili; l’uso dei gas di scarico dei camion; il complesso dei campi di concentramento che, fin da subito, il regime ha cominciato a costruire.

Sulle sponde del Wannsee, nel gennaio del 1942, si tirano le somme di queste pratiche dell’orrore. Tutte insieme concedono ai nazisti il potere di sterminare un popolo. In questa impresa, essi profondono ricchezze, uomini, strutture, industrie, capacità organizzative collettive e individuali. Costruiscono una macchina così possente e funzionale che continua a produrre morte anche quando le loro armate si ritirano sconfitte. Un’impresa ciclopica che li mette in grado di “dimostrare -  sono parole di Goebbels  - che tutto è possibile”.

Messa a punto la contestualizzazione,  si entra nell’universo concentrazionario, un termine - ormai passato nell’uso storiografico - con il quale si sottolinea il fatto che esso era costituito da una rete fitta di campi, che innervava sia la Germania, sia molti dei territori conquistati, dall’Italia fino alla Polonia. Campi di diverso genere, da quelli destinati alla raccolta e al transito, alla detenzione, al lavoro, fino a quelli specializzati nello sterminio, con un gradiente di violenze – tuttavia - che faceva sì che l’omicidio e la morte per fame o per stenti fossero di casa ovunque.

Questo universo ha uno scopo che persegue con determinazione. Non si tratta, soltanto, di uccidere. Occorre produrre un essere meritevole di essere ucciso. Occorre “dimostrare” che l’ebreo è un subumano. Questo universo, dunque, lo “produce”.  Lo fa creando un clima di sofferenze, di privazioni, di perdita di identità, di routine della violenza che conducono l’individuo a perdere tutto ciò che lo rende umano. Facendogli percorrere l’ultimo tratto della sua vita in una terra che ricrea l’inferno, con la sua logica capovolta: premiare i cattivi, punire i buoni. Il “mussulmano”, parola che Primo Levi ci ha fatto conoscere, è l’abitante di questo inferno.

Attraversarlo per intero  in classe è impossibile. Bisogna scegliere e focalizzare la propria attenzione. Francesca Romana indica tre luoghi -  Teresienstadt, Varsavia, Auschwitz – quali esempi di “studi di caso” capaci di illustrare la varietà delle situazioni storiche;  e due personaggi, Primo Levi e Hanna Arendt, perché non solo ci parlano dell’orrore, ma pongono le basi per tematizzare il nostro rapporto con quei fatti. Quello che ci conduce alla giornata del 27 gennaio, momento nel quale si affronta la questione, vitale per la formazione storica dei cittadini, dell’educazione della memoria.

 

Francesca R. Recchia Luciani, La Shoah spiegata ai ragazzi, il melangolo, Genova 2014

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