A Madrid dal 15 al 18 ottobre 2012 si è svolto il I CONGRESO INTERNACIONAL DE EDUCACIÓN PATRIMONIAL dal titolo "Mirando a Europa: estado de la cuestión y perspectivas de futuro". Di seguito riportiamo la relazione, adattata, tenuta dal Prof. A. Brusa. Un'occasione di riflessione sul significato di parole come patrimonio europeo, identità, radici.

Un premio che ci obbliga a ripensare l'insegnamento della storia, il patrimonio europeo e l'educazione alla cittadinanza.

(di Antonio Brusa)

1. La pace, un patrimonio critico

Il premio Nobel per la Pace, recentemente assegnato all'Unione Europea è un nuovo punto di partenza, per riesaminare alcune questioni chiave, dell'insegnamento della storia e forse anche della convivenza civile in Europa. Senza entrare nel merito delle polemiche e degli elogi, concentriamoci sulle motivazioni di questo premio, perché richiamano prepotentemente alcune parole cardine per chi insegna storia: storia –appunto-patrimonio, Europa e formazione. Questo premio, ci obbliga a riprenderle in considerazione e a interrogarci sul loro significato e sul loro valore, in questo scorcio iniziale del XXI secolo.

Fra le motivazioni del premio, la principale coinvolge direttamente la riflessione storica, perché mette a confronto gli ultimi sessant'anni di pace, vissuti dall'Europa, con la sua storia millenaria, fatta di sangue e di guerre. Questa opposizione fa risaltare, quasi come un miracolo, la trasformazione di un continente, da teatro di ogni genere di conflitto a luogo di convivenza pacifica. E' un contrasto chiarissimo e inequivocabile; così come è eccezionale il periodo di pace che ha caratterizzato sia le nazioni europee nei loro rapporti vicendevoli, sia la vita della maggior parte dei loro abitanti. Sessanta anni sono un tempo molto lungo per la biografia degli Stati e degli individui. Indubbiamente, un fatto di questa portata merita di entrare in quel sontuoso repositorio di meraviglie che è il "patrimonio europeo". Non sembra lecito nutrire dubbi in proposito. Quale che sia il futuro che verrà riservato all'umanità, l'Europa potrà essere ricordata come il luogo che ha saputo regalare al mondo un simbolo di convivenza civile fra genti diverse; un esempio di superamento delle inimicizie passate; un modello di risoluzione pacifica delle controversie e dei dissidi. Questo è un dato positivo. E' un valore – potremmo dire - da tenere presente anche nei tempi difficili che l'Europa sta vivendo.

Ma, proprio nel momento in cui l'Europa si accinge a "patrimonializzare la pace", agli studiosi e agli insegnanti spetta il compito di evitare un grave equivoco. Uno dei primi che ci mise in guardia, con passione e rigore, fu Gérard Namer, parlandone a proposito di un tema strettamente connesso con quello storico-patrimoniale: il tema dell'identità europea e della sua tradizione. Si discuteva delle radici europee (Era il decennio finale dello scorso secolo, quando si pose la questione di una Costituzione europea). Si dibatteva se queste dovessero essere giudeo-cristiane, laiche e se, ancora, si dovessero obliare per sempre quelle del movimento operaio, socialista, e di sinistra, seppellite dalla disfatta del mondo comunista. Qualcuno ricorderà le polemiche furiose nel parlamento europeo e fuori; ricorderà anche i ripetuti interventi della Chiesa cattolica. Lo studioso francese osservava che ciascun pretendente era in errore, perché rileggeva la propria tradizione purificandola dagli eccessi, e ne presentava solo gli aspetti che, a suo modo di vedere, erano positivi. Concludeva, dunque, che se queste correnti culturali desideravano contribuire alla definizione delle radici europee, dovevano concorrere con l'intero loro patrimonio, intessuto di intolleranze, inquisizioni, terrori e massacri.

Forti di questa avvertenza, non possiamo non ritenere che proprio nel momento nel quale la pace diventa elemento connotativo del patrimonio europeo, occorre ricordare che all'interno di questo si custodisce anche la memoria delle guerre più sanguinose che la storia dell'umanità abbia conosciuto, i genocidi esemplari, le dittature più feroci e, marchio indelebile della modernità globalizzata, l'arrogante tentativo dell'Europa di impadronirsi del mondo e di considerare se stessa superiore, per civiltà, religione, arte e cultura alle altre regioni del pianeta. In una parola: di ritenere che il proprio patrimonio fosse superiore a quello del resto dell'umanità.

Nella nostra presunzione – dice Namer -, noi Europei pretendiamo di determinare la nostra identità, decidendone autonomamente i contenuti patrimoniali. Essa, in realtà, è attribuita dagli altri. Questo accade nella vita di ogni giorno, nei gruppi di pari, nei quali "gli altri" definiscono ciascuno di "noi"; e accade anche nei rapporti fra i gruppi politici o fra gli stati. Per qua nto i singoli si forzino di autorappresentarsi, alla fine sono sempre gli "altri" che decidono che, a loro giudizio, noi siamo bravi, ladri, lavoratori, buoni combattenti, sciovinisti e così via. Dunque, sono gli altri che in questo momento "definiscono" l'Europa e ne disegnano i contorni identitari. Il Nobel della pace, perciò, al contrario di quanto si è portati a pensare, ci impone di guardare al di fuori di noi; a smettere di osservare il proprio ombelico culturale, per cercarvi le radici e i perché di questo premio. Invita noi europei a mettere in primo piano i rapporti che intratteniamo con il resto del mondo. Sollecita interrogativi che toccano le fondamenta epistemologiche della ricerca e dell'insegnamento: è possibile definire i tratti e la composizione del patrimonio europeo ascoltando solo le voci di chi abita questa parte del mondo? La ricerca sul patrimonio europeo non imporrebbe, invece, l'ascolto di altre genti, di altre culture, di altri punti di vista? E, per chiudere questa premessa problematica: ci obbliga a considerare la questione interculturale come "interna" alla definizione di noi stessi; non come un'aggiunta benevola e volontaria, ma logicamente non necessaria, della "nostra storia" e della "nostra identità".

2. Parole intrecciate con la politica

Sono parole normali e quotidiane, quelle che adoperiamo solitamente, quando affrontiamo questi argomenti: patrimonio, Europa, formazione. In larghissima misura sono anche istituzionalizzate, codificate in leggi, vive nelle abitudini professionali e nelle attività scolastiche o nelle imprese turistiche e museali. La loro diffusione e la loro pervasività sociale sollecitano diverse indagini, volte soprattutto alla risoluzione dei problemi e al miglioramento delle offerte formative e culturali. Presi da questa ricerca, siamo spesso restii a fermarci e a riflettere sul loro significato. Le diamo per scontate, esattamente come faceva Marc Bloch, al principio della sua immortale Apologia della storia. E, d'altra parte, tutti abbiamo sperimentato la loro inafferrabilità ogni volta che abbiamo cercato di circoscriverle con una definizione o con un modello rigoroso, dal momento che sfuggono e sempre si dissolvono e disperdono in mille problemi.

Inoltre, per quanto non appartengano all'angosciante sfera economica, esse sono centrali nella vita politica e sociale delle nostre società, e questo aspetto fa sì che esse si trovino anche al crocevia di quel complesso di fatti e di vicende che da qualche decennio cataloghiamo sotto il nome generico di "uso pubblico della storia". In nome del patrimonio si prendono e si motivano decisioni politiche all'interno delle nazioni europee, specialmente nel campo della formazione; o, per quanto riguarda i rapporti con l'estero, nelle procedure e nelle discussioni che accompagnano l'accettazione di nuovi membri. Si ricorderà, ad esempio, il dibattito sull'ammissione della Turchia, e dell'obiezione, che venne avanzata dalla Francia, che la "Turchia era estranea al patrimonio europeo". E' utile chiedersi, allora, quanta parte di questo uso pubblico trovi alimento proprio nella zona di indistinzione e di incertezza che circonda queste parole. Giuseppe Sergi ci avverte di questo rischio con una frase efficace: "per quanto riguarda la storia, meno si sa e più si inventa".

Ridurre i margini di questo pericolo è probabilmente un buon compito, per lo studioso e per l'insegnante.

Le vicende di queste parole, d'altra parte, sono ben conosciute. La "Storia", quella con la S maiuscola, quella che si studia nelle scuole e che ritroviamo nello schema generativo di programmi e di manuali, è di origine piuttosto recente. In buona parte nasce dall'incontro/scontro fra le due grandi nazioni continentali del principio dell'Ottocento, la Francia e la Germania. La prima adotta come sua legittima progenitrice Roma (repubblicana al tempo della Rivoluzione francese e imperiale con Napoleone). La seconda sceglie e impone come genitrice primigenia, la Grecia. In questo modo, Grecia e Roma istituiscono le basi della civilizzazione europea e questa, fondendosi con l'energia dei nuovi popoli barbari, si suddivide e origina le nazioni; le quali, a loro volta, si trasformano – nel lungo conflitto dell'età moderna – negli Stati attuali. Antichità, Medioevo, Età moderna non sono le periodizzazioni notarili di una cronologia. I momenti obbligatori e rituali di un manuale. Sono i passaggi emotivamente pregnanti di una biografia.

Solitamente, questa viene chiamata "la genealogia di una nazione". E' un'imprecisione. Si tratta, a ben guardare, della prima "storia europea". Essa, infatti, da una parte predispone la trama sulla quale ogni Stato ottocentesco disegna il percorso che lo ha portato all'indipendenza e alla sovranità. Dall'altra fornisce lo sfondo, sul quale si svolgono le singole avventure nazionali e individua quelli che potremmo chiamare "i protagonisti efficaci" della vicenda storica. Sono gli interlocutori con i quali la propria nazione deve interagire – pacificamente e no; e agli occhi dei quali essa deve mostrare il suo valore. Infine, a considerare questo schema narrativo con maggiore attenzione, si tratta ancora di una storia mondiale. Infatti, il continente europeo vi è definito come l'unico luogo della terra che ha dato origine e vita a "una storia". L'Asia Orientale – secondo questa ricostruzione - è immobilizzata nei suoi regimi dispotici; l'America e l'Oceania, continenti tribali, sono solo terre di conquista e l'Africa (questa fu la celebre definizione di Hegel) è il buco nero della storia. Al termine, questa storia individua "l'altro" per antonomasia, l'interlocutore estremo, una sorta di "sparring partner tradizionale", nel cui confronto si definiscono e si precisano i contorni dell'identità europea: l'Islam, prima nelle vesti dei conquistatori musulmani del mediterraneo meridionale, poi in quelle aggressive dell'impero turco.

Si dirà: vecchie storie. Questo era il programma ottocentesco. Grave errore. Si prenda il programma per le superiori, emanato dal ministro Gelmini. Se ne riconosceranno i tratti ottocenteschi, anche ad una lettura superficiale. E, per quanto riguarda la scuola di base, si rilegga il programma emanato dalla Moratti (fortunatamente messo da parte nel 2007 e successivamente nel 2012): si noterà come siano ancora vivi e operanti i temi dell'ottocento: la civiltà greco-romana, vivificata dal cristianesimo, il medioevo feudale, le nazioni e l'eterno nemico, unica entità straniera autorizzata a frequentare questo programma, l'Islam.

La migliore riflessione storico-didattica del secondo dopoguerra si è incaricata di smentire questa ricostruzione e di proporre alternative. E, dal punto di vista scientifico, la crescita e la diffusione della pratica storiografica nel mondo, ha relegato questa ricostruzione nell'hangar dei relitti del passato. Perciò, non occorre, qui, impegnarsi ulteriormente nella sua confutazione. E' necessario, invece, soffermarsi sulla sua efficacia. Questo schema, infatti, ha "lavorato" nel corso del tempo. Ha contribuito a costruire programmi e abitudini di insegnanti. Ha creato un'agenda di problemi e di rilevanze che resiste alla sua disfatta epistemologica. Storiograficamente inutilizzabile, esso è tuttavia ancora socialmente attivo.

Lo schema funziona anche nella creazione di un immaginario geografico. Osserviamone l'azione per quanto riguarda la configurazione del sub-continente europeo. Questo schema storiografico vi ha disegnato degli spazi e ne ha stabilito le gerarchie. Alcune regioni sono privilegiate: qui si svolgono gli eventi e i processi fondamentali. L'Antichità vive nel Mediterraneo; il Medioevo opera in quella fascia ristretta, che va dalle Fiandre all'Italia del Nord (dove si incoronavano gli imperatori e dove sorsero le grandi e ricche città commerciali); l'età moderna predilige spesso i vasti spazi dell'Europa centrale. A turno, diverse regioni assumono il ruolo di protagoniste, poi rientrano dietro le quinte: Spagna, Italia, Francia, Germania, Olanda, Inghilterra, Svezia. Di volta in volta cambiano le periferie e i comprimari: ora sono i barbari, che premono ai confini dell'impero; ora sono le nuove genti – balcaniche e centro orientali – che lottano per assurgere al rango di nazione. Ogni stato, a sua volta, rielabora questo schema, assegnando rilevanze narrative ai momenti nei quali svolge ruoli di protagonista, scegliendo episodi simbolici, eleggendo il proprio pantheon di eroi.

Il Cinquecento italiano è interamente preso dalla vicenda artistica del Rinascimento. Se prendiamo un manuale tedesco, avremo modo di osservare la somma trilogia italiana (Leonardo, Raffaello e Michelangelo: peraltro ricordati nelle scuole di tutta Europa); ma il "colore" del secolo è decisamente religioso, con Martin Lutero e la formazione delle chiese riformate; mentre in Spagna, tutta l'attenzione è concentrata sulla formazione dell'impero "dove non tramonta il sole". Proviamo a passare al Seicento: quello italiano è ben poca cosa, a parte Masaniello e Galileo. Ma se sfogliate un manuale spagnolo o olandese, troverete un'altra atmosfera, ben più trionfale. Da noi, Federico II è ormai un eroe del medioevo. Geniale, aperto alla cultura e all'arte, creatore di un'amministrazione centralizzata. In Germania, invece, è l'imperatore che ha perso. E tutto lo spazio se lo prende suo padre, Enrico VI, ricordato per aver esteso al massimo le terre imperiali (nei manuali italiani è appena ricordato, e non sempre con benevolenza). Se poi vi volete divertire con l'impero romano, scoprirete personaggi per noi italiani del tutto ignoti, ma quasi venerati nel resto di Europa: Viriato, il capo della guerriglia iberica (conteso peraltro da spagnoli e portoghesi), temuto dai romani che seppero liberarsene solo con il tradimento; Vercingetorige in Francia, vittima del suo acerrimo nemico Giulio Cesare (ma la loro fama oggi deve molto di più a Asterix, che allo studio della storia), Arminio in Germania, che distrusse le tre legioni di Varo, Giulio Civile in Olanda, un batavo che, dopo aver militato nelle legioni imperiali (come Arminio del resto), tornato nelle sue terre, guidò la resistenza antiromana; e infine, idolatrata in Inghilterra, Boadicea (o Boadicca), la regina che con il volto dipinto di blu si mise alla testa delle tribù britanniche, per contrastare l'invasore.

E' una storia erratica, dunque, la cui logica profonda non può essere descritta se non facendo ricorso a qualche chiave mitologica: il "Passaggio da Oriente a Occidente", di memoria biblica e medievale; o la "migrazione verso il nord", pseudo spiegazione ottocentesca, avvalorata peraltro da tesi storiografiche, quali quella – infelice e fortunatamente ormai abbandonata – di Henri Pirenne, che sostenne come, con l'avvento degli arabi, l'unità mediterranea si perse, e la sua civiltà traslocò al Nord. Una storia che – proprio a causa del suo vagabondare – è la causa principale dei difficili problemi, ai quali siamo costretti a fare fronte, quando cerchiamo di definire gli spazi europei, e conseguentemente, i contorni del patrimonio europeo.

Infatti, l'individuazione di un determinato spazio nazionale ha portato alla proiezione nel passato dei confini conquistati nella modernità, e, conseguentemente, ha condotto alla individuazione di una storia e di un patrimonio nazionali. In pratica: gli Stati si appropriavano della geografia, tracciando delle linee di demarcazione sul pianeta, e, contestualmente, si appropriavano di una quota di passato, dichiarandola la "propria storia". Potremmo dire che il patrimonio nazionale non è altro che il bottino di questa duplice appropriazione. Dovremmo concludere che il "patrimonio europeo" è, sua volta, la somma di questi bottini?

Più che di una visione del mondo, si tratta di "una politica culturale", che ha portato alla creazione di un racconto del passato, al disegno di una geografia del presente e alla definizione del patrimonio storico-culturale del nuovo soggetto, lo Stato nazionale. Parte integrante di questa politica è la formazione del cittadino. Fu un progetto politico poderoso, che ha richiesto investimenti e cure assidue, da parte degli Stati europei. Ha generato una successione secolare di interventi capillari, nel territorio e nella società, che hanno costruito strutture profonde nei modi di pensare dei nostri contemporanei.

Il tema impellente per l'Europa di oggi, è quello di decidere se, nel prospettare l'educazione del nuovo cittadino europeo, debba ripercorrere la strada ottocentesca, sia pure nelle forme attenuate e corrette politicamente, consigliate dalle nuove etichette globalizzate; oppure, se avventurarsi in quegli spazi della individuazione di una "cittadinanza senza nazionalismi", alla quale avviare le giovani generazioni. Sono spazi vagheggiati e descritti da molti e da molto tempo. Qui ci limitiamo soltanto a richiamarli, per soggiungere subito che, tuttavia, sono spazi assai poco praticati dalle istituzioni.

L'impellenza di questo cambiamento trova molte ragioni, tutte ineludibili. Al primo posto, da studiosi, dobbiamo porre quelle scientifiche. Questa ricostruzione del passato è talmente priva di credibilità, da non meritare più le lunghe discussioni critiche, che un tempo aprivano i testi di metodologia e di storiografia. L'eurocentrismo, anche storiografico, è diventato una parola così screditata, che molti, e con qualche ragione, si preoccupano degli eccessi contrari di zelo decostruttivo e di esterofilia.

Al secondo posto, da studiosi di didattica e di processi formativi, metteremo le finalità dello studio storico. Formare un'identità (nazionale, collettiva, europea) era l'obiettivo centrale del passato. Quale sarà l'obiettivo del lavoro formativo odierno? sarà sufficiente trasformare un aggettivo, da "nazionale" a "europeo"? oppure la critica deve essere ancora più radicale e ci deve spingere a rinunciare alle pretese identitarie, a liberare le potenzialità conoscitive delle scienze storico-sociali, per metterle a disposizione dei cittadini, quali strumenti necessari per orientarsi in una società e in un mondo sempre più complessi? Nemmeno questo è un punto nuovo. Sono diversi decenni, infatti, che la didattica critica propone, e molte volte con successo, di accompagnare - se non di sostituire - le liste di obiettivi identitari con degli obiettivi cognitivi. Potremmo dire, per quanto riguarda gli Stati dell'Europa occidentale, che - fin dagli anni '60 - i loro programmi di storia e geografia nazionali hanno subito un'autentica mutazione. Semmai, dobbiamo notare con una certa preoccupazione l'uso ambiguo del concetto di patrimonio, introdotto nei programmi relativamente di recente, che a volte si presta ad una ripresa sottotraccia degli obiettivi di appartenenza identitaria (un esempio lampante di questo tentativo politico è il programma di storia emanato dal Ministro Moratti).

Ma vi è una terza ragione, che ci dovrebbe spingere a cambiare strada. Una ragione, oserei dire, drammatica. Ce ne parlano molti studiosi degli sviluppi della storiografia e dei temi della memoria nel mondo attuale. Fra questi Tessa Morris-Suzuki. Analizzando programmi, storiografie e progetti culturali di vari paesi del mondo, la studiosa ci prospetta una visione inquietante: quella della globalizzazione del nazionalismo. E' come se l'umanità intera si fosse appropriata della visione del mondo eurocentrica. Ciascuna nazione se ne è impadronita e, esattamente come è accaduto alle diverse nazioni dell'Ottocento europeo, l'ha adattata a sé. Ognuna, dunque, si racconta attraverso una storia autocentrata; proietta nel passato i suoi confini geografici (attuali o ai quali ritiene di aver diritto); ritaglia nell'universo culturale il proprio spazio patrimoniale; forma i suoi cittadini. E, in moltissimi casi, affronta la scena della contemporaneità con il deciso proposito di riprendersi le glorie del passato, se non di rivalersi delle umiliazioni della colonizzazione europea.

Un identico processo avviene al livello micro – delle comunità e delle regioni – per le quali la studiosa parla di "effetti perversi del matrimonio fra pedagogia e storia locale".

Posta dinanzi a questa esplosione del nazionalismo, a questa "ossessione per le identità nazionali, per la storia e la memoria difese come visioni naturali", l'Europa che, come abbiamo accennato, nel secondo dopoguerra aveva inaugurato strade nuove per la formazione storica, sembra intimidita. I programmi di storia degli ultimi due decenni, infatti, risentono di questa ripresa identitaria internazionale. E, quasi per uno straordinario contrappasso, questa parte del mondo che aveva orgogliosamente proclamato la sua superiorità culturale, ora sembra incapace di sostenere le sue scelte. Si dice, e si scrive spesso, che sono "scelte deboli" nei confronti di nazionalismi giovani e forti. Si elaborano nuove argomentazioni a sostegno di un identitarismo di marca occidentale. E non sempre, come ha sostenuto Keith Crowford per l'Inghilterra, sono battaglie condotte dalle destre nazionali. Nella vincente mondializzazione, si afferma con vigore, tutti – anche noi europei – abbiamo bisogno di una storia che ci definisca come cittadini nazionali. Tutti ci dobbiamo difendere. E, perciò, abbiamo bisogno di quella storia che Giuliano Procacci e Mario Carretero hanno chiamato, con singolare sintonia, "produttrice di carte di identità".

Eppure, se noi europei accettiamo il Nobel per la pace (o - a seconda dei punti di vista - se lo vogliamo meritare), la scelta dovrebbe essere quella di ammainare la bandiera identitaria. Disarmare la storia, per restituirla al suo ruolo conoscitivo. E, conseguentemente, abbattere i recinti, con i quali l'Ottocento aveva preteso di ingabbiare i patrimoni, facendo a pezzi un territorio continuo, libero e indomabile, quale quello della cultura umana.

3. Parole pericolose e i loro antidoti

Queste argomentazioni non sono affatto nuove, nel mondo degli studiosi e degli insegnanti. Esse hanno avuto tempo per maturare reazioni e tentativi di risposta. Alla reazione di rigetto abbiamo già accennato: "Io sono una prof reazionaria e sono fiera di esserlo" scrive Véronique Bouzou, insegnante francese autrice di un pamphlet, significativamente intitolato a Pandora, nel quale proclama che lei continuerà a insegnare Clodoveo e Carlo Martello, per quanto la sua classe sia piena di immigrati maghrebini. Nascono club e associazioni dedicati alla eradicazione dei "complessi dell'Occidente", a curare il suo "masochismo" e a ridare l'orgoglio a un continente che un tempo dominava il mondo. Si coniano nuovi termini, come "l'alienismo" e si analizza "l'esterofilia", presente, come rivela una ricerca italiana di qualche anno fa, nella maggior parte dei manuali di storia per le elementari.

Il tentativo di risposta, forse più diffuso, è quello della correttezza politica, più o meno marcata. Consiste nell'attenuazione, se non nell'eliminazione, degli episodi violenti del passato; nell'esaltazione, al contrario, dei momenti di pace e di scambio; nella messa in evidenza di tutti i meticciati possibili; nella messa in rilievo delle qualità altrui alla quale fa riscontro l'autoflagellazione. Strategie discorsive che non riescono a scalfire la trama concettuale che abbiamo descritto sopra; e non toccano nemmeno l'impianto formativo identitario.

Vi è un'idea che accomuna i tentativi di risposta e le reazioni di rigetto: la storia serve per formare un'identità. Diversa da quella del passato, meno aggressiva e più disposta alla pace e al compromesso. Ma pur sempre un'identità. Mi sembra che questi tentativi, nella loro grande diversità, e proprio nella loro onestà e nel loro impegno sincero e appassionato, siano la prova più convincente della nostra difficoltà di agire in profondità.

E' possibile spiegarne i motivi? Azzardo qualche ipotesi.

La prima è che il poderoso lavoro di "autocivilizzazione", realizzatosi in Europa, ha prodotto un lessico che si presenta con le vesti della neutralità, ma che in realtà predispone ad un discorso identitario. Fanno parte di questo vocabolario di "parole pericolose", termini quali "radici, origini, identità, popolo, cultura, tradizione, memoria e memoria collettiva, eredità e, finalmente, patrimonio". Su questi, a partire dalla critica – indimenticabile quanto trascurata – del termine "origini", da parte di Marc Bloch, molti storici e studiosi di scienze sociali si sono espressi. Nella maggior parte dei casi si tratta di metafore, usate a lungo dagli studiosi, che – nel loro trasferimento nel linguaggio comune subiscono un processo di essenzializzazione. E' questa, forse la categoria cardine, sulla quale occorrerebbe lavorare. Messa a punto dalle scienze cognitive (Susan Gelman, sociologa della conoscenza); dall'antropologia (Jean-Loup Amselle) e finalmente dalla storia (Walter Paul), questa categoria ci insegna che una volta che questi concetti si essenzializzano, diventano concreti e reali. Una cultura, dunque, diventa una sorta di enorme sfera, all'interno della quale noi viviamo; le radici prendono consistenza effettiva: sono là, occorre difenderle dai parassiti, annaffiarle. Chi è così stupido da tagliare le proprie radici? E il patrimonio, infine, diventa il lascito concreto, l'eredità tramandataci dai nostri avi. Un tesoro da difendere, dunque. Gli esempi possono continuare, e sono tutti noti. Ma tutti concorrono ad avvertirci che le trappole del linguaggio possono scattare in ogni momento e in ogni luogo: anche nel laboratorio asettico del ricercatore; anche dalla cattedra di un insegnante impegnato anima e corpo nei progetti interculturali.

La seconda è nella ondata culturalistica e della post-modernità, che ha caratterizzato molta parte della cultura mondiale degli ultimi decenni. Secondo questa visione, non esistono più narrazioni complessive. Abbiamo solo narrazioni locali e, dal momento che viviamo in nazioni democratiche, ognuno ha diritto alla propria narrazione e, conseguentemente, al proprio patrimonio. Sono state ben studiate alcune reazioni a questa impostazione: soprattutto l'autentica battaglia per il curricolo, scatenatasi negli Stati Uniti, a partire dal 1995. Qui mi permetto di ricordare la vicenda italiana. Nel 2006, durante il secondo governo Prodi (centrosinistra) venne convocato l'Osservatorio Interculturale, una struttura ministeriale della quale facevano parte rappresentanti delle diverse comunità etniche, presenti in Italia, studiosi di pedagogia e di didattiche disciplinari. Argomento di quelle riunioni erano proprio le materie di studio, e le loro trasformazioni in presenza di classi multietniche. Forse è utile riproporre qui le conclusioni di quella Commissione. La Repubblica, vi si disse, ha il dovere di dotare i propri cittadini degli strumenti culturali più efficaci: e compito della ricerca è quello di individuarli. Ora, se la storia è uno strumento per leggere e capire il mondo, questa va data a tutti, senza distinzione di cultura, di religione e di provenienza. In linea con quelle conclusioni furono i nuovi programmi di storia per la scuola di base (sia quelli del 2007, sia quelli del 2012) nei quali si individua una trama narrativa (ominazione, neolitizzazione, industrializzazione, globalizzazione) caratteristica della vicenda umana nel suo complesso e, come tale, contenuto di studio obbligatorio per tutti i cittadini italiani. Questa trama, rigorosa ma essenziale, lascia d'altra parte, molto tempo libero ai docenti per adattare il loro programma alle concrete situazioni di classe.

A questa vicenda è collegabile il terzo ostacolo al rinnovamento. E' la paura che, distruggendo un ordine precedente e lungamente ricercato, ci si inoltri in un territorio didattico futile, privo di certezze e di luoghi forti della memoria. Una paura, occorre riconoscerlo, che trova solide motivazioni in un avventurismo didattico che spesso caratterizza i tentativi di innovazione. A mio modo di vedere, questa paura si vince sul terreno dei contenuti di studio, e non della metodologia (come continuano a sostenere molti pedagogisti). Ad esempio: per restare al caso europeo. Che cosa vuol dire, concretamente, rifiutare la trama eurocentrica, alla quale abbiamo fatto riferimento sopra? Certamente non basta anteporre al programma un proemio di competenze di cittadinanza europea, aperta e tollerante. Occorre "alzare lo sguardo" e raccontare qualcosa di diverso. Proviamo a osservare il mondo mediterraneo insieme con le terre circostanti. Il cosiddetto barbaricum (sia le regioni europee centrali e settentrionali, sia le regioni dell'africa settentrionale) acquisterà consistenza e cesserà di essere il territorio di provenienza di invasori inopportuni. Esso è, come mostra bene tutta la ricerca della cosiddetta "Scuola di Vienna", un territorio di civilizzazione in forte interazione con i centri che campeggiano nella storia alla quale siamo abituati. Proviamo a innalzare il nostro sguardo, sopra quella esigua striscia di terra, che continuiamo a chiamare "Europa medievale". Vedremo l'immenso mondo degli slavi, il grande assente dalla nostra narrazione (una vera ironia, per genti che costituiscono la maggioranza della popolazione europea); vedremo il maestoso impero cazaro, che in tema di patrimonio, potrebbe costituire l'esempio europeo di una multiforme e tollerante compagine; vedremo gli assenti della penisola balcanica, e in particolare, l'impero bizantino e quello turco. Vedremo come il Mediterraneo, con le sue genti e le sue religioni, non scompare affatto dall'orizzonte medievale.

Queste assenze macroscopiche ci avvertono di quanto il nostro sguardo sul passato europeo sia incompleto. Forse non siamo ancora in grado di definire "un patrimonio europeo". Ma sicuramente la condizione per non raggiungere questo obiettivo, o di raggiungerlo in un modo sbagliato, è quella dell'ignoranza.

Il quarto ostacolo è interamente nel dominio della formazione patrimoniale e ci obbliga a riprendere il tema dell'identità. Per quali motivi, si dice, è importante occuparsi della protezione e della salvaguardia del patrimonio? Le risposte sono note: sentirsene proprietari, sapere che nel patrimonio sono conservate e custodite le nostre radici; che il patrimonio è il luogo della nostra identità; che il senso di appartenenza ad una comunità non può che provenire dalla condivisione di un patrimonio. Indubbiamente sono argomenti forti, il cui abbandono può generare un senso di disorientamento, in chi sostiene sinceramente la causa della salvaguardia del patrimonio. L'abbandono di questi argomenti pone un complesso di problemi, intrecciati fra di loro. In primo luogo, la ricerca di nuove strategie discorsive, capaci di aggregare i cittadini intorno a questi temi.

In secondo luogo, la ricerca di motivazioni reali e solide: e queste si trovano interamente nella storia. Questa, infatti, non è solo decostruzione di miti e di tradizioni inventate; ma è anche svelamento di processi reali e profondi. La storia ci spiega come la scoperta del passato, fatta collettivamente nell'Ottocento, abbia allargato l'orizzonte di vita degli uomini. Questi hanno progressivamente imparato che il loro spazio è costituito da un universo, con una dimensione spaziale e temporale pressoché infinita. Hanno imparato che il loro spazio culturale era, anch'esso, infinitamente più vasto di quello riservato loro dalla piccola comunità nella quale erano vissuti fino ad allora. Certamente: posti di fronte a queste nuove frontiere, gli Stati hanno provveduto con i loro recinti di sicurezza. Oggi, nel XXI secolo, ci possiamo chiedere se ne abbiamo ancora bisogno. Ci possiamo chiedere se non abbiamo finalmente il diritto di percorrerli liberamente. E se questo non faccia parte dei nostri diritti di cittadinanza.

Ora, se la fruizione di questo patrimonio appartiene agli umani, è ovvio sostenere che il patrimonio non può che essere di tutti. Sempre, e non soltanto quando viene dichiarato tale da una Commissione internazionali, un bene patrimoniale è "patrimonio dell'umanità". Questa prospettiva (o se volete, questa scoperta) ci carica di una responsabilità immensa. Noi non siamo i "proprietari" di un dato elemento patrimoniale. Tant'è vero che non lo possiamo distruggere a nostro piacimento. Ne siamo i custodi, per noi stessi, per gli altri e per le generazioni future. Ne siamo responsabili di fronte all'istanza etica più alta che riusciamo a immaginare. L'umanità.

Chi distrugge il patrimonio è un barbaro (nell'accezione negativa del termine), perché non accetta o non conosce, o non sa praticare il territorio di vita della società moderna, caratterizzato, come abbiamo visto, dalle sue infinite dimensioni spazio/temporali/culturali. Alla formazione di una nuova società civile deve continuare a provvedere (come in passato) l'istituzione scolastica. E a questo serve, finalmente, l'apprendimento della storia. Il patrimonio europeo, dunque, non è il luogo dove inalberare il vessillo dell'europeaneità, distinto e diverso da quello islamico, induista o confuciano. Questo patrimonio, al contrario, ci spinge a varcare le frontiere e a insegnare agli uomini e le donne la pratica degli spazi senza confini. A pensare che la pace, se resta proprietà di una parte della terra, non ne diventa il patrimonio.

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