curricolo di storia

  • Cinque stereotipi sull’immigrazione

    Con una rapida storia delle migrazioni

    Autori: Antonio Brusa  e Cesare Grazioli

    Gli stereotipi sull’immigrazione che tutti abbiamo in mente sono quegli etnici e quegli sugli stranieri. Ne conosciamo tanti, ripetuti a scuola e fuori. Non mancano gli studi sulla loro diffusione, sui modi con cui si annidano ovunque, anche in notizie di cronaca apparentemente neutrali, e sulla maniera migliore per metterli in discussione. Molti insegnanti sensibili posseggono, nel loro bagaglio professionale, un buon numero di strategie pedagogiche, più o meno efficaci. In questo scritto ci chiediamo in che modo la loro efficacia possa essere accresciuta.

    Oltre a questi “stereotipi del quotidiano”, a nostro avviso occorre tenere conto anche di stereotipi di un altro genere, che altrove abbiamo definito “colti”. Si tratta di strutture cognitive meno vistose e apparentemente inoffensive, perché sembrano logiche, perfettamente credibili, a volte hanno un aspetto scientifico, sembrano molto vicine alle scienze demografiche (le discipline che si occupano del popolamento della terra), ma hanno anche qualche sembianza sociologica, di economia e politica internazionale ecc.

    Con tali costrutti cognitivi, le strategie tipiche dell’intercultura non funzionano tanto bene. Per metterli in discussione, servono i ragionamenti freddi delle scienze sociali, in particolare della demografia: dati, modelli, fonti. Abbiamo raccolto e presentato i più importanti e diffusi, e costruito soluzioni didattiche per affrontarli in classe, in un contributo che apparirà prossimamente su Novecento.org (nel dossier sul Mediterraneo, frutto del lavoro della Summer School dell’Insmli, di Venezia 2014). Qui li richiamiamo brevemente. Poi ci soffermeremo sul primo, perché – più degli altri – coinvolge il ragionamento storico e investe l’intero curricolo di storia.

     

    Indice
    Parte prima:  I cinque stereotipi di base
    Parte seconda:  L’emigrazione nel curricolo di storia

     

    PARTE PRIMA

    I cinque stereotipi di base

    1.    “Le migrazioni sono un fenomeno anomalo, la regola è che ognuno sta a casa propria”
    2.    “Per evitare l’immigrazione occorre favorire lo sviluppo dei paesi poveri”
    3.    “Qui in Italia si fanno pochi figli, mentre gli immigrati vengono da paesi dove ne fanno tanti, in poche generazioni saremo tutti neri,  musulmani ecc.”
    4.    “L’immigrazione toglie il lavoro agli autoctoni”
    5.    “Siamo già in troppi: non c’è spazio per accogliere altra immigrazione, anzi, sarebbe meglio che la popolazione calasse”

     

    Il modello “ingenuo” dell’emigrazione

    In questo modello mettiamo in evidenza i legami fra gli stereotipi 2-4 (perdonerete se non vengono usati  i meravigliosi programmi per disegnare mappe concettuali).  Il modello qui sotto illustrato contiene sia la diagnosi, sia la soluzione del fenomeno migratorio. Spiega che questo nasce da un disagio in una regione del mondo e crea disagio in un’altra parte del mondo. Ci suggerisce che, per evitare una tale “diffusione del disagio”, occorre intervenire nella regione di partenza. Tutto si connette logicamente. Ogni parte dello schema ci appare confermata dall’osservazione quotidiana. Questo modello  sembra condensare  in modo coerente il sapere diffuso sul fenomeno migratorio, e fonda le discussioni pubbliche che attorno a questo si fanno.


     

    I dati di fatto sui quali costruire un modello corretto

    Come combattere questo modello? Poiché si tratta di una struttura cognitiva, è inutile, o dannoso affrontarlo solo in chiave di “attualità”, o solo di “diritti umani” e “diritti di cittadinanza”. Occorre adottare un punto di vista congruo per capire il fenomeno. Visto che si tratta (prevalentemente) di una questione di popolamento, la disciplina che ci aiuta maggiormente è la demografia storica. Infatti, elementi fattuali che questa ci fornisce sono sorprendenti per il senso comune. Li si può riassumere in questi punti:


    a.    Non è vero che la migrazione è causata sempre da crisi economiche o politiche. Certamente, se c’è una guerra in corso, la gente scappa. Ma nella grande maggioranza dei casi, la migrazione si innesca quando la società di partenza inizia a crescere, demograficamente ma soprattutto economicamente (spesso le due variabili sono interconnesse). Un esempio dai nostri manuali: la grande migrazione europea è strettamente connessa con le fasi iniziali del decollo industriale; quella italiana, in particolare, con la seconda industrializzazione.

    b.    Il paradosso, dunque, è che la promozione dello sviluppo economico nelle regioni più povere avrebbe come effetto possibile quello di innescare (o incrementare) il flusso emigratorio. Se non si innesca una crescita, l’abitante di una regione povera “si adatta” al regime di povertà, che tende a vedere come “eterno”, o non ha le risorse per emigrare, o perfino per pensarlo possibile.

    c.    Infatti, non è tanto il “bisogno” ciò che motiva a partire, quanto il “desiderio” di migliorare la propria situazione, di raggiungere un livello di benessere. Spesso, a partire, sono persone motivate, attive, intraprendenti, non i “disperati”, adattati alla povertà originaria.

    d.    Il migrante si “adatta” alle situazioni di arrivo. Ne adotta, per esempio, il regime demografico, a partire dalla seconda generazione (e, già appena giunto, dimezza la sua fertilità rispetto alla regione originaria).

    e.    Una volta giunto a destinazione, il migrante raramente contende al locale i posti di lavoro “pregiati”. Il più delle volte occupa quelli che i locali tendono comunque a tralasciare.

    f.    Le situazioni di arrivo, dal canto loro, sono diverse, secondo gli spazi e secondo i tempi. La situazione di quello che definiamo “l’Occidente ” (Europa e Usa), ad esempio, è caratterizzata da un regime demografico che conduce ad un invecchiamento progressivo della popolazione.

     

    Un modello adeguato del fenomeno migratorio

    Connettendo questi elementi,  si ottiene un modello alquanto diverso da quello che abbiamo visto sopra.
     

    Questo modello ci impone di spostare lo sguardo dalla regione di partenza verso quella di arrivo. E’ questa che è in crisi. Per quanto ci riguarda, basti un dato: fra una quindicina di anni la metà della popolazione italiana sarà oltre i 50 anni. Significa che – anche ipotizzando la piena occupazione delle fasce di età idonee al lavoro –diventeranno definitivamente impossibili cose che oggi sembrano a rischio (o, come molti giustamente temono, fortemente a rischio). Da una parte, con una popolazione lavorativa così avanti negli anni, sarà impossibile mantenersi competitivi con le altre economie; dall’altra, non sarà nemmeno pensabile una battaglia per salvare qualcosa del finanziamento del welfare attuale, dalla salute alle pensioni. Se tutto ciò accadràfra quindici anni,  è perché abbiamo già postole basi di una situazione irrecuperabile, con una politica dissennata di contenimento della migrazione, attuata negli ultimi due decenni. Infatti, se anche ci si desse da fare per riavviare i tassi di natalità, non si farebbe che peggiorare la situazione futura, con una marea di quindicenni non ancora in età lavorativa. Il modello ci dice che OGGI abbiamo bisogno di un incremento demografico: e questo anche in presenza dei nostri alti tassi di disoccupazione.

    In conclusione, il modello “ingenuo” allontana la nostra attenzione dal vero problema, che viene, invece, individuato dal modello demografico. Se dunque “gli immigrati sono necessari”, la questione da affrontare, diventa quella  della convivenza fra genti di cultura diversa. Ciò che dovrebbe preoccuparci è l’alternativa fra la scelta di favorire la convivenza, lasciandoci sperare in un recupero del nostro deficit demografico;  o di ostacolarla, restringendo la  possibilità di attuali e futuri benefici.Subito dopo, dovremmo seriamente pensare all’elaborazione (certo difficile e delicata) di una strategia politica efficiente per realizzarla.

     

    PARTE SECONDA

     

    L’emigrazione nel curricolo di storia

    Gli stereotipi che abbiamo preso in considerazione (2-4), vanno a suffragare il primo stereotipo, secondo il quale“l’emigrazione è un fatto anomalo”.  Per smontarlo, non basta la critica del modello migratorio diffuso. Dobbiamo mettere la situazione attuale in prospettiva storica. L’urgenza del presente ci spinge a credere che viviamo un momento eccezionale, nel quale popolazioni tranquille sono assediate da gente che viene da ogni parte del mondo. La storia ci permette di confrontare passato e presente e di verificare questa nostra sensazione. Dal punto di vista della programmazione, ciò significa che sarà piuttosto dispendioso affrontare questo stereotipo nel momento dell’emergenza. La strategia più idonea, invece, potrebbe essere quella di preparare “a freddo”, magari in periodi lontani nel tempo, gli argomenti che potremo richiamare al momento buono.
    Non propongo una “storia dell’emigrazione” da svolgere in classe. Voglio mostrare, invece, come la migrazione faccia parte di argomenti e problemi che già svolgiamo. E’ un elemento già presente, che però non vediamo e non valorizziamo. E’ un punto di vista che possiamo attivare, a partire dal quale si possono raccontare fatti e problemi che fanno parte del curricolo ordinario. Ne elenco quelli che mi sembrano più importanti, periodo per periodo, in modo che l’insegnante, possa scegliere quelli che ritiene più utili.

     

    Preistoria. La fondazione

      La diffusione dell’uomosul pianeta è parte integrante del processo di ominazione



    Lo studio della preistoria mostra come la migrazione sia parte costitutiva del popolamento del pianeta Terra e, conseguentemente, del processo stesso di ominazione.  Erectus, Antecessor, Neandertal, Denisova (ecc.) sono tipi umani che si formano fuori dell’Africa e, come sembra, si ricombinano fra di loro. Lo stesso Sapiens, nella sua occupazione totale delle terre abitabili, produce quella enorme differenziazione, non solo culturale, ma anche fisica, che caratterizza la specie umana attuale.

    Il neolitico è un processo che ha inizio in alcuni focolai determinati (dalla Mezzaluna Fertile, alle pianure cinesi, agli ambienti dell’Asia meridionale, all’Africa occidentale, all’America centro-meridionale) dai quali, attraverso migrazioni molecolari, ma anche organizzate, si espande in quasi tutto il pianeta. Fra queste migrazioni, vanno segnalate quella europea (che chiameremo per brevità degli Indoeuropei); quella dei Bantu e quella, spettacolare, nell’Oceano Pacifico.

    Potremmo segnalare, all’interno di questo schema generale, la situazione italiana che, alla luce delle recenti ricerche genetiche, mostra una varietà il cui spettro è comparabile a quello della varietà genetica di tutta l’Europa. Noi italiani, sembra, non ci siamo fatti mancare nessuna delle migrazioni che – da un milione di anni a questa parte – hanno interessato la regione euro-mediterranea.


    Una precisazione sui nomadi
     
    Il significato diffuso della parola “nomade” genera un equivoco: quello di confondere il nomade con il migrante. Perciò, si legge spesso che “prima della scoperta dell’agricoltura gli uomini erano nomadi”. In realtà, dovremmo dire “erano itineranti”. Un cacciatore/raccoglitore occupa un territorio solitamente in modo itinerante, spostandosi al suo interno per reperire il cibo. “Nomade” lo diventerà se fa il pastore (questo è il significato corretto della parola”). Ma, poiché la domesticazione dei vegetali venne prima di quella degli animali, prima ebbe la possibilità di diventare sedentario, e poi quella di praticare il nomadismo. Entrambi, dunque, saranno stanziali se occupano, nei modi che sono loro propri una determinata regione; oppure migranti, se da quella si spostano verso altri territori.


    La storia antica occidentale. La struttura demografica del Mediterraneo

    Il processo di colonizzazione, con il quale si suole iniziare la trattazione della storia antica occidentale,è di per se stesso un fatto migratorio. Quote di popolazione, che per il periodo dovettero essere consistenti, si spostarono da Est verso Ovest. L’urbanizzazione del Mediterraneo è figlia legittima di questo processo.

      La migrazioneè strettamente collegata alprocesso di urbanizzazione del mediterraneo

    L’Impero romano conosce due tipi fondamentali di migrazione. Quella interna, promossa spesso dall’impero, vede lo spostamento di masse di cittadini romani (e man mano di altre città) per la fondazione di colonie, spesso in terre lontanissime. In certe occasioni, l’impero costringeintere popolazioni ad una migrazione forzata (dalla Mauritania verso i Balcani; dalla Gallia del Nord al mar Nero). L’esercito, infine, è una istituzione che produce migrazione e, il più delle volte, la stabilizza  nelle terre lungo i confini, o in terre interne, requisite appositamente per sistemare i legionari congedati.

    Il secondo tipo di migrazione è quella che proviene dall’esterno. Si articola in tre categorie. La prima è quella dei barbari, che entrano  quotidianamente nell’impero. Il limes non è una barriera impermeabile:  è attraversato dafamiglie che chiedono di lavorare la terra, o da giovani che si arruolano nell’esercito. Si tratta di apporti demografici decisivi, soprattutto a partire dal III secolo, quando l’impero comincia a sentire gli effetti deprimenti dell’oligantropia, la penuria di uomini. Per integrare questi nuovi venuti, l’impero modifica progressivamente il diritto di cittadinanza.

    In una seconda categoria metteremo le invasioni barbariche, spostamenti in massa di persone, realizzate a volte con la violenza, a volte a seguito di accordi. In una terza, quella schiavile.  Questo flusso migratorio è impressionante, selo mettiamo a confronto con i numeri delle invasioni barbariche. Si pensi che la somma degli individui che dettero vita alle invasioni barbarichenon supera di molto il milione:e questo è più o meno il bottino della sola conquista della Gallia o della Dacia.

    Se è vero, come si dice in tutti i manuali, che le popolazioni successive sono il frutto del connubio fra latini e germani, questo dovrebbe essere ancora più valido con le masse anonime e imponenti di schiavi, immessi nel Mediterraneo durante i secoli imperiali (e come vedremo anche in seguito).

     

    Il Medioevo. Le basi demografiche europee


    Contrariamente ad un’immagine diffusa, il Medioevo  dell’Europa occidentale è un periodo di grande mobilità. Una popolazione ridotta (rispetto a quella imperiale); una distesa sconfinata di terra, che si va rapidamente ricoprendo di foreste e di incolto; la mancanza di un’autorità “sovra regionale”, che abbia un qualche potere di controllare i flussi: questi tre fattori disegnano un quadro nel quale la gente vede nella mobilità spaziale una soluzione ai problemi di approvvigionamento (per esempio durante le ricorrenti crisi di sussistenza).

    Dal canto suo, la riva sud del Mediterraneo è interessata dall’arrivo di popolazioni arabe (non eccessivamente numerose, per la verità), mentre ben più rilevante è lo spostamento di popolazioni dall’interno verso la costa e le sue città: quelli che gli arabi presero a chiamare, con l’antico termine spregiativo, “berberi”.L’Europa centrale e orientale sono il teatro dell’espansione slava (paragonabile per velocità e estensione a quella araba) e dell’apporto costante di popolazioni nomadiche dal cuore dell’Asia.

    Si intensifica la migrazione coatta degli schiavi. Due le regioni di partenza. Da sud, dalle terre oltre il Sahara, l’Africa nera fornisce il Mediterraneo di milioni di lavoratori. La loro tragica storia è assente dai nostri libri, per quanto sia ricca di episodi sconvolgenti. Da nord, dalla regione centro-settentrionale europea, non cessano di partire colonne di schiavi, spostate da mercanti franchi, ebrei, veneziani e, verso la fine del primo millennio, scandinavi. Per avere un’idea del loro numero, si pensi che un terzo della Spagna musulmana era popolato dai Saqaliba, gli schiavi “slavi” (e si veda, naturalmente, l’etimologia della parola “schiavo”). Si tratta di un processo di produzione di ricchezza enorme. Ha molto a che vedere con il successo di alcune città, come Venezia; e conquell’accumulo di ricchezza nel centro Europa, che permette la nascita di regni, quali l’Ungheria, la Polonia, la Croazia, il principato di Kiev ecc.

    A cavallo del millennio, con la ripresa demografica, assistiamo a tre diffusi e massicci fenomeni migratori. Quello dalla campagna verso la città, che porta la popolazione urbana a crescere, fino a creare le prime grandi metropoli europee (Milano, Parigi, Firenze, Napoli). Quello delle migrazioni per dissodare nuove terre, sia all’interno europeo, disboscando pianure e crinali collinari e montuosi; sia verso l’est europeo, con la progressiva germanizzazione di quelle regioni fino al Baltico. Il terzo fenomeno migratorio è quello dei pellegrinaggi armati (fra i quali le crociate), che vedevano ingenti quantità di individui spostarsi periodicamente, e non di radoinsediarsi in nuove terre.


    L’età moderna. Le migrazioni diventano mondiali,  e preparano gli esodi di massa dell’Ottocento


    L’era della Rivoluzione geografica conosce spostamenti di popolazione su distanze, e talora di proporzioni, sconosciute fino ad allora. Quattro sono i grandi focolai migratori: l’Europa, la Cina, l’India e l’Africa nera. Nello spazio di quattro secoli (dal XVI al XIX) queste migrazioni cambiano il volto demografico del mondo.

    Le regioni dell’Asia sudorientale costituiscono la meta dei cinesi, che a partire dall’Ottocento cominceranno a dirigersi anche verso l’America. Le coste dell’Oceano indiano sono il punto di approdo degli indiani. L’America è il destino di un’emigrazione, parzialmente libera e parzialmente coatta, di provenienza europea (sulla quale torneremo fra poco); oltre ad essere il destino della migrazione coatta della tratta atlantica. Quest’ultima non manca mai nella nostra manualistica. Non dovrebbero mancare, però,  altre due tratte: quella africana (interna al continente e causata dalla vendita di schiavi fra tribù e popoli locali), e quella musulmana, che continua sulla scorta del periodo precedente, prelevando milioni di persone dall’Africa. Per avere un’idea della vastità del fenomeno, richiamiamo i dati prodotti da Olivier Petré-Grenouilleau (nel suo La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale,  Il Mulino 2010): la tratta atlantica trasferisce dodici milioni di individui; quella interna africana quattordici; quella musulmana diciannove.

      La tratta dei neri non riguarda solo l’America, ma lo stesso continente africano e, attraverso i mercanti musulmani, anche il Mediterraneo e l’Oriente 

     

    L’Europa dà un’impronta particolare a questo processo attraverso fenomeni migratori  sia interni sia verso l’esterno. Quelli interni sono di due tipi. Uno è legato alle infinite guerre che a partire dal XVI secolo insanguinano il subcontinente: guerre di religione, in primo luogo; e poi guerre di sterminio (come fu in alcuni casi la Guerra dei Trent’anni), che provocarono grandi spostamenti di popolazione, talora fino a sconvolgere  l’assetto demografico di intere regioni. Il secondo è associato alla rivoluzione agraria. L’incremento spettacolare di produttività che questa produsse ebbe come effetto diretto l’espulsione di masse contadine che restavano disoccupate e si riversavano nelle città, fornendo quella manodopera a basso prezzo che fu uno dei fattori che permise la Rivoluzione industriale.

    Verso l’esterno, prendono avvio dall’Europa la prima colonizzazione, tra il XVI e il XVIII secolo, nelle Americhe e in Australia;  poi la seconda, nel XIX, che porta a sottomettere Asia e Africa.  Collegata alla prima di esse, vi è la grande migrazione europea oltreoceano.  Va sottolineato che tra il XVI e la fine del XVIII, il numero di emigranti europei verso le Americhe fu relativamente modesto (circa 7 milioni, molto meno degli schiavi deportati dall’Africa ), ma con un eccezionale “effetto fondatore” (come lo definisce il demografo Livi Bacci), ovvero un rapidissimo incremento demografico dei coloni, soprattutto nel Nord America, per le favorevoli condizioni che qui essi trovano. Quei pochi migranti, e i loro numerosi discendenti, creano le condizioni per la migrazione di massa dell’Ottocento, forse il più massiccio spostamento di uomini della storia, che europeizzain gran parte le Americhe, e per intero l’Oceania.

    Caratteristiche molto diverse hanno le conquiste coloniali europee in Africa e in Asia nell’Ottocento. In pochi casi si creano delle colonie di popolamento: in Algeria, dove affluisce circa un milione e mezzo di francesi (d’altra parte questo è uno dei sogni dei conquistatori italiani, soprattutto nel caso della Libia); e in Sudafrica, prima da parte dei boeri olandesi, poi degli inglesi. Negli altri casi, molto più numerosi, l’esigenza dello sfruttamento di territori immensi esige lo spostamento di personale specializzato, militare e civile:  molto più numeroso in India, molto meno nell’Africa subsahariana, ove (anche per le proibitive condizioni climatiche) si costruiscono “colonie senza coloni”.  Col passare del tempo, infine, si creano flussi di spostamento inverso, dalle colonie verso la terra dei dominatori, o da una colonia all’altra all’interno degli  imperi coloniali.

    Al massimo momento della sua espansione, l’impero inglese dominava su un quarto delle terre emerse.

    In questa immagine, esposta all’Imperial War Museum, si rappresentano con orgoglio i “difensori dell’impero”, appartenenti a ogni tipo e cultura umani

     

    Il Novecento, il secolo delle migrazioni

    E’ stato chiamato in molti modi (il secolo delle donne, delle bombe, della violenza ecc.), ma è anche il secolo delle migrazioni, tanto che questo fenomeno lo periodizza in tre momenti fondamentali.

    •    La prima globalizzazione (1880-1913):  la migrazione europea verso il mondo (da Est a Ovest).
    •    La “seconda guerra dei Trent’anni” (1914-1945):  il blocco migratorio
    •    I “Trenta Gloriosi” (1946-1975):  la migrazione verso Nord

    L’andamento mondiale della migrazione è una palese smentita degli stereotipi visti sopra. Lo sviluppo mette in moto le società non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista demografico e della migrazione. Si osservi come, durante il secondo periodo, concorra a bloccare il fenomeno migratorio non solo la legislazione restrittiva delle nazioni di partenza (tra le quali l’Italia) e di arrivo (come gli USA), ma anche la stagnazione conseguente alla crisi del ’29. D’altra parte, così come l’imponenza del fenomeno migratorio del primo periodo è legato alla seconda rivoluzione industriale, quello delterzo periodo è in  correlazione con l’impetuoso sviluppo economico europeo (con il cosiddetto “miracolo italiano”, per quanto riguarda il nostro paese).

     

    Conclusioni

    Le grandi migrazioni odierne convergono verso tre punti principali: l’America Settentrionale, gli stati petroliferi e l’Europa

     

    Siamo così tornati al nostro punto di partenza, ma con la capacità di guardare il presente con uno sguardo nuovo. Scopriamo infattiche i medesimi fenomeni che ci angosciano hanno interessato altri tempi, con un impatto che, se ci mettiamo dal punto di vista di coloro che li vissero, dovette sembrare anche allora sconvolgente, e certamente lo fu. Noi siamo esattamente il “dopo” di quegli sconvolgimenti.

    Non siamo delle eccezioni. Il popolamento umano funziona con due leve: quella dello spostamento e quella della residenza. Chi parte e chi resta. Non sono ruoli fissi, che un gruppo umano assume per sempre. Nella storia si sono scambiati in modo imprevedibile. Chi avrebbe mai pensato, al tempo dell’Impero romano, che quelle regioni, un tempo meta di immigrazione secolare – “eterna” sembrò loro – avrebbero dato vita a una spettacolare inversione? E chi avrebbe mai pensato, al tempo della grande emigrazione italiana, che avremmo avuto a che fare con un’immigrazione preoccupante? E che, dati alla mano ancora più preoccupanti (negli ultimi anni oltre 700 mila italiani sono emigrati), una nuova inversione sembra alle porte?

    Non è detto, lo abbiamo visto nel modello, che chi parte sia “quello che soffre di più”. Anche questo la storia ce lo mostra con chiarezza. Ci mostra ancora (perché in fondo il manuale parla solo di quello) che anche “chi resta” non scherza, quanto a sofferenza. I problemi sono diversi, ma ci sono per entrambi. Forse  una buona conclusione è che conviene affrontarli insieme. Oggi, perlomeno, ci è data la possibilità di esserne consapevoli.

    La prospettiva storica, al tempo stesso, ci permette di capire la specificità del presente. La valutiamo confrontando la situazione attuale con quelle precedenti, e prendendo nota delle differenze. Quella che balza agli occhi è costituita, come abbiamo visto, dalla situazione demografica dei paesi di accoglienza. E’ così grave, da ribaltare il punto di vista abituale, obbligandoci a spostare lo sguardo sull’Europa, e in particolare sull’Italia. In questo, credo, sta la forza dirompente dell’osservazione scientifica, nei confronti della scontatezza abituale del ragionamento stereotipato.

     

    Bibliografia

    -    Massimo Livi Bacci, Storia minima della popolazione del Mondo, Il Mulino, 2011
    -    Id., In cammino. Breve storia delle migrazioni, Il Mulino, 2014
    -    Cesare Grazioli, I numeri che fanno la storia, www.novecento.org (in corso di pubblicazione)

  • Governo nuovo, programma di storia nuovo? Ragioniamo, intanto, su quello vecchio.

    di Antonio Brusa

    ProgrammiValditara Sono passati dieci anni dall’uscita delle Indicazioni nazionali per la scuola di base. Lo ricordano su FB Regi Palermo e Giorgio Cavadi. Scrivono con ragione che sono dei buoni programmi. Come loro, tutti speriamo che si conservino, anche in futuro, i loro aspetti positivi. È prevedibile, infatti, che il nuovo governo si dia da fare per cambiarli. Secondo la legge Moratti, i programmi vanno considerati sperimentali e andrebbero soggetti a revisione ogni tre anni.

    Come giustamente ricordano Regi e Giorgio, le Indicazioni nazionali del 2012  non sono altro che la continuazione di quelle del 2007. Lo posso confermare, perché ho fatto parte delle due Commissioni. Servirà ricordare gli aspetti fondamentali di quei testi. Nel caso dovessero cambiare, si saprà che cosa si perde o si guadagna, a seconda dei punti di vista. Eccoli in estrema sintesi:

    Storia cognitiva/storia identitaria

    Il programma Moratti, del 2004, era un programma identitario. La storia, vi si diceva, doveva forgiare l’identità giudaico cristiana nei giovani italiani. Al contrario, il programma del 2007 scriveva che lo scopo del programma di storia è cognitivo: gli allievi studiano la storia per imparare a ragionare storicamente.

    Storia/memoria

    All’indomani della proclamazione della Giornata della Memoria, il Parlamento italiano si è scatenato in una profluvie di proposte. Mentre si lavorava (nel 2007), chiesi quante fossero le giornate in predicato di essere approvate. Una cinquantina, ci risposero. Da allora ad oggi sono aumentate. Praticamente ogni giorno si commemora qualcosa e vi sono giorni con doppia commemorazione. Questo governo, dal canto suo, si è immediatamente segnalato per la sua attenzione a queste ricorrenze. Il testo del 2007 è molto chiaro ed è ripreso per cenni nel testo successivo. Vi si dice che, in questo XXI secolo, tutti i governi si stanno dando da fare per istituire giornate memoriali, ma che lo scopo dell’insegnamento storico è quello di studiare, non di commemorare. Semmai, potremmo dire, si lavora in classe per l’educazione della memoria (capire perché la politica ci tiene tanto, in che modo realizza i suoi obiettivi memoriali, qual è il rapporto fra memoria e storia ecc.) e non per l’educazione alla memoria, come scrive invariabilmente chi decide che cosa dobbiamo ricordare e invita gli allievi a “educarsi a quella memoria che gli sta a cuore”.

    Paesaggio identitario/paesaggio fonte

    Il testo di Moratti parlava continuamente di un paesaggio contenitore delle memorie identitarie italiane. Il testo del 2012 dice che il paesaggio è una fonte storica – un patrimonio storico - che, insieme alle altre, concorre alla formazione della coscienza storica.

    Coscienza storica

    Il testo del 2012 introduce il concetto di “coscienza storica”. Proviene dalla riflessione didattica tedesca, forse la più avanzata al mondo dal punto di vista teorico. La coscienza storica è il frutto della rielaborazione personale delle conoscenze storiograficamente consolidate con quelle di varia provenienza (anche sociale, memoriale ecc.), una rielaborazione che permette al soggetto di collegare passato, presente e futuro. È un concetto molto potente, che permette al docente di usare la storia presente, la storia pubblica e i portati della memoria, confrontandoli con i portati della ricerca. Coscienza storica è un termine storiografico, forse meno aleatorio di tante mete educative che, nel corso del tempo, sono state assegnate al lavoro del docente.

    Programma in continuità

    È l’aspetto del programma che ha suscitato forse più problemi, soprattutto in molti settori della primaria, che lamentano la “mancanza di storia contemporanea” nel loro settore scolare. Detto che proprio il concetto di coscienza storica, di patrimonio storico e di “laboratorio del tempo presente”, permettono di aprire finestre sugli eventi (cosa che immagino tutti abbiano fatto a proposito della guerra ucraino-russa), occorre ricordare le ragioni di questa scelta. A monte, c’è la riforma immaginata da De Mauro, che prevedeva che la storia generale si insegnasse una sola volta e bene, nei cinque anni costituiti dalla fusione della media col biennio (programma allora contestatissimo, ma poi fatto proprio dalla Sisem, l’associazione degli storici modernisti). A valle, per così dire, c’è l’infame sottrazione di ore al programma di storia (realizzata da Gelmini), che faceva sì che non si potesse chiedere a un docente di primaria, al quale avevano tolto il modulo di storia e scienze sociali (9 ore la settimana), di svolgere lo stesso programma nelle risicate due ore che gli rimanevano (quando non una, a causa di alcune “brillanti” programmazioni di educazione civica). E nemmeno era credibile che un docente di secondaria di primo grado, che perdeva quasi un terzo o un quarto (a seconda delle programmazioni) del suo monte ore, di far finta di niente e ricominciare dalla preistoria. Di necessità virtù: questo è un programma in continuità. In positivo, era quello che chiedevano allora tutti i comprensivi. La sua difficoltà è nel mettere insieme docenti di primaria e di secondaria, non nel programma (su questo posso ricordare la sperimentazione di LabSto21, che prosegue e si allarga da scuola a scuola: ma non è l’unica). In Commissione non posi questioni di principio, ma tecniche: volete un programma completo sia nelle medie, sia nelle superiori? Restituite al docente di storia le sue ore. Se no, che si spalmi il programma in cinque anni. Ovviamente, si sono ben guardati dal ridare le ore.

    Programma bloccato/programma libero

    Per Costituzione (ricordate la Bassanini del 1999?), il programma è progettato localmente. È di responsabilità del docente. Il governo può mettere solo delle regole di garanzia, giustamente direi: occorre evitare sciocchezze, esagerazioni, un insegnamento che violi la Costituzione (per la quale è libero l’insegnamento delle scienze e delle arti, non quello delle idee personali). Solo che, fatta la legge, si trova l’inganno. E stavolta era lo stesso governo l’autore dell’imbroglio. Il programma Moratti, infatti, diceva che l’insegnante è libero (fa piani personalizzati, tiene conto della realtà della classe e fa tante altre meraviglie), poi prescriveva come obbligatori una quindicina di argomenti l’anno (lo stesso trucco fu usato da Gelmini, per il programma delle superiori). Programma bloccato, libertà sparita. Per quanto riguarda il programma del 2012, si legga bene il testo. Una sola volta si usa l’imperativo, ed è quello il momento in cui si indicano i contenuti fondamentali: il processo di ominazione, la rivoluzione neolitica, le rivoluzioni del secondo millennio, la globalizzazione attuale e la storia ambientale. Questi sono i paletti del programma, all’interno dei quali l’insegnante sistema la storia umana, della quale vengono forniti solo esempi (e lo si dice: sono esempi, non prescrizioni). Quindi, il programma non è eccessivamente vincolato. Un docente di storia che dice, oggi: “non sono riuscito a finire il programma” lo può dire solo perché ha sbagliato il progetto, non perché il governo cattivo gli ha messo le catene. (E direi di approfittarne, fino a che dura).

    L’obiezione ovvia è: ma perché non scriverlo a stampatello? Chi segue le vicende scolastiche, e soprattutto quelle dei programmi di storia, ne ha amara consapevolezza. Tutti stanno a mettere becco nel programma di storia (mai qualcuno che andasse a vedere quello di matematica!). Soprattutto in Parlamento. Ricordo, nel 2008, le telefonate di Mauro Ceruti (che guidava la Commissione), anche di notte (“è passato l’onorevole x, ha detto che se non mettete questo argomento fa il casino”), e tu a cambiare e ricambiare. Per non parlare della stampa. Così ho inventato quel contenitore di “esempi”, che preveniva, come ha fatto, le obiezioni.

    Ma si deve osservare che questo è successo solo con i governi di centro sinistra. Con quelli di destra, la commissione fa un programma, e quello è. Se fosse un buon programma, non ci vedrei nulla di male. Il guaio è che quello di Moratti non lo era, e quello di Gelmini (delle superiori) non lo è.

    Il rapporto con le associazioni storiche

    Stendendo il programma del 2007, aprimmo il confronto con le associazioni storiche (mancarono gli antichisti, dei quali non riuscii a trovare un referente). Ma medievisti, modernisti e contemporaneisti ebbero le bozze del programma, fecero le loro osservazioni che vennero generalmente accolte. Questo credo abbia dato una “sostanza” al programma che qualsiasi studioso può apprezzare. Non si riuscì a fare per il programma del 2012, forse per i tempi ristretti. Ma spero vivamente che, se si deciderà di por mano a un nuovo programma, si tenga presente che gli storici sono organizzati, possono dire la loro e che esiste ormai un’associazione di Didattica della Storia che, per quanto giovanissima, sta già raccogliendo insegnanti di storia e ricercatori universitari intorno alla questione didattica e, conseguentemente, alla questione del curricolo. Un’associazione di storici e insegnanti può realizzare quello che, in passato si è potuto fare raramente (lo si fece solo in occasione della riforma De Mauro, grazie al Cidi e all’Insmli): discutere fra insegnanti “mentre” si scrive il programma e, cioè: attrezzarsi criticamente per capire e valutare le proposte ministeriali ed elaborare delle proposte proprie, didatticamente concrete e supportate dalla ricerca.

  • Il 1619 Project riscrive la storia degli Stati Uniti

    di Daniele Boschi

     

    “Historia Ludens” ha già pubblicato di recente diversi articoli sulla storia della schiavitù (dall’intervento di Antonio Brusa sui grandi tabù della tratta dei neri alla sitografia curata da Antonio Prampolini) e sugli attacchi alle statue promossi dal Black Lives Matter (il 9 luglio, il 7 ottobre e il 4 novembre del 2020). Questo articolo si propone di sviluppare ulteriormente questo filone di ricerca.

     

    Introduzione

    “Nell’agosto del 1619, una nave apparve in questo punto dell’orizzonte, vicino Point Comfort, un porto sulla costa della colonia britannica della Virginia. Trasportava più di 20 africani ridotti in schiavitù, che furono venduti ai coloni. L’America non era ancora l’America, ma questo fu il momento in cui ebbe inizio. Nessun aspetto del paese, che si sarebbe formato qui, non è stato influenzato dai 250 anni di schiavitù che seguirono quell’evento”.

    Con queste parole, impresse su una foto che riproduce l’orizzonte marino di fronte a Point Comfort, si apriva l’edizione speciale del 14 agosto 2019 del “New York Times Magazine” (d’ora in avanti NYTM), con la quale è stato lanciato il 1619 Project1. Un progetto che mira a ridefinire l’intera storia degli Stati Uniti d’America, ponendo al suo centro le vicende della schiavitù, del razzismo e dei conflitti che essi hanno provocato.

    Immagine 1 The 1619 Project wordmarkFig.1: Il logo del 1619 Project Fonte L’iniziativa del NYTM è stata accolta con entusiasmo da una parte dell’opinione pubblica americana, ma ha suscitato anche perplessità e critiche. Alcuni storici hanno avviato una accesa discussione pubblica con i responsabili del progetto. La polemica ha raggiunto la politica ai suoi più alti livelli, anche a causa dell’esplosiva situazione creata dalle proteste del Black Lives Matter nell’estate del 2020. E anche le scuole e le università sono diventate un terreno di scontro tra fautori e oppositori del progetto.

     

     

     

    Immagine 2 first africans in virginia markerFig.2: Questa targa indica il luogo dove i primi africani arrivarono in una colonia britannica del Nord America, la Virginia, nell’agosto del 1619 FonteOrigine e scopo del progetto

    L’idea di pubblicare un’edizione speciale del NYTM in occasione del quadricentenario dell’arrivo dei primi schiavi africani sulle coste della Virginia, è stata di Nikole Hannah-Jones. Giornalista di punta della rivista newyorchese e grande amante di Twitter, dove ha quasi mezzo milione di followers, Hannah-Jones ha ricevuto il pieno appoggio del caporedattore Jake Silverstein e si è avvalsa della collaborazione di una squadra di colleghi e studiosi di prestigio.

    Lo scopo del 1619 Project era quello di “ripensare la storia del paese considerando il 1619 come il suo momento fondante e ponendo le conseguenze della schiavitù e il contributo dei neri americani al centro del racconto che facciamo a noi stessi riguardo a chi siamo veramente2.”

    Come Silverstein ha poi precisato nella sua presentazione del progetto:

    “Il 1619 non è conosciuto dalla maggior parte degli americani come una data importante nella storia del nostro paese. Quelli che la conoscono sono tutt’al più una percentuale minima rispetto a coloro che possono dirvi che il 1776 è l’anno di nascita della nostra nazione. E se invece vi dicessimo che le contraddizioni che caratterizzano questo paese ebbero origine verso la fine di agosto del 1619?”

     

     L'edizione speciale del NYTM

    L’edizione speciale a stampa del NYTM del 14 agosto 2019 conteneva dieci saggi storici e un saggio fotografico. In formato più ampio si potevano leggere inoltre una storia illustrata della schiavitù e un articolo sull’insegnamento scolastico della schiavitù. Centinaia di migliaia di copie supplementari della rivista sono state stampate per essere distribuite nelle scuole, nelle biblioteche e nei musei.

    L’edizione online del 1619 Project, comprende, oltre ai testi già elencati, anche altri materiali, che vengono continuamente arricchiti, tra i quali una serie di podcast e un curriculum per le scuole, sviluppato in collaborazione con il Pulitzer Center.

    Sette dei dieci autori dei saggi principali del progetto sono di origine afroamericana. Oltre a ricostruire vari aspetti e momenti della storia della schiavitù, questi saggi tendono a mostrare come molti dei problemi che tuttora affliggono gli Stati Uniti abbiano le loro radici nelle vicende dell’oppressione degli afroamericani, nell’ideologia razzista che essa ha prodotto e nello sforzo fatto dai bianchi per perpetuare, fino a oggi, il loro dominio sui neri.

    Lungo è infatti l’elenco delle storture dell’attuale società statunitense che sono riconducibili – secondo gli autori del progetto - al conflitto razziale: dalla brutalità del capitalismo americano alle false credenze nelle differenze fisiologiche dovute alla razza; dal carattere antidemocratico di alcune convinzioni e strategie politiche alla crudeltà del sistema carcerario; dalle carenze del sistema sanitario pubblico alle perduranti differenze di reddito tra bianchi e neri; dall’eccessiva importanza dello zucchero nella dieta americana alla congestione del traffico nelle grandi città, senza dimenticare la persistente tendenza dei bianchi a ‘rubare’ la musica dei neri.

    Ma la presenza dei neri sul suolo americano non ha soltanto creato problemi. Ha anche dato un fondamentale contributo alla crescita economica del paese e soprattutto alla travagliata affermazione di un sistema politico democratico. Quest’ultimo tema è al centro del più importante e del più controverso dei dieci saggi dell’agosto 2019, quello scritto da Nikole Hannah-Jones.

     

    L'America non è stata una democrazia finché i neri americani non la hanno resa tale

    La giornalista del NYTM, in un lungo testo, che prende avvio dalle sue umili origini e dalla sua personale esperienza, ha ripercorso in modo originale e brillante quattro secoli di storia. La sua tesi principale è che gli Stati Uniti d’America non sono diventati una vera democrazia se non grazie alle battaglie dei neri.

    Gli Stati Uniti sono infatti una nazione che si fonda su un ideale e allo stesso tempo su una menzogna. L’ideale è quello consacrato nelle celebri parole della Dichiarazione d’Indipendenza del 1776: “Tutti gli uomini sono creati uguali e dotati dal loro Creatore di alcuni inalienabili diritti”. La menzogna risiede nel fatto che gli uomini bianchi, che scrissero quel testo, non pensavano che esso dovesse essere applicato alle centinaia di migliaia di neri che vivevano in mezzo a loro in condizioni di schiavitù.

    E tuttavia i neri hanno creduto ardentemente in quella promessa di libertà e di giustizia. La loro resistenza e le loro proteste hanno aiutato il paese ad essere all’altezza dell’ideale in nome del quale era stato fondato. “Senza le idealistiche, vigorose e patriottiche lotte dei neri americani, la nostra democrazia apparirebbe oggi, con ogni probabilità, molto differente – potrebbe anzi non essere affatto una democrazia”.

    Scrive ancora Hannah-Jones:

    “Quel tanto di democrazia che la nazione ha oggi, è nato sulle spalle della resistenza dei neri. I nostri padri fondatori possono non aver creduto veramente negli ideali che proclamarono, ma i neri ci hanno creduto. … Per generazioni, noi abbiamo creduto in questo paese con una devozione che esso non meritava. La gente nera ha visto il peggio dell’America, eppure, in qualche modo, noi crediamo ancora nel suo lato migliore”.

     

    Immagine 3 Slave pen of Price Birch CojpgFig.3: Prigione per schiavi della Price, Birch & Co., in Alexandria, Virginia (1865 circa). In prigioni come questa gli schiavi erano detenuti temporaneamente prima di essere venduti Fonte Gli altri saggi

    Gli altri saggi del 1619 Project affrontano la storia della schiavitù, e la sua eredità nella società statunitense dalla fine del XIX secolo fino a oggi, sotto molteplici punti di vista. Anzitutto, sotto il profilo economico, il saggio di Matthew Desmond mette in evidenza come molti aspetti della ‘brutalità’ del cosiddetto low-road capitalism statunitense abbiano avuto origine nelle piantagioni di cotone che fiorirono nel XIX secolo negli stati del sud: esse accumularono una enorme quantità di ricchezza e adottarono, per prime, tecniche di contabilità, strumenti finanziari e sistemi di controllo e di sfruttamento della manodopera, che sarebbero stati poi utilizzati in molti altri settori del sistema capitalistico.

    Modernità e brutalità connotano anche la storia delle piantagioni di canna da zucchero della Louisiana, ricostruita da Khalil Gibran Muhammad, che sottolinea che quello stato “guidò la nazione nel distruggere le vite della gente nera in nome dell’efficienza economica”. Una vicenda che tuttora non viene quasi mai raccontata nei libri di testo scolastici e nei musei storici; e viene edulcorata nelle presentazioni a beneficio dei turisti, che visitano oggi ciò che resta di quelle antiche piantagioni. La produzione di canna da zucchero continua, peraltro, ad avere un ruolo di primo piano nell’economia degli Stati Uniti, con ricadute non del tutto positive sulla salute dei suoi cittadini, che soffrono in misura crescente di diabete e di obesità.

    Un’altra pesante eredità dello schiavismo è evidente, secondo Bryan Stevenson, nel sistema penale e carcerario statunitense. La severità delle pene previste per gli schiavi che violavano le leggi si è perpetuata nei cosiddetti Black Codes del periodo successivo all’emancipazione. E si ritrova di fatto anche in molte norme e pratiche dei nostri giorni. Anche se oggi gli afroamericani hanno gli stessi diritti dei bianchi, essi vengono spesso trattati in modo molto più duro. Ragazzi dell’età di tredici anni, quasi tutti neri, vengono condannati all’ergastolo per reati diversi dall’omicidio; e la probabilità che un afroamericano venga condannato a morte, per un crimine la cui vittima è un bianco, è 22 volte più alta dell’incidenza che ha la pena di morte quando la vittima del reato è un nero.

    Anche in ambito medico e sanitario i pregiudizi e le paure dei bianchi hanno avuto pesanti ripercussioni sul trattamento riservato agli afroamericani. La scienza medica, come ha documentato Linda Villarosa, teorizzò, a partire dalla fine del XVIII secolo, l'esistenza di specifiche caratteristiche fisiologiche tipiche dei neri, come la loro presunta maggior resistenza al dolore fisico e la debolezza dei loro polmoni. Queste teorie, alcune delle quali giustificarono anche crudeli esperimenti, non sono del tutto scomparse neanche al giorno d'oggi.

    Inoltre, dopo l'abolizione della schiavitù, i programmi di assistenza sanitaria, realizzati a livello sia federale che statale, hanno indirettamente - ma spesso intenzionalmente - escluso dai propri benefici gran parte degli afroamericani. Jeneen Interlandifornisce nel suo saggio diversi esempi di queste politiche discriminatorie: dal sabotaggio dell'assistenza sanitaria offerta ai neri appena emancipati nell'età della Ricostruzione alle limitazioni dei piani varati durante il New Deal rooseveltiano, arrivando fino al rifiuto degli stati del sud di estendere il Medicaid, come richiesto dall’Affordable Care Act del 2010. Le politiche discriminatorie nei confronti dei neri aiutano a comprendere come mai gli Stati Uniti siano attualmente l'unica nazione ad alto reddito priva di un sistema di assistenza sanitaria che tuteli tutti i suoi cittadini.

    In ambito politico, la difesa ad oltranza dei privilegi delle élites bianche del sud ha portato, fin dal XIX secolo, alla elaborazione di una ideologia profondamente antidemocratica, tuttora molto diffusa nel partito repubblicano. Jamelle Bouie ne ricostruisce le origini, a partire dalla teoria della nullification, elaborata da John C. Calhoun (1782-1850), secondo la quale i singoli stati avevano il diritto di invalidare la legge federale statunitense. Il rifiuto della democrazia maggioritaria ha preso poi anche altre forme, ad esempio la manipolazione dei sistemi elettorali, e si ritrova ai nostri giorni nei presupposti ideologici del Tea party e di altre battaglie condotte dai repubblicani.

    Trymaine Lee affronta invece il tema del racial wealth gap, che tuttora separa i neri dai bianchi negli Stati Uniti. In media gli americani bianchi sono sette volte più ricchi dei neri. Questi ultimi rappresentano quasi il 13% della popolazione statunitense, ma possiedono appena il 3% della ricchezza del paese. Lee mostra come questa disuguaglianza abbia avuto origine dalle politiche e dalle pratiche messe in atto a partire dagli ultimi decenni dell’800 per ostacolare il riscatto economico degli afroamericani, con mezzi sia legali che extra-legali. Dall'abolizione della schiavitù fino alla metà del '900 qualsiasi progresso o miglioramento economico dei neri è stato visto come una minaccia per la supremazia dei bianchi. Gli afroamericani sono stati spesso privati con la violenza dei beni che avevano accumulato e sono stati esclusi dagli aiuti e dai benefici economici concessi ai meno abbienti all'epoca del New Deal.

    La segregazione dei neri è anche all’origine di un fenomeno che a prima vista non ha nulla a che fare col razzismo: si tratta degli ingorghi del traffico automobilistico nelle grandi città. Infatti, secondo Kevin M. Kruse, in molte città statunitensi i modelli di insediamento abitativo e lo sviluppo delle reti di trasporto sono stati pesantemente condizionati, dagli anni Cinquanta fino a oggi, dalla volontà dei bianchi di tenersi il più possibile lontano dai neri. In particolare, nel caso di Atlanta (Georgia), analizzato da Kruse, il potenziamento della rete stradale ha creato nuove possibilità di movimento, che hanno reso possibile la fuga dei residenti bianchi dal centro ai sobborghi della città, onde evitare la mescolanza con gli afroamericani. La congestione del traffico urbano è stata una conseguenza quasi inevitabile di questi due fattori.

    Infine, una storia in parte diversa è quella raccontata da Wesley Morris nel suo saggio dedicato alla musica popolare americana, nel quale mette in evidenza come i bianchi abbiano spesso imitato, o ‘rubato’, la musica dei neri. Lo hanno fatto per primi i protagonisti dei minstrel shows: artisti bianchi che, con la faccia dipinta di nero, scimmiottavano con intento caricaturale i canti e le danze degli afroamericani nei decenni che precedettero la guerra civile. E molti importanti filoni della musica bianca contemporanea - dal rock al soft-rock al cosiddetto blue-eyed soul - si sono ispirati alla musica afroamericana, non sempre in modo così evidente ed esplicito. Ma questa contaminazione artistica non è stata in se stessa sufficiente a promuovere l’integrazione razziale.

     

    Il primo impatto del progetto

    Il progetto del NYTM è stato accolto con favore, o addirittura con entusiasmo, da una parte considerevole dell’opinione pubblica americana. Il mondo politico si è subito diviso in modo quasi scontato tra l’area democratica, che ha appoggiato il progetto, e quella repubblicana, che lo ha osteggiato. Meno prevedibile è stata la reazione dell’accademia e dei circoli intellettuali: in questo ambito le perplessità e le critiche sono venute non solo da destra, ma anche da sinistra.

    Il 06/09/2019 il World Socialist Web Site (WSWS), emanazione della Commissione Internazionale della Quarta Internazionale, ha stroncato il progetto  bollandolo come “una falsificazione della storia per motivi politici”, che ha lo scopo di “creare una narrazione storica che mira a legittimare il tentativo del Partito Democratico di costruire una coalizione elettorale basata sulla scelta di accordare la priorità alle ‘identità’ personali – ovvero, il genere, le preferenze sessuali, l’etnicità e, soprattutto, la razza”. Secondo il WSWS, Hannah-Jones e il NYTM mirano a diffondere una ricostruzione ideologica e mistificante della storia degli Stati Uniti, basata sul falso presupposto che il razzismo sia iscritto nel DNA dei bianchi americani; d’altra parte, essi hanno ignorato completamente, nei loro scritti, sia i fattori economici che sono stati il fondamento del sistema schiavistico e hanno poi determinato il suo superamento, sia le vicende della lotta di classe, nel corso della quale gli oppressi di ogni colore hanno spesso combattuto insieme, andando al di là delle differenze razziali.

    Tra il novembre del 2019 e il gennaio del 2020 il WSWS ha pubblicato una serie di interviste a storici di prestigio, che hanno criticato vari aspetti delle tesi del 1619 Project, secondo punti di vista che solo parzialmente coincidono con quello proposto dalla rivista dell’internazionale trotzkista (lo sottolinea questo commento apparso sulla “American Historical Review”, sul quale tornerò più avanti). In seguito queste interviste, insieme ad altri testi, sono state raccolte in un libro intitolato The New York Times’ 1619 Project and the Racialist Falsification of History.

     

    Cinque storici chiedono correzioni

    Alla fine di dicembre del 2019, quattro storici già intervistati sul WSWS3, insieme ad un quinto, Sean Wilentz (della Princeton University), hanno inviato una letteraal NYTM, nella quale non soltanto hanno ribadito alcune delle critiche già espresse in precedenza, ma hanno chiesto alla rivista di ‘correggere’ alcune parti del progetto.

    I cinque storici, pur lodando lo sforzo del 1619 Project di evidenziare la centralità della schiavitù e del razzismo nella storia degli Stati Uniti, hanno accusato gli autori del progetto di aver commesso alcuni errori e distorsioni di importanti fatti storici.

    In particolare, essi hanno dichiarata priva di fondamento la tesi secondo cui i padri fondatori degli USA si ribellarono alla Gran Bretagna nella seconda metà del ‘700 per difendere l’istituto della schiavitù; hanno contestato l’affermazione secondo cui i neri americani combatterono per lo più “da soli” la loro battaglia per la libertà; hanno criticato il modo parziale e distorto in cui era stata presentata la figura di Abraham Lincoln; e hanno osservato infine che l’esistenza di un rapporto genealogico tra la schiavitù e le moderne pratiche capitalistiche è stata respinta da diversi storici in quanto priva di fondamento empirico.

    Secondo i cinque storici, gli autori del progetto hanno lasciato prevalere l’ideologia sulla comprensione dei fatti storici. Oltre a chiedere la correzione degli errori e delle distorsioni, i firmatari della lettera hanno invocato anche una maggiore trasparenza circa l’identità degli accademici che hanno collaborato al progetto.

    Vale la pena di osservare che, sebbene i cinque storici non abbiano nominato gli autori dei saggi, le loro critiche si concentravano di fatto sul testo di Nikole Hannah-Jones, al quale si riferivano implicitamente i primi tre dei quattro capi d’accusa sopra riportati, mentre il quarto riguarda il saggio di Matthew Desmond.

     

    Immagine 4 Abraham LincolnFig.4: Abraham Lincoln (1809-1865). La sua figura è stata ridiscussa nel dibattito sul 1619 Project Fonte  La risposta nel NYTM

    Jake Silverstein, caporedattore del NYTM, ha risposto alle critiche dei cinque storici sostenendo che le loro osservazioni non riguardano questioni di fatto, ma piuttosto l’interpretazione di importanti eventi e personaggi della storia americana.

    In particolare, secondo Silverstein, l’affermazione di Hannah-Jones, secondo cui i coloni americani si dichiararono indipendenti dalla Gran Bretagna per proteggere l’istituto della schiavitù, si basa sul lavoro di storici come David Waldstreicher e Alfred W. e Ruth G. Blumrosen, che hanno richiamato l’attenzione su eventi come la sentenza dell’alta corte britannica nel caso Somerset v. Stewart del 1772 e la Dunmore Proclamation del 17754.

    Per quanto riguarda invece la figura di Abraham Lincoln, Silverstein scrive che Hannah-Jones non voleva, né poteva, ricostruire nei dettagli i continui cambiamenti di posizione del 16° presidente degli USA sulla schiavitù e sui diritti dei neri; ma intendeva piuttosto mettere in evidenza il fatto che Lincoln, tuttora visto da molti come un santo, subordinò per molto tempo la liberazione dei neri alla predisposizione di un progetto per organizzare il loro ritorno in Africa, perché pensava che la coesistenza tra bianchi e neri emancipati sul suolo americano sarebbe stata troppo problematica.

    Silverstein ha quindi negato l’opportunità di effettuare le correzioni richieste.

     

    La replica dei firmatari della lettera

    La risposta del caporedattore del NYTM è stata giudicata del tutto insoddisfacente da due dei cinque firmatari della lettera. Gordon S. Wood e Sean Wilentz hanno ribattuto punto per punto alle argomentazioni di Silverstein. “Tutti vogliamo la giustizia, ma non a spese della verità”, ha sottolineato Wood in un articolo pubblicato sul WSWS il 24/12/2019. E Wilentz ha osservato che “aver cura dei fatti è tanto più importante alla luce dell’attuale situazione politica”, caratterizzata dallo svilimento della verità e dagli attacchi alla libertà di stampa portati avanti dall’amministrazione Trump, appoggiata da gruppi dell’estrema destra e dalla Russia di Putin (“The Atlantic”, 22/01/2020).

     

    La posizione dell'American Historical Association

    La American Historical Association (la più importante società storica americana) non ha preso ufficialmente posizione sul 1619 Project. Tuttavia, nel febbraio del 2020 la “American Historical Review”, che è la rivista ufficiale dell’Associazione, ha pubblicato un lungo e interessante commento, firmato a nome della redazione da Alex Lichtenstein, che sostanzialmente ha smontato le accuse rivolte ad Hannah-Jones e al NYTM dai cinque storici firmatari della lettera.

    In breve, secondo Lichtenstein, la tesi fondamentale alla base del progetto, ovvero l’idea della centralità della schiavitù nella storia americana, per quanto possa apparire sorprendente per gran parte dell’opinione pubblica americana, è in realtà ampiamente scontata per la maggior parte degli storici. E quanto ai presunti errori imputati ad Hannah-Jones, essi sono in realtà soprattutto sottolineature enfatiche di affermazioni niente affatto così peregrine e riguardano comunque soltanto uno dei numerosi testi proposti dal NYTM: non si vede quindi come possano da soli screditare l’intero progetto.

    Quest’ultimo – ha concluso Lichtenstein - non è privo di imperfezioni e alcuni aspetti dei saggi e dei materiali raccolti possono essere discussi; ma sarebbe una vergogna se gli storici americani non si adoperassero per cominciare ad includere anche la storia della schiavitù e le esperienze degli afroamericani nella memoria collettiva del paese.

     

    Un intervento critico, ma in difesa del progetto

    Molti altri storici e opinionisti, oltre gli studiosi già citati, hanno preso posizione sul 1619 Project. Tra i tanti interventi, è particolarmente interessante il commento, molto articolato, di Leslie M. Harris (“Politico”, 06/03/2020). Esperta di storia della schiavitù, Harris, che insegna alla Northwestern University, era stata consultata dal NYTM prima della pubblicazione del progetto; e aveva contestato con forza l’affermazione secondo cui i coloni americani si ribellarono alla Gran Bretagna per difendere la schiavitù. Ma il NYTM non ha tenuto conto delle sue osservazioni. Inoltre, secondo Harris, nel saggio di Hannah-Jones vi sono anche altre imprecisioni, relative al modo in cui viene descritta la condizione dei neri e degli schiavi nell’era coloniale.

    Tuttavia – secondo la storica della Northwestern University – il 1619 Project, considerato nel suo insieme, è un salutare correttivo rispetto alla storiografia pedissequamente celebrativa, in voga fino alla seconda metà del Novecento. Gli Stati Uniti non sono stati fondati per proteggere la schiavitù, ma il NYTM ha ragione nel sostenere la centralità di questa istituzione nella storia della nazione. La discussione tra gli storici è reale, ma non è una contesa tra bianchi e neri.

    I cinque firmatari della lettera al NYTM hanno affermato di sostenere tutti gli sforzi per mettere in rilievo la centralità della schiavitù e del razzismo nella storia degli Stati Uniti. Tuttavia, i più noti tra loro hanno largamente ignorato la storia dei neri nei loro libri. “È facile correggere i fatti – scrive Harris – è molto più difficile correggere una visione mondiale che in larga parte ignora e travisa il ruolo degli afroamericani e della razza nella nostra storia”.

    Per fortuna – conclude Harris - da circa mezzo secolo un gruppo sempre più numeroso di studiosi, sia bianchi che neri, ha lavorato in questa direzione. E anche il 1619 Project si inserisce, benché in modo imperfetto, in questa corrente di idee e di ricerche.

     

    Schiavitù e capitalismo

    Sebbene la maggior parte delle critiche degli studiosi si siano concentrate sulle tesi di Nikole Hannah-Jones, diversi storici hanno preso di mira anche il saggio del sociologo Matthew Desmond sul rapporto genetico tra schiavitù e capitalismo.

    Lo hanno fatto anzitutto, come ho già accennato, i cinque storici firmatari della lettera al NYTM del dicembre 2019. Ma ad essi si sono aggiunti anche altri studiosi, in particolare Phillip W. Magness, storico dell’economia e direttore dell’American Institute for Economic Research. In un articolo pubblicato sul sito web di questo istituto l’11 febbraio 2020, Magness ha affermato che, mentre i difetti degli altri contributi forniti dal 1619 Project potrebbero essere corretti abbastanza facilmente, il saggio di Matthew Desmond è a tal punto costellato di errori di fatto e di dubbie interpretazioni storiche che l’intero lavoro ne risulta squalificato.

    Magness osserva che le argomentazioni di Desmond sono in gran parte riprese da quel filone di ricerche, definito talvolta come New History of Capitalism, i cui risultati sono stati fortemente contestati. E in effetti, secondo Magness, le tesi di Desmond sul rapporto genealogico tra schiavitù e capitalismo sono in realtà del tutto prive di fondamento. Desmond sostiene infatti che le sofisticate tecniche mediante le quali le grandi imprese capitalistiche moderne tengono sotto controllo ogni aspetto della propria attività e del lavoro dei propri dipendenti furono sviluppate nelle grandi piantagioni degli stati del sud. Ma egli sembra ignorare il fatto che queste tecniche, a cominciare dalla partita doppia, erano già molto diffuse in Europa tra la fine del Medioevo e gli inizi dell’età moderna.

    Desmond afferma inoltre che nei sessant’anni che precedettero la guerra civile vi fu un eccezionale aumento della produzione di cotone, reso possibile da un più efficiente e brutale sfruttamento del lavoro degli schiavi. Egli riprende questa tesi dallo studio di Edward E. Baptist, The Half Has Never Been Told. Slavery and the Making of American Capitalism (Basic Books, 2014). Ma sia Baptist che Desmond trascurano il fatto che altre ricerche avevano in precedenza dimostrato che l’incremento della produzione di cotone in quel periodo fu causato soprattutto dall’introduzione e dal perfezionamento di nuove varietà biologiche di quella pianta.

    Quindi, conclude Magness, intere parti del saggio di Desmond dovrebbero essere modificate, inclusa la sua tesi principale che collega il capitalismo moderno alla schiavitù5.

     

     Immagine 5 Hanna JonesFig.5: Nikole Hannah-Jones, la giornalista del “New York Times Magazine” che ha ideato il 1619 Project FonteIl NYTM si corregge. Hannah-Jones vince il Premio Pulitzer

    Sebbene Silverstein avesse inizialmente negato l’opportunità di fare ‘correzioni’, il NYTM ha poi effettivamente modificato, nel marzo del 2020, uno dei passaggi più controversi del saggio di Hannah-Jones. Infatti, nella versione online del testo, si legge ora che “una delle ragioni principali per le quali alcuni tra i coloni americani [e non semplicemente “i coloni americani”] decisero di dichiarare la propria indipendenza dalla Gran Bretagna fu che essi volevano proteggere l’istituto della schiavitù”. Una nota di Silverstein ha spiegato i motivi di questa modifica.

    Due mesi più tardi, nonostante le perplessità e le critiche avanzate da diversi studiosi, Nikole Hannah-Jones ha ricevuto il Pulitzer Prize for Commentary per il saggio, definito “di grande respiro, stimolante e personale”, con il quale ha introdotto il “pioneristico” 1619 Project.

     

     Le critiche  e gli attacchi della destra

    Oltre a ricevere critiche da storici e opinionisti indipendenti o di sinistra, il 1619 Project è stato attaccato, in modo più radicale, anche dalla destra, sia nel mondo politico che in quello intellettuale. In generale, l’accusa che la destra fa al NYTM è di aver messo in campo una iniziativa antipatriottica, razzista e antistorica, piegando i fatti per farli combaciare con una visione ideologica e faziosa.

    Si può portare come esempio delle critiche della destra l’articolo pubblicato su “Newsweek” il 27/08/2019 da Newt Gingrich, esponente di primo piano del Partito repubblicano. Gingrich ha respinto con forza l’idea di mettere la schiavitù al centro della storia americana, bollandola come “left-wing propaganda” spacciata per verità.

    Secondo Gingrich non si può mettere il 1619 al posto del 1776. Questo slittamento all’indietro della data di nascita della nazione americana porta inevitabilmente ad oscurare il fatto che gli ideali che ispirarono la Dichiarazione di indipendenza, lungi dall’essere “falsi quanto furono scritti”, come ha affermato Hannah-Jones, sono stati invece il punto di partenza di una grande rivoluzione morale e politica, nella quale i bianchi hanno lottato al fianco dei neri. Una rivoluzione che dagli Stati Uniti si è poi propagata ad altre parti del mondo.

    Le critiche della destra sono state all’origine dell’iniziativa politica intrapresa dal senatore repubblicano Tom Cotton, che nel luglio del 2020 si è fatto promotore del Saving American History Act: una proposta di legge che mirava a proibire l’assegnazione di fondi federali6alle scuole che utilizzano il 1619 Project. Nel presentare questa proposta, Cotton ha dichiarato che il progetto del NYTM è “una rappresentazione della storia revisionista e divisiva sul piano razziale, che nega i nobili princìpi di libertà ed eguaglianza sui quali è stata fondata la nostra nazione”.

     

    Immagine 6 Black Lives MatterFig.6: La protesta del Black Lives Matter (Hollywood, 7 giugno 2020). Uno dei cartelli dei manifestanti evoca l’anno 1619 FonteIl 1619 Project e il Black Lives Matter

    Da quando nel giugno del 2020 sono divampate le proteste per l’uccisione di George Floyd, le polemiche sul 1619 Project si sono in parte sovrapposte a quelle suscitate dal Black Lives Matter e dai suoi attacchi alle statue, che hanno preso di mira non soltanto i monumenti ai leader dei Confederati, ma anche quelli dedicati ai “padri fondatori”, come George Washington.

    “Call them the 1619 riots“ – “Chiamateli i tumulti del 1619”, ha scritto Charles Kesler in un graffiante editoriale sul “New York Post” (19/06/2020). “Ne sarei onorata. Grazie”, ha replicato Hannah-Jones su Twitter.

    Il dibattito attorno al 1619 Project è quindi in parte confluito in una discussione più generale relativa alla storia americana e alle problematiche della razza e del razzismo.

    Alla fine dell’estate del 2020 si è poi aperta una nuova pagina della polemica. Sulla rivista “Quillette” (19/09/2020), lo storico Phillip W. Magness, di cui abbiamo già riferito le critiche al saggio di Matthew Desmond, ha segnalato che nella home page dell’edizione online del progetto erano spariti due riferimenti al 1619 come momento fondante della storia della nazione americana. Magness ha quindi accusato il NYTM di aver creato un “buco della memoria” (memory hole), come quello usato dal Ministero della Verità in 1984 di George Orwell.

    Ha suscitato inoltre un certo clamore il fatto che le osservazioni di Magness siano state riprese e amplificate da Bret Stephens in un editoriale pubblicato sul “New York Times” (09/10/2020). A. G. Sulzberger, editore del quotidiano, ha subito precisato che Stephens aveva parlato a titolo personale e che il “New York Times” continuava ad appoggiare il 1619 Project. Per parte sua, Silverstein ha spiegato le ragioni delle modifiche fatte all’edizione online del progetto e ha sostenuto che esse non intaccano affatto la sua tesi di fondo.

     

     La "White House Conference on American History"

    Il 17 settembre 2020 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha convocato la prima “White House Conference on American History”, in apertura della quale ha dichiarato:

    “Il nostro compito è difendere l’eredità della fondazione dell’America, la virtù degli eroi americani, e la nobiltà del carattere americano. Noi dobbiamo spazzare via la contorta rete di bugie dalle nostre scuole e dalle nostre classi, e insegnare ai nostri ragazzi la magnifica verità riguardo al nostro paese. Noi vogliamo che i nostri figli e le nostre figlie sappiano che sono i cittadini della più straordinaria nazione nella storia del mondo”.

    Dopo aver condannato le folle che abbattono le statue dei fondatori e i radicali che bruciano le bandiere americane, il Presidente ha aggiunto:

    “La sinistra ha deformato, distorto e profanato la storia americana con inganni, falsità e bugie. Non c’è miglior esempio di questo che il 1619 Project del ‘New York Times’, che è stato completamente screditato. Questo progetto riscrive la storia americana per insegnare ai nostri ragazzi che il nostro paese è stato fondato sull’oppressione, e non sulla libertà”.

    La “White House Conference on American History” ha suscitato una secca reazioneda parte della American Historical Association, che ha deplorato questa iniziativa, sostenendo che essa alimenta ‘guerre culturali’ che distraggono gli americani da altre più rilevanti problematiche attuali, e che “per imparare dalla nostra storia, dobbiamo affrontarla, comprenderla in tutta la sua disordinata complessità e sentirci responsabili tanto per i nostri fallimenti, quanto per le nostre conquiste”. Questa dichiarazione è stata sottoscritta da altre 46 associazioni di storici e studiosi di altre discipline.

     

    Immagine 7 Dichiarazione di indipendenzaFig.7: La Dichiarazione di Indipendenza (4 luglio 1776) è stata generalmente considerata finora come l’atto di nascita della nazione statunitense FonteAltre iniziative

    Il 6 ottobre 2020 Peter Wood, Presidente della National Association of Scholars, ha chiesto la revocadel premio Pulitzer a Hannah-Jones. Wood ha motivato la richiesta ricordando le critiche avanzate nei confronti del 1619 Project da molti eminenti storici e il tentativo del NYTM di modificare – a suo dire in modo subdolo - i testi originari del progetto. La lettera di Wood è stata sottoscritta da una trentina di docenti universitari.

    Successivamente, il 2 novembre 2020, il presidente Donald Trump, il giorno prima delle elezioni presidenziali che avrebbero segnato la sua sconfitta, ha istituito la 1776 Commission, con lo scopo di promuovere tra le nuove generazioni una maggiore consapevolezza dei nobili princìpi sui quali è stata fondata la nazione americana e che hanno alimentato la sua eccezionale esperienza storica, contrastando così la tendenza a svilirli e denigrarli mediante ricostruzioni false e ingannevoli.

    Anche a seguito della sconfitta di Trump e dei repubblicani nelle elezioni del novembre del 2020, sia la proposta di legge del senatore Cotton, sia l’attività della 1776 Commission si sono arenate. Tuttavia, i repubblicani hanno proseguito la loro battaglia a livello locale. Anche le scuole e le università sono diventate quindi un terreno di scontro tra fautori e oppositori del 1619 Project.

     

     Il 1619 Project  nelle scuole

    Fin dal primo momento gli autori del progetto hanno manifestato un particolare interesse per l’insegnamento scolastico.

    In un articolo pubblicato in appendice ai saggi dell’agosto del 2019, Nikita Stewart aveva messo in evidenza come la storia della schiavitù sia ancora oggi insegnata poco e male negli Stati Uniti. Stewart citava i risultati di una ricerca condotta nel 2017 dal Southern Poverty Law Center, dalla quale era emerso che circa il 60% degli oltre 1700 insegnanti intervistati ritenevano che i propri libri di testo trattassero in modo inadeguato il tema della schiavitù; inoltre i circa mille studenti consultati risultavano avere conoscenze scarse o erronee in proposito (oltre il 90% di loro non sapeva che la schiavitù è stata la causa principale della guerra civile americana).

    Il 1619 curriculum mira appunto a correggere questa educational malpractice. Ma quante scuole lo stanno utilizzando?

    Secondo Jake Silverstein, caporedattore del NYTM, nell’ottobre del 2020 oltre 4000 insegnanti avevano già utilizzato il curriculum. Non sorprende quindi che i repubblicani abbiano tentato di frenarne la diffusione in alcuni Stati, promuovendo progetti di legge rivolti a bloccare i finanziamenti pubblici alle istituzioni scolastiche e universitarie che hanno scelto di adottare il progetto del NYTM. È accaduto in Arkansas, Iowa, Mississippi, Missouri e South Dakota. Misure analoghe sono state proposte dai repubblicani anche in altri Stati per scoraggiare l’insegnamento di dottrine ritenute “divisive, sessiste o razziste”. Tra queste vi è anche la cosiddetta Critical Race Theory (CRT), ovvero quella teoria secondo la quale la discriminazione razziale è tuttora una caratteristica strutturale della società statunitense.

    Queste iniziative hanno suscitato reazioni e commenti negativi sia da parte degli insegnanti, sia da parte dei pedagogisti e degli storici. Ad esempio, Michelle Bacon Curry, insegnante di inglese nelle scuole superiori nello Iowa, ha affermato di aver usato il 1619 curriculum nelle sue classi, aggiungendo che una eventuale interdizione di questi materiali la spingerebbe a raddoppiare i suoi sforzi per perseguire i suoi obiettivi didattici.

    Secondo Mark Schulte, direttore del ramo del Pulitzer Center che si occupa della formazione scolastica, i tentativi di impedire l’utilizzo del 1619 Project per scopi didattici nascono da una erronea interpretazione del progetto. Infatti i materiali del curriculum non hanno lo scopo di convincere gli studenti a condividere determinate idee, ma piuttosto di incoraggiarli a porre domande, a riflettere e a discutere.

    Le iniziative promosse dai repubblicani in molti Stati, per limitare ciò che gli insegnanti possono dire in classe sui temi della razza, dell’oppressione e del sessismo, non si sono fermate. E sabato 12 giugno 2021 migliaia di educatori e altre persone si sono riunite, sia fisicamente che virtualmente, presso i siti storici di oltre 20 città per mettere in chiaro che si opporranno a questi tentativi di limitare la libertà di insegnamento. Diverse migliaia di insegnanti hanno firmato una dichiarazione, proposta dallo Zinn Education Project, che afferma: “Noi sottoscritti educatori rifiutiamo di mentire ai giovani riguardo alla storia degli Stati Uniti e alla realtà odierna – senza riguardo per le leggi”.

     

    Una concezione identitaria della storia e del suo insegnamento?

    Prima di concludere, può essere interessante osservare che sia alcuni tra i promotori e sostenitori del 1619 Project, sia una parte dei suoi critici sembrano condividere una concezione identitaria della storia e del suo insegnamento (sulla ripresa delle narrazioni storiche identitarie rinvio a quanto ha scritto Antonio Brusa, anche qui su “Historia ludens”).

    Infatti, su entrambi i fronti della culture war in atto attorno al progetto del NYTM, si va alla ricerca dei momenti e dei valori ‘fondanti’ della nazione statunitense e/o della comunità afroamericana e si punta alla narrazione di un’epica lotta nella quale eroi, vittime e carnefici svolgono un ruolo ben preciso, in un mondo dove non sembra esistere una via di mezzo tra il bene e il male.

    Questa è chiaramente la visione della storia proposta dal Presidente Trump e dai suoi seguaci, a cominciare dal senatore Tom Cotton. Ma la stessa Hannah-Jones, ideatrice del progetto, sembra seguire una strategia narrativa nella quale la rievocazione dei fatti storici si intreccia con la costruzione di un mito di carattere identitario. Alquanto diverso, naturalmente, da quello dei repubblicani.

    Infatti, la giornalista del NYTM tende da un lato ad evidenziare il contributo patriottico degli afroamericani alla costruzione degli Stati Uniti, e dall’altro lato ad esaltare il loro ruolo come comunità ben distinta all’interno della nazione americana. “Dicono che il nostro popolo sia nato sull’acqua”, cioè sulle navi dei negrieri, scrive Hannah-Jones nella parte conclusiva del suo saggio. “Il nostro modo di parlare e di vestiree il ritmo della nostra musica riecheggia l’Africa ma non è africano. Dal nostro completo isolamento, sia rispetto alle nostre culture native sia rispetto all’America bianca, noi abbiamo plasmato la più rilevante cultura originale di questa nazione” (i corsivi sono miei). E poi conclude dichiarandosi orgogliosa della bandiera a stelle e strisce e osservando che il suo popolo è diventato “il più americano di tutti”.

     

    Il 1619 Project  e l'afrocentrismo

    Ci si può chiedere, infine, che rapporti vi siano tra il 1619 Project e l'afrocentrismo, ancora molto presente nella cultura della cosiddetta diaspora africana (vedi in proposito questo articolodi Sarah Balakrishnan). Ci sono naturalmente alcuni punti di contatto, ad esempio il rifiuto del primato della cultura bianca e occidentale. Ma c'è anche questa fondamentale differenza: mentre l'afrocentrismo, nelle sue diverse espressioni, tende a considerare la storia e la cultura africana come il punto di partenza della riscossa dei neri, il 1619 Project vuole mettere i neri al centro della storia degli Stati Uniti, mostrando scarso interesse per le radici africane della loro cultura. Anzi, come abbiamo visto sopra, Hannah-Jones, che è l'ideatrice del progetto, sottolinea il fatto che la cultura afroamericana si è formata fuori e lontano dall'Africa: simbolicamente sulle acque del middle passage, più concretamente sul suolo del continente dove gli schiavi venivano sbarcati alla fine di quel viaggio. E mentre l'afrocentrismo è tendenzialmente separatista e si è spinto fino a coltivare il sogno di un ritorno dei neri nella loro terra di origine, il 1619 Project si batte per l'uguaglianza dei bianchi, dei neri e di tutti gli altri gruppi etnici all’interno della comune patria statunitense.

     

    Conclusione

    Nonostante tutte le perplessità e le critiche che abbiamo passato in rassegna, il 1619 Project sta andando avanti e per il prossimo novembre 2021 è stata annunciata la pubblicazione di due libri che proporranno una versione più ampia dei contenuti dell’edizione dell’agosto 2019.

    Da quest’altra parte dell’Atlantico, come storici e come insegnanti, non possiamo non guardare con grande interesse alle molte questioni storiografiche, pedagogiche e didattiche sollevate in questo ampio dibattito statunitense. Le Guerre per la storia, infatti, non mancano nel nostro antico continente. In alcuni stati, soprattutto quelli dell’Europa ex-comunista si combattono in modo virulento. Nell’Europa occidentale in forme meno esagitate, ma ugualmente pericolose per chi ritiene che la storia sia una disciplina che insegna a leggere il mondo e guarda con preoccupazione la marea montante di chi vuole, invece, che la storia sia uno strumento di rivendicazione identitaria e politica.

     


     Note

    Ho riportato la versione originale delle parole di apertura dell’edizione online del progetto, che ho ripreso da un articolo di Phillip W. Magness. Successivamente questo testo è stato leggermente modificato. La traduzione dall’inglese è mia e lo stesso vale per tutti i testi citati tra virgolette da qui in avanti.

    Anche in questo caso riporto la versione originale del testo, che riprendo dall’articolo di Magness citato nella nota 1.

    Victoria Bynum (Texas State University), James M. McPherson (professore emerito alla Princeton University), James Oakes (City University of New York) e Gordon S. Wood (professore emerito della Alva O. Wade University e della Brown University).

    La sentenza dell’alta corte britannica nel caso Somerset v. Stewart nel 1772 dichiarò illegale la vendita di uno schiavo fuggiasco perché la schiavitù non era contemplata dalla common law inglese; la Dunmore Proclamation, emanata dal governatore della Virginia nel 1775, offrì la libertà agli schiavi fuggiaschi che si fossero arruolati nell’esercito britannico. Entrambi questi eventi, secondo gli storici citati sopra, avrebbero contribuito a spingere i coloni che possedevano schiavi alla ribellione contro la madrepatria.

    Magness ha successivamente sviluppato le sue critiche al saggio di Desmond e ad altri aspetti del progetto del NYTM in un volume intitolato The 1619 Project: A Critique, pubblicato nel 2020 dall’American Institute for Economic Research.

    Per fondi federali si intendono quelli provenienti dal governo centrale. Occorre tenere presente che, negli Stati Uniti, il governo centrale contribuisce alle spese del sistema scolastico pubblico in misura assai ridotta. Ad esempio, nell’anno scolastico 2017-18 i fondi federali hanno coperto appena l’8% della spesa complessiva, mentre il 47% è stato assicurato da risorse provenienti dai singoli Stati e il restante 45% da fondi delle comunità locali (vedi https://nces.ed.gov/programs/coe/indicator/cma).

     

    Sitografia

     

    I saggi pubblicati nell’edizione speciale del “New York Times Magazine” dell’agosto 2019:

     

    Bouie, Jamelle, America holds onto an undemocratic assumption from its founding: that some people deserve more power than other

    Desmond, Matthew, In order to understand the brutality of American capitalism, you have to start on the plantation

    Hannah-Jones, Nikole, Our democracy’s founding ideals were false when they were written. Black Americans have fought to make them true

    Interlandi, Jeneen, Why doesn’t the United States have universal health care? The answer has everything to do with race

    Kruse, Kevin M., What does a traffic jam in Atlanta have to do with segregation? Quite a lot

    Lee, Trymaine, A vast wealth gap, driven by segregation, redlining, evictions and exclusion, separates black and white America

    Morris, Wesley, For centuries, black music, forged in bondage, has been the sound of complete artistic freedom. No wonder everybody is always stealing it

    Muhammad, Khalil Gibran, The sugar that saturates the American diet has a barbaric history as the ‘white gold’ that fueled slavery

    Stevenson, Bryan, Slavery gave America a fear of black people and a taste for violent punishment. Both still define our criminal-justice system

    Stewart, Nikita, 'We are committing educational malpractice’: Why slavery is mistaught — and worse — in American schools

    Villarosa, Linda, Myths about physical racial differences were used to justify slavery — and are still believed by doctors today

     

    Articoli e interventi online:

     

    AHA Issues Statement on the Recent "White House Conference on American History”,  www.historians.org, September 2020

    Balakrishnan, Sarah, Afrocentrism Revisited: Africa in the Philosophy of Black Nationalism, “Souls”, Volume 22, Issue 1 (2020), pubblicato online l’08/02/2021

    Editor’s Desk, 1619 and All That, “The American Historical Review”, Volume 125, Issue 1, February 2020, pp. xv–xxi, pubblicato online il 03/02/2020

    Ellison, Sarah, How the 1619 Project took over 2020, “The Washington Post”, 13/10/2020

    Gingrich, Newton, Did Slavery Really Define America For All Time?, “Newsweek”, 27/08/2019

    Harris, Leslie M., I Helped Fact-Check the 1619 Project. The Times Ignored Me, “Politico”, 06/03/2020

    Historian Gordon Wood responds to the New York Times’ defense of the 1619 Project, “World Socialist Web Site”, 24/12/2019

    Kesler, Charles, Call them the 1619 riots, “New York Post”, 19/06/2020

    Levine, Carole, Republicans in 5 States Seek to Keep 1619 Project Curriculum out of Schools, “Nonprofit Quarterly”, 15/02/2021

    Magness, Phillip W., The Case for Retracting Matthew Desmond’s 1619 Project Essay, “American Institute for Economic Research”, 11/02/2020

    Magness, Phillip W., Down the 1619 Project’s Memory Hole, “Quillette”, 19/09/2020

    Niemuth, Niles - Mackaman, Tom – North, David, The New York Times’s 1619 Project: A racialist falsification of American and world history, “World Socialist Web Site”, 06/09/2019

    Pledge to Teach the Truth, “Zinn Education Project”, 21/06/2021

    Schwartz, Sarah, Lawmakers Push to Ban ‘1619 Project’ From Schools, “Education Week”, 03/02/2021

    Schwartz, Sarah, 8 States Debate Bills to Restrict How Teachers Discuss Racism, Sexism, “Education Week”, 15/04/2021

    Serwer, Adam, The Fight Over the 1619 Project Is Not About the Facts, “The Atlantic”, 23/12/2019

    Silverstein, Jake, We Respond to the Historians Who Critiqued The 1619 Project, “The New York Times Magazine”, 20/12/2019

    Silverstein, Jake, An Update to The 1619 Project, “The New York Times Magazine”, 11/03/2020

    Silverstein, Jake, On Recent Criticism of The 1619 Project, “The New York Times Magazine”, 16/10/2020

    Stelter, Brian - Darcy, Oliver, 1619 Project faces renewed criticism — this time from within The New York Times, CNN, 12/10/2020

    Stephens, Bret, The 1619 Chronicles, “The New York Times”, 09/10/2020

    Strauss, Valerie, Teachers across the country protest laws restricting lessons on racism, “The Washington Post”, 12/06/2021

    The 1619 Project, “Wikipedia”

    Twelve Scholars Critique the 1619 Project and the New York Times Magazine Editor Responds, “History News Network”, 26/01/2020

    Wilentz, Sean, American Slavery and ‘the Relentless Unforeseen’, “History News Network”, 19/11/2019

    Wilentz, Sean, A Matter of Facts, “The Atlantic”, 22/01/2020

    Wood, Peter, Pulitzer Board Must Revoke Nikole Hannah-Jones' Prize, www.nas.org, 06/10/2020

     

    Bibliografia

     

    Magness, Phillip W., The 1619 Project: A Critique, American Institute for Economic Research, 2020.

    North, David - Mackaman, Thomas (eds.), The New York Times’ 1619 Project and the Racialist Falsification of History, Oak Park (Michigan), Mehring Books, 2021.

  • Il Laboratorio del Tempo presente

    CONVEGNO DI FONDAZIONE

    Una rete necessaria

    Lo studio della storia “molto contemporanea” è un’emergenza formativa, che, alla svolta del secolo, è diventata ineludibile. Come si constata da più parti, gran parte degli insegnanti non riesce a inserire nel curricolo lo studio strutturato degli ultimi decenni, mentre i cosiddetti “temi di attualità” sono spesso oggetto di trattazione saltuaria o vengono affrontati in discipline diverse dalla storia.

    Tempo presente

    Moltissimi allievi italiani, quindi, concludono il loro processo formativo privi di quella strumentazione storiografica che permetterebbe loro di capire fenomeni quali la globalizzazione, il rapporto fra locale e globale, i cambiamenti politici, antropologici, culturali, demografici e ambientali che segnano l’affermarsi di quello che – a giudizio concorde della comunità storiografica – è da considerarsi un periodo storico nuovo, con caratteristiche profondamente diverse da quel Novecento classico che, al momento attuale, sembra il terminus ad quem delle programmazioni di storia italiane.

    Al tempo stesso, lo studio della storia “molto contemporanea” sembra il terreno ideale per favorire il confronto fra i portati delle memorie (pubbliche e individuali) e quelli della ricostruzione storiografica. Ricerche recenti, ma ormai consolidate, mostrano come proprio in questo confronto si attivino i processi di formazione di quella “coscienza storica” che dovrebbe essere l’obiettivo centrale della formazione storica dei cittadini.

    Il laboratorio del tempo presente

    Un Laboratorio del tempo presente appare la struttura ideale dove mettere in gioco queste dinamiche formative, perché propone di lavorare sul rapporto fra l’oggi e le storie passate; fra i soggetti che studiano e i processi storici nei quali sono coinvolti. È, dunque, il luogo dove la strumentazione storiografica (ma potremmo aggiungere anche quella acquisita in altre discipline), lungamente preparata nel corso del curricolo, si mette alla prova nell’interpretazione dei fatti “caldi” – quelli che nella letteratura didattica internazionale si chiamano “questioni sensibili” – del presente.

    Il lavoro della rete

    Quest’obiettivo verrà declinato dalla rete attraverso due azioni:

    • L’allestimento di un sito presso il quale i docenti possano trovare materiali, proposte di lavoro e testi di didattica storica intorno alle questioni sensibili; presso il quale possano discutere dei problemi relativi al loro insegnamento.
    • L’allestimento di forme di aggiornamento (corsi e scuole di formazione).

    I partecipanti al progetto, dunque, si divideranno in gruppi di lavoro che:

    • cercheranno nel web materiali (libri, articoli, conferenze, dati) sui temi di particolare sensibilità (ambiente, emigrazione, pace e guerra, terrorismo ecc.);
    • produrranno proposte didattiche secondo l’ampio ventaglio di modelli che verranno proposti nel corso di fondazione: laboratori, giochi, storytelling, debate, ecc.
    • produrranno proposte di riorganizzazione dei contenuti, sia dell’ultimo anno, sia dell’intero quinquennio.

    A questo progetto partecipano le scuole che aderiscono alla rete e quelle che vorranno aderire. E porte aperte a tutti gli insegnanti e i ricercatori che vorranno dare una mano.

     

    IL LABORATORIO DEL TEMPO PRESENTE

    Il convegno

    Capalbio, 21-22-23 marzo 2019

     

    PROGRAMMA

    Giovedì, 21 marzo

    h. 14.30. Saluti e accoglienza

    h. 15.00. Antonio Brusa: presentazione del corso

    h. 15.15. Antonio Brusa: Un curricolo di storia per il Tempo presente

    h. 16.00. Alberto De Bernardi: Tra XX e XXI secolo: concetti e processi fondamentali

    h. 16.45. Break

    h. 17.00-18-30. I gruppi di lavoro: presentazione e discussione

     

    Venerdì, 22 marzo

    h. 09.00. Antonio Brusa: presentazione dei lavori della giornata

    h. 09.15. Pino Bruno: La ricerca delle fonti in rete

    h. 10.00. Lavori di gruppo

    h. 11.00. Break

    h. 11.15. Lavori di gruppo

    h. 13.00. Buffet

    h. 14.30. Plenaria: Analisi e comunicazione dei lavori di gruppo

    h. 16.00. Gita a Saturnia

    h. 20.00. Cena

     

    Sabato, 23 marzo

    h. 09.00. Antonio Brusa: presentazione dei lavori della giornata

    h. 09.15. Lavori di gruppo

    h. 11.00. Break

    h. 11.15. Plenaria: discussione e proposte di lavoro

    h. 13.00. Chiusura del corso

    Le persone

    Direttrice: Anna Maria Carbone

    Coordinatore: Antonio Brusa

    Comitato scientifico: Alberto de Bernardi (Unibo), Claudia Villani (Uniba), Pino Bruno (direttore “Tom’s Hardware”), Antonio Fini (IC Sarzana, La Spezia), David Nadery (IIS “Cassata Gattapone”, Gubbio), Francesca Alunni (Liceo Classico “Properzio”, Perugia), Lucio Bontempelli (IC “L.S. Tongiorgi”, Pisa), Carlo Firmani (Liceo Classico “Socrate”, Roma).

    Comitato tecnico e segreteria: Cristina Guidi e Giacomo Prestifilippo (Ici Manciano/Capalbio)

    Relatori e tutor: Antonio Brusa (Uniba), Alberto de Bernardi (Unibo), Pino Bruno (direttore “Tom’s Hardware”), Cesare Grazioli (IISS Blaise Pascal, Reggio Emilia), Marco Cecalupo (IC Leonardo Da Vinci, Reggio Emilia), Giuseppe Losapio (IISS Aldo Moro, Trani), Nadia Olivieri (IC 17 Montorio, Verona ).

    I partecipanti

    Il corso è rivolto sia ai docenti delle scuole che aderiscono alla rete, sia ai docenti interessati di tutto il territorio nazionale. Docenti di storia, ma anche di altre discipline che pensano di poter collaborare con noi. Saranno utilissimi anche docenti con competenze digitali, dal momento che il lavoro in rete sarà una componente fondamentale di questo progetto.

    Le modalità di lavoro

    Non aspettatevi un corso dove ci si limita ad ascoltare. In questo corso si discute, si progetta e si lavora insieme. Ci sono solo tre lezioni frontali. La maggior parte del tempo sarà destinato a lavori di gruppo, durante i quali si esporranno i mediatori didattici da adoperare nel laboratorio (nuovi materiali manualistici, laboratori, modelli di debate e di storytelling adatti alla storia, giochi per affrontare sia problemi sia per sveltire l’insegnamento curricolare) e le tecniche professionali per cercare in rete notizie affidabili. Durante i lavori, inoltre, ci si suddivideranno i compiti per la realizzazione del sito e la sua gestione. Si discuteranno le iniziative successive della rete.

    La logistica

    Capalbio, in provincia di Grosseto, è raggiungibile via treno o autostrada. L’aeroporto più vicino è quello di Roma Fiumicino. Arrivo consigliato il 21 marzo ore 14.00 circa alla stazione di Capalbio Scalo (linea Roma-Pisa). Gli spostamenti da e per la stazione saranno a cura dell’organizzazione (i partecipanti sono pregati di informare l’organizzazione degli orari di arrivo e partenza).

    • Le lezioni in plenaria si svolgeranno a Capalbio, presso “Il Frantoio”.
    • I gruppi di lavoro presso la scuola adiacente.
    • I partecipanti al corso verranno alloggiati presso l’Hotel “Valle del Buttero”, di Capalbio;
    • Il pranzo dei giorni 22 e 23 sarà a buffet.
    • La cena del 21 sarà presso il ristorante “La porta” di Capalbio.
    • La cena del 22 sarà a Saturnia.
    • Il trasferimento A/R e la gita a Saturnia sarà a cura dell’organizzazione.

    Per contatti

    Per la segreteria organizzativa e logistica: Cristina Guidi (ore 14-18 escluso sabato e domenica); tel. 3939463554:
    mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

    Giacomo Prestifilippo (ore 14-18 escluso sabato e domenica); tel. 3383623098;
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    Scarica il modulo di iscrizione

  • Insegnare la storia del mondo contemporaneo

    di Daniele Boschi

    Atomiche su Hiroshima e Nagasaki1. Le nuvole a forma di fungo causate dal lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Non è raro che i programmi di storia svolti nel quinto anno del Liceo si fermino alla fine della Seconda guerra mondiale e all’immediato dopoguerra.

    Sono passati più di quattro anni dall’appello che Cesare Grazioli rivolse ai docenti di storia delle scuole secondarie superiori affinché insegnassero la storia degli ultimi cento anni. Grazioli osservava che, vent’anni dopo l’emanazione del decreto Berlinguer, non era raro imbattersi in classi che arrivavano agli esami di Stato con programmi di storia che non andavano oltre la fine della Seconda guerra mondiale. Proprio a partire dalla constatazione che gran parte degli insegnanti non riesce ad inserire nel curricolo lo studio strutturato degli ultimi decenni, è nata l’iniziativa che ha portato alla creazione del Laboratorio del tempo presente e della rete LabSto21. Il Laboratorio e la rete mirano a promuovere un nuovo e diverso modo di affrontare la storia del ‘900 e degli inizi del nostro secolo, nel contesto di un generale ripensamento della struttura del curricolo, dalle scuole elementari alle superiori. Questo articolo vuole fornire un ulteriore contributo a questo itinerario di innovazione didattica, che coinvolge scuole e università. Mi riferirò esclusivamente all’insegnamento della storia nell’ultimo anno dei Licei, sia perché ho sempre insegnato nei Licei, sia perché tra le Indicazioni nazionali per i percorsi liceali e le Linee guida per gli Istituti tecnici e professionali vi sono notevoli differenze1.

    Lo svolgimento dei programmi di storia nell’ultimo anno dei Licei

    Qual è attualmente l’articolazione dei programmi di storia effettivamente svolti nell’ultimo anno dei Licei? L’esame di un piccolo campione dei documenti che i Consigli di classe preparano per le classi quinte in vista degli esami di Stato2 suggerisce che, anche se le classi che si fermano alla Seconda guerra mondiale rappresentano probabilmente un caso limite, gran parte delle energie e dell’attenzione dei docenti e degli studenti, nell’ultimo anno dei Licei, continuano ad essere focalizzati sulla storia della prima metà del ‘900, cosicché la storia davvero “contemporanea” – quella che comincia dagli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso - viene spesso trattata in modo superficiale e affrettato nelle ultime settimane dell’anno scolastico, oppure non viene trattata affatto.

      NUMERO DELLE CLASSI
    INDIRIZZOPrima metà dell'800Seconda metà dell'800Inizi del '900TOTALE CLASSI
    Classico 5 6 11
    Scientifico 1 16 12 29
    Linguistico 3 3 2 8
    Scienze umane 2 2 2 6
    Musicale 1 0 0 1
    TOTALE 7 26 22 55
    TABELLA 1
    Punto di partenza dei programmi di storia svolti nelle classi quinte di alcuni Licei romani nell’anno scolastico 2018-19

    Vale la pena analizzare più in dettaglio i dati del campione esaminato. Anzitutto, come si vede dalla Tabella 1, in gran parte delle classi il lavoro dell’ultimo anno non prende avvio dagli inizi del ‘900, come previsto dalle Indicazioni nazionali, ma dalla seconda metà dell’800, o addirittura dalla prima metà di questo secolo. C’è quindi, in molti casi, un “ritardo” che si verifica negli anni scolastici precedenti. Per studiarne i motivi bisognerebbe naturalmente esaminare i programmi di storia svolti nel primo e nel secondo biennio dei Licei, ma questo esula dalla ricerca che ho svolto. È interessante però notare che questo ritardo è presente, sebbene in minor misura, anche nel Liceo Classico, per il quale il piano di studi ministeriale prevede tre ore di lezione a settimana, sia nel secondo biennio che nell’ultimo anno, e non due ore soltanto come in tutti gli altri Licei.

    Per quanto riguarda invece il punto d’arrivo dei programmi, la Tabella 2 mostra che nella maggior parte dei casi non si va oltre gli anni Sessanta del ‘900. Soltanto 12 classi su 55 risultano essere arrivate agli anni Ottanta e al crollo del comunismo nei paesi dell’Europa orientale e nell’Urss, e 4 soltanto si sono spinte ancora oltre.

      NUMERO DELLE CLASSI
    INDIRIZZOFine della 2a guerra mondiale-
    immediato dopoguerra3
    Anni ‘50 del ‘900Anni ’60 del ‘900Anni ’70 del ‘900Anni ’80 del ‘900-
    inizio degli anni ’904
    Anni ’90 del ‘900 e oltre5
    Classico 0 2 3 0 4 2
    Scientifico 4 5 8 4 6 2
    Linguistico 6 0 0 1 1 0
    Scienze umane 4 0 1 0 1 0
    Musicale 1 0 0 0 0 0
    TOTALE 15 7 12 5 12 4
    TABELLA 2
    Punto di arrivo dei programmi di storia svolti nelle classi quinte di alcuni Licei romani nell’anno scolastico 2018-20196

    A ciò si deve aggiungere il fatto che, a prescindere dal “punto di arrivo” dei programmi, la storia della seconda metà del ‘900 viene spesso trattata in modo frammentario, lacunoso o molto sintetico nell’ultimissima parte dell’anno scolastico, a volte addirittura dopo il 15 maggio. Per esempio, il fatto che in alcune classi si arrivi a parlare dell’ultima fase della guerra fredda e della caduta del muro di Berlino non vuol dire affatto che siano stati trattati altri argomenti relativi alla storia degli anni Settanta e Ottanta del ‘900.

    A questo proposito è un indicatore significativo, a mio avviso, il rapporto tra il numero delle unità didattiche o moduli dedicati alla seconda metà del ‘900 e il loro numero complessivo. Come risulta dalla Tabella 3, ben 20 delle 40 classi che hanno trattato argomenti della seconda metà del ‘900 hanno dedicato ad essi meno di un quinto delle unità didattiche complessive; e soltanto 9 classi hanno dedicato alla seconda metà del ‘900 almeno un terzo del programma. Nessuna classe ha riservato alla seconda metà del ‘900 la metà (o più) delle unità didattiche, fatta eccezione per una classe di Liceo Linguistico che ha seguito il piano di studi EsaBac, che prevede un programma di storia maggiormente orientato verso la contemporaneità.

      NUMERO DELLE CLASSI
    INDIRIZZONessuna unitàMeno di 1/5Tra 1/5 e 1/3Tra 1/3 e la metàLa metà o piùTOTALE CLASSI
    Classico 0 5 4 2 0 11
    Scientifico 4 13 6 6 0 29
    Linguistico 6 0 1 0 1 8
    Scienze umane 4 2 0 0 0 6
    Musicale 1 0 0 0 0 1
    TOTALE 15 20 11 8 1 55
    TABELLA 3
    Distribuzione delle classi a seconda del numero di unità didattiche o moduli dedicati alla seconda metà del '900 (rispetto al numero complessivo delle unità)

    Anche se il campione esaminato non può avere ovviamente, per la sua esiguità, alcun valore statistico rispetto alla totalità dei Licei italiani, ritengo tuttavia che esso indichi una situazione abbastanza diffusa di “ritardo” e di affanno nello svolgimento dei programmi di storia.

    Questa situazione, a mio avviso, non nasce tanto da inerzia o pigrizia intellettuale, quanto da difficoltà oggettive che dipendono da problemi connaturati alla struttura stessa del sistema su cui è imperniato l’insegnamento della storia nel triennio dei Licei.

    Tali difficoltà dipendono in primo luogo dalla sproporzione esistente tra la quantità di argomenti previsti come obbligatori nelle Indicazioni nazionali e il monte ore annuo destinato all’insegnamento della storia; in secondo luogo dalla struttura, a maglie molto strette, dei manuali in uso nei Licei; in terzo luogo, da una prassi didattica ormai consolidata, prevalentemente incardinata sull’uso di quei manuali e da essi fortemente condizionata.

    Il monte ore annuo

    mMnifestazione di operai e studenti nel 19682. Una manifestazione di operai e studenti nel 1968. Quanti studenti italiani a scuola imparano qualcosa sul ’68?

    Come è noto il monte ore annuo di storia negli ultimi tre anni dei Licei, con la sola eccezione del Liceo Classico, è di 66 ore. Prenderò per semplicità come riferimento la situazione dei Licei diversi dal Classico, sia perché hanno – nel loro insieme - un numero molto maggiore di iscritti, sia perché buona parte delle mie riflessioni potranno poi essere facilmente applicate, con piccole modifiche dei parametri quantitativi, anche ai piani di lavoro dei Licei classici. Cominciamo col dire che le 66 ore previste dal piano di studi ministeriale sono puramente teoriche. Come sanno tutti i docenti, molte delle ore ad essi spettanti in base al curricolo nazionale sono di fatto destinate ad altre attività previste dalla normativa scolastica – come le assemblee di classe o di istituto – o deliberate dagli organi collegiali: uscite didattiche, viaggi di istruzione, conferenze, interventi di esperti, ecc. Altre ore vengono sottratte da scioperi, occupazioni, autogestioni. Il monte ore annuo effettivo – nei Licei diversi dal Classico - è dunque alquanto più basso delle 66 ore previste dalle Indicazioni nazionali. In base alla mia personale esperienza ritengo che una stima ragionevole sarebbe di 56 ore.

    Le verifiche

    Occorre anche tenere presente che, di queste 56 ore, una parte consistente viene naturalmente dedicata alle verifiche. Immaginiamo una situazione standard in cui il docente di storia scelga di fare due giri di interrogazioni orali, uno nel primo quadrimestre e uno nel secondo, e due prove scritte di un’ora ciascuna, una per ciascuno dei due periodi dell’anno scolastico. Immaginiamo anche una classe standard di 24 studenti. Se stimiamo che in un’ora quel docente interrogherà in media tre studenti, occorreranno ben 16 ore per effettuare i due giri di interrogazioni orali. Considerando poi che le due prove scritte vanno anche riconsegnate e discusse con gli studenti e questo porta via in genere un’altra ora di lezione per ciascuna prova, si arriverà a un totale di 20 ore necessarie nell’arco dell’anno per effettuare tutte le verifiche. Sottraendo questa cifra al monte ore annuo effettivo di 56 ore, si ottengono 36 ore disponibili per le lezioni vere e proprie.

    Che cosa prescrivono le Indicazioni nazionali per il quinto anno dei Licei

    Immaginiamo ora, per semplicità di analisi, che i contenuti prescritti come irrinunciabili dalle Indicazioni nazionali per il terzo e il quarto anno siano stati effettivamente trattati nei tempi previsti e che quindi l’insegnamento della storia nel quinto anno del Liceo abbia inizio dal principio del ‘9007.

    Qual è l’estensione dei contenuti che devono essere svolti obbligatoriamente in queste 36 ore nel quinto anno?

    Le Indicazioni Nazionali per i Licei ci dicono che “nella costruzione dei percorsi didattici non potranno essere tralasciati i seguenti nuclei tematici”:

    1. l’inizio della società di massa in Occidente;
    2. l’età giolittiana;
    3. la prima guerra mondiale;
    4. la rivoluzione russa e l’URSS da Lenin a Stalin;
    5. la crisi del dopoguerra;
    6. il fascismo;
    7. la crisi del ‘29 e le sue conseguenze negli Stati Uniti e nel mondo;
    8. il nazismo;
    9. la shoah e gli altri genocidi del XX secolo;
    10. la seconda guerra mondiale;
    11. l’Italia dal Fascismo alla Resistenza e le tappe di costruzione della democrazia repubblicana.

    Si aggiunge poi che “il quadro storico del secondo Novecento dovrà costruirsi attorno a tre linee fondamentali”:

    1. dalla “guerra fredda” alle svolte di fine Novecento:
      1. l’ONU,
      2. la questione tedesca,
      3. i due blocchi,
      4. l’età di Kruscev e Kennedy,
      5. il crollo del sistema sovietico,
      6. il processo di formazione dell’Unione Europea,
      7. i processi di globalizzazione,
      8. la rivoluzione informatica,
      9. le nuove conflittualità del mondo globale;
    2. la decolonizzazione e la lotta per lo sviluppo in Asia, Africa e America latina:
      1. la nascita dello stato d’ Israele e la questione palestinese,
      2. il movimento dei non-allineati,
      3. la rinascita della Cina e dell’India come potenze mondiali;
    3. la storia d’Italia nel secondo dopoguerra:
      1. la ricostruzione,
      2. il boom economico,
      3. le riforme degli anni Sessanta e Settanta,
      4. il terrorismo,
      5. Tangentopoli e la crisi del sistema politico all’inizio degli anni ‘90.

    È bene precisare che queste indicazioni valgono per tutti i Licei, indipendentemente dal loro indirizzo. In sintesi, esse prescrivono come obbligatori ben 11 nuclei tematici relativi alla storia della prima metà del Novecento e altri tre percorsi relativi alla seconda metà del secolo scorso, a loro volta articolati in ben 17 argomenti, alcuni dei quali (il crollo del sistema sovietico, il processo di formazione dell’Unione Europea, la globalizzazione, la nascita di Israele e la questione palestinese, Tangentopoli e la crisi del sistema politico italiano negli anni ‘90) sono talmente ampi e complessi da rappresentare in realtà altrettanti nuclei tematici a sé stanti. Accorpando tra loro, per quanto possibile, alcuni degli argomenti relativi al secondo Novecento, se ne potrebbero ricavare non meno di 11 nuclei tematici8, da aggiungere agli undici precedenti. I nuclei tematici sarebbero perciò in totale almeno 229.

    Una evidente sproporzione

    La caduta del muro di Berlino3. La caduta del muro di Berlino (novembre 1989). Il crollo del comunismo nei paesi dell’Europa orientale e nell’Urss è un elemento indispensabile alla comprensione del mondo di oggi.

    Avendo a disposizione per trattarli circa 36 ore di lezione effettive, noi dovremmo trattare ciascuno di essi in un’ora-due ore al massimo.

    Tralascio completamente, per ora, la questione dell’educazione civica perché al momento non è chiaro in quale misura se ne dovranno occupare i docenti di storia. È evidente comunque che l’obbligo di dedicare formalmente alcune ore di storia all’educazione civica (o di cederle ai colleghi di diritto) per un verso non fa che aggravare la situazione che sto illustrando, mentre, per un altro verso, potrebbe facilitare lo studio degli sviluppi storici del mondo contemporaneo. Infatti alcune delle tematiche indicate dalla legge che istituisce “l’insegnamento trasversale dell’educazione civica”, come ad esempio la Costituzione italiana e le istituzioni dello Stato italiano e dell'Unione europea, sono anche conoscenze storiche e concorrono indubbiamente ad una migliore comprensione del mondo contemporaneo.

    I manuali scolastici

    La difficoltà di affrontare in modo adeguato una gamma così ampia di contenuti in poche ore è accentuata inoltre dalle caratteristiche dei manuali in uso nei Licei, che in genere trattano tutti gli argomenti previsti dalle Indicazioni nazionali in modo assai analitico e uniforme. Di conseguenza è assai difficile per il docente trattare un argomento – poniamo la Prima guerra mondiale o il regime fascista – senza assegnare allo studente la lettura e lo studio di un cospicuo numero di pagine10.

    La prassi didattica

    L’attacco alle Torri Gemelle4. L’attacco alle Torri Gemelle (11 settembre 2001). Un evento di fondamentale importanza<br> nella storia degli anni Duemila.

    È comunque una prassi assai diffusa e radicata nei Licei quella di trattare tutti i principali argomenti relativi alla storia della prima metà del ‘900 in modo abbastanza analitico e omogeneo secondo un canone ormai consolidato, non di rado aggiungendo alla tradizionale lezione frontale anche la lettura e l’analisi di alcuni documenti.

    È quindi a causa di questo complesso insieme di fattori che la maggior parte dei docenti dei Licei conclude i programmi del quinto anno arrivando al massimo a trattare alcuni argomenti relativi agli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900.

    Perché non si può omettere di trattare la storia contemporanea

    Questo modo di procedere, sebbene da una parte possa apparire giustificato dall’incoerenza, o dalla scarsa chiarezza (come vedremo più avanti), delle Indicazioni Nazionali, dall’altra parte è, a mio avviso, assai insoddisfacente e criticabile, per molte ragioni, tra le quali la principale è, secondo me, la seguente: se lo studio della storia, a livello scolastico (ma non solo), ha tra le sue finalità principali e non eludibili la comprensione del presente, non è assurdo che a scuola ci si soffermi (relativamente) così a lungo sulla storia antica, medioevale e moderna, e non si tratti per nulla (o quasi per nulla) la storia contemporanea? Dove per storia contemporanea si dovrebbe ormai intendere quella che va dagli anni Sessanta-Settanta fino a oggi, perché non ha alcun senso considerare come nostri contemporanei gli uomini vissuti all’epoca della prima guerra mondiale o durante il ventennio fascista; non tanto per il tempo trascorso, quanto per le enormi, profonde trasformazioni politiche, economiche, sociali e culturali sopravvenute negli ultimi cinquanta-sessant’anni.

    Lo studio della storia veramente contemporanea è poi fondamentale ai fini dell’educazione alla cittadinanza, o educazione civica, come ora dovremmo tornare a chiamarla dopo l’approvazione della legge 20 agosto 2019. Lo studio della storia contemporanea è già, in se stesso, una forma di educazione civica. Inoltre, quale disciplina, se non la storia, può aiutare a inquadrare in una adeguata prospettiva storica temi e problemi dell’educazione civica, come quelli connessi all’intelaiatura costituzionale e legislativa del nostro Stato, dell’Unione Europea e degli organismi internazionali?

    Che cosa dicono effettivamente le Indicazioni Nazionali

    Le Indicazioni Nazionali, a onore del vero, non dicono che si devono trattare in modo approfondito i nuclei tematici sopra elencati, ma solo che non si possono “tralasciare”. Questa espressione ambigua può essere variamente interpretata, ma a me sembra del tutto legittimo interpretarla anche in questo modo: gli studenti alla fine del quinto anno non possono non sapere nulla della prima guerra mondiale, della rivoluzione russa, del fascismo, ecc., mentre potrebbero non conoscere affatto eventi particolari come, ad esempio, la battaglia della Somme, la NEP o il delitto Matteotti. Gli studenti devono sapere qualcosa riguardo ai temi indicati come imprescindibili, ma sta poi alla singola scuola e/o al singolo docente stabilire quale debba essere il grado di approfondimento di ciascun tema e se, oltre ai temi indicati, sia opportuno trattarne anche altri; e, soprattutto, spetta ai docenti fornire agli studenti le griglie e gli strumenti interpretativi che, a partire dagli eventi del passato, aiutino a comprendere il presente, mostrando agli studenti in modo concreto e attraverso esempi significativi in che modo questa operazione può avvenire.

    Un pregiudizio cronologico-storicistico

    Mi pare inoltre che la prassi didattica in uso nei Licei derivi anche da un pregiudizio di origine storicistica, ovvero dalla radicata convinzione che solo dopo aver studiato a fondo una determinata epoca storica si possa comprendere quella successiva. Questa convinzione non è, ovviamente, priva di fondamento. Infatti, non c’è dubbio che uno studente che non sapesse assolutamente nulla del fascismo, della rivoluzione russa e della seconda guerra mondiale, avrebbe difficoltà a comprendere la guerra fredda. Ma può benissimo comprenderla anche se non ha studiato, o non ricorda bene, la legge Acerbo, la notte dei lunghi coltelli o la battaglia delle isole Midway. Inoltre alcune preconoscenze indispensabili allo studio di un determinato argomento possono essere fornite, o richiamate, quando si introduce quell’argomento o mentre lo si svolge.

    Come risolvere il problema: anzitutto dividere in tre periodi gli ultimi cento anni

    Shanghai5. Shanghai, città simbolo del boom economico cinese degli ultimi decenni. La rinascita della Cina e dell’India come potenze mondiali è uno degli argomenti prescritti come obbligatori nelle Indicazioni nazionali per i Licei.

    Fatte queste premesse, a me pare che sia possibile e opportuno dare maggiore spazio alla storia degli ultimi cinquanta - sessant’anni. A mio avviso si potrebbe procedere in questo modo. Occorre anzitutto dividere il monte ore annuo effettivo in modo da destinare più o meno lo stesso numero di ore ai tre principali periodi in cui larga parte della storiografia suddivide la storia del Novecento e del primo ventennio del nostro secolo11. Nelle parole di Cesare Grazioli «nella storia degli ultimi cent’anni ci sono state tre epoche distinte:

    1. il trentennio compreso tra le due guerre mondiali, che fu anche l’epoca del colonialismo, della Grande Depressione e dei totalitarismi;
    2. il trentennio post-bellico, fino ai primi anni ’70: quello della prima guerra fredda, della decolonizzazione e della “bomba demografica”, della “età dell’oro” per l’Occidente e del sistema di Bretton Woods;
    3. l’epoca attuale, cioè il mondo globalizzato, i cui tratti divennero ben visibili negli anni ’80 e alla cui formazione contribuirono fatti e processi diversi, distribuiti tra i primi anni ’70 e i primi ’90: la fine di Bretton Woods e le crisi petrolifere, le rivoluzioni tecnologiche della Silicon Valley, la deregulation, la finanziarizzazione e la delocalizzazione dell’economia, le “Quattro modernizzazioni” di Deng Xiaoping in Cina (e poi quelle indiane) e l’implosione del mondo sovietico, l’Unione europea …».12

    Considerando però che i primi due nuclei concettuali previsti dalle Indicazioni nazionali (l’inizio della società di massa in Occidente; l’età giolittiana) non rientrano nella storia degli ultimi cento anni e che essi posso essere trattati in modo abbastanza rapido all’inizio dell’anno scolastico, il monte ore annuo effettivo potrebbe essere suddiviso in questo modo:

    1. l’inizio della società di massa, l’età giolittiana: 3 ore;
    2. il periodo 1914-45: 11 ore;
    3. il periodo 1945-73: 11 ore;
    4. il periodo 1973-tempo presente: 11 ore.

    In pratica, questo equivale a dire che l’articolazione del piano di lavoro del docente nell’arco dell’anno dovrebbe essere più o meno la seguente:

    • settembre-dicembre: periodo 1900-1945;
    • gennaio-febbraio: periodo 1945-73;
    • marzo-aprile: periodo 1973-tempo presente (dando per scontato che il mese di maggio sarà dedicato prevalentemente alle verifiche di fine anno e al ripasso in vista degli esami).

    Se il piano di lavoro del docente avesse fin dall’inizio questi vincoli, e ad essi ci si attenesse in modo abbastanza rigoroso, vi sarebbero buone probabilità di poter offrire alla propria classe una soddisfacente ed equilibrata visione d’insieme della storia degli ultimi cento anni.

    Due (o tre) strategie possibili

    Naturalmente il problema è come riuscire a trattare in modo adeguato e significativo in poco tempo una mole di contenuti di per se stessi assai ampi, complessi e problematici. A mio avviso le strategie possibili, in linea teorica, sono due (o al massimo tre).

    La prima strategia

    Nulla vieta di svolgere un piano di lavoro, impostato come sopra si è detto, in modo abbastanza tradizionale, con lezioni frontali accompagnate da approfondimenti che gli studenti svolgerebbero in modo autonomo, a casa, utilizzando prevalentemente il libro di testo. Se le pagine del libro di testo sono troppe, è possibile saltarne alcune parti, o meglio ancora ricorrere per alcuni argomenti alle sintesi proposte alla fine di ogni capitolo o unità didattica, oppure a testi sintetici prodotti dal docente stesso. Se a questo lavoro aggiungessimo la lettura di qualche ulteriore testo di approfondimento, alla fine dell’anno scolastico avremmo probabilmente fornito agli studenti le conoscenze indispensabili per affrontare l’esame di Stato e per orientarsi in modo abbastanza adeguato rispetto alle problematiche e alle prospettive del mondo attuale.

    La seconda strategia

    Se però volessimo sviluppare in modo più specifico e più sostanziale le abilità e le competenze legate all’acquisizione e all’utilizzo delle conoscenze storiche, potremmo anche seguire un approccio alternativo. Potremmo infatti, da un lato, trattare in modo estremamente sintetico tutti i nuclei tematici prescritti dalle Indicazioni Nazionali, e dall’altro lato approfondire - per ciascuno dei tre periodi principali sopra indicati - due o tre argomenti al massimo. Andremmo quindi a trattare in modo approfondito da sei a nove argomenti l’anno. Gli approfondimenti potrebbero comprendere attività laboratoriali, studio di fonti e documenti storici, visione di documentari, discussioni su problemi storiografici o legati all’attualità. Nei limiti del possibile, questi moduli di approfondimento dovrebbero essere organizzati in modo da dare spazio a ricerche autonome degli studenti, da svolgere sul libro di testo o eventualmente su altri materiali indicati o predisposti dal docente.

    Lo scopo di questo tipo di attività sarebbe naturalmente quello di indurre gli studenti a fare qualcosa di diverso dalla pura e semplice memorizzazione ed esposizione orale o scritta dei contenuti proposti dal libro di testo o dal docente. Gli studenti dovrebbero essere sollecitati a ragionare in modo autonomo sulle cose che leggono, creando collegamenti tra i fatti del passato e i problemi o i dibattiti attuali. Dovrebbero insomma essere educati a “pensare storicamente”.

    Ogni docente potrebbe scegliere e impostare i propri approfondimenti in totale autonomia, oppure in collaborazione col proprio Consiglio di classe, o con altri colleghi della stessa materia.

    Una strategia intermedia

    Nulla vieta naturalmente di seguire una strada intermedia tra le due che ho proposto come alternative, ad esempio inserendo una sola attività di approfondimento in ciascuno dei tre moduli di undici ore. Qualunque altra combinazione potrebbe andar bene se pensata dal docente all’interno di un piano di lavoro dotato di organicità e coerenza.

    Conclusione

    Il modello che propongo è estremamente aperto e flessibile. L’unico suo punto fermo è la divisione in tre porzioni uguali della parte del monte ore annuo dedicata agli ultimi cento anni, in modo tale che sia trattata adeguatamente anche la storia dell’ultima parte del Novecento e degli inizi del nostro secolo.

    Il principale ostacolo alla realizzazione di questo approccio sta nella difficoltà di progettare in anticipo un piano di lavoro alternativo a quello tradizionale e nella necessità di reperire o produrre materiali didattici diversi da quelli proposti dal libro di testo (specialmente se si adotta la seconda strategia o quella intermedia). Oltre alla collaborazione tra docenti, le suggestioni, i materiali, i percorsi didattici offerti dalle moltissime pubblicazioni, riviste e siti di didattica della storia fornirebbero senz’altro un valido supporto: a cominciare naturalmente dal contributo offerto da “Historia ludens” e dalla rete di scopo LabSto21. E non trascurerei il fatto che, come tutte le ricerche dimostrano, la storia contemporanea suscita di per se stessa maggiore interesse – e quindi anche maggiore collaborazione e partecipazione - da parte degli studenti. Varrebbe la pena almeno di provare …

    NOTE

    1. Infatti, mentre le Indicazioni Nazionali riguardanti gli Obiettivi Specifici di Apprendimento per i Licei indicano, e scandiscono cronologicamente, una serie di eventi e argomenti canonici della storia del Novecento da trattare obbligatoriamente, nulla di simile avviene nelle Linee Guida per il passaggio al nuovo ordinamento degli Istituti Tecnici e Professionali, nelle quali si invitano i docenti a trattare la storia del Novecento con un approccio tematico del tutto svincolato dalla successione cronologica dei principali fatti storici (si vedano gli allegati al testo delle due Direttive emanate dal MIUR in data 16 gennaio 2012, rispettivamente per gli Istituti Tecnici e per gli Istituti Professionali).

    2. Ho esaminato i Documenti di presentazione delle classi quinte alle Commissioni d’esame per l’anno scolastico 2018-19 di sei diversi Licei romani per un totale di 55 classi, appartenenti a diversi indirizzi (classico, scientifico, linguistico, scienze umane, musicale).

    3. Per non complicare eccessivamente la presentazione dei dati, ho inserito in questa colonna anche due classi che si sono fermate al ventennio fascista, senza trattare la seconda guerra mondiale.

    4. Fino alla dissoluzione dell’Urss nel 1991.

    5. Dal 1992 in avanti.

    6. I dati della Tabella 2 si riferiscono agli argomenti trattati, in sequenza cronologica, nei programmi di storia. Non sono stati presi in considerazione gli argomenti trattati sotto la voce “Cittadinanza e costituzione”, sia perché facenti parte di un percorso che si aggiunge e si affianca a quello più propriamente storico e non è sempre affidato al docente di storia, sia perché in ogni caso tali argomenti non si possono agevolmente inserire nello schema proposto nella Tabella 2. È evidente infatti che l’aver trattato, ad esempio, le istituzioni dell’Unione Europea nell’ambito di “Cittadinanza e costituzione” non significa necessariamente che la classe è arrivata col suo programma di storia alla fine del ‘900.

    7. In realtà questa situazione ottimale, come abbiamo già visto, in parecchi casi non si verifica. Nel campione da me esaminato, oltre la metà delle classi (33 su 55) sono partite dalla prima o dalla seconda metà dell’800 piuttosto che dagli inizi del ‘900 (vedi la Tabella 1).

    8. Si potrebbero infatti accorpare tra loro gli argomenti alle lettere a-b, c-d, h-i del primo percorso, gli argomenti b-c del secondo percorso, e gli argomenti a-b, c-d del terzo percorso.

    9. Anzi probabilmente sarebbero anche di più, perché non si capisce come si possa affrontare un tema complesso e importante come quello della decolonizzazione facendo riferimento soltanto alla nascita di Israele, alla questione palestinese e al movimento dei non-allineati, senza trattare l’argomento anche in termini generali e senza menzionare affatto vicende come la conquista dell’indipendenza da parte dell’India, del Vietnam, o dell’Algeria. La stessa cosa si potrebbe dire riguardo alla “lotta per lo sviluppo in Asia, Africa e America latina” che non riguarda soltanto l’India e la Cina.

    10. Sui manuali recenti si vedano gli articoli ad hoc pubblicati in Pensare storicamente. Didattica, laboratori e formazione, a cura di Salvatore Adorno, Luigi Ambrosi e Margherita Angelini, Franco Angeli, 2020.

    11 Sono molti ormai gli studi storici che insistono sull’importanza degli anni Settanta-Ottanta del Novecento come momento di svolta fondamentale nella storia contemporanea. Oltre che nel Secolo breve di Eric Hobsbawm, questa linea di pensiero è presente anche in Tommaso Detti-Giovanni Gozzini, L’età del disordine. Storia del mondo attuale. 1968-2017, Bari-Roma, Laterza, 2018; Fulvio Cammarano – Giulia Guazzaloca – Maria Serena Piretti, Storia contemporanea. Dal XIX al XXI secolo, Milano, Mondadori, 2015; Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani, 2014 (ed. orig.: Le capital au XXIesiècle, Editions du Seuil, 2013).

     

    12. Questa suddivisione è abbastanza simile a quella proposta recentemente da Antonio Brusa, che però è inserita in una più generale rimodulazione del curricolo delle scuole superiori e prevede un quarto modulo dedicato al tempo presente.

    Fonti fotografie

    Foto 1   Foto 2   Foto 3   Foto 4   Foto 5

  • L’Identità colpisce ancora. Un libro sul curricolo scolastico di Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla

    di Luigi Cajani

     

    Insegnamento identitario e insegnamento scientifico della storia

    Una delle questioni fondamentali dell’insegnamento della storia è quella delle sue finalità, fra obiettivi identitari e obiettivi scientifici, due approcci contrastanti che si concretizzano in due modelli di curricolo. Nel primo modello la selezione e la presentazione dei contenuti è finalizzata alla formazione di una identità collettiva nazionale, compito questo che la storia ha avuto quando a metà dell’Ottocento venne inserita stabilmente nel canone scolastico negli Stati europei, e poi ovunque nel mondo; nel secondo modello, invece, che ha cominciato a diffondersi dopo la Seconda guerra mondiale partendo dall’ideale antinazionalistico e pacifista promosso fra gli altri dall’UNESCO, l’obiettivo è la formazione del pensiero critico, basato sull’epistemologia della storia, sull’approccio multiprospettico e sulle più recenti acquisizioni della ricerca, lasciando lo sviluppo dell’identità alla sua dimensione individuale. Uno sguardo alla situazione mondiale attuale mostra una prevalenza del modello nazionale identitario, soprattutto perché è considerato un instrumentum regni per mettere in atto politiche di controllo sociale.

     

    copertinaFig.1: Ernesto Galli della Loggia, Loredana Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Brescia, Morcelliana Scholé, 2023, pp. 117, 14 euro. La battaglia dei curricoli

    Tale questione ha attraversato negli anni scorsi la stesura dei vari programmi di storia italiani, influenzati sia dallo stato della storiografia italiana, poco impegnata nella ricerca in storia mondiale, sia da scelte ideologiche che hanno caratterizzato le alterne vicende politiche. La Commissione De Mauro stilò nel 2001 un curricolo integrato di storia, geografia e scienze sociali per la scuola di base (cioè, l’insieme delle precedenti scuola elementare e media), che superava i limiti del tradizionale orizzonte eurocentrico ampliandolo alla dimensione mondiale, orizzonte ormai consolidato nella ricerca internazionale. La motivazione degli autori di quel curricolo era appunto puramente scientifica, ma la loro scelta fu oggetto di forti critiche, sia politiche che accademiche, queste ultime trasversali alla destra e alla sinistra, da parte di chi riteneva che insegnando anche la storia mondiale si sarebbe pregiudicata la valorizzazione dell’identità culturale italiana ed europea1.

    La riforma generale della scuola, di cui quel curricolo faceva parte, non fece in tempo ad entrare in vigore, perché venne subito cancellata dal governo Berlusconi, costituito dopo la vittoria della coalizione di centro-destra nelle elezioni politiche di quello stesso anno. Il nuovo curricolo per lo stesso ordine scolastico, promulgato dal ministro Moratti nel 2003, abbandonava la dimensione mondiale e si ispirava dichiaratamente a una visione dell’identità spirituale e materiale dell’Italia e dell’Europa basata sulla tradizione classica e su quella giudaico-cristiana.

    Nel 2006 fu la coalizione di centro-sinistra a vincere le elezioni politiche, e il ministro Fioroni abolì il curricolo Moratti per sostituirlo con uno dall’impostazione del tutto diversa, che riprendeva le motivazioni scientifiche del curricolo De Mauro ma affrontava anche la realtà del contesto multiculturale italiano e dei conflitti identitari ad esso collegati. Il nuovo curricolo affermava infatti che non era più il tempo di dare alla scuola il compito di formare cittadini nazionali con una cultura omogenea, ma che bisognava invece fornire agli studenti gli strumenti della scienza storica per valorizzare le diversità di ognuno, e contrastare in tal modo le rivendicazioni identitarie. La dimensione italiana ed europea era centrale, ma veniva di nuovo inserita nel contesto mondiale.

    Nel 2008 la coalizione di centro-destra vinse le elezioni. Il ministro Gelmini si occupò dei nuovi curricoli per le scuole superiori, cui diede un taglio nettamente eurocentrico, mentre non toccò quello per il primo ciclo, che passò al ministro Profumo, membro di un governo tecnico insediatosi nel 2011. Questi revisionò il curricolo Fioroni, mantenendone l’impianto ma aggiungendovi una nota identitaria in una premessa che esaltava il patrimonio culturale italiano e il significato particolare che la sua ricchezza dà all’insegnamento della storia in Italia. E questo è il curricolo attualmente in vigore2.

     

    Identità e appartenenza per formare nuovi italiani

    Il volumetto scritto da Ernesto Galli della Loggia e da Loredana Perla si inserisce nel dibattito sul senso dell’insegnamento della storia, schierandosi, come annuncia il titolo, su posizioni identitarie. I primi due capitoli sono opera di Galli della Loggia, il quale, dopo aver fatto un’ampia discussione del concetto di identità, presenta il testo di un vero e proprio curriculo di storia e geografia per la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado. Con esso l’autore riprende e porta a compimento quanto aveva iniziato alcuni anni fa, nel 2019, col volume L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la scuola (Venezia, Marsilio), nel quale aveva attaccato aspramente il curricolo Profumo, accusandolo di imporre “un’enciclopedica visione mondiale intrisa di multiculturalismo, espressamente mutilata di qualsiasi funzione identitaria”.

    In questo nuovo testo Galli della Loggia difende il concetto di identità collettiva dai suoi detrattori, che la considerano un concetto reazionario, e afferma invece che essa è il frutto in divenire di una storia e insieme di una geografia che portano al sedimentarsi della tradizione e allo sviluppo di caratteristiche uniche di una certa comunità. Questa identità – a suo avviso – traccia una linea di distinzione, ma non di esclusione, rispetto all’alterità. La scuola ha il compito primario di sviluppare questo senso di appartenenza e di identità, il che significa in particolare, in una fase storica caratterizzata dall’immigrazione, creare i nuovi italiani.

    Galli della Loggia si trova qui di fronte a una spinosa contraddizione: “Non bisogna nascondersi – egli scrive infatti – … un problema: e cioè se sia lecita l’acculturazione forzata all’«italianità» che in qualche modo verrebbe così imposta a giovani provenienti da culture diverse, anzi per lo più diversissime, da quella italiana. […] Noi oggi … siamo convinti che ogni persona abbia una sorta di diritto naturale a mantenere integri la propria identità antropologica, la propria storia, i propri costumi, la propria religione, e ci sembra che ogni aspetto della nostra civiltà il quale tenda a mettere in discussione queste cose costituisca un’insopportabile manifestazione di arroganza eurocentrica” (pp. 42-43). A queste considerazioni Galli della Loggia risponde però con la seguente obiezione: “se la scuola deve perseguire l’obiettivo dell’inclusione, in che cosa mai dovranno essere inclusi i giovani immigrati o figli di immigrati se non in un ambiente italiano e per ciò stesso necessariamente in buona misura italocentrico?” (pp. 44).

     

    La critica al curricolo attuale

    Qual è allora la via che indica Galli della Loggia per la creazione di un’identità collettiva che faccia i conti con un’immigrazione multiculturale? Non certo la scelta di “spogliarsi volontariamente di un ovvio nesso forte con la specificità del proprio Paese per abbracciare il mondo” (p. 44), come fa il curricolo attuale. A cui Galli della Loggia rimprovera anche un’errata impostazione didattica, perché obbliga bambini di sei-sette anni, che hanno ancora una confusa nozione del tempo, ad affrontare “il processo di ominazione” (che però, contrariamente a quanto lui pensa, si studia non in prima ma in terza elementare, cioè a otto-nove anni), e passa poi ai Sumeri, agli Assiri, ai Micenei e così via, sicché i bambini conoscono popoli lontanissimi nel tempo e nello spazio, ma non l’Italia. Egualmente critico è Galli della Loggia nei confronti dei “quadri di civiltà” e dei “temi che riguardano l’insieme dei problemi della vita umana sul pianeta” (p. 47), perché con essi il curricolo cerca di far entrare in testa a dei bambini nozioni e concetti del tutto astratti, mentre bisogna partire da ciò che è loro più vicino nel tempo e nello spazio, e quindi più comprensibile. Il metodo didattico, insiste poi Galli della Loggia, deve essere quello narrativo. L’insegnamento della storia, infatti, non deve ridursi a un’insieme di informazioni tratte dall’economia e dalle scienze sociali, ma deve basarsi sulla narrazione, perché essa è il tratto “originale e originario” (p. 49) della storia. Inoltre, la narrazione “permette a chi insegna di stabilire un contatto vitale e fecondo con chi apprende e quindi fargli accogliere con una disposizione favorevole ciò che ascolta” (p. 50): parole in cui risuona l’eco della visione gentiliana dell’insegnamento quale rapporto diretto fra docente e discente, arte e non tecnica.

     

    Epica classica, romanzi risorgimentali e il Canto degli Italiani per avviare un curricolo alternativo

    Vediamo adesso come queste idee si concretizzano nel curricolo di storia e geografia, che rappresenta la parte centrale e caratterizzante di questo volumetto (pp. 52-54).

    Nella prima classe per quanto riguarda la storia è previsto il “racconto a mo’ di favola dell’Iliade, dell’Odissea e dell’Eneide, con lettura di brevi passi e una generica contestualizzazione”, mentre per la geografia si parte dal luogo dove si trova la scuola. In seconda si passa dalla mitologia classica alla storia: “Come l’Italia è diventata un solo Paese. Storia romanzata ma non troppo del Risorgimento italiano”, attraverso letture della memorialistica sulle Cinque Giornate di Milano, sulla Repubblica Romana e sulla Spedizione dei Mille, nonché l’apprendimento a memoria dell’Inno di Mameli, ovviamente accompagnato dalla storia e dalla spiegazione del testo. Per la geografia è prevista l’illustrazione da parte degli alunni della loro esperienza dell’Italia, in particolare attraverso i viaggi, e un primo approccio all’educazione civica, con il concetto di elezione e di “chi comanda nel mio Comune”.

     

    RinaudoFig.2: il testo di Costanzo Rinaudo sugli eroi e i grandi uomini della storia italiana Ritorno all'Ottocento

    Ecco così fissati nei primi due anni gli elementi fondamentali dell’identità italiana: l’epica classica e il Risorgimento, che è posto all’inizio dell’esperienza che gli alunni fanno della storia. Una scelta simile, al di fuori del criterio cronologico, la troviamo nei programmi delle elementari del 1888 e in quelli del 1894, quando peraltro il Risorgimento veniva studiato non in seconda ma in terza elementare. La scelta di questa collocazione era legata al fatto che con il superamento dell’esame di terza elementare si accedeva al diritto di voto (naturalmente allora molto limitato), sicché era logico che si facesse studiare prima di tutto la recente vicenda politica dell’Italia, sostanzialmente come forma di educazione civica. Lo studio in terza elementare della storia italiana dal 1848 a quelli che erano di volta in volta i “giorni nostri” venne mantenuto nei successivi programmi fino a quelli del 1934, e venne abbandonato solo dopo la fine del Fascismo coi programmi del 1945, quando in terza elementare venne introdotto l’approccio cronologico a partire dall’antichità, approccio che è stato mantenuto fino ad oggi. Questo ritorno al passato proposto da Galli della Loggia serve dunque a enfatizzare il valore identitario del Risorgimento.

     

    Un normale curricolo cronologico

    Il curricolo di storia vero e proprio inizia in terza elementare e prosegue seguendo il normale ordine cronologico. Si va così dalle “civiltà mediterranee dell’antichità” alla Grecia fino alla conquista dell’Italia da parte di Roma, mentre per la geografia si parla della forma dell’Italia e di informazioni sull’Europa. Il quarto e il quinto anno sono interamente dedicati alla storia romana e alla nascita del Cristianesimo: questi temi hanno così uno spazio molto maggiore di quello che hanno nella pratica didattica, e dunque nella visione di Galli della Loggia assumono un ruolo centrale nella costruzione identitaria.

    Accanto ai vari temi di taglio storiografico, ad esempio “come a Roma si decideva e chi comandava”, o “come si viveva e si combatteva”, uno è esplicitamente identitario: “che cosa ci hanno lasciato i Romani”. Ci sono poi “letture guidate” di opere di Cesare e Catullo, e del rescritto di Adriano (quello che poneva dei limiti garantisti alla repressione dei cristiani). Fra i temi della geografia compaiono proprio i succitati “processi di ominazione” (evidentemente per Galli della Loggia in questo momento l’età è quella giusta) e i problemi legati alla “sopravvivenza dell’uomo, delle specie animali e dell’ambiente naturale”.

    Nei successivi tre anni, quelli della Scuola secondaria di primo grado, il curricolo di storia proposto da Galli della Loggia procede sostanzialmente con la stessa scansione cronologica attuale, lungo un elenco che inizia con il “Medio Evo europeo tra Chiesa e Impero”, passa attraverso varie tappe della storia moderna, fra cui la Riforma protestante, l’Assolutismo e la Rivoluzione francese, e della storia contemporanea, fra cui “le due guerre mondiali” e la “dislocazione del potere mondiale verso l’Asia”, per concludersi con la storia italiana: “l’esperienza politica dell’Italia dal fascismo alla Repubblica fino all’inchiesta di Mani Pulite”. Si tratta dunque di un normale curricolo eurocentrico, senza il chiaro carattere identitario che ci si aspetterebbe, date le premesse. Anche il curricolo di geografia segue uno schema consolidato, passando di anno in anno dall’Italia all’Europa e infine al mondo.

     

    Identità contro globalismo e multiculturalismo

    I due capitoli seguenti sono opera di Loredana Perla. Anche lei si confronta con le sfide poste dalla trasformazione multiculturale della società italiana, e attacca la politica ministeriale, che, rinunciando all’identità italiana “in omaggio alle letture globaliste e multiculturali, ha creato un vulnus psicopedagogico nella formazione delle nuove generazioni” (p. 59). E anche lei critica sul piano didattico le attuali Indicazioni nazionali ministeriali per il curricolo, perché impongono un orizzonte astratto e obiettivi irrealizzabili: “collocare il punto di vista dei bambini in una prospettiva mondiale pensando che questa li aiuti a costruire relazioni col «locale» è, didatticamente, un controsenso” (p. 65).

     

    EcoFig.3: L’Elogio di Franti nella raccolta di saggi Diario Minimo, di Umberto EcoCuore e Pinocchio: due libri per l’educazione nazionale odierna

    Come si insegna, dunque, l’identità italiana? L’autrice suggerisce una serie di esempi: raccogliendo documenti e testimonianze della propria famiglia (ma che fare se questa non è di origine italiana?); studiando le strade consolari romane (di nuovo la centralità di Roma); osservando il paesaggio, la fauna e la flora; e coltivando il patriottismo costituzionale.

    Ma il centro, e la specificità, della proposta di Perla è rappresentato dall’inserimento nell’insegnamento di due libri un tempo famosi, Cuore di Edmondo de Amicis e Pinocchio di Carlo Collodi, sui quali lei si sofferma per molte pagine. Cuore è oggi dimenticato, stroncato dai sessantottini e in particolare da Umberto Eco con il suo Elogio di Franti, i quali in tal modo - secondo Perla - hanno contribuito al crollo del rango sociale della scuola e degli insegnanti. Lo specifico valore educativo di Cuore – sostiene Perla – sta nel fatto che “crollate tutte le ideologie i suoi contenuti possono aiutare a riscoprire i valori essenziali di cittadinanza (lealtà, generosità, responsabilità) e testimoniarli con buoni esempi agli occhi di chi nasce oggi” (p. 98). Inoltre, Cuore è un “modello di educazione nazionale di rara chiarezza” (p. 100), sia per la sua attenzione al patrimonio, sia per il suo valore etico e civico, perché ribalta l’immagine dell’italiano come “geneticamente polemico, lagnoso e pusillanime” (p. 101).

    Pinocchio è agli occhi dell’autrice “il libro per antonomasia dell’identità italiana” (p. 103), metafora della crescita civile dell’Italia unita, che iniziava quando il libro fu scritto e che oggi non si è conclusa positivamente: “Oggi l’Italia è un paese ‘vecchio’ – afferma Perla – cresciuto male, bisognoso di riscoprire le ragioni della sua storia” (pp. 103-104). Ai giovani di oggi, che hanno “bisogno di autorità e di eccellenza” (p. 109), Pinocchio propone il recupero del rapporto intergenerazionale, oggi in crisi: “Non si diventa adulti «uccidendo i padri» ma «salvandoli», salvando cioè il rapporto intergenerazionale, il passato, la storia, la tradizione” (p. 107). Ma – aggiunge l’autrice avviandosi alla conclusione – rileggere Pinocchio non serve solo ai giovani, bensì anche ai loro genitori e agli insegnanti, per “avviare quel percorso urgente di revisione di alcuni principi ereditati da una certa ideologia degli anni ’60 le cui ricadute in campo educativo … hanno fortemente contribuito a logorare il nesso che nella storia dell’educazione ha sintonizzato il «principio del piacere» col «principio di realtà», sortendo quello straordinario effetto di rottura fra istanze un tempo dialettiche: fra dovere e gioco, fra libertà e autorità, fra regola e spontaneità, fra estetica ed etica” (pp. 111-112). Il suo obiettivo non sono qui tanto gli immigrati, quanto gli italiani da varie generazioni.

    Perla completa così con una proposta letteraria quella fatta da Galli della Loggia, convergendo sullo stesso obiettivo civico ed etico: l’identità italiana si deve basare sulla conoscenza di alcuni eventi e personaggi storici, dell’ambiente e del patrimonio, e insieme su un rinnovato rapporto fra giovani e adulti basato sul rispetto dell’autorità.

     

    Grossi MercantiFig.4: Il Risorgimento narrato ai fanciulli Sull'originalità e su alcune carenze

    Questa proposta di Galli della Loggia e Perla mostra una serie di carenze e un aspetto originale.

    Le carenze riguardano il curricolo di storia e geografia. Solo nella scuola primaria la storia ha un chiaro carattere identitario, con l’epica classica e i racconti risorgimentali dei primi due anni e soprattutto con la grande presenza di Roma e della nascita del cristianesimo nei tre anni successivi. Ma poi il curricolo perde questo carattere, presentandosi come un elenco di nozioni niente affatto originale e privo di indicazioni su come valorizzare eventi e personaggi, nonché elementi del territorio e del patrimonio, in modo da costruire l’inconfondibile discorso dell’identità italiana, distinguendola fra l’altro da quella di altri Stati europei. Un curricolo di insegnamento, infatti, non è fatto solo di elenchi di nozioni, ma anche di irrinunciabili indicazioni metodologiche e culturali che ne definiscono il senso e la pratica. E per tornare alla questione attuale, quella della nazionalizzazione dei nuovi italiani, sarebbe stato necessario che Galli della Loggia chiarisse in che modo l’auspicata inclusione può essere diversa dall’ormai inaccettabile acculturazione, e su questo chiarimento formulare una proposta didattica concreta. Questa contraddizione invece rimane qui irrisolta.

    L’aspetto originale è rappresentato dal ritorno a Cuore e a Pinocchio, proposto da Perla. Ma l’ampia argomentazione con cui lei sostiene questa sua proposta non spiega la cosa essenziale, e cioè in che modo la lettura di questi due classici possa realizzare il vasto programma di contrastare gli esiti della cultura sessantottina che, a giudizio dell’autrice, dominano fra giovani e adulti, e tornare così al buon tempo antico.

    Il dibattito sugli obiettivi dell’insegnamento della storia è sempre più attuale e vivace, e si sta ripresentando con forza anche in Europa occidentale, stimolato in particolare dalle sfide poste dall’immigrazione extraeuropea, dando luogo a proposte complesse e approfondite su entrambi i fronti. Con tutti i suoi limiti, quest’opera dà comunque un’idea di alcune delle proposte che circolano in Italia sul fronte identitario, che possono essere messe a confronto con le proposte che vengono da chi sostiene invece un approccio scientifico all’insegnamento della storia, senza torsioni politiche e identitarie3.

     


    Note

    Luigi Cajani, La storia mondiale e la scuola italiana. Cronaca della Commissione De Mauro, in Antonio Brusa, Luigi Cajani (a cura di), La storia è di tutti, Roma, Carocci, 2008, pp. 248-285 https://www.carocci.it/prodotto/la-storia-e-di-tutti.

    2 Luigi Cajani, I recenti programmi di storia per la scuola italiana, in “Laboratorio dell’ISPF”, XI, 2014, pp. 2-25 http://www.ispf-lab.cnr.it/2014_205.pdf.

    3 Segnalo solo, fra i molti testi, due opere di Lando Landi: Insegnare la storia ai bambini, Roma, Carocci, 2006, e (a cura di) Di chi è questa storia? Proposte didattiche per le classi multiculturali, Roma, Carocci Faber, 2010.

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