Con una rapida storia delle migrazioni
Autori: Antonio Brusa e Cesare Grazioli
Gli stereotipi sull’immigrazione che tutti abbiamo in mente sono quegli etnici e quegli sugli stranieri. Ne conosciamo tanti, ripetuti a scuola e fuori. Non mancano gli studi sulla loro diffusione, sui modi con cui si annidano ovunque, anche in notizie di cronaca apparentemente neutrali, e sulla maniera migliore per metterli in discussione. Molti insegnanti sensibili posseggono, nel loro bagaglio professionale, un buon numero di strategie pedagogiche, più o meno efficaci. In questo scritto ci chiediamo in che modo la loro efficacia possa essere accresciuta.
Oltre a questi “stereotipi del quotidiano”, a nostro avviso occorre tenere conto anche di stereotipi di un altro genere, che altrove abbiamo definito “colti”. Si tratta di strutture cognitive meno vistose e apparentemente inoffensive, perché sembrano logiche, perfettamente credibili, a volte hanno un aspetto scientifico, sembrano molto vicine alle scienze demografiche (le discipline che si occupano del popolamento della terra), ma hanno anche qualche sembianza sociologica, di economia e politica internazionale ecc.
Con tali costrutti cognitivi, le strategie tipiche dell’intercultura non funzionano tanto bene. Per metterli in discussione, servono i ragionamenti freddi delle scienze sociali, in particolare della demografia: dati, modelli, fonti. Abbiamo raccolto e presentato i più importanti e diffusi, e costruito soluzioni didattiche per affrontarli in classe, in un contributo che apparirà prossimamente su Novecento.org (nel dossier sul Mediterraneo, frutto del lavoro della Summer School dell’Insmli, di Venezia 2014). Qui li richiamiamo brevemente. Poi ci soffermeremo sul primo, perché – più degli altri – coinvolge il ragionamento storico e investe l’intero curricolo di storia.
Indice
Parte prima: I cinque stereotipi di base
Parte seconda: L’emigrazione nel curricolo di storia
PARTE PRIMA
I cinque stereotipi di base
1. “Le migrazioni sono un fenomeno anomalo, la regola è che ognuno sta a casa propria”
2. “Per evitare l’immigrazione occorre favorire lo sviluppo dei paesi poveri”
3. “Qui in Italia si fanno pochi figli, mentre gli immigrati vengono da paesi dove ne fanno tanti, in poche generazioni saremo tutti neri, musulmani ecc.”
4. “L’immigrazione toglie il lavoro agli autoctoni”
5. “Siamo già in troppi: non c’è spazio per accogliere altra immigrazione, anzi, sarebbe meglio che la popolazione calasse”
Il modello “ingenuo” dell’emigrazione
In questo modello mettiamo in evidenza i legami fra gli stereotipi 2-4 (perdonerete se non vengono usati i meravigliosi programmi per disegnare mappe concettuali). Il modello qui sotto illustrato contiene sia la diagnosi, sia la soluzione del fenomeno migratorio. Spiega che questo nasce da un disagio in una regione del mondo e crea disagio in un’altra parte del mondo. Ci suggerisce che, per evitare una tale “diffusione del disagio”, occorre intervenire nella regione di partenza. Tutto si connette logicamente. Ogni parte dello schema ci appare confermata dall’osservazione quotidiana. Questo modello sembra condensare in modo coerente il sapere diffuso sul fenomeno migratorio, e fonda le discussioni pubbliche che attorno a questo si fanno.
I dati di fatto sui quali costruire un modello corretto
Come combattere questo modello? Poiché si tratta di una struttura cognitiva, è inutile, o dannoso affrontarlo solo in chiave di “attualità”, o solo di “diritti umani” e “diritti di cittadinanza”. Occorre adottare un punto di vista congruo per capire il fenomeno. Visto che si tratta (prevalentemente) di una questione di popolamento, la disciplina che ci aiuta maggiormente è la demografia storica. Infatti, elementi fattuali che questa ci fornisce sono sorprendenti per il senso comune. Li si può riassumere in questi punti:
a. Non è vero che la migrazione è causata sempre da crisi economiche o politiche. Certamente, se c’è una guerra in corso, la gente scappa. Ma nella grande maggioranza dei casi, la migrazione si innesca quando la società di partenza inizia a crescere, demograficamente ma soprattutto economicamente (spesso le due variabili sono interconnesse). Un esempio dai nostri manuali: la grande migrazione europea è strettamente connessa con le fasi iniziali del decollo industriale; quella italiana, in particolare, con la seconda industrializzazione.
b. Il paradosso, dunque, è che la promozione dello sviluppo economico nelle regioni più povere avrebbe come effetto possibile quello di innescare (o incrementare) il flusso emigratorio. Se non si innesca una crescita, l’abitante di una regione povera “si adatta” al regime di povertà, che tende a vedere come “eterno”, o non ha le risorse per emigrare, o perfino per pensarlo possibile.
c. Infatti, non è tanto il “bisogno” ciò che motiva a partire, quanto il “desiderio” di migliorare la propria situazione, di raggiungere un livello di benessere. Spesso, a partire, sono persone motivate, attive, intraprendenti, non i “disperati”, adattati alla povertà originaria.
d. Il migrante si “adatta” alle situazioni di arrivo. Ne adotta, per esempio, il regime demografico, a partire dalla seconda generazione (e, già appena giunto, dimezza la sua fertilità rispetto alla regione originaria).
e. Una volta giunto a destinazione, il migrante raramente contende al locale i posti di lavoro “pregiati”. Il più delle volte occupa quelli che i locali tendono comunque a tralasciare.
f. Le situazioni di arrivo, dal canto loro, sono diverse, secondo gli spazi e secondo i tempi. La situazione di quello che definiamo “l’Occidente ” (Europa e Usa), ad esempio, è caratterizzata da un regime demografico che conduce ad un invecchiamento progressivo della popolazione.
Un modello adeguato del fenomeno migratorio
Connettendo questi elementi, si ottiene un modello alquanto diverso da quello che abbiamo visto sopra.
Questo modello ci impone di spostare lo sguardo dalla regione di partenza verso quella di arrivo. E’ questa che è in crisi. Per quanto ci riguarda, basti un dato: fra una quindicina di anni la metà della popolazione italiana sarà oltre i 50 anni. Significa che – anche ipotizzando la piena occupazione delle fasce di età idonee al lavoro –diventeranno definitivamente impossibili cose che oggi sembrano a rischio (o, come molti giustamente temono, fortemente a rischio). Da una parte, con una popolazione lavorativa così avanti negli anni, sarà impossibile mantenersi competitivi con le altre economie; dall’altra, non sarà nemmeno pensabile una battaglia per salvare qualcosa del finanziamento del welfare attuale, dalla salute alle pensioni. Se tutto ciò accadràfra quindici anni, è perché abbiamo già postole basi di una situazione irrecuperabile, con una politica dissennata di contenimento della migrazione, attuata negli ultimi due decenni. Infatti, se anche ci si desse da fare per riavviare i tassi di natalità, non si farebbe che peggiorare la situazione futura, con una marea di quindicenni non ancora in età lavorativa. Il modello ci dice che OGGI abbiamo bisogno di un incremento demografico: e questo anche in presenza dei nostri alti tassi di disoccupazione.
In conclusione, il modello “ingenuo” allontana la nostra attenzione dal vero problema, che viene, invece, individuato dal modello demografico. Se dunque “gli immigrati sono necessari”, la questione da affrontare, diventa quella della convivenza fra genti di cultura diversa. Ciò che dovrebbe preoccuparci è l’alternativa fra la scelta di favorire la convivenza, lasciandoci sperare in un recupero del nostro deficit demografico; o di ostacolarla, restringendo la possibilità di attuali e futuri benefici.Subito dopo, dovremmo seriamente pensare all’elaborazione (certo difficile e delicata) di una strategia politica efficiente per realizzarla.
PARTE SECONDA
L’emigrazione nel curricolo di storia
Gli stereotipi che abbiamo preso in considerazione (2-4), vanno a suffragare il primo stereotipo, secondo il quale“l’emigrazione è un fatto anomalo”. Per smontarlo, non basta la critica del modello migratorio diffuso. Dobbiamo mettere la situazione attuale in prospettiva storica. L’urgenza del presente ci spinge a credere che viviamo un momento eccezionale, nel quale popolazioni tranquille sono assediate da gente che viene da ogni parte del mondo. La storia ci permette di confrontare passato e presente e di verificare questa nostra sensazione. Dal punto di vista della programmazione, ciò significa che sarà piuttosto dispendioso affrontare questo stereotipo nel momento dell’emergenza. La strategia più idonea, invece, potrebbe essere quella di preparare “a freddo”, magari in periodi lontani nel tempo, gli argomenti che potremo richiamare al momento buono.
Non propongo una “storia dell’emigrazione” da svolgere in classe. Voglio mostrare, invece, come la migrazione faccia parte di argomenti e problemi che già svolgiamo. E’ un elemento già presente, che però non vediamo e non valorizziamo. E’ un punto di vista che possiamo attivare, a partire dal quale si possono raccontare fatti e problemi che fanno parte del curricolo ordinario. Ne elenco quelli che mi sembrano più importanti, periodo per periodo, in modo che l’insegnante, possa scegliere quelli che ritiene più utili.
Preistoria. La fondazione
La diffusione dell’uomo sul pianeta è parte integrante del processo di ominazione
Lo studio della preistoria mostra come la migrazione sia parte costitutiva del popolamento del pianeta Terra e, conseguentemente, del processo stesso di ominazione. Erectus, Antecessor, Neandertal, Denisova (ecc.) sono tipi umani che si formano fuori dell’Africa e, come sembra, si ricombinano fra di loro. Lo stesso Sapiens, nella sua occupazione totale delle terre abitabili, produce quella enorme differenziazione, non solo culturale, ma anche fisica, che caratterizza la specie umana attuale.
Il neolitico è un processo che ha inizio in alcuni focolai determinati (dalla Mezzaluna Fertile, alle pianure cinesi, agli ambienti dell’Asia meridionale, all’Africa occidentale, all’America centro-meridionale) dai quali, attraverso migrazioni molecolari, ma anche organizzate, si espande in quasi tutto il pianeta. Fra queste migrazioni, vanno segnalate quella europea (che chiameremo per brevità degli Indoeuropei); quella dei Bantu e quella, spettacolare, nell’Oceano Pacifico.
Potremmo segnalare, all’interno di questo schema generale, la situazione italiana che, alla luce delle recenti ricerche genetiche, mostra una varietà il cui spettro è comparabile a quello della varietà genetica di tutta l’Europa. Noi italiani, sembra, non ci siamo fatti mancare nessuna delle migrazioni che – da un milione di anni a questa parte – hanno interessato la regione euro-mediterranea.
Una precisazione sui nomadi
Il significato diffuso della parola “nomade” genera un equivoco: quello di confondere il nomade con il migrante. Perciò, si legge spesso che “prima della scoperta dell’agricoltura gli uomini erano nomadi”. In realtà, dovremmo dire “erano itineranti”. Un cacciatore/raccoglitore occupa un territorio solitamente in modo itinerante, spostandosi al suo interno per reperire il cibo. “Nomade” lo diventerà se fa il pastore (questo è il significato corretto della parola”). Ma, poiché la domesticazione dei vegetali venne prima di quella degli animali, prima ebbe la possibilità di diventare sedentario, e poi quella di praticare il nomadismo. Entrambi, dunque, saranno stanziali se occupano, nei modi che sono loro propri una determinata regione; oppure migranti, se da quella si spostano verso altri territori.
La storia antica occidentale. La struttura demografica del Mediterraneo
Il processo di colonizzazione, con il quale si suole iniziare la trattazione della storia antica occidentale,è di per se stesso un fatto migratorio. Quote di popolazione, che per il periodo dovettero essere consistenti, si spostarono da Est verso Ovest. L’urbanizzazione del Mediterraneo è figlia legittima di questo processo.
La migrazione è strettamente collegata al processo di urbanizzazione del mediterraneo
L’Impero romano conosce due tipi fondamentali di migrazione. Quella interna, promossa spesso dall’impero, vede lo spostamento di masse di cittadini romani (e man mano di altre città) per la fondazione di colonie, spesso in terre lontanissime. In certe occasioni, l’impero costringeintere popolazioni ad una migrazione forzata (dalla Mauritania verso i Balcani; dalla Gallia del Nord al mar Nero). L’esercito, infine, è una istituzione che produce migrazione e, il più delle volte, la stabilizza nelle terre lungo i confini, o in terre interne, requisite appositamente per sistemare i legionari congedati.
Il secondo tipo di migrazione è quella che proviene dall’esterno. Si articola in tre categorie. La prima è quella dei barbari, che entrano quotidianamente nell’impero. Il limes non è una barriera impermeabile: è attraversato dafamiglie che chiedono di lavorare la terra, o da giovani che si arruolano nell’esercito. Si tratta di apporti demografici decisivi, soprattutto a partire dal III secolo, quando l’impero comincia a sentire gli effetti deprimenti dell’oligantropia, la penuria di uomini. Per integrare questi nuovi venuti, l’impero modifica progressivamente il diritto di cittadinanza.
In una seconda categoria metteremo le invasioni barbariche, spostamenti in massa di persone, realizzate a volte con la violenza, a volte a seguito di accordi. In una terza, quella schiavile. Questo flusso migratorio è impressionante, selo mettiamo a confronto con i numeri delle invasioni barbariche. Si pensi che la somma degli individui che dettero vita alle invasioni barbarichenon supera di molto il milione:e questo è più o meno il bottino della sola conquista della Gallia o della Dacia.
Se è vero, come si dice in tutti i manuali, che le popolazioni successive sono il frutto del connubio fra latini e germani, questo dovrebbe essere ancora più valido con le masse anonime e imponenti di schiavi, immessi nel Mediterraneo durante i secoli imperiali (e come vedremo anche in seguito).
Il Medioevo. Le basi demografiche europee
Contrariamente ad un’immagine diffusa, il Medioevo dell’Europa occidentale è un periodo di grande mobilità. Una popolazione ridotta (rispetto a quella imperiale); una distesa sconfinata di terra, che si va rapidamente ricoprendo di foreste e di incolto; la mancanza di un’autorità “sovra regionale”, che abbia un qualche potere di controllare i flussi: questi tre fattori disegnano un quadro nel quale la gente vede nella mobilità spaziale una soluzione ai problemi di approvvigionamento (per esempio durante le ricorrenti crisi di sussistenza).
Dal canto suo, la riva sud del Mediterraneo è interessata dall’arrivo di popolazioni arabe (non eccessivamente numerose, per la verità), mentre ben più rilevante è lo spostamento di popolazioni dall’interno verso la costa e le sue città: quelli che gli arabi presero a chiamare, con l’antico termine spregiativo, “berberi”.L’Europa centrale e orientale sono il teatro dell’espansione slava (paragonabile per velocità e estensione a quella araba) e dell’apporto costante di popolazioni nomadiche dal cuore dell’Asia.
Si intensifica la migrazione coatta degli schiavi. Due le regioni di partenza. Da sud, dalle terre oltre il Sahara, l’Africa nera fornisce il Mediterraneo di milioni di lavoratori. La loro tragica storia è assente dai nostri libri, per quanto sia ricca di episodi sconvolgenti. Da nord, dalla regione centro-settentrionale europea, non cessano di partire colonne di schiavi, spostate da mercanti franchi, ebrei, veneziani e, verso la fine del primo millennio, scandinavi. Per avere un’idea del loro numero, si pensi che un terzo della Spagna musulmana era popolato dai Saqaliba, gli schiavi “slavi” (e si veda, naturalmente, l’etimologia della parola “schiavo”). Si tratta di un processo di produzione di ricchezza enorme. Ha molto a che vedere con il successo di alcune città, come Venezia; e conquell’accumulo di ricchezza nel centro Europa, che permette la nascita di regni, quali l’Ungheria, la Polonia, la Croazia, il principato di Kiev ecc.
A cavallo del millennio, con la ripresa demografica, assistiamo a tre diffusi e massicci fenomeni migratori. Quello dalla campagna verso la città, che porta la popolazione urbana a crescere, fino a creare le prime grandi metropoli europee (Milano, Parigi, Firenze, Napoli). Quello delle migrazioni per dissodare nuove terre, sia all’interno europeo, disboscando pianure e crinali collinari e montuosi; sia verso l’est europeo, con la progressiva germanizzazione di quelle regioni fino al Baltico. Il terzo fenomeno migratorio è quello dei pellegrinaggi armati (fra i quali le crociate), che vedevano ingenti quantità di individui spostarsi periodicamente, e non di radoinsediarsi in nuove terre.
L’età moderna. Le migrazioni diventano mondiali, e preparano gli esodi di massa dell’Ottocento
L’era della Rivoluzione geografica conosce spostamenti di popolazione su distanze, e talora di proporzioni, sconosciute fino ad allora. Quattro sono i grandi focolai migratori: l’Europa, la Cina, l’India e l’Africa nera. Nello spazio di quattro secoli (dal XVI al XIX) queste migrazioni cambiano il volto demografico del mondo.
Le regioni dell’Asia sudorientale costituiscono la meta dei cinesi, che a partire dall’Ottocento cominceranno a dirigersi anche verso l’America. Le coste dell’Oceano indiano sono il punto di approdo degli indiani. L’America è il destino di un’emigrazione, parzialmente libera e parzialmente coatta, di provenienza europea (sulla quale torneremo fra poco); oltre ad essere il destino della migrazione coatta della tratta atlantica. Quest’ultima non manca mai nella nostra manualistica. Non dovrebbero mancare, però, altre due tratte: quella africana (interna al continente e causata dalla vendita di schiavi fra tribù e popoli locali), e quella musulmana, che continua sulla scorta del periodo precedente, prelevando milioni di persone dall’Africa. Per avere un’idea della vastità del fenomeno, richiamiamo i dati prodotti da Olivier Petré-Grenouilleau (nel suo La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale, Il Mulino 2010): la tratta atlantica trasferisce dodici milioni di individui; quella interna africana quattordici; quella musulmana diciannove.
La tratta dei neri non riguarda solo l’America, ma lo stesso continente africano e, attraverso i mercanti musulmani, anche il Mediterraneo e l’Oriente
L’Europa dà un’impronta particolare a questo processo attraverso fenomeni migratori sia interni sia verso l’esterno. Quelli interni sono di due tipi. Uno è legato alle infinite guerre che a partire dal XVI secolo insanguinano il subcontinente: guerre di religione, in primo luogo; e poi guerre di sterminio (come fu in alcuni casi la Guerra dei Trent’anni), che provocarono grandi spostamenti di popolazione, talora fino a sconvolgere l’assetto demografico di intere regioni. Il secondo è associato alla rivoluzione agraria. L’incremento spettacolare di produttività che questa produsse ebbe come effetto diretto l’espulsione di masse contadine che restavano disoccupate e si riversavano nelle città, fornendo quella manodopera a basso prezzo che fu uno dei fattori che permise la Rivoluzione industriale.
Verso l’esterno, prendono avvio dall’Europa la prima colonizzazione, tra il XVI e il XVIII secolo, nelle Americhe e in Australia; poi la seconda, nel XIX, che porta a sottomettere Asia e Africa. Collegata alla prima di esse, vi è la grande migrazione europea oltreoceano. Va sottolineato che tra il XVI e la fine del XVIII, il numero di emigranti europei verso le Americhe fu relativamente modesto (circa 7 milioni, molto meno degli schiavi deportati dall’Africa ), ma con un eccezionale “effetto fondatore” (come lo definisce il demografo Livi Bacci), ovvero un rapidissimo incremento demografico dei coloni, soprattutto nel Nord America, per le favorevoli condizioni che qui essi trovano. Quei pochi migranti, e i loro numerosi discendenti, creano le condizioni per la migrazione di massa dell’Ottocento, forse il più massiccio spostamento di uomini della storia, che europeizzain gran parte le Americhe, e per intero l’Oceania.
Caratteristiche molto diverse hanno le conquiste coloniali europee in Africa e in Asia nell’Ottocento. In pochi casi si creano delle colonie di popolamento: in Algeria, dove affluisce circa un milione e mezzo di francesi (d’altra parte questo è uno dei sogni dei conquistatori italiani, soprattutto nel caso della Libia); e in Sudafrica, prima da parte dei boeri olandesi, poi degli inglesi. Negli altri casi, molto più numerosi, l’esigenza dello sfruttamento di territori immensi esige lo spostamento di personale specializzato, militare e civile: molto più numeroso in India, molto meno nell’Africa subsahariana, ove (anche per le proibitive condizioni climatiche) si costruiscono “colonie senza coloni”. Col passare del tempo, infine, si creano flussi di spostamento inverso, dalle colonie verso la terra dei dominatori, o da una colonia all’altra all’interno degli imperi coloniali.
Al massimo momento della sua espansione, l’impero inglese dominava su un quarto delle terre emerse.
In questa immagine, esposta all’Imperial War Museum, si rappresentano con orgoglio i “difensori dell’impero”, appartenenti a ogni tipo e cultura umani
Il Novecento, il secolo delle migrazioni
E’ stato chiamato in molti modi (il secolo delle donne, delle bombe, della violenza ecc.), ma è anche il secolo delle migrazioni, tanto che questo fenomeno lo periodizza in tre momenti fondamentali.
• La prima globalizzazione (1880-1913): la migrazione europea verso il mondo (da Est a Ovest).
• La “seconda guerra dei Trent’anni” (1914-1945): il blocco migratorio
• I “Trenta Gloriosi” (1946-1975): la migrazione verso Nord
L’andamento mondiale della migrazione è una palese smentita degli stereotipi visti sopra. Lo sviluppo mette in moto le società non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista demografico e della migrazione. Si osservi come, durante il secondo periodo, concorra a bloccare il fenomeno migratorio non solo la legislazione restrittiva delle nazioni di partenza (tra le quali l’Italia) e di arrivo (come gli USA), ma anche la stagnazione conseguente alla crisi del ’29. D’altra parte, così come l’imponenza del fenomeno migratorio del primo periodo è legato alla seconda rivoluzione industriale, quello delterzo periodo è in correlazione con l’impetuoso sviluppo economico europeo (con il cosiddetto “miracolo italiano”, per quanto riguarda il nostro paese).
Conclusioni
Le grandi migrazioni odierne convergono verso tre punti principali: l’America Settentrionale, gli stati petroliferi e l’Europa
Siamo così tornati al nostro punto di partenza, ma con la capacità di guardare il presente con uno sguardo nuovo. Scopriamo infattiche i medesimi fenomeni che ci angosciano hanno interessato altri tempi, con un impatto che, se ci mettiamo dal punto di vista di coloro che li vissero, dovette sembrare anche allora sconvolgente, e certamente lo fu. Noi siamo esattamente il “dopo” di quegli sconvolgimenti.
Non siamo delle eccezioni. Il popolamento umano funziona con due leve: quella dello spostamento e quella della residenza. Chi parte e chi resta. Non sono ruoli fissi, che un gruppo umano assume per sempre. Nella storia si sono scambiati in modo imprevedibile. Chi avrebbe mai pensato, al tempo dell’Impero romano, che quelle regioni, un tempo meta di immigrazione secolare – “eterna” sembrò loro – avrebbero dato vita a una spettacolare inversione? E chi avrebbe mai pensato, al tempo della grande emigrazione italiana, che avremmo avuto a che fare con un’immigrazione preoccupante? E che, dati alla mano ancora più preoccupanti (negli ultimi anni oltre 700 mila italiani sono emigrati), una nuova inversione sembra alle porte?
Non è detto, lo abbiamo visto nel modello, che chi parte sia “quello che soffre di più”. Anche questo la storia ce lo mostra con chiarezza. Ci mostra ancora (perché in fondo il manuale parla solo di quello) che anche “chi resta” non scherza, quanto a sofferenza. I problemi sono diversi, ma ci sono per entrambi. Forse una buona conclusione è che conviene affrontarli insieme. Oggi, perlomeno, ci è data la possibilità di esserne consapevoli.
La prospettiva storica, al tempo stesso, ci permette di capire la specificità del presente. La valutiamo confrontando la situazione attuale con quelle precedenti, e prendendo nota delle differenze. Quella che balza agli occhi è costituita, come abbiamo visto, dalla situazione demografica dei paesi di accoglienza. E’ così grave, da ribaltare il punto di vista abituale, obbligandoci a spostare lo sguardo sull’Europa, e in particolare sull’Italia. In questo, credo, sta la forza dirompente dell’osservazione scientifica, nei confronti della scontatezza abituale del ragionamento stereotipato.
Bibliografia
- Massimo Livi Bacci, Storia minima della popolazione del Mondo, Il Mulino, 2011
- Id., In cammino. Breve storia delle migrazioni, Il Mulino, 2014
- Cesare Grazioli, I numeri che fanno la storia, www.novecento.org (in corso di pubblicazione)
Commenti
Per quanto riguarda invece il primo rilievo mosso dal lettore, lungi da noi la sottovalutazion e del fattore "guerre", ma dovrebbe essere chiaro che il nostro intervento non ha certo il fine di descrivere analiticamente le diverse forme di migrazioni del presente. Nell'altro intervento citato in bibliografia (I numeri che fanno la storia, che sta per uscire in questi giorni su www.noovecento.org), ben più ampio di questo, si dà conto delle diverse forme di migrazione, sia spontanee sia forzate, dalle deportazioni agli esodi per motivi bellici, ai displaced persons fino al fenomeno della "fuga dei cervelli".
gli autori
cinziamilani62gmail.com
RSS feed dei commenti di questo post.