paesaggio storico

  • Himera

    Termini Imerese, 23 febbraio

    La battaglia si svolse nella pianura sotto l’acropoli di Himera. La coalizione di himeresi, agrigentini e siracusani, una volta tanto uniti, aveva di fronte i punici, che venivano da Solunto, Palermo e Cartagine ed erano condotti dal generale Amilcare. Vinsero i greci. Era lo stesso anno di Maratona. Una coincidenza troppo ghiotta per non approfittarne, come fece Pindaro, con un peana alla potenza dei greci, che battevano tutti, nel Mediterraneo occidentale come in quello orientale. E gli ateniesi, che ci sapevano fare in questo genere di cose, perfezionarono la coincidenza, cambiando anche la data, in modo che le due vittorie accadessero proprio nella stessa giornata.

    Fig. 1 Panorama dall’acropoli. Le strade, la ferrovia, la foce del fiume, i cantieri, e il tempio della Vittoria

     

    Guardo il panorama dall’acropoli. La pianura è attraversata dalla statale, dall’autostrada e da due ferrovie, quella dismessa e quella nuova. Sopra il campo di battaglia si elevano i resti dell’insediamento industriale Fiat. Poi, oltre il fiume Torto, vedo le ciminiere della centrale e poi ancora Termini Imerese. Verso est, l’Himera, il Fiume Grande, ridotto a un canale di cemento, sfocia nel Tirreno tra lingue di sabbia, dove le barche pescano la neonata. Le sue sponde sono ingombre di capannoni, cantieri, campi coltivati e no. Devo fare uno sforzo. Cancellare tutto e immaginare la città, e i due eserciti che si azzuffarono, sotto gli occhi delle donne e dei vecchi assiepati sulle mura, proprio come si legge nell’Iliade.

    Fig.2 Un orientale si prostra in onore di qualcuno. Perché questa statuetta a Himera? Forse è un segno di sfottò verso fenici o siriani, con i quali i greci non si pigliavano molto?

     

    Questo è paesaggio storico. Ne abbiamo parlato ieri, con gli insegnanti di Palermo. Nell’accezione comune, esso è costituito dai resti visibili del passato. Più ce ne sono – si dice - più storico è il paesaggio. E invece no. Il paesaggio storico non si vede, perché il passato non esiste più. E’ solo una coordinata, quella del tempo, che io aggiungo allo spazio che scorre sotto i miei occhi. Perciò, abbiamo concluso con quelle brave docenti, il paesaggio storico dipende da quello che uno sa. E io, che ne so quasi niente, dipendo dall’archeologo che mi sta spiegando tutto, col suo bell’accento siciliano.

    I resti visibili, qui nella piana di Himera, sono pochi. Giusto il tempio della Vittoria, il cui rettangolo, con le basi delle colonne, si disegna in basso, proprio di fronte a me. Gli himeresi lo pretesero dai punici come pagamento della sconfitta. Stupidi, commenta l’archeologo. Lui è di Himera, ha tenuto a dirci subito. E si vede. Per lui i punici sono ancora là, cattivi, delinquenti e nemici. Li dovevano spazzare via. Non lo fecero, e quelli si vendicarono dopo settant’anni. Dal mare giunse una flotta imponente con centomila soldati, come ci informano le fonti (greche). Li comandava Annibale (certo, ‘sti cartaginesi non erano molto originali con i nomi). Che potevano fare gli himeresi? Fu un massacro. I punici entrarono in città e la distrussero. Era il 409. Da allora il luogo fu abbandonato. I greci non tornarono più, i romani ci costruirono un paio di ville, e nel medioevo vi si stabilì qualche villaggio. Himera, la colonia mista di gente di Zancle (Messina) e della Calcide, chiuse in questo modo la sua storia ricca e gloriosa, durata due secoli e mezzo.

    Fig. 3 Una piacevole sorpresa nel museo. Scilla sugli scogli, con una coda di pesce crestata

     

    I resti di Himera, come quelli di Pompei, fotografano l’evento tragico della sua morte. I cadaveri furono lasciati per strada. Un uomo, col suo mulo e il cane, fu ucciso sulla soglia di casa, e là fu ritrovato duemila e quattrocento anni dopo. Le necropoli ci raccontano le due battaglie. Quella del 480 è composta da una decina di fosse comuni (quelle scoperte fino ad ora). I soldati sono deposti in ordine. Hanno i segni dei colpi che li uccisero. Della disfatta del 409 resta solo una fossa comune. Quella che si fece in tempo a scavare. Gli altri soldati vennero abbandonati dove morirono.


    La battaglia di Himera; documentario tratto dal programma di Alberto Angela "Ulisse, il piacere della scoperta"

    Voltiamo le spalle alla pianura. Ora guardiamo la cima del colle. E’ un pianoro vasto che lascia intuire la popolosità dell’insediamento. Comprendeva un’area sacra e le strade, ai lati delle quali si aprivano, ben ordinate, le abitazioni degli himeresi. Non affiora quasi nulla della vecchia città. Ancora una volta, devo lavorare di immaginazione. Il tempio grande, i templi più piccoli. Le strade e le case.

    L’erba ha coperto tutto. Mancano i soldi, ci dice l’archeologo. Ogni tanto vengono dei colleghi di Berna a scavare. In futuro ci saranno solo archeologi svizzeri e svedesi, commenta. Noi, italiani, per contro, compensiamo con l’incessante lavoro dei tombaroli, le cui tracce sono ben visibili in questa distesa verde. Probabilmente, come tanti altri abitanti della zona, non sanno nulla di Pindaro e di Annibale. Quindi, non vedono il paesaggio storico. Ne conoscono bene quello che per loro è essenziale: che sottoterra puoi trovare qualcosa che ti farà svoltare la vita.

    Mi dico che, per compassione, la natura siciliana fa il possibile per ingentilire l’ambiente, con distese di fiori gialli e di gigliacee dalle infiorescenze delicate, bianche e lilla.


    Fig. 4 Vegetazione spontanea sul sito dell’Acropoli


    L’antiquario
    Siamo arrivati qui da Palermo percorrendo la vecchia statale, l’antica via Valeria. Ci siamo orientati un po’ a fiuto, perché non ci sono cartelli. A un certo punto, abbiamo visto un bar “Himera”. Sarà qui. Tornando indietro e cercando con attenzione, ecco un piccolo cartello, ben protetto dalle fronde. Ci inerpichiamo sul viottolo e, improvvisamente, sulla destra, l’Antiquario, o il Museo (come col tempo è diventato). Contrafforti di cemento, sovrastati da mura tipo bugnato. Sembra un rifugio bellico, è la nostra prima impressione.  Dentro è freddo (siamo d’inverno, ma ci hanno assicurato che d’estate è bollente). Freddo anche nell’architettura. Teche, metallo e vetro. Didascalie lunghe e illeggibili. In bella vista, la celebre Fiala: un piatto d’oro, finemente cesellato, di quasi un chilo. Rubata e poi riportata indietro. Poi una panoplia di monete e, le teche, una dopo l’altra. Qui i vasi, qui le statuette, qui gli acroteri, qui gli oggetti bronzei.


    Figg. 5, 6, 7 Il museo/antiquario. Interni ed esterno

     

    Aggirandomi nell’antiquario, non avevo fatto caso a una scultura frammentaria di terracotta. Questo è un capolavoro eccezionale, spiega la guida. E’ appena tornato dall’America. Sapeste quanto ci hanno costruito addosso. Era la star dell’esposizione, esclama. Tutto finito, penso. Ora è stata rimessa al suo posto, dove nessuno la nota. Torna a tacere.

    Per restare più di dieci minuti in questo museo devi essere appassionato. La nostra guida lo è, e racconta, racconta. Noi, che siamo professori, e siamo appassionati, ascoltiamo, ascoltiamo. Mi chiedo quale sia la reazione di una scolaresca o del visitatore comune. Anzi, glielo chiedo: quanti visitatori avete? Mi risponde che un paio di anni fa, ebbero un picco, con più di diecimila visitatori. Normalmente sono la metà. Perché questa differenza? mi incuriosisco. Mi dice che allora fecero un sacco di attività. Sapete, chiedevamo le sedie al bar di sotto (noi annuiamo, è quello che abbiamo visto venendo qui) e allestivamo un piccolo uditorio di fortuna. Ma poi sono finiti i soldi, i volontari si sono stancati. Noto mentalmente che in tutta la mattinata sono entrati solo due visitatori. Pensiero maligno: vuoi vedere che i cinquemila visitatori sono come i centomila soldati punici delle fonti greche?

    Chiedo se c’è un’aula didattica. No. Un catalogo. No. Quelli finiscono e bisogna rifarli. Ma c’è un progetto magnifico, si accende la nostra guida: prevede la valorizzazione di tutto il paesaggio. La stazione dismessa, la vecchia ferrovia, gli scavi e un museo dove, finalmente, possano trovare il loro giusto spazio le decine di migliaia di reperti, frutto degli scavi degli ultimi decenni, che ora sono chiusi a chiave in container all’aperto. Gelidi d’inverno e torridi d’estate, i reperti diventano così fragili che si rompono a toccarli. Un progetto magnifico, porterà sicuramente migliaia di visitatori. Ci sono i fondi europei. Certo, si spegne la guida, sappiamo come finiscono queste cose. Il rifugio bellico ci misero una quindicina di anni a farlo (fu inaugurato nel 1984). Per il museo nuovo, quanto ci vorrà? E lo faranno veramente?

    Insomma, una triste fine, questa di Himera. Distrutta due volte. La prima dai cartaginesi, la seconda dalla nostra incuria e dalla nostra incapacità. Per questo, mi dico - ottimista fino alla morte -, è un esperienza toccante esplorare il paesaggio storico italiano. Da noi puoi vedere l’insieme delle vicissitudini che nel corso dei secoli hanno lentamente disgregato i resti del passato. Le vedi scorrere tutte e rapidamente, come in un time laps. Un’occasione didattica unica.

    La visita ha preso tutta la mattinata. Ora di pranzo. Una piccola trattoria, vicino alla piccola stazione. Verdure di ogni genere, cotte come solo i siciliani sanno fare. E poi un pranzo che altrove sarebbe da matrimonio. Tutto ben fatto, tutto solo per noi, e con un prezzo onestissimo. Quando vogliamo, le cose le sappiamo curare.
    https://www.facebook.com/pages/Parco-Archeologico-di-Himera/192136660918244
    http://www.arkeomania.com/himera.html

  • Il paesaggio storico come laboratorio per l’apprendimento della Storia, della Geografia e dell’Educazione civile

    Autore: Marika De Filippis

     

    Marika De Filippis, archeologa e abilitata presso il Tfa di Bari, ha partecipato al seminario sul paesaggio storico, organizzato da Proteo in ricordo di Luciana Bresil, indimenticabile docente della scuola media “Michelangelo” di Bari, e colonna della didattica della storia presso il Cidi. In attesa di pubblicare i contributi per esteso, HL le ha chiesto di farcene una rapida sintesi (HL).

    Le questioni di fondo

    Saverio Russo, che insegna storia moderna presso l’Università di Foggia, ci aiuta a chiarire gli elementi essenziali dello studio del Paesaggio storico a partire dalle due opere che lo hanno introdotto in Italia. I contributi di Emilio Sereni con la sua Storia del paesaggio agrario italiano (edito da Laterza) e di Marc Bloch con I caratteri originali della storia rurale francese (pubblicato da Einaudi) sono il fondamento di un modo di fare storia, che cerca le sue fonti non solo nei documenti scritti, ma in tutte le tracce tangibili, anche se non sempre evidenti, che l’uomo lascia dietro di sé. In particolare, un numero notevole di queste tracce sembra conservato dal paesaggio, «coscientemente e sistematicamente» modificato dall’uomo nel tempo. Il paesaggio è, dunque, il punto di raccordo tra lo studio dello storico e quello del geografo. Per tali ragioni sembra sempre più necessario promuovere forme di tutela nei confronti di un paesaggio che è progressivamente percepito come Patrimonio non solo naturale, ma anche storico. Su tale linea si pone l’iniziativa di alcune regioni italiane - tra cui la Regione Puglia - di dotarsi di un Piano Paesaggistico e Territoriale (per la verità di attuazione difficoltosa e macchinosa). Saverio Russo, quindi, sostiene che la più efficace forma di tutela del paesaggio, non possa essere soltanto normativa, legislativa e in qualche modo coercitiva, ma debba essere soprattutto culturale. Dalla ricerca storica, perciò, si entra nella dimensione scolastica, individuata come luogo privilegiato in cui favorire la conoscenza del paesaggio, e quindi  sensibilizzare per lo meno i futuri cittadini sulla necessità di tutelare questo straordinario bene.

     

    Quattro esempi laboratoriali

    Come attivare questo interesse? Con lezioni, visite guidate, spiegazioni, video? La didattica promuove la strada laboratoriale: attraverso il coinvolgimento degli allievi, dunque. Ecco quattro esempi.

    Il primo è di Elena Musci, dottoranda dell’Università di Foggia e autrice del volume Scoprire e Giocare a Castel del Monte (edito da Adda). Si tratta del gioco escursione, visto come proposta alternativa alla visita guidata, al fine di sostituire l’ascolto passivo o poco interattivo, con pratiche attive in cui i ragazzi scoprono autonomamente, pur se guidati dal gioco, i luoghi che stanno visitando. Tale tecnica consente ai ragazzi di trasformarsi in reali costruttori di una conoscenza significativa e duratura. In particolare le proposte elaborate per Castel del Monte, sono modulate su tre diverse fasce d’età. Elena Musci si concentra sul mistery game Giallo Murgiano, basato sugli atti di un processo per un omicidio avvenuto nel 1783 nei dintorni del Castello e che coinvolse pastori abruzzesi e contadini locali. I ragazzi attraverso le indagini, che richiedono l’uso di documenti scritti, fotografie, carte storiche ma anche dell’Igm, sono condotti in un’attenta osservazione degli elementi storico-architettonici dell’edificio e delle caratteristiche del paesaggio che circonda il castello. Il gioco mette quindi in campo non soltanto traguardi di competenza e strumenti pertinenti all’ambito storico, ma anche a quello geografico, insieme a capacità di osservazione, di problem solving, di cooperazione, di orientamento e di logica, straordinariamente interessanti e in linea con le Nuove Indicazioni.

    Il medesimo approccio che coniuga rigore storico ed esigenze didattiche, anima il lavoro di Fabio Armenise e del suo gruppo, la Compagnia d’arme Stratos, un’associazione di Ricerca, Ricostruzione e Rievocazione storica, attiva nel territorio pugliese da diversi anni. L’intervento si è soffermato in particolar modo sulle pratiche della rievocazione e della ricostruzione storica, come strategie di sempre maggiore successo per la promozione dei Beni Culturali, ma anche come forme di didattica immersiva, in cui i ragazzi sono condotti a toccare con mano gli oggetti, a vederli in azione e a comprenderne la reale funzione. La proposta didattica del dott. Armenise è finalizzata ad una comprensione del fatto storico, che passa di certo attraverso i documenti testuali, iconografici e materiali, ma che sfrutta anche la possibilità dell’esperienza diretta e attiva (per approfondire: Gilda Depalo, Fabio Armenise, La pratica della rievocazione storica in Italia, in Mundus n.5-6, Palumbo editore, Palermo 2010, pp 206-211).

    La terza proposta di lavoro si muove ancora lungo la pista dell’esperienza diretta. Riguarda il gioco di esplorazione, elaborato nell’ambito dell’Associazione Historia Ludens, presentato da due studiosi di preistoria, Valentina Ventura e  Mario Iannone. Qui il gioco consente di saltare il divario temporale e di immergersi in un quadro storico, culturale ed economico enormemente diverso da quello a cui i ragazzi sono abituati. Il gioco Dentro la Lama, a scuola di preistoria, infatti, pensato per una lama del Sud-Est barese, ma facilmente esportabile, richiede ai ragazzi di studiare attentamente il territorio, al fine di poter operare le giuste decisioni per insediarsi. Divisi in tribù, in gara vicendevole, imparano a conoscere e a riconoscere i segni di vita dell’uomo lasciati in un paesaggio apparentemente naturale, ma che racchiude una forte valenza storica.

    L’ultima proposta è di Sergio Chiaffarata, speleologo che - nell’ambito del corso di Didattica della Storia dell’Università di Bari - collabora alla progettazione di quella che – per scherzo ma non troppo – abbiamo chiamato la Didattica della talpa.Si tratta di coniugare l’enorme patrimonio di ipogei, di cui la città di Bari è dotata, ai momenti fondamentali del curricolo, dalla Preistoria all’Età contemporanea.

    La proposta è bivalente e si rivolge sia alla didattica attraverso i luoghi che sono stati protagonisti della storia, sia alla conoscenza del territorio e del paesaggio urbano e suburbano, al fine di stimolare la nascita di una consapevolezza civile ed ecologica di tutela.

     

    Paesaggio storico e competenze di cittadinanza

    Laboratori, manipolazione di oggetti, esplorazione di ambienti. La didattica del paesaggio è qualcosa che riguarda la storia locale, l’uscita sul territorio e, perciò, qualcosa di tutto sommato marginale, nell’economia di un curricolo che ha comunque altre esigenze conoscitive e formative? La risposta è decisamente negativa, secondo Antonio Brusa, che argomenta il suo ragionamento attraverso tre diverse storie: quella del Lago Averno nei Campi Flegrei, quella de Las Médulas nella provincia di Leòn in Spagna e quella dell’estinzione della mega-fauna erbivora. Tre storie che apparentemente non hanno nulla in comune, poiché la prima narra del grande cantiere per la realizzazione del Portus Julius a opera di Ottaviano, la seconda racconta dell’estrazione dell’oro attraverso la rovinosa distruzione dei monti del sud della Cantabria, e la terza riferisce dell’estinzione, causata in buona parte da Homo Sapiens, della grande famiglia di gitanteschi mammiferi erbivori che, fino a 10 mila anni fa, condizionavano e modellavano l’assetto vegetazionale del nostro pianeta. Le tre storie, tuttavia, ruotano intorno a profonde modifiche del paesaggio, non percepite come tali nel passato, e che solo la nostra coscienza ecologica ci porta a conoscere e a valutare negativamente.

    Tre storie tragiche che nascondono un messaggio positivo: siamo il primo periodo della storia della specie umana, nel quale gli uomini si “accorgono” del loro impatto sull’ambiente. Cominciano a percepirsi come parte di questo e, quindi, come corresponsabili della sua vita. Ecco, al fondo, a cosa serve studiare il paesaggio. Non certamente a costruire inutili, quanto falsi, brand identitari (come purtroppo vuole tanta didattica sedicente “innovativa”). Serve, invece, a introiettare nella figura del “cittadino responsabile” la prospettiva di una corretta ecologia umana. Nello studio del paesaggio, perciò, si salda fortemente il nesso fra storia, geografia e educazione civile.

     

    Il Convegno è stato presentato da Franca Roca, responsabile settore formazione di Proteo. Vittoria Saracino, del Cidi, ha parlato di Luciana Bresil, mentre i saluti sono stati portati da Antonietta Scurani, Dirigente della scuola "MIchelangelo" e da Anna Cammalleri, Dirigente dell'Ufficio scolastico Regionale della Puglia.

  • Luoghi di memoria baresi

    Autore: Sergio Chiaffarata

    Due studi di caso su ebrei e seconda guerra mondiale


    Indice
    1.    Via Garruba, 63, o la memoria transitoria
    2.    Torre Tresca e i distruttori di storia

     

     

     1. Via Garruba, 63, o la memoria transitoria.

    Il luogo: Palazzo De Risi

    Chi cammina nel quartiere murattiano di Bari, e incrocia l’angolo di via Quintino Sella con Via Garruba, spesso non presta attenzione a questo edificio di fine ottocento - inizi novecento, in stile neoclassico (tardo rinascimento).
    Si fermano solo i passanti che attendono al semaforo, si spostano fra gli uffici o fanno acquisti nelle attività commerciali della zona. Raramente si tratta di un osservatore curioso ed attento, perché quest’angolo è un luogo di traffico e di rapido passaggio, per chi vuole lasciare il “centro” di Bari.

    Sia che siate frettolosi passanti, sia che siate osservatori curiosi, se vi è successo di passare da quelle parti, soffermatevi sull’imponenza di questo palazzo.
    Essa è dovuta al bugnato del piano terra e, levato lo sguardo verso l’alto, dalla trabeazione aggettante del terzo piano. Ma uno sguardo più attento rivela dettagli, come le paraste che affiancano le porta-finestre con capitelli corinzi, e poi, le decorazioni a rilievo, come le maschere di leone dalla cui bocca scendono festoni con foglie e fiori.
    Infine, se lo sguardo è quello dell’architetto o dello storico dell’arte, ci rivela anche la particolarità del prospetto del lato di via Garruba, che non è a tre o cinque luci, come nella norma, ma a quattro luci.

    Prospetto del palazzo, disegnato da Caterina Jannelli

     

    L’edificio si chiama Palazzo De Risi.
    Oggi, è composto da due immobili diversi, uno con accesso esterno da via Garruba, n.63 e l’altro da via Quintino Sella n. 181, forse precedentemente comunicanti all’interno.
    Un palazzo tutto sommato anonimo? Oggi lo è, indubbiamente. Qui non vedrete nessuna lapide. Ma domani, il passante che leggerà le note che seguono, cambierà idea. Palazzo De Risi, infatti, è un luogo di memoria. Lo sappiamo dai documenti, relativi al periodo bellico della seconda guerra mondiale e quello successivo del dopoguerra, che ci restituiscono la storia di un luogo legato alle vicende della città e alla storia della Shoah.
     

    Via M. Garruba angolo via De Rossi

     

    Testata del Corriere della Sera, Milano, 11 novembre 1938


    Il soggetto: la famiglia Levi.
    Nel 1938, vennero promulgate le leggi razziali fasciste in Italia, un insieme di norme e provvedimenti legislativi contro gli ebrei. «Il censimento degli ebrei - spiega Vito Antonio Leuzzi - conta, nel 1938, a Bari e provincia, 35 famiglie per un totale di 95 persone: 64 italiani e 31 stranieri».
    Dopo la loro adozione, quasi tutti i residenti ebrei di Bari, per lo più individui o ristretti nuclei familiari, lasciarono la città. Molti ritornarono nelle loro città di origine, del Centro e del Nord Italia.
    L’unica famiglia che restò a Bari, fu quella dei Levi, composta dal padre Alberto, dalla madre e da due figlie (Anna Maria e Vera).
    Alberto Levi era troppo importante per il lavoro della ditta presso la quale era assunto, ed anche quando venne espulso dal Sindacato fascista di categoria, non fu licenziato. Nonostante le leggi razziali e la situazione critica, la famiglia Levi cercò di condurre una vita normale.

    Quando Alberto fece domanda di iscrizione alla scuola elementare per la figlia Anna Maria, ricevette una lettera di risposta dal Provveditorato agli studi di Bari in data 18 ottobre 1938, firmata dal provveditore reggente, nella quale si diceva: «non posso autorizzare a vostra figliuola Anna Maria, appartenente a razza ebraica, ad iscriversi perché ciò è vietato dalla legge».
    Nel 1939, Alberto venne arrestato e rinchiuso in carcere. Liberato, continuò a vivere con la famiglia in un paese della periferia per tutto il periodo della guerra. L’anno dopo alla famiglia Levi furono sequestrate anche la radio e la macchina da cucire.
    Una storia tragica, come tante altre in Italia, ma forse meno. Infatti, nell’autunno del 1943, mentre nel resto d’Italia, la guerra, le violenze e le deportazioni proseguirono fino al ‘45, per la famiglia Levi il non aver lasciato la città di Bari, liberata, grazie all’intervento dei soldati italiani agli ordini del generale Bellomo, e, poi, occupata dalle truppe inglesi, rappresentò una piccola fortuna.

     

    Il palazzo De Risi, dopo l’8 settembre 1943.
    Durante il ventennio fascista, palazzo De Risi era stato la sede di un gruppo fascista. Nell’autunno del 1943, i locali del piano terra, in seguito anche quelli del primo piano, furono destinati ad accogliere i profughi ebrei in fuga dal Nord Italia e da altre nazioni, ma anche dai campi di internamento liberati dall’avanzata alleata.

    All’inizio del 1944, Il Consiglio ebraico, composto da Angelo Sullam della comunità di Venezia,
    presidente della Comunità di Bari; Isidoro Mandler della Comunità di Trieste,  segretario; Ermanno Rocca della Comunità di Ancona, Aldo Ascarelli della Comunità di Bologna, Davide Ascarelli della Comunità di Roma; e Alberto Levi, l’unico ebreo già abitante con la famiglia in città, decise di fare dell’edificio di via Garruba 63, la sede della neocostituita Comunità ebraica di Bari.
    Tra gli iscritti alla Comunità, ci sono diversi nomi importanti dell'ebraismo italiano: Aldo Ascoli, Giovanni Terracina, Guido Luzzatti, Mario Fano, Alfonso Russi, Pietro Foà di Firenze, con suo fratello Arnoldo, giovane attore, che animò i programmi di Radio Bari con il ruolo di speaker nella trasmissione Italia combatte.
    Nel 1944, secondo i dati riportati da Mario Toscano e da Klaus Voigt, la Comunità ebraica ospitò 70 italiani, 795 iugoslavi, 104 austriaci, 158 Polacchi, 80 cecoslovacchi, 38 Tedeschi, 4 romeni, 35 apolidi, 2 Francesi, 6 bulgari, 5 Ungheresi, 1 Greco, 11 Russi, 4 lettoni, 3 Inglesi, 2 Estoni.  Circa 1500 persone.

    Questa immagine, tratta da un lavoro di Marco Brando, mostra a sinistra l'Italia, ed in particolare Bari, da cui partono gli immigrati ebrei, per recarsi in Palestina.

     

    La sede di via Garruba 63 comprendeva una sinagoga, una caffetteria, una mensa, una clinica, una scuola e il Ministero del Welfare.
    Il 28 agosto del 1945, la prima imbarcazione di profughi salpò da Bari. Era il peschereccio Sirius, ribattezzato Dàlin, diretto in Palestina.

    I rifugiati più abbienti vivevano in città. La maggior parte dei profughi, non solo ebrei, trovavano posto nell’ex-Campo di Prigionia di Torre Tresca, poi, diventato Campo di Transito. Ma erano ricoverati, anche, in altri campi profughi:  S. Chiara, di Positano (ex-convento di S. Francesco alla Scarpa), le Baracche di via Napoli (detto anche Campo Badoglio, sito nei pressi del cimitero comunale, fino al 1947 destinato ai prigionieri tedeschi); il campo di Fesca (nei locali della ex-colonia marina Ferruccio Barletta).
    Gli ultimi campi “furono finalmente dismessi nel 1956 - ha scritto Giulio Esposito - i profughi ivi ricoverati furono fatti affluire al Villaggio Trieste, in periferia, tra via G. Verdi e via Mascagni”.  
    Fra il 1943 e il 1950, numerosi furono i profughi ebrei in transito dai porti della Puglia per imbacarsi verso la Palestina, altri per il America latina.  
    La Comunità ebraica radunò 650 profughi nella zona di Bari. Nel 1949 ne rimasero 99 nel ’49; poi la comunità si dissolse. Della presenza ebraica nel dopoguerra, rimase solamente un area assegnata ai defunti ebrei nel cimitero comunale (descritta nella rivista “Israel” del 4 maggio del 1950), che fu affidata al signor Alberto Levi.

     Palazzo De Risi

     

    2.Torre Tresca e i distruttori di storia

    Torre Tresca: com’era

    Campo P.G. n. 075 di Torre Tresca. Numero posta militare P.M. 3450.
    Alle dipendenze del Regio Esercito. IX Corpo d'Armata.
    Tipo di campo: campo per prigionieri di guerra da maggio 1941.
    Tipologia di internati: P.G. per ufficiali, P.G. per sottufficiali e truppa, P.G. inglesi, P.G. australiani, P.G. inglesi/domini, P.G. sudafricani, P.G. neozelandesi, canadesi e altri britannici, P.G. americani, P.G. ciprioti, P.G. mediorientali, P.G. ex jugoslavi, P.G. greci e Civili greci
    Descrizione: Campo contumaciale e di smistamento (in parte attendato e in parte baraccato).
    Capacità 500 ufficiali e 3626 sottufficiali e truppa, ampliato fino al giugno 1942.

    Cronologia
    1938 - Promulgazione delle leggi razziali fasciste.
    1940 giugno 10 - L'Italia dichiara guerra alla Francia e alla Gran Bretagna.
    1940 settembre  27 - Firma del Patto Tripartito.
    1941 maggio - Il campo di prigionia di Torre Tresca a Bari è operativo.
    1941 novembre 30 - Fuga dal campo di prigionia di Torre Tresca.
    1943 luglio 10 - Operazione Husky : sbarco in Sicilia.
    1943 luglio 28 - Strage di Via Niccolò dell’Arca.
    1943 settembre 8 - L'armistizio viene reso noto alla popolazione.
    1943 dicembre 2 - Bombardamento del porto di Bari da parte dei tedeschi.
    1944 - Il campo di prigionia viene trasformato in campo di transito dall’AMGOT.
    1944 gennaio 26 -  A Bari si apre il congresso del Comitato di liberazione.
    1945 - Fine della guerra
    1945 settembre 11 - Fucilazione del Gen. Bellomo.
    1945 ottobre  18 -  Inizio il Processo di Norimberga

     

    Le carte dal 2006 al 1949
    In queste carte è possibile seguire lo sviluppo dell’area del campo di Torre Tresca. Seguirò, si parva licet, il metodo regressivo di Bloch, andando da quella più recente, del 2006, alla più antica del 1949.

                 La Città di Bari, oggi: il campo si trova nell'attuale periferia


                              

    2006: nell’ingrandimento, in rosso è segnata la zona del campo, una sorta di triangolo attualmente compreso fra la tangenziale a nord, l’asse Nord/Sud a est e il canalone (canale deviatore) a sud

     

    IGM, 1970: il triangolo rosso indica la zona del campo, facendo attenzione al centro si vede un puntino nero, che rappresenta il campo

     

     

    Carta del comune di Bari, 1963. L'immagine mostra con chiarezza la presenza di costruzioni (in neretto). File di caseggiati. Si nota anche la chiesa. 

     

    IGM, 1949. Si vedono le case, ma sono molte di meno di quelle del 1963. Evidentemente il campo è cresciuto nel dopoguerra.

    Inoltre, non si vede la chiesa

     

    Il protagonista: il Generale Nicola Bellomo
    (Bari, 2 febbraio 1881 – Nisida, 11 settembre 1945)
    Ufficiale di carriera proveniente dall'Accademia Militare, aveva combattuto durante la Prima guerra mondiale. Nel 1936 lasciò il servizio attivo di Comandante del Distretto Militare di Benevento. Ma rientrò in servizio nel 1941.
    Il 9 settembre 1943, dopo l'armistizio, il Generale Bellomo,  comandante del Presidio di Bari del IX corpo d’armata, venne a conoscenza che il comando tedesco aveva inviato truppe di guastatori per distruggere le principali infrastrutture portuali della città. Raccolse sotto il suo comando alcuni soldati italiani, affiancate da civili, ed attaccarono i guastatori tedeschi che avevano già preso posizione nei punti nevralgici della grande struttura.

    Venne il generale Bellomo e disse:
    - Ragazzi difendete le vostre case, difendete il vostro porto!
    - E con che cosa lo dobbiamo difendere?
    -Tenete una cassa di bombe a mano!
    Allora presi una bomba e la gettai contro un’autoblinda.
    (Testimonianza orale di Michele Romito, eroico “scugnizzo” della città vecchia).

    I tedeschi furono costretti alla resa e obbligati ad abbandonare la città. Anche Bellomo fu ferito.

    Tuttavia, nonostante avesse salvato il porto, difeso la città contro i soldati tedeschi e agevolato l’occupazione alleata di Bari del 14 settembre, venne accusato di crimini di guerra, non chiese la grazia e fu fucilato dagli inglesi.
    Nel 1951 venne decorato dalla Repubblica Italiana con la Medaglia d'argento al Valor militare.

     

    Il Generale Bellomo


    I fatti del campo di Prigionia di Torre Tresca
    L’episodio all’origine della condanna del Generale Bellomo avvenne nel campo di Torre Trescas. Due ufficiali inglesi, il capitano George Payne e il tenente Roy Roston Cooke, nella notte del 30 novembre 1941, avevano tentato la fuga. Catturati e ricondotti al campo, vennero interrogati da
    Bellomo sulle modalità dell’evasione. Il generale volle essere condotto dai due ufficiali inglesi sul luogo esatto da cui erano fuggiti.

    Di fronte ai giudici inglesi, il Generale Bellomo ricostruì gli avvenimenti, assumendosi per intero la responsabilità del fatto: “Io ordinai alla scorta di fare fuoco soltanto quando mi accorsi che i due prigionieri si erano fermati per scattare in avanti. Il capitano Plyne avanzò per primo, seguito a breve distanza dal tenente Cooke. Allora ebbi la certezza che volessero tentare la fuga. Io non sparai: non perché non avessi la volontà di farlo, ma perché avevo dimenticato di abbassare la sicura e la pistola non funzionò. Comunque lo ripeto ancora una volta: se ci fossero responsabilità, queste sarebbero solo mie perché io ero generale, tutti gli altri erano miei subordinati, ubbidivano soltanto ai miei ordini”.

     

    Torre Tresca anni ‘50

    Foto del Campo, 1947

     

     Foto del campo, 1950

     

    Da campo di prigionia divenne rifugio per centinaia di famiglie di profughi.
    Nelle settimane successive all’ armistizio, i responsabili dell’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territories - Amministrazione Militare Alleata dei Territori Occupati) decisero di trasferire gli ex internati e i profughi di diverse nazionalità nel dismesso campo di prigionia di Torre Tresca a Bari.  
    Il campo divenne il Villaggio dei Profughi di Torre Tresca, abitato per tutti gli anni ’50 e i primi anni ’60, fino alla realizzazione del Quartiere San Paolo, dove vennero trasferiti gli ultimi residenti.
    Infine, con i lavori per la tangenziale tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 si provvide a dismettere gli ultimi fabbricati.

     

    Torre tresca, com’è oggi

    Panorama, Chiesa di Torre Tresca


    Nel 2007, l’area acquistata dal Corpo Forestale dello Stato, è stata posta sotto sequestro dalla Guardia di Finanza, dopo la realizzazione di una recinzione in muratura che ha contribuito a stravolgere un contesto superficiale, come vedremo, estremamente degradato.

    Prospetto frontale

     

    Prospetto laterale della chiesa


    Del campo di prigionia, del campo di transito e del villaggio dei profughi non resta che la chiesetta su di uno sfondo di palazzi, capannoni e opere pubbliche mai portate a termine. Intorno una distesa di rifiuti e di materiali edili, fra cespugli e vegetazione spontanea, racchiuso tra la tangenziale, il nuovo asse nord-sud (via Tatarella), un breve tratto di strada Torre Tresca o delle Canestrelle, ed il canale deviatore (il Canalone), scavato in epoca fascista, con le sue casematte realizzate durante la seconda guerra mondiale.
    Non distante dalla chiesetta, fino al 2006, era possibile ancora scorgere alcuni vani con volte a botte, realizzati sotto il piano di campagna, forse delle cisterne o dei depositi, frequenti in questa zona di ipogei ed insediamenti rupestri.
    E’ tutto ciò che è sfuggito ai distruttori di storia, insieme con un rudere, modesto ma di grande significato nella nostra ricostruzione storica, che scorgiamo a circa 200 metri dalla chiesetta. Qui, fra gli ulivi, si eleva ancora un muro isolato, costituito da grossi blocchi squadrati di tufo (calcarenite di Gravina), probabilmente estratti in zona. Si potrebbe trattare del resto del caseggiato che si vede nella carta del 1963, in basso a destra, nell’angolo fra il Canalone e la stradina che da questo porta al corpo principale del Campo. E’ ciò che resta della sua storia. 

    Muro esterno, lato est
     

    Particolare

    Visuale, lato sud

    Muro interno, lato ovest


    Annotazione finale sulla chiesetta di Torre Tresca
    A conclusione di questo secondo studio di caso, mentre scrivevo e osservavo le due foto in bianco e nero del campo di transito, entrambe scattate con la stessa angolazione, ho notato che il campanile della chiesetta è visibile nella foto del 1950, ma è assente in quella del 1947.
    Le testimonianze orali che avevo raccolto dalle persone anziane della zona, ma avevano lasciato intendere che la costruzione della chiesa fosse avvenuta ad opera dei prigionieri alleati, in una data compresa fra il 1941 e il 1943. Ma le fotografie smentirebbero questa congettura. La presenza del campanile nella foto degli anni ‘50, sarebbe una buona prova peri datare la costruzione della chiesa in un periodo compreso tra il 1948 e il 1950, opera dei profughi, oramai residenti del villaggio di Torre Tresca.


    E quello che penso io, dei “Distruttori di storia”
    Che posto straordinario, per mostrare la potenza della storia. - scrive Antonio Brusa - Non gli daresti due centesimi, tanto appare desolato e privo di interesse. La storia te ne rivela la ricchezza nascosta. Prima non vedevi, e dopo vedi”. Continua nel suo Diario di Bordo del 11 gennaio 2013: “Non vediamo solo i segni di chi la storia l'ha costruita. Qui c'è una matassa di gomma bruciata, resto della fusione di fili di rame, rubati chissà dove; lì un motorino, ugualmente rubato; un po' più avanti dei copertoni; in giro spazzatura e plastica a volontà; un insediamento, forse industriale, lasciato a metà, con i tondini di ferro sporgenti; strade e canali che interrompono i complessi ipogei. Sono i segni di chi la storia l'ha distrutta. Senza distinzioni di cultura, censo, professione, italiani e rom, ricchi e poveri, uomini dell'amministrazione e industriali, e i tanto famosi cittadini comuni, questa è la vasta e eterogenea comunità dei distruttori di storia".

    Siamo partiti proprio da questa ultima considerazione, quando abbiamo organizzato una visita per il corso “Conoscere, pensare, insegnare la shoah”, coordinato dalla Professoressa Francesca R. Recchia Luciani, che si è tenuto nel Palazzo dell’Ateneo di Bari, il 18/19 ottobre 2013.
    Partiti da Via Mitolo, abbiamo percorso i sentieri lungo i fianchi di lama Picone, dove, oggi, nell’uliveto sorge un campo Rom, di fronte alla chiesa rupestre di Santa Candida (IX-XI secolo), poi, abbiamo visto il complesso ipogeo della Caravella, utilizzato per lo smaltimento illecito di rifiuti, connesso al furto del rame.
    Dopo aver superato via Camillo Rosalba, siamo scesi nella cava che ha distrutto quasi interamente l’ipogeo di Torre Tresca, da li, passando sotto i ponti dell’asse nord-sud, abbiamo incrociato l’ipogeo Riccardo Mola.
    Al di là di un canneto, un sentiero ci ha portato ad un campo ulivi che nasconde parzialmente il muro superstite del campo di Torre Tresca. Ribattezzato da alcuni, scherzosamente ma non troppo, il muro del pianto, dove infilare i bigliettini con le nostre preghiere nella speranza che non si finisca di distruggere definitivamente la storia.
    All’ombra della linea ferroviaria sopraelevata, mai portata a termine, il gruppo  di insegnanti e studenti ha percorso la strada, parallela al Canalone, che collega lama Picone con lama Lamasinata. Giunti al muro di recinzione, costruito nel 2007, nel punto più vicino alla chiesa di Torre Tresca, situata all’interno dell’area, oggi, posta sotto sequestro, abbiamo concluso la nostra visita, prima di ritornare sui nostri passi.

    Visita del 19 ottobre 2013


    Certo è che i distruttori di storia sono ancora la parte maggioritaria. Ma per riscattare le minoranze, questa visita potrebbe essere il primo passo, come scrive Antonio Brusa, per  inventare un laboratorio assai speciale che sia capace di trasformare queste minoranze in maggioranze,di costruttori di memoria.


    Bibliografia
    Leuzzi Vito Antonio, Esposito Giulio, L'8 settembre 1943 in Puglia e Basilicata. Documenti e testimonianze. Edizione dal Sud, Modugno, Bari, 2003.
    Leuzzi Vito Antonio, Esposito Giulio, (a cura di) Terra di frontiera. Profughi ed ex internati in Puglia. Progedit, Bari, 2000.
    Leuzzi Vito Antonio, Esposito Giulio, In cammino per la libertà. Luoghi della memoria in Puglia. 1943-1952. Edizioni dal Sud, Modugno, 2008
    Leuzzi Vito Antonio, De Rose Maria, (a cura di) Problemi di storia del novecento tre ricerca e didattica. La Puglia terra di frontiera 1943-1948. Quaderno n. 35, IRRSAE, Bari, 1998.
    Leuzzi Vito Antonio, De Rose Maria, (a cura di) Problemi di storia del novecento tre ricerca e didattica. Bari e la Puglia negli anni della guerra 1940-1945.Quaderno n .24, IRRSAE, Bari, 1995.
    Gobetti Eric, (a cura di) 1943-1945 La lunga liberazione. Franco Angeli, Milano, 2007.

    Sitografia
    www.campifascisti.it/scheda_campo.php?id_campo=362 (ultima consultazione del sito 17/09/2013)
    www.mondimedievali.net/microstorie/shoah.htm (ultima consultazione del sito 17/09/2013)
    www.anpi.it/donne-e-uomini/nicola-bellomo/ (ultima consultazione del sito 17/09/2013)
    digilander.libero.it/mandler/index.htm (ultima consultazione del sito 17/09/2013)

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