educazione civica

  • "Memorie di pietra memorie di carta" V Festival Internazionale della Public History

    di Antonio Brusa

    29 scuole HL locandina

    Martedì, 29 novembre

    Seduti nel vostro salotto bevendo un caffè, oppure nelle comode poltrone offerte dall'Università di Bari, vi potrete gustare una giornata intera dedidata alla didattica della storia e dell'educazione civica. La mattina sarà il momento della didattica concreta e possibile: fare storia con gli oggetti, o ingegnarsi con gli strumenti digitali (quelli semplici, ohiohi) e divertirsi imparando con i giochi, come vuole il motto di Historia Ludens.

    Nel pomeriggio, invece, ci sarà una panoramica di giochi utili per insegnare insieme Storia ed Educazione civica, non solo di Historia Ludens, ma anche di altri compagni di viaggio che abbiamo incontrato in questi anni. Date uno sguardo alla locandina, segnate in agenda e iscrivetevi se potete.

     

    MARTEDI 29 novembre GENERALE

  • «La democrazia ha bisogno dell'educazione civica» La Politische Bildung in Germania.

    di Antonio Prampolini

     

     

    1. Principi, contesti e indirizzi dell’educazione civica

    La Politische Bildung (l’educazione civica) vanta una lunga tradizione in Germania (Repubblica Federale) dove ha svolto un ruolo importante, accompagnando e supportando la transizione alla democrazia dopo la tragica esperienza della dittatura nazista, negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, l’imponente crescita economica e sociale del paese nei decenni successivi, il processo di riunificazione dello Stato tedesco dopo la caduta del Muro di Berlino[1].

    01. POLITISCHE BILDUNG IMMAGINE 1Beutelsbacher Konsens: https://kita-global.de/blog/dokumentation-in-unserer-mitte-die-welt/beutelsbacher-konsens/

    Beutelsbacher Konsens(Consenso di Beutelsbach). I tre principi base dell’educazione civica.

    Nell’autunno del 1976, i diversi indirizzi/orientamenti (alcuni più conservatori ed altri più innovativi e critici) nell’ambito della Politische Bildungsi erano confrontati in una conferenza promossa dall’Agenzia per l'educazione civica del Baden-Württemberg, a cui avevano partecipato insegnanti, pedagogisti, educatori con differenti provenienze culturali, politiche e confessionali.La conferenza aveva prodotto un documento unitario, noto comeBeutelsbacher Konsens (Consenso di Beutelsbach),dal nome della località dove si era svolta. Il documento illustrava i principi base a cui doveva ispirarsi l’educazione civica in Germania e, conseguentemente, le linee guida che avrebbero dovuto seguire gli operatori del settore; principi e linee guida che ancora oggi costituiscono un imprescindibile punto di riferimento per la Politische Bildunge il suo insegnamento nelle scuole[2].

    Tre sono i principi base.

    Il primo Überwältigungsverbot(Divieto d’imposizione) richiede agli insegnanti di non imporre le proprie opinioni, idee, scelte politiche agli studenti. L’obiettivo dell’educazione civica non deve essere l’indottrinamento ma la sviluppo di un’autonoma capacità di giudizio da parte dei singoli. Il rispetto di questo principio non esige la “neutralità” ideologica o valoriale dei docenti ma la “trasparenza” e la “obiettività” nell’esercizio della loro attività formativa/educativa.

    Il secondo principio Kontroversität(Contrapposizione) invita ad affrontare gli argomenti attraverso il confronto, la “contrapposizione” delle idee/opinioni/scelte alternative come metodo irrinunciabile nell’insegnamento di una educazione civica che vuole essere informata, aperta e democratica (fondata sull’adesione ai valori e alle pratiche di un moderno sistema democratico). «Ciò che è controverso nella scienza e nella politica deve apparire controverso anche in classe. Se si ignorano i diversi punti di vista e le alternative rimangono indiscusse, è il percorso verso l'indottrinamento che viene intrapreso»[3].

    Il terzo principio Schülerorientierung (Orientamento dello studente) ricorda che una Politische Bildungefficace deve offrire ai giovani gli strumenti conoscitivi che consentano a loro di “orientarsi” nella società tedesca e di formarsi come cittadini in grado di partecipare in modo libero e consapevole alla vita politica ed economica del paese.

     


    02. POLITISCHE BILDUNG IMMAGINE 2Demokratie braucht politische Bildung: Schriftenreihe Bundeszentrale für Politische Bildung Band 454

    Münchner Manifest(Manifesto di Monaco). Democrazia e educazione civica

    “La democrazia ha bisogno dell'educazione civica” (Demokratie braucht politische Bildung) è il titolo del documento redatto nel maggio del 1997 dall’Agenzia Federale per l'Educazione Civica (Bundeszentrale für politische Bildung – BpB) in collaborazione con le Agenzie Statali dei singoli Länder (Landeszentralen für politische Bildung – LpB). Il documento, noto comeManifesto di Monaco(Münchner Manifest), prende in esame il nuovo contesto politico, economico, sociale e culturale in cui le agenzie pubbliche per l'educazione civica si trovavano ad operare in Germania alle soglie del 21° Secolo.

    Il Münchner Manifestsi articola in sette punti:

    1. «La Politische Bildung deve essere pluralista, imparziale e indipendente»;

    2. «Le agenzie per l'educazione civica promuovono la partecipazione politica dei cittadini»;

    3. «Le agenzie per l'educazione civica devono prepararsi ad affrontare i loro futuri compiti in un mondo globale»;

    4. «Le agenzie per l'educazione civica lavorano per la stabilità della democrazia anche in tempi di crisi economica»;

    5. «La Politische Bildungha una missione speciale nei nuovi ländern [ex DDR]»;

    6. «Compito centrale dell'educazione civica è rileggere in modo critico la storia della Germania»;

    7. «La Politische Bildung si avvale di diverse metodologie di lavoro».

     

    Contenuti, metodi e obiettivi dell’educazione civica nel Manifesto di Monaco

    Il passaggio dalla società industriale a quella postindustriale, il progresso tecnologico (in particolare la rivoluzione digitale) con il suo forte impatto sull’occupazione (riduzione di posti di lavoro nelle attività tradizionalie rapida obsolescenza delle professionalità), le interdipendenze sempre più strette e vincolanti dell’economia mondiale avevano innescato processi di cambiamento profondi ed estesi; processi che avevano prodotto (e minacciavano di produrre negli anni avvenire) un diffuso malessere sociale, un distacco dei cittadini dalle classiche forme di rappresentanza e mediazione politica  In questo contesto globale, nazionale e regionale la Politische Bildung veniva chiamata ad offrire un contributo importante nell’orientare le persone verso atteggiamenti e comportamenti autenticamente democratici, partecipativi e solidali.

    In particolare, nei ländern orientali (ex DDR), la Politische Bildungdoveva svolgerel’importante compito di «risvegliare e promuovere la volontà dei cittadini di intraprendere un'azione politica responsabile nel passaggio dalla dittatura alla democrazia e da un'economia pianificata centralizzata ad un'economia sociale di mercato».

    Per il Manifesto di Monaco la conoscenza della storia della Germania, e soprattutto della dittatura hitleriana, doveva costituire uno degli obiettivi principali delle politiche di educazione civica promosse dalle agenzie preposte (federale e regionali) sia verso i giovani che gli adulti, nelle scuole e nella società, «in modo che gli errori del passato possano essere evitati in futuro».

    Il Münchner Manifest, dopo avere sottolineato la necessità di valutare e implementare nuovi metodi didattici/divulgativi e nuove modalità di intervento da parte delle agenzie pubbliche e degli altri operatori del settore (dall’utilizzo delle tecnologie digitali allo sviluppo di iniziative partecipative rivolte in particolare ai giovani), concludeva la propria analisi con una riflessione ampiamente condivisibile: «Il “ritorno” dell’educazione civica non può essere calcolato usando categorie economiche di input e output. Allo stesso modo, le considerazioni sull'efficienza a breve termine non possono essere un criterio adatto per le attività di educazione civica. Tuttavia, una cosa è certa: l'educazione cambia il pensiero e il comportamento delle persone, fornisce orientamento ed è quindi un investimento per il futuro».

     

    03. POLITISCHE BILDUNG IMMAGINE 3fonte: https://m.bpb.de/mediathek/287073/was-uns-bewegt-emotionen-in-politik-und-gesellschaft

     

    Anni duemila: il dibattito sui contenuti e sugli obiettivi formativi dell’educazione civica. L’indirizzo analitico/didattico.

    Il dibattito sull’educazione civica nel corso degli anni duemila si è concentrato in Germania su quali discipline accademiche dovrebbero essere prese in considerazione nell’individuare e definire i contenuti della Politische Bildung (la sola scienza politica o le scienze sociali, nel loro insieme, come discipline di riferimento) e su quali impostazioni concettuali e pratiche/esperienze partecipative siano più adatte ad un insegnamento/apprendimento efficace[4].

     

    Di particolare interesse è l’indirizzo analitico/didattico alternativo che pone al centro dell’educazione civica «le conoscenze, le esperienze e le percezioni dei singoli studenti». Un indirizzo che si basa sulla «consapevolezza della cittadinanza» e che intende far emergere le «idee intuitive degli individui sul mondo sociale e politico», e che perciò si colloca agli antipodi degli approcci esclusivamente o prevalentemente normativi/precettistici all’insegnamento dell’educazione civica.

    Nel solco di questo indirizzo analitico/didattico la Bundeszentrale für politische Bildung (l’Agenzia federale per l’educazione civica) ha organizzato nel marzo del 2019 a Lipsia un congresso (il 14° Congresso federale) dal titolo significativo:Was uns bewegt. Emotionen in Politik und Gesellschaft(Cosa ci commuove. Emozioni nella politica e nella società). Il congresso ha discusso il ruolo delle emozioni nel dibattito politico, nei social media, negli affari, nell'arte, nell'istruzione e nella tecnologia, per dimostrare che «le emozioni possono guidare l'impegno politico e regolare le affiliazioni sociali» e che «i processi educativi senza emozioni sono impensabili». Il congresso era suddiviso in diverse sezioni tematiche, di cui alcune dedicate in particolare all’educazione civica: Emotionen in politischen Bildungsprozessen: Welchen Einfluss haben sie?(Emozioni nei processi di educazione civica: che influenza hanno?); Emotionalisierende Zugänge politischer Bildung (Approcci emotivi all'educazione civica); Wie reagiert politische Bildung auf emotionalisierte Verhältnisse? (In che modo l’educazione civica reagisce alle condizioni emotive).

     

     

    2. Strutture e risorse per l’educazione civica

     

    04. POLITISCHE BILDUNG IMMAGINE 4fonte: https://logos-download.com/40450-die-bundeszentrale-fur-politische-bildung-logo-download.html

    L'Agenzia federale: Bundeszentrale für politische Bildung. Settant’anni di governo dell’educazione civica.

    L’educazione civica in Germania ha il proprio fulcro organizzativo nellaBundeszentrale für politische Bildung.L’Agenzia federale è stata istituita nel novembre del 1952, come ente del Ministero degli Interni, e la sua attività è sottoposta al controllo del Parlamento (Bundestag). Dalla sua istituzione ad oggi si è occupata (con un'attività di orientamento, formazione, documentazione e divulgazione) di educazione civica sia nelle scuole che nella società affrontando di volta in volta i temi collegati alle principali problematiche che hanno caratterizzato i diversi momenti della storia della Germania negli ultimi settant’anni.

    Nell’immediato secondo dopoguerra, l’obiettivo principale dell’Agenzia federale è stato quello di educare il popolo tedesco ai principi e alle regole di un sistema democratico parlamentare, dopo l’esperienza della dittatura hitleriana, e di impedire la diffusione di ideologie totalitarie.

    Negli anni sessanta, l’opposizione al modello politico-sociale-economico comunista della Germania Orientale (DDR) occupa un posto centrale nell’attività dell’Agenzia. In quegli anni inizia (sia pur timidamente) ad essere affrontato lo spinoso problema delle colpe/responsabilità del popolo tedesco nella Seconda guerra mondiale e, in particolare, nella tragedia dell’Olocausto. Nel 1963 l’Agenzia organizza un viaggio di studio in Israele, due anni prima del ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Germania e Israele. Nel decennio successivo, la Bundeszentraleè stata oggetto di una serie di riforme, riguardanti sia la struttura organizzativa che l’orientamento culturale, per adeguarla al nuovo contesto politico-sociale e alle nuove esigenze educative (il Beutelsbacher Konsensè del 1976). Il 1969 segna una svolta nella storia politica della Repubblica Federale, il Partito Socialdemocratico (SPD) assume la guida del governo con Willy Brandt cancelliere (nel 1974 sostituito da Helmut Schmidt che rimarrà in carica fino al 1982).

    Gli anni settanta sono per la Germania anni di nuovi indirizzi di politica estera verso i paesi del’Europa dell’Est (la Ostpolitik), di riforme sociali ma anche di crisi economica e di terrorismo. Negli anni ottanta l’Agenzia federale ha affrontato inparticolare le questioni collegate alla scarsa partecipazione dei cittadini tedeschi alla vita politica nelle sue forme tradizionali (la crisi dei partiti politici), alla nascita di movimenti alternativi e di iniziative civiche su temi come la corsa agli armamenti, l’uso dell’energia nucleare, la difesa dell’ambiente.

    Nell’ultimo decennio del Novecento, dopo la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania, l’attività dell’Agenzia federale si è concentrata sulla “ri-educazione civica” della popolazione dei territori della ex DDR dopo quarant’anni di regime comunista.

    Gli anni duemila hanno visto la Bundeszentraleimpegnata, nel contesto di una società e di una economia fortemente globalizzate, a sviluppare nuove iniziative e servizi per incoraggiare la partecipazione attiva dei giovani alla vita politica del paese, per favorire l’integrazione-inclusione sociale degli immigrati, per indagare e contrastare con adeguati interventi educativi i movimenti xenofobi e neonazisti nei Länder orientali.

    Questo rapido excursus mostra come, nel corso dei quasi settant’anni di vita dell’Agenzia federale, non sono cambiati solo i contenuti, le aree d’intervento, le finalità dell’educazione civica ma anche gli strumenti e le modalità operative di questa importante istituzione pubblica.

    Inizialmente, l’Agenzia si era servita, nello svolgimento della propria attività istituzionale, prevalentemente di pubblicazioni periodiche (bollettini, riviste, materiali didattici/divulgativi) rivolte sia al mondo della scuola che ai cittadini tedeschi, per poi affiancare a questi mezzi informativi tradizionali la produzione di filmati e audiovisivi, l’allestimento di esposizioni/mostre fisse o itineranti, l’organizzazione di viaggi della memoria, di convegni/conferenze per la formazione di insegnanti ed educatori. Negli anni ‘90 l’Agenzia federale ha sposato le nuove tecnologie digitali progettando database interattivi e giochi di simulazione per uso didattico ed entrando in rete con un proprio portale istituzionale, che rappresenta oggi il principale strumento d’informazione e di documentazione delle sue molteplici attività.

     

    Le Agenzie territoriali: Landeszentralen für politische Bildung

    L’organizzazione dell’educazione civica in Germania, oltre che sulla Bundeszentrale, si basa sulle Agenzie territoriali (Landeszentralen für politische Bildung) che operano, con diversi inquadramenti istituzionali, nei 16 Länder che costituiscono lo Stato federale (i Länder sono autonomi nella gestione della politica scolastica) Le attività didattico-divulgative delle Landeszentralenricalcano a livello locale, sia in ambito scolastico che extra-scolastico, quelle svolte a livello federale dalla Bundeszentrale,da cui però non dipendono in quanto enti pubblici emanazione dei singoli Länder (numerose sono però le iniziative promosse in collaborazione con la Bundeszentrale)[5]. Le Landeszentralensono tutte presenti in rete, dove, nei loro siti web, offrono informazioni, documenti, materiali didattici, realizzazioni multimediali a tutti coloro che operano a vari titolo nel settore dell’educazione civica.

     

    05. POLITISCHE BILDUNG IMMAGINE 5videata del sito web della Bundeszentrale für Politische Bildung, fonte: https://www.bpb.de/

     

     L’educazione civica e il Web: il portale dell’Agenzia federale

    La diffusione del Web a partire dalla seconda metà degli anni Novanta ha offerto all'educazione civica nuove e straordinarie opportunità. L'Agenzia federale (Bundeszentrale für politische Bildung) ha inaugurato nel settembre del 1997 la prima versione del suo portale istituzionale online.

    Ilportale (nella sua attuale versione) è suddiviso in sezioni che corrispondono alle aree tematiche e ai servizi in cui si articola l'attività dell'Agenzia federale.

    Le sezioniPolitica(Politik) eInternazionale (Internationales) comprendono dossier sulle principali questioni politiche ed economiche (interne e internazionali) all'ordine del giorno in Germania e nel mondo (i dossier si possono consultare oltre che in tedesco -la lingua originale- in italiano, utilizzando la traduzione automatica online di Google Chrome).

     

     La storia

    La sezione dedicata allaStoria(Geschichte) si caratterizza per l'ampiezza dei temi e la ricca documentazione che attestano il ruolo centrale della conoscenza del passato nella Politische Bildung. Tra i principali argomenti affrontati riguardanti la storia tedesca del Novecento: la Prima guerra mondiale, il Nazionalsocialismo, la Seconda guerra mondiale, il Genocidio degli ebrei, la Germania Occidentale - BRD e la Germania Orientale - DDR, la Caduta del muro di Berlino e l'Unificazione delle due Germanie. Per i secoli antecedenti il XX°, gli eventi caratterizzanti la storia nazionale vengono individuati nella Riforma Luterana(1517), nella Guerra dei Trent'anni(1618-1648), nella Nascita del Reich(1871). Con uno sguardo all'Europa e al mondo, completano il quadro storico del Novecento: la Rivoluzione bolscevica dell'ottobre 1917, il Genocidio degli Armeni, il Piano Marshall, la Guerra fredda, il Colonialismoe il Post-Colonialismo.

    I dossier della sezione Storia sono composti da schede redazionali e saggi autoriali, e sono corredati da fotografie, mappe/carte geografiche, audiovisivi, bibliografie/sitografie. La sezione propone unaDeutschland-Chronik, che fornisce dati e riflessioni sulla storia politica, economica e sociale della nazione tedesca dalla fine della Seconda guerra mondiale all'anno 2000, e indirizza verso la banca dati digitaleDeutschland Archiv Online, che offre testi, video, gallerie fotografiche sulla Germania nella seconda metà del Novecento.

     

    La storia e le scienze sociali

    La sezione dedicata allaSocietà(Gesellschaft) è strutturata in sei sottosezioni: Genere, Migrazioni, Ambiente, Educazione, Digitale, Media, che contengono numerosi dossier sui rispettivi argomenti. La sottosezioneEducazione propone una "storia dell'educazione civica" in Germania dal 1945 ad oggi (idee e orientamenti culturali, politiche e pratiche educative nelle scuole e nella società, verso i giovani e gli adulti). Nella sottosezioneDigitale vengono affrontate, in particolare, le questioni relative alla disinformazione in rete, alla tutela dei diritti personali sui social, al corretto utilizzo dei motori di ricerca e di Wikipedia. La sottosezioneMedia si concentra sulla circolazione di notizie false, sulle campagne diffamatorie e gli scandali mediatici per valutare la loro influenza politica/elettorale in un sistema democratico.

     

    La didattica

    La sezione relativa allaDidattica (Lernen),affronta l'insegnamento/apprendimento dell'educazione civica sia nelle scuole elementari che in quelle superiori, fornendo  indicazioni di metodo (Tecniche di presentazione, Uso delle immagini come fonte storica, Giochi educativi, ecc.), materiali di supporto per le lezioni su diversi argomenti (Costituzione della Repubblica Federale Tedesca, Diritti fondamentali dei cittadini, Prima e Seconda Guerra Mondiale, Nazismo, ecc.), progetti di ricerca/indagine da svolgere in collaborazione con gli studenti su temi specifici (Bullismo, Decisionie Clima in classe, ecc.). Particolare attenzione viene dedicata all'uso didattico del Web 2.0, le cui pratiche partecipative e interattive sono considerate funzionali all'insegnamento dell'educazione civica (scrittura collettiva wiki, creazione di blog/siti, storytelling audiovisivi, condivisione di informazioni ed esperienze sui social, ricerche di gruppo in rete - webquest, ecc.). Un'educazione civica che ha come obiettivo la formazione di cittadini che, anche grazie ai servizi offerti da Internet, siano in grado di esercitare i lori diritti e di adempiere ai loro doveri in modo consapevole e collaborativo.

     

        [1]  Sulla storia dell'educazione civica in Germania:

          J. Detjen, Politische Bildung: Geschichte und Gegenwart in Deutschland,München, 2007;

         J. Detjen,Politische Bildung,Konrad Adenauer Stiftung;

          A. Kalina,Faktensammlung zum Stand der Politischen Bildung in Deutschland, Konrad Adenauer Stiftung, 2014;

          D. Lange,Citizenship Education in Germany,in The Making of Citizens in Europe -III. Perspectives on Citizenship Education: Country Profiles, BpB, 2015.

    [2]   B. Widmaier, P, Zorn, Brauchen wir den Beutelsbacher Konsens? Eine Debatte der politischen      Bildung, BpB, Bonn 2016;

        K. Ahlheim,Die weiße Flagge gehißt‘? Wirkung und Grenzen des Beutelsbacher Konsense,in: K. Ahlheim, J. Schillo, Politische Bildung zwischen Formierung und Aufklärung, Offizin Verlag,   Hannover, 2012.

    [3]    K. Pohl,Kontroversität: Wie weit geht das Kontroversitätsgebot für die politische Bildung?, BpB, 2015.

    [4]    J. Klatt,Partizipation: Ein erstrebenswertes Ziel politischer Bildung?, BpB, 2012.

    [5]   P. Massing,Bundes- und Landeszentralen für politische Bildung, BpB, 2015.

  • Abbecedari della cittadinanza per pensare e costruire comunità

    photo 2023 04 16 14 01 32 Circa 2000 studenti, 30 scuole, 150 classi delle Scuole di Bari e dintorni (dall’Infanzia ai Licei), in dialogo con i 20 docenti del gruppo interdisciplinare Uniba AbCD (Abbecedario della cittadinanza democratica), con numerosi altri colleghi, esperti, studenti universitari, dottorandi e dottori di ricerca coinvolti nel progetto, con i partner delle Associazioni e gli stakeholders territoriali e politici messi in rete.

    Il progetto Abbecedario della cittadinanza democratica è tra i vincitori del bando competitivo Horizon Europe Seeds Uniba ed è finanziato dal Fondo per la promozione e lo sviluppo delle politiche del Programma Nazionale per la Ricerca (PNR) assegnato all’Ateneo, per “Iniziative di ricerca interdisciplinare che esplorino temi di rilievo trasversale per il PNR”. L’iniziativa del 20-21 aprile si inserisce, inoltre, tra quelle promosse dall’Orientamento consapevole Uniba.

    Historia ludens partecipa a questa straordinaria kermesse con laboratori e giochi. Non perdete l’occasione di iscrivervi.

     

     

     

    Di seguito il calendario degli incontri:

    Abbecedari della cittadinanza 2023 PROGRAMMA 1 Pagina 04

     

    Abbecedari della cittadinanza 2023 PROGRAMMA 1 Pagina 05

     

    Abbecedari della cittadinanza 2023 PROGRAMMA 1 Pagina 06

     

    Abbecedari della cittadinanza 2023 PROGRAMMA 1 Pagina 07

     

    Il programma completo in PDF puoi scaricarlo qui.

     

  • Che dire in classe del “populismo”? Il concetto e alcuni problemi di insegnamento.

    Autore: Antonio Brusa
     

    Fig. 1. Il populismofenomeno mondiale,  secondo un disegnatore olandese

     

    Una parola carica di storia
    Il dizionario la mette giù semplice: “Populismo è qualsiasi movimento politico diretto all'esaltazione demagogica delle qualità e capacità delle classi popolari”. Tuttavia,basta passare alla definizione, per quanto stringatissima,dell’Enciclopedia Treccani, o a quella un po’ più articolata delDizionario di Storiografia della Bruno Mondadori, per mettere in luce il problema che ne complica la spiegazione: come tutti i concetti storici, infatti, anche “populismo” ha un significato che cambia nel tempo, e con questo si arricchisce di sfumature e varianti.

    Dalle sue origini, nella Germania  antisemita dell’Ottocento (come ci racconta Francesco Violi), “populismo” è passato, nello stesso secolo, a designare sia un movimento russo, dai caratteri un po’ anarcoidi e molto rivoluzionari, che opponeva il popolo oppresso alla nobiltà e al clero, sia un partito americano, il Populist Party, avversario acerrimo dei Democratici. Una volta entrato nel Novecento, il concetto ha preso a viaggiare. E’ entrato nelle democrazie occidentali, scrive Marco D’Eramo, spiegandoci che Roosevelt era “populista”, quando si batteva contro le oligarchie economiche del suo paese. Si è acclimatato nell’America latina, il “paradiso del populismo”, secondo Loris Zanatta, dove J.D. Perón, il dittatore argentino, ne ha creato una variante di successo, legando all’idea di popolo quella di un leader carismatico, che ne interpreta la volontà. E, finalmente, è giunto nell’Italia repubblicana, con le tante versioni di populismo, da Giannini, il fondatore dell’Uomo Qualunque, fino ai più recenti Berlusconi, Di Pietro, Bossi/Salvini,  Grillo e Renzi. L’Italia, scrive Lucio Caracciolo, pensando anche al sottofondo populista del Fascismo, sembra la culla dei populismi europei. Quello che è certo, è che l’Europa di oggi appare invasa da populismi, un po’ come l’Europa degli anni ’30 fu caratterizzata dal proliferare dei fascismi.  

    Fig. 2 Questa vignetta del 1896 mostra il populistaWilliam Jennings Bryan nelle vesti di un serpente che ingoia l’asinello Democratico.

     

    Movimento di destra o di sinistra?
    Molti movimenti populisti odierni hanno nomi e leaderaccomunati da una chiara ideologia di destra: da Marine Le Pen del Fronte Nazionale in Francia, al Partito per le Libertà di Geert Wilders in Olanda, al Fidesz di Viktor Orbán in Ungheria, allo UKIP di Nigel Farage in Inghilterra, al polacco Giustizia e Libertà degli (ex) gemelli Kaczinsky, e poi i Perussuolamalaiset, ovverossia “I Veri Finlandesi” di Timo Soini, i Democratici Svedesi, il Partito del Progresso Norvegese (e tanti altri). Ne dobbiamo concludere che il populismo è unaideologia politica di destra? (Sul questo si veda l’intervista di Piotr Zygulski a Luca Andriola)   

    Lasituazione spagnola istilla qualche dubbio. Qui, infatti, la partita politica sembra giocarsi fra due movimenti, entrambi inequivocabilmente populisti: Podemos, di sinistra, e l’emergente Ciudadanos, di destra. E, elemento accessorio quanto significativo in quest’epoca di simboli, i loro colori–  rispettivamente il viola e l’arancione - sono emersi nel panorama politico europeo come “colori politici” solo alla fine del secolo passato, avvertendoci che anche “destra e sinistra”, con le loro divise tradizionali, sono realtà soggette a cambiamento.

    Nicolò Talenti, sul “Fatto quotidiano”, discute la definizione che abbiamo visto sopra. La accoglie per il suo richiamo al socialismo ottocentesco, ma la critica per il riferimento alla “demagogia”.E’ una sottolineatura spregiativa ingiusta, argomenta, perché il populismo, proprio perché fa “ricorso al popolo”, rivela una sostanza democratica che va apprezzata positivamente. Dello stesso parere é Nicoletta Tiliacos, dalle pagine del “Foglio”, che, recensendo il libro di Marco Tarchi (L’Italia populista: dal qualunquismo ai Girotondi, Il Mulino, Bologna 2003) afferma come sia soprattutto la sinistra a nutrire un’opinione negativa sul populismo, per quanto ne mostri ampie contaminazioni.

    Fig. 3. Sul fenomeno del populismo, e sulle diverse interpretazioni, si veda il ricco, quanto agile, dossier della Fondazione Feltrinelli, con interventi di Urbinati, Zilioli, Müller e altri

     

    Christian Raimo, su “Internazionale”, ne illustra dapprima il carattere reazionario:“Se c’è una cosa che hanno mostrato la politica italiana ed europea negli ultimi trent’anni, è che ovunque si è affermato un populismo di destra. Antidemocratico, nazionalista, reazionario, sostanzialmente xenofobo, ma non solo: multiforme, mimetico, interclassista, trasversale. La crisi delle ideologie del Novecento si è portata dietro i partiti, i sindacati, ma anche lo stesso impianto dei diritti sociali”. Poi, ne lascia intravvedere le valenze di sinistra, citando Ernesto Laclau (On Populist Reason, London-N.Y, 2005) e, attraverso lui, ricorrendo a Gramsci: “il populismo fino a oggi non è solo stato degradato, è stato proprio denigrato, è stato condannato moralmente. Questo ha significato essenzialmente screditare le masse”.  Come si può, conclude, escludere che sia di sinistra un movimento che considera così centrale l’idea di popolo?

     

    Il concetto di popolo
    Ecco il termine cruciale. “Popolo”. Che cosa intendiamo con questa parola, sulla cui variabilità lo storico ha molto da dire? Popolo aveva un significato ad Atene, come sa qualsiasi insegnante di storia, e un altro a Roma. Nel Medioevo assunse accezioni molto distanti (all’epoca dei regni romano-germanici, per esempio, quando era l’insieme di quelli che potevano combattere; o al tempo delle città comunali, dove spesso fu una consorteria di ceti); nell’Età moderna si definì prima come la totalità dei sudditi, poi come gli abitanti soggetti alle leggi vigenti in un territorio. Dalla fine del Settecento entrò in un rapporto, non sempre lineare, col termine “cittadino”.Oggi è una parola solo apparentemente condivisa e chiara. Infatti, alla domanda “che cos’è il popolo italiano?” ci divideremmo subito. Per alcuni sarebbe l’insieme degli abitanti della penisola; per altri l’insieme dei cittadini italiani; per altri ancora l’insieme dei nati in Italia e dei loro discendenti, per qualcuno anche se viventi all’estero.

    Il “popolo di populismo” è qualcosa di ulteriormente diverso. E’ una sorta di costrutto chimerico, per metà malleabile e per metà solido come la pietra. Da una parte, infatti, esso si riferisce a realtà che vengono rielaborate a seconda delle situazioni. Ma, una volta che questa realtà è stata formata, questa diventa astorica e assoluta.

    Così lo spiega Mario Tarchi (citato da Christian Raimo). Nell’idea populista, il popolo è  una “una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili”.  Esso ha “naturali qualità etiche” in base alle quali contrappone il suo “realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali”.  Esso, quindi, per quanto artificiosamente costruito, rivendica il suo primato contro ogni forma di rappresentanza e mediazione, loro sì, bollate come “politiche”e dunque “artificiose”.Per spiegare la sua natura particolare, Claudio Rise, fa ricorso al concetto di “primordialismo”. Si tratta, scrive, di un “criterio cognitivo, di orientamento a valenza identitaria, in base al quale: a) gli individui classificano sé e gli altri, e b) su queste classificazioni formano poi gruppi, appartenenze che influenzano il comportamento dei membri".

     

    Un popolo compatto, maa geometria variabile
    Il “popolo” dei populisti, dunque, è costruito a partire da una qualche classificazione. E’ il gruppo dei “noialtri”, opposto ai “loro altri”. Ma chi sono i nostri? Dipende. Possono essere quelli d’accordo con il fatto che gli “altri” vadano rottamati; oppure che gli “altri” debbano essere travolti dalla ruspa, o, in alternativa, mandati a quel paese. “Rottamazione”, “ruspa” e “vaffa” sono parole d’ordine che scombinano le classificazioni politiche e sociali abituali, e le ricombinano in nuove appartenenze (è ancora Christian Raimo a parlare). Per questo è difficile identificare un populista con i sistemi che fino al recente passato sono serviti a distinguere la destra dalla sinistra. E per questo, ancora, un populista ha buon gioco nello sfuggire alle etichettature. “Noi, dirà, siamo il popolo. E il popolo non ha colore politico”.

    Questi molti “popoli-populisti” condividono una sorta di narrazione originaria: “Gli altri ci opprimono, ci tolgono diritti e ricchezze. Sono corrotti. Quindi li dobbiamo combattere e eliminare”. E’ un racconto assai simile a quello che le genti europee del diciannovesimo secolo hanno appreso dalla predicazione nazionalistica: che dovevano riscattarsi dal loro lungo servaggio e risorgere. Con una differenza da sottolineare con cura. In fondo, per quanto “inventate”, le nazioni europee si basavano su elementi territoriali, linguistici, storici che venivano ricomposti e riutilizzati alla bisogna. Nei populismi, invece, la libertà nella scelta degli elementi discriminatori è straordinariamente più ampia: si va dal nazionalismo ipertradizionale, all’antieuropeismo, all’egoismo sociale, all’esaltazione parossistica dell’onestà, all’antimeridionalismo, alla xenofobia, al razzismo, alla modernizzazione efficientistica, alla condanna dell’evasione fiscale o alla sua esaltazione, alla ripulsa di ebrei, arabi, zingari (ecc.).

    A onta di questa variabilità, il “popolo-populista” esibisce una compattezza formidabile. E’ la tesi sostenuta da Yves Mény e Yves Surel. La valorizzazione del popolo, scrivono, porta ad una idealizzazione tale della “comunità immaginata”, che questa viene presentata unita, forte e risoluta nel reagire contro chi attenta alla sua identità: esattamente come le nazioni che, due secoli fa, combatterono per acquisire l’indipendenzae il diritto al riconoscimento internazionale (Populismo e democrazia, Bologna, il Mulino 2001. Vedine qui la recensione).

    Fig. 4 Nel disegno di Plantu, populisti di destra e di sinistra sono accomunati nella denuncia del marciume generale. 

    François parla della crescita di una maggioranza popolare antiprogressista in Francia

     

    Perché il populismo
    Si ritiene solitamente che il populismo sia l’antitesi della politica. Gli stessi rappresentanti dei movimenti (o partiti) populisti amano mostrarsi come i suoi nemici. Giovanni Orsina guarda il fenomeno da un punto di vista diverso. Ipotizza che la suadiffusione dipenda da una sorta di ritardo psicologico delle masse. In pratica, secondo lui, è successo questo. Col finire del secolo passato, siamo entrati in una fase storica così diversa, da obbligarci a cercare e costruire nuovi modi di interpretare il mondo. Tuttavia, molte persone pensano di vivere ancora nel XX secolo, “nel secolo delle ideologie e della politica che faceva promesse ambiziose”.  Vivono in un mondo nuovo con gli schemi mentali di un passato, nel quale i partiti costruivano progetti politici di ampio respiro.

    La politica, al posto di “insegnare” che il mondo è cambiato, e di “svegliare la gente dal sogno del Novecento”, prende la strada più facile: insegue i desideri della gente e promette ciò che questa si attende. Impegni che si rivelano, inevitabilmente, irrealizzabili. Di qui la frustrazione e il disprezzo per dei partiti incapaci. Il populismo odierno, quindi, secondo Orsina, nasce da un forte bisogno di politica: solo che chiede una politica d’altri tempi. La sua diffusione esprime uno dei tanti paradossi della nostra epoca, nella quale i partiti sono considerati dei ruderi inefficienti e dannosi, ma, al tempo stesso, se ne rimpiange la capacità di direzione e gli orizzonti verso i quali riuscivano, in un passato che resta ancora fresco nella memoria, a indirizzare masse imponenti di cittadini.

     

    Problemi didattici
    La tesi di Orsina, anche perché espressa con la sinteticità dell’editoriale, va discussa e sfumata. In questa sede – tuttavia - può avere il merito di aprire un dibattito didattico interessante  su due punti. Il primo è che sollecita il docente a collocare il fenomeno “populismo” nelle grandi trasformazioni dei nostri tempi. Per capire questo fenomeno, e la sua spettacolare avanzata in Europa, non basta conoscere la sua definizione (per questo, come per altri concetti analoghi). Occorre ricostruire il contesto, in questo caso dell’età “molto contemporanea”, e, per far questo, l’insegnante deve ritagliare un tempo sufficiente, all’interno della programmazione dell’ultimo anno.

    Il secondo nasce dall’analisi del quadro cognitivo diffuso, che (sempre a giudizio di Orsina) favorirebbe l’avanzata del populismo.  Ecco gli elementi di questo quadro.

    -    Una perdita del senso della realtà, che fa ritenere plausibili operazioni per quanto del tutto improponibili
    -    Un’ostinata ricerca di un capro espiatorio, che porta alla soluzione facile di ogni problema: basta punire un colpevole per risolverlo
    -    La diffusione del “complottismo”: cioè la convinzione che ci sia sempre un soggetto preciso, dietro i problemi che viviamo
    -    L’indignazione cosmica, scatenata dall’osservazione che nessuno adotta soluzioni che appaiono semplici e a portata di mano
    -    L’idea che siamo giunti ad un punto così basso, che peggio di così non si può andare. Tanto peggio, tanto meglio

    Per adoperare categorie cognitive più familiari agli insegnanti di storia, possiamo dire che Orsina allude a quella incapacità di maneggiare situazioni complesse e astratte, che obbliga il soggetto-cittadino a operareipersemplificazioni della realtà e a personalizzare processi storici. E’ il quadro clinico che Anna Emilia Berti delinea nelle pagine di “Mundus”, parlando degli ostacoli alla corretta comprensione della storia. Non è nuovo, e non è per nulla specifico di uno dei tanti “mali” della società che viviamo. Negli anni ’60 del secolo scorso, von Friedberg e Hubner ne scoprivano le tracce nella concezione storica degli adolescenti deltempo. Ecco che come la descrivevano:

    “Gli eventi storici e i loro nessi vengono rappresentati per mezzo di categorie dell’esperienza quotidiana ingigantite, quando non siano semplicemente ridotti (come avviene nei ragazzi fino all’età di circa 13 anni) alle categorie normali della cosiddetta esperienza concreta“immediata”. [...] Tutti gli avvenimenti storici e le situazioni sociali vengono visti sempre come il risultato dello sforzo di singole persone. Le motivazioni e le caratteristiche ad esse attribuite “spiegano” i nessi di condizionamento relativi alla struttura sociale e la continuità della storia” (von Friedeburg, Hubner, Immagine della storia e socializzazione politica (1964), trad. it. in Barbagli (a cura di), Scuola, potere, ideologia, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 271, cit. da Berti).

    Il quadro cognitivo tracciato da Giovanni Orsina, dunque, fa pensare ad una mancata formazione storica generalizzata, piuttosto che a un trauma conoscitivo tipico dei nostri contemporanei.  La diffusione del populismo, dunque, sarebbe una spia di un fatto sociale più vasto, non necessariamente limitato né ai nostri tempi, né al successo di questo o quel partito.

    Infatti, l’individuazione di questo deficit risale a diversi decenni fa ed è caratteristico non solo dell’Italia, (come ci autorizza a dire la ricerca tedesca citata sopra). Esso testimonia la difficoltà di avviare i giovani verso una comprensione adulta dei processi storico-sociali. Più che un bisogno di politica (o forse “oltre al bisogno di politica”), questa diagnosi rivelerebbe un drammatico bisogno di storia. Drammatico, perché il “deficit storiografico” inibisce l’intelligenza di strategie complesse per risolvere i problemi sociali; impedisce a larghi strati sociali di comprenderne la natura e, perciò, li spinge a cercare soluzioni elementari e personalizzate; favorisce la cultura politica dello slogan facile e della personalità risolutrice.

    E’ una specie di semialfabetismo storiografico, forse paragonabile a quell’analfabetismo funzionale sul quale ci ha bene informato Tullio De Mauro (La cultura degli Italiani, Bari, Laterza 2010). Dovrebbe preoccupare, e molto, la società e la politica; dovrebbe metterle in guardia sul pericolo che una società democratica corre, quando si disinveste sulla formazione storica e umanistica in generale.  La soluzione che viene adottata – in Italia come all’estero – è quella di una forte spinta all’ Educazione alla cittadinanza. Questa, tuttavia, in mancanza di quegli strumenti fondamentali di analisi sociale, la cui disponibilità non può che essere il frutto di un lungo e sofisticato lavoro scolastico (e quindi di investimenti), rischia di ridursi a un elenco consolatorio di competenze.

    Intanto, e in attesa di tempi scolasticamente migliori, perché non dirsi, almeno, che sarebbe utile sapere di cosa si tratta in realtà, quando si dice “populismo”?

  • Del pasticcio dell’Educazione civica e dei suoi legami ambigui con la storia

    di Antonio Brusa

    A. L’educazione civica

    Una materia senza identità

    Che sia un pasticcio se ne sono accorti quei dipartimenti di storia che già si sono dati da fare per organizzare l’insegnamento dell’educazione civica, la cui introduzione - dal settembre successivo all’entrata in vigore della legge - è stata votata dalla Camera il 2 maggio di questo anno 2019. Che sia “un pasticcio” lo ha dichiarato in Parlamento uno dei tre astenuti, l’on. Gabriele Toccafondi (Gruppo Misto), ex sottosegretario al Miur nel governo Gentiloni. Una dichiarazione fatta in buona compagnia, nonostante la legge sia stata approvata – tra la soddisfazione generale - con una maggioranza che in altri tempi si sarebbe definita bulgara. Infatti, scorrendo il resoconto stenografico delle dichiarazioni di voto si constata che, sia pure con accenti diversi e pur votando a favore, quasi tutti i gruppi parlamentari ribadiscono le obiezioni di Toccafondi: la nuova materia non ha un insegnante dedicato, sarà difficile conciliare i contenuti disparati che prevede, mentre la quadratura del cerchio viene demandata alla bravura di un coordinatore che dovrebbe tirare le fila di lezioni e interventi didattici che potrebbero anche essere distribuiti fra tutte le discipline (e ricavarne un voto unico in pagella). Infine, dulcis in fundo, non vengono stanziati fondi sufficienti per formare queste nuove figure, o ricompensare adeguatamente un lavoro di coordinamento che - al dire dell’on Patrizia Prestipino (Pd), che da professoressa di lettere lo conosce bene - è massacrante.

    Certamente, si dovranno attendere le circolari applicative, per capire come se ne viene fuori. Ma alcune manifestazioni di malcontento, immediatamente apparse in rete, ci lasciano intuire che la soluzione di questo pasticcio sarà alquanto complicata, dal momento che dovrà tenere conto non solo di risvolti didattici, amministrativi e – come vedremo – teorici e culturali, ma anche di una non trascurabile questione di organico.

    L’educazione civica senza volto. Immagine scelta dall’Apidge per criticare la proposta di LeggeFig. 1. L’educazione civica senza volto. Immagine scelta dall’Apidge per criticare la proposta di Legge

    Le “gravi perplessità”, espresse a stretto giro di posta dal coordinamento degli insegnanti dell’area A046 (gli insegnanti di area giuridica), infatti, rivelano che a premere per la nuova disciplina c’è una legione di 18 mila insegnanti di diritto, che, stanchi di essere assegnati all’organico di potenziamento o al sostegno, aspirano a una propria cattedra, non solo nelle superiori, ma anche nella scuola di base. Lo auspica, nella sua dichiarazione di voto per conto del M5S, l’on. Elisabetta Maria Barbuto - lei stessa insegnante di materie giuridiche in una secondaria superiore di Pisticci e membro del coordinamento nazionale della sua disciplina – forse cercando di placare le rimostranze dei colleghi delusi. “Non è l’educazione civica che volevamo”, “è una farsa”, “siamo arrabbiatissimi” – infatti - aveva protestato senza mezzi termini, l’Apidge (Associazione dei docenti di economia e diritto) alla vigilia della discussione parlamentare «Un miscuglio della specie peggiore», ha rincarato la dose, dopo l’approvazione della legge.

    Un’educazione civica alla Mary Poppins

    Ascoltando l’on. Virginia Villani (M5S) che presenta in aula la proposta di legge Luciano Corradini confessa la sua commozione. L’onorevole – che è una dirigente scolastica - lo chiama “maestro” e ne cita ripetutamente il pensiero. Con qualche ragione, dal momento che Corradini ha lavorato ostinatamente, per oltre vent’anni, con ministri di ogni partito (da Lombardi, a Galloni, a Dini, a Fioroni, a Gelmini) per raggiungere l’obiettivo di introdurre questa materia. Ci era quasi riuscito con Mariastella Gelmini, ma la cosa finì nel nulla e lui, che pure era stato osannato dalla ministra, fu rapidamente messo da parte (qui c’è la cronistoria analitica di quella vicenda). L’occasione della rivincita, dunque, è giunta?

    Certo, scrive Corradini, meglio di niente. Ma aggiunge subito che non c’è nulla da celebrare, a meno di non attendersi dei miracoli da quel docente coordinatore che, “come Mary Poppins, dovrà volare da una disciplina all’altra”, nella disperata impresa di armonizzare “tutto quel ben di dio contenuto nei dodici articoli della legge”. Una buona legge sull’educazione civica – aveva proclamato Virginia Villani, facendo proprie le raccomandazioni che Corradini stesso aveva ricordato pochi giorni prima del dibattito - deve rispettare due regole: non deve essere troppo povera di cultura educativa e non si deve caricare di ogni genere di problema. Ebbene, ribatte il pedagogista, sono appunto queste le regole che la nuova legge infrange.

    Un’educazione a costo zero

    Da settembre una riforma che costa zero. Torna l’educazione civica come materia sui banchi di scuola”. In questa dichiarazione trionfale, fatta dall’on. Matteo Salvini (Lega-Salvini premier) a Firenze, un mese prima della discussione parlamentare, il vicepresidente del Consiglio trasforma in motivo di vanto proprio quell’assenza di finanziamenti, causa non secondaria del pasticcio che stiamo analizzando. Che dovesse essere una riforma a costo zero era deciso fin dal principio di questa vicenda, dal momento che la proposta originale della Lega, del giugno del 2018, si chiudeva con la medesima clausola di salvaguardia finanziaria che sigilla la legge attuale.

    Questo particolare avrebbe meritato di essere portato a conoscenza di tutti e discusso con maggiore insistenza. L’on. Anna Ascani(pd), intervistata da Radio Radicale, lo annovera tra i “piccoli difetti della legge”. Ma nella dichiarazione di voto era stata più tranchant: “Dobbiamo essere onesti perché va detta la verità ai cittadini: questa proposta di legge non introduce un'ora in più di educazione civica al di fuori dell'orario che c'era e chi oggi dice il contrario dice semplicemente una bugia, dà un pessimo esempio e non fa educazione civica”.

    Il ministro Bussetti correda i suoi post su fb con disegni inviati al Miur dai bambiniFig. 2. Il ministro Bussetti correda i suoi post su fb con disegni inviati al Miur dai bambini

    Per quanto abbia scandagliato la rete, non ho trovato una gran voglia di spiegare questo aspetto della questione. Nei suoi numerosi post, Matteo Salvini – che del ritorno dell’educazione civica ha fatto un motivo ricorrente della sua comunicazione - si appella al buon senso, al rispetto che bisogna portare ai docenti, al grembiule da ripristinare, fino ai ceffoni che i genitori dovrebbero dare ai propri figli. Nel video, messo in rete dall’aereo che lo porta in Ungheria “a costruire la nuova Europa”, annuncia di aver reintrodotto l’educazione civica come materia obbligatoria, col pollice levato esclama “promessa mantenuta”, e chiude lì la questione.

    Eppure, agli staff che ormai presiedono alla comunicazione di chi governa, non dovrebbero essere sfuggiti i numerosi commenti che sottolineano la faccenda dell’organico e, conseguentemente, i risvolti finanziari e contrattuali della legge. Fra le risposte al post nel quale il ministro Bussetti annuncia il voto positivo alla Camera, leggo quest’accusa - “Avete appioppato una disciplina, perché di questo si tratta, a tutti i docenti” - lanciata da una professoressa siciliana, seguita da altri colleghi che lamentano – apparentemente inascoltati - la vaga trasversalità della nuova disciplina, chiedono a quali materie verranno tolte le ore, fanno osservare che, più che un mancato investimento, si tratta di un autentico taglio di risorse.

    Unanimità nella diversità

    Una seconda causa del pasticcio è interamente politica. In tutte le presentazioni della legge si sottolinea come questa sia il frutto della convergenza di 16 proposte diverse e di una legge di iniziativa popolare, corroborata da una petizione dell’Anci che ha raccolto 100 mila firme (per la precisione, le proposte 682-734-916-988-1166-1182-1425-1464-1465-1480-1485-1499-1536-1555-1576-1696-1709-A). Un successo politico, dal momento che questa unanimità è del tutto inusuale nel nostro Parlamento, ma che ha un suo costo. L’accordo ha fatto gonfiare la legge originaria, portandola da 4 a 12 articoli. “Ogni forza politica ha voluto metterci del suo”, rivela Anna Ansani nell’intervista citata sopra. Gli effetti di questa coralità si apprezzano negli artt. 3 e 5.

    Il quadro degli obiettivi dell’Agenda 2030Fig. 3. Il quadro degli obiettivi dell’Agenda 2030

    Lo studio della Costituzione italiana, già richiamato con forza nel primo articolo della legge, è anche in cima agli obiettivi dell’articolo 3. È senza dubbio l’elemento condiviso da tutte le forze politiche. Queste, poi, si sono date da fare per imbandire di ogni “ben di dio”, continuando a citare Corradini, una tavola dove le eccellenze agroalimentari stanno accanto all’inno e alla bandiera nazionali, accompagnate da un plotone di educazioni (ambientale, allo sviluppo sostenibile, alla legalità, al patrimonio, all’identità, ai beni comuni, stradale, della salute e al volontariato) e dai ben diciassette obiettivi dell’Agenda 2030. A tutti questi occorrerà aggiungere l’educazione all’antimafia, richiesta nel corso del dibattito e subito accettata dal governo, mentre non possiamo che registrare il disappunto dell’on. Laura Boldrini (LeU) che non ha visto accogliere la proposta di introdurre l’educazione sentimentale.

    Nell’articolo 5 si sviluppa una delle competenze citate nel 3, quella digitale. Vi leggiamo la capacità di valutare l’affidabilità delle fonti, comunicare con gli altri con tutta la varietà delle risorse digitali, di informarsi attraverso la rete e utilizzarla per dibattere pubblicamente, ovviamente conoscendo le norme comportamentali dovute, di proteggere la propria identità digitale e di salvaguardarsi dai rischi che si corrono navigando in rete o usando troppo il computer.

    Se quattrocento ore vi sembran poche

    Trentatré ore l’anno, dalla primaria alle superiori, sono oltre 400 ore. Un’enormità, se le confrontiamo, ad esempio, con un corso universitario di Diritto Costituzionale: questa fu l’obiezione letale con la quale Ernesto Galli della Loggia stoppò il progetto Gelmini. Eppure – spalmate lungo tutto il curricolo e distribuite a spaglio fra il corpo docente - è illusorio pensare che bastino per realizzare un piano formativo adeguato alle richieste di questa legge. O, per converso, che ci sia una figura professionale capace di sobbarcarsi un simile impegno, o anche solo di fornire continuità alla miriade di interventi nella quale questa disciplina si sfrangerebbe: tanto che appare realmente audace l’autoproposizione dei docenti di diritto che, in una petizione online a Matteo Salvini, affermano che “con la loro esperienza e la loro preparazione hanno, senza dover essere formati, (sottolineatura mia) le competenze necessarie per poter insegnare questa materia”.

    Quattrocento ore, inoltre, diventano pochissime, se erogate, come si dice negli interventi alla Camera, “un’ora la settimana”. È una questione che qui, su HL, abbiamo già visto a proposito della storia e della geografia anch’esse, ormai in molti istituti, materie da un’ora, e come tali destinate alla sottovalutazione degli allievi (come sanno bene gli insegnanti).

    Chi lavorerà alle direttive applicative dovrà sudare per ricavare da questo lungo elenco di desiderata parlamentari un progetto “concreto e di buon senso”, come promesso dall’on. Massimiliano Capitanio (Lega-Salvini premier), promotore della proposta originaria. Per il momento, questa legge non fa altro che prelevare quattrocento ore da discipline, dove avevano un impiego comunque ragionato, per accatastarle disordinatamente in un contenitore chiamato “educazione civica”, tutto sommato di scarso rilievo nelle gerarchie di importanza degli allievi.

    Una parola baule

    Un po’ come nelle “parole baule” che lo Stregatto spiegava ad Alice, in questa educazione civica ci sono cose discordanti, che ogni relatore riconduce a un suo punto di vista. Secondo alcuni, la nuova materia sarà l’occasione per aprirsi al mondo, vivere civilmente con tutti, fare volontariato, includere i bisognosi e battersi per l’integrazione; secondo altri, invece, diventerà il santuario delle regole, dei doveri, dell’ordine e della legalità, del rispetto dei docenti. Fabrizio Foschi, che ha curato a lungo la sezione didattica di Comunione e Liberazione, sostiene che in questo testo si riconoscono due anime: di quelli che vorrebbero una cittadinanza progressiva, e di quelli che, al contrario, la vorrebbero protettiva. Lungi, però, dall’essere equidistante, il dettato legislativo pende per la versione “protettiva”. Lo prova, continua Foschi, il dato politico fondamentale dell’abrogazione di Cittadinanza e Costituzione (art. 2), la versione chiaramente “progressiva” contenuta nella Legge 107/2015.

    Forse con più evidenza lo prova il dibattito alla Camera, vista l’assenza degli accenni, sintomatici dei sostenitori della “cittadinanza progressiva”, alle cittadinanze mondiale e europea; visti i frequenti richiami ad alcune questioni tratte di peso dalle pagine di cronaca nera e alle quali – nelle attese che si scorgono dietro le dichiarazioni di principio - questa legge dovrebbe concretamente provvedere. Lo si nota particolarmente nel caso della educazione digitale. I propositi di introdurla sono lodevoli, in un’ “epoca della democrazia cognitiva, in cui si è cittadini pienamente soltanto se si conosce come le informazioni vengono formate e come le si può utilizzare” (Ascani). Ma, nei più, la paura prende il sopravvento: cyberbullismo, il sexting e il revenge porno, lo stalking e ogni genere di cyber crime sono citati come i mali sociali da contrastare (Gelmini). Internet è ottima cosa, ma al tempo stesso “fonte di molteplici insidie da cui stare alla larga”, avverte Elisabetta Barbuto. “Di fronte a questi fatti gravi – ammonisce l’on. Paola Frassinetti (FdI) - tutti diciamo “ah se avessero avuto un’ora in più di educazione a scuola questo non sarebbe accaduto”. “Se l’avessimo fatto prima – incalza Massimiliano Capitanio - forse non ci sarebbero stati suicidi da cyberbullismo”.

    In realtà, i governi precedenti si erano già fatti carico a più riprese di queste preoccupazioni e, al contrario di questo, con investimenti cospicui: basti pensare al Piano Scuola Digitale, finanziato con ben 185 milioni di euro, o al progetto Generazioni connesse o a quello significativamente intitolato “Basta bufale” ), promosso a suo tempo dalla ministra Valeria Fedeli e da Laura Boldrini, allora presidente della Camera. Ma ciò che importa non è sfruttare le risorse che lo stesso Miur ha accumulato, o valutarne gli effetti in modo da evitare la reiterazione di decreti inefficaci, quanto piuttosto intestarsi un messaggio di rassicurazione da inviare agli elettori.

    D’altra parte, a questa preoccupazione securitaria non è insensibile nemmeno l’opposizione: la stessa Laura Boldrini quando rimprovera i colleghi di non aver accolto l’educazione sentimentale, argomenta che questa sarebbe stata un ottimo strumento “per riuscire a contrastare il fenomeno della violenza sulle donne”.

    Dove tutti sono d’accordo

    Come abbiamo già notato, la promozione dello studio della Costituzione è un elemento che accomuna i gruppi parlamentari. Vi sono altre convergenze. La prima è il fatto che ci si attende, da questa materia, il raggiungimento di una coesione sociale, della quale evidentemente si lamenta la mancanza nella società italiana. La nuova educazione civica deve inculcare negli allievi il senso di appartenenza alla comunità. Lo dichiara l’on. Antonio Tasso (Gruppo misto), il primo a intervenire. Lo seguono Paola Frassinetti, che unisce “senso civico e appartenenza” ed Elisabetta Barbuto, la quale vorrebbe che, studiando questa materia, gli allievi italiani si sentissero parte integrante della società.

    Dei diversi temi di questa legge, questo sembra riscuotere un largo consenso fuori dall’aula. Fra i tanti, Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci, pur auspicando un radicale intervento migliorativo del Senato (va sottolineato che i sindaci chiedevano un’ora in più da aggiungere al curricolo), apprezza il senso dell’appartenenza che questa legge sollecita. Giorgio Chiosso, pedagogista e storico dell’educazione, elogia il fatto che l’educazione civica possa spingere gli allievi a “sentirsi comunità”. Carlo Troilo, giornalista, intervenendo già alle prime avvisaglie della legge, ne sostiene la necessità, motivandola col fatto che non è importante solo conoscere i valori della Repubblica, ma è necessario metterli in pratica per poter vivere insieme.

    Questo insistere sulla funzione sociale e pragmatica della legge ci invita a guardare sotto una nuova luce il secondo punto di convergenza: l’esaltazione unanime del portato formativo della Costituzione. Certo, ci sono gli aspetti cognitivi. Diversi sottolineano il fatto che bisogna conoscere, per poter mettere in pratica. Ma sembrano fare scuola le parole di Mariastella Gelmini: “non vogliamo che gli allievi studino a memoria la Costituzione, ma che la pratichino, giorno per giorno, nella vita quotidiana”. La Costituzione, dunque, il testo che definisce l’impianto e le regole della Repubblica, viene reinterpretata come un breviario morale, che deve istillare negli allievi dei comportamenti virtuosi (un “catechismo”, scrisse a suo tempo Galli della Loggia).

    Nulla di nuovo e di particolarmente insolito, per questa disciplina che, fin dai tempi della sua prima proposta, di Aldo Moro, nel 1958, era vista come un’attività di formazione al confine fra “la scuola e la vita”. Per questo motivo non poteva essere oggetto di sole lezioni (si legge in quel testo) ma doveva essere anche vissuta nell’organizzazione scolastica. L’educazione civica, quindi, era una disciplina composita, da insegnarsi a vari livelli: quello diffuso, presente in tutte le discipline; quello pratico, della concreta vita dell’istituzione scolastica; quello specifico, infine, dato dalla storia. Su questa natura ancipite dell’educazione civica si sono esercitati molti studiosi (da Alessandro Cavalli a Bruno Losito fino allo stesso Corradini, per citare solo gli italiani), e molti e diversi sono i “bilanciamenti” fra i vari livelli, che osserviamo nelle tante leggi, italiane e estere (Ho affrontato questo tema insieme con Fabio Fiore in Educazione civica e storia, in Lorenzo Luatti, Educare alla cittadinanza attiva. Luoghi, metodi, discipline, Carocci, Roma, 2009, pp. 198-209).

    Lo strano e l’insolito di questa legge è la semplificazione brutale dei livelli, quasi a decretare la fine di questa tradizionale polivalenza, a tutto vantaggio della sola funzione pratico-sociale-morale. Non può non sorprendere il fatto che nessun relatore faccia qualche accenno a come una data materia - scientifica o umanistica - potrebbe concorrere a questa formazione, né che indicazioni di questo genere siano riportate nelle Linee guida (il confronto con la profusione di suggerimenti del testo di Moro sarebbe illuminante, a questo proposito). E, all’interno di questo contesto, ha un significato preciso il fatto che la storia non venga mai citata nel suo tradizionale rapporto privilegiato con l’educazione civica (con una sola eccezione, che vedremo a momenti).

    L’educazione civica come “antidisciplina”

    Il fatto nuovo è che questa materia sembra per i deputati italiani una sorta di “antidisciplina”. La sequenza delle citazioni non può che impressionare. Esordisce Antonio Tasso, mettendo in opposizione lo studio delle tabelline e dei verbi (che si fa, secondo lui) con quello della Costituzione (che non si fa); seguono Gabriele Toccafondi, per il quale la scuola non è un insieme di discussioni e la “vita non si impara sui libri”. Gli fa eco un “basta al nozionismo” di Elisabetta Barbuto, mentre Paola Frassinetti sottolinea che “educazione non significa mero apprendimento”. Anna Ascanio accenna a una periodizzazione della storia della scuola, nella quale, a un primo periodo dedicato all’apprendimento, che – secondo lei – si è ormai concluso con successo, ne dovrebbe seguire un altro nel quale troverebbe spazio la nuova materia, e si interroga: “la scuola serve per trasmettere nozioni o qualcos’altro”?

    Sembra di respirare, ascoltando questi interventi, un’aria familiare e antica. È come se nell’aula parlamentare si allestisse un reenactement dei dibattiti ai tempi della fondazione del sistema scolastico italiano, quando i difensori dell’educazione lottavano a spada tratta contro i sostenitori dell’istruzione. Solo che, oggi, questi ultimi si sono dileguati, mentre l’aula parlamentare, apparentemente all’unisono, si ritrova nella perorazione finale di Elisabetta Barbuto, per la quale la nuova legge deve condurre a “una società vera, a misura d'uomo e dei suoi autentici valori, i valori insegnati a scuola, i valori che vogliamo lasciare ai nostri figli”.

     

    B. Educazione civica e storia

    Un esemplare cattivo uso della storia (e di Tucidide)

    Paola Frassinetti prova a teorizzare: “È un concetto – dice - quello dell'educazione, che pare essere diventato un po' desueto, forse perché depauperizzato dal suo valore sostanziale, invece tutto si fonda sull'educazione. Educazione è diverso da formazione, è diverso da competenze, si rifà alla vecchia paidéia”. Poi, sull’onda del richiamo al mondo classico, chiude il suo intervento augurandosi che venga scolpita nella mente dei ragazzi questa frase: “Sapere cosa fare, saperlo spiegare agli altri, amare la propria patria, essere incorruttibili”, che attribuisce a Tucidide, ma che lo storico greco non si sognò mai di scrivere. Infatti, si tratta di un assemblaggio di espressioni scollegate, tratte dalla Guerra del Peloponneso (II, 60) e adattate alla bell’e meglio. È un pastiche che circola in rete e che, per ironia della sorte, è ricavato da un discorso di Pericle che significa proprio il contrario di quello che vorrebbe la deputata.

    Ce lo spiega Luciano Canfora, informandoci che, in quel discorso, Pericle non esaltava le virtù del cittadino ateniese, ma le proprie. Era un momento brutto per lui. Lo volevano far fuori e lui si difese magnificando la propria intelligenza politica (capire in anticipo le cose e spiegarle agli altri) e una incorruttibilità, alla quale ormai in pochi credevano ad Atene, visto che era già andato a processo per appropriazione indebita.

    Pericle parla agli AteniesiFig. 4. Pericle parla agli Ateniesi

    Un piccolo infortunio per chi sta promuovendo l’educazione civica come antidoto alle bufale in rete. Ma un cattivo uso della storia, se guardiamo questo riferimento al mondo classico dal punto di vista sostanziale. Franco de Anna utilizza anche lui Tucidide, ma ne ricava una conclusione che fa a pezzi l’impianto ideologico di questa legge (Educazione alla cittadinanza e raccolta differenziata). Secondo lo storico greco - scrive riferendosi questa volta al primo discorso di Pericle agli Ateniesi (II, 41) - è la città che “nel suo insieme è una impresa educativa”. Era, naturalmente, la città dei tempi antichi. Se quelle dei giorni nostri non ci riescono più, sarebbe logico concludere che la scuola difficilmente potrà sostituirle, soprattutto se presumerà di realizzare questa impresa con un’ora la settimana e senza soldi.

    In realtà, ora continuiamo ad ascoltare Canfora, non fu la città, in quanto comunità, a farsi formatrice. Il vero educatore fu lui, Pericle, tiranno e maestro efficace, che indusse i cittadini ateniesi ad assumere quei comportamenti e quei valori, senza i quali la democrazia non avrebbe potuto reggersi. Ci riuscì attraverso una politica, culturale e sociale, intelligente e dispendiosissima, e aprendo ai concittadini un futuro dal fascino irresistibile. Dall’accostamento storico, sollecitato dall’on. Frassinetti, dovremmo trarre una conclusione che alla deputata non farebbe piacere: e che, cioè, attraverso questa legge, il mondo politico odierno scarica sulla scuola un’incombenza alla quale non riesce più ad attendere.

    Un buon antidoto contro l’uso improprio della storia ateniese, frequente nelle scuole quando si affrontano temi di educazione civica e, come stiamo vedendo, anche nel Parlamento italiano, potrebbe essere questo articolo dell’on. Gavino Manca (Pd).

    Moro, l’educazione civica e la storia

    Nelle Linee guida, come in molti interventi, il richiamo ad Aldo Moro sembra voler nobilitare le origini di questa legge. Il grande statista, infatti, non solo richiamò l’importanza dell’educazione civica all’Assemblea costituente, ma fu il primo a introdurre questa disciplina nell’ordinamento scolastico della Repubblica, quando divenne ministro della Pubblica Istruzione.

    Purtroppo per la buona volontà dei relatori, questa filiazione non è credibile. Il testo di Moro non condivide quasi nulla con quello di Bussetti. La diversità riguarda, da una parte, il concetto di educazione civica, e, dall’altra, il suo rapporto con la storia.

    Se si supera la barriera del linguaggio enfatico della pedagogia del tempo, infatti, e ci si inoltra nella lettura delle due paginette di Aldo Moro, si scopre una proposta che oggi definiremmo curricolare, perché spiega che cosa insegnare nella scuola elementare, cosa nel settore intermedio (allora diviso fra media e avviamento: ma, si sottolinea, l’educazione civica non poteva che essere uguale per tutti); cosa infine studiare nel tratto finale: “una storia comparativa del potere, nelle sue forme istituzionali e nel servizio”. Vi si parla di diverse discipline, come diritto e economia, ma – si precisa - è con la storia che l’educazione civica “ha dialogo più naturale, e perciò più diretto, essendo a questa concentrica”.

    Questo “dialogo” diventa più chiaro cinque anni dopo, nel 1963, quando vengono emanati i programmi della nuova scuola media. Ecco il testo di quella legge: “I profondi nessi esistenti fra storia ed educazione civica postulano che i due insegnamenti, affidati al medesimo docente, vengano condotti e sviluppati in un quadro di intima correlazione anche se è compito di tutti gli insegnanti far risaltare gli aspetti educativi, relativi al dettato costituzionale, in tutti i momenti utili del loro lavoro. I collegamenti con l’educazione civica sono suggeriti fin dalla prima media ma solo nella classe terza sarà possibile – sia per l’età e l’esperienza raggiunta dagli allievi, sia per la più intima connessione con il programma di storia – uno studio più organico di nozioni costituzionali e una maggiore precisazione di forme e caratteri delle nostre istituzioni civili” (“Gazzetta Ufficiale”, supplemento al n. 124, 11 maggio 1963, ora in G. Di Pietro, Da strumento ideologico a disciplina formativa. I programmi di storia nell’Italia contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 1991, pp. 406-7).

    In questa raccomandazione vediamo che la funzione educativa generale è demandata all’insieme delle discipline. Tutti i professori sono chiamati a rammentare ai propri allievi quel rapporto fra la “vita” e i principi della Costituzione, auspicato da Moro. Ma il compito essenziale viene affidato al docente di terza media. Per sostanziare questo mandato, gli vengono consegnate quelle due ore mensili, che nel testo di Moro andavano a costituire il monte ore di Educazione Civica. Nell’anno finale della nuova scuola dell’obbligo, dunque, il docente aveva 98 ore a disposizione (68 di storia e 30 di Ed.Civ.) per realizzare il suo piano di lavoro annuale, come allora si chiamava il progetto formativo. E tali restarono, fino a che la ministra Gelmini, col pretesto di introdurre la nuova materia “Cittadinanza e Costituzione”, non eliminò quelle trenta ore in più.

    Si comprende meglio questa focalizzazione sulla storia contemporanea, se pensiamo che proprio al principio degli anni ‘60, con la riforma del ministro Giacinto Bosco, cade l’embargo sulla parte finale del programma (dalla Prima Guerra mondiale in poi), stabilito nel dopoguerra (Per queste notizie mi servo del bel libro di Monica Galfré, Tutti a scuola!, Carocci 2017). Il disegno pedagogico è inequivocabile: se vogliamo educare i nuovi cittadini, questi devono conoscere il mondo nel quale vivono. Quelle riforme precisavano che la “concentricità” della quale parlava la legge di Aldo Moro si ritrovava in particolar modo nella storia dell’oggi, e indicava che non si poteva essere cittadini italiani senza conoscere la storia del fascismo, della seconda guerra mondiale e delle vicende della ricostruzione post-bellica (allora, eventi naturalmente vicinissimi), fino alla storia “dei giorni nostri”. Stabiliva, conseguentemente, che la Costituzione stessa doveva essere compresa nel contesto storico nella quale era stata elaborata e nel quale la nazione aveva cominciato a viverla.

    Il rapporto tra educazione civica e storia è il misuratore più efficace del baratro che separa il testo di Moro da quello di Bussetti. Lì, la relazione era quasi esclusiva e, addirittura, centrale nel nuovo ordinamento. “L’unione fra storia e educazione civica era considerata l’anima della nuova scuola media” (Galfré, p. 206). Qui, la storia è confusa nell’insieme delle discipline, e tutte insieme annegano nel mare delle educazioni. Da quel rapporto stretto con il sapere disciplinare emergeva un profilo “cognitivo” di cittadino, che diventa tale quando conosce il mondo nel quale vive. Al contrario, dalla legge attuale è perfino difficile estrarre un profilo del cittadino, tali e tanti, e così contraddittori, sono i contenuti e le finalità che si assegnano a una materia, che per giunta si qualifica per le sue istanze anti-cognitive.

    Quella direttiva era onesta con gli insegnanti: introduceva una nuova disciplina e ne aggiungeva le ore relative, per non parlare dell’incredibile investimento di denaro che accompagnò quella stagione di riforme. Questa sottrae ore e risorse, e, di conseguenza, ne scarica la realizzazione sulle spalle dei docenti e sugli artifici organizzativi delle scuole.

    L’educazione civica e la storia, fra identità e conoscenza.

    In effetti, il programma di storia della nuova scuola media stava provando a rompere la lunga tradizione che – fin dall’Ottocento – aveva stretto insieme educazione civica, identità nazionale, genealogia della nazione e storia. Era un programma che faceva intravvedere un nuovo statuto disciplinare, nel quale non ha spazio l’idea di passato come origine della nazione, strumento per la difesa della patria e dell’identità culturale (concetti significativamente assenti in quel testo). Attraverso la storia, vien detto proprio nell’esordio, gli allievi “impareranno a conoscere gli aspetti caratteristici della vita dei vari popoli”. Il passato non viene chiamato in causa come fondamento della collettività, ma è strumento per “meglio intendere i problemi dei tempi nei quali gli allievi vivono”. Questa frase, tratta dal decreto che, quasi in contemporanea, sostituiva i vecchi programmi dei tecnici, è accompagnata dalla raccomandazione agli insegnanti di “governare con attenta economia lo svolgimento del programma”, in modo da arrivare alla trattazione “dei giorni nostri”, e superare “l’inconveniente, largamente diffuso, di tralasciare tutti o quasi i decenni trascorsi del nostro secolo” (D.P.R. 1222/1961, in Di Pietro, p. 403). Una raccomandazione – dobbiamo ammetterlo - che conserva ancora oggi tutta la sua validità.

    “Identità” o “conoscenza”. Questa alternativa rappresenta icasticamente l’opposizione fra il modo di concepire le due discipline (e il loro rapporto) nella tradizione otto-novecentesca – da una parte - e nell’Italia della grande trasformazione da nazione agricola a potenza industriale, dall’altra. Nella prima accezione - identitaria - le due discipline sono lo strumento che direttamente costruisce la collettività nazionale; nella seconda – cognitiva - vanno a irrobustire la dotazione critica necessaria ai cittadini che vogliono consapevolmente partecipare alla vita democratica della nazione. Fu, dunque, una rivoluzione non di poco conto, quella che i legislatori del tempo proposero: e non a caso, dietro quella riforma e i suoi programmi agiva un formidabile think tank di studiosi di varia estrazione culturale e di ogni partito. Si trattò di “qualcosa di molto simile a un miracolo”, come scrisse Silvio Lanaro nella sua Storia dell’età repubblicana (Galfrè 187 e ss.).

    Nei settant’anni seguenti, queste due maniere di intendere la formazione storica e civile si sono variamente intrecciate e scontrate. Questa contrapposizione si è fatta, man mano, sempre più esplicita e accesa. Basti pensare alle riforme di questo inizio secolo, che hanno visto i governi di Centro-destra emanare programmi identitari (in particolare i programmi della scuola di base della ministra Moratti, del 2003); mentre i due programmi del Centro-sinistra (2008 e 2012) sono chiaramente cognitivi. Ma non si tratta di una contrapposizione solo politica, dal momento che si interseca con l’altra, fra tradizione e innovazione scolastica, inaugurata appunto dai programmi del 1963. Lo dimostra il caso del programma che la Commissione De Mauro elaborò nel 2001, dichiaratamente cognitivo, nel quale l’educazione civica era compresa nell’asse geo-storico-sociale, contro il quale si “pronunciò” (così si espresse Rosario Villari) il Manifesto dei trentatré storici, molti dei quali esponenti di spicco della sinistra, scritto in nome di una visione identitaria della storia insegnata (per questa vicenda il testo di riferimento è: Luigi Cajani, I recenti programmi di storia per la scuola italiana).

    Questa premessa è necessaria per valutare l’intervento dell’on. Vittorio Sgarbi (Gruppo misto), l’unico che abbia ricordato il rapporto privilegiato fra storia e educazione civica. “Non esiste educazione civica senza conoscenza della storia” aveva esordito, richiamando, fra applausi forse riparatori, il Manifesto Il passato è un bene comune, in difesa dello studio della storia, di Andrea Giardina, Liliana Segre e Andrea Camilleri. La storia a cui pensa Sgarbi, tuttavia, appare diversa da quella evocata dal testo di Moro. Lo si intuisce dal fatto che il deputato cita le parole del ministro Bussetti, che, in visita alla mostra su Leonardo, aveva dichiarato: “noi siamo quello che siamo stati”; e poi rinforza questo concetto, richiamandosi a un’Italia profonda, che esisterebbe “prima” della formazione dello stato italiano.

    E così, l’unica volta che la storia viene citata in Parlamento, è per legare la cittadinanza alla genealogia dell’Italia. Il pendolo oscilla verso l’identitarismo, e una storia che insegna l’appartenenza alla nazione è in buona sintonia con questa educazione civica, che ne vorrebbe plasmare a scuola i cittadini modello.

    L’Italia, l’Europa e le mani sulla cittadinanza

    Sarebbe profondamente sbagliato pensare a questi fatti come al frutto esclusivo delle controversie interne al nostro paese. Se allarghiamo lo sguardo all’Europa, ci accorgiamo che essi hanno a che vedere con processi di trasformazione che hanno scosso i sistemi formativi dell’intero continente. Tre di questi mi paiono fondamentali per il nostro discorso. Li rammento brevemente.

    Il primo è il passaggio da “educazione civica” a “educazione alla cittadinanza”. E’ perfettamente leggibile nel confronto fra il testo di Moro e questo. Quello era centrato sulla politica, vista come il piano privilegiato, lungo il quale l’individuo si rapporta alla collettività. Questo stesso piano, nel testo di Bussetti, si sfarina in tante dimensioni: sociali, economiche, culturali, mediatiche, alimentari, psicologiche, ambientali. Nel rapporto Eurydice sull’Educazione alla cittadinanza (2017), ciò viene spiegato col motivo che la relazione fra l’individuo e il mondo ha cominciato a mutare in profondità nella seconda parte del Novecento e ha fatto esplodere la complessità del concetto di cittadinanza. È questo stravolgimento – e non un mero desiderio di novità pedagogica - che impone ai governi di rivedere le modalità e i contenuti della formazione del cittadino.

    Il secondo processo trae origine dall’avvento del nuovo, grande soggetto politico degli ultimi decenni, l’Europa. Un soggetto politico sovranazionale che, fra accelerazioni e pause, si è velocemente costruito in pochi decenni, e che ha bisogno di creare “i suoi cittadini”. Il Consiglio d’Europa, infatti, ha cominciato a muoversi da subito nel campo della formazione, con convegni, raccomandazioni ai governi e con iniziative di ricerca e sensibilizzazione. La strada era, più o meno, quella già percorsa dagli stati otto-novecenteschi, ma con una novità decisiva. Il bagno di sangue della seconda guerra mondiale e lo sterminio nazista sono i “traumi terribili” (scrive Alois Ecker) che hanno obbligato a rimodulare il profilo tradizionale del cittadino, difensore della patria e della identità. Il nuovo profilo è disegnato nel trattato di Lisbona del 2009. Esso promuove un individuo aperto, empatico, capace di comunicare con gli altri e che, perciò, aggiunge alla padronanza della propria lingua quella delle lingue straniere; adopera in modo saggio i mezzi di comunicazione; ha spirito di iniziativa; sa come partecipare alla vita pubblica ed è ferrato in matematica e scienze. Questo testo è la risposta politica che l’Europa dà alla “complessità del concetto di cittadinanza”: e come tale andrebbe letto, in luogo di cercarvi una sequenza velleitaria di competenze. (Per queste notizie mi servo della ricerca internazionale coordinata da Alois Ecker, docente di didattica della storia all’Università di Graz: Civic and History Teachers’ Education in Europe, Consiglio d’Europa, Brusselles 2013, del quale si legge in rete questo primo rapporto).

    Il terzo processo viene dall’Europa orientale. Dopo la caduta del muro, quei paesi hanno immediatamente riformato i sistemi scolastici e, in particolare, gli insegnamenti di storia e di educazione civica. Ma: in luogo di ispirarsi agli assetti che, in contemporanea, l’Europa occidentale si stava dando, hanno preso a modello programmi e finalità dell’insegnamento storico-civile dalla tradizione ottocentesca. Quindi, nessun trauma di guerra, nell’Europa ex comunista. Anzi, vista dalla Russia come il glorioso momento della fondazione nazionale, e dagli ex-stati satelliti come il martirio che ne santifica l’indipendenza, quella carneficina diventa il terreno su cui edificare un profilo di cittadinanza identitario e difensivo. E, in molti casi, come accade in Ucraina, fortemente caratterizzato da aspetti di aggressività (per l’insegnamento della storia in Ucraina si possono leggere i miei due articoli apparsi su “Historia Magistra”, nn. 23 e 24, 2017). Questo “vento dell’est” soffia potentemente verso occidente, e (insieme con altri fenomeni endogeni, fra i quali la reazione identitaria all’immigrazione) contribuisce a riportare in vita un nazionalismo muscolare, che sta investendo la cultura storica diffusa e, con questa, i modelli di cittadinanza degli stati occidentali.

    L’educazione alla cittadinanza e l’attacco alla storia

    Così la storia, che faticosamente cercava di liberarsi dalle pastoie della cittadinanza tradizionale, e si proponeva sempre più come “strumento per orientarsi, analizzare società complesse e gli sviluppi politici odierni” (Ecker, p. 38), viene oggi investita da più fronti. Dalla parte della “nuova cittadinanza” proviene una valanga di “educazioni” che la sommerge, tende a ridurne il peso e spinge i governi a riconfigurare il lavoro formativo in direzione di “competenze” concretamente apprezzabili dalla società e dalle famiglie. Dal versante europeo, l’UE ne ripropone la funzione antica di costruzione di appartenenze, e però, al tempo stesso, ne conferma il ridimensionamento (non è affatto un caso che la storia non sia fra le discipline citate esplicitamente nel dettato lisbonense). Dal fronte orientale, il “vento dell’est” aggiunge a questi obiettivi identitari toni di esclusività nazionalistica.

    Questi fenomeni sono l’espressione di cambiamenti profondi che andrebbero esplicitati, studiati e discussi, se si vuol aggiornare la questione della formazione dei cittadini. Al momento, essi evidenziano tristemente la fatuità dei richiami al buon senso, al grembiulino, al bullismo e agli schiaffoni paterni, con i quali il Parlamento italiano vorrebbe far loro fronte. Se una disciplina, come l’educazione alla cittadinanza, si sfrangia in cento progetti, occorrerebbe una proposta in grado di costruire una sintassi e di trasformare in un discorso razionale l’accavallarsi delle “emergenze”. Altrimenti, diventa inutile perfino discuterne del senso e della possibile efficacia. E, conseguenza non trascurabile, si finirà per accollare alla scuola il compito titanico di immaginare in che modo questa sommatoria di raccomandazioni potrebbe invogliare centinaia di migliaia di ragazzi a farsi membri attivi di una comunità.

    In coda, ecco un’osservazione, solo apparentemente marginale, ma che storici e insegnanti di storia farebbero bene ad annotare: la nostra disciplina è scomparsa dall’orizzonte della formazione del cittadino, senza che qualche deputato abbia sentito il bisogno di motivare questa scelta, e che qualcuno si sia opposto. Eppure, si tratta di una novità così radicale, nei curricola scolastici repubblicani, che ci aspetteremmo di leggere resoconti di schermaglie altrettanto vivaci di quelle sul cyberbullismo. Il silenzio unanime che ha accompagnato il commiato dell’educazione civica dalla storia ci lascia col sospetto che il Parlamento italiano non si sia reso conto della natura del processo al quale ha posto mano.

    Ma anche l’assenza di reazioni da parte degli storici è motivo di riflessione. Da qualche anno, infatti, le Associazioni di categoria sembrano aver preso consapevolezza della questione didattica. Con il Manifesto hanno raccolto un incoraggiante numero di adesioni, fra studiosi e cittadini comuni. Perché, dunque, questo silenzio? Temo ciò che dipenda dal fatto che non si è percepito il legame fra la vicenda dell’educazione civica e quell’ “attacco alla storia” che si tenta di contrastare. Forse non è chiaro che in entrambi i casi è in gioco il medesimo “contratto formativo”, a suo tempo stilato fra Stati e “produttori di storia”. Credo che da questa inconsapevolezza derivino sia la mancanza di prese di posizione sulla questione dell’educazione civica, sia una certa confusione nell’individuare le alternative verso le quali muoversi. Ne leggiamo qualche traccia nel Manifesto e negli interventi che questo ha sollecitato.

    Cosa vogliamo, noi storici, quando chiediamo un recupero di considerazione? Rimettere in vigore quel contratto antico, per quanto ripulito dalle coloriture violente del passato? Per ottenere il riconoscimento, politico e sociale, dobbiamo tornare a parlare di identità nazionali o culturali (“smarrire noi stessi e la nostra nazione”, leggo nel Manifesto). O, ancora, dobbiamo di nuovo farci promotori di identità politiche, conseguenza inevitabile di quel ruolo di custode delle “memorie che non possono essere dimenticate”, che molti assegnano alla storia? (Intorno a questo concetto ruota l’intervista a Camilleri, pubblicata da “Repubblica” a corredo del Manifesto).

    Oppure, al contrario, la storia è lo strumento per scardinare gli “spazi fittizi” che imprigionano il cittadino, in modo che la sua coscienza si apra agli “spazi sconfinati” della conoscenza del mondo (sono ancora parole del Manifesto)? È quel sapere “critico, non uniforme, non omogeneo, che rifiuta il conformismo” – è questo il suo orgoglioso incipit – che molti di noi vorremmo caratteristica fondante della cittadinanza democratica, ma che non appare certo una priorità impellente di molti governi?

    Perché se, come credo, è la seconda alternativa quella da praticare, allora non è più tempo di manifesti e di convegni. Occorrono ricerca specializzata, argomenti, dati e nuova formazione universitaria dei docenti, per convincere decisori sempre più riottosi della utilità della conoscenza storica nel profilo moderno di un cittadino.

    La battaglia nella scuola

    Dum Romae consulitur, è il caso di ripetere, la Sagunto scolastica viene man mano espugnata. Le tre richieste che chiudono il Manifesto sintetizzano un disastro che si è già compiuto - la diminuzione delle ore di storia e il disinvestimento nella ricerca storica – del quale l’abolizione della terza prova nell’Esame di stato è un simbolo potente, come ha voluto sottolineare Andrea Giardina nella sua ultima lezione alla Normale di Pisa. Attendiamo ulteriori diminuzioni, dovute alla reintegrazione di geografia, che avverrà con grande probabilità a danno della storia (come già sanno i colleghi delle professionali), mentre, lo abbiamo ricordato all’inizio, le circolari applicative ci diranno di quanto la nuova educazione civica inciderà sui curricoli delle diverse materie, e, quindi, della storia.

    Nel frattempo, la perdita di fiducia delle istituzioni nelle potenzialità formative della storia si manifesta nella sua scomparsa dall’aggiornamento delle reti d’ambito (denunciata in una lettera alla ministra Fedeli da me, allora direttore di “Novecento.org” e da Giuseppe Bagni, segretario del Cidi nazionale); nel fatto che un qualsiasi progetto di formazione storica – che si voglia far approvare dal Miur, come dall’UE, come da un assessorato alla cultura o alla scuola locali - debba essere contrabbandato sotto le voci di una qualsivoglia educazione (alla Cittadinanza, al Patrimonio o allo Sviluppo sostenibile); nel fatto, già notato, che la storia non venga quasi mai citata nelle liste di competenze desiderabili, che il Consiglio di Europa non cessa di inviare ai vari governi.

    Apparentemente, la scuola si sta lasciando scorrere addosso questi processi senza fiatare e, forse, senza nemmeno conoscerli. Tuttavia, in molti istituti, se si vanno a guardare i progetti e le attività, e si leggono le programmazioni, si nota un fermento che lascia intuire spazi di disaccordo, o di disagio. Ma prima di formulare la domanda fatidica “che fare?”, concediamoci un brevissimo excursus transfrontaliero, nel Canton Ticino.

    Che cosa possiamo imparare dal Canton Ticino

    La vicenda della nuova legge sull’educazione civica in Canton Ticino, infatti, ha delle analogie inaspettate con il caso italiano, che, insieme con qualche importante differenza, ci aiuta a problematizzare la nostra situazione. Ecco i fatti.

    Il Canton Ticino aveva una legge sull’educazione civica fin dagli anni ’90, alquanto simile a quella italiana prima della riforma Gelmini. L’educazione civica, vi si diceva, è compito di tutti, ma in special modo degli storici, la cui materia era appunto denominata “storia e educazione civica” (un rapido resoconto della situazione ticinese si trova qui). A differenza dell’Italia, il governo cantonale, però, aveva promosso un libro di testo specifico, scritto da studiosi di didattica della storia, che – in otto capitoli – “trasforma in materia insegnabile” la questione dei diritti e dei doveri, proponendo un percorso rigoroso che va dalla famiglia, allo stato, al mondo (Conoscere la civica, diventare cittadino).

    Questo assetto non piacque a Alberto Siccardi: imprenditore valtellinese emigrato a Mendrisiotto, dove aveva impiantato con successo una fabbrica di protesi e da dove svolgeva anche un’intensa attività politica. “Prima gli svizzeri”, è uno dei suoi slogan preferiti. Sua è stata l’idea di modificare la legge degli anni ’90, separando l’educazione civica dalla storia, e facendone un insegnamento di due ore mensili da sottrarre in parte a storia. separando l’educazione civica dalla storia, e facendone un insegnamento di due ore mensili da sottrarre in parte a storia.

    La sua proposta incontra la ferma opposizione dell’Atis, l’associazione che riunisce gli insegnanti di storia ticinesi con l’appoggio dell’Associazione degli storici svizzeri, l’adesione dei comitati dei genitori, delle associazioni dei dirigenti scolastici e il sostegno dei partiti di sinistra.

    Gli insegnanti argomentano che questa riforma riduce un monte ore già risicato; obiettano che è quasi impossibile creare un sistema di valutazione per una materia di mezz’ora la settimana. Sostengono che l’educazione civica deve essere collegata alla storia, perché solo in questo modo “i diritti e i doveri” vengono contestualizzati, se ne fornisce una conoscenza critica e si evita che si riducano a nozioni astratte; protestano che, in fin dei conti, loro già fanno tutto quello che vorrebbe la nuova legge. Gli storici aggiungono la preoccupazione che “una modifica di tale portata sia il risultato non di un riesame generale dei piani di studio promosso dall’autorità competente con il concorso degli esperti dettato da ragioni scientifiche, didattiche e pedagogiche, ma di un’iniziativa popolare legislativa generica, politicamente profilata.” (qui la rassegna completa degli interventi).

    Di parere contrario, ovviamente, i partiti che appoggiano Siccardi - la Lega ticinese e il partito populista svizzero (Udc) - che ribattono accusando gli insegnanti di trascurare questa materia e minacciano commissioni esterne di controllo. Un argomento vincente, per Siccardi, è che, in fondo, si tratta di una riforma a costo zero. Non si leggono tanti altri ragionamenti nella rassegna degli interventi a sostegno della legge. Il loro pezzo forte è l’appello agli elettori, che si concretizza con una petizione popolare e con un referendum. Nella consultazione popolare non c’è partita. Il documento degli insegnanti di storia ottiene 983 voti; i sostenitori della legge vincono con un sonoro 63%, il 24 settembre 2017.

    La scuola accetta il verdetto e si mette in moto. Si rifanno i piani di studio, scorporando dal programma di storia le parti di educazione civica, si organizzano nuovi orari, ma nelle classi si fa molta attenzione a riannodare queste parti alla storia, com’è necessario per la loro comprensione (lo si apprende da un puntuale servizio radio sull’applicazione della legge). In pratica, la nuova legge sembra non aver fatto altro che complicare ciò che gli insegnanti già facevano. D’altra parte, non occorreva essere raffinati pedagogisti per prevedere che, con mezz’ora la settimana, staccata da tutto il resto, non si va molto lontano.

    Facili le analogie con l’Italia: dalla riforma a costo zero, alla medesima origine dei proponenti (la Lombardia settentrionale, dalla quale provengono sia Siccardi che Capitanio). A entrambi non importa molto il succo della proposta (in Italia tutto andava bene, mentre i promotori svizzeri non ne hanno proprio parlato), perché si confida in un sottotesto della legge (identità, appartenenza, sicurezza) a prova di bomba con l’elettorato attuale. In entrambi i casi, quindi, ma lo denunciano solo gli storici svizzeri, la proposta non scaturisce da ricerche storico-pedagogico-didattiche, quanto da una scelta politica. Comune, ancora, è il fatto che il proposito di cambiare il mondo - con 30 o 60 minuti a settimana, non cambia molto - si traduce in un rompicapo, che docenti e dirigenti devono sbrogliare.

    Non meno istruttive, per noi, sono le differenze. Non ci occuperemo qui di quelle politiche (è evidente che in Canton Ticino i partiti di sinistra sono stati capaci di leggere l’intento politico dei promotori della legge, e si sono comportarti di conseguenza). Qui ci interessano le considerazioni professionali: in Ticino c’è un soggetto che rappresenta gli insegnanti di storia; c’è un’associazione di storici attenta ai fatti della scuola e in grado di intervenire con precisione; c’è un gruppo strutturato di ricercatori di didattica della storia, che si occupa della formazione e del lavoro dei docenti. Di conseguenza - in Ticino, a differenza che in Italia - gli insegnanti sono stati resi consapevoli della posta in gioco, hanno potuto far sentire la loro voce nella battaglia, e, pur avendo perso, ora hanno dei supporti (corsi, proposte di lavoro, materiali) che non li lasciano soli di fronte al rebus didattico da sciogliere.

    Torniamo in Italia. Che fare?

    Conosco la situazione ticinese per essere stato coinvolto in alcuni seminari di formazione, nei quali i docenti hanno affrontato i temi di questa legge. Dal primo, nel 2017, sui rapporti fra Educazione alla cittadinanza e storia, al secondo sul populismo, mentre nel terzo, che si svolgerà nel 2020, si parlerà della questione giovanile. Le strade proposte per affrontare la questione sono fondamentalmente due (di questa vicenda parlerà ampiamente Daniele Bollini – che fa parte dello staff dei ricercatori didattici - in un suo articolo di prossima pubblicazione in Italia):

    – cercare nell’ambito del curricolo dei momenti storici che possono adeguatamente contestualizzare qualche aspetto dell’educazione civile (il primo seminario)
    – puntare sulla storia “molto” contemporanea (il secondo e il terzo seminario).

    Sono strade note anche in Italia.

    Per la prima su HL si trova già un abbozzo di curricolo, che dall’antichità fino ai giorni nostri, individua dei momenti “caldi”: si va dalla fondazione stessa della città, fino a Roma e al suo particolare concetto di cittadinanza; si centra l’attenzione sul Trattato di Westfalia, e cioè sulla nascita del concetto moderno di cittadinanza; se ne ricordano le variazioni ottocentesche (con l’aggregazione a questo concetto dei temi dell’identità nazionale) e, finalmente, si presentano i problemi relativi al concetto di cittadinanza attuale, legato alla rivoluzione del Welfare.

    Logo del Laboratorio del Tempo PresenteFig. 5. Logo del Laboratorio del Tempo Presente, rete di scuole per la revisione del curricolo di storia e lo studio del mondo attuale.

    Ma in rete c’è anche il bel lavoro di Carla Marcellini, che, partendo dalle urgenze dell’esame di stato, individua alcuni temi forti (come il concetto di Stato o la Costituzione) che, peraltro, sono già trattati da molti insegnanti e che, con altri argomenti, suggerisce l’idea di una “valigetta di strumenti storici” per la formazione del cittadino. Sempre su HL, infine, Marco Cecalupo ha proposto diversi lavori, che cercano di integrare storia, educazione civile e geografia e che, in forma più strutturata, presenta in La strada delle competenze (Loescher 2016).

    Per la seconda, l’analisi del presente, si è costituita una rete di scopo “Il Laboratorio del tempo presente”, che mira a raccogliere suggerimenti e strumenti didattici, utili per analizzare i temi caldi e i periodi più vicini a noi. Qui su HL si troveranno altri articoli su questo tema. Scorrendo gli indici di “Novecento.org”, si leggono decine e decine di laboratori e di proposte didattiche, raccolti in sei anni di lavoro della rivista. Entrambe le strade sono consentite dalla legislazione attuale: la legge sull’Educazione alla cittadinanza attualmente in vigore (quella appunto che la nuova legge abolisce); le Indicazioni ministeriali relative ai programmi della scuola di base; il nuovo assetto degli esami, previsti dalla recentissima direttiva n. 205; per non parlare del concorso su Cittadinanza e Costituzione, con prove articolate lungo il curricolo verticale.

    In conclusione, si continua a lavorare …

    Ci si muove ancora oggi, è appena il caso di farlo notare, nel solco tracciato da Aldo Moro: c’è una formatività generale, attribuita alla scuola nel suo complesso (e che andrebbe presa in carico particolarmente nel “curricolo informale”), mentre nella storia si vanno a cercare i momenti topici del rapporto fra potere e società. Le criticità, che abbiamo riscontrato nel corso di questi settant’anni, forse non dipendono soltanto dall’assenza di una materia indipendente con un voto separato (come sostengono i promotori della legge). Probabilmente, incidono di più fatti noti e denunciati, come la diminuzione delle ore di storia/geografia, o l’incapacità generale dei docenti italiani di programmare l’apprendimento quinquennale, in modo da riservare ai tempi attuali un tempo congruo (tema, questo, venuto alla ribalta in occasione della polemica sulla prova di storia). E, causa, infine, più generale, la difficoltà con la quale la comunità scolastica riesce a socializzare “buone pratiche”, come quelle che migliaia di docenti hanno realizzato dagli anni ’60 ad oggi, anche nel campo del rapporto fra educazione civica e storia. Problemi che restano, quale che sia la legge che verrà approvata.

    In questa, come in altre occasioni, chi decide di percorrere queste strade, lo fa da solo o con altri volontari come lui: è questa la grande differenza fra Italia e altri stati (come forse qualcuno avrà sospettato, quello del Ticino è solo un esempio).

    Ecco ciò che potremmo fare noi, come storici e insegnanti di storia. Spero che altri (dai geografi ai docenti di diritto e economia ecc.) facciano le loro proposte e – dal basso – si riesca a creare una sorta di progetto un po’ più credibile di quello che troviamo nella Legge Capitanio. Mentre scrivo, la legge è in votazione al Senato. Già leggo su internet le pressioni di questo o quel gruppo, per aggiungere qualcosa di suo gradimento. Temo che il – “fritto misto” – (termine usato dallo stesso Capitanio, sia pure per difendersi) ne verrà ulteriormente arricchito.

    Occorrerebbe, invece, che qualche senatore riuscisse a dare una scossa ai suoi colleghi: perché, quei profondi rivolgimenti che abbiamo appena ricordato sono così seri, da imporre una legge seria sull’Educazione alla Cittadinanza. Ma di questa discussione daremo conto in un altro contributo.

  • Dopo le discussioni sulla prova di storia. In attesa della tempesta perfetta?

    di Antonio Brusa

    “Non rubiamo il passato ai ragazzi”

    Se le proteste per reintrodurre la prova di storia (la vecchia tipologia C della prima prova) avessero un qualche riscontro, politico o anche solo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, sarebbe una bella vittoria per una disciplina che sta patendo un processo di marginalizzazione disastroso, ormai di livello mondiale.

    È, dunque, una buona battaglia quella lanciata da “Repubblica”, forte dell’appello della senatrice Liliana Segre, al quale hanno aderito storici, scrittori, artisti, giornalisti e tanti cittadini. I molti giovani che hanno risposto al questionario sulla reintroduzione della prova, e i moltissimi che hanno aggiunto considerazioni sull’utilità dello studio della storia, col loro numero incoraggiano tutti quelli che amano questa disciplina e ne ritengono indispensabile il portato formativo.

    Come si ricorderà, il dibattito è stato avviato dall’allarme lanciato dal Coordinamento della Giunta centrale per gli studi storici e delle Società degli storici (Cusgr, Sis, Sisem, Sisi, Sismed, Sissco), a seguito delle modifiche della prova di esame di stato (Circolare MIUR n. 3050 del 4 ottobre 2018). Su «Historia Ludens» abbiamo dato ampiamente conto dei numerosi interventi.

    Storia sotto attacco. Gran BretagnaStoria sotto attacco. Gran Bretagna

    A quella mobilitazione il ministro Marco Bussetti ha riposto con dei fatti. Aveva promesso che la storia non sarebbe scomparsa, e ha mantenuto la parola. La storia è stata presente direttamente in una delle tracce proposte, quella sul brano di Claudio Pavone, e, indirettamente, sia nella traccia su Pascoli (Patria), sia in quella sui diritti civili e soprattutto su La Storia di Elsa Morante. Dunque: la storia come disciplina importante e, per questo, trasversale, come il ministro non ha mai smesso di dichiarare. In aggiunta, Bussetti ha sottolineato che, con questo sistema, la storia è uscita dal dimenticatoio studentesco, registrando un numero di scelte superiore al passato, dal momento che gli studenti “non si sono polarizzati su una prova”. Pensando allo 0,6%, registrato dal tema sulle Foibe, assegnato al tempo della Gelmini, gli si dovrebbe dar ragione, per quanto l’instant poll di Skuola.net ci faccia temere che, comunque, la traccia di “storia-storia” sia l’ultima delle sette in lizza.

    Un dibattito acceso e una certa varietà di opinioni

    Questi “fatti” del ministro non hanno accontentato Andrea Giardina e con lui molti altri, storici e no, che li hanno considerati insufficienti a ridare alla storia quel ruolo centrale nell’impianto formativo, del quale la prova di storia era, per così dire, il sigillo.

    Tuttavia, occorre notare che il fronte delle opinioni è molto diversificato. Uno specchio di questa varietà è dato dalla rapida indagine presso i dirigenti scolastici, svolta da “AdnKronos”, nella quale, accanto a chi attribuisce la scelta del ministro al deprecabile e ulteriore allontanamento della scuola dalla visione gentiliana (!), vi è chi, come Tina Gesmundo, preside di uno dei più attivi licei di Bari, afferma che "l'eliminazione della traccia di storia fa parte di un grande disegno che va a picconare i fondamentali della nostra cultura umanistica ", al contrario di Chiara Alpestre, preside dello storico “D’Azeglio” di Torino, per la quale si tratta di "una falsa polemica”, dal momento che, se “è vero che il tema storico non viene più esplicitato” e che la Storia viene “diluita all'interno di altre tipologie”, non si può negare che “l'attenzione per tutte le dimensioni di competenza dell'allievo sia rimasta".

    La contesa potrebbe continuare: sarà vero che la trovata del ministro è “ideologica” come accusa Giardina? e che, più che eliminare una traccia poco accorsata, si sarebbe dovuto intervenire per renderla più appetibile? Si potrebbe aggiungere, per rinfocolare la polemica, che il ministro è stato abbastanza astuto, scegliendo tracce ampie, che potevano essere svolte anche conoscendo poca storia ma sapendone ben parlare, e che ha, altrettanto saggiamente, evitato il nodo degli ultimi settant’anni, quel buco nero della conoscenza storica nelle nostre scuole, messo in luce agli esami di questi ultimi due decenni (su questo vedi ancora «Historia Ludens»). Si potrebbe, anche, rinfacciare al ministro una perdita di dignità della storia, ridotta a disputare una prova di esame alle altre discipline, come lamenta il documento della SISLav, la società degli storici del lavoro.

    Quale che sia il giudizio che diamo di questo dibattito, e quali che ne siano gli esiti ultimi, tutti dovremmo riflettere sul fatto che i problemi che questo dibattito ha fatto emergere resteranno, e sono talmente gravi che dovrebbero accomunare i contendenti in uno sforzo comune. Sarebbe l’ennesima beffa, ammonisce Marco Campione, se, spentisi i fuochi della polemica, la storia tornasse nel dimenticatoio pubblico, in attesa della diatriba successiva, sull’educazione civica, o il bullismo o una qualsiasi altra disfunzione. (L’articolo, pubblicato da «Italia Oggi» può essere letto qui, in una versione leggermente diversa).

    È il caso, quindi, di tornare sulle questioni messe in luce dal dibattito, di analizzarle nella loro complessità e nei soggetti coinvolti. Occorre che tutti capiscano che ruolo vi hanno giocato, e, ciascuno per la propria parte, prendano le decisioni opportune, nella speranza che “la sveglia non sia suonata troppo tardi”, come teme Jacopo Frey, ripercorrendo la vicenda di una degradazione della disciplina, che negli ultimi venti anni è apparsa inarrestabile.

    La diminuzione delle ore di storia

    Che la ministra Gelmini abbia operato un “pesante taglio delle ore di insegnamento” è notizia ormai da Wikipedia. Nascoste nelle pieghe di una delle tante leggi per la semplificazione e il risparmio (burocraticamente: Legge 133/2008) vi erano le norme per la semplificazione scolastica, con le quali la ministra, “con il pretesto di creare uno zoccolo duro di apprendimenti”, sfalciava gli orari, con un particolare riguardo per la storia. A 10 anni di distanza, Mariangela Caprara a buon diritto segnala quella, come la data d’inizio del naufragio.

    Storia sotto attacco. Stati UnitiStoria sotto attacco. Stati Uniti

    Tuttavia, a sfogliare le agenzie del tempo, ci sorprende la flebilità delle proteste (confrontate, per dirne una, a quelle attuali). Una scuola più “leggera” fa risparmiare e questo – a molti della maggioranza come dell’opposizione – non dovette apparire un danno irreparabile; e una scuola “più semplificata” forse non dispiacque a tanti storici, per i quali le complicazioni didattiche sono volentieri il sintomo di un qualche sconfinamento pedagogico. Si levarono lamenti per la sparizione della geografia; parecchi gridarono alla cancellazione della storia dell’arte (un’accusa alla Gelmini che si rivelò non del tutto fondata.). Ma gli allarmi reali, quelli che avrebbero dovuto risuonare al cospetto della frana della storia, tacquero. Né ebbero una minima eco le denunce lanciate da «Mundus», la rivista di didattica della storia che l’editore Palumbo ha pubblicato per qualche anno (n. 5-6, 2007, Editoriale).

    Passati sotto silenzio allora, è indispensabile ricordare quei tagli oggi, per apprezzarne correttamente la gravità. Può aiutare questo prospetto orario, calcolato sui due cicli dei programmi attuali (con l’avvertenza che il conto è necessariamente approssimato, dal momento che è molto difficile valutare l’incidenza dell’autonomia negli orari effettivi adottati dai singoli istituti).

     

      Prima della GelminiDopo la Gelmini
    Primaria L’insegnante dell’area geo-storico-sociale disponeva di 9 ore settimanali.
    La pratica di fare “molta storia” era abbastanza diffusa
    Dalle 3 alle 7 ore settimanali
    Nell’ultimo biennio, quindi, da 268 ore in su.
    2 ore/1 ora
    Nell’ultimo biennio fra le 132 e le 66 ore
    Secondaria di primo grado L’insegnante disponeva di 2 ore di storia e altrettante di geografia. In terza aggiungeva 30 ore di educazione civica. Gelmini abolisce queste ultime e introduce geo-storia con 3 ore settimanali 68 ore annuali. 234, totali nel triennio, comprese quelle di educazione civica. 51 ore annuali
    153 ore nel triennio
    Secondaria di secondo grado Ad eccezione liceo classico, che propone 3 ore settimanali, tutti gli altri istituti hanno la storia a due ore, che diventano 4 con geografia. Geostoria riduce di un quarto queste ore. 340 ore nel quinquennio 265 ore
    Tutto il curricolo di storia L’autonomia fa sì che i totali varino da istituto a istituto 840 (e oltre)
    (da aumentare, a seconda delle scelte degli insegnanti della primaria)
    550 (spesso anche meno)
    (calcolando un programma di 132 ore nella primaria)
    Perdita approssimativa nell’intero curricolo: almeno 289 ore

     

    Quanto incide l’autonomia sulle ore di storia?

    Molto, dovremmo dire, per quanto sia estremamente complicato acquisire dati certi per tutto il territorio nazionale. Una frequentazione piuttosto assidua delle scuole mi ha fatto conoscere una vasta tipologia di comportamenti. Vi sono primarie nelle quali, giocando con orari e spostamenti di personale, si è riusciti a mantenere un assetto comparabile a quello dell’ “età d’oro” della Falcucci; altre, invece, nelle quali le tre ore delle scienze geo-storico-sociali sono state divise equamente fra Storia, Geografia e Cittadinanza e Costituzione. Lo stesso ventaglio trovo nelle secondarie di primo grado: qui, accanto al decadimento delle discipline geo-storico-sociali a materie da un’ora la settimana, sappiamo di calendari alternanti (una settimana alla storia, l’altra alla geografia); mentre non mancano istituti virtuosi, dove, recuperando “l’ora di approfondimento”, si ripristina il monte ore pre-Gelmini.

    A questa varietà di comportamenti corrisponde un'organizzazione lavorativa altrettanto diversificata: mi è capitato di conoscere insegnanti, prossimi apparentemente al suicidio, la cui cattedra era composta da 9 ore di lavoro in un corso, e da altrettante da spendere in nove classi diverse. Immagino che una ricognizione capillare ci riserverebbe altre sorprese.

    Il disastro delle professionali. Un caso di studio della marginalizzazione della storia

    Nel loro documento di protesta, gli storici citano, a riprova della volontà politica di marginalizzazione della storia, la questione del biennio delle professionali, dove la storia è diventata materia da un’ora la settimana. A mio modo di vedere, si tratta un perfetto caso di studio nel quale analizzare la complessità del problema e le diverse responsabilità dei soggetti coinvolti.

    Storia sotto attacco. ItaliaStoria sotto attacco. Italia <br> (Targa esposta nei negozi Feltrinelli)

    Cominciamo dal Miur. Nell’aprile del 2017 la ministra Valeria Fedeli varò il decreto di riordino degli istituti professionali. Nei quadri orari (riportati nell’Allegato 3) leggiamo che all’ “asse storico-sociale” del biennio sono assegnate 264 ore, esattamente quante vengono assegnate all’italiano e all’asse scientifico. L’asse storico-sociale è, di fatto, uno dei tre pilastri della formazione di base. Questa, nel suo complesso, gode di 1188 ore, un gruzzolo orario ben superiore a quello destinato al comparto professionalizzante (di 914 ore). L’accusa che la politica culturale del Miur è antiumanista e, in particolare, tesa alla svalorizzazione della storia non coglie nel segno: almeno fino a questo momento, e per quanto riguarda le professionali.

    Come si arriva al dimezzamento della storia

    Tradizionalmente, di quel monte ore ne venivano assegnate due alla storia e due a economia e diritto. Quindi la storia nelle professionali aveva 66 ore annue, quante nelle altre secondarie superiori (con l’eccezione del Classico, ovviamente). Mancava la geografia, che, finalmente nel 2018/19, ha cominciato a vedere i frutti delle sue lunghe battaglie per entrare nei curricoli. Lo annuncia trionfalmente Paola Pepe, dalle colonne della rivista online dell’Aiig (Associazione degli insegnanti di geografia), avvisando gli iscritti che la loro disciplina potrà avvalersi di un’ora, se non due, la settimana («l’insegnamento di geografia non deve necessariamente essere di un’ora settimanale, potrebbe essere anche di due ore o più»). Il punto è: dove si prendono queste ore? Come Pepe ricorda in quello stesso articolo, l’introduzione della geografia è una tipica riforma “senza oneri aggiuntivi”. Il monte ore resta quello. Per farsi spazio, la nuova deve cannibalizzare (mi si passi il termine) le discipline che c’erano prima.

    Se queste 264 ore vengono ripartite al modo di Salomone, generano quattro materie da un’ora la settimana. Come sanno bene gli insegnanti, e in particolare quelli delle professionali, per gli allievi diventano quattro materie di importanza trascurabile; ai professori prospettano un lavoro per nulla entusiasmante. Che programma di studi si può realizzare con sole 33 ore l’anno?

    264 ore. La politica italiana (precedente al governo in carica) ha fatto un investimento culturale notevole negli istituti professionali. Un investimento che stiamo sprecando, dobbiamo concludere con tristezza.

    Un disastro non necessario

    Ma è ineluttabile questo modello di ripartizione oraria? Niente affatto. Certo, bisogna farsi largo fra i rovi del buropedagoghese ministeriale per capire come. Ma, con un po’ di pazienza, si scopre che nelle intenzioni del legislatore le quattro discipline sono da vedere quanto più possibile legate fra di loro. Sono “aggregate”, si dice più volte (artt. 2 e 5), mentre si sottolinea che vanno privilegiati i progetti e i momenti interdisciplinari (art. 5, commi b, c).

    Non compare in nessuna parte del testo la norma che il monte ore vada suddiviso in parti uguali. La parola che ricorre spesso è “flessibilità”. Se ne danno anche dei parametri: ogni disciplina può “perdere fino al 20%” del tempo assegnato (che è poi una stranezza, visto che questo tempo non è mai definito); si dice, ancora, che si può modificare fino al 40% dell’orario. Vi è, ancora, una riserva di 264 ore da destinare a progetti individualizzanti, che nessuno vieta che vengano utilizzate a supporto di questo o quell’apprendimento. Per non parlare, infine, di quella marea di progetti (PON e altri) che, invece di disperdere l’attenzione degli allievi in mille rivoli, potrebbe essere finalizzata a una meritoria integrazione disciplinare.

    Si potrebbe fare qualcosa nelle scuole?

    I mezzi, almeno per limitare dei danni, ci sarebbero. Vista la gravità della situazione, ci attenderemmo che venissero attivati (nelle scuole e nel Miur, che potrebbe riservare a questo tema qualcuna delle sue incessanti direttive). Si può lavorare con le compresenze, col personale di potenziamento; si potrebbero discutere scelte anche dolorose, per salvare una disciplina e non perderle tutte e quattro. E, poi, perché non creare, come prescrive la norma, momenti integrati di lavoro storico-geografico o di storia e diritto, e perché non provare a mettere economia con storia o con geografia?

    Storia sotto attacco. AustraliaStoria sotto attacco. Australia

    Indubbiamente questa ri-organizzazione del lavoro crea problemi: orari magari non facili per i docenti, e non solo di quelli dell’asse storico-sociale; spostamenti di personale; fastidiose revisioni di abitudini; questioni sindacali; una progettazione didattica laboriosa; richieste di aggiornamento specifiche; un’azione pressante negli organi collegiali per sensibilizzare colleghi e dirigenti. Il tutto aggravato – probabilmente - da una certa inconsapevolezza delle opportunità che l’autonomia offre. È una miriade di ostacoli, della struttura e delle persone, per superare i quali occorrerebbe che la comunità scolastica condividesse un po’ di quella passione per la storia e per la sua utilità civile, che gli intervenuti al dibattito dichiarano sui media. Forse questa vicenda ci sta raccontando che questa condivisione non è molto diffusa, nelle nostre scuole.

    Disastri prossimi venturi

    Un tempo la geografia economica regnava nelle scuole tecniche e professionali. Fatta fuori da sciagurate riforme passate, è giusto che i colleghi di geografia le provino tutte per cercare di reintrodurla. Ma, come abbiamo visto, la combinazione fra la non volontà di spendere (“senza oneri aggiuntivi”) e l’incapacità delle scuole di rimodulare gli insegnamenti, porta a risultati spiacevoli per tutti, geografi compresi.

    Storia sotto attacco. Nuova ZelandaStoria sotto attacco. Nuova Zelanda

    Non saranno gli ultimi. Forti del successo nei bienni e dell’endorsement di Bussetti, i colleghi di geografia si dicono sicuri di entrare nei trienni delle professionali, dove non ci sono gli assi, ma c’è solo storia; chiedono con insistenza che il voto di “geostoria” sia disgiunto in tutti i bienni: il che potrebbe voler dire suddividere le tre ore attuali e riassegnarle in parti uguali, magari con insegnanti diversi.

    Dietro l’angolo c’è l’Educazione civica. Vantando un sorprendente sostegno trasversale, che va dall’Anci alla Lega (la proposta di legge è dei deputati brianzoli Capitanio e Centemero), accenderà di sicuro una nuova discussione mediatica sulla scuola, il cyberbullismo, i consumi giovanili di droghe e, come annunciò Salvini, sui professori che non vengono più rispettati. Nella proposta di legge, i dati che ci devono preoccupare ci sono tutti. La materia sarà di 33 ore, insegnata dai professori di storia e geografia nella scuola di base e da quelli di diritto e economia nella scuola superiore, con voto separato e prova d’esame, e, dulcis in fundo, con la clausola di “invarianza finanziaria”: senza oneri aggiuntivi e con il personale attualmente in servizio (art.4).

    Aspettiamo l’esito delle proteste per l’introduzione di Storia dell’Arte, e siamo curiosi di capire come e con quante ore verrà introdotta la Storia regionale, promessa per il momento da Bussetti al solo Zaia, governatore della Regione Veneto.

    Non discuto, qui, le intenzioni dei proponenti. Sottolineo il fatto che, se la scuola non riuscirà a sfruttare le opportunità dell’autonomia, il palazzo di via Trastevere continuerà a essere la borsa degli stakeholder della didattica, e le discipline universitarie continueranno a pensare che, trasformandosi in lobbies, risolveranno i loro problemi didattici, è certo che il peggio deve ancora venire.

    Quando, e di quanto, si scenderà ovunque sotto l’ora di storia settimanale?

    Poche ore, molta didattica

    “Più diminuiscono le ore, più la didattica della storia è necessaria”. Con queste parole Alessandro Cavalli sintetizza i lavori dell’ultima assemblea (2017) degli studiosi di didattica della storia tedeschi. Infatti, se in Italia si piange, in Germania non si ride: qui la storia è già, in diverse situazioni, materia da un’ora la settimana. Non c’è spazio per errori e perdite di tempo, quando l’orario è così ridotto all’osso. Tutto deve essere ben studiato: la formazione dei prof, la scelta degli argomenti, le modalità di studio, il rapporto fra sapere esperto e materia di insegnamento. Questo compito impegna ben 320 specialisti, tanti risultano dai dati della loro associazione. La loro competenza è considerata necessaria per la conduzione della macchina della formazione storica nazionale.

    È indispensabile, poi, anche per i dibattiti che scoppiano periodicamente a proposito della storia. Infatti, queste discussioni pubbliche, prive come sono di riferimenti solidi, poggiati su corpose ricerche universitarie, diventano facilmente l’arena dove si scontrano opinioni, anche autorevoli, ma con scarsi fondamenti professionali. Inoltre, se guardiamo la cosa dal punto di vista della politica, è di vitale importanza che i decisori usufruiscano di quadri costruiti su dati di ricerca, che non siano solo il frutto di predilezioni e di esperienze personali.

    Così pensano in Germania: la situazione italiana è sotto i nostri occhi.

    320 a 0. Questo potrebbe essere l’esito del confronto fra Italia e Germania, dal momento gli storici italiani che si occupano di didattica si contano sulle dita di una mano, mentre non ci sono (in servizio) studiosi specializzati in questa disciplina. Luigi Cajani ci spiega in che modo, e perché, la storiografia italiana sia giunta a questi risultati, in una relazione presentata al convegno sulle prospettive della didattica della storia in Italia, organizzato da Walter Panciera, il coordinatore della sezione didattica della Sisem (Le vicende della didattica della storia in Italia, in E. Valseriati (a cura di), Prospettive per la didattica della storia in Italia e in Europa, Palermo, 2019, pp. 121-130).

    Storia sotto attacco. GiapponeStoria sotto attacco. Giappone

    La conclusione che ricaviamo è inesorabile. La comunità degli storici non è in grado di intervenire in questo dibattito se non con delle opinioni. Qualificate per quanto si voglia, ma sempre opinioni.

    Per giunta, la mancanza di una seria ricerca storico-didattica non consente ai colleghi storici di collaborare professionalmente alla soluzione di quei problemi che la discussione sull’esame ha messo in evidenza, e che sono stati ripresi in una vasta gamma di interventi, da Gianni Oliva, storico e preside, fino a «Wired» rivista di innovazione digitale, ma preoccupata, in questa occasione, delle sorti della conoscenza storica: come riconfigurare il programma di studi, in modo da permettere al docente di affrontare gli ultimi settant’anni? Quali sono le letture storiche di questo periodo didatticamente più efficaci? In che modo far sì che la disciplina storica diventi un po’ più attraente? Quali sono gli approcci più sicuri per affrontare l’integrazione fra storia le altre discipline sociali e geografiche? In che modo includere nella trattazione storica quegli elementi che consentono di svolgere anche temi di educazione alla cittadinanza?

    Di fronte a queste richieste, l’accademia italiana non è in grado di offrire una solida ricerca didattica. L’insegnante deve continuare a sbrigarsela da solo. Le case editrici hanno mano libera per produrre proposte di dubbia consistenza (è palmare nel caso della geostoria). E, nella prospettiva della revisione dei programmi (anche questa una minaccia dietro l’angolo), il Miur non avrà nessun progetto, discusso e validato dagli storici, con il quale confrontarsi.

    La “Questione didattica”

    In realtà, negli ultimi due anni le Società degli Storici sembravano essersi rese conto della gravità della situazione e avevano cominciato a mettere a fuoco il fatto che esiste una “questione didattica” italiana. Avevano organizzato un buon numero di convegni, messo in cantiere qualche master di didattica della storia (che mi auguro vengano effettivamente attivati), ma – soprattutto – lanciato al Miur l’idea di un centro nazionale per lo studio della didattica storica.

    Il nuovo governo non appare molto interessato a questa prospettiva e le stesse associazioni degli storici sembrano aver abbandonato questa idea, forse attratte dalle scintillanti promesse didattiche della Public History. Questa prospettiva, suggerita da Andrea Giardina a ridosso delle dichiarazioni ministeriali, è stata successivamente ripresa da David Bidussa.

    La Public History, si sostiene, vanta modalità di comunicazione efficaci e attraenti: film, documentari, fiction seriali, tridimensionalità, spettacolarizzazione, gamification, reenactement. È ciò che serve per modificare la percezione di una disciplina noiosa e per disincagliarla dalle secche della sua marginalizzazione.

    Ma è una semplificazione inaccettabile quella «che porta a identificare la Public History come la soluzione alla marginalizzazione della storia» (Agostino Bistarelli). Non si tiene presente, argomentando in questo modo, che la Public History, come qualsiasi altra branca della storiografia dalla quale si vogliano prendere materiali da portare in classe, deve diventare essa stessa un oggetto della didattica storica (lo ricorda Luigi Cajani sulle pagine di Public History Weekly), se vogliamo che venga trattata con maestria professionale. È questa, che mette in grado il docente di fornire, «attraverso un lavoro pluriennale, competenze storiche che permettano di destreggiarsi tra le narrazioni del passato che l’odierna società globale ci propone». Così si esprime Salvo Adorno, coordinatore della sezione didattica della Sissco.

    La Public History non sostituisce la didattica, ma ne acuisce, se mai ce ne fosse bisogno, il problema della mancanza

    La tempesta perfetta

    È tipico dei dibattiti sulla scuola l’individuazione della politica come l’unico nemico da battere. A questa regola non ha fatto eccezione la querelle sulla prova di storia. La pur rapida analisi, che qui ho proposto, spero abbia messo in evidenza come molti siano i padri delle disfunzioni lamentate.

    C’è l’Università che, incapace di produrre una proposta culturale che costringa il Miur a confrontarsi, si sfrangia in lobbies, ciascuna delle quali attiva sue strategie di vittoria; c’è la comunità degli storici, che non ha mai preso in considerazione l’indispensabilità di una solida didattica disciplinare; c’è la scuola che, incapace di usare al meglio gli strumenti dell’autonomia, ottiene spesso il risultato di peggiorare direttive, già nate male di suo. C’è il Miur, che interpreta la sua azione di governo della formazione dei cittadini unicamente come mediazione dei diversi interessi (didattici e no). Ci sono i media, che rinunciano all’analisi per ridursi a eco delle rimostranze. C’è un pubblico, infine, propenso a premiare chi, fra tutti questi, si lamenta più credibilmente.

    Gli ingredienti di una tempesta perfetta ci sono tutti. Non se ne esce, temo, se ciascuno dei suoi protagonisti non comincia a rendersi conto delle sue responsabilità, e della parte di problema che gli tocca affrontare.

     

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  • Educazione “della” memoria contro educazione “alla” memoria.

    di Antonio Brusa

    01 Non è una questione di preposizioni articolate

    Negli ultimi decenni le scuole di tutto il mondo - investite da uno tzunami di “Giornate della Memoria” e del conseguente compito di promuovere l’educazione “alla” memoria - sono diventate uno dei campi di battaglia delle politiche identitarie degli stati. Noi – insegnanti e ricercatori di storia – dovremmo batterci perché, al contrario, diventino il luogo dell’educazione “della” memoria. Un luogo dove gli allievi apprendano a valutare criticamente le politiche memoriali – nazionali e sovranazionali -, apprendano che il ricordo sociale - la memoria pubblica - è un aspetto fondamentale della vita democratica e che, perciò, la discussione di ciò che conviene ricordare, e degli scopi per i quali occorre ricordare, fa parte dei diritti-doveri di un cittadino.

    La memoria dei fatti del passato, soprattutto di quello vissuto, ossia la capacità di selezionarne alcuni e di fissarli nel ricordo extrascolastico, e la memoria collettiva, ossia la selezione degli eventi attorno ai quali la comunità dei cittadini è convocata, sono gestite principalmente dalla politica e dal dispositivo dei media. Sono questi che decidono i fatti da ricordare e, quindi, sollecitano i cittadini “a” ricordarli. Sono questi, dunque, che concretamente ne plasmano la memoria. La scuola pubblica, istituzione preposta alla formazione dei cittadini, dovrebbe rivendicare il proprio ruolo. Dovrebbe denunciare il fatto che un’educazione intellettuale che ubbidisca a regole esterne al mondo scientifico/didattico contraddice il dettato costituzionale, che affida tale compito alla scuola e all’Università, luoghi garanti della libertà dell’insegnamento/apprendimento. E, per contro, dovrebbe promuovere la formazione di una “memoria educata”.

    Quali sono le condizioni per questa educazione “della” memoria? Ecco quelle che mi sembrano fondamentali: la contestualizzazione, l’inserimento nel curricolo, il rapporto fra storia e memoria e il rapporto con l’educazione civica.

    La contestualizzazione

    Quali che siano le attività e i materiali che vengono preparati per la Giornata della Memoria e la competenza e la passione che li caratterizzano, molti insegnanti si accingono ad affrontarla con l’idea che essa riguardi il rapporto fra i propri ragazzi e un evento estremamente tragico del passato. Questa è solo una parte della storia. A più di due decenni dall’istituzione della prima Giornata della Memoria, oggi constatiamo che questa è un frammento di un universo di iniziative politiche volte a utilizzare il passato come marcatore identitario. I soggetti di queste iniziative non sono soltanto gli stati, ma anche singoli gruppi politici e gruppi sociali emergenti (di genere, etnici, localistici ecc.). Spesso queste memorie rivendicate o imposte sono in conflitto, a volte si elidono vicendevolmente. La conoscenza di questo scontro è la prima condizione per evitare che la scuola ne diventi lo scenario inconsapevole. L’analisi dei motivi che hanno trasformato la memoria del passato in un terreno di azione politica aggiunge agli obiettivi più consolidati dello studio – ad esempio - della Shoah (l’antisemitismo, il genocidio, il nazismo e i perpetratori del genocidio, il rapporto con gli altri), quelli relativi al rapporto “verticale” fra cittadini e stato (perché i governi vogliono agire sulla memoria, individuale e collettiva?) e “orizzontale” fra stati e gruppi sociali (perché il passato viene usato in chiave identitaria?). La maggior parte delle risposte che riusciamo a dare a queste domande ci riportano alla mente un proverbio arabo, ricordato volentieri da Marc Bloch, che “siamo figli più del presente che del passato”, e, quindi, ci conducono, direttamente o indirettamente, alla realtà della globalizzazione. Mettono in evidenza la necessità di contestualizzare l’atto del ricordo. Studiare a scuola la Shoah è un fatto molto diverso, oggi, da ciò che poté essere negli anni ’60 o al tornante del secolo, quando ne venne istituita la Giornata commemorativa. Una conseguenza non secondaria di questo cambiamento è il deperimento delle riflessioni didattiche e dei materiali messi a punto nel corso del tempo, o, quanto meno, la necessità di una loro attenta revisione.

    02 L'inserimento nel curricolo

    La ricchezza degli spunti didattici che offre la Shoah, e la sua complessità, fanno sì che raramente essa venga affrontata in classe in una completezza enciclopedica. Si sceglie, di volta in volta, questo o quell’aspetto che al momento appare al docente più efficace. La necessità di una contestualizzazione, che qui proponiamo, accresce certamente questa complessità. Per di più, questa andrebbe moltiplicata per le giornate memoriali più accorsate che mi sembrano - oltre a quella della Memoria - la Giornata del Ricordo, quella della Legalità e quella delle Vittime del mare (non sono a conoscenza di ricerche sulla loro frequentazione nelle classi italiane. Sulla deprimente corsa alla commemorazione si veda qui).

    Ovvia, quindi, l’urgenza di un’organizzazione curricolare, nella quale le varie esigenze formative trovino il loro posto e si possano accumulare nel tempo. Altrettanto ovvia la necessità di “agganciare” i diversi aspetti, messi in evidenza negli oggetti della commemorazione, a temi che dovrebbero essere sviluppati in un curricolo di storia attento ai problemi che si incontrano studiando i vari periodi storici, più che al dettaglio degli eventi. Ad esempio: la formazione dello stato, il rapporto fra stato e cittadini, le pedagogie dello stato e, andando verso i nostri giorni, l’emergere delle questioni identitarie e la loro rilevanza politica e sociale. Le ricorrenze memoriali, in questo modo, diventerebbero “casi di studio” ben acclimatati nel curricolo, e non eventi eccezionali che vi irrompono dall’esterno. Andrebbero a far parte di quel “laboratorio del tempo presente”, autentico banco di prova delle capacità di ragionamento storico acquisite dagli allievi.

    Alla complessità dell’oggetto va aggiunta la complessità del bagaglio epistemologico e metodologico che occorre possedere per affrontarlo in modo maturo. Jörn Rüsen ce ne fornisce un quadro schematico in tre fasi:
    a. L’insieme delle capacità che permettono all’allievo di analizzare un dato fatto storico (analisi dell’evento, comparazione con altri eventi, classificazione ecc.)
    b. L’insieme delle capacità che gli permettono di confrontare le ricostruzioni storiografiche con quelle del senso comune.
    c. La capacità di osservare in parallelo una doppia evoluzione interpretativa: quella storiografica e quella della memoria pubblica o del senso comune. *

    È chiaro che non si può mettere in pista questo complesso di sapere e di saper fare in una sola giornata. Se ne devono “spalmare” le singole operazioni in un curricolo che parta dalle più semplici (non necessariamente incluse nel punto a) e giunga a quelle più complesse, che non saranno sempre quelle del punto c. Come spesso accade nell’insegnamento, la realizzabilità di un obiettivo in classe dipende anche dalla strategia didattica e dai mediatori adoperati. Giusto per fare un esempio che mostri come anche in una scuola media si può praticare qualcosa del livello medio-alto, si pensi al confronto che si può instaurare fra il risultato di una rapida inchiesta su che cosa pensano i familiari degli allievi a proposito della Shoah e una ricostruzione storiografica.

    Solitamente, la programmazione degli eventi memoriali si limita alla ricerca di “qualcosa che non si è fatto l’anno scorso”, o di “qualcosa che sia adatto a quella certa classe”. E ciò è in armonia con una “educazione alla memoria”, il cui problema principale è interessare gli allievi, coinvolgerli, suscitare le loro emozioni o trovare quegli argomenti talmente efficaci da scolpire quel dato evento nella loro memoria. Strategie sempre utili, ma che sono altra cosa rispetto a quel processo di crescita coerente che dovrebbe portare all’educazione della memoria, cioè alla progressiva autonomia degli allievi nella valutazione e nella scelta degli eventi degni di essere ricordati.

    Il rapporto fra storia e memoria

    È impossibile riassumere in poche battute l’imponente dibattito sul rapporto fra storia e memoria che ha coinvolto negli ultimi decenni parti significative della comunità storiografica mondiale. Per quanto concerne l’educazione della memoria, credo che occorra tenere conto di due aspetti, che riguardano rispettivamente la memoria individuale e quella collettiva.

    Il primo è relativo all’esplosione della “società della conoscenza”, intendendo con questa espressione una società nella quale i media mettono a disposizione delle masse l’intero sapere umano, e, al tempo stesso, costituiscono per queste masse il mezzo per rendere pubblico il “proprio” sapere. Si crea, in questo modo, una platea universale nella quale ciascuno esprime la propria opinione su qualsiasi argomento e, per quello che ci riguarda, sul passato. A differenza dei contadini del Seicento, che probabilmente avevano una visione del mondo, presente e passato, circoscritta al loro ambiente di vita, il cittadino odierno iscrive nella propria memoria fatti che un tempo si sarebbero letti solo nei libri. Il fascismo e il genocidio degli ebrei, le foibe, l’uccisione di Falcone e Borsellino, il naufragio di Lampedusa del 2013, quindi, possono far parte dell’idea di passato del cittadino comune. Con quale criterio e con quali accortezze questi eventi sono stati selezionati, e vengono richiamati e reinterpretati nel discorso comune? Rispondendo a questa domanda, Stefano Pivato ha espresso il suo – e nostro - sconcerto in un aureo libretto dal titolo emblematico Vuoti di memoria (Usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana, Laterza 2007). Potremmo aggiungere che quelle memorie che appaiono allo storico così “vuote”, in realtà sono “selvagge”, essendosi formate in modo spontaneo, senza alcuna assistenza esperta, nel vorticare tumultuoso delle conoscenze.
    Il secondo aspetto è quello - che ho già richiamato - della scoperta del passato da parte della politica. È una sorta di ripresa di politiche culturali, già sperimentate dagli stati europei ottocenteschi e primo novecenteschi. Nel nuovo scenario della globalizzazione, tuttavia, occorre legittimarsi non più al cospetto di pochi stati europei, ma di fronte alla massa enorme di otto miliardi di persone. Il passato cessa di essere (solo) un terreno da studiare, per diventare l’inesauribile repertorio di argomenti, fatti, personaggi da utilizzare a supporto delle proprie richieste di riconoscimento. Si creano così quadri memoriali composti da primati, che magnificano la grandezza del soggetto, e da torti subiti, che ne motivano le pretese di risarcimento. I soggetti (stati, gruppi politici o sociali) premono sulle scuole per riformulare i programmi di storia in chiave nazionalistica, di genere, etnica o localistica, e si agitano nel pubblico per nuove iniziative monumentarie o commemorative (Sul conflitto mondiale della memoria). E, a conti fatti, tutti constatano che l’intervento pubblico è più remunerativo di quello scolastico: dà risultati immediati e apprezzabili dagli elettori, dalle famiglie e dai membri del gruppo, e ottiene riscontri amplissimi nei media. Al contrario, l’apprendimento storico è lento, chiuso nelle aule, se ne vedono (forse) gli effetti dopo anni di studio, e ad ogni sondaggio dà risultati deludenti. Per giunta, più è aggiornato, meno è capito in famiglia. Ecco alcune buone ragioni per un progressivo disinvestimento nell’insegnamento storico, controbilanciato dal parallelo aumento di giornate commemorative.

    In questo quadro, l’educazione della memoria si propone come un lavoro sociale di civilizzazione delle memorie individuali, indispensabile in una società democratica che richieda ai cittadini scelte e orientamenti che tengono conto di fatti e non di “fattoidi”. Al tempo stesso costituisce una buona reazione alla deriva de-disciplinarizzante della formazione, dal momento che richiama e reinterpreta le istanze formative memoriali all’interno del curricolo.

    03 Storia, memoria, educazione civica

    La Legge sull’educazione civica (92/2019) e la più recente proposta di legge sull’introduzione delle competenze non cognitive (A.S. 2372) sono legate dal filo rosso della de-disciplinarizzazione della formazione. Il dibattito parlamentare, che in tempi rapidissimi portò alla reintroduzione dell’educazione civica come materia a sé stante, si è rivelato un sondaggio di opinione fra i parlamentari sul rapporto fra discipline e formazione. Tutti, infatti, senza distinzione politica, hanno approvato entusiasticamente questa nuova materia che finalmente non si sarebbe studiata sui libri e che avrebbe riguardato la vita reale. Una materia utile e non da aula scolastica (le citazioni sono quasi letterali: controllate il resoconto che ho pubblicato su HL). Nel corso del dibattito, si è sollecitata l’introduzione dell’educazione dei sentimenti, degli atteggiamenti e di una quantità di altri buoni comportamenti – rigorosamente non cognitivi - puntualmente ripresi nella proposta di legge sulle competenze non disciplinari. Proposta di legge anch’essa approvata a larghissima maggioranza.

    Sul perché di questa ondata di consensi anti-disciplinari, i commenti si orientano su due interpretazioni: da una parte c’è chi sostiene che siano il frutto del pensiero unico liberal-capitalista; dall’altra, si argomenta intorno alla perdita di interesse verso le discipline umanistiche, a favore delle discipline Stem, quelle che la società apprezza come utili. Almeno per quanto riguarda l’Italia, le fonti parlamentari smentirebbero entrambe le ipotesi, dal momento che fra i cordiali sostenitori di entrambe le leggi troviamo esponenti della sinistra anticapitalista, e le discipline condannate perché “troppo scolastiche” sono tutte, senza distinzioni.

    Credo che l’unica spiegazione consista nel fatto che il mondo politico, non solo quello italiano, richiede un riscontro visibile dell’investimento formativo. Un riscontro visibile alle famiglie, al cittadino comune. Sono questi, in ultima analisi, che negano alla politica il tempo della lunga formazione disciplinare. E le competenze non disciplinari hanno giusto questo vantaggio: il buon rapporto con i compagni, la partecipazione a iniziative ambientali, il sostegno a una campagna umanitaria, la denuncia del bulletto non hanno bisogno dei lunghi allenamenti delle discipline, per produrre un gesto, un comportamento, un qualcosa che tranquillizzerà le famiglie sul buon funzionamento della scuola.

    La legge sull’Educazione civica non fa cenno alle questioni memoriali che, come abbiamo appena visto, sono parte costitutiva di una cittadinanza democratica. Noi ci abbiamo provato, invece. Con l’Istituto Comprensivo n.6 di Modena (all’interno della rete di scuole LabSto21), abbiamo prodotto un curricolo di educazione civica multidisciplinare che contempla, fra le sue attività, anche quella dell’educazione della memoria, nel quale la Giornata della Memoria diventa un segmento normale della programmazione. Avremo modo di parlarne su HL, a sperimentazione terminata. Per il momento, lanciamo la questione: educazione alla memoria, o educazione della memoria?


    * Il testo citato è J. Rüsen, What is Historical Consciousness? A Theoretical Approach to Empirical Evidence, University of British Columbia, Vancouver, 2001.

    * I disegni delle ragazze e dei ragazzi della scuola primaria “Montessori” di Bollate, prodotti in occasione del Giorno della Memoria, pubblicati in Ti prometto che non dimenticherò mai. SHOAH: Il buio e la luce della speranza, edizione Kindle e Il Melograno, 2017, sono ricavati da Gariwo. La foresta dei giusti:
    https://it.gariwo.net/gallerie-fotografiche/altro/progetto-memoria-i-disegni-dei-ragazzi-18631.html

  • L'educazione alla cittadinanza in Europa

    di Antonio Prampolini

      EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA IN EUROPA IMMAGINE 1 A completamento delle sitografie sull’educazione civica già pubblicate in precedenza su HL (Italia, Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Organizzazioni/reti europee) si propone di seguito una sitografia riepilogativa per autori al fine di facilitare la consultazione delle numerose fonti segnalate.

    Tutti i links sono stati controllati alla data del 26/09/2020

     

     

    INDICE AUTORI

    A

    Adernò Giuseppe,Educazione civica, storia della “Cenerentola” della scuola, in «Tecnica della Scuola», 13 maggio 2019.

    Advisory Group on Citizenship, Final report: Education for citizenship and the teaching of democracy in schools,Great Britain. 22 September 1998.

    Anbar Maram, Citizenship Education in Spain,26/10/2015.

    Apitzsch Ursula,Citizenship and Gender,inThe Making of Citizens in Europe - II. Dimensions of Citizenship Education, 11/05/2015.

    Association des Professeurs d’Histoire et de Géographie,education civique”, links ai numerosiarticoli presenti sul sito dell’associazione riguardanti i rapporti tra l’insegnamento della storia/geografia e l’educazione civica.

    Association for Citizenship Teaching (ACT), citizenship education, progetti, risorse didattiche, pubblicazioni sul tema nel sito dell’associazione fondata nel 2001 da Bernard Crick.

    Brusa Antonio,Del pasticcio dell’Educazione civica e dei suoi legami ambigui con la storia,in «Historia Ludens», 17 giugno 2019.

    Bundesarbeitsgemeinschaft Politische Bildung Online,Politische Bildung in Schule und JugendArbeit,portale per insegnanti e studenti dedicato all'educazione alla cittadinanza che propone Dossier sulle principali questioni del tempo presente.

    Bundeszentrale für politisce Bildung, sito bilingue (tedesco e inglese) dell’Agenzia federale per l'educazione civica. Il sito affronta il tema dell'educazione alla cittadinanza in una prospettiva nazionale, europea e internazionale, offrendo agli interessati una vasta gamma di risorse riguardanti sia il mondo scolastico che extrascolastico.

    C

    Cameron-Curry Leslie, Pozzi Marco, Troia Sandra,Dalla competenza digitale alla cittadinanza digitale: esperienze di apprendimento,Didamatica (AICA), 2014.

    Chiosso Giorgio,Educazione e cittadinanza. Il punto di vista pedagogico,2009.

    Cimò Erica,Educazione alla cittadinanza: una disciplina per formare cittadini consapevoli di una Europa multiculturale,INDIRE, 14/11/2017;L’educazione alla cittadinanza in Europa nel nuovo quaderno di Eurydice Italia, 04/03/2019.

    Citizenship Education Longitudinal Study – CELS,Citizenship education in England 2001-2010: young people’s practices and prospects for the future, final report, Department for Education, November 2010.

    Consiglio d’Europa,Carta sull’Educazione per la Cittadinanza Democratica e l’Educazione ai Diritti Umani, 11/05/2010;Approcci contemporanei all’educazione alla cittadinanza europea.

    ► Corradini Luciano,Educazione civica e Costituzione. Il legame necessario, in «Scuola e Formazione», n. 5/8, maggio-agosto 2019.

    ► Council of Europe,Charter on Education for Democratic Citizenship and Human Rights Education,11/05/2010;Edu4Europe: Education for European democratic citizenship,Forum – 1st edition “Future visions of Europe”,19-21/11/2019; citizenship education,education civique,risorse in lingua  inglese e francese presenti nel sito del Consiglio d’Europa.

    ► Crespo Garay Cristina,España suspende en Europa en educación cívica, 26/02/2018.

    D

    Decreto del Presidente della Repubblica 14 giugno 1955, n. 503,Programmi didattici per la scuola primaria.

    Decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno 1958 n. 585,Programmi per l’insegnamento dell’educazione civica negli istituti e scuole di istruzione secondaria e artistica.

    Decreto del Presidente della Repubblica 12 febbraio 1985 n.104,Approvazione dei nuovi programmi didattici per la scuola primaria.

    ► Democratic Life,citizenship education, risorse presenti nel sito dell’omonima associazione inglese che ha come compito istituzionale il rafforzamento e l'estensione dell’educazione civica tra i giovani.

    Department for Education, "citizenship education",links alla documentazione sull’educazione civicanel sistema scolastico inglese presenti nel sito del dipartimento.

    ►  Detjen Joachim,Politische Bildung,Konrad Adenauer Stiftung, 2007.

    ►  Di Cesare Rosella (a cura di),Dossier del Sevizio Studi del Senato in materia di insegnamento scolastico dell'educazione civica,n.130, giugno 2019.

    E

    Éduscol,"education civique",links alla vasta documentazione in materia del sito pedagogico del Ministère de l'Éducation nationale et de la Jeunesse.

    ► EPALE – Electronic Platform for Adult Learning in Europe (European Commission), "citizenship education", risultati della ricerca sulla piattaforma digitale.

    ► European Association for the Education of Adults – EAEA,"citizenship education",risultati della ricerca sul sito dell’associazione.

    ► European Association of History Educators (EUROCLIO),"citizenship education",risultati della ricerca sul sito dell’associazione.

    ► European Union,citizenship education, linksa documenti e iniziative sull’educazione civica nei paesi europei sul sito ufficiale dell’Unione.

    ► Eurydice,"citizenship education","education civique","educazione civica", le risorse digitali segnalate dalla rete d’informazione della Commissione Europea per la conoscenza dei sistemi e delle politiche nel settore educativo degli stati dell’Unione;Mission and Activities;Citizenship Education at School in Europe,Report 2017;Annexes: National Information and Websites, Report 2017;Eurydice Brief Citizenship Education at School in Europe 2017.

    Eurydice Italia,L’educazione alla cittadinanza a scuola in Europa, Report 2017;Eurydice in breve. L'educazione alla cittadinanza a scuola in Europa 2017.

    F

    Fondation Res Publica"education civique", links sull’argomento nel sito della fondazione francese, riconosciuta di pubblica utilità, creata nel 2005 e presieduta da Jean-Pierre Chevènement.

    Fondazione Giangiacomo Feltrinelli,"educazione civica", articoli e iniziative nel sito della fondazione.

    Frevert Ute,How to Become a Good European Citizen: Present Challenges and Past Experiences,in The Making of Citizens in Europe - I. Citizenship and European Citizenship, 11/05/2015.

    ► Friedrich-Ebert-Stiftung"politische bildung", ampia documentazione sull’educazione civica offerta dal sito della fondazione collegata al Partito socialdemocratico tedesco (SPD).

    EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA IN EUROPA IMMAGINE 2

    G

    ►  Galichet François, L’éducation à la citoyenneté dans les programmes d’enseignement français nécessairement laïcs et leur mise en œuvre,Colloque international salésien de Lyon, 20-24 août 2005.

    ►  Georgi Viola B.,New Perspectives on Citizenship Education in Europe, inThe Making of Citizens in Europe - Introduction, 11/05/2015;Citizenship and Diversity,in The Making of Citizens in Europe - II. Dimensions of Citizenship Education,11/05/2015.

    ► González Pérez Teresa,La educación cívica en españa: retrospectiva y perspectiva, in «História da Educação», vol.18 n.42, Jan./Apr. 2014.

    ► Gosewinkel Dieter,Historical Reflections on Citizenship in Europe, inThe Making of Citizens in Europe - I. Citizenship and European Citizenship,11/05/2015.

    ►   Grüne Petra,NECE – Networking European Citizenship Education – International exchange to encourage the advancement of civic education,26/04/2017.

    H

    ► Holford Naomi and Venables Tony,Dimensions and Challenges of European Citizenship Today, inThe Making of Citizens in Europe - I. Citizenship and European Citizenship, 11/05/2015.

    I

    Instituto Nacional Electoral – INE,"educación para la ciudadanía", links a documenti propri e di terzi sull’educazione civica proposti nel sito dell’istituto.

    Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa (INDIRE), articolisulla"educazione civica" e su temi collegati presenti nel sito dell’istituto.

    ►  Istituto Regionale Ricerca Educativa dell’Emilia Romagna (IRREER),programmi/direttive scolastiche e articoli di approfondimento sull'insegnamento dell’educazione civica nel sito dell’istituto.

    J

    ► Jackson Ben,Thomas Humphrey Marshall,in «Encyclopaedia Britannica».

    K

    ► Kahn Pierre,Education civique: nouveaux programmes, vieille morale, «Libération», 11 juillet 2018.

    ► Kalina Andreas,Faktensammlung zum Stand der Politischen Bildung in Deutschland,Konrad Adenauer Stiftung, 2014.

    ► Kerr David,Citizenship Education in England: The Making of a New Subject,November 2003;Research on Citizenship Education in Europe: A Survey,inThe Making of Citizens in Europe -V. Quality Assurance and the Implementation of Citizenship Education,11/05/2015;Citizenship Education in the UK,20/10/2015.

    Konrad-Adenauer-Stiftung,"politische bildung", fonti sull’educazione civica nel sito della fondazione tedesca collegata all'Unione Cristiano Democratica (CDU).

    ► Krek Janez,Quality Assurance in (Citizenship) Education,inThe Making of Citizens in Europe -V. Quality Assurance and the Implementation of Citizenship Education,11/05/2015.

     

    EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA IN EUROPA IMMAGINE 3

    L

    Lange Dirk,Citizenship Education in Germany,in The Making of Citizens in Europe-III. Perspectives on Citizenship Education: Country Profiles, 11/05/2015.

    Lange Valerie,Politische Bildung in der Schule – ein Statusbericht, Friedrich Ebert Stiftung,2018.

    Legge 28 marzo 2003, n. 53,Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione professionale.

    Legge 30 ottobre 2008, n. 169,Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1º settembre 2008, n. 137, recante disposizioni urgenti in materia di istruzione e università (Italia).

    ► Legge 20 agosto 2019, n. 92,Introduzione dell'insegnamento scolastico dell'educazione civica.

    Lifelong Learning Platform,"citizenship education",risultati della ricerca sulla piattaforma digitale di apprendimento permanente che riunisce 42 organizzazioni europee attive nel campo dell'istruzione, della formazione e della gioventù.

    Liga Española de la Educación y la Cultura Popular,la ciudadanía a través de la educación,una ONG laica e indipendente che promuove la cittadinanza attraverso un’educazione democratica e solidale.

    Loeffel Laurence, Instruction civique et éducation morale: entre discipline et «métadiscipline»,2003.

    Lohrenscheit Claudia,Citizenship and Human Rights, inThe Making of Citizens in Europe - II. Dimensions of Citizenship Education, 11/05/2015.

    ► López Facal Ramon, Educación para la ciudadanía hoy (disponibile online anche in lingua italiana), 2016.

    M

    Marschall Stefan,The Online Making of Citizens: Wahl-O-Mat,inThe Making of Citizens in Europe -IV. New Approaches to Citizenship Education,11/05/2015.

    Massing Peter,Bundes-und Landeszentralen für politische Bildung,2015.

    Ministère de l'Éducation nationale et de la Jeunesse,"éducation civique",vasta documentazione in materia sul sito ministeriale comprendente: normative, programmi scolastici, politiche e pratiche educative, seminari e conferenze, studi e ricerche.

    Ministerio de Educación y Ciencia,Real Decreto 1513/2006, de 7 de diciembre, por el que se establecen las enseñanzas mínimas de la Educación primaria;Real Decreto 1631/2006, de 29 de diciembre, por el que se establecen las enseñanzas mínimas correspondientes a la Educación Secundaria Obligatoria.

    ► Ministerio de Educación y Formación Profesional,"educación para la ciudadanía",ampia documentazione in materia (leggi, regolamenti, programmi scolastici, riflessioni, studi e ricerche) sul sito del ministero.

    Ministero dell'Istruzione - Ministero dell'Università e della Ricerca,"educazione civica", norme, regolamenti, iniziative sul sito ministeriale.

    Musée Aubois d'Histoire de l'Éducation,L’enseignement de la morale dans les écoles communales à l’époque de Jules Ferry.

    N

    ► NECE (Networking European Citizenship Education), "citizenship education", informazioni e approfondimenti sull’educazione civica in Europa nel sito della rete transnazionale creata e gestita dall’Agenzia federale tedesca per l’educazione civica (Bundeszentrale für Politische Bildung – BpB).

    O

    Olafsdottir Olof, Education for Democratic Citizenship and Human Rights: A Project by the Council of Europe,inThe Making of Citizens in Europe -IV. New Approaches to Citizenship Education,11/05/2015.

    Osler Audrey, Starkey Hugh, Citizenship Education in France and England: contrasting approaches to national identity and diversity,2009.

    P

    ► Papisca Antonio,Il Consiglio d’Europa definisce e aggiorna contenuti e metodi dell’educazione civica,Centro diritti umani - Università di Padova, 2010.

    ► Parasote Martin, Randt Paull,The Role of Éducation Civique in the Creation of French Citoyens, Humanity in Action, January 2009.

    ► Peron Elise,Citizenship Education in France,inThe Making of Citizens in Europe - III. Perspectives on Citizenship Education: Country Profiles,2015.

    R

    Richard Jonathan, L’enseignement moral et civique de 1944 à 2014, Science politique. École pratique des hautes études - EPHE PARIS, 2015.

    ►  Rus Calin, Intercultural and Citizenship Education through the Use of Information Technologies,inThe Making of Citizens in Europe -IV. New Approaches to Citizenship Education,11/05/2015.

    S

    Sale Mirella,Cittadinanza digitale a Scuola, un’ora preziosa: tutte le novità,19/09/2019.

    W

    Wikipedia,edizione in lingua italiana:Consiglio d’Europa,Eurydice;edizione in lingua francese:Lois Jules Ferry, Jean-Pierre Chevènement; edizione in lingua tedesca:Politische Bildung, Bundeszentrale für politische Bildung (BpB),Landeszentralen für politische Bildung; edizione in lingua inglese:Denazification,Beveridge Report,Thomas Humphrey Marshall, Bernard Crick,Andrew Phillips,European Association of History Educators (EUROCLIO); edizione in lingua spagnola:Educación para la Ciudadanía y los Derechos Humanos (EpC),Ley orgánica para la mejora de la calidad educativa (LOMCE).

    Y

      Young Citizens,"citizenship education",materiali vari presenti nel sito dell’omonima fondazione inglese creata da Andrew Phillips con lo scopo di favorire la diffusione dell’educazione civica tra i giovani.

  • L’educazione alla cittadinanza nel Web. Parte prima: l’Italia

    di Antonio Prampolini

    La recente legge 92/2019, che prevede l’introduzione nella scuola italiana dell’insegnamento dell’educazione civica, ha posto il tema all’ordine del giorno del dibattito politico del quale «Historia Ludens»ha già riportato la sintesi (e la critica).

    Bandiera italiana

    In questo contesto si è ritenuto possa essere utile una sitografia sull’educazione alla cittadinanza (storia, normativa, indirizzi pedagogici e orientamenti politici, esperienze didattiche e divulgative) oltre che in Italia, in Francia, Germania, Inghilterra-UK, Spagna e nelle istituzioni/reti europee.

    La sitografia (elaborata con un’ottica comparativa) consiste in schede informative sintetiche con i link alle risorse della rete, l’elenco delle fonti e la segnalazione dei siti web di istituzioni/associazioni/fondazioni/network che affrontano, offrendo notizie e approfondimenti, il tema dell’educazione alla cittadinanza.

    L’introduzione dell’Educazione Civica

    Con l’accordo quasi unanime di tutte le forze politiche, sia di governo che di opposizione, il Parlamento italiano ha approvato nel 2019 la legge denominata Introduzione dell'insegnamento scolastico dell'educazione civica (Legge n. 92 del 20 agosto). L’insegnamento, specifico e trasversale, sarà obbligatorio nel primo e secondo ciclo di istruzione a decorrere dall’anno scolastico 2020/21 e impegnerà insegnanti e studenti per un totale annuo di 33 ore, che non saranno aggiuntive ma ricomprese nel monte orario già esistente. In realtà, la legge 92 non “introduce” ma “re-introduce” un insegnamento all’educazione civica caratterizzato da abbandoni e riprese.

    Da Moro a Gelmini: cinquant’anni di educazione civica

    Nel 1958, Aldo Moro, allora ministro della pubblica istruzione, lo aveva fermamente e convintamente voluto nella scuola secondaria come parte dell’insegnamento della storia, per educare, alla luce dei principi di libertà e democrazia sanciti dalla Costituzione della Repubblica, le nuove generazioni a «crescere come persone responsabili, cittadini attivi e lavoratori competenti». Un'educazione civica, quella caldeggiata da Moro, radicalmente diversa nei contenuti e nelle finalità rispetto a quella, intrisa di retorica patriottica e risorgimentale, che era stata insegnata ai giovani nell’Italia post-unitaria, e, soprattutto, a quella nazionalista, militarista ed anche razzista impartita durante il Ventennio mussoliniano.

    L’educazione alla cittadinanza nella scuola primaria e/o secondaria ha assunto nomi diversi nelle direttive/iniziative/proposte di legge emanate e/o sostenute dai vari ministri delle pubblica istruzione che si sono succediti nel corso della seconda metà del ‘900 fino ai giorni nostri: Educazione morale e civile (Ermini, 1955); Educazione civica (Moro, 1958); Educazione alla convivenza democratica (Falcucci, 1985); Educazione civica e cultura costituzionale (Lombardi, 1996); Educazione alla convivenza civile (Moratti, 2003); Cittadinanza e Costituzione (Gelmini, 2008).

    Il succedersi delle diverse iniziative/proposte di legge non deve però trarre in inganno. L’educazione alla cittadinanza ha rappresentato nella realtà del sistema scolastico italiano una “materia non materia”, che, priva di un’adeguata considerazione e dei necessari supporti organizzativi e didattici, è stata condannata ad una inevitabile marginalità.

    La legge attuale

    La legge 92/2019 stabilisce all’articolo 3 che l’insegnamento dell’educazione civica dovrà affrontare numerose tematiche, tra queste: la Costituzione e le istituzioni dello Stato italiano, dell’Unione europea e degli organismi internazionali; l’Agenda 2030 (ONU) per lo sviluppo sostenibile; la cittadinanza digitale; il diritto del lavoro; la tutela del patrimonio ambientale/culturale e delle produzioni agroalimentari del territorio; il contrasto alle mafie; la protezione civile; il volontariato; il codice della strada.

    L’articolo 4 si sofferma in particolare sulla conoscenza della Costituzione italiana posta a «fondamento dell’educazione civica», mentre l’articolo 5 elenca le finalità dell’educazione alla cittadinanza digitale, che comprendono: la critica delle fonti in Internet; l’accesso ai servizi telematici pubblici e privati; l’osservanza delle norme comportamentali e di riservatezza negli ambienti digitali (nei social network in particolare), la lotta a tutte le forme di cyberbullismo.

    Argomenti e obiettivi indubbiamente importanti e degni di considerazione, ma la loro eccessiva ampiezza e ambizione, oltre alla loro oggettiva complessità (soprattutto se rapportati al limitato numero di ore assegnato alla nuova materia, alle poche risorse destinate alla formazione dei docenti, all’assenza di una retribuzione specifica per l’impegnativa attività dei coordinatori) fanno presagire fin da ora che difficilmente la scuola italiana sarà in grado di affrontarli nel quadro di una concreta ed efficace educazione alla cittadinanza.

    Se certamente la scuola è un’istituzione che deve giocare un ruolo fondamentale nell’educazione civica, non può però essere gravata di un compito superiore alle sue forze. In questo rivolgersi alla scuola come fosse un “ospedale” a cui affidare la cura di tutti i mali che affliggono la nostra contemporaneità si riflette l’incapacità della politica (non solo in Italia) di trovare risposte adeguate alla crisi valoriale e comportamentale delle nuove generazioni; risposte che non possono essere confinate al mondo della scuola ma che devono coinvolgere e impegnare l’intera società.

    Fonti

    LEGGI E DIRETTIVE MINISTERIALI

    Decreto Presidente della Repubblica 14 giugno 1955, n. 503, Programmi didattici per la scuola primaria.

    Decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno 1958 n. 585, Programmi per l’insegnamento dell’educazione civica negli istituti e scuole di istruzione secondaria e artistica.

    Decreto del Presidente della Repubblica 12 febbraio 1985, Approvazione dei nuovi programmi didattici per la scuola primaria.

    Legge 28 marzo 2003, n. 53, Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione professionale.

    Legge 30 ottobre 2008, n. 169, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1º settembre 2008, n. 137, recante disposizioni urgenti in materia di istruzione e università.

    Legge 20 agosto 2019, n. 92, Introduzione dell'insegnamento scolastico dell'educazione civica.

    ARTICOLI

    Adernò G. (2019), Educazione civica, storia della “Cenerentola” della scuola, in «Tecnica della Scuola», 13 maggio 2019.

    Brusa A. (2019), Del pasticcio dell’Educazione civica e dei suoi legami ambigui con la storia, in «Historia Ludens», 17 giugno 2019.

    Cameron-Curry L., Pozzi M., Troia S. (2014), Dalla competenza digitale alla cittadinanza digitale: esperienze di apprendimento.

    Chiosso G., Educazione e cittadinanza. Il punto di vista pedagogico.

    Corradini L. (2019), Educazione civica e Costituzione. Il legame necessario, in «Scuola e Formazione», n. 5/8, maggio-agosto 2019.

    Di Cesare R. (a cura di) (2019), Dossier del Sevizio Studi del Senato in materia di insegnamento scolastico dell'educazione civica.

    Sale M. (2019), Cittadinanza digitale a Scuola, un’ora preziosa: tutte le novità.

    SITI WEB

    Sito del Ministero dell'Istruzione e del Ministero dell'Università e della Ricerca. Il sito offre informazioni varie (norme, regolamenti, iniziative) riguardanti l'educazione civica.

    Sito dell'Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa (INDIRE), ente di ricerca del Ministero dell’Istruzione. Il sito contiene alcuni articoli sull'educazione alla cittadinanza e su temi collegati.

    Sito dell’Istituto Regionale Ricerca Educativa dell’Emilia Romagna (IRREER) dedicato alla didattica della storia e delle scienze sociali. Il sito permette di accedere a programmi/direttive scolastiche e ad articoli di approfondimento sull'insegnamento dell'educazione civica.

    Sito della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. La ricerca all'interno del sito con le parole "educazione civica" segnala alcuni articoli e iniziative sul tema.

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  • L’educazione alla cittadinanza nel Web. Parte quarta: l’Inghilterra (UK)

    di Antonio Prampolini

    Citizenship Education

    Nonostante sia la patria della democrazia parlamentare e, nell’immediato secondo dopoguerra, abbia sperimentato il Welfare State (Piano Beveridge) e abbia dato con Thomas H. Marshall un contributo fondamentale alla definizione storico-sociologica del concetto di cittadinanza, l’Inghilterra, a differenza di altri paesi europei come Francia e Germania, ha affrontato con forte ritardo il tema dell’educazione alla cittadinanza.

    Solo a partire dal 2002, la citizenship education è stata introdotta come materia specifica nel curricolo delle scuole pubbliche per gli studenti di età compresa tra gli 11 e i 16 anni su indicazione della Citizenship Advisory Group (CAG), una commissione consultiva presieduta da Bernard Crick(nota anche come Crick Group) che si era fatta promotrice nel 1998 di un’intensa ed efficace politica di alfabetizzazione civica dei giovani nelle scuole e degli adulti nella società per ovviare alla scarsa partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e al diffuso assenteismo elettorale che caratterizzavano l’Inghilterra, come gli altri paesi europei, alla fine del XX Secolo.

    I tre pilastri della Citizenship education

    Il Crick Group aveva concordato sul fatto che una buona educazione alla cittadinanza richiede la compresenza di tre elementi distinti ma strettamente correlati. Primo elemento: responsabilità morale e sociale (i giovani devono imparare ad avere fiducia in se stessi e ad assumere, sia in classe che al di fuori della scuola, comportamenti moralmente e socialmente responsabili verso gli altri e le autorità). Secondo elemento: coinvolgimento delle comunità (l’educazione civica non può basarsi solo sulla trasmissione di contenuti culturali ma deve includere anche la prestazione di servizi alle comunità di appartenenza come pure la partecipazione di queste alle attività formative dei giovani). Terzo elemento: alfabetizzazione politica (vale a dire impegnarsi nella formazione di cittadini pienamente consapevoli dei loro diritti e in grado di prendere parte alla “vita pubblica”, nel significato più ampio del termine, per affrontare questioni non solo a livello locale e nazionale, ma anche globale).

    L’integrazione e il terrorismo

    Nel corso degli anni 2000 il contesto e i contenuti della citizenship education sono cambiati. Come conseguenza dell’emergere delle tensioni razziali nel Nord dell'Inghilterra nel 2001 e dell’attentato a Londra nel 2005 da parte dei terroristi islamici "allevati in casa", l’integrazione e la lotta al terrorismo sono diventati progressivamente gli obiettivi principali dell’educazione alla cittadinanza nelle scuole e nella società. I governi conservatori dal 2010 hanno poi ulteriormente enfatizzato il ruolo dell’educazione civica quale barriera contro l’estremismo (in particolare di matrice islamica) a spese dello sviluppo delle competenze e degli impegni di cittadinanza attiva.

    Nel 2010, un’indagine sull’insegnamento dell’educazione alla cittadinanza nelle scuole inglesi (Citizenship Education Longitudinal Study – CELS), ha evidenziato che, per essere efficace e duraturo nel tempo, necessità di continuità nei curricula degli studenti come pure di docenti preparati e di materiali didattici di qualità. Condizioni, queste, che però in Inghilterra sono state rispettate solo eccezionalmente. E questo si è verificato, soprattutto, a causa del cambiamento delle priorità assegnate all’educazione civica da parte delle forze politiche (laburisti e conservatori) che si sono succedute al governo dal 2002 ad oggi. Cambiamento che ha impedito alla citizenship education di radicarsi saldamente nella scuola e nella società inglesi.

    Fonti

    Articoli on line

    Advisory Group on Citizenship (1998), Final report: Education for citizenship and the teaching of democracy in schools.

    Citizenship Education Longitudinal Study – CELS (2010), Citizenship education in England 2001-2010: young people’s practices and prospects for the future.

    Jackson B. (2019), T.H. Marshall, in «Encyclopaedia Britannica».

    Kerr D. (2003), Citizenship Education in England: The Making of a New Subject.

    Kerr D. (2015), Citizenship Education in the UK.

    Osler A., Starkey H. (2009), Citizenship Education in France and England: contrasting approaches to national identity and diversity.

    Prampolini A. (2019), Il concetto di cittadinanza dal Fascismo a oggi. Le edizioni dell’Enciclopedia Treccani come fonte storica, in «Historia Ludens», 01/12/2019.

    Wikipedia, Beveridge Report.

    Wikipedia, Bernard Crick.

    Wikipedia, Andrew Phillips.

    Siti web

    ► Sito del Department for Education dove è possibile accedere ai reports sulla citizenship education nel sistema scolastico inglese.

    ► Sito della Association for Citizenship Teaching (ACT) fondata nel 2001 da Bernard Crick. Il motore di ricerca interno permette di accedere alle risorse offerte dall’ACT in materia di insegnamento/apprendimento della citizenship education.

    ► Sito della Democratic Life, un'organizzazione che ha come compito istituzionale il rafforzamento e l'estensione del diritto dei giovani alla citizenship education in Inghilterra.

    ► Sito della Young Citizens, una fondazione creata da Andrew Phillips con lo scopo di favorire la diffusione tra i giovani della citizenship education.

  • L’educazione alla cittadinanza nel Web. Parte quinta: la Spagna

    di Antonio Prampolini

    Educación para la Ciudadanía

    Nella Spagna degli anni 2000 l’educazione alla cittadinanza è stata affrontata in un clima di accesa conflittualità politica e ideologica caratterizzato dall’aspra lotta tra i due principali partiti che si sono alternati alla guida del paese (il partito socialista PSOE e il partito popolare PP) e dalla pregiudiziale opposizione della Chiesa cattolica nei confronti del processo di laicizzazione della società e, in particolare, della scuola.

    Dopo il lungo periodo della dittatura di Franco (1939–1975), la Spagna era ritornata tardivamente e faticosamente alla democrazia lasciandosi alle spalle i programmi di educazione alla cittadinanza basati sulla promozione del patriottismo, sull’apprendimento dei valori del cattolicesimo tradizionale e sull’imposizione dell’ideologia politica del regime.

    Nel 2006, il governo socialista di Rodríguez Zapatero (accogliendo le raccomandazioni espresse nel 2002 dal Consiglio d’Europa) ha introdotto sia nella scuola primaria che secondaria la Educación para la Ciudadanía y los Derechos Humanos (Educazione alla Cittadinanza e ai Diritti Umani).

    L’obiettivo del nuovo insegnamento era così esplicitato dalla legge che lo istituiva nella scuola secondaria: «L'educazione alla cittadinanza mira a favorire lo sviluppo di persone libere, attraverso il rafforzamento dell’autostima e del senso di responsabilità, per formare cittadini dotati di propri criteri di giudizio, rispettosi, partecipativi e solidali, desiderosi di conoscere i propri diritti e di assumere i propri doveri in modo da poter esercitare la cittadinanza in modo efficace e responsabile».

    Il contenuto della nuova materia di insegnamento era articolato in diversi moduli didattici: Scuola primaria: modulo 1 - Individui e relazioni interpersonali e sociali, modulo 2 - La vita in comunità, modulo 3 - Vivere in società; Scuola secondaria: modulo 1 - Approccio rispettoso della diversità, modulo 2 - Relazioni interpersonali e partecipazione, modulo 3 - Doveri e diritti dei cittadini, modulo 4 - Le società democratiche del XXI secolo, modulo 5 - Cittadinanza in un mondo globale.

    Educazione alla cittadinanza e conflitto con la Chiesa

    El Roto, noto disegnatore satirico spagnolo,
    sull’avversione della Chiesa nei riguardi dell’Educazione alla cittadinanza

    La Educación para la Ciudadanía y los Derechos Humanos ha da subito creato forti polemiche tra le forze politiche, tra il governo socialista e la Chiesa cattolica con le sue numerose organizzazioni. Per le opposizioni, l’introduzione della nuova materia d’insegnamento rappresentava un progetto di indottrinamento che espropriava le famiglie e la Chiesa del loro ruolo educativo. Con l’obbiettivo di bloccare tale progetto, è nata in Spagna una vera e propria “battaglia giudiziaria” di fronte ai Tribunales Superiores de Justicia, alla Corte Constitucional ed anche alla Corte Europea dei Diritti Umani.

    Nel gennaio del 2012, José Ignacio Wert, ministro della pubblica istruzione del governo guidato da Mariano Rajoy, annuncia il progetto di una nuova educazione alla cittadinanza, in sostituzione della precedente voluta dai socialisti, denominata Educación Cívica Constitucional, «libera da questioni controverse e da indottrinamenti ideologici». Il progetto non verrà però realizzato (la riforma dell’istruzione del novembre 2013, nota come LOMCE, non lo prevede).

    La storia recente dell’educazione alla cittadinanza in Spagna evidenzia come il conflitto radicale tra i partiti, le incertezze nella politica scolastica dei governi, l’opposizione di fondo della Chiesa cattolica, sommati all’inadeguata formazione pedagogica dei docenti, hanno rappresentato il principale ostacolo all’introduzione e allo sviluppo nelle scuole di un corretto ed efficace insegnamento di questa materia.

    Fonti

    Articoli e documenti on line

    Anbar M. (2015), Citizenship Education in Spain.

    Council Of Europe (2002), Recomendación (2002)12 del Comité de Ministros a los Estados miembros relativa a la educación para la ciudadanía democrática.

    Crespo Garay C. (2018), España suspende en Europa en educación cívica.

    González Pérez T. (2014), La educación cívica en españa: retrospectiva y perspectiva.

    López Facal R. (2016), L'educazione alla cittadinanza oggi.

    López Facal R. (a cura di) (2010), Ciudadania, numero speciale di «Iber», Aprile 2010.

    Wikipedia, Educación para la Ciudadanía y los Derechos Humanos (EpC), 23/01/2020.

    Wikipedia, Ley orgánica para la mejora de la calidad educativa (LOMCE), 23/01/2020.

    Leggi

    Ministerio de Educacióny Ciencia, Real Decreto 1513/2006, de 7 de diciembre, por el que se establecen las enseñanzas mínimas de la Educación primaria.

    Ministerio de Educacióny Ciencia, Real Decreto 1631/2006, de 29 de diciembre, por el que se establecen las enseñanzas mínimas correspondientes a la Educación Secundaria Obligatoria.

    Siti web

    ► Sito del Ministerio de Educación y Formación Profesional. Digitando educación para la ciudadanía nel campo di testo del motore di ricerca interno del sito è possibile accedere ad un'ampia documentazione in materia (leggi, regolamenti, programmi scolastici, riflessioni, studi e ricerche).

    ► Sito del Instituto Nacional Electoral – INE. Il sito propone una selezione di link a documenti propri e di terzi sulla educación para la ciudadanía.

    ► Sito della Liga Española de la Educación y la Cultura Popular, una ONG laica e indipendente che promuove la cittadinanza attraverso una educazione democratica e solidale.

    Fonti immagini

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  • L’educazione alla cittadinanza nel Web. Parte seconda: la Francia

    di Antonio Prampolini

    La Marianne, simbolo della repubblica francese, nelle sue varie versionLa Marianne, simbolo della repubblica francese, nelle sue varie versioni

    Educazione civica, educazione repubblicana

    In Francia, l'educazione alla cittadinanza (che è idealmente e storicamente legata alla Rivoluzione del 1789, vale a dire a un progetto di trasformazione democratica ed egualitaria della società), è una costante di “lungo periodo” del sistema educativo nazionale. Una costante che però ha risentito nel passato, e risente nel presente, del mutare delle congiunture politiche e sociali.

    Il carattere specifico del modello di “cittadinanza repubblicana”, basato sulla netta distinzione tra la sfera privata (quella delle appartenenze familiari, sociali, culturali e religiose) e la sfera pubblica (il mondo della politica in tutte le sue forme) ha conferito una particolare importanza alla éducation civique e al ruolo centrale della scuola nella formazione dei cittadini francesi. Alla scuola è stata affidata la missione di definire cosa significa essere cittadini della Repubblica e di garantire che vi sia una comprensione comune dei relativi diritti e doveri.

    Jules Ferry e l’istruzione morale e civica

    L’introduzione nella scuola francese dell’educazione civica come specifica materia d’insegnamento risale al tempo della Terza Repubblica (1870-1940), quando Jules Ferry con la legge 28 marzo 1882, trasformò la scuola elementare in secolare e obbligatoria per i giovani dai 6 ai 13 anni, e inserì la «instruction morale et civique» tra le priorità nazionali insieme alla lotta all’analfabetismo. Una materia, questa, che oscillava tra la morale individuale, l’apprendimento delle regole della vita collettiva e la preparazione dei futuri cittadini della Repubblica, e che, ponendosi come alternativa laica all’educazione morale impartita dalla Chiesa cattolica, aveva alimentato aspri conflitti con le autorità ecclesiastiche e i loro sostenitori.

    Un patriottismo con una forte connotazione bellica antitedesca ha, in particolare, caratterizzato l’educazione alla cittadinanza nei primi decenni della Terza Repubblica; la perdita dell'Alsazia-Lorena in seguito alla guerra franco-prussiana del 1870-71 era una ferita aperta nell’orgoglio nazionale dei francesi. Una connotazione che si attenuerà solo dopo il ritorno dell’Alsazia-Lorena alla Francia nel 1919 e il tragico bilancio in termini di costi umani ed economici del primo conflitto mondiale.

    La crisi del secondo dopoguerra

    Terminata la seconda guerra mondiale, in una Francia traumatizzata dalla sconfitta militare, dall'occupazione tedesca e dalla collaborazione del governo di Vichy con il regime nazista, emerge l’esigenza di un rinnovato impegno della scuola per la éducation civique. Tra il 1945 e il 1948 viene estesa come materia d’insegnamento alle scuole superiori.

    Negli anni Sessanta la éducation civique cade in disuso, tanto che nel 1969 ne viene soppresso l’insegnamento nelle scuole elementari. La prosperità economica e la crescita dei consumi sono i nuovi fattori d’integrazione della società francese, che sembra non avere più bisogno di questa materia.

    Alla metà degli anni Ottanta cambia il contesto; la crisi dell’economia e della società francesi impongono il ritorno a questa disciplina. La disoccupazione, l’immigrazione extraeuropea, l’impoverimento delle periferie urbane con lo sviluppo di fenomeni come la delinquenza, la tossicodipendenza, il razzismo, l’aumento della violenza all’interno delle scuole fanno sì che l’educazione alla cittadinanza venga vista come un rimedio per la crisi della società e della stessa scuola. Un’educazione il cui obiettivo non è più quello di creare e rafforzare un sentimento di appartenenza nazionale, ma, più prosaicamente, di indirizzare i giovani (che sempre più frequentemente appartengono a razze, culture e religioni diverse) verso comportamenti di socializzazione che consentano una vita in comune.

    Con l’inizio del nuovo secolo il quadro generale non migliora, anzi, la crisi economica mondiale (2007-2013) e il ripetersi di eventi terroristici di matrice islamica (2012 – 2018) hanno aggravato ulteriormente la situazione e prodotto un diffuso malessere e una generale insicurezza.

    Charlie Hebdo e la ripresa dell’educazione civica

    Subito dopo gli attacchi terroristici del 7 gennaio 2015 (attentato alla sede di Charlie Hebdo), il nuovo ministro dell’educazione nazionale, Najat Vallaud-Belkacem, ha annunciato una «grande mobilitazione della scuola per il rafforzamento della trasmissione dei valori della Repubblica». Dall'anno scolastico 2015-2016, gli studenti delle scuole primarie e secondarie in Francia hanno nel loro curricolo una nuova materia: enseignement moral et civique (EMC). Se i programmi sono molto simili ai precedenti, la novità è che ora l’EMC beneficia di ore specifiche dedicate esclusivamente a questo insegnamento: un'ora alla settimana nella scuola elementare e un'ora ogni quindici giorni nella scuola secondaria.

    I cambiamenti nell'educazione alla cittadinanza in Francia hanno sempre coinciso con situazioni di crisi. Non è diverso oggi. La società francese, alle prese con i problemi della globalizzazione, del multiculturalismo, del terrorismo, si interroga sulla validità del proprio modello di cittadinanza. Di conseguenza, anche l’éducation civique sta attraversando una crisi testimoniata dagli accesi dibattiti e dalle forti controversie di cui è oggetto.

    Fonti

    ARTICOLI E LIBRI

    Galichet F. (2005), L’éducation à la citoyenneté dans les programmes d’enseignement français nécessairement laïcs et leur mise en œuvre.

    Kahn P. (2015), L'enseignement moral et civique a pour ambition la construction d'une culture morale et civique fondée sur l'articulation des trois éléments constitutifs de toute culture: des valeurs, des savoirs et des pratiques.

    Kahn P. (2018), Education civique: nouveaux programmes, vieille morale, Libération, 11 juillet 2018.

    Loeffel L. (2009), Instruction civique et éducation morale: entre discipline et «métadiscipline».

    Musée Aubois d'Histoire de l'Éducation, L’enseignement de la morale dans les écoles communales à l’époque de Jules Ferry.

    Osler A. & Starkey H. (2009), Citizenship Education in France and England: contrasting approaches to national identity and diversity.

    Parasote M. (2009), The Role of Éducation Civique in the Creation of French Citoyens.

    Peron E. (2015), Citizenship Education in France, in The Making of Citizens in Europe - III. Perspectives on Citizenship Education: Country Profiles.

    Richard J. (2015), L’enseignement moral et civique de 1944 à 2014, Science politique. École pratique des hautes études - EPHE PARIS.

    Wikipedia, Jules Ferry.

    Wikipedia, Les lois Jules Ferry.

    SITI WEB

    ► Sito del Ministère de l'Éducation nationale et de la Jeunesse che permette di effettuare due tipi di ricerche sulla éducation civique: una circoscritta ai propri contenuti e un’altraestesa a quelli di tutti i siti di enti/istituti pubblici francesi. La vasta documentazione in materia comprende: normative, programmi scolastici, politiche e pratiche educative, seminari e conferenze, studi e ricerche.

    ► Sito pedagogico del Ministère de l'Éducation nationale et de la Jeunesse. Digitando education civique nel campo di testo del motore di ricerca interno vengono elencate le numerose risorse che il sito offre sull’argomento.

    ► Sito della Association des Professeurs d’Histoire et de Géographie. Dal sito è possibile accedere a diversi articoli riguardanti i rapporti tra le loro materie d’insegnamento e la education civique.

    ► Sito della Fondation Res Publica; una fondazione francese, riconosciuta di pubblica utilità, creata nel 2005 e presieduta da Jean-Pierre Chevènement con l’obiettivo di analizzare le principali sfide della società contemporanea sia nel contesto nazionale che in quello del mondo globalizzato. La Fondation ha pubblicato testi di riflessione su argomenti specifici che comprendono anche la education civique.

     

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  • L’educazione alla cittadinanza nel Web. Parte sesta: l’Europa

    L’educazione alla cittadinanza nell’attività delle organizzazioni e delle reti europee

    di Antonio Prampolini

     

    Il CONSIGLIO D’EUROPA

    Il Consiglio d’Europa (Council of Europe / Conseil de l'Europe), dalla sua creazione (1949) a oggi, ha sempre riconosciuto all’istruzione/educazione un ruolo centrale nella promozione della democrazia e dei diritti umani. Numerose sono perciò le “raccomandazioni” rivolte in tale ambito agli stati membri dell’organizzazione; raccomandazioni che, pur non essendo giuridicamente vincolanti, sono però da apprezzarsi per il loro contributo all’introduzione di buone pratiche didattiche/divulgative e all’innalzamento degli standard educativi nel Vecchio Continente.

    Tra queste, fondamentale è la Carta per l'educazione alla cittadinanza democratica e l'educazione ai diritti umani (Charter on Education for Democratic Citizenship and Human Rights Education). Approvata nel 2010 dal Comitato dei Ministri (Committee of Ministers) degli stati membri, la Carta contiene raccomandazioni in materia di educazione alla cittadinanza che riguardano tutti i livelli dell’istruzione scolastica (dalle scuole di infanzia all’università) e tutti i tipi di educazione (formale, non formale, generale, professionale), ed è articolata in più sezioni: Disposizioni generali, Finalità e principi, Politiche educative, Valutazione e cooperazione.

    La Carta definisce la «educazione alla cittadinanza democratica» come l’attività formativa che si propone di offrire ai giovani (ma anche agli adulti) le conoscenze e le abilità necessarie ad esercitare e difendere i loro diritti e a svolgere un ruolo responsabile nella società. Un’attività che, come sottolinea la Carta, richiede un «processo di insegnamento/apprendimento permanente» che deve coinvolgere non solo la scuola (dove un’efficace educazione alla cittadinanza deve basarsi su di una adeguata formazione dei docenti) ma anche le famiglie, le istituzioni pubbliche, i governi e le organizzazioni non governative, i media e il pubblico in generale, con l’obiettivo di promuovere la coesione sociale, l’uguaglianza di genere e il dialogo interculturale.

    Il Consiglio d’Europa e la Commissione Europea

    Da segnalare, tra le iniziative recenti del Consiglio d’Europa in partnership con la Commissione Europea (EU), il Forum on European Education for Democratic Citizenship (Edu4Europe) che riunisce i professionisti dei settori dell'istruzione e del mondo giovanile, ricercatori, responsabili politici, organizzazioni della società civile e altre entità coinvolte nell'educazione alla cittadinanza democratica europea (il primo incontro tra i partecipanti al forum si è svolto a Strasburgo nel novembre del 2019).

    Alla base dell’iniziativa c’è la consapevolezza della particolare congiuntura politica e sociale che sta attraversando oggi l’Europa. La crescente diffusione di fenomeni di estremismo nazionalista e di razzismo combinata con la crisi economia che ha colpito in particolare i ceti medio-bassi, il divario sempre maggiore tra i gruppi privilegiati e quelli socialmente esclusi, i problemi generati dai flussi migratori di massa, gli eventi terroristici di matrice islamica, nonché l’emergere di una vera e propria ostilità verso l’Europa e le sue organizzazioni comunitarie impongono un impegno straordinario da parte di tutti coloro che si occupano nel Vecchio Continente di processi educativi.

    Un impegno che deve avere come faro una concezione aperta e multiculturale della cittadinanza europea, intesa come «un'idea dinamica e complessa profondamente connessa con gli ideali di democrazia, partecipazione e diritti umani /e che/ mira creare uno spazio in cui le questioni civiche, politiche e sociali possano essere affrontate in una visione che supera i confini degli stati e i limiti delle culture nazionali».

    EURYDICE (Unione Europea)

    Eurydice, la rete d’informazione della Commissione Europea (istituita nel 1980 per approfondire la conoscenza dei sistemi e delle politiche nel settore educativo degli stati dell’Unione) ha pubblicato nel novembre del 2017 un importante rapporto, Citizenship Education at School in Europe (L’educazione alla cittadinanza a scuola in Europa), che offre un’ampia panoramica di come l’insegnamento dell’educazione civica viene affrontato nelle scuole pubbliche dei 28 stati membri dell’UE, oltre che in Bosnia ed Erzegovina, ex-Repubblica jugoslava di Macedonia, Islanda, Liechtenstein, Montenegro, Norvegia, Serbia, Svizzera e Turchia.

    Il rapporto è suddiviso in quattro capitoli/temi (organizzazione del curricolo e contenuti; insegnamento, apprendimento e partecipazione attiva; valutazione degli studenti e valutazione della scuola; formazione degli insegnanti) che includono studi di caso sulle iniziative nel settore dell’educazione civica in Austria, Belgio (Comunità fiamminga), Estonia, Francia. Il rapporto è inoltre completato da allegati (Annexes: National Information and Websites) che trattano diversi argomenti, che vanno dalle strategie/approcci all’educazione alla cittadinanza nei curricoli nazionali alle attività di formazione e supporto agli insegnanti.

    I risultati dell’indagine Eurydice sono stati riassunti in un utile documento di sintesi: Eurydice Brief Citizenship Education at School in Europe 2017 (Eurydice in breve L'educazione alla cittadinanza a scuola in Europa 2017.

    La NECE

    NECE- Networking European Citizenship Education è una rete transnazionale creata e gestita dall’Agenzia federale tedesca per l’educazione civica (Bundeszentrale für Politische Bildung – BpB) che si propone come piattaforma/forum di dialogo tra tutti coloro che a vario titolo si occupano di educazione alla cittadinanza in Europa (e non solo) per favorire la loro interazione e promuovere l’adozione di adeguate politiche a livello nazionale e internazionale.

    Dal 2007, NECE (che si propone quale «laboratorio transdisciplinare e transnazionale») è impegnata nell’organizzare incontri, conferenze, gruppi di studio avvalendosi anche della collaborazione di altre reti europee che operano nello stesso settore o che sono interessate ai temi dell’educazione civica come DARE (Democracy and Human Rights Education in Europe), EAEA (European Association for the Education of Adults), European Alternatives, EUROCLIO.

    NECE pubblica sul proprio sito una Newsletter periodica dove fornisce informazioni e approfondimenti sulle proprie attività ed anche su progetti europei, eventi, dibattiti e pubblicazioni in materia di educazione alla cittadinanza. La rete NECE opera facendo propria la consapevolezza che i concetti di cittadinanza europea, globale o cosmopolita devono essere riflessi più fortemente e utilizzati più frequentemente nelle pratiche educative dei singoli stati del Vecchio Continente.

    Fonti

    Articoli e documenti online

    Cimò E. (2017), Educazione alla cittadinanza: una disciplina per formare cittadini consapevoli di una Europa multiculturale, 14/11/2017.

    Cimò E. (2019), L’educazione alla cittadinanza in Europa nel nuovo quaderno di Eurydice Italia.

    Consiglio d’Europa (2010), Carta del Consiglio d’Europa sull’Educazione per la Cittadinanza Democratica e l’Educazione ai Diritti Umani.

    Consiglio d’Europa, Approcci contemporanei all’educazione alla cittadinanza europea.

    Council of Europe (2010), Recommendation of the Committee of Ministers to member stateson the Council of Europe Charter on Education for Democratic Citizenship and Human Rights Education.

    Council of Europe (2019), Edu4Europe: Education for European democratic citizenship forum - 1ST EDITION: “FUTURE VISIONS OF EUROPE”.

    Eurydice, About us.

    Eurydice (2017), Citizenship Education at School in Europe 2017.

    Eurydice (2017), Citizenship Education at School in Europe 2017 - Annexes: National Information and Websites.

    Eurydice (2018), Eurydice Brief Citizenship Education at School in Europe 2017.

    Eurydice Italia (2018), L’educazione alla cittadinanza a scuola in Europa 2017.

    Eurydice Italia (2018), Eurydice in breve. L'educazione alla cittadinanza a scuola in Europa 2017.

    Grüne P. (2017), NECE – Networking European Citizenship Education – International exchange to encourage the advancement of civic education.

    NECE, Who we are.

    Papisca A. (2010), Il Consiglio d’Europa definisce e aggiorna contenuti e metodi dell’educazione civica, Centro diritti umani - Università di Padova.

    Wikipedia, Consiglio d’Europa.

    Wikipedia, Eurydice.

    Siti web

    ► Sito multilingue del Consiglio d’Europa. La ricerca con le parole: “citizenship education”, “education civique”, segnala le numerose risorse offerte dal sito sull’argomento.

    ► Sezione in lingua inglese del sito EACEA - Education, Audiovisual and Culture Executive Agency (European Commission) dedicata a Eurydice, la rete d’informazione della Commissione Europea per la conoscenza dei sistemi e delle politiche nel settore educativo degli stati dell’Unione. Ricerche con “citizenship education”, “education civique”, “educazione civica”.

    ►Sito multilingue dell’Unione Europea. Il motore di ricerca interno consente di individuare testi/documenti/iniziative sulla citizenship education

    ► Sezione in lingua inglese del sito della Bundeszentrale für Politische Bildung – BpB riservata a NECE (rete transnazionale creata e gestita dalla stessa BpB che si dedica allo studio dell’educazione civica europea e globale). La sezione permette di accedere a numerose risorse informative e di approfondimento sulla "citizenship education".

    ► Sito in lingua inglese della European Association for the Education of Adults – EAEA. Ricerca con “citizenship education”.

    ► Sito in lingua inglese della European Association of History Educators (EUROCLIO). Ricerca con “citizenship education”.

    ► Sito multilingue della EPALE – Electronic Platform for Adult Learning in Europe (European Commission). Ricerca con “citizenship education”.

    ► Sito in lingua inglese di Lifelong Learning Platform, piattaforma di apprendimento permanente che riunisce 42 organizzazioni europee attive nel campo dell'istruzione, della formazione e della gioventù. Ricerca con “citizenship education".

  • L’educazione alla cittadinanza nel Web. Parte terza: la Germania

    di Antonio Prampolini

    Politische Bildung

    La storia dell'educazione alla cittadinanza nella Germania (Repubblica Federale) della seconda metà del Novecento è strettamente legata al processo di costruzione e sviluppo di un sistema democratico politicamente stabile e socialmente evoluto.

    Il fallimento dell'esperimento democratico della Repubblica di Weimar e la facilità con cui Hitler aveva conquistato il potere in Germania nel 1933 erano, in parte, da imputarsi ai sistemi educativi fortemente autoritari e pertanto incapaci di trasmettere i valori della democrazia. Da ciò la necessità, a partire già dagli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale e al crollo del regime nazista, nella Germania occupata delle potenze vincitrici (1945-1949), di dare corso ad un vasto programma di “rieducazione–denazificazione” del popolo tedesco.

    Dopo la caduta del Muro di Berlino (novembre 1989) e la riunificazione del paese (ottobre 1990), nelle regioni della Germania dell’Est (ex DDR) l’educazione alla cittadinanza (Politische Bildung, cioè “formazione politica”) è ritornata ad imporsi come necessario antidoto al pesante indottrinamento ideologico a cui erano stati sottoposti i tedeschi di quei territori sotto il regime comunista.

    I tre principi della Politische Bildung

    Nonostante la circolazione di idee contrastanti sul concetto e sulla pratica dell’educazione alla cittadinanza, esiste in Germania un accordo diffuso su alcuni principi di base noti come Consenso di Beutelsbach dal nome della località dove nel 1976 si era svolta una conferenza degli insegnanti delle scuole della Germania Occidentale. La conferenza aveva prodotto un documento unitario in cui venivano definite le linee guida da seguire nell’insegnamento-apprendimento dell’educazione alla cittadinanza; educazione che avrebbe dovuto essere «oggettiva e critica, libera da ogni forma di indottrinamento».

    Le linee guida erano state riassunte in tre principi/postulati. Il primo (das Überwältigungsverbot): agli insegnanti è vietato imporre le loro opinioni agli studenti; il secondo (das Kontroversitätsgebot): gli argomenti devono essere affrontati attraverso il confronto delle idee contrapposte; il terzo: lo scopo principale dell’educazione alla cittadinanza è quello di fornire ad ogni studente gli strumenti conoscitivi per poter valutare criticamente situazioni/problemi e scegliere liberamente la propria posizione in merito, sviluppando così un’autonoma e personale visione politica del mondo.

    Politische Bildung e democrazia: il Manifesto di Monaco

    Alle soglie del nuovo secolo, l’Agenzia Federale per l'Educazione Civica (Bundeszentrale für politische Bildung - BpB), e le Agenzie Statali dei singoli länder (Landeszentrale für politische Bildung - LpB), hanno redatto un documento, noto come Manifesto di Monaco (Münchner Manifest) del 26 maggio 1997, dal titolo significativo La democrazia ha bisogno dell'educazione civica (Demokratie braucht politische Bildung). In tale documento venivano indicati i contenuti, le modalità e gli obiettivi della loro azione, finalizzata a rafforzare la consapevolezza democratica dei cittadini e a promuovere la loro partecipazione attiva alla vita politica.

    Il Manifesto prendeva atto del un nuovo e difficile contesto economico, sociale, culturale in cui le Agenzie si trovavano (e si trovano oggi) ad operare; contesto caratterizzato, in particolare, dai processi di globalizzazione della produzione/offerta di beni e servizi, dalla rivoluzione digitale e dai suoi effetti sull’occupazione, dai flussi migratori di popolazioni extraeuropee e dai problemi connessi con la loro integrazione nella società tedesca, dall’inquinamento ambientale.

    Le agenzie della Politische Bildung

    In Germania sono numerose le istituzioni/associazioni/fondazioni che si occupano a vario titolo dell’educazione alla cittadinanza. Nelle scuole, a tutti i livelli di istruzione, l’educazione alla cittadinanza è strutturata come insegnamento specifico, a cui, nelle maggior parte dei casi, non viene dedicata più di una ora alla settimana. I contenuti, le modalità didattiche, le appartenenze disciplinari dei docenti possono differire nei 16 länder che compongono lo stato federale. A ciascun länder infatti compete la gestione della politica scolastica nel proprio territorio.

    Tra le istituzioni pubbliche non scolastiche, particolarmente importante, ampia e articolata è l’attività svolta dall’Agenzia federale per l’educazione civica (Bundeszentrale für politische Bildung – BpB). L’Agenzia, che fa parte del Ministero Federale degli Interni, è stata fondata nel novembre del 1952 e offre da decenni un utile supporto a tutti coloro che operano nel settore dell’educazione alla cittadinanza, pubblicando testi/documenti/materiali didattici su argomenti generali (come storia, democrazia, società, economia, cultura, media e istruzione) e su temi specifici attinenti la vita politica tedesca ed europea, organizzando corsi di formazione e seminari/conferenze per insegnanti e ricercatori, viaggi della memoria per studenti e cittadini, promuovendo reti professionali (tra queste, in particolare, Networking European Citizenship Education – NECE), affrontando le problematiche connesse all’uso dei social media.

    FONTI

    ARTICOLI ONLINE

    Detjen J., Politische Bildung, Konrad Adenauer Stiftung.

    Kalina A. (2014), Faktensammlung zum Stand der Politischen Bildung in Deutschland, Konrad Adenauer Stiftung, 2014,

    Lange D. (2015), Citizenship Education in Germany, in The Making of Citizens in Europe - III. Perspectives on Citizenship Education: Country Profiles.

    Lange V. (2018), Politische Bildung in der Schule – ein Statusbericht, Friedrich Ebert Stiftung.

    Massing P. (2015), Bundes-und Landeszentralen für politische Bildung.

    Wikipedia, Bundeszentrale für politische Bildung (BpB).

    Wikipedia, Denazification.

    Wikipedia, Landeszentralen für politische Bildung.

    Wikipedia, Politische Bildung.

    SITI WEB

    ► Sito della Bundeszentrale für politisce Bildung (Agenzia federale per l'educazione civica). Il sito bilingue (tedesco e inglese) affronta il tema dell'educazione alla cittadinanza in una prospettiva nazionale, europea e internazionale, offrendo agli interessati una vasta gamma di risorse riguardanti sia il mondo scolastico che extrascolastico. È diviso in sezioni: Politik, Internationales, Geschichte (Storia), Gesellschaft (Società), Nachsclagen (Ricerche), Veranstaltungen (Eventi), Lernen (Apprendimento), Mediathek.

    ► Da visitare anche i siti delle 16 Landeszentrale für politische Bildung (Agenzie regionali per l'educazione civica): Bayern, Berlin, Brandeburg, Hessen, Baden-Württemberg, Schleswig-Holstein, Bremen, Hamburg, Mecklenburg-Vorpommern, Nordrhein-Westfalen, Rheinland-Pfalz, Saarland, Sachsen-Anhalt, Thüringen, Niedersachsen, Sachsen.

    ► Sito della Friedrich-Ebert-Stiftung, fondazione collegata al Partito Socialdemocratico (SPD), che permette di accedere ad un'ampia documentazione in materia di educazione civica (politische bildung).

    ► Sito della Konrad-Adenauer-Stiftung, fondazione collegata all'Unione Cristiano Democratica (CDU) che contiene diverse fonti attinenti all'educazione civica (politische bildung).

    ► Sito Politische Bildung in Schule und JugendArbeit, portale per insegnanti e studenti dedicato all'educazione alla cittadinanzahe propone Dossier sulle principali questioni del tempo presente; tra questi: Digitalisierung und Democratie, Populismus und Nationalismus, Islamistische Terroranschläge auf Europa.

  • La crisi che ruppe il Novecento (1973-1979). Il racconto e i modelli

    Autore: Massimiliano Lepratti

     

    Indice:

    Prologo: il “trentennio glorioso” (1945-'75)

    La crisi degli anni ‘70

    Conclusione: 1979, si esce dalla crisi e si crea un nuovo paradigma

     

    Prologo: il “trentennio glorioso”1 (1945-'75)

    Tra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine del 1973 l'economia del cosiddetto Primo mondo (Europa occidentale, Nord America e Giappone) visse un periodo di enorme prosperità.

    Il pianeta intero in quel trentennio vide la sua ricchezza aumentare più di quanto non fosse accaduto nei mille anni precedenti. In alcuni Paesi, come l’Italia, si parlò di miracoli economici e l'idea che  la crescita del benessere fosse un fenomeno inarrestabile si consolidò nella mentalità dell'emisfero Nord del pianeta.

     


    Alla radice del trentennio glorioso vi erano tre fenomeni interconnessi:

    1. la ricostruzione post – bellica aveva prodotto in Europa una grande vivacità economica. Il settore edilizio conobbe una grande espansione: si costruivano case e le si riempiva progressivamente di elettrodomestici e di automobili. I lavoratori delle campagne, attratti dalla possibilità del benessere urbano, migravano nelle fabbriche cittadine aumentando la richiesta di nuove case, mobili, elettrodomestici e automobili, in un circolo virtuoso che sembrava inarrestabile.
    2. Il sistema di produzione fordista (la catena di montaggio e l'ottimizzazione dei tempi) continuò la sua corsa negli USA e si diffuse in Europa, aumentando a dismisura la quantità di merci prodotte ogni anno. Ma a differenza di quanto avvenuto negli anni '20 l'aumento delle merci e dei profitti fuaccompagnato da un parallelo aumento dei salari operai che rese possibile ai lavoratori l'acquisto di una buona parte delle stesse merci  da loro prodotte (elettrodomestici, utilitarie...).
    3. L'intervento statale sia nella pianificazione economica, sia nella costruzione dello stato sociale. Entrambe le idee traggono origine dalle teorie di John Maynard Keynes, economista che sviluppò il suo pensiero innovativo soprattutto grazie all'osservazione della crisi del 1929. Secondo Keynes il sistema dei liberi mercati non è sempre in grado di mantenere alta la domanda di beni e quando questo non accade si manifestano le crisi. Per evitarle occorre che lo Stato intervenga a sostenere la domanda, attività che, dopo la prematura morte di Keynes (1946) si realizzò in diversi modi: programmando in modo coordinato la produzione industriale nazionale, sviluppando una serie di servizi sociali pubblici a cui è stato dato il nome di “Stato sociale”, favorendo l'aumento dei salari. La costruzione dello Stato sociale in particolare si è rivelata un'idea economicamente (oltre che socialmente) felice, grazie al “moltiplicatore”, un meccanismo  che può essere spiegato con un esempio. Lo stipendio di un medico dell'ospedale pubblico ad un'osservazione immediata apparirebbe una spesa a perdere per lo Stato. In realtà una parte di quello stipendio verrà utilizzato dal medico per acquistare beni, supponiamo un'abitazione. I soldi transiteranno quindi in due tasche: quelle del dottore e quelle del costruttore, arricchendo entrambi. Ma il costruttore a sua volta utilizzerà una parte del denaro ricevuto dal medico per comprarsi ad esempio un'automobile nuova. E quindi il produttore di automobili diverrà la terza tasca entro la quale il denaro moltiplicherà i suoi effetti, e così via. Ma non è finita: ciascuno tra i diversi soggetti presso cui passeranno i soldi  aumenterà la sua attività economica e la conseguente quantità di tasse che dovrà pagare allo Stato il quale, alla fine del ciclo, si vedrà ripagare lo stipendio versato inizialmente al medico.

     

    La crisi degli anni ‘70

    1973-4: la fine della pace (economica) dei Trent'anni

    Trent'anni di sviluppo economico tumultuoso avevano radicato nella mentalità comune la convinzione che l'economia ormai avesse trovato la ricetta di una crescita infinita, che le generazioni successive avrebbero goduto per sempre di maggior benessere rispetto a quelle precedenti, che la crisi fosse il retaggio di epoche passate.

    A interrompere questi racconti intervenne improvvisa la crisi del 1973-'74, durante la quale il mondo occidentale conobbe un fenomeno di profonda influenza sulle sorti dell'economia: la brusca carenza di petrolio e il conseguente aumento a livelli stellari dei prezzi dell'energia.

    Tuttavia la crisi di quel biennio fu l'ultima tappa di un processo di svuotamento degli elementi che avevano sostenuto i miracoli economici post bellici. Per questo occorre ripercorrere cronologicamente i fatti strutturali che resero  così esplosiva la carenza petrolifera.

     

    1968 – '69: salari crescenti e profitti calanti

    Il 1968 è passato alla storia per la traccia indelebile lasciata in quell'anno dal movimento studentesco. In Italia il 1969 è stato un anno altrettanto importante a causa delle lotte sviluppate da un altro movimento, quello degli operai, il cui esito più significativo è rappresentato dall'adozione nel 1970 dello Statuto dei lavoratori. Ma se l'Italia rappresenta un caso specifico per la vivacità delle lotte sociali che ha espresso in quegli anni, in linea generale la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70 hanno espresso un momento di forza operaia e di crescente difficoltà per l'economia capitalista all'interno del Primo mondo. Il processo innescato negli anni '50 e (soprattutto) negli anni '60, prevedeva la ripartizione fra imprenditori e lavoratori degli utili crescenti generati dalle attività economiche.

     

     

    Tuttavia in alcuni Paesi (e l'Italia ne è un esempio) la forza delle rivendicazioni operaie aveva portato i lavoratori ad ottenere aumenti percentualmente superiori a quelli riportati dalla controparte. I profitti crescevano meno dei salari, un fatto anomalo nell'intera storia del capitalismo, dovuto principalmente alle condizioni di forza sindacale e politica sviluppatesi nel secondo dopoguerra.


    1971: dollari, lire e  altre monete iniziano a fluttuare

    Un secondo passaggio fondamentale nella storia economica dei primi anni '70 fu rappresentato dall'abbandono della stabilità monetaria.

    All'origine del fenomeno vi era la guerra che gli Stati Uniti conducevano contro il Vietnam; per finanziarne i costi il governo USA stampava continuamente dollari il cui valore era garantito dalle riserve in oro detenute a Fort Knox. Ma ad un certo punto la quantità di dollari circolanti divenne eccessiva perché si continuasse ad assicurare la loro trasformazione in oro. Perciò il 15 agosto 1971 il presidente statunitense Nixon dichiarò nullo il legame fra dollaro e oro: il dollaro valeva di per sé, scisso da ogni riferimento a beni concreti e garantito solo dalla forza politica del governo USA.

     

     

    Le conseguenze inizialmente non furono gravi, il sistema mondiale fece finta di nulla e le altre monete continuarono ad essere cambiate allo stesso valore (nel 1964 ci volevano 624 lire per un dollaro, 627 nel 1974), ma   nel corso degli anni '70 e all'inizio degli anni '80 i valori delle divise cominciarono ad oscillare pericolosamente (il 19 luglio del 1985 si arrivò ad un cambio di 2200 lire per un dollaro!) e  questo fattore contribuì a potenziare la crisi del 1973-'74 e la successiva del 1979, soprattutto per quei Paesi che dovevano importare petrolio, pagandolo in dollari e che erano pertanto obbligati ad esborsi sempre maggiori man mano che sia il greggio, sia la divisa statunitense si apprezzavano.

     

    Anni '70: la sovrapproduzione

    Ma i successi dei lavoratori prima e l'instabilità dei cambi fra monete da soli non avrebbero spiegato la portata di ciò che avvenne negli anni '70.

    Il fattore più importante nel favorire il mutamento storico fu la crisi da sovrapproduzione che fin dagli anni '60 negli USA e negli anni '70 e '80 in Europa iniziò a far sentire la sua morsa.

     

     

    A differenza della crisi da sottoconsumo del 1929 questa volta il problema non era la mancanza di domanda da parte di lavoratori troppo mal pagati per potersi comprare le automobili che producevano. Al contrario, le paghe operaie crescenti e l'intelligenza di alcuni imprenditori - che avevano cominciato a produrre beni di prezzo accessibili ai loro dipendenti (un caso per tutti: la 500 FIAT) - avevano evitato il ripetersi delle dinamiche degli anni '20. Il problema del 1973 era un altro: dopo alcuni decenni di acquisti di massa (il famoso consumismo, alimentato da grandi strategie pubblicitarie) le case di molte famiglie occidentali cominciavano ad essere colme e in alcuni casi perfino a strabordare di merci. In abitazioni in cui era già presente un frigorifero, una lavatrice, una lavastoviglie, un mobilio adeguato, due o tre televisori e un paio di automobili, di quali altri beni di un certo valore si poteva aver bisogno ?

    Inevitabilmente si arrivò a un calo della domanda di nuove merci e di conseguenza le strategie di produzione e di vendita delle imprese dovettero riorientarsi per far sì che le famiglie anziché comprare ex novo un bene che prima non possedevano (televisore, automobile), si limitassero a sostituire i beni che già avevano  con altri, più belli, più grandi, più colorati e pieni di optional. In termini tecnici finiva l'epoca dei  mercato di riempimento e iniziava quella dei mercati di sostituzione (assai meno redditizi perché la concorrenza nel disputarsi la sostituzione di un prodotto obbligava le diverse case produttrici a ribassare i prezzi e a farsi una guerra commerciale feroce).  

     

    1973: la prima crisi energetica

    Il miracolo economico degli anni '60 si era tradotto in crescite impressionanti del Prodotto interno lordo (PIL), ossia della ricchezza prodotta dalle nazioni: in Giappone, per l'intero decennio il PIL, aumentò di una media del 10,1% all'anno, in Italia del 5,4%2. All'inizio degli anni '70 i fattori ricordati sopra stavano già ridimensionando la forza propulsiva dei miracoli economici e in questo contesto l'aumento impressionante del costo dell'energia rappresentò il colpo definitivo per le speranze di crescita sostenuta.

     

    1973: l’Opec chiude i rubinetti del petrolio

    Nel secondo dopoguerra l'economia dei Paesi industrializzati era fortemente dipendente dal petrolio, da tempo divenuto la più importante fonte di energia per la produzione industriale, la produzione agricola e il sistema dei trasporti. La sua relativa scarsità (come è noto il petrolio non è una fonte rinnovabile) veniva vista come un problema solo guardando a tempi molto lunghi, e il suo prezzo molto basso permetteva di non appesantire i costi delle economie occidentali. Ma nel 1973 accadde l'imprevisto: l'OPEC (l'alleanza dei Paesi produttori di petrolio, quasi tutti di lingua araba) decise di sospendere improvvisamente le forniture di greggio agli Stati occidentali. Questi ultimi avevano infatti appoggiato Israele, facilitandogli la vittoria nella guerra dello Yom Kippur, che nell'ottobre di quell'anno lo aveva opposto agli Stati arabi di Siria ed Egitto. La ritorsione dell'OPEC si tradusse in un aumento improvviso e molto elevato del prezzo del petrolio, che nel girò di poco tempo crebbe di oltre tre volte. Fu in quel momento che l’Italia conobbe la prima crisi da “penuria di energia”, che obbligò a ridurre le spese per il riscaldamento o a impedire l’uso delle automobili nelle domeniche.

     

     

    La scarsità di petrolio e la forte crescita dei suoi costi si tradussero rapidamente nell'intero Occidente in una riduzione generalizzata delle attività di produzione e di trasporto, in un ulteriore calo dei profitti imprenditoriali e in un aumento del prezzo di tutte le merci, ossia in un meccanismo di inflazione.

     

    1970/1980: l'inflazione, spauracchio dell'Occidente

    La parola “inflazione” evoca in tutti coloro che hanno vissuto negli anni '70 e '80 uno spauracchio, un avvenimento di gravità tale che qualunque meccanismo per porvi rimedio acquista un'aura di positività.

    In realtà il fenomeno di aumento generalizzato dei prezzi non è un male o un bene in assoluto, ma come molti fenomeni ha effetti diversi a seconda del gruppo sociale da cui lo si osserva. Per i lavoratori dipendenti l'inflazione è negativa solo se non esistono meccanismi di adeguamento automatico dei salari all'aumento del costo della vita (la cosiddetta “scala mobile”); è invece tendenzialmente neutra negli altri casi. Per coloro che sono indebitati l'inflazione è un aiuto: al momento della restituzione del prestito il valore del debito in termini reali sarà infatti diminuito (mentre invece per coloro che detengono crediti l'inflazione si rivela un danno, poiché per loro vale il ragionamento contrario).

     

     

    Nella mentalità comune il manifestarsi di aumenti continui e diffusi nei generi di prima necessità portò ad associare l'inflazione ad un male tout court. E nel corso di pochi anni la lotta contro l'aumento dei prezzi, scatenatasi a partire dal 1979, fu uno dei cavalli di Troia utilizzati cambiare il volto all'economia e alla società mondiali.


    Conclusione: 1979, si esce dalla crisi e si crea un nuovo paradigma

    Se la crisi del 1973 - '74 ha lasciato un segno profondo nella memoria comune in quanto primo momento di difficoltà delle economie occidentali a partire dal 1945 (difficoltà plasticamente rappresentate dalle domeniche senza auto nell'Italia di fine 1973), la crisi del 1979 ebbe minore impatto comunicativo, ma lasciò tracce ancora più profonde nelle politiche economiche del trentennio successivo.

     

    1979: la seconda crisi petrolifera

    La cronaca del 1979 registrò una seconda crisi petrolifera con dinamiche molto simili a quella del 1973-'74: un forte aumento del prezzo del petrolio dovuto a un evento politico nell'area asiatica (in quest'occasione si trattò dell'avvento al potere di Khomeyni in Iran e della successiva guerra con l'Iraq di Saddam Hussein; entrambi gli avvenimenti determinarono un brusco calo della produzione di petrolio). Anche in questo caso l'aumento dei prezzi del greggio si tradusse in  una forte inflazione, diffusa in tutto il mondo occidentale.

     

     

    1979-'82: le risposte neoliberiste cambiano la politica economica mondiale

    Alla fine degli anni '70 la situazione economica del cosiddetto Primo mondo aveva quindi accumulato diversi elementi critici da un punto di vista capitalistico: crisi di sovrapproduzione, crescita dei salari/calo dei profitti, incertezza nei valori delle monete, inflazione.

    Nell'arco di un triennio (1979-'82) le risposte di politica economica a questo stato di cose, provenienti dal mondo anglosassone e diffuse poi in tutto l'Occidente, modificarono profondamente gli orientamenti economici planetari.

    Per comodità l'insieme di queste risposte viene chiamato neoliberismo e sebbene il termine sia molto impreciso è ormai indubbio che in quel periodo si sia passati dal keynesismo del “trentennio glorioso”, al declino dello Stato come regista e attore dello sviluppo economico (complice anche l'avvento al potere di due politici fautori della primazia del privato, Margareth Tatcher nel Regno Unito dal 1979 e Ronald Reagan negli USA dal 1980).

     

     

    Tra i tanti segnali di questo cambio di paradigma per semplicità qui ne vengono ricordati solo tre, il cui impatto ha segnato profondamente anche i decenni successivi.

     

    1. Dal primato del lavoro al primato della lotta all'inflazione. Come si diceva sopra, l'inflazione danneggia in particolare chi detiene un credito, ossia colui che si ritroverà ad essere ripagato a distanza di tempo dal prestito concesso con una moneta ormai svalutata. Il principale detentore di crediti è il sistema bancario nel suo complesso e fu da lì che il più importante fra i suoi rappresentanti, il governatore della Banca centrale statunitense Paul Volcker, mosse l'attacco all'aumento dei prezzi. Nel giro di poco tempo Volcker, appena assurto nell'agosto 1979 al ruolo più importante nella politica monetaria mondiale, ridusse bruscamente la quantità di banconote in circolazione per operare un raffreddamento dell'attività economica e dell'inflazione3.

     

     

    Il piano diede i suoi frutti, ma le conseguenze di medio e lungo periodo furono pesanti: la riduzione dell'inflazione e del denaro circolante determinò una diminuzione delle attività industriali e dei posti di lavoro, nonché l'inizio di un lungo processo di perdita di valore dei salari (spiegabile attraverso la dinamica del mercato del lavoro: essendoci meno posti disponibili, pur di accedervi le persone tendono ad accontentarsi di paghe e condizioni meno vantaggiose).

     

    2. I capitali iniziano a viaggiare in modo compulsivo. Il secondo segnale di un cambiamento economico duraturo si ebbe con la deregolamentazione dei movimenti dei capitali. Fino alla fine degli anni '70 i capitali bancari e finanziari di un Paese avevano grossi vincoli se volevano muoversi verso altri lidi. Nella nuova situazione di crisi questi impedimenti furono giudicati eccessivi e le leggi che limitavano il movimento internazionale dei capitali furono abolite, a cominciare dagli USA. Il principio che informava le nuove disposizioni era la necessità di rendere più “liquidi” i capitali, ossia più facilmente in grado di arrivare laddove vi fossero occasioni di profitto. Nel tempo tuttavia la deregolamentazione si rivelò un'arma potentissima nelle mani di chi muoveva capitali non per aprire nuove attività produttive in luoghi differenti, ma per operare in un'ottica speculativa di breve e brevissimo periodo, muovendo freneticamente grosse cifre laddove vi fosse l'occasione di spuntare guadagni immediati e ritirandole subito dopo.

     

    3. Addio a Keynes e al consumo illimitato di energia. Rispetto alla crisi del 1929, la crisi degli anni '70 ha interpretazioni rese più difficili dalla vicinanza storica del periodo e dall'intenso  dibattito ideologico che si è avuto da allora fino ad oggi su quali  fossero le migliori risposte di politica economica allo stato di crisi.

    Quanto si può affermare con ragionevole sicurezza è che tra il 1973 e il 1979 entrò in crisi il modello keynesiano costruito nel lungo secondo dopoguerra e che ciò che ne è seguito non è stato in grado di ricostruire condizioni stabili di crescita economica, tanto è vero che dagli anni '90 in poi una serie di crisi finanziarie ha fatto da prodromo alla grande crisi iniziata nel 2008.

    Un'ulteriore considerazione va infine spesa sullo spartiacque rappresentato dagli anni '70 anche per ciò che riguarda le politiche energetiche. Prima di quegli avvenimenti la riflessione sul petrolio, sui suoi impatti ecologici e sulla mancanza di rinnovabilità avevano interessato solo pochissimi ambientalisti ante litteram. Dagli anni '80 in poi il dibattito su un modello di sviluppo ecologicamente compatibile e su possibili alternative energetiche al petrolio e agli altri fossili è divenuto progressivamente sempre più centrale.

     

     

     

    Note:

    1. La definizione di Trentennio glorioso proviene dagli economisti francesi. Individua un periodo in cui il progresso  economico e sociale nei Paesi del Primo mondo ha conosciuto una crescita mai vista né prima, né dopo.
    2. Negli anni '90 in entrambi i Paesi si era scesi all'1% circa, e alla fine degli anni 2000 a valori negativi.
    3. Tecnicamente il risultato si ottiene aumentando il tasso di interesse riconosciuto a chi lascia depositati i soldi in banca (e in questo modo non li immette in nuove attività industriali). Tuttavia coloro i quali hanno precedentemente contratto prestiti a tassi variabili si trovano a dover restituire rate di debito aggravate dall'aumento dei tassi di interesse. Il fenomeno toccò in maniera drammatica i Paesi del Sud del mondo che dalla decisione di Volcker in poi videro crescere i propri debiti con l'estero in misura insostenibile (il primo a denunciare le enormi difficoltà della nuova situazione fu il presidente del Messico nell'agosto del 1982) e per ripagarli dovettero tagliare buona parte della spesa sociale, danneggiando pesantemente le ampie fasce povere delle loro popolazioni.
  • La guerra insegnata (parte II)*. E la didattica che abbiamo perduto.

    Autore: Antonio Brusa

     

    La storia

    Galvanizzati dal successo dello sbarco in Normandia e, insieme, preoccupati dalla resistenza feroce organizzata dai tedeschi nelle Ardenne, gli angloamericani azzardarono un assalto dietro le loro linee, per tagliarne i rifornimenti e accerchiarle. Obiettivo dell’attacco: le città di Njimegen e di Arnhem, nell’Olanda meridionale, e i ponti che attraversano i loro fiumi. Nome dell’operazione “Market Garden”, tragicamente ottimistico per come andò a finire. Tempo: dal 17 al 26  al settembre. Nove giorni di battaglia, per un autentico disastro. Migliaia di morti, il ponte di Arnhem perso, decine di migliaia di prigionieri. Obiettivo militare completamente fallito. La guerra continuò per tutto il terribile inverno del ’44 e solo nei mesi iniziali dell’anno successivo gli alleati riuscirono a sfondare la resistenza tedesca. Il Museo della Liberazione di Groesbeek, nei dintorni di Nijmegen, è uno dei tre che, sul luogo della battaglia, ne conservano la memoria. L’ho visitato e sono stato colpito sia dallo sforzo didattico che i suoi progettisti vi hanno profuso, sia dallo spirito degli oltre ottanta volontari che mantengono in vita questa istituzione. Ecco il resoconto.

     

    Il teatro dell’operazione “Market Garden”, con le due città di Nijmegen e Arnhem. Groesbeek è in basso a destra. Qui vennero paracadutate le truppe d’assalto americane. Le truppe inglesi aviotrasportate attaccarono Arnhem.

     

    Indice

    • Il museo
    • Gli oggetti didattici
    • Il memoriale

     

    Il museo

    Il complesso è composto da due edifici: il museo e il memoriale.

    Ancora prima di visitarli, ascoltando la loro storia e osservandoli dall’esterno, scopro che sono essi stessi il primo monumento storico. Infatti l’edificio museale non è altro che uno stabile “industriale”, residuato dell’immensa opera di bonifica che gli olandesi intrapresero dopo la catastrofe dello Zuidersee del 1953, quando il mare ruppe le dighe e inondò i Paesi Bassi. La bonifica terminò a metà degli anni ’80 e uno dei capannoni di lavoro, in luogo di essere smantellato, venne riciclato come contenitore museale. E’ un edificio basso, senza pretese architettoniche, dunque, ma capace di trasmettere una forte carica emotiva al visitatore olandese (ma anche allo straniero che viene informato), perché unisce due momenti di tradizione nazionale, la guerra contro il nazismo e quella contro la furia del mare.

    Il percorso museale è scandito in tre periodi, riconoscibili da colori diversi: l’avvento del nazismo, la guerra, la liberazione postbellica. Non ne parlo, né descrivo i documenti raccolti e la loro sistemazione (non sono un esperto museologo), perché sono attratto dai dispositivi didattici. Anche questi sono una testimonianza di un periodo preciso: vi riconosco la didattica post sessantotto, quella che dura fino al principio degli anni ’90, nella quale si osservano i primi tentativi (e il loro entusiasmo) di costruire un rapporto con l’oggetto storico basato sull’interazione, e non solo sul racconto delle guide. Ma è anche la didattica del Novecento, basata sulla tecnologia di quel periodo: elettricità, carta, legno e metallo. Un mondo didattico recente, ma ormai scomparso nel nostro secolo, dominato dai computer e dall’elettronica. Simile a quel mondo che ci ostiniamo a cercare, noi adulti, nei giocattoli esposti nelle librerie della Città del Sole.

     

    Il Museo della Liberazione Nazionale di Groesbeek è alloggiato in una costruzione riciclata, utilizzata originariamente per le opere di bonifica dopo l’alluvione del 1953

     

    Gli oggetti didattici

    La realtà virtuale ha conquistato il ruolo di unica via per “far vedere la storia” e ha privato di credibilità ogni altro tentativo di visualizzazione. Questo museo ci mostra come si faceva una volta: attraverso i diorami o i plastici. La realtà virtuale li ha relegati al ruolo di giocattoli scaduti. Un tempo erano uno strumento didattico di avanguardia. Costoso, richiedeva cura, capacità tecniche e studi. In questi musei ne troviamo esemplari di diverso formato. Alcuni, piccoli, rappresentano momenti emblematici dell’avvento nazista o di guerra, come lo sbarco in Normandia. Uno, a grandezza naturale, fissa una scena drammatica, del tentativo di attraversamento del fiume da parte di soldati americani, costretti a ripiegare e a curare i feriti.

    Piccoli plastici: scene di età nazista e lo sbarco in Normandia

     

     

    Quasi a grandezza naturale un momento drammatico del tentativo di attraversamento del fiume

     

    L’interattività è la parola d’ordine dell’odierna didattica digitalizzata. Come si faceva un tempo? Con le lucette e i pulsanti. Un plastico circolare, di alcuni metri di diametro, con delle sedie attorno. Il visitatore si accomoda. Una voce racconta le fasi della battaglie e, man mano, si accendono le luci che rappresentano l’avanzata di una colonna corazzata tedesca, o l’atterraggio degli alianti inglesi. Un faretto illumina i luoghi interessati dal racconto. Puoi anche premere dei pulsanti e vedere fasi particolari: come nel plastico “elettrico” degli scontri sui ponti di Nijmegen. Entrare dentro la storia? Il computer odierno rende reale questa magia. Nella didattica eroica novecentesca è ancora questione di pulsanti e lampadine. Ecco una schermata che mostra delle scelte. Siamo sotto la dominazione nazista. Ci sono dei collaborazionisti. Tu che faresti? Fai la tua scelta, premi il bottone e vedrai le conseguenze. E, infine, lo vediamo il computer, sempre collegato al pannello elettrico. Una scrittura antica (quella dei primi Word o di Wordstar: ve li ricordate?) accoppiato all’onnipresente pannello, con la sua aria da sommergibile del capitan Nemo.

     

    Seduto ai bordi del plastico, il visitatore italiano, riconoscibile dalle scarpe da ginnastica, ascolta la storia e guarda le lucette.

     

     

    Gli scontri intorno al ponte sono visualizzati dalle lucette intermittenti

     

     

    Tre scelte empatiche sulla collaborazione con i tedeschi

     

     

    Un antico computer affiancato da un pannello elettrico

     

    Anche la didattica ludica, oggi, sembra non poter fare a meno del computer, dei suoi scenari realistici, della complessa interazione garantita da programmi sempre più complessi (e costosi). Un tempo, era il regno del gioco dell’Oca, che in questo museo è utilizzato per ricostruire gli eventi dal Nazismo alla liberazione; oppure del Monopoli, che riprende lo stesso percorso e lo riformula con le sue regole specifiche. In questo caso, sono documenti autentici: giochi stampati e diffusi nell’immediato dopoguerra. Ma ci sono giochi (o attività ludiche) progettate apposta per il museo. Non sono meno interessanti. Una bilancia e dei pesi: i fatti e i pregiudizi. Riuscite a trovare un equilibrio (il fatto che sconfigge il relativo pregiudizio)? Oppure uno scaffale con  22 caselle. Accoppiatele nel modo giusto. Si accenderà la lucetta verde e avrete vinto. Infine, il gioco che mi ha commosso: un pannello verde con dei buchi, attraverso i quali si vede un colore diverso. Si chiede alla classe di scegliere il colore della pelle che preferisce (immaginate una classe olandese multicolore). Ognuno sceglie il suo, ovviamente. Si solleva il pannello, compare il petto di un giovanotto. Quei colori diversi erano variazioni della stessa pelle, dello stesso uomo. Un giochino senza pretese, oggi diremmo dall’alto della nostra ipertecnologia iperpedagogizzata. Ma un ottimo punto di partenza per una discussione sul tema (e anche un buon modo per chiudere una visita ad un museo sulla guerra).

    Funzionano queste semplici macchinette didattiche? A giudicare dai visitatori, sì. 40 mila annuali non sono pochi, per un piccolo museo, con soli tre impiegati stabili e 80 volontari che lo mandano avanti, fanno le guide o gli animatori, puliscono, tengono il bar (ampio e confortevole, come mi capita spesso di vedere oltrealpi) e il piccolo bookshop, che non vende modellini di armi, ma cappellini, magliette, agende e penne, papaveri di stoffa rossa, e libri.

     

    Il gioco dell’Oca e il Monopoli sulla liberazione

     

     

    La bilancia dei fatti e dei pregiudizi e lo scaffale delle corrispondenze

     

     

    Gioco interculturale: scegliete il colore della pelle, poi sollevate il pannello verde

     

    Il memoriale

    Il memoriale ha l’aspetto di un paracadute. Forse non fu progettato da un archistar, ma questa forma e il materiale trasparente con cui è realizzato, creano un ambiente luminoso che non ti aspetti per un luogo di memoria. Tutto è chiaro, anche il corridoio che circonda la sala delle conferenze, sulle cui pareti sono appesi i simboli dei reggimenti che parteciparono all’impresa. Da un albero stilizzato dondolano dei foglietti. Sono le riflessioni dei bambini al termine della visita. Scrive Bodine: “mai più guerre”. Sarà retorica, buonismo, quello che volete. Ma è meglio che scrivano frasi di questo genere, piuttosto che quelle che, al tempo del nazismo e durante la guerra, i bambini di entrambi i fronti erano portati a scrivere.

    Una didattica ingenua? Passata di moda? Una didattica povera, superata dai tempi? E’ facile pensarlo e qualcuno, a questo punto sarà di questa idea. La mia è divisa in due ordini di riflessioni. Il primo riguarda questa struttura e le persone che la fanno andare avanti e il flusso dei visitatori, incessante, anche in un giorno di pioggia, come quando ci sono andato io. Il confronto con l’Italia è spontaneo. Anche da noi ci sono musei di guerra: quelli del Risorgimento; quelli della prima e della seconda guerra mondiale, ai quali ho dedicato un lavoro che vedrete presto su HL; quelli della Resistenza. Ora, al di là del loro successo di pubblico, molto vario (per esempio quelli del Risorgimento non è che ne riscuotano tanto, nonostante il recente 150esimo), nei nostri musei di guerra si celebra qualcosa di nostro: il patriota che combatte per l’Indipendenza, o contro il nemico, o per la libertà e una società più giusta. Ma sempre un italiano. A Groesbeek no. Gli eroi sono americani, canadesi, inglesi, polacchi, e tanti altri. Altri, appunto. Eppure, la cura, la passione per la memoria sono palpabili e concreti, come abbiamo visto, nell’imponente numero di volontari. Memoria nazionale, certamente, ma non assistita e concretizzata da eroi egualmente nazionali. Tanta passione, mi sembra di poter dire, per “l’episodio in sé”. Qualcuno è venuto qui e ha combattuto per la libertà. E questo va ricordato.

    Sono solo i pensieri di un visitatore. Nulla di scientifico, ma non posso fare a meno di ricordare il cimitero di Corpusu (Capurso), che i baresi conoscono benissimo, dove sono sepolti i soldati polacchi che caddero in Italia, combattendo contro il nazismo. Confesso di non esserci mai entrato. Mi chiedo quanti miei concittadini hanno fatto come me e mi rammento di un esame (l’argomento era “i luoghi di memoria”), durante il quale la studentessa non seppe dirmi se questi polacchi combattevano con gli Alleati o con i Nazisti.

     

    Il secondo ordine di riflessioni è più tecnico. Quella didattica che ho cercato di raccontarvi è essa stessa un cimelio di un passato. Rende palpabile l’enorme distanza che ormai separa gli anni ’80 dall’oggi. E, paradossalmente o miracolosamente, funziona bene ancora. So che in quella regione (la crisi c’è ovunque) si fa l’ovvio ragionamento che tre musei vicini sono troppi e che sarebbe bene accorparli. Mi piacerebbe che non buttassero via questi giocattoli didattici e avessero l’intelligenza di creare loro uno spazio museale. Anche loro, come gli ambienti e le scene di vita degli anni ’40 e ’50, così ben ricostruite, meritano un posto nella memoria sociale.

     

    Il memoriale di Groesbeek a forma di paracadute

     

     

    L’interno del memoriale

     

     

    Lungo il corridoio perimetrale i simboli dei reggimenti di diversa nazionalità impegnati negli scontri

     

     

    I ragazzi scrivono le loro impressioni su biglietti, che vengono appesi a un albero.

    Mai più la guerra. Bodine

     

    *La prima parte è stata già pubblicata su HL. Descrive la didattica dei musei di guerra in Francia. Le parti successive sono dedicate alla didattica di guerra in Italia.

  • La Rivoluzione francese studiata sul proprio manuale. L’analisi dei conflitti sociali come argomento di storia e di educazione civica.

    di Cesare Grazioli

    Immagine6 La Rivoluzione francese è un argomento didatticamente bifronte. Da una parte è impossibile farla studiare e imparare in senso tradizionale, data l’enorme complessità e la densità delle sue vicende, che rendono del tutto velleitario il tentativo di farle memorizzare. Dall’altra, è un argomento straordinariamente utile ed efficace se usata come laboratorio di indagine del conflitto sociale-politico-ideologico, in quanto luogo di nascita del linguaggio e dei concetti della politica moderna. Da questo punto di vista, la Rivoluzione francese è un’autentica palestra di educazione storica alla cittadinanza.

    Proprio questo sarà l’obiettivo del lavoro didattico che qui si propone, la cui caratteristica – credo interessante per tutti i docenti - è di basarsi sull’uso esclusivo del manuale in adozione. Come si vedrà, infatti, le conoscenze richieste possono essere considerate standard nella manualistica. Tuttavia, il manuale non andrà studiato linearmente, nel modo tradizionale, ma andrà smontato e rimontato. La classe, inoltre, lavorerà sia in gruppi di 4/5 allievi sia in plenaria, in interazione col docente. Dunque, si tratta di un laboratorio sul manuale, nel quale la lezione gioca il triplice ruolo di lezione frontale di apertura, partecipata nell’analisi del manuale e di chiusura, come riepilogo e sistemazione cognitiva, mentre la verifica degli apprendimenti è parte integrante della sequenza di lavoro.

    Il modulo dura 10/11 ore ed è stato sperimentato per anni nelle mie classi quarte del BUS di Reggio Emilia.

     

    Materiali

    • Il manuale in adozione
    • La cronologia sintetica/ragionata della Rivoluzione, fornita dal docente
    • Il modello di conflitti sociali fornito dal docente
    • I correttori forniti dal docente

    (questi materiali vengono allegati in seguito)

     

    Immagine1 Sequenza di lavoro

    Lezione introduttiva sui primi due periodi della Rivoluzione, basata sulla cronologia, proiettata alla Lim o consegnata in fotocopia (un’ora).

    Prima fase laboratoriale: sulla base del modello dei conflitti storico-sociali, che viene spiegato, gli allievi, divisi in gruppi, lavorano dapprima sul periodo pre-rivoluzionario, poi cercano nel manuale le notizie relative al periodo monarchico-costituzionale della Rivoluzione. Terminato il lavoro, si fornisce il correttore, in modo che gli allievi possano confrontare e valutare il loro operato. (3/4 ore)

    Seconda fase laboratoriale: in modo più autonomo, gli allievi applicano il modello alle pagine relative al periodo della rivoluzione radicale. Come nella fase precedente, il correttore permette agli allievi il lavoro di valutazione del proprio lavoro. (3 ore)

    Lezione frontale/partecipata: si analizza insieme il periodo repubblicano moderato, per osservare le modificazioni del modello. (2 ore)

    Lezione frontale/partecipata di storia e di educazione civica: si ragiona sulla nascita di un linguaggio politico usato ancora oggi. (1 ora)

     

    Materiali di lavoro

    A. Cronologia sintetica
    (da stampare e consegnare agli allievi o da proiettare in classe)

    0. Introduzione: la situazione della Francia nel secondo ‘700, caratterizzata da un “assolutismo debole”, dal grave debito pubblico e dal fallimento delle riforme: fatti che portano all’instabilità sociale e alla convocazione degli Stati generali.

     

    1. Periodo monarchico costituzionale: dalla primavera del 1789 all’estate del 1792. All’inizio di questo periodo, esplodono “tre rivoluzioni in una”, ciascuna caratterizzata dal protagonismo di un soggetto sociale:

    • Il Terzo Stato si autoproclama Assemblea nazionale, riconosciuta, suo malgrado, dal re: qui il soggetto protagonista è costituito dai vertici del Terzo Stato, cioè dalla borghesia;
    • l’assalto alla Bastiglia, che ha per soggetto le masse popolari urbane;
    • la rivolta antifeudale nelle campagne, che ha come soggetto i contadini.

    A questi tre soggetti rivoluzionari si contrappongono altri due soggetti reazionari:

    • la monarchia (in questo caso è un soggetto istituzionale, coincidente con la figura del re);
    • l’aristocrazia (“ordine” privilegiato, con il clero).

    I fatti salienti di questo periodo sono:

    1789: decreto di abolizione della feudalità, e Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che diventa il preambolo della “Costituzione del ‘91 che instaura una monarchia costituzionale

    1790: la Costituzione civile del clero nel ’90, con un forte impatto religioso (il clero “refrattario”) e con forti conseguenze economico-finanziarie, con la nascita degli “Assegnati”.

    1791: l’emancipazione degli ebrei e la legge Le Chapelier, che abolisce le corporazioni e il diritto di sciopero, nel segno del liberismo economico.

    1791: la tentata fuga del re (giugno ’91) che incrina il rapporto tra monarchia e nazione;

    1792: la guerra, voluta dall’alleanza fra monarchia e girondini, porta alla radicalizzazione della Rivoluzione: il re viene deposto, i sanculotti iniziano i loro massacri. Nel settembre viene proclamata la Repubblica.

     

    2. Periodo repubblicano radicale, dal settembre del 1792 alla fine del luglio 1794. Durante questo periodo il protagonismo politico passa dai girondini ai giacobini/montagnardi.

    Gli eventi salienti sono:

    Gennaio 1793: la condanna e la decapitazione del re è il culmine dello scontro, in atto già dalla seconda metà del ’92, tra girondini (moderati in politica e liberisti in economia) e giacobini-montagnardi, guidati da Robespierre (aperti all’alleanza col movimento popolare dei sanculotti, dei cordiglieri di Danton e del gruppo degli “arrabbiati”), che sono radicali in politica e interventisti-dirigisti in economia.

    Primavera/estate ‘93, radicalizzazione della Rivoluzione, alla quale concorrono diversi fatti:

    - rivolta contadina in Vandea;
    - caduta dei girondini e potere ai giacobini;
    - rivolte federaliste (cioè, filo-girondine) in molte città;
    - instaurazione del Comitato di Salute pubblica (che ha di fatto il ruolo di governo, sempre più autoritario, cioè di fatto una dittatura), egemonizzato da Robespierre;
    - maximum (cioè calmiere dei prezzi); leva militare di massa;
    - legge sui sospetti in settembre, che instaura il Terrore, cioè la dittatura rivoluzionaria del Comitato di Salute pubblica;
    - il nuovo calendario laico e il culto della Dea Ragione (= tentativo di scristianizzazione)

    Estate 1793: la Convenzione (nuova assemblea eletta nel ’92 a suffragio universale maschile) approva una nuova Costituzione con una nuova Dichiarazione dei Diritti.

    Inverno ’93/ giugno ’94: aumento delle condanne a morte; instaurazione del “Grande Terrore”, prima contro i vandeani, poi contro “arrabbiati” e “indulgenti” (tra i quali Danton).

    27 luglio 1794 (9 Termidoro): la componente moderata della Convenzione arresta e mette a morte senza processo Robespierre e altri 22 montagnardi.

     

    3. Periodo repubblicano moderato: dal Direttorio all’ascesa di Napoleone (1794-1804). Questo periodo si apre con il “contro-terrore bianco”, organizzato dalla “Gioventù dorata” (monarchica) contro i giacobini. È dominato dalla “Pianura” cioè della componente moderata. Registra l’insuccesso di due insurrezioni popolari, la prima spontanea, causata dalla penuria di generi alimentari, e la seconda “comunista”; e da un’insurrezione reazionaria che tenta di restaurare la monarchia.

    I fatti salienti sono:

    1795: una nuova Costituzione (la terza): si torna al suffragio ristretto censitario con un sistema bicamerale e un Direttorio nel ruolo di governo.

    1796: il Direttorio rilancia la guerra.

    1796/1799: nella campagna d’Italia emerge il genio militare di Napoleone, che crea le “repubbliche sorelle” in Italia, e in altre parti d’Europa.

    Novembre 1799 (18 brumaio): il colpo di stato che abbatte il Direttorio e consegna il potere a tre consoli: Ducos e Sieyes (già del Direttorio) e lo stesso Napoleone;

    Dicembre 1799, una nuova costituzione (la quarta), confermata da un plebiscito, instaura il consolato: inizia il potere personale di Napoleone, eletto primo console.

    1802: Napoleone “console a vita”.

    1804: Napoleone è “imperatore dei francesi”. Termina l’esperienza repubblicana francese.

     

    Immagine2 B. Il modello dei conflitti storico sociali (e come si usa)

    Il nostro modello di analisi del conflitto storico-sociale si basa sulla individuazione dei soggetti collettivi che ne sono i protagonisti, e per ciascuno di essi sull’individuazione di:

    • obiettivi, cioè che cosa ciascun soggetto collettivo vuole ottenere;
    • metodi, cioè che cosa ciascun soggetto fa, come si muove per ottenere quegli obiettivi;
    • risultati effettivamente ottenuti.

    Ecco, ad esempio, come si configura il modello nell’analisi dei periodi pre-rivoluzionario e di quello monarchico-costituzionale

     

     

     

     

     

     

     

     Soggetti collettivi del periodo prerivoluzionario e del periodo monarchico-costituzionale   Obiettivi Metodi    Risultati
     I vertici dello Stato/i borghesi                                                                                                                                                                                                                                                                                               
     Le masse popolari urbane, soprattutto parigine      
     I contadini      
     I ceti privilegiati, soprattutto l’aristocrazia      
     La monarchia, rappresentata dal Re      

     

    Questo modello va stampato e consegnato a ciascun gruppo, che si impegnerà in una ricerca sul manuale per riempire le caselle vuote.

    Nella sua generalità, questo modello può essere applicato a qualunque tipo di conflitto politico-sociali, variando ovviamente i protagonisti, e segnalando per ciascuno di essi obiettivi, metodi, e risultati specifici.

    Come si vedrà, il modello permette di individuare con una certa facilità delle differenze fra i diversi periodi. Richiederà, perciò, un duplice lavoro: segnalare le variazioni - compito che gli allievi eseguiranno attraverso la lettura selettiva del manuale - e spiegarle, obiettivo che, invece, sarà realizzato discutendo con l’insegnante.

    In particolare, nel lavoro sulla fase prerivoluzionaria, alla vigilia della riunione degli Stati generali, si chiede ai gruppi di individuare e riassumere gli obiettivi di ciascuno dei cinque soggetti, per iscritto sul quaderno (un’ora in aula, lavoro eventualmente da completare a casa). Per facilitare lavoro, si fornisce una parte dei correttori, per esempio i testi che riguardano il Re e il Terzo Stato. É possibile, infatti, che alcuni allievi siano disorientati dalla consegna: ricordare la prima parte della lezione e individuare le notizie che vanno inserite nel modello.

    Terminato questo lavoro, si effettua la correzione (un elaborato per gruppo) e si consegna agli allievi il testo completo dei correttori, in modo che si rendano conto di errori, dimenticanze e successi.

    Si passa subito al primo periodo. Questa volta la consegna è quella di andare sul manuale, alle pagine indicate e cercarvi le notizie da inserire nel modello. (due o tre ore, con completamento del lavoro a casa).

    Sul periodo successivo (quello repubblicano-radicale) il lavoro dovrebbe essere più autonomo. Si indicano le pagine e si invitano i gruppi ad applicare di nuovo il modello, secondo le modalità viste sopra (due ore, con completamento a casa).

    Terminato questo lavoro, si discutono – durante una breve lezione partecipata - i problemi incontrati, si cerca insieme di cogliere i mutamenti che si verificano con la caduta della monarchia e la proclamazione della repubblica (un’ora). In particolare:

    • monarchia e aristocrazia escono di scena, in modi e forme diverse;
    • il Terzo Stato, ovvero il suo vertice rappresentato nelle assemblee rappresentative (l’Assemblea nazionale, poi la Legislativa, ora la Convenzione), cioè la borghesia, appare sempre più divisa al suo interno in posizioni politiche diverse: una moderata, rappresentata prima dai Foglianti e poi, entro la Convenzione, dal club dei Girondini, e una più radicale, rappresentata dal club dei Giacobini (che all’interno della Convenzione trova espressione nei Montagnardi, così chiamati per la collocazione nell’aula);
    • le masse popolari urbane sono ancora presenti come soggetto, in particolare il movimento parigino dei sanculotti;
    • sono poi ancora presenti i contadini, che rappresentano circa i ¾ della popolazione francese, per quanto con una capacità di incidere minore rispetto al periodo precedente.

    A questo punto, le correzioni dei lavori sono state ben tre (sull’introduzione e sulle prime due fasi). Sulla terza fase, non sono più necessari i lavori di gruppo e si può procedere speditamente con due lezioni frontali di un’ora ciascuna: una, dal Termidoro al 1799; l’altra sull’età napoleonica (2 ore).

    Immediatamente dopo, si può svolgere la lezione partecipata sulla nascita del linguaggio politico attuale:

    Si richiamano e si discutono, in una breve introduzione, i termini “Destra”, “Sinistra”, si fa notare come facciano ancora oggi parte del linguaggio politico. Poi, si invita la classe la classe a completare la tabella e discuterla insieme.

     

       Estrema destra Centro destra Destra Centro sinistra Estrema sinistra
    Aggettivi politici          
    Protagonisti individuali e collettivi          

     

    Gli aggettivi politici da inserire sono:

    Moderato, Rivoluzionario, Progressista, Reazionario, Conservatore, Riformista, Radicale.

    I protagonisti collettivi e individuali (eventualmente ritornare sul manuale per cercare le informazioni necessarie):

    La Fayette – i Girondini – Danton – Robespierre – i Foglianti – la maggior parte degli aristocratici.

    Nella discussione, infine, si inviteranno gli allievi a spiegare gli eventuali cambiamenti di collocazione politica dei soggetti.

     

    Immagine3 C. I correttori

    0. Periodo pre-rivoluzionario

    La monarchia: vuole ottenere l’approvazione degli Stati Generali a una profonda riforma fiscale (nel senso indicato dagli intellettuali fisiocratici: l’abolizione dei privilegi ed esenzioni degli ordini privilegiati), senza che questo metta in discussione il suo potere assoluto.

    Gli ordini privilegiati, in particolare l’aristocrazia: vuole approfittare della debolezza della monarchia per condizionarla (e certamente va in questa direzione la convocazione degli Stati Generali, che l’assolutismo ha svuotato, non convocandoli più dal 1615), e al contempo difendere e riaffermare i propri privilegi sia fiscali (l’esenzione dalla “taglia”, la principale imposta diretta, che colpiva le proprietà terriere del Terzo Stato) sia, per la nobiltà di toga, inerenti l’accesso alle cariche pubbliche (ancora ereditarie, cioè ad essa riservate): tutto questo si traduce in una specie di “rivolta nobiliare” che mette in moto tutto il processo rivoluzionario, nel 1789.

    Il Terzo Stato, cioè le diverse componenti della borghesia: Vuole ridimensionare sia l’assolutismo del sovrano sia i privilegi giuridici e fiscali di clero e aristocrazia, trasformando il sistema politico in una monarchia costituzionale basata sull’uguaglianza del diritto, e di conseguenza acquistare un peso politico e sociale corrispondente al proprio ruolo economico, di vero e proprio colonna portante della società francese (ciò che era efficacemente riassunto nell’incipit del pamphlet [=libello, opuscolo] dell’abate Sieyes Che cos’è il Terzo stato.

    Le masse popolari urbane: (anche se il libro non parla esplicitamente di loro, e si riferisce invece alle componenti borghesi e a quelle rurali del Terzo stato) E’ evidente che anche le masse popolari urbane condividono l’insofferenza verso i privilegi dei primi due Stati e il disagio per la tassazione che, esentando i ceti privilegiati, si basa soprattutto sulle imposte indirette, cioè sui consumi, come la gabella sul sale, che colpisce soprattutto i consumi popolari, e questo cresce a dismisura per la crisi economica del 1788-89.
    I contadini: Il malcontento contadino, più che nei confronti del monarca, visto per lo più con devozione e deferenza, si rivolge contro i diritti signorili, residui del passato feudale, che gravano su di loro (come la taglia sulle proprietà non nobiliari, il ventesimo, le bannalità e le corvées signorili, la decima ecclesiastica), e quel malcontento cresce a dismisura a causa di due anni di cattivi raccolti per la siccità, nel 1788-89.

     

    1. Periodo monarchico-costituzionale

    La Monarchia

    Obiettivi: si trova subito in posizione difensiva e cerca di “limitare i danni”, per mantenere il potere, condizionando l’assemblea con il diritto di veto sospensivo che la Costituzione gli assegna; nel 1791 sceglie la fuga, con l’obiettivo di combattere dall’estero la rivoluzione e di abbatterla; poi, nella primavera del 1792 il re appoggia l’idea girondina della guerra all’Austria e alla Prussia, ma con l’obiettivo di perderla, sempre con il fine di affossare la rivoluzione.

    Metodi: prima il re si dimostra incerto sulla posizione da prendere, poi si sposta sempre più apertamente su posizioni controrivoluzionarie, fino al tentativo di fuga e alla paradossale decisione di appoggiare una guerra con la finalità di perderla, cosa che scava una distanza incolmabile con la nazione, e questo porta alla rovina la monarchia, che viene travolta e abbattuta.

    Risultati ottenuti: il re riesce solo, con il suo diritto di veto sospensivo, a rallentare qualche provvedimento deciso dall’Assemblea Nazionale, ma di fatto non riesce ad incidere sul corso degli eventi, se non radicalizzandoli e perciò danneggiando se stesso fino alla propria completa rovina.

     

    Gli ordini privilegiati, in particolare l’aristocrazia.

    Obiettivi: l’aristocrazia, così come anche il clero, si trova spaccata tra una maggioranza arroccata nella difesa dei propri privilegi e una minoranza solidale con il Terzo Stato (al quale procura anche alcuni leader molto prestigiosi), e questa spaccatura la indebolisce. La maggioranza controrivoluzionaria, di fatto messa fuori causa già nell’agosto 1789, alimenterà con l’emigrazione i tentativi di sollevare le altre monarchie europee contro la rivoluzione, per stroncarla.

    Metodi: è proprio l’aristocrazia a dare avvio, incautamente, alla rivoluzione imponendo la convocazione degli Stati generali per limitare l’assolutismo e riaffermare i propri privilegi, ma ne risulta travolta, e non riesce più ad avere un ruolo, se non, come detto sopra, quello di cercare di spingere le altre monarchie alla guerra contro la Francia per stroncare la rivoluzione.

    Risultati ottenuti: disastrosi, dato che non ottiene nulla degli obiettivi che si era data, e perde tutto.

     

    Immagine5 Il Terzo Stato

    Obiettivi: gli stessi della fase prerivoluzionaria, cioè ridimensionare sia l’assolutismo del sovrano sia i privilegi giuridici e fiscali di clero e aristocrazia, trasformando il sistema politico assolutista in una monarchia costituzionale basata sull’uguaglianza del diritto; di conseguenza, acquistare un peso politico e sociale corrispondente al proprio ruolo economico. Dopo la fuga del re gli obiettivi per molti (non tutti) si radicalizzano in senso democratico e antimonarchico.

    Metodi: dopo la prova di forza del giuramento della Pallacorda e dell’auto-proclamazione ad Assemblea nazionale, che risulta vincente (anche per l’aiuto del popolo di Parigi con l’assalto alla Bastiglia), è protagonista di una intensa attività legislativa, a partire, in agosto ’89, dall’abolizione della feudalità e dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, prima all’interno dell’Assemblea Nazionale Costituente poi in quella Legislativa, e questa attività cambia profondamente la struttura giuridica, amministrativa ed economico-finanziaria dello Stato francese. Al di fuori delle assemblee sopra indicate, è protagonista di un dibattito politico molto acceso e molto partecipato, che soprattutto a Parigi si sviluppa in diversi ambiti: sulle piazze, nei salotti, nei circoli delle 48 sezioni elettorali della città, e in particolare in quei nuovi organismi che sono i club o circoli, che possiamo considerare gli antenati dei moderni partiti politici.

    Risultati ottenuti: certamente gli obiettivi iniziali vengono completamente ottenuti, ma diversi fattori, tra i quali la spinta delle masse popolari urbane e la fuga del re nel 1791, concorrono a radicalizzare le posizioni di una parte sempre più rilevante del Terzo Stato, che si sposta da iniziali posizioni moderate e liberali a posizioni più radicali, democratiche e antimonarchiche, cioè repubblicane, fino ad ottenere la caduta della monarchia e la proclamazione della repubblica, nel settembre 1792.

     

    Immagine4 Le masse popolari urbane, in particolare il popolo di Parigi

    Obiettivi: difendere le posizioni del Terzo Stato e rilanciarle, contro l’assolutismo e i privilegi aristocratici, con violente manifestazioni di piazza a altri atti di forza; poi, dopo la fuga del re e l’inizio della guerra, nel ’92, gli obiettivi si radicalizzano, sotto la spinta del movimento dei sanculotti, rappresentato soprattutto dal club dei Cordiglieri: i nuovi obiettivi diventano la repubblica, il suffragio universale, la repressione dei controrivoluzionari, e drastiche misure economiche in senso dirigista ed egualitario.

    Metodi: grandi manifestazioni collettive e azioni di forza: l’assalto alla Bastiglia del 14 luglio ’89, la marcia delle donne su Versailles nell’ottobre, i massacri dei controrivoluzionari incarcerati nel settembre ’92.

    Risultati: tutte le azioni sopra citate hanno l’effetto di spostare a sinistra gli equilibri politici, facendo sì che anche i borghesi di orientamento giacobino radicalizzino sempre più le loro posizioni, per avere il sostegno delle masse popolari urbane.

     

    I contadini

    Obiettivi: partiti da obiettivi difensivi, cioè mossi dalla cosiddetta “Grande Paura” della violenza degli aristocratici, con la loro rivolta antifeudale vogliono eliminare i residui dei privilegi feudali ed estendere la piccola e media proprietà contadina, contro l’aristocrazia; e ridurre il peso del fisco, che grava in gran parte su di loro, anche a causa delle esenzioni dei ceti privilegiati.

    Metodi: la loro rivolta anti-feudale, a differenza delle jacqueries del passato, trova uno sbocco politico cioè rafforza l’azione dell’Assemblea nazionale e del popolo di Parigi, gli altri due soggetti rivoluzionari, coi quali si stabilisce di fatto un’alleanza. Dopo l’estate, una volta raggiunti i loro obiettivi, escono di scena come soggetto rivoluzionario, e l’epicentro del conflitto si sposta nelle città, specialmente a Parigi.

    Risultati: la loro rivolta antifeudale ha l’eccezionale risultato di spingere l’Assemblea, spaventata da quell’assalto ai castelli, al decreto del 4 agosto ’89 che dichiara integralmente abolito il sistema feudale, un risultato di enorme portata sul piano giuridico, sociale e simbolico.

     

    2. Periodo repubblicano – radicale

    I Girondini

    Obiettivi: questo club, che eredita di fatto il ruolo moderato esercitato dai Foglianti nella 1^ fase, sono liberali in politica e liberisti in economia, in quanto espressione soprattutto della borghesia imprenditoriale, per cui vogliono consolidare la rivoluzione ma evitarne gli eccessi, opporsi all’estremismo sanculotto, e per questo difendere il re nel processo che si apre contro di lui.

    Metodi: il loro leader Brissot è già stato a capo del governo nel 1791, quando ha lanciato la guerra contro Austria e Prussia, per consolidare la rivoluzione, ma in una alleanza paradossale con il re, il quale ha appoggiato la guerra sperando nella sconfitta che avrebbe abbattuto la rivoluzione. Dopo avere “coperto” la fuga del sovrano, dalla proclamazione della repubblica in poi i girondini si oppongono all’estremismo giacobino, e in questa prospettiva si battono per evitare la condanna a morte del re, all’inizio del 1793. Sconfitti su questo, i girondini si oppongono alle misure di emergenza prese nella prima parte del 1793 di fronte alla grave situazione militare (per la nuova guerra contro la prima coalizione antifrancese) ed economica, e di fronte alla guerra civile esplosa in Vandea.

    Risultati ottenuti: dopo avere imposto la loro linea nel 1792, nel 1793 vengono messi sempre più sulla difensiva finché in giugno un movimento di piazza dei Sanculotti impone alla Convenzione l’arresto e la condanna dei capi girondini, segnando la loro totale sconfitta e uscita di scena.

     

    I Giacobini (Montagnardi all’interno della Convenzione)

    Obiettivi: in origine erano contrari alla guerra promossa dal re e dai Girondini, proprio perché temevano la radicalizzazione che la guerra avrebbe provocato, e che essi non volevano. Poi, quando quella radicalizzazione si attua, con il crescente peso dei Sanculotti, essi decidono di assecondare tale tendenza, per mantenere l’alleanza con il movimento sanculotto, rappresentante del popolo di Parigi. Questo porta Robespierre, loro leader, a dominare il Comitato di Salute pubblica, dopo la violenta uscita di scena degli avversari girondini, e a inaugurare la politica del Terrore, cioè di fatto una dittatura, per salvare con misure drastiche la triplice emergenza in cui la Francia si trova nel 1793, cioè economico-finanziaria, militare e sociale (per la guerra civile in Vandea).

    Metodi: le misure estreme prese per fronteggiare la triplice emergenza, a partire dalla creazione di un Tribunale rivoluzionario e del Comitato di Salute pubblica che, sotto la guida di Robespierre, assume di fatto poteri di governo dittatoriali: queste misure sono la leva obbligatoria di massa per l’esercito, il controllo sull’economia, con il maximum (cioè il calmiere, o prezzo massimo) fissato sui prezzi e i salari e durissimi controlli contro gli accaparramenti; la messa in vendita dei beni degli emigrati (quasi tutti aristocratici); poi anche misure di laicizzazione e di vera e propria scristianizzazione (per combattere il clero refrattario e la Chiesa cattolica, nella quale il Papa ha condannato la rivoluzione), come la festa della Dea Ragione, un nuovo calendario laico e il culto dell’Essere supremo. Viene anche approvata una nuova Costituzione, molto più democratica di quella del 1791 (prevede il suffragio universale), ma non entra mai in vigore. La fase più estrema, che inaugura il cosiddetto Terrore, si ha da settembre 1793 con la legge sui sospetti, che porta alla ghigliottina nei mesi successivi circa 40.000 vittime, e la tremenda repressione della rivolta in Vandea. All’inizio del ’94 il Terrore diventa uno strumento di lotta politica con cui liquidare le opposizioni: prima gli estremisti di sinistra, i cosiddetti “Arrabbiati”, poi i moderati, cosiddetti “Indulgenti”, tra i quali Danton, in precedenza popolarissimo capo dei Cordiglieri e membro dei Comitato di Salute pubblica.

    Risultati: una volta che la triplice emergenza è stata superata, soprattutto quella militare contro i nemici esterni e contro i focolai controrivoluzionari, il clima di terrore e di arbitrio creato dal governo dittatoriale del Comitato di Salute pubblica diventa intollerabile, cosicché quando la Convenzione decide la destituzione, l’arresto e l’esecuzione senza processo di Robespierre e dei suoi più stretti collaboratori, non c’è alcuna reazione popolare.

     

    I Sanculotti, espressione delle masse popolari urbane, soprattutto di Parigi

    Obiettivi: questo movimento (composto da artigiani, operai, popolani), che viene rappresentato prima dal club dei Cordiglieri di Danton e Marat, poi dal gruppo degli Arrabbiati di Roux ed Hebert, si sposta su posizioni sempre più radicali sotto la spinta della crisi economica e della guerra. Dopo avere ottenuto la caduta della monarchia, poi la condanna a morte del re, poi la caduta dei Girondini, preme per misure sempre più severe sia di controllo dei prezzi (di fronte a una inflazione galoppante che affama le masse popolari) e di regolamentazione dell’economia, sia di repressione dei controrivoluzionari (veri e presunti) e di lotta agli aristocratici.

    Metodi: continuano ad agire come hanno fatto già dall’assalto alla Bastiglia, con agitazioni e manifestazioni di piazza, spesso violente, che incalzano la Convenzione ad assumere misure sempre più drastiche, fino al Grande Terrore, quando il bagno di sangue che esso provoca, e il venire meno dell’emergenza militare, fanno mutare atteggiamento, tanto che non si muovono di fronte alla svolta improvvisa che porta alla caduta di Robespierre.

    Risultati: con le azioni sopra descritte, ottengono tutti i risultati voluti sul piano del controllo politico, militare ed economico, cioè di fatto una dittatura, ma alla fine gli eccessi di questa politica provocano la caduta di Robespierre [e, come si vedrà poco dopo, un brusco arretramento degli equilibri politico-sociali, a favore delle classi abbienti e contro le masse popolari urbane].

     

    I contadini

    Obiettivi: tutti gli obiettivi dei contadini erano stati raggiunti già con il decreto del 4 agosto 1789 e con i successivi provvedimenti che ne avevano completato l’attuazione, eliminando i residui feudali e ampliando lo spazio per la piccola e media proprietà contadina. Molti contadini medio-agiati si erano anche avvantaggiati della vendita delle terre ecclesiastiche sequestrate, ma non i piccoli contadini, che anzi avevano visto i borghesi comprare la maggior parte di quelle terre [borghesi certo molto più “esigenti”, come proprietari, di quanto era il clero]. Nel seguito delle vicende, i contadini avevano smesso perciò di essere un soggetto rivoluzionario ed anzi, di fronte alla leva militare obbligatoria, alla persecuzione del clero refrattario, e poi alle misure di scristianizzazione, erano diventati un soggetto controrivoluzionario, soprattutto nelle remote regioni dell’Ovest, come in Vandea.

    Metodi: in Vandea e in altre regioni lontane dall’influenza della capitale e molto fedeli ai loro parroci cattolici, il rifiuto della politica attuata dal governo rivoluzionario dà luogo a vaste e accanite rivolte, con vere e proprie armate controrivoluzionarie, che vengono sconfitte a fatica.

    Risultati: le spietate repressioni con cui la rivolta in Vandea viene piegata, con la devastazione dell’intera regione, lasciano tracce profonde, e scavano una distanza incolmabile tra Parigi e la provincia rurale francese, tra città e campagna. Sul piano economico, però, il mondo contadino francese continua ad essere avvantaggiato dai provvedimenti di abolizione della feudalità e dall’ampliamento della proprietà contadina della terra.

  • La trilogia della crisi

    Passatempo, 14 agosto

    In Europa non si parla d’altro (facile pensare anche nel mondo, ma mi limito alle persone con le quali ho avuto a che fare negli ultimi tempi). La crisi. Ha il potere, questa parola, di trasformare in incubo tutto ciò che, in altri periodi, è un problema: i giovani, la disoccupazione, il futuro, l’ambiente, il debito pubblico e così via. La disoccupazione giovanile è un problema di oggi, nel sud? Da sempre, avremmo risposto quattro anni fa. Oggi no. Oggi ribattiamo quasi automaticamente: è una disoccupazione speciale. Oggi non ha speranza. Anche la politica italiana, per la quale “la crisi” è stata forse la parola corrente, dal dopoguerra in poi, assume toni apocalittici, quando paventa “la crisi in tempo di crisi”.

    La crisi annulla decenni di esperienze, di vissuti, di problemi affrontati, i sofferenze sopportate e superate. Annulla le differenze geografiche. Noi italiani abbiamo questo senso di angoscia, è vero, e leggiamo che lo stesso accade per gli spagnoli e i greci. Siamo i Pigs e ce lo meritiamo. Ma hanno paura, eccome, anche gli altri, i virtuosi che se la dovrebbero spassare, dagli olandesi ai tedeschi.

    La crisi ci mette a nudo, come le anime in attesa del Giudizio universale. Al punto che ci dobbiamo chiedere: quella di cui parliamo è la crisi, una delle crisi economiche (o di qualsiasi altro genere) che si sono periodicamente abbattute nel mondo contemporaneo (non parliamo naturalmente delle altre, più antiche, quelle di sussistenza, di penuria, di guerra:a peste, fame et bello libera nos domine, pregavano senza fermarsi i nostri avi). Parliamo, ascoltiamo, vediamo scene e dati di una crisi, oggetto storico, o della crisi “argomento politico-mediatico-retorico”? Non voglio affatto dire che la crisi non esiste ed è una bufala. Lasciamo queste volgarità ad altri. Vorrei, invece, avanzare l’ipotesi che quando parliamo di crisi, dentro questa parola ci mettiamo tante cose che non “appartengono a una crisi storica”. Ma appartengono all’uso pubblico e politico che di questa si fa e, dal momento che siamo in una società di una complessità estrema, anche all’uso pubblico che della “critica alla crisi” si fa.

    Tutto questo interessa chi fa storia e chi la insegna? Of course. Certamente. Natuerlich (non scriverò mai “assolutamente si”, ma cavolo, è quello che mi viene subito in testa). Gli storici hanno studiato le crisi. Le sanno ricondurre alla loro dimensione reale, una dimensione beninteso nella quale le favole e le storie inventate circolano e muovono soldi e persone con straordinaria efficacia. E i professori debbono insegnare le crisi, affinché i loro allievi abbiano gli strumenti intellettuali per comprendere, distinguere, orientarsi. Saranno i cittadini di domani, e dobbiamo sperare con forza che sappiano comportarsi meglio dei cittadini di oggi, i quali si arrangiano con strumenti intellettuali autoprodotti, misconcezioni economiche, sentiti dire, i dixit della tv e di internet e, infine, l’amico mio che sta in banca mi ha detto che. Fortunatamente per noi, gli insegnanti di storia coltivano (non tutti, quelli che leggono Historia Ludens sì, anche se non assolutamente) la speranza che questa umiliazione venga risparmiata ai cittadini prossimi.

    Così, per venire incontro a questi insegnanti, propongo due iniziative. Una piccola, di HL, e un’altra più grande e solida, dell’Insmli. Per la prima, sfogliate il sito. Vi troverete tre piccoli saggi di Massimiliano Lepratti sulle tre crisi (1929, 1973, 2008). Semplici, con esempi chiari. Possono essere uno strumento quasi manualistico da adoperare in classe, o per una rapida messa a punto di una storia economica che percorre e si intreccia profondamente con la storia del Novecento. Un modo anche per sintetizzarlo in tre battute forti, tre periodi, attorno ai quali costruire la programmazione di fine corso.

    Il secondo è la Summer School che si svolgerà a San Marino, dal 9 all’11 settembre. Abbiamo invitato tre storici italiani, Carlo Fumian, Marcello Flores, Giovanni Gozzini a parlarci rispettivamente delle tre crisi. Per ciascuna di esse, poi, con l’aiuto di dieci colleghi degli Istituti Storici cercheremo, con i partecipanti, di individuare i problemi didattici, le modalità migliori di insegnamento e di delineare dei progetti. E’ la Summer School denominata “Laboratorio del Tempo Presente”. L’idea di base è “trasformare in oggetto di insegnamento” tutto ciò che costituisce motivo di angoscia, di discussione pubblica. Cominciamo con la crisi, l’anno prossimo potremo parlare di guerre (è l’anniversario della Grande Guerra e dello Sbarco in Normandia e il settantesimo della Resistenza) e così via. (altre informazioni sul sito www.novecento.org)

     

    Le grandi crisi del mondo contemporaneo: 1929-1973-2008

     

    9-11 settembre 2013


    Repubblica di San Marino - Hotel San Giuseppe

     


     VIA DELLE FELCI, 3  47893 VALDRAGONE - REPUBBLICA DI SAN MARINO


    TEL. +378 (0)549 903 121 FAX +378 (0)549 907 595

    www.hotelsangiuseppe.sm - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

     

     

    Da inviare entro il 5 settembre 2013 a:
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  • Le Giornate civiche

    di Antonio Brusa

    Immagine1  Inizia lunedì 13 dicembre, all’IC6 di Modena, una sperimentazione di Educazione Civica diversa, credo, dalle moltissime che le scuole italiane stanno provando, trasformando a volte in un’occasione di crescita uno degli aspetti più deludenti della legge 92/2019, secondo il quale la nuova disciplina va insegnata senza oneri né personale aggiuntivi. Nella maggior parte delle situazioni che conosco, ogni materia ha riservato all’Educazione civica qualche ora, in modo da raggiungere le 33 previste. Molte di meno sono le scuole che hanno progettato formule diverse, come per esempio le “settimane di studio”, durante le quali tutte le discipline si concentrano su questo o quel tema.

    Il progetto modenese si articola in “Giornate civiche”. Tre ogni anno, ciascuna su un tema scelto all’interno di quelli segnalati dalle Linee Guida: ma non solo, come si vede dal programma di quest’anno che prevede una giornata dedicata a Memoria e Cittadinanza. Si ispirano, queste giornate, alla prima legge sull’EC italiana, quella promossa da Aldo Moro nel 1958. Secondo questa legge, l’EC è una disciplina ibrida che si articola su tre livelli:

    a. Quello istituzionale, della scuola come comunità di insegnanti e docenti

    b. Quello multidisciplinare, dal momento che l’Ec è una dimensione presente in ogni materia

    c. Quello specifico della storia, dal momento che la formazione del cittadino non può essere privata della dimensione politica, e quindi dell’analisi di istituzioni, ordinamenti e comportamenti, valori che nascono dentro la storia, e in particolare (sosteneva Moro) della storia contemporanea.

    Di conseguenza, il progetto prevede momenti nei quali la scuola “insieme” lavora sull’Ec e momenti separati di lavoro nelle classi. I tre temi, scelti per quest’anno, sono: i diritti umani, memoria e cittadinanza, la Terra. Ogni tema è gestito da un gruppo diverso di docenti, che approntano i materiali preparatori, danno le linee guida per le esercitazioni in classe e curano la valutazione delle prove finali. Ma la “lettura” dei temi, cioè il taglio da dare ad ogni intervento, è collettiva ed è centrata sulla storia. I “diritti umani” non nascono come funghi, partoriti da menti benevole, ma sono il frutto tormentato di rivolgimenti che attraversano l’intera vicenda umana. La Terra non è un soggetto separato dall’Umanità, che questa deve rispettare perché è ben educata, ma il luogo dove si è formata, dove vive e deve continuare a vivere. Così come le diverse giornate della Memoria possono essere accorpate in una riflessione comprensiva sul fatto che le politiche della memoria sono diventate uno degli strumenti più adoperati dagli stati, o da organizzazioni sovranazionali, come l’EU o l’ONU, per formare i propri cittadini.

    Ogni Giornata è preceduta da una fase preparatoria, svolta nelle singole classi, su materiali raccolti dal gruppo organizzatore. La giornata, poi, si scandisce in questo modo: una Lectio (che può essere svolta anche da esperti esterni) alla quale assistono tutte le classi (in tempo di Covid: parte in presenza, parte in remoto); una fase di discussione nelle proprie classi, coi propri docenti. In un giorno successivo si prevede l’elaborazione di un compito. Sono contemplate articolazioni differenti per la secondaria e per la primaria. Il tutto per undici ore di lavoro.

    Non so se il MI ha previsto un monitoraggio delle miriadi di soluzioni adottate dalle scuole. Sarebbe un’occasione unica per verificare le loro capacità organizzative e progettuali e quali sono le idee circolanti sull’EC. Per quanto riguarda questo progetto, una volta messo a punto, provvederemo a comunicarlo ai colleghi sia attraverso HL, sia nella rete LabSto21, che si occupa della messa in opera di un curricolo di storia (e ora anche di EC) concreto e sostenibile.

    Bibliografia

    Per quanto riguarda gli aspetti “teorici” di questa sperimentazione, si veda Antonio Brusa, Un’educazione civica critica. Il rapporto con la storia, in “Scuola Democratica”, 2021 https://www.rivisteweb.it/issn/1129-731X/issue/8212 . HL è intervenuta molte volte su questo tema. In particolare, per quanto riguarda l’analisi della legge 92, si veda Del Pasticcio dell’educazione civica e dei suoi legami ambigui con la storia http://www.historialudens.it/geostoria-e-cittadinanza/332-del-pasticcio-dell-educazione-civica-e-dei-suoi-legami-ambigui-con-la-storia.html
    Per informazioni scrivere a Simona Ansaloni: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

     

  • Mr. Jones e la lunga crisi del ‘29

    Autore: Massimiliano Lepratti

     

    Indice

    Prologo: Come funziona (e non funziona) l’Economia

    La crisi del 1929
    Una crisi da sottoconsumo
    Il contagio negli USA (la crisi diventa profonda)
    Il contagio all'estero (la crisi diventa ampia)

    Conclusione: la crisi diventa lunga


    Prologo: come funziona (e non funziona) l'economia

    Uno Stato non è una famiglia

    Per capire come funziona l'economia contemporanea e per capire come mai ogni tanto va in crisi profonda (1929, anni '70, oggi...) occorre prima di tutto dimenticarsi una tesi tanto accattivante  quanto errata: l'idea che per capire come funzioni  uno Stato basti fare il paragone con i conti di una famiglia. Questa idea poteva avere un maggior grado di approssimazione fino all'avvento del capitalismo, ma oggi non ha più senso per almeno due ragioni collegate: 1) all'interno di uno Stato esistono quattro soggetti, ciascuno dei quali agisce economicamente in modo molto differente dagli altri tre:  le banche, le imprese, le famiglie, le istituzioni pubbliche; 2) la famiglia è l'unico tra questi quattro soggetti che prima guadagna e poi spende, mentre tutti gli altri tendono a fare il contrario.

     

    I tre mercati dell'economia contemporanea

    Per capire come il punto 2) qui sopra non sia un paradosso, si proverà ad analizzare il funzionamento dell'impresa, ossia del soggetto chiave nell'economia contemporanea; lo si farà attraverso un viaggio lungo i tre mercati in cui si suddivide il mondo economico. Nel corso di questo breve viaggio, svolto negli USA alla vigilia della crisi del 1929, l'impresa incontrerà le banche e le famiglie (le istituzioni pubbliche per ora non verranno trattate), ciascuna nel proprio mercato.

     

    Il mercato finanziario

    Il primo ambito di incontro viene qui chiamato per semplicità mercato finanziario e vede come protagonisti da una parte un'impresa nascente, al cui titolare assegniamo il nome di Mr. Jones, e dall'altra parte una banca. Nel mercato finanziario in generale si comprano e si vendono pezzi di carta che pur non valendo nulla in sé, per convenzione rappresentano una ricchezza monetaria. Nel nostro esempio supponiamo di trovarci nel 1928 quando Mr Jones si ritrova ad aver bisogno di  1 milione di dollari in prestito monetario (ossia in pezzi di carta comunemente chiamati banconote) allo scopo di aprire una impresa che produca viti e bulloni. Il direttore della banca a cui il nostro uomo si è rivolto, nell'ascoltare la richiesta di Mr Jones si sforzerà di valutare se quel signore è credibile, ossia meritorio di credito, e nel caso in cui la risposta tenda al “sì” gli offrirà un prestito a determinate condizioni (supponiamo che queste siano: un tasso di interesse del 5%, un'ipoteca sulla casa in caso di insolvenza, un tempo di restituzione non superiore a 10 anni). Mr Jones a sua volta intraprenderà una trattativa di mercato, domandando tassi di interesse più bassi, garanzie inferiori, tempi di restituzione più lunghi. Nel caso in cui fra i due si arrivi a un accordo Mr Jones se ne tornerà felicemente a casa con il suo milione, fatto di pezzi di carta stampati forse ad hoc dalla Banca centrale statunitese e convenzionalmente capaci di comprare un sacco di cose.

     

    Il mercato dei beni e dei servizi

    A quel punto il nostro imprenditore dovrà recarsi sul mercato dei beni e dei servizi per iniziare a spendere parte di quel milione (spendendo, prima di aver guadagnato... appunto). Tra i molti mercati di beni e di servizi Mr. Jones sceglierà quelli in cui può trovare quanto gli serve per avviare la sua produzione di viti e bulloni (mercato dei capannoni, mercato dei macchinari che producono viti, mercato dell'acciaio...) e con ciascuno degli offerenti cercherà di spuntare  le condizioni migliori di prezzo, di tempi di consegna, di garanzie in caso di imprevisti (guasti...) etc.

     

    Il mercato del lavoro

    La terza e ultima tipologia di mercato attraverso cui Mr Jones dovrà viaggiare per avviare la sua attività è il mercato del lavoro, dove tratterà con alcune famiglie di statunitensi del 1928 domandando loro tot ore di lavoro giornaliero e offrendo in cambio un certo salario. Anche qui supponiamo che la trattativa con i lavoratori vada a buon fine, che Mr. Jones dopo un mese abbia speso un'altra parte del suo milione nei salari dovuti, e che dopo tre mesi abbia iniziato finalmente a vendere viti e bulloni. Immaginiamoci infine che all'alba dell'ottobre del 1929 Mr. Jones abbia venduto tante e tali viti e bulloni alle imprese automobilistiche statunitensi da aver guadagnato un sacco di soldi (per un totale cioè che superi la somma del milione ricevuto in prestito, degli interessi dovuti e dei soldi destinati  a pagare i lavoratori e le altre spese nei tre mesi successivi).
    A quel punto il bravo imprenditore potrà andare alla banca che gli ha permesso di indebitarsi e di iniziare il ciclo produttivo, per restituire le banconote avute. Così facendo la banca potrà prestare le stesse banconote a Mr. Smith i cui programmi a fine 1929 prevedono l'avvio di una fabbrica di pneumatici...

     

    Due precisazioni

    Prima di proseguire con la storia della crisi che sta abbattendosi su Mr Jones, Mr. Smith e tanti altri, sono opportune due precisazioni:

    1a precisazione: come si può desumere dal viaggio nei tre mercati, il nostro imprenditore ha speso soldi (per acquistare macchinari, lavoro dipendente etc.) prima di averli guadagnati con la vendita di viti e bulloni, ossia indebitandosi; lo stesso ha fatto la banca della sua città che si è fatta prestare dalla Banca centrale USA i soldi e li ha spesi, prestandoli a Mr Jones, ben prima di aver ricevuto da lui  il guadagno relativo agli interessi.

     

    Charles Ponzi era un immigrato italiano che arrivò in America nel 1919 con poche decine di dollari in tasca. Dopo pochi anni, riuscì a farsi accreditare come un mago della finanza. Donald Dunn ne racconta la storia e, insieme, spiega nel suo romanzo, l’atmosfera economica e mentale di quegli anni

     

    2a precisazione:  il mercato finanziario non è composto solo dal mercato creditizio (ossia dalle banche), ma anche dalle borse. Se Mr. Jones o Mr. Smith all'epoca avessero avuto tempo di allargare i loro affari, magari avrebbero pensato di trasformare la loro impresa in una società per azioni quotata in borsa. I vantaggi? La possibilità di sfuggire alle condizioni spesso difficili imposte dalle banche, e di chiedere invece ai risparmiatori (famiglie, investitori professionisti, altre imprese) un prestito, dando in cambio obbligazioni oppure azioni. Mentre le obbligazioni sono solo impegni a restituire prestito e interessi, le azioni fanno diventare gli acquirenti titolari di un pezzetto dell'impresa e se questa va bene danno diritto a una parte degli utili.


    La crisi del 1929

    Una crisi da sottoconsumo

    Una volta chiariti i meccanismi fondamentali entro i quali si muoveva il sistema economico europeo e statunitense dopo la prima guerra mondiale, è finalmente possibile analizzare cosa accadde alla fine del 1929.

     

    IL venerdi nero, il 26 ottobre del 1929, giorno in cui crollò la borsa di N.Y.


    La crisi del 1929 non fu la prima crisi conosciuta dal sistema capitalistico, ma fu la più lunga (storicamente), profonda (economicamente) e ampia (geograficamente) mai conosciuta nel secolo passato. Rispetto alle grandi crisi che la seguirono (quella degli anni '70 e quella iniziata nel 2008) ha avuto inoltre una caratteristica unica: è stata un'enorme crisi da sottoconsumo. La crisi da sottoconsumo è una variante specifica delle crisi da sovrapproduzione e si manifesta quando le persone smettono di acquistare perché non hanno soldi a sufficienza per farlo a causa di salari medi troppo bassi.

     

    L’esempio dell’industria automobilistica

    Il settore dell'industria automobilistica USA permette di rendere concreto questo ragionamento. Negli anni '20 il settore aveva conosciuto un grande slancio e aveva trascinato verso l'alto anche le industrie  collegate (le viti per i cofani di Mr Jones, gli pneumatici di Mr. Smith...). Lo slancio era dovuto a due fattori: a) da una parte  l'adozione del sistema di fabbrica taylorista (quello raccontato da Chaplin in Tempi Moderni) aveva aumentato notevolmente il numero di pezzi realizzati a parità di ore lavorative; b) dall'altra parte l'aumento di produttività e dei relativi profitti nell'industria automobilistica aveva attirato molti investitori, disponibili a prestare i propri risparmi affinché venissero utilizzati per ulteriori allargamenti del settore. Le banche e le borse ampliavano il fenomeno, invitando a convogliare depositi delle famiglie e acquisti di azioni verso l'ampliamento della produzione di automobili.

     

    Le famiglie non possono comprare l’auto

    Ma il problema del sottoconsumo era dietro l'angolo e iniziò a colpire  una volta che tutte le famiglie della borghesia statunitense si erano finalmente comprate a rate o in contanti la tanto agognata e tanto pubblicizzata automobile. A quel punto, sistemato quel numero tutto sommato non altissimo di acquirenti sufficientemente benestanti, a chi vendere le migliaia e migliaia di altri esemplari che le fabbriche scatenate continuavano a produrre? La risposta, qualche decina di anni e qualche grande battaglia sindacale dopo, avrebbe potuto essere: agli operai... ma nel 1929 vi era un problema fondamentale: i salari operai erano fermi, i  lavoratori non ricevevano sufficienti benefici dall'aumento di produttività e le loro disponibilità economiche erano troppo distanti  dal prezzo delle automobili che si moltiplicavano  invendute nei magazzini delle grandi industrie.

     

    Auto in svendita durante la Crisi

     

    Il contagio negli USA (la crisi diventa profonda)

    Ogni sistema economico è interrelato e il sistema capitalistico lo è assai più di quelli che lo avevano preceduto: i bassi salari operai e la conseguente crisi da sottoconsumo in un settore strategico come quello dell'automobile non potevano restare fenomeni senza conseguenze. Il contagio si mosse da subito verso due ambiti: 1) il resto dell'industria statunitense, 2) gli altri due mercati (finanziario e del lavoro).

     

    Il contagio

    1. il meccanismo del contagio tra settori industriali è intuitivo: se non si possono produrre altre automobili perché mancano gli acquirenti è evidente che anche chi produce parti di automobili (viti, pneumatici...) è destinato a chiudere.
    2. anche il meccanismo di contagio fra i diversi mercati diviene intuitivo se si segue lo schema con cui all'inizio abbiamo descritto la nascita dell'attività di Mr Jones. Supponiamo che, a differenza di quanto postulato qualche capoverso sopra, il nostro imprenditore sia stato colto dalla crisi dell'industria automobilistica prima di aver potuto restituire il prestito alla banca, e moltiplichiamo il suo caso per “n” volte. La banca in questione, in presenza di così tante “sofferenze” (ossia prestiti non più esigibili) nel corso del 1930 è destinata a fallire, scatenando ulteriori retroazioni: gli impiegati agli sportelli vengono licenziati  (contagio del mercato del lavoro) e la banca non è in grado di fornire nuovi prestiti ad industrie che con  l'ausilio di crediti aggiuntivi sarebbero riuscite a modificare la propria produzione e ad uscire dalla crisi. Anche queste industrie sono quindi destinate al fallimento e a lasciare a casa altri lavoratori, continuando l'effetto contagio (si calcola che tra il 1929 e  il 1932 la produzione industriale USA diminuì quasi del 50%!).

     

    Il domino catastrofico

    Ma il domino catastrofico non si ferma qua e prosegue, rafforzato dal mancato intervento dello Stato e dall'assenza di servizi sociali a tutela dei settori più deboli. Tutti i lavoratori licenziati di cui sopra di fatto sono obbligati a smettere di acquistare buona parte dei beni di consumo anche basilari, che prima potevano permettersi. La crisi di conseguenza si trasmette agli agricoltori che per vendere alimenti a  città rimaste senza  base economica devono abbattere i loro prezzi del 40, 50 o anche 60%, obbligandosi a loro volta a tagliare i propri consumi e a licenziare una parte dei lavoratori stagionali, senza avere più garanzie sufficienti ad ottenere nuovi prestiti bancari (Steinbeck in Furore ne ha parlato...).

     

    John Steinbeck raccontò la Crisi in Furore, romanzo tradotto in film nel 1940 (John Ford) e al cui protagonista, Tom Joad Bruce, Springsteen ha dedicato il suo album The Ghost of Tom Joad (1995)

     

    Dall'altro lato i piccoli e medi risparmiatori, che nelle città avevano investito i propri soldi nella borsa, si trovano dopo il 24 ottobre del 1929 (il famoso giovedì nero di Wall street) quasi senza quattrini risparmiati. A quest'ultimo esito nefasto avevano in gran parte contribuito gli speculatori finanziari, ossia coloro i quali intervenivano in quel settore del mercato finanziario che è la borsa, con atteggiamento rapace. Costoro infatti acquistavano azioni non per tenerle nel cassetto in attesa che l'impresa dividesse gli utili, ma per rivenderle rapidamente a prezzo maggiorato dopo aver deliberatamente messo in giro voci che presagivano futuri splendidi per le imprese rappresentate dalle azioni. Questo processo  speculativo provocò un aumento fittizio del valore dei titoli (non sostenuto da un parallelo aumento dei fatturati d'impresa), a cui nel giovedì nero seguì un brusco e profondo crollo, capace di rovinare buona parte dei piccoli e medi risparmiatori che il 24 ottobre si erano trovati con il cerino acceso in mano.

     

    Il contagio all'estero (la crisi diventa ampia)

    Se negli USA la crisi fu di una profondità mai vista nel '900, anche il resto del mondo ne fu toccato drammaticamente, con la sola eccezione dell'URSS che, costituitasi in sistema economico autonomo, di fatto negli anni '30 non aveva scambi economici con  gli USA. Il resto del mondo invece aveva all'epoca un grado di interconnessione molto alto con gli Stati Uniti sia nel mercato finanziario, sia nel mercato dei beni e dei servizi.

    Da un punto di vista finanziario la grande crisi si propagò a quei Paesi che avevano stretti rapporti di debito con gli Stati Uniti, a partire da quelli europei che si erano affidati all'aiuto economico degli USA dopo la Prima guerra mondiale. In tutti questi Paesi si verificò un vertiginoso aumento dei disoccupati e gli effetti furono particolarmente drammatici in Germania dove 6 milioni di senza lavoro in più, in un Paese già frustrato dalla guerra, diedero un importante aiuto all'ascesa al potere del nazismo.

    Anche per ciò che riguarda i mercati internazionali dei beni la crisi picchiò duro, in particolare verso quei Paesi che rifornivano di materie prime gli Stati Uniti.

     


    Georg Grosz ha ritratto in celebri disegni il contrasto fra ricchi e poveri e l’avvento di un nuovo ceto di sfruttatori nella Germania degli anni ‘20/30

     

    Conclusione: la crisi diventa lunga

    La profondità e l'ampiezza della crisi mondiale erano dei pessimi presupposti relativamente alla sua durata che infatti fu lunga e poté concludersi solo dopo il dramma della Seconda guerra mondiale. Un ingrediente che contribuì senza dubbio non solo ad originare il 1929, ma anche a spiegarne ampiezza e durata fu l'assenza di un intervento statale efficace. Se si eccettuano le politiche di impiego pubblico realizzate da Franklin Delano Roosevelt negli anni '30 (dimostratesi comunque insufficienti rispetto alla portata della crisi), l'atteggiamento degli Stati fu coerente con i principi del liberismo: una sostanziale inazione, giustificata dall'aspettativa che i mercati autonomamente ponessero fine ai problemi.

     

    John Maynard Keynes

     

    Sarà solo dopo la Seconda guerra mondiale che le idee di Lord Keynes, rivoluzioneranno il rapporto tra Stato ed economia. Secondo l'economista inglese lo Stato, al contrario della famiglia può indebitarsi anche parecchio per pagare stipendi ad insegnanti, medici, impiegati pubblici etc. perché costoro a loro volta spenderanno i soldi ricevuti per comprare elettrodomestici, automobili...  e a loro volta i venditori di automobili compreranno  viti,  bulloni, pneumatici, il cerchio si allargherà e tutti gli imprenditori attivati dal ciclo favorevole potranno pagare  una quantità di tasse che alla fine permetterà allo Stato di rientrare dal debito iniziale.

    Si chiama principio del moltiplicatore, ma se ne parlerà più diffusamente nell'introduzione allo scritto sulla crisi degli anni '70.

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