fascismo

  • Il concetto di cittadinanza dal Fascismo a oggi.  Le edizioni dell'Enciclopedia Treccani come fonte storica*

    di Antonio Prampolini

    I diversi concetti di cittadinanza

    Le enciclopedie pubblicate dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana dal 1929 ai giorni nostri hanno dedicato alla cittadinanza voci autoriali particolarmente significative. Voci che affrontano l’argomento nei suoi molteplici aspetti e problematiche, e che rappresentano gli orientamenti prevalenti o più rappresentativi della cultura accademica di un determinato momento storico.

    Nel Portale della Treccani, dove sono migrate dalla carta al web le enciclopedie dell’Istituto, è possibile accedere alle voci cittadinanza dell’Enciclopedia Italiana, dell’Enciclopedia delle Scienze Sociali e dell’Enciclopedia del Novecento, pubblicate durante un lungo arco temporale che va dal 1931 al 2004.

    1. La cittadinanza al tempo del fascismo: lo ius sanguinis

    L’Enciclopedia Italiana di scienze lettere e arti (promossa nel 1925 dal filosofo Giovanni Gentile e realizzata grazie al mecenatismo dell’industriale tessile bresciano Giovanni Treccani) pubblica nel 1931 (Vol. 10: Chib-Compe) la prima voce sull’argomento cittadinanza. La voce ha come autori due giuristi (Francesco Degni, studioso di diritto civile, ed Enrico Bèsta, storico del diritto italiano) e uno storico dell’antichità (Mario Attilio Lèvi).

    La voce è divisa in due parti: una relativa alla cittadinanza nella legislazione dell’Italia post-unitaria (dal codice civile del 1865 alla legge 108 del 31 gennaio 1926, dove il regime fascista prevedeva il caso di perdita della cittadinanza per indegnità), e l’altra, alla cittadinanza nel mondo antico, nel Medioevo e nell’età moderna.

    Dopo avere definito la cittadinanza come «l'appartenenza di una persona allo Stato» (una definizione che pone al centro lo Stato e non il cittadino con i suoi diritti), la voce illustra il principio dello ius sanguinis, alla base della legislazione italiana in materia, secondo il quale la cittadinanza viene trasmessa ai figli per derivazione paterna a prescindere dal luogo di nascita. Questo principio era già contenuto nel codice civile del 1865 (1° titolo, articoli 4-15) ed era stato confermato e disciplinato dalla legge 555 del 13 giugno 1912, che aveva introdotto una riforma complessiva e organica dell’istituto giuridico della cittadinanza.

    taliani emigrati in America: lo sbarco nel porto di New York all'inizio del '900Italiani emigrati in America: lo sbarco nel porto di New York all'inizio del '900

    Lo Stato italiano, all’indomani dell’unificazione, eredita dal Codice Albertino del 1837 (il codice civile del Regno di Sardegna) il principio della patrilinearità, svincolandolo però dal confessionalismo sabaudo, che legava la capacità giuridica dei singoli all’appartenenza alla religione cattolica. Inoltre, riafferma, con il Codice civile del 1865, la disuguaglianza di genere (già presente nel Codice napoleonico del 1804) che attribuiva alle donne sposate la cittadinanza del marito. Un’attribuzione in forza di legge che rientrava in una più ampia subalternità femminile, espressione di un modello antropologico che confinava la donna nell’ambito “naturale” della famiglia, escludendola dalla sfera pubblica.

    L’adozione nella legislazione italiana dello ius sanguinis era servita a procurare ai cittadini del nuovo stato unitario un senso di appartenenza “nazionale”, capace di superare le varie frammentazioni territoriali e di guadagnare il consenso e l’inclusione delle élites locali.1

    2. Cittadinanza ed emigrazione. Lo ius loci

    La voce enciclopedica ricorda come le mutate condizioni politiche e sociali dell'Italia all’inizio del Novecento, e, in particolare, l'imponente fenomeno dell'emigrazione transoceanica, avevano reso inadeguate le disposizioni relative alla cittadinanza previste dal Codice civile del 1865 e avevano imposto di affrontare la materia alla luce delle nuove problematiche con l’obiettivo principale di evitare la perdita della cittadinanza del paese d’origine da parte degli italiani che si trasferivano o nascevano in paesi dove la cittadinanza era disciplinata da altre norme fondate sul principio dello ius soli o ius loci.2

    L’emigrazione viene allora vista non più solo quale fenomeno sociale espressione di un profondo disagio economico, di una diffusa povertà, ma anche come uno strumento utile ad una politica nazionale espansionistica, soprattutto verso i paesi dell’America meridionale. E in questo quadro va collocata la legge 555 del 13 giugno 1912, nata in età giolittiana.

    3. La revoca della cittadinanza e le cittadinanze disuguali

    Il regime fascista eredita la legislazione precedente in materia di cittadinanza e, con la legge 108 del 31 gennaio 1926, introduce nel nostro ordinamento giuridico la perdita della cittadinanza per indegnità. Una disposizione di legge, non contemplata dalla precedente normativa, finalizzata a colpire gli oppositori del regime che si erano rifugiati all’estero e che, stando alla lettera della legge, «commettono o hanno concorso a commettere un fatto diretto a turbare l'ordine pubblico nel regno, o da cui possa derivare danno agli interessi italiani o diminuzione del buon nome o del prestigio dell'Italia, anche se il fatto non costituisca reato».3

    Alla sanzione della perdita della cittadinanza potevano seguire: la decadenza dal diritto a conseguire o a godere pensioni, trattamenti di fine rapporto, e il sequestro con la confisca dei beni nei casi più gravi.

    Nessun accenno nella voce enciclopedica alla questione dell’attribuzione della cittadinanza italiana ai nativi delle colonie. Non viene, ad esempio, citata la legge n. 1013 del 26 giugno 1927 che modificava le norme introdotte nel 1919, che consentivano ai nativi libici di richiedere e acquisire la cittadinanza italiana. Con la legge 1013, il regime fascista cancellava l’eguaglianza giuridica tra i cittadini italiani delle colonie della Tripolitania e della Cirenaica e i cittadini metropolitani, sostituendola con un’uguaglianza subalterna dei cittadini coloniali tra di loro.4

    La parte della voce enciclopedica relativa alla storia della cittadinanza, curata da Mario Attilio Lèvi, si concentra sulle polis dell’antica Grecia e sulla Roma repubblicana e imperiale. La Rivoluzione francese e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 vengono citate solo di sfuggita, in modo del tutto inadeguato rispetto al loro contributo fondamentale all’evoluzione del concetto di cittadinanza e all’esercizio dei diritti connessi. Contributo che, ovviamente, non poteva essere sottolineato nel clima culturale e politico dominante a quel tempo. È noto che il fascismo rifiutava la tradizione liberal-democratica e si opponeva all’affermazione dei diritti individuali dei cittadini.

    4. Cittadinanza e razzismo

    La Prima Appendice dell’Enciclopedia Italiana, pubblicata nel 1938, contiene un aggiornamento della voce cittadinanza alla luce delle modifiche/integrazioni introdotte dal regime fascista nella legislazione in materia.

    L’aggiornamento, che porta la firma di Francesco Degni elenca, da un lato, le norme in materia di revoca della cittadinanza italiana per indegnità derivante da “condotta politica”, con le relative sanzioni economiche, dall’altro, le leggi che, all’opposto, in un’ottica nazionalistica, sono state emanate dal regime fascista sia per favorire la concessione della cittadinanza italiana e il suo riacquisto, sia per limitare i casi in cui era prevista la sua perdita (salvo quello della “indegnità” per ragioni politiche). La cittadinanza viene perciò utilizzata dal regime fascista come strumento al servizio di una politica di espansionismo nazionalistico e di repressione e di esclusione nei confronti degli antifascisti.

    L’aggiornamento della voce cittadinanza essendo stato scritto prima dell’emanazione delle leggi razziali non contiene, ovviamente, alcun riferimento alle loro conseguenze sul diritto di cittadinanza. La revoca delle concessioni agli ebrei stranieri della cittadinanza italiana successive al 1° gennaio 1919 viene prevista nel novembre del 1938 dal decreto legge intitolato Provvedimenti per la difesa della razza italiana (articolo 23 del Regio Decreto Legge n. 1728 del 17 novembre 1938).5

    Francesco Degni commenterà in un suo trattato di diritto civile (pubblicato nel 1939, un anno dopo l’emanazione delle leggi razziali) la nuova formulazione dell’articolo 1 del Libro Primo, Delle persone e della famiglia, del Codice civile (che prevedeva, rimandando a leggi speciali, limitazioni alla capacità giuridica delle persone sulla base della loro appartenenza a determinate razze) con queste parole:

    «[...] il problema della razza si è imposto all’attenzione dello Stato fascista come uno dei caposaldi della sua organizzazione e dei suoi fini, per garantire e difendere la purità della stirpe, per assicurare il prestigio, l’indipendenza, la forza. […] La politica razziale, secondo le direttive del Gran Consiglio del Fascismo, non poteva più consentire che l’appartenenza ad una piuttosto che a un’altra razza non fosse elemento giuridico rilevante nella determinazione della sfera della capacità giuridica dei soggetti. L’uguaglianza di trattamento tra ariani e non ariani non poteva essere più consentita in un’organizzazione sociale nella quale è dominante il principio della difesa della razza pura».6

    5. La cittadinanza post-bellica e il Welfare State

    Dopo l’aggiornamento del 1938 sulla voce del 1931 dell’Enciclopedia italiana, occorre attendere fino al 1991 per trovare una nuova voce dedicata alla cittadinanza nelle enciclopedie della Treccani. L’Enciclopedia delle Scienze Sociali pubblica in quell’anno un saggio dedicato al tema che ha come autore il sociologo americano John Bendix. E non è un caso che la voce sia stata affidata ad un sociologo. Se fino alla Seconda guerra mondiale, la cittadinanza era stata studiata quasi esclusivamente in una prospettiva storico-filosofico-giuridica, nei decenni successivi sarà la sociologia ad occuparsene in modo sistematico.

    La principale opera di riferimento nello studio contemporaneo del concetto di cittadinanza è Citizenship and Social Class (Cittadinanza e Classe sociale) del sociologo inglese Thomas Humphrey Marshall (nato nel 1893 e morto nel 1981) pubblicata nel 1950, dove l’autore rielabora la nozione moderna di cittadinanza alla luce della storia politica e sociale dell'Inghilterra, dalla rivoluzione industriale del XVIII secolo alla nascita del Welfare State negli anni quaranta del Novecento.7

    Il contributo di Marshall si inserisce in un momento storico segnato dal trauma della Seconda guerra mondiale e dal progetto di protezione sociale del governo britannico noto come Piano Beveridge dal nome del suo ideatore, l’economista Lord William Henry Beveridge, che nel 1942 aveva redatto un rapporto sulla "sicurezza sociale e i servizi relativi".8

    Marshall, che definisce la cittadinanza come «lo status che viene conferito a coloro che sono membri a pieno diritto di una comunità», propone una suddivisione dei diritti dei cittadini in tre categorie: civili, politici e sociali. Per il sociologo inglese la storia rivela un lento processo in cui la cittadinanza fa propri progressivamente tali diritti: nel corso del secolo XVIII, quelli civili (i diritti necessari alla libertà individuale: i diritti di parola, di pensiero, di proprietà, di giustizia), nel corso del XIX secolo, quelli politici (il diritto dei cittadini a partecipare alla vita politica nelle sue varie forme e nei diversi ruoli: di eleggere i propri rappresentanti e di essere eletti o nominati a ricoprire incarichi pubblici) e infine nel XX secolo, quelli sociali (i diritti all’istruzione scolastica, all’assistenza sanitaria, alla previdenza pubblica, al lavoro) ovvero, con le parole dello stesso Marshall: «tutta la gamma di diritti che va da un minimo di benessere e di sicurezza economici fino al diritto a partecipare pienamente al retaggio sociale e a vivere la vita di persona civile, secondo i canoni vigenti nella società».

    6. Cittadinanza e disuguaglianza sociale

    Il riconoscimento di queste tre categorie di diritti è legato alla parallela evoluzione dello Stato moderno; ad ogni tipologia di diritti, infatti, corrispondono istituzioni/enti pubblici finalizzati al loro esercizio, tutela e salvaguardia. Per Marshall, solo l’eguale partecipazione dei cittadini a tali diritti (e in particolare a quelli sociali) è in grado di creare identità e appartenenza alla comunità. Come egli afferma: «la disuguaglianza del sistema delle classi sociali [nel mondo occidentale ad economia capitalistica] può essere accettabile solo nella misura in cui viene riconosciuta l'uguaglianza della cittadinanza [ovvero dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini]».

    La voce dell’Enciclopedia delle Scienze Sociali scritta dal sociologo americano John Bendix riflette nell’analisi della cittadinanza moderna e dei suoi problemi la centralità del pensiero/dell’approccio marshalliano.

    Nella ricostruzione della storia della cittadinanza, la Rivoluzione francese e i filosofi dell’illuminismo, ignorati nella voce della Enciclopedia Italiana del 1931, ritrovano qui tutta la loro importanza e rilievo storico. È con la Rivoluzione francese che nasce la cittadinanza moderna ridefinita sulla base di concetti come quelli di libertà, diritti, eguaglianza, nazione e stato. Nessun riferimento, invece, alla legislazione italiana, che nella voce del 1931 costituiva il capitolo principale; la voce scritta da John Bendix non si occupa degli aspetti normativi, ma è focalizzata sul concetto moderno di cittadinanza e sulla sua dimensione sociologica.

    Gli obiettivi della cittadinanza globaleGli obiettivi della cittadinanza globale

    7. La cittadinanza democratico-sociale

    La VI Appendice dell’Enciclopedia Italiana, pubblicata nell’anno 2000, contiene una nuova voce sulla cittadinanza. Autore della voce è Danilo Zolo.

    Zolo è stato (è morto nel 2018) un giurista e filosofo italiano, con una vasta esperienza internazionale e un forte impegno umanitario. Allievo di Norberto Bobbio, ha insegnato per molti anni filosofia del diritto all’Università di Firenze e ha pubblicato numerose opere sulla democrazia, sui diritti umani, sulla guerra e sulla pace, sui problemi della globalizzazione. Nel 2001 ha fondato il Centro per la filosofia del diritto Internazionale e delle politiche globali Jura Gentium. Il Centro pubblica un’omonima rivista oltre ad una collana di monografie, ed è presente in Rete con un proprio sito web che permette di accedere ad una ricca documentazione sui numerosi temi affrontati nel corso degli anni dalla sua fondazione a oggi.9

    La voce enciclopedica si concentra sulla cittadinanza intesa nel suo significato teorico-politico (quale «complesso di diritti garantiti a chi è membro a pieno titolo di un gruppo sociale organizzato»), distinguendo tre concezioni interne alla tradizione occidentale: la concezione classica risalente alla cultura politica greco-romana; la concezione moderna, prima assolutistica e poi liberale, collegata alla nascita e allo sviluppo degli stati nazionali in Europa; e, infine, la concezione democratico-sociale, che si afferma parallelamente alla formazione e crescita, fra Ottocento e Novecento, dei partiti democratici e socialisti, del movimento sindacale, all’estensione del suffragio elettorale e infine alla realizzazione del Welfare State, prima nei paesi anglosassoni e poi nell’Europa continentale.

    Analizzando, in particolare, la concezione democratico-sociale della cittadinanza, che ha in Thomas Marshall il maggior teorico, Zolo prende in esame le critiche a tale concezione. Tra i critici dell’idea marshalliana di cittadinanza, e in particolare del suo “ottimismo evolutivo”, Zolo cita il sociologo e politologo inglese Anthony Giddens e il sociologo australiano Jack Barbalet.10

    Giddens aveva rimproverato a Marshall di presentare «l’affermazione dei diritti di cittadinanza come un processo graduale, favorito dallo sviluppo delle istituzioni di mercato e dalla protezione dello Stato e non invece come un esito del conflitto sociale e politico».

    Per Barbalet, l’impostazione marshalliana «impedisce di cogliere le tensioni interne ai diritti di cittadinanza, in particolare quella fra i diritti civili (come la libertà di stampa, di associazione, il diritto di proprietà) il cui esercizio produce potere a favore dei titolari, e i diritti sociali che sono dei semplici diritti di consumo, e che pertanto non attribuisco alcun potere ai loro fruitori». Oltre a ciò, i diritti sociali, per il loro costo molto elevato, che incide pesantemente sulla fiscalità pubblica, «presentano un carattere aleatorio nettamente superiore rispetto alle prestazioni procedurali poste a presidio dei diritti civili e dei diritti politici».

    Zolo, in conclusione, sottolinea come l’impostazione marshalliana e il suo ottimismo evolutivo socialdemocratico, oggi, non siano più adeguati a interpretare le dinamiche e le problematiche contemporanee della cittadinanza, alla luce della rivendicazione di nuovi diritti (dalla parità di genere alla libertà sessuale, dall’integrità biologica e psichica alla tutela dell’ambiente), dei processi di globalizzazione, delle crisi degli Stati sovrani (con la contemporanea esplosione di particolarismi etnici e territoriali) e, in particolare, dei recenti fenomeni migratori di massa dalle aree del pianeta più povere, senza prospettive di sviluppo e ad alto tasso di crescita demografica, a quelle più ricche e socialmente evolute.

    A parere di Zolo, oggi, le “democrazie del benessere” occidentali sono entrate in una fase di “regressione politica” per cui: «la cittadinanza torna ad essere un dato formale con una connessione sempre più incerta con i diritti dei cittadini, con la loro dignità e autonomia, con il loro sentimento di solidarietà e di appartenenza a una comunità politica. La cittadinanza tende a divenire una pura ascrizione anagrafica che sopravvive come strumento di discriminazione dei non cittadini».11

    8. Cittadinanza e identità

    Nel 2004, l’Enciclopedia del Novecento (III Supplemento) pubblica, a firma dello storico del diritto Pietro Costa, un’ampia voce sulla cittadinanza.

    Costa è autore di numerose pubblicazioni sull’argomento e, in particolare, di una Storia della cittadinanza in Europa (dal Medioevo all’età contemporanea).12

    Per Costa il termine cittadinanza, al di là degli impieghi puramente retorici, «serve a colmare una sorta di vuoto lessicale e concettuale» permettendo di tematizzare e di mettere a fuoco «il rapporto fra un individuo e l’ordine politico-giuridico nel quale egli si inserisce».

    Nel primo capitolo, dedicato alla nuova accezione del termine cittadinanza, Costa, dopo aver sottolineato che nel passato, l’espressione cittadinanza era stata utilizzata per indicare l’appartenenza di un soggetto all’uno o all’altro Stato nazionale (per cui i problemi teorici ad essa legati si riducevano alla perdita o all’acquisto della qualità di “cittadino” di un determinato Stato), riconosce che: «un impulso determinante a dilatare il senso del termine cittadinanza [focalizzando l’attenzione sui diritti] è venuto dal saggio Citizenship and social class di Thomas Marshall», e osserva che: «il successo recente della nozione di cittadinanza, che pure si ricongiunge idealmente alle pagine del sociologo inglese, trae alimento da un clima politico-culturale sensibilmente diverso, caratterizzato, per un verso, dal declino o almeno dalla crisi dello “Stato sociale” e, per un altro verso, dal collasso (non solo politico ma anche teorico) del marxismo».

    Questo nuovo contesto impone, per Costa, una “rielaborazione e ridefinizione” della nozione di cittadinanza, i cui nodi tematici sono tre: i diritti, i soggetti, l'appartenenza (l’identità).

    La rappresentazione e l’attribuzione dei diritti, il loro nesso con la cittadinanza, a parere di Costa, costituiscono una chiave di lettura indispensabile per intendere il rapporto fra l’individuo e la comunità politica. Così pure la caratterizzazione politico-giuridica dei soggetti. «Parlare di cittadinanza significa concentrare l'attenzione sul soggetto [...] È l'attribuzione di alcune qualità [osserva Costa] a una determinata classe di soggetti che rende possibile il riconoscimento di quei soggetti come membri di una certa comunità politica e, viceversa, è la drammatizzazione delle differenze, la costruzione di classi di soggetti essenzialmente diverse che sorregge i dispositivi di disconoscimento e di esclusione».

    Nell’appartenenza-partecipazione a una comunità politica (nell’identificazione con essa) i soggetti vedono definito il loro status, l’insieme delle prerogative e degli oneri che caratterizzano la loro condizione politico-sociale. L’appartenenza (l’identità), come i soggetti e i diritti, è perciò un’essenziale articolazione del concetto di cittadinanza. «Fare storia della cittadinanza [per Pietro Costa] significa guardare al costituirsi dell'ordine sociale dal basso verso l'alto, facendo leva non sul potere statuale, sugli apparati, sui sistemi normativi, sulle strutture sociali, ma sul soggetto e sulle strategie di riconoscimento della sua identità».13

     

    * L’articolo è parte di una relazione presentata dall'autore al corso di formazione per insegnanti. L’Europa nel mondo contemporaneo e i dilemmi del presente. Per una didattica dell’UE e della cittadinanza europea, seconda edizione a.a. 2019-20, Università degli Studi di Bari Aldo Moro, 15-17 novembre 2019.

     

    Note

    1. Per un approfondimento sulla legislazione italiana in materia di cittadinanza: Tommaso Aucello, La cittadinanza italiana e la sua evoluzione, in «Rivista di Diritto e Storia Costituzionale del Risorgimento», n. 1/2017; Vito Francesco Gironda, Ius sanguinis o Ius Soli? Riflessioni sulla storia politica della cittadinanza in Italia.

    2. Sul rapporto tra emigrazione e cittadinanza in Italia: Ferruccio Pastore, La comunità sbilanciata. Diritto alla cittadinanza e politiche migratorie nell’Italia post-unitaria; Guido Tintori 2006.

    3. Articolo unico della legge n. 108/1926.

    4. Sull’argomento si veda: Florence Renucci, La strumentalizzazione del concetto di cittadinanza in Libia negli anni Trenta, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2005, n°33-34, pp. 319-342.

    5. Sulle leggi razziali in Italia, in una prospettiva didattica.

    6. Cfr. Francesco Degni, Le persone fisiche e i diritti della personalità, Torino, 1939, p. 45.

    7. Per un approfondimento: Sandro Mezzadra, Diritti di cittadinanza e Welfare State. Citizenship and Social Class di T.H. Marshall cinquantanni dopo, Introduzione a Cittadinanza e classe sociale di T.H. Marshall, Laterza, Roma-Bari, 2002; Unico Rossi, La cittadinanza oggi. Elementi di discussione dopo Thomas H. Marshall, (2000); Pippo Russo, Cittadinanza.

    8. Sull’argomento: Ugo Ascoli, David Benassi, Enzo Mingione, Alle origini del welfare state, Franco Angeli, Milano, 2010; Lucio Villari, Quel piano Beveridge che pare scritto oggi, in «Repubblica», 28 gennaio 2013

    9. Informazioni bio-bibliografiche sull’autore.

    10. Informazioni bio-bibliografiche sui due sociologi: Giddens, Barbalet

    11. Danilo Zolo, Da cittadini a sudditi. La cittadinanza politica vanificata, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2007, p. 5.

    12. Bibliografia completa delle opere di Pietro Costa.

    13. Pietro Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, Vol. 1 (Dalla civiltà comunale al Settecento), Laterza, Roma-Bari, 1999, p. VIII.

  • La storia alla radio: i podcast di storia della Rai. Da Napoleone al Muro di Berlino

    di Antonio Prampolini

    La storia non solo possiamo “leggerla” sui libri, le riviste e i giornali (in formato cartaceo o digitale), “guardarla” al cinema, alla televisione o sui video, che circolano numerosi in Internet, ma possiamo anche “ascoltarla” nelle registrazioni audio.

    Nei podcast, come ha osservato acutamente Enrica Salvatori, sottolineandone le potenzialità, «la narrazione storica viene “recitata”, riportata alla dimensione uditiva, che in quanto tale ha stili, effetti speciali, pause e ritmi suoi propri» funzionali ad una comunicazione più partecipata e coinvolgente dei contenuti.

  • La Visual History. Che cos’è e quali storie ci fa conoscere

    di Antonio Prampolini

    PARTE PRIMA: SITOGRAFIA DELLE FONTI E DEI TEMI DI INDAGINE*

    1. Che cos’è la Visual History

    Innanzitutto, che cosa è la Visual History ? Navigando in Internet, una prima risposta la possiamo trovare nelle enciclopedie online.

    Docupedia-Zeitgeschichte (Docupedia – Storia Contemporanea), l’enciclopedia open access del Centro per la Ricerca di Storia Contemporanea di Potsdam (Leibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung Potsdam ZZF) contiene una voce autoriale, a firma Gerhard Paul, dedicata specificatamente alla Visual History.

    Paul, che è uno dei più noti specialisti della Visual History nell’ambito della storia contemporanea, sottolinea come nel corso del primo ventennio del nostro secolo si sia verificato un cambio di paradigma negli studi storici, favorito dalle nuove possibilità offerte dalla rivoluzione digitale e dal Web. Questo cambio ha portato al pieno riconoscimento dell’importanza delle fonti visive. Ha incentivato, soprattutto tra gli storici più giovani, lo studio delle immagini intese non solo come una delle possibili fonti della storia (insieme alle fonti scritte e a quelle orali), ma come oggetti che meritano un’indagine storiografica autonoma poiché condizionano i modi di vedere, percepire, rappresentare e comunicare la realtà.

    In questo nuovo quadro si afferma la Visual History: l’indagine sul ruolo delle immagini nella storia, attraverso un approccio multi e transdisciplinare, che utilizza i criteri e i metodi della storia dell’arte, dell’antropologia, della psicologia e della sociologia.

    Secondo Paul, la Visual History dovrebbe porre al centro delle proprie ricerche la «forza generativa delle immagini» (Bilder als generative Kräfte) poiché esse non solo riflettono la storia, ma anche la influenzano e la determinano.

    «Le immagini, [egli osserva] sono più che fonti che si riferiscono a un fatto o evento al di fuori della propria esistenza; sono più che media che usano il loro potenziale estetico per trasmettere interpretazioni [della realtà]. Le immagini hanno anche la capacità di creare prima di tutto realtà, sono dotate di una potenza energetica e generativa».

    La storia visiva del XX e dell'inizio del XXI secolo dovrebbe, pertanto, a suo parere, dedicare maggiore attenzione a questo potere energetico/generativo delle immagini.

    «I movimenti totalitari hanno ripetutamente e intenzionalmente fatto uso del potere energetico/generativo delle immagini nella storia del Novecento. Le immagini del nemico, dell'ebreo nella propaganda antisemita della "soluzione finale" dei nazisti, la messa in scena di manifestazioni di massa (così come oggi quelle dello straniero o dell'islamista) hanno sempre rappresentato [e rappresentano] un invito all'azione».

    La voce Visual Historydi Docupedia, disponibile oltre che in lingua tedesca (versione 3.0, 13/03/2014) anche in lingua inglese (versione 1.0, 07/11/2011), è un testo consistente e ben articolato che comprende diversi capitoli:

    • La storia nel Visual Turn (Die Geschichtswissenschaft im Visual Turn);
    • Immagini come fonti (Bilder als Quellen);
    • Immagini come media (Bilder als Medien);
    • Immagini come forze generative (Bilder als generative Kräfte);
    • Visual History come campo di ricerca transdisciplinare (Visual History als transdisziplinäres Forschungsfeld);
    • Critica e prospettive (Zustimmung, Kritik, Perspektiven);
    • Bibliografia(Empfohlene Literatur zum Thema).

    In Wikipedia troviamo la voce Visual History non nell’edizione in lingua inglese (come ci si aspetterebbe) ma nell’edizione in lingua tedesca.

    In questa edizione linguistica, la Visual History viene definita come la disciplina che «considera le immagini sia come fonti che come oggetti indipendenti della ricerca storica»; immagini che possono essere sia statiche che dinamiche, analogiche che digitali. Una disciplina che combina i metodi analitici della storia dell’arte, della filosofia, dell’antropologia, dell’etnologia e della sociologia dei media.

    La voce enciclopedica (che, a giudicare dall’argomento e dalla qualità della sua trattazione, è stata scritta da specialisti della materia, anche se in anonimato) analizza il contributo degli storici tedeschi alla Visual History, soffermandosi in particolare sugli studi e le ricerche di Gerhard Paul (l’autore della voce in Docupedia) e Heike Talkenberger, e sull’influenza del modello d’indagine storico-artistica sviluppato da Erwin Panofsky.

    Di Paul vengono presi in esame i tre livelli fondamentali della Visual History; vale a dire la ricerca storica sulle immagini intese come:

    • fonti,
    • media,
    • “forze generative” autonome.

    Di Talkenbergervengono descritti gli approcci all'analisi delle immagini (che dovrebbero essere combinati in modo flessibile):

    • l’approccio di storia della cultura materiale;
    • l’approccio semiotico, focalizzato sul simbolismo dell'immagine e sulla sua funzione comunicativa;
    • l’approccio della ricezione estetica,per indagare il significato attribuito alle immagini dai destinatari dei messaggi visivi.

    Del modello di indagine storico artistica di Erwin Panofsky vengono richiamati i tre “passi iconologici(ikonologischen Dreischritts):

    • la descrizione preiconografica: l’esame della struttura dell’immagine e del suo contenuto;
    • l’analisi iconografica: la decodifica del sistema di riferimenti e dei significati interni all’opera pittorica;
    • l'interpretazione iconologica: la ricerca del significato socio-culturale dell'immagine.

    La voce, molto consistente (la versione stampabile alla data del 22/01/2021 è di 17 pagine in formato A/4), è suddivisa nei seguenti capitoli:

    L’edizione in lingua francese di Wikipedia riporta la voce Histoire du visuel.

    Questa voce definisce la “nuova” disciplina storiografica come quella che ha per oggetto «lo studio di tutte le produzioni visive umane dalla preistoria [ai giorni nostri] e che comprende tutti gli aspetti creativi, come pure tutti gli usi e la moltiplicazione industriale delle immagini [fisse o in movimento] su tutti i media».

    L’Histoire du visuel studia pertanto la totalità delle produzioni visive anche quelle che tradizionalmente non appartengono al mondo dell’arte ma a quello ludico. All'epoca di Internet, tra i miliardi di immagini elettroniche che circolano in rete, quelle che si possono definire creazioni artistiche sono infatti un’esigua minoranza.

    «Oggi è necessario considerare tutte le produzioni visive perché le emanazioni di tutte le epoche, di tutte le civiltà, di tutti i media sono riunite sullo stesso schermo [di un dispositivo elettronico collegato a Internet]».

    La voce descrive le origini e lo sviluppo degli studi iconologici in Francia e la nascita della “nuova” disciplina a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, dedicando un capitolo centrale alla rivoluzione prodotta da Internet nel mondo delle immagini (À l'ère d'Internet, une science en développement nécessaire).

    L’edizione in lingua inglese di Wikipedia non contiene una voce specifica sulla Visual History,ma alcune voci correlate: Visual culture, Iconology, Iconography, con le relative definizioni sintetiche e informazioni bibliografiche.

    • La Visual Culture viene definita come «la cultura espressa nelle immagini» che è oggetto di studio da parte di diverse discipline: dalla filosofia alla storia dell’arte, dalla antropologia alla sociologia.
    • La Iconology è un «metodo di interpretazione della storia culturale e della storia delle arti visive, utilizzato da Aby Warburg, Erwin Panofsky e dai loro seguaci, che vuole scoprire il background culturale, sociale e storico di temi e soggetti nelle arti visive».
    • La Iconography è «una branca della storia dell'arte che studia l'identificazione, la descrizione e l'interpretazione del contenuto delle immagini».

    Alla Visual culture la <encyclopedia.com> (sito in lingua inglese che aggrega informazioni tratte da fonti enciclopediche, dizionari e da altre opere di reference) dedica una voce autoriale assai consistente e ben articolata scritta da Jonathan Beller e pubblicata originariamente nel «New Dictionary of the History of Ideas».

    Beller afferma che la Visual culture, intesa come «una componente specifica della cultura in generale, un insieme di pratiche visive o una disciplina accademica» è il prodotto di una nuova considerazione del ruolo delle immagini alla fine del XX secolo in quella che viene definita “società postindustriale”, dove le tecnologie visive dominano nei media dell’informazione. La voce è strutturata nei seguenti capitoli:

    • The Visual Turn;
    • Visuality;
    • Historical Emergence of the Field of Vision as a Site of Power and Social Control;
    • Historicity of the Senses;
    • Race and Photo-Graphics;
    • Gender, Sexuality and the Image;
    • Alternative Media;
    • Advertising, Attention and Society of the Spectacle;
    • Visuality, Mediation, Simulation and Cybernetics;
    • The Future of Visual Culture and Visual Studies.

    Anche nell’edizione in lingua italiana di Wikipedia non troviamo una voce dedicata specificatamente alla Visual History, ma solamente due voci correlate: Iconologia e Iconografia, che riservano poche righe ai rispettivi argomenti.

    Il portale della Treccani <treccani.it> indirizza il visitatore verso i Visual Studiescon una voce redazionale nel «Lessico del XXI Secolo» (2013) e una voce autoriale nella «Enciclopedia Italiana – IX Appendice» (2015) a firma Roberto Terrosi.

    Terrosi definisce i Visual Studies il «campo di studi accademici che hanno come oggetto il visibile e le pratiche dello sguardo in forme culturalmente organizzate».

    La voce è strutturata in capitoli:

    • Storia dei Visual studies,
    • Temi e protagonisti dei Visual studies,
    • La ‘svolta visuale’,
    • Crisi dei Visual studies?,
    • La politicizzazione dei Visual studies,
    • I Visual studies e l’Europa,
    • Gli studi di ‘cultura della rappresentazione’ in Giappone,
    • Conclusioni.

    2. Che cosa ci fa conoscere?

    Immagini relative a: guerra, nazifascismo, stalinismo, antisemitismo, migrazioni

    La piattaforma digitale bilingue (tedesco – inglese) Visual History del Leibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung Potsdam (ZZF) propone un indice, Themen, che offre un’interessante panoramica delle diverse aree tematiche, nell’ambito della storia contemporanea, in cui trova applicazione la nuova disciplina storiografica (l’indice non comprende articoli sui media audiovisivi). Una panoramica che, pur facendo prevalentemente riferimento ai contributi degli storici tedeschi, può, tuttavia, considerarsi egualmente rappresentativa dei più generali orientamenti a livello internazionale degli studi e delle ricerche della Visual History dal 2013 (anno di attivazione della piattaforma) ad oggi.

    Di seguito, l’elenco delle principali aree tematiche:

    (Cliccare sulle immagini per ingrandirle)

    A. Le fotografie di guerra nel primo e nel secondo conflitto mondiale

    In questa area tematica segnaliamo in particolare:

    Walter Kleinfeldt: fotografie dal fronte 1915–191801. Walter Kleinfeldt: fotografie dal fronte 1915–1918. (Fonte)

    ► 01. Agosto 1916: “Distruzione totale”

    Una raccolta di fotografie, lettere, ritagli del diario di un giovane soldato tedesco (Walter Kleinfeldt) sul fronte occidentale. La recensione sottolinea come nel volume vengono presentate due categorie di fotografie del fronte di guerra scattate da Kleinfeldt: da un lato, quelle che lasciano deliberatamente fuori dal campo visivo i militari morti o feriti e mostrano invece paesaggi distrutti, fucili abbandonati, alberi bruciati; dall'altro, ci sono le fotografie che rendono immediatamente comprensibile la violenza della guerra sugli uomini, come le immagini di caduti e feriti.

    August 1916: “Alles zusammengeschossen” di Lisa-Sophie Meyer, 19/10/2015, recensione del volume Walter Kleinfeldt. Fotos von der Front 1915-1918 di Ulrich Hägele e Irene Ziehe, Waxmann Verlag, Münster/New York, 2014.

    Il sorriso del boia viennese fotografato dopo l'esecuzione del patriota italiano Cesare Battisti a Trento nel 1916.02. Il sorriso del boia viennese fotografato dopo l'esecuzione del patriota italiano Cesare Battisti a Trento nel 1916. (Fonte)

    ► 02. Sul sorriso del boia nella Prima guerra mondiale

    Il sorriso è quello del boia viennese fotografato dopo l'esecuzione del patriota italiano Cesare Battisti nel 1916. Il boia e i suoi assistenti posano come se fossero all'osteria. Solo a una seconda occhiata la vista cattura l'impiccato in mezzo a loro, tenuto come un trofeo dal fiero boia che mostra con le mani il possesso del corpo della vittima.

    Anton Holzer ha usato questa foto per la copertina del suo libro che documenta con una lunga serie di immagini le violenze dell’esercito austroungarico contro la popolazione civile sul fronte orientale. Immagini che dovrebbero entrare a far parte della storia e della memoria del Primo conflitto mondiale accanto a quelle della guerra di trincea sul fronte occidentale, al fine di confutare il mito della presunta guerra "pulita" che non avrebbe coinvolto i civili come vittime dirette delle azioni militari.

    Vom Lächeln der Henker im Ersten WeltKrieg di Christine Bartlitz, 12/08/2014, recensione del volume Das Lächeln der Henker.Der unbekannte Krieg gegen die Zivilbevölkerung 1914-1918 di Anton Holzer, Primus Verlag, 2014.

    Sepoltura di un soldato tedesco sul fronte russo (1941)03. Sepoltura di un soldato tedesco sul fronte russo (1941) (Fonte)

    ► 03. Le fotografie private dei soldati

    L’attacco all’Unione Sovietica del 1941 documentato negli album fotografici privati dei soldati tedeschi.

    Si tratta di album messi insieme nel corso della guerra, che riducono al minimo la finestra temporale tra ciò che viene vissuto e ciò che viene documentato, e che pertanto non subiscono la distorsione retrospettiva, consapevole o inconsapevole, tipica dei racconti fotografici dei soldati tedeschi che, nel dopoguerra, tendono ad esaltare il loro ruolo nella Wehrmacht.

    Die Fotografie der Landser di Armin Kille, 30/11/2020.

    Immagini di propaganda: l’avanzata italiana su Adua (1935).04. Immagini di propaganda: l’avanzata italiana su Adua (1935). (Fonte)

    ► 04. Immagini disciplinate del Fascismo e del Nazismo

    Markus Wurzer analizza, confrontandoli, i reportage fotografici di guerra nella Germania nazista e nell’Italia fascista.

    Nella Germania nazista le immagini di guerra non solo erano state censurate (come già durante il Primo conflitto mondiale) ma anche organizzate/disciplinate da uno specifico apparato di propaganda. E così pure era avvenuto nell’Italia fascista dove i reportage fotografici di guerra erano stati sottoposti ad uno stretto controllo da parte del regime già prima del giugno 1940, in occasione dell’aggressione contro l'Impero Abissino.

    Disziplinierte Bilder di Markus Wurzer, 06/04/2020.

    Cartolina commemorativa dell’incendio di Oradour-sur-Glane e del massacro dei suoi abitanti da parte delle SS in ritirata.05. Cartolina commemorativa dell’incendio di Oradour-sur-Glane e del massacro dei suoi abitanti da parte delle SS in ritirata. (Fonte)

    ► 05. Ricordando il 10 giugno. La cura della memoria a Lidice e Oradour

    L’occupazione nazista dell’Europa è stata accompagnata da distruzioni di città e villaggi.

    Il 10 giugno 1942, Lidice, distante pochi chilometri da Praga, era stata incendiata e rasa al suolo dalle SS tedesche come rappresaglia all’uccisione di un loro alto ufficiale da parte della resistenza. I suoi abitanti erano stati fucilati o inviati nei campi di concentramento.

    Il 10 giugno 1944 a Oradour, un piccolo villaggio nel dipartimento della Haute-Vienne nella Francia centro-occidentale, le SS incendiarono le case e massacrarono tutti gli abitanti.

    Zeina Elcheikh documenta nel suo articolo, con diverse immagini (fotografie, cartoline postali, francobolli, manifesti), sia la distruzione dei due villaggi che la cura della memoria, dal dopoguerra ad oggi, di quegli eventi tragici.

    Remembering 10 June. Curating Memory in Lidice and Oradour di Zeina Elcheikh, 09/06/2020.

     

    B. I movimenti e i regimi politici nell’Europa del Novecento: socialismo, fascismo, nazismo e stalinismo

    In questa area tematica segnaliamo in particolare:

    Sbandieratore, immagine del ’calendario dei lavoratori’ 1923-1929.06. Sbandieratore, immagine del ’calendario dei lavoratori’ 1923-1929. (Fonte)

    ► 06. La Rivoluzione sui muri

    Il volume dello storico dell'arte e della fotografia Wolfgang Hesse (pubblicato open access in Internet <https://core.ac.uk/download/pdf/268020278.pdf>) tratta dei "calendari rossi a strappo" del KPD (Die Kommunistische Partei Deutschlands) nella Repubblica di Weimar.

    La tradizione dei calendari a strappo risale all'ultimo terzo del XIX secolo. Diversamente dai “calendari del popolo”, i “calendari rossi” non contenevano “storie eroiche” ma dati e immagini della storia generale del mondo, dei movimenti democratici e dei lavoratori tedeschi.

    La recensione di Mario Keßler propone, contestualizzandole, diverse immagini estratte dal volume di Wolfgang Hesse.

    Die Revolution als Wandschmuck di Mario Keßler, 16/03/2020, recensione del volume Der rote Abreißkalender. Revolutionsgeschichte als Wandschmuck di Wolfgang Hesse, Eigenverlag, Lübeck 2019.

    ’Idea Vincit’, linoleografia di Otto Heinrich Strohmeyer del 1926.07.’Idea Vincit’, linoleografia di Otto Heinrich Strohmeyer del 1926. (Fonte)

    ► 07. I francobolli a favore e contro la guerra e il fascismo

    I francobolli emessi dallo Stato sono “veicoli illustrati” nella “epoca della riproducibilità tecnica delle immagini” (Walter Benjamin) con i quali lo Stato ha diffuso soprattutto nel passato (e diffonde ancora oggi) i simboli del proprio potere, della propria ideologia, della propria storia ben oltre i confini nazionali.

    Nell’articolo citato, Esposito analizza in particolare il simbolismo racchiuso nei francobolli che riproducono immagini dell’aviazione (i “veicoli alati”) sia con riferimento alle riflessioni dello storico dell’arte Aby Warburg che alla produzione filatelica dell’Italia fascista.

    Beflügelte Bilderfahrzeuge für und wider Krieg und Faschismus di Fernando Esposito, 18/05/2020.

    Gli abitanti di Sülfeld ritratti davanti al monumento a ricordo della vittoria dei nazionalsozialisti alle elezioni del Reichstag del 5 marzo 1933.08. Gli abitanti di Sülfeld ritratti davanti al monumento a ricordo della vittoria dei nazionalsozialisti alle elezioni del Reichstag del 5 marzo 1933. (Fonte)

    ► 08. Mobilitazione rurale a favore del nazismo

    La presa del potere da parte dei nazisti è stata accompagnata da una diffusa mobilitazione delle zone rurali della Germania a favore del nuovo regime. Anche Sülfeld, un piccolo villaggio dello Schleswig-Holstein, fu investito dall'ondata di euforia nazionale innescata dalla vittoria del NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei – Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori) alle elezioni del Reichstag del 5 marzo 1933.

    Kraus e Ullmann ricostruiscono tale mobilitazione con l’aiuto delle fotografie scattate nel villaggio di Sülfeld negli anni trenta.

    Sülfeld schafft dem 5. März 1933 ein Denkmal di Alexander Kraus e Maik Ullmann, 24/09/2018.

    Lavori forzati in un “campo correttivo” dell’Unione Sovietica.09. Lavori forzati in un “campo correttivo” dell’Unione Sovietica. (Fonte)

    09. Le immagini delle carceri e dei “campi correttivi” nell’URSS

    Le immagini fisse e in movimento scattate nelle carceri e nei “campi correttivi” dell’Unione Sovietica tra gli anni '30 e '70 del Novecento.

    Le istituzioni statali penali e giudiziarie dell'Unione Sovietica facevano spesso appello a cineasti e fotografi per una rappresentazione ufficale, in chiave pedagogica e propagandistica, del sistema penitenziario.

    L'articolo di Irina Tcherneva esamina in primo luogo le diverse concezioni visive della reclusione, il modo in cui le immagini plasmano lo sguardo delle istituzioni penali che hanno commissionato le immagini. In secondo luogo, l’articolo affronta le finalità e gli usi dei documenti visivi da parte delle istituzioni e dei detenuti.

    For an Exploration of Visual Resources of the History of Imprisonment Photo and Film in Penal Spaces in the USSR (1940–1970) di Irina Tcherneva, in «The Journal of Power Institutions in Post-Soviet Societies», n. 19/2018.

    (L’articolo non è presente nell’indice tematico della piattaforma digitale Visual History)

    Stalin il grande timoniere dell’URSS.10. Stalin il grande timoniere dell’URSS. (Fonte)

    ► 10. Il culto della personalità di Stalin nei manifesti di propaganda sovietici

    Dall'inizio del regime sovietico, i manifesti sono stati considerati come un mezzo di vitale importanza per comunicare ed educare la vasta popolazione dei territori dell'URSS. Nonostante lo sviluppo e la diffusione del cinema, il poster rimase, durante gli anni della leadership di Stalin, una forma primaria di propaganda, prodotta sotto uno stretto controllo centralizzato che rifletteva le priorità del regime.

    Anita Pisch analizza i manifesti di propaganda di Stalin sia da una prospettiva iconografica che iconologica, impiegando la metodologia utilizzata per la prima volta da Erwin Panofsky.

    The personality cult of Stalin in Soviet posters, 1929–1953 di Anita Pisch, 2016.

    (l’articolo non è presente nell’indice tematico della piattaforma digitale Visual History)

     

    C. L’antisemitismo, la persecuzione degli ebrei e la Shoah

    In questa area tematica segnaliamo in particolare:

    Caricatura antisemita su un documento fiscale inglese del 1233.11. Caricatura antisemita su un documento fiscale inglese del 1233. (Fonte)

    ► 11. La prima caricatura antisemita?

    La più antica caricatura antisemita conosciuta è un disegno su un documento fiscale inglese del 1233. La caricatura mostra tre ebrei dall’aspetto strano in compagnia di demoni ed evidenzia la somiglianza dei loro nasi a becco.

    Questa caricatura è diventata un’immagine iconica tra gli storici. È pubblicata sul sito web educativo degli Archivi nazionali del Regno Unito.

    Sara Lipton ne propone una lettura critica per esaminare ogni aspetto dell’immagine al fine di comprendere il suo significato politico e il ruolo che gli ebrei hanno in essa.

    Die erste antisemitische Karikatur? di Sara Lipton, 30/03/2020.

    Partenza del transatlantico St. Louis dal porto di Amburgo il 13 maggio 1939.12. Partenza del transatlantico St. Louis dal porto di Amburgo il 13 maggio 1939.(Fonte)

    ► 12. L’odissea del St. Louis

    Il 13 maggio 1939 il transatlantico tedesco “St. Louis”, con a bordo 937 ebrei (uomini, donne e bambini) in fuga dalla Germania nazista, iniziava dal porto di Amburgo la traversata oceanica con destinazione Cuba. Due settimane dopo raggiungeva il porto dell'Avana. Ma lo sbarco veniva rifiutato dalle autorità cubane.

    Iniziava così una vera e propria odissea con il ritorno in Europa dei passeggeri e la ricerca di porti di altri paesi in cui poter sbarcare e mettere in salvo gli ebrei.

    Sono state conservate numerose fotografie del viaggio e delle condizioni di vita sulla St. Louis. L’articolo qui citato mostra alcune foto commentate da estratti di due testimonianze contemporanee: il diario di Erich Dublon e il reportage di viaggio di Fritz Buff.

    Die Irrfahrt der St. Louis di Eva Schöck-Quinteros, 17/06/2019.

    ’Juden unter sich’ (Ebrei tra di loro), «Berliner Illustrierte Zeitung», 24  luglio 1941.13. “Juden unter sich” (Ebrei tra di loro), «Berliner Illustrierte Zeitung», 24 luglio 1941. (Fonte)

    ► 13. Gli ebrei nel ghetto

    I Propagandakompanien (PK) della Wehrmacht e i ghetti ebraici nella Polonia occupata.

    Una delle più influenti azioni di propaganda antisemita prodotte nel "Terzo Reich" era basata negli anni 1939-1941 su immagini e rapporti provenienti da vari ghetti nella Polonia occupata. Gran parte del materiale era stato raccolto dalle Propagandakompanien (PK) della Wehrmacht.

    Per Daniel Uziel, l’analisi del contributo delle Propagandakompanien alla politica antisemita dei nazisti richiede di prendere in esame non solo i materiali visivi, ma anche i contesti storici in cui sono stati prodotti. Ciò include gli aspetti organizzativi, le strategie di propaganda del regime, la situazione di guerra generale e locale.

    “Juden unter sich” di Daniel Uziel, 20/04/2020.

    I sopravvissuti Alfred Stüber (a destra) e Ludwig Stikel in una foto scattata dopo il 20 aprile 1945 nel campo di concentramento di Buchenwald.14. I sopravvissuti Alfred Stüber (a destra) e Ludwig Stikel in una foto scattata dopo il 20 aprile 1945 nel campo di concentramento di Buchenwald. (Fonte)

    ► 14. L'auto-rappresentazione dei sopravvissuti ai campi di concentramento

    Quasi tutte le fotografie di prima della liberazione dei campi di concentramento sono state scattate dalle SS con l'intenzione di presentarli come un sistema gerarchico altamente efficiente e una organizzazione funzionale senza violenze arbitrarie.

    I prigionieri vi appaiono come una folla docile e silenziosa.

    Dopo la liberazione dei campi nel 1945, gli internati sopravvissuti vengono raffigurati nelle foto scattate dai militari degli eserciti alleati come vittime anonime di un’immane tragedia.

    Sandra Starke vuole, invece, indagare la produzione di immagini “proprie e autodeterminate” degli ex-internati, utilizzando alcuni esempi riferiti al campo di concentramento di Buchenwald.

    Zur visuellen Selbstrepräsentation von KZ-Überlebenden di Sandra Starke, 26/10/2020.

    Erich Muhsfeldt sul profilo Facebook del Museo statale di Auschwitz-Birkenau del 2 gennaio 2011.15. Erich Muhsfeldt sul profilo Facebook del Museo statale di Auschwitz-Birkenau del 2 gennaio 2011. (Fonte)

    ► 15. Erich il malvagio

    Il primo gennaio 1945, Erich Muhsfeldt, capo del commando dei forni crematori di Auschwitz, sparò e uccise 200 prigionieri polacchi nel campo di Auschwitz II.

    Il primo gennaio 2011 il Museo di Stato di Auschwitz Birkenau ha pubblicato sul suo profilo Facebook una foto di Muhsfeldt. La fotografia ha innescato una marea di commenti.

    Nell’articolo citato, Ina Lorenz analizza la nuova modalità di trasmissione visiva della storia nello spazio virtuale.

    He even looks evil … di Ina Lorenz, 12/10/2015.

    Poster della conferenza internazionale “An End to Antisemitism” (Vienna, 2018).16. Poster della conferenza internazionale “An End to Antisemitism” (Vienna, 2018). (Fonte)

    ► 16. Le immagini contro l'antisemitismo

    L’articolo prende in esame le immagini utilizzate nella lotta contro l'antisemitismo e focalizza la sua attenzione sul poster della conferenza internazionale "An End to Antisemitism", che si è svolta a Vienna nel febbraio del 2018.

    Per Axster il poster della conferenza suggerisce una mancanza di sensibilità alle implicazioni razziste dell’antisemitismo e testimonia la necessità di mettere in relazione la lotta contro l'antisemitismo con quella contro il razzismo.

    Fallstricke im (visuellen) Kampf gegen Antisemitismus di Felix Axster, 10/06/2019.

     

    D. Le migrazioni e le immagini dello straniero

    In questa area tematica segnaliamo in particolare:

    Copertina del catalogo di una mostra sui flussi migratori: “Fuga, Espulsione, Integrazione, Patria” (2005).17. Copertina del catalogo di una mostra sui flussi migratori: “Fuga, Espulsione, Integrazione, Patria” (2005). (Fonte)

    ► 17. Immagini che colpiscono

    Un’analisi del “potere discorsivo” delle immagini nelle mostre a tema sull’emigrazione.

    Gli eventi storici o i diversi aspetti/fenomeni della vita sociale sono spesso rappresentati da poche immagini consolidate che sono passate attraverso un processo di selezione e canonizzazione che è alla base della loro efficacia mediatica.

    Ed è proprio questo processo che l’autore dell’articolo citato vuole approfondire svolgendo una ricerca sulle immagini dell’emigrazione nelle mostre a tema che sono state organizzate in Germania tra il 1974 e il 2013.

    Bilder mit Impact di Tim Wolfgarten, 29/06/2020.

    Richiedenti asilo davanti all'Ufficio immigrazione in Puttkamer Strasse.(18 agosto 1978, Berlino Ovest).18. Richiedenti asilo davanti all'Ufficio immigrazione in Puttkamer Strasse.(18 agosto 1978, Berlino Ovest). (Fonte)

    ► 18. I rifugiati nelle immagini della stampa tedesca

    Le fotografie giocano un ruolo centrale nella comunicazione dei mass media. I fenomeni migratori vengono differenziati attraverso le fotografie pubblicate sui giornali e sulle riviste. Esse comunicano punti di vista etici e legittimano il bisogno di azione.

    Questo progetto di ricerca raccoglie le fotografie per la stampa pubblicate in cinque quotidiani e settimanali nazionali nella Repubblica Federale di Germania («Frankfurter Allgemeine Zeitung», «Stern», «Spiegel», «Süddeutsche Zeitung», «Die Welt» - e in alcuni casi «Zeit» e «Tageszeitung») e utilizzate nei dibattiti sull’emigrazione dagli anni Cinquanta alla metà degli anni Novanta.

    Zur visuellen Produktion von “Flucht” und “Asil” in Pressefotografien der Bundesrepublik di Lisa-Katharina Weimar, progetto di ricerca, 26/09/2017.

    Immigrati italiani nella “Klein Neapel” (Piccola Napoli) a Wolfsburg (ottobre 1962).19. Immigrati italiani nella “Klein Neapel” (Piccola Napoli) a Wolfsburg (ottobre 1962). (Fonte)

    19. Gli italiani, “lavoratori ospiti” nella stampa degli anni ‘60

    Violetta Rudolf ha svolto un interessante ricerca sulle immagini e sulle relative didascalie delle foto di lavoratori immigrati italiani pubblicate dalla stampa locale di Wolfsburg (la citta della Bassa Sassonia sede dell'industria automobilistica Volkswagen) all’inizio degli anni Sessanta del Novecento.

    La ricerca vuole fare emergere dalle immagini tutto quello che non è possibile ottenere dalle fonti scritte e orali, evidenziando l’importante funzione comunicativa delle fotografie sui giornali nell’orientare l’opinione pubblica.

    Auf fotografischen Spuren italienischer „Gastarbeiter“ in der Wolfsburger Tagespresse 1962 di Violetta Rudolf, 23/01/2019.

     

    * Tutte le fonti e gli articoli segnalati nella sitografia erano consultabili in rete alla data del 08/02/2021.

    Parte Seconda: Visual history. L'uso didattico delle fonti iconografiche

  • Mare nostrum. L'originale e le imitazioni. Da un'invenzione all'altra

     

    Per la Marina Militare e per il Governo italiani, Mare Nostrum  è l’operazione di polizia/salvataggio organizzata nel 2013, dopo il naufragio di Lampedusa, nel quale morirono 366 persone. Era il 3 ottobre, giornata che il Senato ha intitolato alla memoria delle vittime delle migrazioni . Un nome, Mare Nostrum,  non del tutto adatto alla circostanza, come fecero notare giornali e storici, osservando che, con ogni probabilità, i ministri italiani ignoravano l’articolo, scritto da Mariella Cagnetta, e apparso su “Limes” nel 1994, nel quale la storica barese spiegava che il Mare Nostrum era un mito, costruito da personaggi ben noti della storia, da Pompeo a Mussolini.
    Non è l’unica ripresa moderna di questo termine. Le vicende dell’Estremo Oriente, infatti, stanno mettendo in risalto un altro Mare Nostrum: quello cinese. Ne aveva parlato, già nel 2008, “Limes”. L’espressione appare corrente nell’ambiente geopolitico. Ne scrive, ad esempio, Alfredo Musto ne Il Mar Cinese Meridionale: il mare nostrum di Pechino (2012, con un’ampia informazione geografica e politica). 
    Le condizioni perché un tratto di mare venga definito nostrum sembrano due. La prima, geografica, è che si tratti di un mare chiuso. La seconda, storica, è che qualcuno ne affermi il dominio. Così, Mare Nostrum è, per gli Usa, il Mar dei Caraibi; per la Cina, il Mar Cinese meridionale e, capostipite necessario e nobilitante della serie, tale viene considerato il Mediterraneo, per l’antica Roma.
     
     
    IlMare nostrum cinese, nella cartina di “Limes”, disegnata da Laura Canali 
     
     Il Mare Nostrum cinese
    Il Mar della Cina Meridionale bagna, a Ovest, la costa sino-vietnamita, a Sud gli arcipelaghi dell’Asia Sudorientale, a Est le Filippine e Taiwan, mentre a Nord confina con le isole meridionali dell’arcipelago giapponese. A osservarlo sulla carta, appare un mare molto meno “chiuso” del Mediterraneo. Tuttavia, negli ultimi decenni, è diventato il cuore dell’economia mondiale: vi transitano ogni anno 60 mila navi, ossia tre volte il traffico del canale di Suez e sei volte quello dello stretto di Panama. Il che equivale a un quarto del commercio mondiale e alla metà del volume commerciale delle tigri orientali, Cina, Giappone e Corea del Sud (Daniel SCHAEFFER, 2014). Queste ragioni economiche, oltre alle note contese politiche e alle risorse energetiche e minerarie che vi si celano, fanno sì che la Cina abbia sovrapposto a questa carta “aperta” del mare, una carta storica tutta propria, secondo la quale si tratta di un mare “chiuso”. 
     
    La Lingua di bufalo
    Nel linguaggio cinese (che a noi pare assai colorito), questa carta storica è chiamata della “Lingua di bufalo”. Negli anni ’30 del secolo scorso, quando fu pubblicata, fu detta anche “Carta dei 9 tratti”, perché identificata da nove segmenti, che definiscono una frontiera marittima, che separa il mare aperto dalle acque costiere degli stati rivieraschi, creando così un unico mare interno, che scende dalla Cina meridionale e disegna, per l’appunto, una sorta di lingua di bufalo. Di recente, nel 2013, questa carta è stata ribattezzata dei “dieci tratti”, dal momento che vi è stato aggiunto un nuovo segmento a Est di Taiwan, a segnalare la volontà annessionistica della Repubblica Popolare Cinese.
     
    L’11 gennaio 2013, "Sinomap Press", organo ufficiale della stampa cinese, ha pubblicato una carta sulla quale il confine dei nove tratti è completato da un decimo, al largo di Taiwan (Wikipedia)
     
    I numerosi piccoli arcipelaghi, a volte di pochi scogli, che costellano questo mare, sono stati l’obiettivo di una frenetica e costosissima attività cinese, volta a costruire piazzeforti, basi navali, o a estendere addirittura la superficie di queste isole. Lo stesso mare è teatro di continue esercitazioni militari, nelle quali le flotte cinese e russa operano spesso insieme, sorvegliate da una Settima flotta Usa, sempre più in allarme. La cartina che segue, redatta per conto della Difesa Usa, nel 2012, registra le continue operazioni diplomatiche e i conflitti aperti che accompagnano questa espansione militare della Repubblica Popolare Cinese (e, per riflesso, la preoccupata attenzione americana). 
     
     
    Rivendicazioni di sovranitànel Mare cinese meridionale
     
    Quello cinese meridionale è un mare che la geografia ha “chiuso” in modo talmente imperfetto, che per sigillarne le falle occorre un dispendio enorme di energie economiche, militari e politiche, da parte di chi se ne vuole insignorire. Una chiusura artificiale, almeno al confronto di quella, che ci appare così “naturale” del nostro Mediterraneo.
     
    E il Mare nostrum autentico.
    Altra cosa il Mediterraneo, dunque, il cui unico accesso erano le Colonne d’Ercole. Più naturale, ci vien fatto di pensare, che i Romani, una volta conquistatene le terre circostanti, ne abbiano abbiano proclamato il possesso con orgoglio. Così troviamo in tanti manuali; così troviamo anche in testi scientifici, primo fra i quali, credo, l’opera di Michel Reddé, fondamentale per chi si occupa della navigazione al tempo di Roma, che si intitola per l’appunto: Mare nostrum. Les infrastructures, le dispositif et l’histoire de la marine militaire sous l’empire romaine (Roma 1986). Con la stessa sicurezza David Abulafia intitola Mare Nostrum il capitolo nel quale parla delle vittorie con la quali Roma sconfisse Cartagine, i macedoni, bonificò il mare dai pirati e si impadronì dell’Egitto. Allora, scrive, il mare nostrum cominciò a riferirsi “a un’idea di Roma molto più ampia del Senatus Populusque Romanus” (Il Grande Mare, Milano 2010, p. 197).
    Quest’idea è talmente scontata (un perfetto esempio di stereotipo colto), che i direttori di “Latinitas”, rivista della Pontificia Academia Latinitatis, hanno sentito il bisogno di rinverdire e ripubblicare un saggio di AlfonsoTraina, scritto negli anni ’50, nel quale si racconta per filo e per segno la storia di quella che oggi, sulla scorta di Eric Hobsbowm, dobbiamo considerare una “invenzione” (A. Traina, B. Pieri, Mare nostrum. Leggenda e realtà di un possessivo, II, 2014, pp. 13-18 ).
     
     Mare Nostrum Nostrum Mare?
    Leggiamo innanzitutto, in questo articolo agile e godibilissimo, che i romani non dicevano mare nostrum, ma nostrum mare. Uno scambio di posto che non comunica tanto l’orgoglio di un possesso, quanto l’opposizione (“quel mare e il nostro”). Avevano imparato questo modo di dire dai Greci, abituati a distinguere fra il Mar Nero e quello Egeo: così Irad Malkin, per il quale, oltretutto l’espressione hemetera thalassa (“nostro mare”) era da intendersi in senso metaforico e non propriamente di possesso (A Small Greek World. Networks in the Ancient Mediterranean, Oxford 2011, p. 3). Al principio, i romani non usavano questa espressione nemmeno per designare tutto il Mediterraneo, ma la riferivano alle acque che bagnano la penisola. Il “nostro mare”, più o meno come noi diciamo: “la nostra spiaggia”. 
    Anche un sostenitore del valore possessivo di “nostro”, come Marshall Cavendish, scrive:  “Dopo la conquista della Sicilia, i Romani orgogliosamente usarono il termine mare nostrum per le acque attorno alla penisola italiana e alle loro nuove isole (…) Solo alla fine chiamarono l’intero mediterraneo mare nostrum” (History of the Ancient & Medieval World,  Vol. 5, NY 1995, p. 695)
    I romani dicevano nostrum, soprattutto, per distinguere il Mediterraneo dall’Oceano. Questo intende Cesare, quando, arrivato al cospetto dei veneti, esperti navigatori della Bretagna (i quali non avevano nulla a che vedere con i veneti nostrani), decide di sfidarli per mare e fa costruire navi con delle attenzioni particolari, perché “l’oceano non è come il nostro mare”.
     
    I nomi del Mediterraneo
    Per i romani, il Mediterraneo era il mare internum o interior  (seguo ancora Bruna Pieri, che ha raccolto e analizzato tutte le ricorrenze di questa espressione). A volte era il mare magnum, per quanto ogni tanto chiamassero così anche l’Oceano. Per il nostro grande dispiacere, non usavano nemmeno “mediterraneo”. Questo nome, infatti, appare verso la fine dell’impero, e nel VII secolo Isidoro lo adopera ancora con il significato generico che forse i nostri geopolitici gradirebbero (ci sono i mari aperti e quelli chiusi, “mediterranei”, appunto). Diventa decisamente “nostro” solo dopo l’avvento degli arabi, commenta Pieri, quando non esiste più un solo padrone del mare, e si comincia a pensare ai tempi passati, nei quali, effettivamente, qualcuno avrebbe potuto chiamarlo “nostro”, ma ahimé, non lo fece.
    Per paradosso è proprio l’Oceano che, almeno in un’occasione, viene chiamato “romano”. Lo sappiamo da alcuni componimenti poetici, attribuiti a Seneca, nei quali, celebrando le imprese delle legioni di Claudio che hanno sbaragliato la regina Boudicca e si sono definitivamente impadronite della Britannia, il Canale della Manica viene definito Romanum Oceanum, e il mare della vinta Britannia nostra aqua.
     
    Chi disse veramente Mare nostrum
    Un paradosso ancora più sorprendente è che a usare questa espressione, nel senso che noi le diamo oggi, fu Annibale. Almeno così ci riferisce Tito Livio che gli fa promettere, nel discorso ai tarantini:  “e sarà nostro quel mare, del quale ora i nemici si sono impadroniti” (et mare nostrum erit, quo nunc hostes potiuntur). Una frase costruita per accendere di sdegno i bravi sudditi di Augusto, ma che funzionò talmente bene, da infiammare a distanza di secoli Giuseppe Mazzini. E’ lui, che sembra dare l’avvio all’accezione odierna: “e sulle cime dell’Atlante sventolò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterraneo si chiamò Mare nostro”. 
     
    Il mare fascista
    Chi costruisce il mito del Mare Nostrum, e attribuisce definitivamente a questa espressione il significato che oggi consideriamo comune, è il fascismo. E’ durante il ventennio mussoliniano, infatti, che il mare internum viene trasformato nel modello del mare imperiale italiano.  In questa operazione retorica, ritorna sulla scena l’eterna nemica Cartagine, nelle vesti dell’Inghilterra che - insegnava agli italiani Mario Appelius, speaker del regime – bisogna distruggere, perché ha fondato un  «mostruoso impero d’essenza fenicia accampato con la sua massa nei cinque continenti» (P. Giammellaro, Times/Semit. Inglesi e Fenici nella storiografia e nella propaganda fascista).
     
     
    E Mare nostrum diventò un oggetto di studio. Questa è la pagella di Lidia, una delle tante bambine che frequentarono la seconda elementare nell’anno dell’entrata in guerra. Vi leggiamo in bella mostra la scritta Mare Nostrum, sul mar mediterraneo, con un corredo di pugnali e moschetti. L’immagine è commentata da Ugo Piscopo, La scuola del regime: i libri di testo nelle scuole secondarie sotto il fascismo, p. 197
    Il mito del Mare nostrum è partorito dalla politica, insegnato nelle scuole e nutrito dalle Università. Andrea Perone ha studiato le annate di “Geopolitica”, una rivista che fino al 1942 raccolse i più importanti geografi italiani a sostegno esplicito delle mire imperiali fasciste. La geografia, argomentavano quegli studiosi, aveva posto l’Italia al centro di un mare che – ed ecco la storia -  essa aveva dominato ininterrottamente, con la sola parentesi araba, dall’antichità all’età moderna.
     
    In conclusione 
    Le invenzioni hanno le gambe corte. E Mare nostrum non fa eccezione. A cosa volevano riferirsi i fascisti: a un mare che effettivamente era dominato dai romani, ma che questi non chiamarono (se non saltuariamente) “nostrum”? a cosa allude la "Lingua di bufalo" dei cinesi: al mare di Cneo Pompeo o a quello del quale Mussolini reclamò invano il possesso? e, infine, cosa intendevano i nostri governanti, quando tirarono fuori dal cilindro della storia il nome da dare a un’operazione umanitaria? Che avrebbero aiutato solo i naufraghi vicini (significato oppositivo); o che il mare nel quale soccorrevano i naufraghi, era percorso da flotte invincibili, come quelle dei romani (significato possessivo)?
    In tutti questi casi, varrebbe la pena di ricordare quello che scriveva uno dei primi studiosi, che (era il 1907!) ha bollato l’uso improprio di mare nostrum, raccomandando di “non attribuire alla superbia dei romani quello che spettava alla nostra ignoranza” (G.Grazzo, Nostrum mare, “Bollettino della Società geografica Italiana” 1907, pp. 1222-1228: sempre citato da Bruna Pieri).

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