Autore: Antonio Brusa

 

Introduzione

Abbiamo lavorato un anno intero, ad Alessandria, sul tema delle migrazioni. Un bel gruppo di scuole, organizzate dall’Isral (Istituto per la storia della resistenza di Alessandria), guidato da Luciana Ziruolo. Il materiale, composto da alcune riflessioni storico-pedagogiche, dallo studio di caso, provato in decine di classi, e dalle valutazioni sulla sua efficacia, è stato pubblicato in volumetto: Didattica. Storia. Intercultura. Una sperimentazione nella provincia di Alessandria (Falsopiano, Alessandria 2015). Qui ne riporto il mio contributo, con alcune modifiche, in modo che – insieme agli altri articoli su questo argomento pubblicati su HL – il docente abbia a sua disposizione un panorama ampio della questione, dagli aspetti teorici, come in questo caso, alle applicazioni pratiche come nei lavori didattici che troverete nel sito.


Indice

La migrazione diventa un tema centrale del dibattito pubblico
Il dibattito pubblico elimina la complessità del fenomeno
La sottovalutazione politica del fenomeno migratorio
La sottovalutazione didattica
La migrazione odierna e la “fine dei territori”
Un dilemma che attraversa la scuola
La mobilità non è un’eccezione della storia
La migrazione odierna e l’educazione civile

 

La migrazione diventa un tema centrale del dibattito pubblico

Barconi gremiti di uomini scivolano davanti ai nostri occhi, quando parliamo di migrazione. Impossibile fermarli nel pensiero, come impossibile è arrestarne in mare la flotta. Sono l'icona di un fenomeno le cui proporzioni angosciano tutti. Noi, come il resto del mondo. Appena una quindicina di anni fa si sosteneva che il disorientamento degli italiani fosse dovuto al fatto che, da paese di emigranti quale fu e aveva ormai dimenticato di essere stato, era improvvisamente diventato una meta di immigranti. Era una società impreparata, si disse, a differenza delle popolazioni dell'Europa del nord che, al contrario, avevano avuto il tempo di approntare strutture sociali, economiche e mentali per fronteggiare il flusso degli stranieri, fra i quali centinaia di migliaia di nostri connazionali. Le reazioni odierne mostrano che la paura di essere sommersi da uno tzunami umano coinvolge senza distinzione paesi di vecchia e di nuova immigrazione.

La dimensione del fenomeno è tale che ha spiazzato il repertorio argomentativo, elaborato nel  dibattito pubblico novecentesco, in Europa come in Italia. Me ne accorgo leggendo il manualetto di Pierre-Yves Bulteau, En finir avec les idées fausses propagées par l'extrême droite (Les éditions de l'Atelier, 2014), una raccolta di argomentazioni di sinistra, sollecitata dalla grande avanzata dell'estrema destra in Francia. Questo libro mostra come l'intero fronte dell’opposizione fra "reazionari" e "progressisti" si sia dislocato pienamente nel campo della migrazione. I temi tradizionali della polemica fra destra e sinistra (libertà/autorità, estensione dei diritti civili, femminismo o diritti dei lavoratori) occupano poche pagine. La quasi totalità del nuovo "prontuario per la discussione pubblica" è focalizzata sul tema della migrazione: l'accoglienza, l'incidenza degli stranieri sul lavoro, sull'identità nazionale, le difficoltà di convivenza civile, ecc.


Il dibattito pubblico elimina la complessità del fenomeno

La destra coglie un'angoscia diffusa delle popolazioni europee. La sinistra risponde con una batteria analitica di argomenti: smonta qualche preoccupazione come quella della concorrenza sul posto di lavoro, ne attenua altre, come nel caso dell'ordine pubblico, alcune le rovescia (come per esempio quella sul razzismo degli stranieri nei confronti dei locali), di altre ne sposta le cause (non è colpa dell'emigrazione, ma delle politiche internazionali neoliberali). Fa largo uso di cifre e largo appello ai valori della solidarietà, in un contrasto speculare con i valori dell'identità, sostenuti dalla destra. Al dunque, le due tesi si attestano su azioni politiche elementari: respingere o accogliere. Una contrapposizione che riflette le antinomie primordiali fra bontà e cattiveria; fra egoismo e altruismo. Così rozze nella loro elementarità, da metterci in guardia: lungo questo fronte non si costruisce nessuna politica e, per quanto riguarda i compiti della scuola, nessuna didattica.

Quando si parla di migrazione, dunque, sembra instaurarsi una sorta di parallelismo fra le scissioni dell'opinione pubblica e le pratiche dell'insegnamento. Ciò avviene sia perché il fenomeno migratorio è uno dei temi caldi, una delle "questioni sensibili", al centro delle attenzioni degli studiosi di didattica della storia ormai da tempo; sia perché le strutture dell'argomentazione transitano con grande facilità dal campo del quotidiano a quello dello studio. Ne deriva la sensazione spiacevole di non riuscire a scorgere una differenza apprezzabile fra un lavoro sull'emigrazione, svolto in classe, e una discussione in famiglia o al bar, in un talk show o nella contesa politica. L'alternativa secca e inevitabilmente tendente al moraleggiante, fra accoglienza e respingimento, ne è, a mio parere, una delle prove più evidenti. Ma forse proprio questo problema, uno dei più insidiosi nei processi di formazione, ci permette di intuire una strada didattica capace di aggredire in profondità il fenomeno, perché attraverso la messa a fuoco delle le analogie e delle differenze fra discorso pubblico e scientifico si riescono a intravvedere strategie di formazione più aggressive ed efficaci.


Stereotipi diffusi sulla migrazione

Una riprova della osmosi fra discorso pubblico e pratica didattica può essere verificata dal docente con un semplice lavoro di ricognizione delle preconoscenze (quello che nella vulgata didattica si chiama ormai brainstorming). Si vedrà, quasi certamente, l’emergere di qualcuno di questi stereotipi diffusi, che qui riporto nella versione di Cesare Grazioli. Su Novecento.org e su Historia Ludens


1.    “Le migrazioni sono un fenomeno anomalo, la regola dovrebbe essere che ognuno stia a casa propria!”

2.    “Siccome gli immigrati arrivano a causa della povertà e del sottosviluppo dei loro paesi, il rimedio è di favorire lo sviluppo interno dei paesi del Sud, cioè aiutarli a non avere bisogno di emigrazione”

3.    “Qui in Italia si fanno pochi figli, mentre gli immigrati vengono da paesi dove ne fanno tanti, come l’Africa, perciò ci sommergeranno, l’Italia perderà la sua identità e in poche generazioni saremo tutti neri!”

4.    “Con tutta la disoccupazione, soprattutto giovanile, che c’è in Italia (e nei paesi europei mediterranei),non è possibile accettare l’immigrazione, che toglie il lavoro a noi italiani”

5.    “Qui in Italia (o in Europa) siamo già in troppi: non solo non c’è spazio per accogliere altra immigrazione, ma anzi, sarebbe meglio che la popolazione calasse; ne guadagnerebbe anche la qualità dell’ambiente.”


La sottovalutazione politica del fenomeno migratorio

La sottovalutazione mi sembra una caratteristica che accomuna discorso didattico e pubblico. E' una consapevolezza, questa, che comincia a farsi largo anche nei media: se ne fa interprete, ad esempio, Ernesto Galli della Loggia in un suo editoriale nel "Corriere della Sera". Nel pubblico, la sottovalutazione si mostra laddove si lascia intendere che esista un numero ristretto di soluzioni immediatamente efficaci (leviamo di mezzo i barconi; costruiamo più campi di accoglienza all'estero;  e, per contro, mettiamo a punto un'accoglienza più umana ...). Questa sottovalutazione è consolatoria, perché autorizza la speranza che si tratti di un fenomeno episodico o tutt'al più contingente. Quindi risolvibile – per la destra come per la sinistra - con provvedimenti puntuali e limitati nel tempo, il che vuol dire con risorse contenute, rispetto a quelle che vanno, invece, destinate ai problemi di fondo delle nostre società.  


La sottovalutazione didattica

A questa sottovalutazione pubblica corrisponde, nel discorso scolastico, l'abitudine a ridurre il tema della migrazione ad un'apposita unità didattica; oppure a risolverlo nella questione dell'accoglienza dell'eventuale immigrato; oppure, ancora, ad confinarlo nel curricolo parallelo dei progetti a latere del curricolo formale, in una delle tante “educazioni” che stanno progressivamente spogliando le discipline tradizionali della loro capacità di mettere in discussione gli aspetti più inquietanti della realtà.

La sottovalutazione trae origine, anche, da un errore intellettuale: quello di considerare il fatto migratorio come un accidente spiacevole dei nostri tempi. Una valutazione corretta, invece, dovrebbe muovere dalla constatazione che si tratta di un fatto strutturale. Al fondo del fenomeno migratorio, infatti, ci sono rivoluzioni straordinarie, che riguardano le coordinate storiche fondamentali: lo spazio e il tempo. Dal punto di vista dello spazio, vediamo che i “territori” si connettono in un continuum mondiale, e che sempre più gli individui fanno coincidere l'orizzonte di risoluzione dei propri problemi con quello planetario. A questa rivoluzione spaziale corrisponde un'altrettanto violenta rivoluzione temporale, che genera un tempo diverso, talmente ben delineato, da imporsi come una delle chiavi di volta della costruzione didattica del passato e della definizione del presente.

In estrema sintesi, potremmo descrivere questa rivoluzione con queste parole:

"Nel corso dell'età moderna gli europei appresero a risolvere i loro problemi all'interno di territori ben definiti: gli Stati. Fra Ottocento e Novecento questi territori hanno cominciato ad rivelarsi insufficienti. Milioni di europei hanno deciso di affrontare la questione della propria sopravvivenza negli spazi mondiali. Non fu una necessità unicamente europea. Contemporaneamente, infatti, si attivavano altri due focolai migratori: l’India e la Cina. Negli ultimi decenni del Novecento, questi tre focolai tradizionali di migrazione si sono sfrangiati e moltiplicati, diffusi nel mondo. Oggi, al principio del secolo XXI, la "mobilità nel pianeta" si propone come un'opzione per sette miliardi di persone".


La migrazione odierna e la “fine dei territori”

Per quanto essenziale, questo racconto mette in risalto alcuni problemi storico-didattici di grande rilevanza, non solo per la formazione storica ma anche per quella alla cittadinanza. Il prima, "il mondo che abbiamo perduto", per riprendere il titolo di un vecchio libro di Peter Laslett (Jaka book, 1973), fu caratterizzato da quel processo che molti storici chiamano "la formazione dei territori".

E' un processo che prende le mosse dal cuore del Medioevo, intorno al X-XI secolo, quando i multiformi centri di potere riuscirono ad affermare il loro controllo su terre, che fino ad allora erano state semplicemente in loro possesso.  Si definì nell'età moderna, a partire dal XVI secolo, con la creazione dei territori europei (gli Stati moderni) e delle loro componenti: strutturali (istituzioni, governo, leggi) e umane, il cittadino con il suo corredo di diritti e doveri. All’interno degli Stati si elaborarono i dispositivi ideologici per la comprensione del mondo ma anche per la produzione scientifica e per la formazione dei cittadini. E, per quello che riguarda da vicino gli insegnanti, è dentro questo processo che nasce la storia, nel suo doppio ruolo di disciplina scientifica e formativa.

E' dunque, ai "territori" che noi leghiamo l'insieme dei problemi connessi con il tema dell'emigrazione e che, potremmo dire, sono il succo di ogni educazione civile: chi ha diritto a vivere in un determinato territorio? Quali sono le norme per trasferisi da un territorio all'altro? Quali sono i costrutti culturali, necessari per vivere in un determinato territorio e quali le norme e le abitudini che ne regolano la convivenza degli abitanti?

Per converso, il dopo potremmo definirlo, sulla falsariga di Bertrand Badie, "La fine dei territori" (Asterios, 1996). E' il momento storico, lungamente preparato nel Novecento, nel quale il potere degli Stati sugli elementi costitutivi del proprio territorio viene meno o comincia a indebolirsi, dal dominio sull'ambiente, al controllo dei flussi di ricchezza e di uomini, alla costruzione della "famiglia nazionale" dei sudditi prima e dei cittadini poi. E' questo insieme di dispositivi che entra in crisi, nel corso del Novecento, lasciando a noi l'immane compito di rivederli e aggiornarli. Un compito che dobbiamo affrontare comunque (migrazione o no) e il cui costo è enorme, sia se lo osserviamo dal punto di vista dei conservatori sia da quello dei progressisti.
 
Perciò, il cambiamento investe prepotente anche il campo della formazione, soprattutto quello della formazione storica. Pone domande stringenti alle sue strutture di base (scopi, contenuti e metodi), per come furono elaborate nel corso della formazione degli stati ottocenteschi, sulla loro reale efficacia nella situazione odierna. Questa considerazione, apparentemente teorica e lontana da quelle che il docente considera le urgenze del quotidiano, è talmente pressante che si manifesta ogni volta che si tenta di sperimentare qualche innovazione, come, in questo caso, “il tema della migrazione”. Ogni volta, infatti, dietro la denuncia del tempo che manca e che è sempre troppo poco, si intuisce una sorta di rigetto, messo in atto dal dispositivo didattico vigente.


Un dilemma che attraversa la scuola

Non si tratta di peculiarità italiane, né di casi locali. Pressocché in tutte le nazioni è ormai di prassi il dibattito fra i sostenitori della conservazione e i ricercatori di nuovi assetti didattici. In Italia, poi, l'alternanza dei governi di centro-destra e di centro sinistra ha mostrato magnificamente la diversità e la distanza fra le due opzioni. La destra (Moratti-Gelmini), infatti, ha prodotto un programma dalla chiara matrice nazionale (2003) finalizzato alla costruzione diffusa di un' "identità giudaico-cristiana", evidentemente da far assimilare a tutti, nativi italiani e stranieri. La sinistra ha elaborato un' ipotesi di programma di storia mondiale (De Mauro 2001) e programmi di storia multiscalari per la scuola di base (Fioroni-Profumo 2007 e 2011), con una parte di storia mondiale obbligatoria per tutti, e quadri di storia a scale più ridotte, da scegliersi a seconda delle programmazioni locali, con l'invito a un largo uso di strutture di insegnamento diverse dalla lezione (dai laboratori, agli studi di caso, alle indagini sul territorio ecc).  La constatazione che un'oscillazione così marcata sia pressocché ignota agli insegnanti è la palese dimostrazione del fatto che la messa in opera dei due programmi è talmente costosa, che non è stata presa in seria considerazione dall'Amministrazione, che si è limitata, nel corso dell’ultimo quindicennio, a progetti di aggiornamento limitati e tutto sommato ininfluenti.


La mobilità non è un’eccezione della storia

Nella visione storica dei programmi tradizionali  - ancora largamente, per quanto inconsapevolmente, condivisa dai docenti – la vicenda italo-europea è "la storia normale". Tutto ciò che si propone di diverso, come in questo caso la migrazione, costituisce una sorta di "interruzione di percorso".

Ora, proprio il caso della mobilità umana dimostra la fallacia di questa convinzione. Ciò  che noi pensiamo come "modello normale" (l'Europa degli Stati e dei cittadini), in realtà, è un eccezione, una sorta di luogo esotico, nell’ “enciclopedia delle storie”. La traiettoria della cronologia ci mostra che questa "normalità" ebbe un prima, costituito dall'Europa medievale, un'area di intensa mobilità, i cui centri di sedentarietà (città e villaggi) furono caratterizzati da una forte inclusività, certamente fino al XIII secolo. Anzi: secondo i teorici del Global Middle Age, fino a tutto il XVI secolo . Ed ebbe un dopo, nel quale l'Europa degli Stati cedette il passo a un doppio territorio, uno – l'Unione Europea - caratterizzato da una quasi totale mobilità interna, che costituisce una frazione notevole dell'attuale movimento migratorio; l'altro frammentato in una pluralità di stati contrassegnati da una forte mobilità in uscita.

L'identica sensazione di estrema particolarità della "normalità europea" la otteniamo, ancora, se inseriamo il nostro subcontinente in un quadro mondiale. Non solo perché, come abbiamo accennato sopra, per tutta l'Età moderna furono tre i centri di espansione demografica planetaria (e l’Europa fra questi); ma perché l'intera vicenda della specie umana mostra come il suo evolversi sia caratterizzato dal gioco continuo fra mobilità e sedentarietà; fra i processi di deriva genetica e culturale, connessi con la separazione dei gruppi umani, e quelli inversi del meticciato, connessi con le diverse modalità dell’interazione umana (su questo si veda Manning, Migration in World History, Routledge 2013). La ricerca storica, dunque, ribalta il senso comune: la   "normalità" è un mondo nel quale la migrazione è contemplata fra le possibilità dell'esistenza. L'Europa degli Stati, con il disciplinamento rigoroso degli spostamenti, è una autentica interruzione di questa "normalità".

Trasferiti nella concretezza del curricolo, questi ragionamenti ci inducono a pensare che la migrazione non può essere trattata come un incidente saltuario (se ne parla a proposito di indoeuropei, barbari medievali, migranti italiani e extracomunitari). Essa è un elemento strutturale della vicenda umana sul pianeta terra. Quando giunge una crisi (alimentare, demografica, politica o ambientale), l'alternativa di fondo si ripresenta inderogabile: morire o spostarsi. Questa alternativa si articola sia all'interno delle aree definite dalla politica o dalla cultura (per esempio all'interno dell'Impero romano, o nel mondo ellenico), sia fra regioni vicendevolmente esotiche (per esempio, fra Europa e America). Ad ogni spostamento, ai gruppi umani si pone la questione della convivenza fra diversi che, a sua volta, ci consegna una gamma pressocché infinita di soluzioni, pacifiche o conflittuali: dalle città doppie dell'antichità mediorientale, a quelle aperte del medioevo europeo, a imperi tolleranti e no, alle città munite di ghetti, inaugurate nella nostra modernità, alla strage dei nativi, come nel caso della Conquista dell’America, al melting pot delle città americane del Novecento.


La migrazione odierna e l’educazione civile

Tuttavia, proprio il confronto dei fatti che viviamo con la strutturalità del fenomeno migratorio, mette in evidenza le caratteristiche peculiari dei nostri giorni. Queste emergono in un forte intreccio con gli altri elementi costitutivi della storia mondiale novecentesca, quali: la sbalorditiva crescita demografica, che in un secolo ha portato gli umani da una parte a moltiplicarsi per sette, dall'altra a occcupare la terra in modo totalmente squilibrato (su questo rinvio al lavoro che Cesare Grazioli ha ricavato dalle ricerche fondamentali di Livi Bacci, citato sopra); l'inedito rapporto con l'ambiente che questa massa umana instaura col mondo globalizzato; l’abbattimento dei costi del trasporto;  la distribuzione tragicamente ineguale delle ricchezze e il retaggio del colonialismo europeo; fino a portati della storia più recente, fra i quali la proliferazione delle "nuove guerre" e la debolezza politica delle Organizzazioni internazionali.

Comprendere il fenomeno migratorio, dunque, consisterà nella capacità di ricostruire questo intreccio di fattori, di breve e lungo periodo. Di capire che l’attuale processo migratorio fa parte del faticoso tornante storico, attraverso il quale stiamo entrando nel mondo del XXI secolo.

Questa consapevolezza non porterà i docenti, né tantomeno gli allievi, a elaborare soluzioni miracolose. Potrebbe metterli entrambi, invece, in grado di valutare la credibilità di quelle circolanti, di destra o di sinistra. Di capire se costituiscono degli impegni di prospettiva lunga, delle soluzioni limitate, oppure delle operazioni di propaganda. La percezione viva della novità del nostro mondo, e in questo del tema della migrazione, sarà il miglior antidoto contro i luoghi comuni del dibattito pubblico.

A loro volta, gli insegnanti dovrebbero cominciare a formulare strategie articolate nella cosiddetta educazione interculturale. Lo sconvolgimento provocato da questi fenomeni è tale da aver favorito la rapidissima comparsa di una enciclopedia di stereotipi, con la quale la società tenta di comprendere un fenomeno che le appare nuovo e distruttivo. E’ dunque illusorio pensare di modificare questi costrutti con “l’unità didattica interculturale”. Si tratta di un lavoro difficile e lungo, perché, da una parte, come abbiamo visto, implica una buona revisione del modo con il quale guardiamo il passato in genere; dall’altra mette in crisi degli strumenti di vita quotidiana, quali in definitiva sono gli stereotipi sulla migrazione, ai quali gli allievi sono tenacemente attaccati.

Il sentirsi, infine, dentro un processo comune - gli allievi come gli insegnanti, gli stranieri come gli italiani - potrebbe far capire a tutti che in gioco non è soltanto la convivenza ordinata nel presente (un bene che dovrebbe essere condiviso), quanto piuttosto la progettazione di un futuro che già richiede la compartecipazione di tutti.

In questa somma di consapevolezze, probabilmente, consiste l'apporto all'educazione civile che la conoscenza storica può offrire.

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