storia contemporanea

  • Il Sessantotto. Un laboratorio su un anno spartiacque (parte seconda)

    di Antonio Brusa

    Nove laboratori sulla contestualizzazione storica*

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    A. IL LABORATORIO DELLA CONTESTUALIZZAZIONE

    In questo gruppo di laboratori inserisco quelle attività che mirano ad analizzare il fatto storico “Sessantotto”. Sono laboratori che vorrei definire “top-down”. Vanno dall’insegnante all’allievo in un percorso abbastanza tradizionale. L’insegnante prepara i materiali (lezioni, schemi) e pone agli allievi delle questioni da risolvere.

    Il campo di indagine è quello della contestualizzazione storica. Lo organizzo in due parti. La prima si occupa della complessità. Comprende cinque attività che, a partire da un modello storiografico, cercheranno di collegare l’“evento Sessantotto” a un contesto più ampio. La seconda si occupa del tempo, con quattro proposte, attraverso le quali questo evento verrà inserito in contesti temporali diversi. Questo articolo, quindi, andrebbe inteso come una sorta di antologia dalla quale un insegnante può prelevare l’attività che pensa più utile alla sua classe. A questa antologia ne seguirà una seconda, in un prossimo intervento su HL, dedicata a un tipo di laboratorio diverso (e forse più consueto fra gli insegnanti esperti), cioè il laboratorio con i documenti. Si tratta di progetti che riguardano la secondaria superiore. Per quella inferiore andranno adattati. In ogni caso, questi progetti vanno considerati dei “semilavorati”, che il docente dovrà completare, con consegne o scalette di conversazione più dettagliate, con riferimenti al manuale, eventuali altri materiali.

    Ma torniamo ai laboratori sulla contestualizzazione dell’“evento Sessantotto”. Braudel scriveva che un evento assomiglia a un vulcano dal quale si sprigionano tutti i tempi della storia. Ciò vale, in particolare, quando l’evento è talmente pesante da “dividere i tempi”. “Un evento spartiacque”, si è detto del Sessantotto. Difatti, è esattamente a metà strada fra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine della Guerra fredda. Questa espressione, usata da James Chapman, è stata ripresa da Marcello Flores e Giovanni Gozzini nel loro 1968. Un anno spartiacque (Il Mulino 2018, d’ora in poi FG: qui è possibile leggerlo), uno studio dal quale ricavo i materiali per questi laboratori.

    Da questo punto di vista, questo lavoro vorrebbe (anche) suggerire agli insegnanti un metodo di lettura dei testi storici forse diverso dal solito. Un insegnante legge un libro di storia con la segreta speranza di poterlo raccontare in classe, magari trovare qualche spunto oppure, nell’insegnamento superiore, per inserirlo in un contesto critico. Si potrebbe, secondo me, aggiungere a queste modalità di lettura senz’altro meritorie, quelle del “libro-palestra-per-pensare”. Un buon libro di storia, per me, è esattamente come una palestra, all’interno della quale si trovano macchine per fare esercizi di tipo diverso. Quindi lo leggo non solo per trovare fatti o problemi da poter raccontare; ma anche per trovare meccanismi da smontare e rimontare, con i quali giocare e inventare esercizi: cose che, fuori di metafora, non sono altro che idee, ragionamenti e storie.

    B. IL LABORATORIO DELLA COMPLESSITÀ

    b1.Un modello complesso

    Chapman utilizzava il termine watershed/spartiacque discutendo il “libro più innovativo sul Sessantotto”: 1968. The World Transformed (a cura di Carole Fink, Philipp Gassert e Detlef Junker, N.Y., Cambridge University Press, 1998). Lo utilizzo per costruire una parte del modello per lo studio di quel periodo.

    Nella loro Introduzione (pp. 1-30), Fink, Gassert e Junker espongono gli elementi fondamentali di un modello basato sul fatto che le rivolte del Sessantotto furono mondiali. Quindi inseriscono i movimenti giovanili in un quadro contrassegnato da una doppia crisi planetaria, politica ed economica.

    Modello per lo studio del Sessantotto

    La prima – la crisi politica - si era manifestata in due eventi: l’offensiva del Tet (gennaio-marzo 1968), scatenata dalle truppe nord vietnamite e dai viet-cong contro gli Usa, nella quale questi ultimi, pur vincendo militarmente, avevano capito che avrebbero perso una guerra, per la prima volta nel corso del XX secolo. A questo smacco occidentale faceva da contraltare, nel mondo comunista, la Primavera di Praga (gennaio-agosto 1968) che, in modo analogo, opponeva alla vittoria militare dell’Urss la sua evidente sconfitta sul piano del consenso fra i cittadini del Patto di Varsavia. La seconda - la crisi economica - era iniziata dopo la Guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967), che aveva messo in dubbio la facilità con la quale, fino ad allora, l’Occidente si era approvvigionato di petrolio, e si era ingigantita a causa della crisi economica americana, che allora fu giudicata “la peggiore dalla Grande Depressione”.

    Queste due crisi indebolirono strutturalmente il blocco Est/Ovest, in particolare – per ciò che riguarda questo lavoro - dal punto di vista della capacità degli Usa e dell’Urss di esercitare il controllo sulle popolazioni, e dunque sui manifestanti. Questa debolezza si manifestò su due livelli. Quello ideologico, dell’attrattività dei sistemi capitalisti e comunisti quali modelli di vita; e quello del controllo sociale, che, di fatto, consentì una relativa tolleranza nei confronti di manifestazioni, che in tempi precedenti si sarebbero ostacolate con più efficacia. Mettendo insieme a questi elementi le questioni relative ai giovani (viste nella prima parte di questo lavoro, già pubblicata su HL), otteniamo questo modello per lo studio del Sessantotto. Si compone di due parti. Quella “soggettiva”, riguardante gli studenti (con i caratteri in blu), e quella “oggettiva”, riguardante la situazione mondiale (caratteri in nero).

    b2. Come si lavora con un modello

    a. Chiamerei la prima attività “Mettere le parole”. Uno schema (o come ormai è d’uso nelle scuole, una “mappa concettuale”) viene solitamente impiegato alla fine di un percorso di studi, come sintesi. Resta lì, quasi la foto degli apprendimenti realizzati. In realtà, se noi chiediamo agli allievi di verbalizzare lo schema, ne troveremo non pochi in difficoltà. Per prevenirla, suggerirei di far leggere loro questi brevi brani, tratti dal libro di Flores e Gozzini, per cercare in quali caselle dello schema andrebbero inseriti, e per spiegare come un certo elemento dello schema influisce sugli altri (quindi, riempiendo gli spazi con i punti interrogativi).

    I mass media sono il primo fattore del modello, il secondo è la fase nuova che gli eventi del 1968 aprono nella guerra fredda, il terzo è la “rete informale di comunicazione e collaborazione” che lega fra loro gli attivisti di ogni parte del mondo e infine la quarta è il collante ideologico che tiene insieme questi ultimi. Perché i protagonisti credevano in una causa comune. Lottarono in opposizione allo status quo interno e internazionale a Est e Ovest, a Nord e a Sud, in appoggio alla libertà, alla giustizia e alla autoderminazione (FG, p. 33).

    Il tempo della guerra fredda è un tempo “artificialmente” globalizzato dalle necessità di controllo delle due superpotenze. Questa storicamente inedita forma della politica internazionale stabilisce il quadro di riferimento unitario entro cui gli studenti si muovono. E li predispone di fatto al contagio, all’imitazione, alla risonanza, in qualsiasi continente si trovino (Ibidem).

    La simultaneità globale del Sessantotto si spiega con fattori soggettivi (accesso di massa alle università) ma anche con fattori oggettivi (il prepotente potere di Usa e Urss insieme ai segni della loro crisi in Vietnam e Cecoslovacchia) (Ibidem).

    I media rappresentano una condizione indispensabile per la trasformazione delle agitazioni locali. Senza di loro, queste non avrebbero risonanza e il loro esempio non potrebbe diffondersi. Di più: i media, trasmettendo motivi e forme delle agitazioni, contribuiscono a dare nuovi significati ai contesti e a trasformare le identità personali e collettive (FG, p. 17).

    b. Chiamerei una seconda attività “Arricchire il modello”. Questo modello non spiega tutto, come – del resto - qualsiasi modello scientifico. Il suo scopo è quello di mettere a fuoco un elemento fondamentale del Sessantotto: il fatto che fu una rivolta globale e simultanea. Bene: all’inizio della prima parte di questo articolo (qui su HL), si riportano i temi della rivolta, quali furono propagandati nei manifesti dei giovani parigini:

    • La lotta contro l’autorità
    • Per una informazione alternativa e contro la censura
    • A sostegno della classe operaia
    • Contro il conformismo

    Possiamo integrarli nel modello? Quali caselle, quali connessioni nuove dobbiamo immaginare? Il modello mette in relazione gli aspetti soggettivi della rivolta (in blu) con quelli oggettivi (in nero). Possiamo fare in modo che questo modello rappresenti e spieghi meglio gli aspetti soggettivi? Oppure il modello deve essere radicalmente cambiato, e ne dobbiamo immaginare uno nuovo?

    Per quanto riguarda gli aspetti soggettivi, non si può non ricordare che tra i portati fondamentali del Sessantotto vi sono la rivoluzione sessuale e la nascita del femminismo attuale (se ne parlerà in seguito). Flores e Gozzini ne danno ampie notizie (pp. 36-40). Quali modifiche ci suggerisce, quindi, la storia di genere?

    c. Una terza attività potrebbe essere “Mettere le date”. Un modello astrae dai fatti tendenze e problemi. Per questo, normalmente, non ha delle date. Ma possiamo introdurle. La crisi politica, per esempio, si riferisce alla guerra del Vietnam e alla Primavera di Praga (e a tanti altri eventi). Chiediamo agli allievi di cercarli sul manuale e di inserirli nello schema usando gli opportuni grafismi.

    Questa ricerca porta a interrogarci sull’insieme dei fatti che sono collegabili al nostro modello (quando scoppia la Guerra del Vietnam e per quali motivi? quando i media diventano globali? Quando e perché si forma una Boom Generation? Per quali motivi scoppia la crisi economica del 1968? C’entra in questa Bretton Wood? E così via). Alla fine, avrete bisogno di un poster abbastanza grande e complicato, nel quale potrete sintetizzare buona parte della storia dopo il ’45.

    d. Regionalizzare il modello. Il Sessantotto, per quanto globale e simultaneo, fu diverso nei singoli paesi. Questo suggerisce altre modifiche al modello, in modo da rappresentare:

    • La situazione italiana e francese nella quale avvenne una saldatura fra movimento studentesco e movimento operaio. Per quali motivi questa si verificò? E in che modo la possiamo integrare nel modello? (per questo punto e il successivo possono bastare le notizie riportate in un buon manuale).
    • La situazione dell’Europa Orientale. Qui, l’obiettivo principale dei giovani è quello della critica al modello comunista e la liberazione dal dominio dell’Urss.
    • La situazione Medio-orientale. La medesima rivolta prende quattro direzioni diverse. In Egitto è, da una parte, al Nakba (la Catastrofe): il desiderio di rivincita dopo la sconfitta nella Guerra dei Sei giorni, un movimento laico, socialisteggiante e modernizzante; dall’altra è la diffusione dei Fratelli Musulmani, uno dei primi movimenti fondamentalisti musulmani. In Palestina è Karameh (Dignità), dal nome di un paesino i cui abitanti risposero con le armi all’invasione israeliana. Da questo movimento nasce Al Fatah, il gruppo del quale Yasser Arafat divenne leader. In Israele fu un movimento di sostegno alla guerra dei Sei giorni, da parte di tanti giovani che si riconoscevano in Moshe Dayan, ministro della difesa (per informazioni più particolareggiate su questo punto: FG, pp. 91-98).

    e. Valutare l’evento. “Spartiacque” è un termine metaforico. Indica che quell’evento fa in modo che il tempo successivo sia diverso da quello precedente. Ma quanto sono profondi questi cambiamenti? Autorizzano, per esempio, a pensare che ci fu una rivoluzione? Occorre fare attenzione quando usiamo questo concetto, dal momento che è cambiato parecchio dai tempi di Robespierre e di Marx. Secondo Jack Goldstone, ci stiamo avviando verso una “quarta generazione di teorie rivoluzionarie”, nella quale gli studiosi preferiscono una definizione molto più estesa di quella ottocentesca. Possiamo discutere in classe, perciò, se il “Sessantotto” (i cui protagonisti agli occhi dei classici probabilmente non avrebbero passato l’esame del buon rivoluzionario) vi sia compreso, e cioè se sia un complesso di movimenti nel quale troviamo:

    • Delle spinte a cambiare il regime politico, basate su visioni antagonistiche di un ordine giusto.
    • Un notevole livello di mobilitazione di massa, formale o informale.
    • Delle spinte a forzare il cambiamento attraverso azioni non istituzionalizzate, come dimostrazioni di massa, proteste, scioperi o violenze.

    (FG, p. 35. Dall’originale J.A. Goldstone, Toward a Fourth Generation of Revolutionary theory, in «Annual Review of Political Science», 2001, p. 141 ss. si ricaveranno altri argomenti per una discussione epistemologico-storiografica).

    f. Raccontare l’evento. Questa non è un’attività separata, ma va considerata una conclusione, direi obbligata, di ciascuna delle attività descritte sopra (le quali, lo ricordo ancora, sono a scelta del docente). Il racconto, infatti, è lo strumento principale della memorizzazione. Serve per “racchiudere” il percorso svolto in un testo che abbia un senso e che, in un certo modo, ti puoi portare via. Occorre, quindi, trasformare la mappa dei concetti, che rappresenta in sincrono la complessità di un evento, in una sequenza nella quale i vari elementi dello schema siano disposti uno dopo l’altro. Possiamo seguire una strategia cronologica o una logica. Nel primo caso, estraiamo dallo schema i fatti, li datiamo (se il caso, approssimativamente) e poi li disponiamo su un cronogramma, che funzionerà da scaletta per il testo. Nel secondo, assegniamo un numero ad ogni elemento dello schema, partendo dal punto che giudichiamo più adatto, e costruiamo il racconto basandoci sulla sequenza numerica.

    C. IL LABORATORIO DEL TEMPO

    c1. Anche il tempo storico è complesso

    La critica che si oppone a questo genere di modelli è che non curano un aspetto particolarmente caro agli storici: il tempo. In effetti, occorrerebbe mettere in moto la complessità rappresentata, osservare come si è formata, quali erano gli antecedenti e quali gli sviluppi successivi. Anche in questo caso, Braudel aveva ragione, quando ci ha spiegato che una “società nel tempo” è, in realtà, un insieme di parti che mutano e, man mano, interagiscono fra di loro. Un intrico mobile che mette in seria difficoltà le nostre capacità di comprensione. Come sempre in didattica (ma non solo), dobbiamo semplificare. Prendiamo il modello base di analisi di un evento e applichiamolo al Sessantotto.

    Modello generale di un evento

    Ogni evento è frutto di un complesso di antecedenti che assumono una certa configurazione nel tempo x nel quale si verifica. Per rappresentare questo processo, collochiamo lungo l’asse temporale alcuni aspetti sui quali il Sessantotto incide in maniera molto evidente. Scelgo, sempre dal lavoro di Flores e Gozzini, tre aspetti:

    • la questione del terrorismo
    • la questione femminile
    • il problema dei diritti umani

    Sull’asse verticale, invece, segniamo quegli aspetti “spaziali” che riguardano lo scenario mondiale alla fine degli anni ’60: la globalizzazione, i mass media, la decolonizzazione e l’indebolimento dei blocchi, perché caratterizzano il Sessantotto come momento globale e simultaneo di rivolte giovanili. L’ideale sarebbe studiare come i fattori temporali coevolvono e, a un certo momento, reagiscono con quelli spaziali. La semplificazione didattica ci consiglia di prendere un fattore per volta, e vedere che rapporto ha con il Sessantotto. La scoperta finale sarà che, ogni volta che cambiamo i fattori, cambieranno anche tempi e periodizzazione.

    c2. Il tempo del terrorismo

    Siamo abituati ad una periodizzazione del terrorismo riferita allo spazio nazionale, accostato semmai a quello tedesco. In questo spazio ristretto, il Sessantotto diventa il punto di origine di una sequenza mortifera che ha insanguinato la nazione e che aveva come un unico precedente, non sempre ricordato, gli attentati separatisti dell’Alto Adige. Se allarghiamo lo sguardo, invece, vediamo che il terrorismo non è affatto una realtà originale italiana, ma ha una lunga storia internazionale alla quale il fenomeno italiano si collega. Ecco il cronogramma.

    Cronogramma del terrorismo

    Questa cronologia allontana il rischio di far coincidere l’immagine del Sessantotto italiano con quella del terrorismo e, per estensione, ci salvaguarda dallo stereotipo di un’altra “specificità italiana”, quegli “anni di piombo” che oscurano la più profonda stagione di riforme che la Repubblica abbia conosciuto. Ecco, dunque, i quattro cicli di terrorismo, quali li riconosciamo nell’età contemporanea, con le parole di Flores e Gozzini.

    Il primo ciclo è quello “anarchico” che, soprattutto nell’Europa dell’Ottocento e del primo Novecento prende a bersaglio uomini rappresentanti delle istituzioni e raggiunge il proprio acme nel 1914 a Sarajevo.

    Il secondo è quello “anticoloniale” che va dall’insurrezione irlandese del 1916 fino alla “battaglia di Algeri” del 1962.

    Il terzo è quello “della nuova sinistra” che negli anni Sessanta si collega alla guerriglia in Vietnam e in America Latina per diffondersi in Europa occidentale, America, Medio Oriente e Giappone.

    Il quarto è quello “religioso” che si apre con la rivoluzione iraniana del 1979, colpisce in Afghanistan, Medio Oriente, India, Algeria, Stati Uniti e Giappone negli anni Novanta per poi estendersi su scala globale negli anni Duemila (FG, p. 231)

    c3. Come si lavora con un cronogramma

    Succede che i cronogrammi patiscano la stessa sventura didattica delle mappe concettuali. Si fanno alla fine, come sintesi di ciò che si è studiato. Invece andrebbero considerati strutture mobili, che crescono e si modificano man mano che si studia. Nei cronogrammi che qui presento ci sono alcuni eventi. Nel manuale, come in altri testi, ce ne saranno altri che vi possono trovare posto. Nei rettangoli sotto la cronologia ho posto i “nomi” delle periodizzazioni. Non li farei vedere agli allievi, ma porrei il problema. Posto che il Sessantotto è un evento spartiacque, come chiamare il periodo precedente e come quello successivo? “Dare nome al tempo”, cioè “periodizzare”, è una delle operazioni più interessanti che la storia ci permette. Lanciamo la sfida. Chi trova il nome più adatto. Poi, discutiamo i nomi proposti: si vedrà che ognuno di questi implica una certa lettura del periodo.

    Confrontiamo i cronogrammi. Quello che abbiamo prodotto nel laboratorio con gli altri riportati sotto, anche se non sono stati studiati. Mettiamolo a confronto, anche, con la timeline di storia generale, eventualmente presentata dal manuale. Quali relazioni intravvediamo? Riusciamo a spiegarle?

    Infine, utilizziamo il cronogramma come base per un racconto. Mettiamo in evidenza gli eventi più importanti, quelli che andranno sottolineati. Teniamo presente che il testo deve anche far risaltare il ruolo del Sessantotto. Poi raccontiamo. Basta un testo breve, purché contenga i riferimenti precisi al cronogramma. La sintassi ci rivelerà il grado di maturazione degli allievi: chi troverà connessioni complesse e cercherà di spiegarle; chi, invece, non saprà andare oltre il “e poi”.

    c4. Il tempo delle donne

    Anche la storia contemporanea delle donne è divisa in quattro periodi. Ma qui il Sessantotto gioca un ruolo chiaramente fondamentale. Costituisce, infatti, il momento di passaggio fra la fase “evolutiva” e quella “rivoluzionaria” di questa storia. È Claudia Goldin che ha elaborato questa cronologia, nella quale la prima fase, che inizia alla fine del XIX secolo, vede giovani donne impegnate in lavori generalmente di bassa qualità, che devono però abbandonare una volta sposate. La Prima guerra mondiale genera la spinta verso la seconda fase, che inizia intorno agli anni venti, nella quale il lavoro diventa più facile per le donne. Quelle che hanno studiato possono accedere anche a posti di lavoro intellettuale, ma per tutte il momento del matrimonio coincide con il ritiro dalla vita produttiva. La Seconda guerra mondiale favorisce l’avvento di una terza fase, “di transizione”, con le donne che possono studiare, ritardare l’età del matrimonio, accedere a lavori più interessanti mentre comincia a perdere di forza il vincolo della gravidanza: molte, infatti, possono continuare a lavorare anche dopo il matrimonio.

    Cronogramma della storia delle donne

    Claudia Goldin definisce “evolutive” queste tre fasi perché – per quanto si noti un lento e continuo miglioramento - non comportano cambiamenti fondamentali nell’orizzonte di vita delle donne, nel loro senso di identità e nella capacità di controllare il proprio destino. Ma, giusto alla fine di questa terza fase, troviamo un momento che Goldin definisce di “rivoluzione rumorosa”. Esso è legato alle battaglie per i diritti civili, all’uso della pillola, alla rivoluzione sessuale. È, finalmente, il Sessantotto. Questo, in modo analogo alle guerre mondiali, introduce la fase attuale della storia delle donne, quella della “rivoluzione silenziosa”, nella quale masse di donne, pacificamente, si diffondono nella società, occupandone posti che, nei tempi precedenti, erano stati loro interdetti (FG, pp. 40-41; Claudia Goldin, The Quiet Revolution that transformed Women’s employment, Education and Family, 2006).

    c5. Il tempo dei diritti

    Quando il 10 dicembre del 1948 fu proclamata la Dichiarazione Universale dei Diritti umani, questa, “più che l’annuncio della nuova era, fu una corona funebre posta sulla tomba della guerra”. Con questa battuta pessimistica inizia L’ultima utopia, il libro che Samuel Moyn ha dedicato alla storia dei diritti umani (The Last Utopia, The Belknap Press of Harvard University Press Cambridge, Massachusetts and London, England 2010). Tuttavia, a quasi settant’anni di distanza, non possiamo negare che nel mondo è diffusa la convinzione che “agli esseri umani spetti di godere dei diritti umani” (FG 142). A dispetto dello scetticismo di Moyn, dunque, questa “utopia” ha avuto successo: in particolare dopo il 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, che inaugurò una stagione nella quale molti sperarono che, finalmente, non ci sarebbero stati più ostacoli nell’applicazione di quella Dichiarazione. Oggi i diritti umani si sono imposti come cultura universale, soprattutto nel confronto con le nuove guerre e i genocidi (FG, p. 120 s).

    Qui ci chiediamo se il Sessantotto abbia giocato un ruolo in questa vicenda e se sia stato un ruolo di “spartiacque”. E’ una questione controversa. Ma proprio questa difficoltà può dar luogo a un interessante laboratorio di discussione (l’argomento è spiegato dettagliatamente in un lungo capitolo di FG, pp. 127-145).

    Alcuni studiosi, come Moyn, sostengono che il Sessantotto non ha inciso nella storia dei diritti umani. Di parere diverso altri, come Flores e Gozzini. Al centro della contesa c’è la questione della decolonizzazione. Infatti, i nuovi stati indipendenti si erano distinti – in particolare negli anni ’60 – nella battaglia per il riconoscimento dei diritti umani. Secondo Moyn, però, fu una battaglia viziata dall’antioccidentalismo. Per quegli stati i diritti umani non erano altro che il proprio diritto di combattere contro il colonialismo.

    L’editto di Ciro il Grande, conservato al British Museum

    La Conferenza di Teheran, tenutasi nell’aprile-maggio del 1968, è significativa. Fu inaugurata dallo Shah Reza Pahlevi (non certo un campione dell’umanità) il quale iniziò il suo discorso ricordando l’editto di Ciro il Grande del 539 a.C, suo supposto antenato, considerato spesso il primo editto di tolleranza; ma poi mise ben in chiaro che lo scopo di quella riunione era di rinsaldare i legami e le attività anti-occidentali fra i paesi del Terzo mondo (con l’Urss spettatrice interessata). Quindi, conclude Moyn, il vero decennio dei diritti umani fu quello successivo, con la Conferenza di Helsinki del 1975. E, in ogni caso, fu a Vienna, nel 1993, a venticinque anni di distanza dalla convention di Teheran, che si svolse la prima conferenza delle Nazioni Unite sui Diritti umani.

    Flores e Gozzini non sono d’accordo sul giudizio di “insincerità” espresso nei confronti dell’azione dei paesi del Terzo mondo. Si basano sul lavoro di Steven Jensen, The Making of International Human Rights: The 1960s. Decolonization, and the Reconstruction of Global Values (Cambridge, Cambridge University Press, 2016. Qui Phillipp Kandler ce ne propone una recensione critica esauriente). Secondo Jensen, sono proprio i paesi decolonizzati che spingono per l’accettazione dei Diritti umani. Questi, infatti, sono figli di culture extra-europee (orientali o africane) che preferiscono al guadagno e alla sopraffazione i valori della vita comunitaria, dell’equilibrio e della pace. Ne consegue, prosegue Jensen, che il Sessantotto – nato in un ambiente universitario occidentale - non ebbe nulla a che vedere con i Diritti umani, argomento che non era nella cima dei pensieri dei giovani in rivolta.

    Ma su questo punto il disaccordo con Flores e Gozzini è totale. Ricordano che gli anni ’60 hanno visto il fiorire di manifestazioni contro il razzismo, il machismo, a favore dell’ambiente e per i diritti umani economici. Lo stesso antiautoritarismo, una delle costanti del movimento studentesco, fu un motore nella lotta a favore dei diritti umani, dal momento che i principali conculcatori di questi diritti erano proprio gli stati. E proprio il 1968 fu proclamato dalle Nazioni Unite il primo “Anno internazionale dei diritti umani” (Marcello Flores è autore di opere fondamentali su questo argomento. Qui ne possiamo ascoltare una sintesi.

    Cronogramma dei diritti umani

    c6. Costruire timeline

    Ci sono ancora cinque argomenti, nel nostro libro-palestra: l’Islam, la finanza, il lavoro, il digitale, la cultura. Di ciascuno di questi si può tracciare un cronogramma e interrogarsi sul ruolo del Sessantotto: se fu marginale o “spartiacque”. Si tratta di leggere selettivamente il testo. Sottolineare le date. Cercare quelle parti dove si parla di periodizzazione e, infine, elaborare una timeline. Qui ho usato un programma elementare (Frisechrono). Ma ce ne sono molti che permettono soluzioni più ricche e spettacolari. In ogni caso, sarebbe un buon esercizio di lettura/palestra per gli insegnanti. Se, poi, si riesce a elaborare una timeline che, in linea di principio, sia facilmente riproducibile da un allievo, allora la si proponga loro come esercitazione. Nel caso di una classe estremamente competente, poi, si assegneranno i capitoli a gruppi diversi con il compito di costruire una timeline e spiegarla ai colleghi.

    D. SUGGERIMENTI PER IL LAVORO

    d1. Il ruolo della lezione

    Nel loro insieme queste proposte disegnano un quadro abbastanza completo della vicenda storica. Prese singolarmente ne forniranno solo un pezzettino: ma questo è il destino obbligato per qualsiasi laboratorio che contempli un minimo di attività autonoma da parte degli allievi. Tutto ciò vuol dire che il compito di fornire un quadro generale e complessivo spetta al docente, attraverso la sua lezione. Questo fino a che i discenti non saranno in grado di costruire con una certa autonomia una visione generale di un determinato problema. Giunti a questo livello potrebbero intavolare con i loro professori un dialogo formativo: ma si tratterà di un momento di lavoro scolastico sofisticato, da escludere, a mio modo di vedere, nel segmento di scolarità al quale è diretto questo insieme di laboratori.

    In questo lavoro prevedo due tipi di lezione. La lezione introduttiva, molto breve (non si dovrebbe andare oltre i 15 minuti). Questa dà agli allievi qualche notizia del campo nel quale si lavorerà e cerca di motivarli. Per prepararla, il docente potrà usare come scaletta il modello di Sessantotto che qui ho presentato, mentre dalla prima parte dell’articolo ricaverà spunti narrativi e immagini.

    Il secondo tipo di lezione è quella conclusiva, al termine dell’attività laboratoriale. Più lunga, intorno ai trenta minuti, darà al docente la possibilità di fornire un quadro completo della vicenda, mostrando come i diversi elementi studiati si interrelano fra di loro, tenendo conto, al tempo stesso, dei problemi e degli interessi e delle difficoltà emerse nel corso del lavoro.

    d2. Un modello di unità di lavoro

    L’unità di lavoro, quindi, inizia con la messa a punto del quadro generale, fatta nella lezione introduttiva. A questo punto, il docente prende la prima decisione: lavorare sulla complessità o sul tempo? Sceglie il laboratorio che gli sembra più adatto. Per questo motivo ho disposto i laboratori in una scala latamente progressiva. Per esempio, l’attività sul terrorismo è più agevole di quella sui diritti umani, che richiede letture, comprensione di testi e capacità di discutere, mentre l’ultima attività libera è decisamente riservata a classi competenti.

    I lavori, tutti, prevedono sempre un ricorso ai testi. Infatti, i modelli e le cronologie sono degli strumenti per interrogare i testi, per leggerli selettivamente e cercare le notizie che di volta in volta sono necessarie. Qui ho riportato dei brani molto brevi: saranno sufficienti per un lavoro rapido. Per un lavoro più lungo e intenso, si daranno agli allievi le parti indicate del libro. Laddove possibile (come a volte ho indicato) si faccia ricorso al manuale.

    Terminata la fase della ricerca e del completamento del modello o del cronogramma, si passa alla fase della narrazione. Qui ho descritto brevemente come ricavare un racconto da uno schema (sopra, il punto f). Per il cronogramma è più facile. Basta seguire la linea del tempo, come abbiamo già visto. Per renderla più complicata (e in connessione con l’insegnamento della lingua), si proporranno delle varianti: fai una narrazione a ritroso, partendo dall’oggi; fai una narrazione ad anello, centrata sul Sessantotto. Questa parte del modulo potrà essere svolta a casa, individualmente (anche nel caso del lavoro di gruppo).

    Infatti, posto che questo lavoro si svolge in classe con le modalità di una lezione partecipata, si suggerisce anche la formula del lavoro a gruppi, soprattutto se si dispone di una classe competente. Per quanto riguarda il lavoro sulla complessità, l’insegnante mostra come si lavora su uno schema. Sviluppa questo esempio sul caso più difficile, lasciando agli allievi i casi più facili. Di seguito, assegna ad ogni gruppo uno schema. Per quanto riguarda il lavoro sul tempo, invece, dal momento che gli esempi che ho presentato sono tre, ne adopera uno per mostrare agli allievi “come si fa”, poi divide la classe in due (o quattro) gruppi, assegnando a questi i due cronogrammi rimanenti. Si è già detto che, nel caso di una classe molto competente, si assegnerà il lavoro “libero” sui capitoli del testo che qui non sono stati trattati.

    Il modulo di lavoro termina con la lezione frontale del docente, nel quale questi, tenendo conto dei lavori dei ragazzi, del livello di comprensione che questi hanno rivelato e dei problemi emersi, espone agli allievi la sua ricostruzione del periodo.

    Qui sopra il diagramma operativo. Suggerisco di progettare un modulo di due ore. Nella prima si apre con la lezione introduttiva e si lavora con lo schema (o con la cronologia). Si assegna il compito da svolgere a casa. Nella seconda, si continua a lavorare o si discute e, nell’ultima mezz’ora, si eroga la lezione conclusiva.

     


     

    * La prima parte “L’evento e la memoria” è stata già pubblicata su HL. La terza parte e la postilla conclusiva verranno pubblicate a breve.

  • Io non condivido

    Autore: Antonio Brusa

    Immagini di guerra, social e didattica della storia

     

    Indice
    •    Introduzione
    •    Testimonianze da una guerra passata, ancora moderna
    •    La globalizzazione del fronte interno
    •    Il ruolo dell’insegnante di storia


    Introduzione
    In tempi angosciosi, nei quali i social network sono invasi da immagini di guerra, vorrei discutere sull’impulso di indignazione e di compassione che mi spinge a condividerle sulla mia bacheca. Ci vorrei ragionare, però, non come cittadino, utente di Fb. Qui ognuno fa la sua scelta. Il tasto “mi piace” serve apposta per sottometterla all’approvazione degli altri. E penso che funzioni, tutto sommato. Ci vorrei discutere come storico e insegnante di storia. C’entra il mio mestiere in questo giro di immagini, mi chiedo; mi aiuta a vedere la questione da un punto di vista particolare, e da questa angolazione mi permette di suggerire qualche riflessione, forse utile per chi fa il mio lavoro?

    La prima considerazione è quasi automatica. Le immagini di guerra fanno parte della guerra. Da sempre. Da quelle graffite nelle grotte neolitiche, a quelle dei raffinati decoratori della ceramica greca, ai bassorilievi romani, ai monaci che adornavano i loro manoscritti con teste mozzate, combattimenti e città sotto assedio: non proseguo una lista che molti saprebbero completare meglio di me. Ritorno, invece, sulla frase di sopra, perché non è a effetto. Le immagini di guerra FANNO parte della guerra, e lo hanno fatto da SEMPRE. L’eroe che uccide, è il campione che ci libera dai malvagi. Noi lo vediamo in azione e ci esaltiamo nella sua ammirazione. E se quella scena la vedono gli altri, i nemici, che stiano ben attenti, rappresentati come sono nella loro prostrazione umiliante. Tutta un’altra storia, invece, se sono loro a uccidere. In questo caso diventano barbari e feroci, e noi le vittime innocenti che suscitano compassione. Sono tanto cattivi, che uno non può non condividere il fatto che bisogna proprio ammazzarli.

    E dagli, con la tua storia antica e medievale, mi direte. Oggi siamo in un’altra epoca, quella della documentazione della realtà. Quelle antiche sono immagini costruite. Nascono con un messaggio “politico” dentro. Sono fatte per eccitare gli animi, incutere paura, giustificare il massacro. Queste no. Ecco il morto, ecco il reporter, tu vedi quello che accade sul campo di battaglia. Tu HAI diritto a vedere quello che succede. Nei tempi andati, era il “potere” che decideva quello che potevi vedere. Oggi è diverso, perché i media sono gli strumenti della democrazia visiva. E i social sono ancora più democratici, perché mettono nelle tue mani questi mezzi. Che ti sei messo in testa, vuoi discutere la democrazia della rete? Vuoi mettere in dubbio il lavoro meritorio di tanti reporter, che, a rischio della vita, documentano i fatti più atroci dei nostri tempi?

    No. Non ne voglio parlare. Non mi avventuro nella diatriba intricatissima, se questa sia o meno la democrazia cognitiva che tutti aspettiamo. Io voglio solo ragionare sul gesto personale della condivisione.


    Testimonianze da una guerra passata, ancora moderna

     

     

     

    Alcuni anni fa, in una piccola e bella mostra sulla Prima Guerra mondiale, organizzata nelle Marche da Costantino Di Sante,  quando ancora non si erano accesi i riflettori del centenario, vidi questa foto di Cesare Battisti, scattata dai suoi carnefici subito dopo la sua esecuzione. La didascalia non ricorda l’eroicità di Cesare Battisti, il “martire purissimo”, come veniva celebrato nei discorsi ufficiali, nella stampa e perfino nei manuali, ma denuncia l’oltraggio del cadavere. Il massimo della barbarie. Quella era una guerra giusta – veniva a dire così la foto - mossa da genti civili contro gli imperi barbari che schiavizzavano dei popoli europei.

    Quell’immagine ebbe una grandissima diffusione. Me ne colpì la versione trovata da Di Sante, perché era stata riprodotta su una cartolina postale. Dunque, venne utilizzata in quello stesso circuito comunicativo, attraverso il quale ormai passavano le rappresentazioni delle bellezze locali (non solo paesaggistiche); si tenevano in vita i rapporti affettivi e ci si diceva spesso delle futilità. Le cartoline postali erano molto meno impegnative di una lettera, e perciò più rapide da scrivere. Oggi sono pressoché scomparse, ma fino a poche decine di anni fa costituivano una fetta importante della comunicazione sociale. Tessevano una sorta di rete meccanica, che funzionava con i treni e le biciclette dei postini. Un social network a pedali.

    In questo modo gli italiani reimpiegarono una fotografia austriaca, scattata per onorare la memoria di un’uccisione, che al di là delle Alpi venne considerata sacrosanta. Battisti, eroe per l’Italia, era un traditore per l’Impero e - a giudicare dalla letteratura successiva e dalle vicende commemorative in quel di Trento - la questione non si chiuse affatto con la pace di Versailles. Non so quanto quella foto circolasse in Austria. La notizia dei fatti, sì. Ne ho trovato una traccia stupefacente nella mostra Am meine Völker, che si visita alla Biblioteca Nazionale di Vienna. Questa esposizione si apre con l’appello alla guerra di Francesco Giuseppe a austriaci, ungheresi, italiani e alle numerose altre genti dell’Impero, “i miei popoli”, e si chiude malinconicamente con il proclamacon il quale Carlo I, il suo successore, annunciò l’autonomia di quegli stessi popoli, un mese prima della capitolazione del novembre 1918.

    Vi ho appreso che, al principio della guerra, qualcuno ebbe l’idea di creare un centro di documentazione al quale i cittadini potessero inviare le loro testimonianze, scritte, visive o materiali del conflitto. Subito il successo fu tale che i depositi non bastavano. Poi, con il declinare degli eventi, l’entusiasmo scomparve e quei centri vennero dimenticati. Furono riscoperti ai nostri giorni dagli storici, che solitamente mostrano grande soddisfazione quando – di un fatto epocale – trovano le testimonianze della gente comune, come questa raffigurazione del supplizio di Battisti.

     

     

     

    Si tratta di un compito. Il disegno di uno scolaro di Graz. Molto probabilmente non conosce la nostra foto. Ce lo dicono il paesaggio, l’atteggiamento dei presenti e la forca, disegnata come fanno sempre i bambini. Ha sentito un racconto. Cesare Battisti marcia, vestito da “cacciatore delle Alpi”, come il ragazzo avrà visto in tante sfilate, questa volta verso il patibolo, dove un prete lo attende con un ufficiale che legge la condanna. Non ho nessun elemento per immaginare i sentimenti e i pensieri profondi di quel ragazzo. Ma ne ho qualcuno per ipotizzare un contesto di quel disegno. Siamo in una scuola. L’insegnante avrà parlato della cattura di Battisti, del processo e dell’esecuzione. Ha pensato che fosse suo dovere di educatore e, probabilmente, gliene giunsero esortazioni pedagogiche autorevoli. Poi ha dato le consegne, e l’allievo si è ingegnato per eseguirle. Forse il compito è stato svolto in classe; oppure a casa, dove lo avranno visto i genitori, ai quali il ragazzo potrà aver riferito il giudizio (“visto!”, se leggo bene) dell’insegnante.

    Quante volte abbiamo visto i disegni dei bambini in tempo di guerra? Quelli strazianti dei piccoli prigionieri di Terezin e quelli delle vittime degli innumerevoli altri conflitti dell’ultimo secolo? Ci commuovono. Li sentiamo come nostri, quei ragazzini. Ma questo ragazzo e quella rivoltante pedagogia di guerra ci turbano. Ci fanno percepire, a un secolo di distanza, l’enorme differenza che intercorre fra una società che vive in guerra, e una, come la nostra, che non la sperimenta da quasi settant’anni. Quello scolaro è lontano da noi, esattamente come quel fidanzato che, pensando di fare una cosa carina, inviò alla sua ragazza la cartolina postale con un boia e un cadavere.

    Quelle immagini, infatti, sono – per uno storico – le fonti (alcune delle tante) che testimoniano della costruzione del fronte interno. Sono strumenti attraverso i quali la gente dietro le trincee venne compattata e schierata contro un nemico, che quelle stesse figurine contribuivano a creare. Il nostro ipotetico fidanzato italiano e lo scolaro austriaco combattevano, per quanto in abiti civili. Senza imbracciare il fucile, ma usando mezzi della vita pacifica e quotidiana, come la posta e la scuola. Perché questi, in guerra, vengono trasformati in armi.


    La globalizzazione del fronte interno

    Sento l’obiezione. Ancora fatti d’altri tempi? Quel fronte interno (della Prima, come della Seconda Guerra mondiale) era strettamente legato al nazionalismo e alle sue aberrazioni. Roba vecchia, che non conta più come allora. Per lo meno, ha una presa assai minore nell’Europa occidentale, laica, civile, imbelle, secolarizzata, disincantata.

     È vero. Le cose sono cambiate, ma in modo sorprendente. Considerate una fotografia celebre, quella del bambino di Varsavia. Fu scattata da un gerarca che si voleva far bello alla corte di Hitler; diventò una denuncia del massacro ebraico. Decontestualizzata, si trasformò in simbolo generico di violenza contro i bambini; fino ad essere capovolta, ai nostri giorni e proprio nel gioco ideologico generato dai conflitti vicino-orientali, e costretta a diventare il simbolo dell’oppressione israeliana nei confronti dei palestinesi. Una vicenda complessa e lunga, raccontata da Frédéric Rousseau , che ha portato quella foto, testimonianza di un’azione di sterminio, a diventare un’icona, ormai scollegata dalla sua origine, comprensibile in ogni parte del mondo, adattabile ad ogni situazione violenta. Un’icona globale. (Ilenia Rossini e Anna Vera Sulam Calimani ne fanno delle recensioni esaurienti (http://www.unive.it/media/allegato/dep/n10-2009/Schede/Recensione_Sullam.pdf; http://www.officinadellastoria.info/magazine

    /index.php?option=com_content&view=article&id=352:recensione-f-rousseau-il-bambino-di-varsavia-storia-di-una-fotografia&catid=68:fotografia-e-storia )

      Un disegnatore danese, Per Marquard Otzen, accosta il disegno del bambino palestinese alla celebre immagine del bambino di Varsavia

     

    E’ vero, dunque. Quel meccanismo, che abbiamo visto attivarsi al tempo di Battisti, è cambiato, perché è diventato pervasivo e potente. Ciascuno di noi se ne rende conto, sfogliando un album di icone globali che vanno dall’insegna di Auschwitz, ai carri merci, ai mucchi di cadaveri, alle fosse comuni, fino ai Che Guevara indossati dai ragazzi di estrema destra.
    E’ cambiato anche un altro aspetto di queste immagini: la loro efficacia nella creazione di un fronte interno. Anche in questo caso, si tratta di una potenza che non ha fatto che crescere, man mano che avanzavano i processi di globalizzazione. Ci basta rammentare – per tutte - la napalm girl, la bambina vietnamita che fugge impaurita dai bombardamenti americani. Entrambe contribuirono potentemente alla creazione di un fronte antiamericano le cui dimensioni coincisero con il pianeta, e con il quale gli Usa, prima potenza militare del mondo, dovettero scendere a patti.

    Ecco:  potenti, duttili e globali, queste sono le nuove armi iconiche a disposizione dei signori delle guerre odierne. Il social è uno dei campi preferiti di questa battaglia. Tu clicchi “condividi” e vieni arruolato. Il signore vanterà un fronte interno smisurato, incomparabilmente più vasto dei bacini ai quali si rivolsero le nazioni del secolo scorso.

    Immagino che la sera, quando si tirano le somme, i capi contino le bombe lanciate sulla testa del nemico, i razzi scagliati, i nemici ammazzati (militari o no, vanno tutti nel mucchio) e le immagini condivise. Trecento razzi, dice uno; duecentomila condivisioni, dice l’altro. Il capo (o il team delle teste pensanti) approva, decide la strategia per il giorno dopo. Vaglia le immagini che hanno avuto più successo: la mamma straziata, la bambina che cerca i libri fra le macerie, il mucchio di cadaveri. Soggetti che una guerra produce con generosità. Non importa come siano state realizzate: se da un reporter coraggioso o da una persona qualunque con lo smartphone, o da un fotografo embedded. Si tratta di individuare quelle che funzionano di più, che hanno iscritto più gente al proprio fronte interno globalizzato. Non importa il motivo per il quale, domani, uno le condividerà: per informare, testimoniare, vendicarsi, indignarsi, chiedere la pace e la fine del massacro. Domani, ognuno combatterà con le sue armi. Uno con il lanciarazzi e l’Ak47, il Raphael o l’Iron Dome. L’altro col tasto “condividi”.

    Ecco perché esito a condividere. Ecco perché non condivido, per quanto il mio primo impulso sia quello di comunicare agli amici la mia rabbia e la mia pietà per gli uccisi, pensando che quella foto dia forza e verità al mio sentimento. Non lo faccio per lo sdegno piccato di chi sospetta di essere strumentalizzato. Perché “non mi va di essere arruolato a mia insaputa”. Ma, perché – come mi ha insegnato il disegno della ragazzino di Graz – io vivo in un altro mondo, che in questo momento è fortunatamente in pace. Posso scegliere il mio ruolo. Entrare nel conflitto, a sostegno dell’uno o dell’altro, o dire basta. Cessate le armi. Ma con quale credibilità chiederò il passo indietro di entrambi, se faccio parte di uno dei fronti? Come posso chiedere la pace, se entro in guerra?

    Perché non contribuire a creare un altro fronte interno, a sostegno di quelli – palestinesi e israeliani – che chiedono la pace, l’hanno chiesta in passato, e oggi sono stati messi in minoranza,  vittime di nemici e di connazionali? Perché non incoraggiarli con la consapevolezza di avere alle spalle un fronte interno grande e potente?

    Non è necessario essere pacifisti, per valutare questa opzione. Non so che cosa farei se gli italiani fossero coinvolti direttamente in un conflitto. Non sono dentro una guerra, quindi non posso giudicare chi si trova nell’inferno e ne segue la logica. Né giudico chi, animato da intenzioni generose, si schiera sul web. Credo, però, che un buon compito per chi si trova momentaneamente in pace, per chi da settant’anni non sperimenta la guerra sulla propria pelle (privilegio unico nella storia), sia quello di aiutare gli altri ad abbassare le armi. E questo non si fa applaudendo i guerrieri, né brandendo le vittime.


    Il ruolo dell’insegnante di storia

    Condividere o no è una scelta personale. Ne ho esposto i miei motivi. Penso che gli autori di moltissime condivisioni ne avranno di altrettanto validi e che se ne possa discutere. In fondo, è il lusso che ci concede lo stato di pace. Quello che so, per certo, è che – essendo una scelta personale – questa non può essere oggetto di valutazione, e quindi di una qualche direttività didattica. Libera per me, libera anche per gli studenti.

    Allora, che cosa insegnare di questa vicenda?
    La storia della circolazione sociale delle immagini, che ho ricordato senza alcuna pretesa di completezza (per questa occorre studiare i lavori di chi se ne è occupato professionalmente, come Giovanni De Luna  o Peppino Ortoleva),  pur nella sua brevità, è sufficiente per alcune risposte. Provo a suggerirne cinque.

    Costruire la profondità temporale dell’evento. La storia fornisce una prospettiva temporale a ciò che sembra un tipico prodotto del presente. C’è un passato, nell’uso bellico delle immagini, che mi permette di riflettere sul fatto che io sono in grado di vedere qualcosa di un evento bellico che si svolge a distanza. Questa vicinanza al fronte di chi sta nel retroterra non è “naturale”. E’ costruita, ha i suoi scopi, le sue regole, i suoi problemi, a volte i suoi controllori. Questo sistema complesso, attivato nelle società fin da tempi lontanissimi, si è modificato nel tempo. Oggi ne viviamo una fase molto particolare e molto efficace. Per mettere in grado il soggetto di valutare questa specificità, occorre che egli sia in grado di ricostruire questa prospettiva. Di conseguenza è importante, proprio per prepararlo a gestire il flusso di immagini belliche odierne, insegnargli a leggere quelle del passato.

    - Comprendere il meccanismo della diffusione sociale delle conoscenze. La storia ci mostra come funziona questo meccanismo intricato, che lega il fronte al retroterra. Quali sono gli interessi, gli attori, gli strumenti della comunicazione, gli effetti. Ti avvisa che accedere a questo sistema è entrare nel gioco, diventarne un soggetto attivo – anche se non lo si vuole. Lo era in passato. Oggi, con i sistemi di computo delle visualizzazioni, e con la possibilità di contribuire alla circolazione delle informazioni, lo è ancora di più.

    - Saper gestire criticamente le fonti. La disciplina storica è il più antico deposito di tecnologia dell’informazione che l’umanità abbia costruito. Lo facciamo da 2500 anni, da quando Erodoto cominciò a raccogliere notizie e a interrogarsi quale fosse verosimile, quale vera e quale invece una fandonia. La storiografia ha elaborato un sistema di critica delle notizie, che ci permette di costruire un’immagine ponderata della realtà, a dispetto della loro fallacia, voluta o inconsapevole (Elena Musci ha mostrato come si possano utilizzare in classe anche le “foto false” del fascismo).  Nessuno di noi “vede” le atrocità della guerra. Noi vediamo documenti visivi di queste atrocità. L’effetto di realismo di queste immagini, accentuato dal movimento e dal suono, ha lo straordinario potere di ingannare il suo fruitore. Il suo disinganno è la premessa insostituibile per un uso corretto delle immagini. Oggi, fornire gli allievi degli strumenti elementari per valutare le notizie, diventa un compito che qualifica l’utilità civile dell’insegnamento della storia.

    - Avere un approccio critico ai media. C’è un’educazione ai media alla quale la storia può fornire un contributo specifico.  Per valutare criticamente un’immagine, occorre sapere chi l’ha scattata, per quale scopo, attraverso quali agenti è stata messa in circolo, qual è l’uso che se ne sta facendo. Senza queste notizie, l’immagine non riuscirà mai a funzionare come documento che aiuta il fruitore a capire quello che succede. E, mentre diminuisce il suo potenziale informativo, aumenta parallelamente il rischio che si presti a essere ingrediente di un discorso politico, ideologico, o di altro genere. Potremmo dire, allora, che un soggetto è educato ai media non solo quando sceglie per sé le immagini dotate di questi requisiti; ma anche quando se ne fa tramite attraverso la rete.

    - Conoscere la storia sociale della guerra e della pace. La storia può (deve) insegnare la differenza che esiste fra una società in guerra e una in pace. Non, come si fa solitamente, le cause, lo svolgimento, i protagonisti e l’esito di una guerra. Deve far capire quanto distanti siano le due società. Quanto diversamente funzionino le rispettive logiche; come si pensi diversamente, la scala diversa dei sentimenti, e gli ordini morali ribaltati.


    C’è infine, una forma di condivisione della quale non parlano mai i guru del web, ma che interessa la scuola da vicino: quella che inzeppa tesine, ppt e ogni genere di elaborato-compito multimediale. Mi capita spesso di vederne, in giro per le scuole. Solitamente i docenti me li mostrano con gli occhi lucenti di soddisfazione. Ne ricordo uno per l’imbarazzo che mi procurò. Era un 25 aprile. Il prof aveva curato, con i suoi allievi, un ppt sulla Liberazione, intitolato Democrazia contro Dittatura. Un montaggio ammirevole, veloce. La musica hard, sparata a mille, commentava una collezione di poveri impiccati, torturati, bruciati vivi, come se ne trovano a bizzeffe nella rete. Immagini scattate dagli stessi boia o con gli smartphone da chi si assiepava a vedere lo spettacolo. Di grande presa emotiva. Osservavo i ragazzi, catturati dai ritmi musicali e iconici. Per quello che riesco a capire era tecnicamente inappuntabile. Per quello che so, era una grave opera di diseducazione.

  • Italiani di Crimea

    Diario di bordo, 6 marzo

    Seguendo un breve e frettoloso articolo dell'Espresso, un riassunto in verità dell'intervista che sussidiario.it ha ottenuto da Giulia Boico, cittadina ucraina di origini italiane, ho scoperto che fin dal principio dell'Ottocento, si stabilì una piccola comunità italiana nella penisola di Crimea. Secondo l'Espresso si tratterebbe di una comunità le cui origini risalgono alle immigrazioni favorite dalla zarina Caterina II, e sarebbero composte da genovesi, pugliesi, friulani ecc.

    Da questa intervista sono risalito a un libro (un pamphlet, dicono i suoi stessi autori), scritto dalla Boico e da Giulio Vignoli, un docente universitario di Genova. Lo potrete leggere nel link che trovate alla fine (se lo volete in cartaceo, dovete ordinarlo dall'Ucraina...). Il sito da cui l'ho preso è quello dell'Unione Monarchica, nel quale si vede uno degli autori affianco ad un'Altezza Reale, durante la presentazione del libro.

    Intuibile il coté ideologico di questo lavoro. Ma il lettore accorto lo saprà ben neutralizzare. Vi troverà tante notizie utili, anche per correggere il frettoloso articolo dell'Espresso. Innanzitutto, il fatto che Caterina II c'entrava ben poco con questa comunità. In secondo luogo, che essa (circa 2000 persone) era prevalentemente composta da pugliesi, della provincia di Bari, per la precisione. In terzo luogo, che non è vero - come suggerisce l'articolista vittima anche lui dell'epidemia di "castite", che ha colpito l'Italia - che "il governo" ha dimenticato questa enclave italiana. Anzi, è proprio il contrario: i governi italiani non hanno mancato di occuparsene, spesso a sproposito e cercando di sfruttarla a proprio vantaggio. E questa ne ha pagato durissime conseguenze, quali le vendette postbelliche che Stalin organizzò contro tutti quelli che, a torto o a ragione, lui sospettò di collusione con i nazifascisti.

    Ma la parte più interessante, anche per un docente, è costituita da 14 piccole autobiografie, raccolte dai due autori, si vede con amore. Vi troverete quella di Angelina Caminelli, originaria di Bisceglie. La storia incredibile di Nicola Bassi, che prima emigra in America e poi se ne va in Crimea, perchè, dice un suo nipote "l'America non gli fu piaciuta". E tante altre. Se ne può fare un bel lavoro in classe. O le si possono leggere.

    Anche perché a dimenticare questa storia non sono i governi che si sono succeduti in Italia. Non è che siano stati degli stinchi di santo. Ma gettare sempre a loro la colpa di tutto è come autoassolversi. E, in questo caso, siamo stati noi a dimenticare. 

    Il libro lo trovate qui: http://www.monarchia.it/pubblicazioni_crimea.html

    Su questa comunità, che alcuni anni fa fu visitata da una delegazione della regione puglia, è intervenuto varie volte Marco Brando

    http://www.mondimedievali.net/microstorie/kerc.htm

     

    http://espresso.repubblica.it/internazionale/2014/03/05/news/noi-italiani-di-crimea-dimenticati-dal-governo-1.155873?ref=HRBZ-1

  • L'assalto alle statue di Colombo

    di Daniele Boschi

     

    Immagine 1. Colombo BostonFig.1: La statua di Cristoforo Colombo a Boston (Massachusetts) decapitata lo scorso 10 giugno. Fonte Un corposo dossier sulla Guerra delle statue

    Historia Ludens è intervenuta più volte sulla questione dell’abbattimento delle statue, con articoli sugli attacchi ai monumenti avvenuti a partire dal giugno scorso, sul dibattito sviluppatosi intorno alla cosiddetta “guerra delle statue” e sulla proposta di abbattere la statua di Costantino il Grande; abbiamo pubblicato inoltre una sitografia analitica e la presa di posizione degli storici che lavorano al progetto Contested Histories dell’IHJR (Institute for Historical Justice and Reconciliation). Ma l’analisi degli eventi più recenti rimarrebbe sicuramente incompleta, se tralasciasse il fatto che la principale vittima della furia iconoclasta, scatenatasi negli USA dopo l’uccisione di George Floyd lo scorso 25 maggio, non è stata il generale Robert Lee, né Jefferson Davis, né alcun altro dei Confederati, ma piuttosto Cristoforo Colombo.
    Il navigatore genovese, pur non avendo mai messo piede sul territorio attuale degli Stati Uniti, è considerato infatti dai suoi detrattori come una figura simbolo del colonialismo, dello schiavismo e del genocidio dei nativi americani. Per questo motivo, circa trenta statue di Colombo sono state vandalizzate, abbattute o rimosse tra il 9 giugno e il 31 luglio di quest’anno, un numero molto più alto di quelle di ognuno dei Confederati preso singolarmente. E non è affatto detto che la vicenda si chiuda così, dato che ci sono ancora svariate decine di monumenti dedicati a Colombo ancora al loro posto, sparsi sul territorio statunitense (lo si deduce confrontando questo elenco con quello delle statue abbattute o rimosse).

     

    Colombo nella memoria degli Stati Uniti

    Gli attacchi alle statue di Colombo negli Stati Uniti hanno alle spalle una lunga storia, che credo sia utile ricostruire sommariamente (per una analisi più approfondita si veda A. Brusa, Colombo eroe o malfattore? in M. Gazzini, Il falso e la storia, Feltrinelli, Milano 2020, in corso di stampa).
    Va tenuto presente anzitutto che la figura di Cristoforo Colombo ha avuto un ruolo molto importante nella definizione dell’identità e delle origini degli Stati Uniti d’America. Nel corso dell’800 Colombo è divenuto l’oggetto di un autentico culto, sia da parte delle élites sia nella cultura popolare della nuova nazione nordamericana. Un importante e ben noto contributo alla costruzione del mito di Colombo fu la celebre biografia di Washington Irving, A History of the Life and Voyages of Christopher Columbus (1828), alla quale si devono buona parte degli elementi costitutivi dell’immagine eroica e romantica del navigatore genovese, tramandata a generazioni di scolari fino a non molto tempo fa. A ciò si aggiunge il fatto che, a partire dalla fine del XIX secolo, Cristoforo Colombo è stato innalzato a figura simbolo degli immigrati italiani negli USA e della loro travagliata integrazione in quel paese. Fu anche in seguito alle pressioni esercitate da un influente uomo d’affari italo-americano, Generoso Pope, che il Presidente degli Stati Uniti F. D. Roosevelt riconobbe nel 1934 il Columbus Day (12 ottobre)come festa nazionale[1].

    A Colombo sono dedicate strade, piazze e monumenti in tutti gli Stati Uniti. Numerose contee e città – tra le quali le capitali dell’Ohio e della South Carolina – e una prestigiosa università – la Columbia University di New York - portano il suo nome, o quello da lui derivato di Columbia. In suo onore il territorio della capitale degli Stati Uniti si chiama, appunto, District of Columbia.
    In netto contrasto con questo glorioso passato, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso la figura dell’esploratore genovese è divenuta oggetto di dure critiche, sia da parte della cosiddetta storiografia ‘revisionista’, sia da parte degli attivisti dei movimenti che si battevano per i diritti dei nativi americani e di altre minoranze[2]. Si è cominciata allora a diffondere una nuova immagine di Colombo, visto non più come il grande navigatore che ha scoperto l’America, ma come l’uomo che ha avviato lo sfruttamento e il genocidio degli abitanti originari del Nuovo Mondo. 

    La decostruzione del mito di Colombo ha avuto varie ripercussioni, anche per effetto delle campagne organizzate dalle associazioni dei nativi americani. Come è ben noto, numerose città e stati, a partire dal 1990, hanno abolito il Columbus Day, rimpiazzandolo in molti casi con l’Indigenous Peoples’ Day(o Native Americans’ Day)[3]. E gruppi di attivisti hanno cominciato a chiedere la rimozione delle statue e dei monumenti dedicati a Colombo, che sono stati talora oggetto di vandalismo, soprattutto in questi ultimi anni, fino all’escalation avvenuta a partire dal giugno scorso.

     

    Immagine 2. Washington IrvingFig.2: Washington Irving (1783-1859), autore della History of the Life and Voyages of Christopher Columbus (1828), alla quale risalgono buona parte degli elementi costitutivi dell’immagine eroica e romantica del navigatore genovese. Fonte Colombo nella memoria storica dell'America latina

    È utile ricordare che anche nell’America latina la fortuna di Colombo ha seguito una parabola abbastanza simile a quella descritta negli USA. A partire dal secondo decennio del ‘900, diversi Stati dell’America centro-meridionale hanno celebrato il 12 ottobre come Día de la Raza, per ricordare l’incontro e la contaminazione tra spagnoli e nativi americani come elemento fondante della propria identità nazionale. Ma a partire dalla fine del secolo scorso, molti governi hanno cambiato il nome di questa ricorrenza, che è diventata ad esempio in Venezuela il Día de la resistencia indígena e in Argentina il Día del Respeto a la Diversidad Cultural. Inoltre, alcune statue di Cristoforo Colombo sono state abbattute o rimosse, per essere poi sostituite con monumenti dedicati ai protagonisti della resistenza dei nativi contro i colonizzatori europei. Nel 2015, a Buenos Aires, una statua di Juana Azurduy de Padilla, che lottò per l’indipendenza della Bolivia, ha sostituito un monumento del navigatore genovese. E nello stesso anno a Caracas è stato inaugurato un monumento a Guaicaipuro, leader della resistenza ai conquistadores, sullo stesso posto dove prima si ergeva una statua di Colombo, abbattuta nel 2004.
    La trasformazione dell’immagine di Colombo avvenuta negli ultimi decenni è un fenomeno molto complesso. Infatti, come ha messo in evidenza Antonio Brusa (nel saggio che ho già citato) l’azione demistificatrice, tipica di una storiografia critica, è stata accompagnata da un curioso processo di mitopoiesi “che mentre distrugge il vecchio mito – del Colombo modello di cittadinanza – ne produce uno nuovo, del Colombo simbolo del dominio occidentale sul pianeta e concentrato di crimini contro l’umanità”[4]. C’è inoltre un evidente rapporto – secondo Brusa – tra questo processo e lo stretto connubio tra storia e identità, che si è affermato in tutte le società nel passaggio dall’età della guerra fredda al caotico mondo globale dei nostri tempi. Come vedremo, il dibattito statunitense sugli assalti alle statue di Colombo conferma questa interpretazione.

     

     Colombo nei media americani

    Per esaminare le reazioni e i commenti ai recenti attacchi alle statue di Colombo negli Stati Uniti, diamo un rapido sguardo ad alcuni dei principali quotidiani statunitensi: essi rivelano un’opinione pubblica divisa e non di rado perplessa.
    Alcuni commentatori e, soprattutto, molti amministratori locali non sembrano nutrire molti dubbi sul fatto che i monumenti a Cristoforo Colombo vadano rimossi. Ad esempio, lo scorso 23 luglio, il “Chicago Tribune”, di fronte alle pressanti richieste di rimuovere le statue del navigatore genovese dagli spazi pubblici della città, ha pubblicato un editoriale il cui titolo dice già tutto: “Christopher Columbus was a fraud. He doesn’t deserve statues or a holiday in his honor” (Su Cristoforo Colombo ci hanno ingannati. Non merita statue né una festa in suo onore). L’autrice dell’articolo, Dahleen Glanton, afferma che i libri scolastici, sui quali lei stessa e i suoi concittadini si sono formati, sono pieni di bugie riguardo alla cosiddetta “scoperta dell’America”; e fornisce questa breve ma densa descrizione della figura e delle imprese di Colombo:

    Egli fu certamente un esploratore coraggioso e di successo, ma fu anche un uomo malvagio e brutale che non mise mai piede in quel posto dove ora sono gli Stati Uniti. Sbarcò per caso nei Caraibi, lasciando un retaggio di razzie e schiavitù, per poi essere alla fine arrestato e tornare in Spagna in catene, privato della sua nobiltà. Per la maggior parte dei bianchi americani, Colombo è l’intrepido conquistatore che diede inizio alla colonizzazione transatlantica, che ha reso possibile la loro presenza qui. Ma per molti nativi americani, egli rappresenta il perfetto esemplare di un barbaro colonizzatore. Il sanguinoso processo dell’occupazione coloniale delle Americhe cominciò con lui. Sulla scia della colonizzazione un numero enorme di nativi americani furono uccisi, ridotti in schiavitù o altrimenti cacciati dalla loro terra” (le traduzioni di questo e degli altri brani sono mie).

    Altri editorialisti si sono espressi con maggiore cautela. Per esempio, sullo stesso quotidiano (“Chicago Tribune”, 22/07/2020), Blair Kamin aveva manifestato forti perplessità circa la richiesta di rimuovere le statue di Colombo:

    | Per i suoi difensori, che comprendono molti membri della comunità italo-americana di Chicago, Colombo è ben rappresentato come un audace, pioneristico esploratore che aprì la strada alla prosperità e al progresso sia in America che in Europa. Eppure alcuni recenti studi storici lo dipingono come uno spietato colonizzatore e sfruttatore dei nativi. Per alcuni storici, egli è entrambe le cose. Data questa diversità di opinioni, la questione se sia giusto onorarlo si colloca, almeno a mio giudizio, in una zona grigia, diversa dal caso, facile da risolvere, dei monumenti dei capi dei Confederati, che combatterono sia per distruggere l’Unione, sia per perpetuare la schiavitù.

     

    Colombo e le associazioni dei nativi americani

    D’altro canto, come era logico aspettarsi, l’abbattimento o la rimozione delle statue di Colombo sono stati appoggiati, o addirittura promossi, dalle associazioni dei nativi americani.
    Per esempio, dopo che una statua di Colombo è stata decapitata a Boston il 10 giugno scorso, Jean-Luc Pierite, presidente del North American Indian Center, ha dichiarato che quel monumento rappresentava “la violenza di stato subita dai neri e dai nativi americani per oltre 500 anni” e che qualsiasi tentativo di restaurarlo avrebbe incontrato l’opposizione di queste due comunità. A St. Paul nel Minnesota, Mike Forcia, esponente dell’American Indian Movement, ha promosso e organizzato lui stesso l’abbattimento della statua di Cristoforo Colombo nei pressi dello State Capitol. A Baltimora, dopo lo smantellamento di un’altra statua del navigatore genovese il 4 luglio scorso, Jessica Dickerson, rappresentante dell’associazione Indigenous Strong, ha commentato l’evento con queste parole: “Noi non otteniamo molte vittorie, giusto? Questa è una piccola, ma grande vittoria, [Colombo] è stato un assassino per il mio popolo”.

     

    Immagine 3. Colombo Baltimora 1Fig.3: La statua di Cristoforo Colombo nella zona di Little Italy a Baltimora (Maryland), prima che fosse abbattuta il 4 luglio scorso. Fonte Colombo e le comunità italiane

    Vigorose sono state invece le lamentele e le proteste dei rappresentanti delle comunità italo-americane.
    A Baltimora John Pica Jr., presidente dell’associazione Little Italy’s Columbus Day Commemoration, ha dichiarato che la statua di Colombo appena abbattuta era un monumento agli italo-americani e che questi continueranno comunque a celebrare il Columbus Day. A Columbus, capitale dell’Ohio, dopo l’annuncio che la statua dell’esploratore genovese sarebbe stata rimossa dalla West Broad Street, il Columbus Piave Club ha rilasciato una vibrante dichiarazione di protesta, lamentando di non essere stato nemmeno consultato dalle autorità municipali e ricordando il contributo dato dalla comunità italo-americana all’acquisto e alla manutenzione della statua. Non poteva mancare, anche in questo caso, un riferimento al Columbus Day, una ricorrenza con la quale – si legge nella dichiarazione - si celebrano “gli italo-americani e le positive realizzazioni con le quali gli italiani hanno dato il loro contributo alla nostra società”.
    A questo genere di interventi si replica dal fronte opposto sostenendo che gli italo-americani potrebbero benissimo scegliere, come simbolo della propria identità, un altro personaggio storico meno controverso; tra i nomi proposti ci sono Dante Alighieri, Marco Polo, Michelangelo, Garibaldi, Sacco e Vanzetti, Enrico Fermi[5].
    Lo scontro tra i due opposti gruppi etnici (o tra due gruppi che si presumono tali) e tra le loro storie e memorie contrapposte, è talmente forte da condizionare – come abbiamo visto - anche il giudizio di osservatori indipendenti, e conferma in pieno le osservazioni di Antonio Brusa circa il ruolo centrale che ha assunto la questione dell’identità etnica o nazionale nella cultura storica diffusa.

     

    La voce degli storici: la revisione del mito

    Anche gli storici hanno partecipato al dibattito pubblico sulle statue e sulla figura di Colombo, pur svolgendo in esso un ruolo meno importante rispetto a quello che hanno avuto nelle discussioni sui monumenti dei Confederati[6].
    Tra i commenti dedicati agli attacchi alle statue del navigatore genovese, troviamo ad esempio quello dello storico Michael D. Hattem sul “Washington Post”. Hattem ha posto l’accento sul fatto che la storia del mito di Colombo “rivela in che modo la nostra memoria collettiva del passato venga costruita e cambi col passare del tempo, piuttosto che essere una intrinseca espressione del passato”. Egli ha quindi rievocato le principali tappe dell’evoluzione del mito di Colombo negli Stati Uniti: dall’uso del termine Columbia come personificazione femminile dell’America fin dagli anni ’60 del Settecento alle grandi celebrazioni organizzate nel 1792 in occasione del tricentenario della scoperta del Nuovo Mondo; dall’esaltazione di Colombo nella letteratura e nei libri di testo scolastici fino all’uso politico della sua figura nel corso dell’Ottocento, sia per legittimare l’espansione degli Stati Uniti verso Ovest, sia per facilitare l’assimilazione culturale e politica della sempre più numerosa comunità italo-americana. Ma proprio perché la memoria collettiva si evolve nel tempo, non c’è da sorprendersi se personaggi che per un certo periodo sono stati ingigantiti e celebrati cadano poi in disgrazia quando cambia il contesto culturale o politico.
    Ci si può chiedere, però, se la sostituzione dell’ottocentesca immagine eroica di Colombo con l’antitetica rappresentazione del navigatore genovese come una specie di assassino e mostro genocida sia veramente utile alla comprensione della storia di questo personaggio e dei suoi tempi.
    Il giudizio degli storici, naturalmente, è più cauto e sfumato rispetto a quello totalmente negativo che si è diffuso in una parte dell’opinione pubblica. Kris Lane, che insegna storia alla Tulane University di New Orleans, è intervenuto più volte negli ultimi anni nel dibattito pubblico attorno alla figura di Colombo. Nel 2015 ha scritto un editoriale sul “Washington Post” per confutare ‘cinque miti’ riguardanti l’esploratore genovese, tra i quali vi è quello secondo cui egli sarebbe responsabile del genocidio dei nativi delle isole dei Caraibi. In proposito, Lane ha riconosciuto che non vi sono dubbi sul fatto che Colombo abbia oppresso la popolazione di quelle isole e abbia ridotto in schiavitù quasi 1500 nativi per deportarli e venderli in Europa. Peraltro, Colombo non dovette inventare nulla di nuovo, poiché non fece altro che seguire l’esempio dei Portoghesi e degli Spagnoli, che già da molto tempo erano attivi nel commercio degli schiavi. L’accusa di genocidio, invece, va circostanziata, perché Colombo non aveva nessuna intenzione di sterminare i nativi dei Caraibi: voleva piuttosto avere dei sudditi da tassare e governare. Si può parlare quindi di genocidio solo come risultato involontario delle decisioni prese da Colombo e dai suoi familiari.
    Dopo gli attacchi ai monumenti avvenuti nel giugno scorso, Lane ha rilasciato una lunga e interessante intervista, nella quale ha distinto con precisione le caratteristiche di Colombo come personaggio storico da quelle del mito costruito nell’Ottocento attorno alla sua figura: Colombo fu certamente un grande navigatore, anche se sbagliò nel ritenere di poter arrivare in Asia; cercava l’oro, ma forse più per dimostrare ai sovrani spagnoli l’utilità della sua impresa che per avidità personale; diede inizio nel Nuovo Mondo al commercio degli schiavi, ma questa era una pratica molto diffusa - anche se non universalmente accettata - alla fine del ‘400; fu un uomo del suo tempo, ma fece comunque delle scelte in base alla sua personale visione del mondo. Attorno alla sua figura è stato costruito un mito e ora che esso si è rivelato in buona parte privo di fondamento, è naturale che gran parte della gente non senta più il bisogno di celebrare il navigatore genovese e che molti vogliano disfarsi delle sue statue.

     

    La rilevanza storica di Colombo

    Molto diverso è invece il giudizio dello storico italiano Matteo Casini, che insegna all’Università del Massachusetts. Intervistato dal “Boston Globe”, Casini ha affermato che la figura di Colombo “non deve essere vista per ciò che egli ha fatto più di 500 anni fa, ma, prima di tutto, come un simbolo per gli italiani che cominciarono ad arrivare qui alla fine dell’Ottocento”. Ed ha aggiunto:

    Essi combatterono, come tutti sanno, una battaglia estremamente dura per l’uguaglianza razziale e per il riconoscimento sociale, molto simile a quella degli africani e dei nativi americani. La festa del ‘Columbus Day’ e le statue a dedicate a Colombo negli ultimi 150 anni, devono essere considerate come ‘armi dell’orgoglio’ di una minoranza che voleva conquistare il suo posto nella ‘terra delle opportunità’, mediante il duro lavoro, l’accettazione delle regole comuni e una piena integrazione.

    Fa notare poi un altro storico, William J. Connell, che anche se tutti i monumenti dedicati a Colombo dovessero scomparire, il navigatore genovese rimarrebbe ancora con noi: “E la ragione è molto semplice: il 12 ottobre del 1492 è la data più importante nella storia dell’umanità, a partire almeno dall’invenzione dell’agricoltura”. È infatti da quella data che ha avuto inizio il mondo globalizzato nel quale oggi viviamo. È vero, Colombo diede inizio nel Nuovo Mondo alla deportazione degli schiavi e alla spoliazione delle terre dei nativi. Ma queste colpe non sono soltanto sue: sono infatti i due ‘peccati originali’ della Conquista e degli stessi Stati Uniti d’America.
    Data la vivacità del dibattito, e considerando la grande quantità di statue del navigatore genovese che sono tuttora in piedi, tutto lascia prevedere che negli Stati Uniti le discussioni su Colombo e sul Columbus day si protrarranno ancora per molto tempo.

     

    Immagine 4. Contro il Columbus DayFig.4: Studenti di origine messicana manifestano contro il “Columbus Day”. Fonte Il dibattito italiano: il "processo" a Colombo

    Gli attacchi alle statue e alla figura di Cristoforo Colombo negli Stati Uniti hanno avuto più di una eco anche in Italia. Se in alcuni casi vi è stata una piena adesione alla demolizione della figura eroica dell’esploratore genovese, non sono però mancate diverse voci critiche rispetto a questo completo capovolgimento dell’immagine tradizionale di Colombo e alle sue implicazioni per il tipo di cultura storica veicolata dai media e dalle università.
    Citerò come esempio del primo atteggiamento il Processo a Cristoforo Colombo messo in scena da Jacopo Fo e Mario Pirovano presso la Libera Università di Alcatraz e diffuso in occasione del Columbus Day del 2017. Secondo i promotori dell’iniziativa “Cristoforo Colombo, un italiano, era un assassino, torturatore, schiavista, e bisogna rompere questa italica censura sulla verità dei fatti e insegnare ai ragazzini che di Colombo c’è da vergognarsi che fosse italiano, tale quale a Totò Riina” (così si legge nella presentazione del video). Il processo – molto ben realizzato e facilmente spendibile a livello didattico - vede Mario Pirovano nel ruolo dell’avvocato difensore, mentre Jacopo Fo sostiene l’accusa. Documenti alla mano, Jacopo Fo presenta tutti i principali capi d’accusa contro Colombo, mentre Pirovano cerca inutilmente di difenderlo. Il tutto si conclude con la damnatio memoriae del genovese, eseguita coprendo la sua statua con un sacco della spazzatura.
    In una diversa prospettiva, il “processo a Colombo” è stato di recente oggetto di un saggio dello storico Antonio Musarra. Lo stesso autore ha fornito sul web una accurata presentazione del suo libro (farò qui riferimento soltanto ad essa). Musarra parte dal fatto che il giudizio degli storici su Cristoforo Colombo negli ultimi trent’anni è cambiato radicalmente: Colombo non è più visto ormai come il sognatore dedito ad oltrepassare i limiti del mondo conosciuto, ma come il primo dei conquistadores, come colui che ha dato inizio all’occupazione delle Americhe, che avrebbe poi provocato lo sterminio di milioni di persone. E tuttavia l’assalto alle statue di Colombo, che si configura come una vera e propria damnatio memoriae, suscita – secondo Musarra - molte perplessità. In primo luogo perché processare la storia non è soltanto sbagliato, anzi si può rivelare pericoloso. In secondo luogo perché le accuse mosse a Colombo sono, sotto vari aspetti, esagerate: non ha senso, ad esempio, accusarlo di genocidio, dato che non gli passò mai per la testa di sterminare i nativi americani. In realtà, a coloro che deturpano o abbattono le statue del navigatore genovese, così come a molte amministrazioni americane, la figura storica di Colombo non interessa veramente: egli è assurto a simbolo della violenza colonizzatrice dell’uomo bianco e la generale condanna nei suoi confronti rivela anche la persistente difficoltà degli Stati Uniti di fare i conti col proprio passato.

     

    Immagine 5. Colombo ProvidenceFig.5: Una statua di Cristoforo Colombo a Providence (Rhode Island) vandalizzata in occasione del “Columbus Day” dell’ottobre 2019. Fonte Il "relativismo totalitario"

    Un approccio critico, ma di altra natura, è stato poi quello di Raffaele Romanelli, che in una lettera al presidente e al comitato direttivo della Società italiana per lo studio della storia contemporanea (pubblicata sul “Foglio” del 24/06/2020) ha denunciato il “relativismo totalitario” che starebbe prendendo piede nel mondo accademico anglosassone. Con riferimento proprio ai recenti attacchi alle statue e alla figura di Cristoforo Colombo, Romanelli ha messo in evidenza come addebitare a Colombo tutti i crimini e le sopraffazioni che hanno fatto seguito alla sua “scoperta” significa cancellare il principio della responsabilità personale - che è uno dei capisaldi dello stato di diritto e dei diritti dell’uomo e del cittadino – per sostituirlo col concetto di una responsabilità di gruppo: un gruppo, quello dei bianchi occidentali, che tende ad assumere connotati genetici e razziali, e che quindi diventa, nel suo insieme, colpevole dello sterminio dei nativi americani e della schiavitù dei neri. Secondo Romanelli questa tendenza si collega a un più generale clima di intolleranza, che si sta diffondendo negli ambienti universitari americani, canadesi e britannici, e che si manifesta anche con la messa al bando di chiunque non accetti il dogma imperante secondo cui le differenze di genere non hanno una base biologica. Si sta affermando, insomma, una sorta di “relativismo totalitario”, nel senso che la verità viene presentata come relativa/soggettiva, in quanto insensibile ai dati (storici o biologici), ma viene al tempo stesso imposta con le tecniche della persecuzione totalitaria.
    È appena il caso di ricordare che la lettera di Romanelli ha preceduto di sole due settimane la Letter on Justice and Open Debate (pubblicata il 07/07/2020 sullo “Harper’s Magazine”) nella quale 153 intellettuali americani hanno denunciato il pericolo che le giuste richieste di una maggiore giustizia, eguaglianza ed inclusione nella società statunitense possano generare anche una crescente intolleranza nel mondo della cultura, dai giornali alle case editrici alle università. Un’analisi di questa lettera e del dibattito che ha suscitato ci porterebbe molto lontano dall’argomento di questo articolo. Ma riprenderemo certamente, su Historia Ludens, la questione della “cancel culture” (sulla quale si veda intanto The Harper’s ‘Letter,’ cancel culture and the summer that drove a lot of smart people mad, sul “Washington Post” del 23/07/2020).

     

    Piste di lavoro didattico

    L’attacco alle statue di Colombo e il capovolgimento del mito costruito attorno alla sua figura sono anzitutto un’espressione del malessere, delle contraddizioni e dei mutamenti che si sono sviluppati nella società e nella cultura degli Stati Uniti e del mondo occidentale negli ultimi decenni. Sebbene la richiesta di una maggiore giustizia sociale e di un definitivo superamento dell’interpretazione tradizionale delle imprese di Colombo sia assolutamente condivisibile, la furia vendicatrice che si è scatenata nei mesi scorsi sembra essere un ostacolo a una riflessione equilibrata.
    A livello didattico, gli assalti alle statue di Colombo possono rappresentare un’ottima occasione per sviluppare ricerche e dibattiti tra gli studenti, non solo negli Stati Uniti ma anche in Italia, dato che il navigatore genovese è stato a lungo celebrato anche da noi come una figura simbolo della storia e dell’identità nazionale. Molti sono gli interrogativi e i problemi che potrebbero essere posti al centro di un percorso didattico. Ad esempio i seguenti: ha ancora senso parlare di una “scoperta” dell’America? è fondata l’accusa di genocidio mossa nei confronti dell’esploratore genovese? È giusto abbattere o rimuovere le statue di Colombo? Che cosa dovremmo fare se anche qui in Italia qualcuno proponesse di rimuoverle? Fino a che punto i libri di testo scolastici hanno superato l’immagine tradizionale di Colombo e delle sue imprese? È legittimo fare processi ai grandi protagonisti della storia?
    Una seconda occasione, collegata a questa, è data dalla possibilità di riflettere sul nesso storia-memoria-politica. Il caso americano mostra come non solo lo stato, ma anche le comunità (in questo caso etniche) facciano pressione sulla memoria collettiva (i monumenti, le festività) e la storia scolastica (le “bugie dei manuali”) e come la storia e gli storici siano in reale difficoltà a far sentire la propria voce. In ogni caso, questo argomento si aggancerebbe al filone didattico del rapporto fra storia e memoria che, in Italia, rischia di essere circoscritto alle celebrazioni del 27 gennaio e dell’11 febbraio.
    Infine, sono di grande interesse le riflessioni sviluppate, in margine al “processo” a Colombo, da Antonio Musarra e da Antonio Brusa sugli stereotipi, sull’epistemologia naïve e sulla difficoltà di far comprendere, anche al di fuori di ristrette cerchie intellettuali, la complessità dei processi storici. A partire dagli stessi fatti e documenti riguardanti la vicenda di Colombo, il dibattito storico e il dibattito pubblico giungono a conclusioni differenti:

    | Quest’ultimo si conclude con una condanna senza appello, mentre la controversia storica può giungere a conclusioni differenziate, di comprensione varia del “fenomeno Colombo”, e – soprattutto – rifiuta a priori l’alternativa eroe/malfattore, che tanto appassiona la gente[7].

    La comunicazione fra ricerca accademica e società – sostiene Brusa - sembra aver funzionato nella divulgazione di alcune conoscenze, ma non nella trasmissione delle capacità di elaborarle. Si è costretti ancora una volta a constatare una preoccupante divaricazione tra storiografia e senso comune storico, tra sapere accademico e cultura popolare, tra una concezione della società e dello sviluppo storico come fenomeni complessi e una visione semplicistica della storia basata su poche convinzioni e sull’importanza decisiva di singoli eventi e personaggi chiave.
    È davvero auspicabile quindi che l’insegnamento della storia possa tener conto delle problematiche e delle contraddizioni che il “processo” a Colombo, e più in generale la “guerra delle statue”, hanno fatto emergere nel dibattito pubblico, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo occidentale.

     

    [1] Il Columbus day divenne poi una vera e propria festa federale nel 1968 (vedi ancora la voce di Wikipedia citata nel testo).

    [2] Oltre al saggio già citato di Antonio Brusa, vedi H. Schuman, B. Schwartz, H. d’Arcy, Elite Revisionists and Popular Beliefs: Christopher Columbus, Hero or Villain?, “Public Opinion Quarterly”, vol. 69, No. 1, Spring 2005, pp. 2-29.

    [3] Vedi Luke O'Neil, Goodbye, Columbus: holiday in decline as brutal legacy re-evaluated, “The Guardian (International Edition)”, 08/10/2018, e la già citata voce di Wikipedia sul Columbus Day.

    [4] A. Brusa, Colombo eroe o malfattore?, cit.

    [5] Vedi ad esempio: Eric Zorn, Ethnic pride, yes. Columbus Day? No, “Chicago Tribune”, 03/03/2020; Chris Leblanc, As Italian Americans in Boston debate the legacy of Christopher Columbus, some want his statue – recently beheaded – permanently gone, “Chicago Tribune”, 17/06/2020; The false narrative about Christopher Columbus, “Chicago Tribune”, 21/07/2020. 

    [6] Questa è l’impressione che ho ricavato dalle fonti più facilmente accessibili sul web. Ma naturalmente è impossibile passare al setaccio lo smisurato numero di quotidiani e riviste online, blog e siti internet che trattano argomenti storici.

    [7] A. Brusa, Colombo eroe o malfattore?, cit.

  • L'operazione Husky nel suo anniversario. Storia, memoria e fake indistruttibili.

    di Antonio Brusa

     

    Operazione HuskyLa lapide che commemora la battaglia di Gela https://www.avvenire.it/amp/agora/pagine/sbarco-in-sicilia-77-anni

    Tre anni fa, di questi giorni di luglio, cadeva il 75° anniversario dell’“Operazione Husky”, il primo vero DDay della seconda guerra mondiale, quando quasi tremila navi sbarcarono sulle coste siciliane truppe inglesi, canadesi e americane. Allora intervennero molti quotidiani a commemorare l’evento. Quest’anno, in tono minore, la tv lo ha ricordato nei giorni scorsi proiettando il film di Pif In guerra per amore (2016), e, a quanto mi risulta, solo Vincenzo Grientine ha parlato dalle pagine dell’ “Avvenire” (9 luglio 2020).

    Grienti mette in rilievo alcuni aspetti che vanno ricordati. Che la resistenza italiana non fu all’acqua di rosa (se mai furono i tedeschi che se la svignarono “brillantemente”), e che dunque quello sbarco non fu un’ “avanzata trionfale fra due ali di folla”. Al contrario, fu ostacolato da battaglie sanguinose, come quella di Gela, e macchiato da stragi. Tedesche innanzitutto (purtroppo questo Grienti non lo segnala): ben 65 episodi di violenza con 133 vittime costituiscono il prologo di quel rosario di eccidi che costellò la ritirata tedesca lungo la penisola. Ma anche americane, con civili e militari uccisi a freddo. Rosario Mangiameli, fra i tanti storici che hanno studiato l’argomento, ce ne parla diffusamente in un bel saggio apparso nel 2012.

    Fra qualche giorno cadrà l’anniversario di un episodio che non so se verrà commemorato, nemmeno nella città dove avvenne, Canicattì: forse l’unica città al mondo dove si susseguirono a stretto giro una strage tedesca (il 12) e una americana (il 14). La conosciamo solo grazie al lavoro e al coraggio di J. S. Salemi della N. Y. University.

    Quindi lode a Grienti che ritiene giusto non dimenticare. Aggiungo, però, a evitare un’eccessiva retorica, due osservazioni. La prima riguarda l’accenno all’accordo fra gli americani e Lucky Luciano, che avrebbe garantito l’appoggio della mafia agli invasori. E’ una diceria. Dura a morire, certo: ma proprio per questo non dobbiamo stancarci di ribadirlo. Nacque proprio durante gli eventi, proprio in quegli ambienti fascisti che avevano bisogno di raccontare alla popolazione perché un esercito che avrebbe dovuto immobilizzare l’invasore “sul bagnasciuga” fallì il suo compito. La mafia era una buona scusa. Riciclata e rifunzionalizzata da Michele Pantaleone nel 1962 (qualcuno ricorderà il suo Mafia e Politica), diventò un cavallo di battaglia della sinistra contro la Democrazia Cristiana e, finalmente, è diventata di dominio pubblico, al punto da fornire il pretesto narrativo al film di Pif, appunto passato in tv in questi giorni. (Su questi fatti HL è già intervenuta).

    La seconda osservazione riguarda il fatto che Grienti, presentando delle nuove ricerche su questi eventi, riporta la favola che la storiografia ufficiale ha sempre evitato di affrontare questi argomenti, giudicati spiacevoli. Anche questa è una fake, una post-verità alla quale i media indulgono volentieri. Non è vero che gli storici non se ne sono occupati e che, quindi, si tratta di una “controstoria” che viene finalmente raccontata ai ragazzi “diversamente da quanto si legge nei libri di scuola” (come se i manuali raccontassero ampiamente dell’operazione Husky).

    Sono decenni che si susseguono gli studi (italiani e americani) su questi eventi e la bibliografia è ormai abbastanza lunga. Mangiameli, nell’articolo citato sopra, spiega le ragioni per cui gli stessi testimoni prima, e poi l’opinione pubblica, ma oggi potremmo dire la storia pubblica, hanno scelto di tacere. Gli studi ci sono. Sono i media che non ne parlano. Non rovesciamo le responsabilità, per piacere.

  • La Cupola di Hiroshima. Un fotoracconto della bomba

    Autore: Ilaria Sabbatini


    Il mattino del 6 agosto 1945, alle 8:15, l’Aeronautica militare statunitense sganciò la bomba atomica “Little Boy” sulla città giapponese di Hiroshima, seguita tre giorni dopo dal lancio dell’ordigno “Fat Man” su Nagasaki.

    Genbaku Dome, ossia Cupola della bomba atomica, era nata nel 1915 come edificio per ospitare la Fiera commerciale della prefettura di Hiroshima. La  Sala espositiva dei prodotti della prefettura di Hiroshima era stata progettata dall’architetto ceco Jan Letzel, che aveva realizzato la struttura in stile occidentale, usando mattoni e cemento. Il palazzo, sul lato sud, si apriva su un giardino anch’esso tipicamente all’occidentale e la cupola, oggi sventrata, aveva una copertura in rame. Nel 1933 il nome fu cambiato in  Sala promozionale dell’industria della prefettura di Hiroshima e nel 1944, a causa della guerra, l’edificio venne adibito a uffici governativi.

    Il 6 agosto 1945 l’esplosione nucleare avvenne ad appena 150 metri di distanza dall’edificio. Gli occupanti morirono all’istante mentre la struttura prendeva lentamente fuoco. Al momento dell’esplosione, avvenuta a un’altezza di circa 580 metri dal suolo, tutte le costruzioni in legno, tipiche dell’urbanistica giapponese, vennero spazzate via. Le foto aeree successive all’esplosione mostrano un panorama completamente piatto, quasi vuoto. Spiccano soltanto alcuni edifici di mattoni che, pur gravemente danneggiati, sopravvissero alla bomba. Tra le strutture che resistettero alla bomba, quella della fiera era la più vicina all’ipocentro. Essa rimane tutt’oggi nello stesso stato in cui si trovava subito dopo l’attacco atomico.
     
    La posizione dell’ex Palazzo della Fiera di Hiroshima si può vedere su Google Map

    Si può fare un tour virtuale dentro la Cupola della bomba atomica

    Questa è la visione dall’esterno della Cupola della bomba atomica

    Ecco una collezione di fotografie contemporanee, che risulta interessantissima per comprendere come oggi viene vissuta la memoria di Genbaku Dome

    Quivengono documentate le prime attività di soccorso, quelle in cui si cominciano a rilevare le proporzioni degli effetti della bomba

    A questo link dell’Hiroshima Peace Memorial Museum si possono vede una serie di di fotografie degli effetti dell’esplosionesu vari oggetti conservati

     

    Il palazzo della Fiera di Hiroshima in costruzione, completato nel 1915 su progetto dell’architetto ceco Jan Letzel

     


     Il palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima sul lato sinistro del fiume Motoyatsu, uno dei sette rami dell’estuario del fiume Ota

     

     
    Hiroshima Prefectural Industrial Promotion Hall seen from the west end of Motoyasu Bridge. 1933. Taken by Masao Okuno / Courtesy of Katsuhiko Okuno
     


    Il palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima vicino al Ponte Motoyatsu, sulla biforcazione tra il fiume Ota e il fiume Motoyatsu
     


    Il ponte Motoyatsu sulla biforcazione tra il fiume Ota e il suo effluente Motoyatsu

     

     

    Il palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima dopo l’esplosione atomica, 8 settembre 1945


     
    ll palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima dopo l’esplosione atomica

     


     Enola gay, bombardiere B-29 Superfortress, l’aereo che sganciò la bomba il 6 agosto 1945. Enola Gay era il nome della madre del pilota Paul Tibbets.
     


    Little Boy, la bomba Mk.1, la seconda atomica costruita nell’ambito del Progetto Manhattan, è la prima arma nucleare della storia a essere stata utilizzata in un conflitto. Si tratta dell’ordigno originale prima dell’esplosione.


    Little boy, usata su Hiroshima, era la seconda bomba atomica realizzata mentre Fat man, usata su Nagasaki, era la terza. La prima nucleare era una bomba a implosione che venne fatta esplodere nel Nuovo Messico, vicino a Sonora, il 16 luglio 1945 nel Trinity test.

     

    Il fungo atomico sopra Hiroshima circa un’ora dopo l’esplosione, 6 agosto 1945


    Si incontra un problema nella ricostruzione per immagini delle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Spesso è difficile stabilire a quale luogo si riferiscano i rispettivi funghi di fallout. In alcuni video, non sufficientemente curati, Nagasaki va sotto il titolo di Hiroshima e viceversa. Altri usano addirittura il Trinity test o l’esplosione di Bikini.

    Le foto che seguono si riferiscono alle due esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Nel caso di Hiroshima la foto è avallata dal Museo della Memoria di Hiroshima, nel caso di Nagasaky dal Museo della Bomba Atomica di Nagasaky.

           Hiroshima                                Nagasaki  

                                                           

    La foto di sinistra è Hiroshima. È stata presa da un aereo che accompagnava Enola Gay con lo scopo di scattare fotografie. La foto di destra è Nagasaki, scattata il 9 agosto1945 da Charles Levy da uno degli aerei che accompagnavano l’attacco.


      Questa foto ricognizione del 1945, fornita dal Museo della Seconda Guerra Mondiale di Boston, mostra le informazioni di targeting per la missione di bombardamento atomico di Hiroshima.L’esplosione, che coinvolse il palazzo della fiera, avvenne sulla verticale dell’ospedale. Sotto il numero 22 si vede il ponte Motoyatsu sulla biforcazione tra il fiume Ota e il suo effluente Motoyatsu


     
    Diorama dell’esplosione di Little Boy. La prospettiva è con le spalle alla sorgente del fiume Ota che, dopo la prima triforcazione, a sinistra si biforca ulteriormente. Il ramo sinistro della seconda biforcazione è il fiume Motayatsu. Dopo il ponte sulla biforcazione, sulla riva sinistra, è collocato l’edificio della Fiera di Hiroshima.
     
     
    Diorama dell’esplosione di Little Boy. Sotto, a 150 metri di distanza dall’ipocentro, sulla riva sinistra del ramo sinistro dell’effluente Motayatsu (individuabile dal ponte), si trovava l’edificio della Fiera di Hiroshima, uno dei pochi a rimanere in piedi (vedi foto successiva)


     
    Sulla riva sinistra del ramo sinistro dell’effluente Motayatsu (individuabile dal ponte), si trovava l’edificio della Fiera di Hiroshima

     

     

    Vicino al ground zero, prima dell’esplosione

    Vicino al ground zero, dopo l’esplosione

     

     

     

     

    L’orario dell’esplosione, fissato da un orologio da polso esposto agli effetti della bomba


     
    L’effetto ombra creatosi durante l’esplosione

     

     
    Ragazze con le mascherine nelle strade di Hiroshima, 6 ottobre 1945

     


    Genbaku Dome, la Cupola della bomba atomica, oggi
     


    Genbaku Dome, la Cupola della bomba atomica, dall’alto, oggi

     

     

     

     

     

     

    Foto rare scattate nei giorni successivi all’evento

     

     

    Il racconto di Sunao Tsuboi sopravvissuto all’esplosione



     

  • La Grande guerra poteva essere evitata?

    Autore: Daniele Boschi*  

    Un modulo Clil, ma non solo1

     

    1. Un’esperienza didattica
    2. Due opposte tesi storiografiche
    3. Il ruolo del “caso” nella storia: un colpo di pistola ha cambiato la storia del mondo?
    4. Determinismo, libertà, caso
    5. Conclusioni

     

    1.    Un’esperienza didattica

     

    In questo articolo riferirò un’esperienza didattica realizzata nel passato anno scolastico in una classe quinta del Liceo Scientifico Statale “Nomentano” di Roma. Ho proposto ai miei studenti un modulo sul tema: la Grande guerra poteva essere evitata?

    Il modulo è stato svolto in modalità CLIL: ovvero in lingua inglese e con una metodologia didattica che attribuisce allo studente il ruolo di protagonista del processo di apprendimento2 .

    L’idea di un percorso didattico su questo argomento è nata da un articolo di Luigi Cajani dedicato alle origini della Prima guerra mondiale e alla didattica della storia controfattuale3 . In questo articolo Cajani aveva esaminato le posizioni assunte dalla recente storiografia e dalla manualistica scolastica riguardo alla questione se la Prima guerra mondiale fosse o meno evitabile. Ed aveva spezzato decisamente una lancia in favore della storia controfattuale, considerandola come un utile ed interessante strumento di analisi storica, dal quale può trarre spunto anche la pratica didattica.

    Cajani aveva inoltre osservato che da parecchio tempo la storia controfattuale ha smesso di essere un tabù per gli storici: sia alcuni storici contemporaneisti italiani, sia un buon numero di studiosi dell’area anglosassone hanno fatto ricorso, in diverse occasioni, alla controfattualità, superando così l’anatema lanciato contro di essa da storici del calibro di Edward Carr e di Edward P. Thompson4 .  

    La prospettiva controfattuale è stata perseguita, con cautela, anche nel mio modulo. Questo ha impegnato la classe per un totale di nove ore di lezione, delle quali sei ore dedicate allo studio dell’argomento e tre ore destinate alle relazioni e alle verifiche finali.

    La classe è stata divisa in sei gruppi di lavoro composti da quattro o cinque studenti ciascuno. Nella prima parte del modulo (le prime sei ore) ho sottoposto agli studenti una serie di testi della lunghezza di una pagina/una pagina e mezzo, seguiti da alcune domande. Gli studenti dovevano leggere e discutere questi testi, rispondere alle domande nell’ambito del loro gruppo e poi riferire brevemente le loro conclusioni al resto della classe.

    Successivamente ho assegnato ulteriori testi da leggere a casa per approfondire vari aspetti dell’argomento. I gruppi avevano un mese di tempo per riesaminare e ridiscutere tutti i testi e per preparare una relazione scritta nella quale dovevano sostenere una propria tesi, argomentandola in modo adeguato. Il modulo si è concluso con la presentazione orale delle sei relazioni, seguita da una verifica scritta finale di tipo individuale (questa fase conclusiva ha occupato le ultime tre ore del modulo).

    Un aspetto importante della preparazione dell’attività didattica è stato quello relativo alla predisposizione dei testi da sottoporre agli studenti. Occorrevano infatti dei testi non troppo lunghi o complessi, ma allo stesso tempo dotati di un livello di articolazione e di approfondimento sufficiente a porre le basi per un confronto tra punti di vista differenti e adeguatamente motivati. Sottolineo questo aspetto perché ho l’impressione che la difficoltà di reperire o elaborare testi e materiali didattici adeguati sia uno dei principali ostacoli allo sviluppo di una pratica didattica alternativa al modello di stampo tradizionale.

    Mi soffermerò ora sulle principali tematiche affrontate nel modulo e su alcuni dei testi proposti agli studenti.

     

    2.    Due opposte tesi storiografiche

     Nella prima parte del modulo ho proposto anzitutto agli studenti le due opposte tesi di Eric Hobsbawm e di Margaret MacMillan riguardo alla questione se la Grande guerra poteva o no essere evitata. Eric Hobsbawm nel suo classico studio sulla “età degli imperi” affermò che i contrasti tra le potenze europee, derivanti dallo sviluppo del capitalismo e dall’espansione coloniale e imperialistica, avrebbero inevitabilmente prodotto, prima o poi, una guerra generale. Margaret MacMillan, nel suo recente libro intitolato The War that Ended Peace, ha invece affermato che la Grande guerra poteva essere evitata. Laddove Hobsbawm aveva posto l’accento sui processi storici di lungo e medio periodo, la MacMillan pone l’accento sulle scelte individuali, sulla cattiva qualità degli statisti che si trovarono a capo delle principali potenze europee e sul ruolo svolto da alcuni eventi che potremmo definire “casuali”5.

    Date le caratteristiche e la complessità dei due libri, non era possibile estrarre da essi dei brani che contenessero sia la tesi fondamentale dello storico, sia le argomentazioni addotte per sostenerla.

    Hobsbawm sviluppa il suo lungo e complesso ragionamento circa le origini della Prima guerra mondiale nelle quasi trenta pagine del cap. XIII dell’Età degli imperi6 . E’ stato indispensabile effettuare una sintesi di questa parte del suo libro.

    La Macmillan afferma subito con chiarezza che la Grande guerra non era inevitabile7 , ma le “prove” a sostegno di questa tesi sono sparse per l’intero suo volume, lungo circa settecento pagine. In questo caso ho preferito prendere come testo di base quello di una conferenza tenuta dalla MacMillan a Sarajevo il 27 giugno 2014 sul tema Was World War I Inevitable? e farne un breve riassunto8 .    

                                           

    Ho presentato quindi agli studenti le due opposte tesi storiografiche in un unico testo di circa trenta righe. Dopo un primo esame gli studenti si sono quasi tutti schierati a favore della tesi di Hobsbawm. Questa uniformità di giudizi mi ha lasciato alquanto perplesso e ho ipotizzato che essa fosse dovuta al fatto che la tesi di Hobsbawm faceva riferimento a fatti già noti agli studenti, come lo sviluppo del sistema capitalistico, il colonialismo, l’imperialismo; mentre la MacMillan rinviava a fatti non altrettanto noti, come ad esempio lo sviluppo di varie associazioni e movimenti di orientamento “pacifista” nel periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo.

    Ho deciso perciò di presentare la tesi della MacMillan in un secondo testo più dettagliato; a questo punto diversi studenti hanno cambiato opinione, motivando questa decisione con il fatto che la tesi della storica canadese non era risultata del tutto chiara dopo la lettura del primo testo. Questo episodio mi ha fatto comprendere un fatto importante: quando si vuole sollecitare una presa di posizione degli studenti su tesi contrapposte, è necessario che esse siano presentate non soltanto in modo equilibrato, ma anche tenendo conto delle conoscenze già in possesso degli studenti.

     

    3.    Il ruolo del “caso” nella storia: un colpo di pistola ha cambiato la storia del mondo?

     La MacMillan richiama l’attenzione sul ruolo svolto dal “caso” nella lunga catena di eventi che condussero alla Prima guerra mondiale9 . Ho deciso allora di affrontare più direttamente il tema della apparente casualità di molti eventi storici, a partire da una narrazione molto dettagliata degli avvenimenti della giornata del 28 giugno 1914 a Sarajevo, culminati nell’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono austro-ungarico, e di sua moglie Sofia.

    Tutti sappiamo che l’attentato ai danni dell’arciduca stava per fallire e andò a segno, alla fine, soltanto per il concorso di una serie di circostanze apparentemente fortuite.

    I fatti sono noti, ma li riassumo brevemente. Nel giugno del 1914 un gruppo di nazionalisti serbi, informati della decisione dell’arciduca Francesco Ferdinando di visitare la Bosnia, provincia annessa all’Impero austro-ungarico nel 1908, aveva preparato un attentato per uccidere l’erede asburgico. Nonostante l’evidente pericolo al quale l’arciduca si stava per esporre, ben poche misure furono prese per garantire la sua incolumità. La sua visita ufficiale a Sarajevo avvenne, come previsto, il 28 giugno.

     
    L’attentato di Sarajevo nel disegno di Achille Beltrame per la copertina della «Domenica del Corriere» del 5 luglio 1914.

    La mattina di quel giorno ben sette giovani terroristi serbo-bosniaci erano appostati nel centro di Sarajevo sul lungofiume Appel, dove il corteo di auto nel quale viaggiava Francesco Ferdinando doveva transitare prima di arrivare al municipio. Il primo terrorista ad entrare in azione fu Čabrinović che lanciò una bomba in direzione dell’autovettura scoperta sulla quale sedevano l’arciduca e la moglie, ma mancò il bersaglio e l’ordigno esplose sotto la vettura che seguiva, ferendo diverse persone. Mentre gli altri terroristi si dileguavano, Francesco Ferdinando proseguì il suo viaggio fino al palazzo del municipio dove ci fu una breve cerimonia. In seguito l’arciduca espresse il desiderio di recarsi in ospedale per visitare i feriti. Il corteo di auto ripercorse a ritroso il lungofiume Appel, ma l’autista che guidava il corteo, non essendo stato informato del nuovo programma, sbagliò strada girando a destra in via Francesco Giuseppe, dove si era nel frattempo appostato Gavrilo Princip. Le auto si fermarono per tornare indietro e Princip poté allora facilmente avvicinarsi all’auto dell’arciduca e uccidere lui e la moglie Sofia con due colpi di pistola esplosi da distanza ravvicinata10

    Per il racconto di questi eventi mi sono servito di un video in lingua inglese abbastanza ben fatto, tratto da una canale di “YouTube” dedicato alla Grande guerra11 . Ho proposto agli studenti la visione di questo filmato e la lettura della trascrizione del testo audio. Ho chiesto quindi agli studenti di immaginare se la Prima guerra mondiale sarebbe ugualmente scoppiata qualora l’attentato fosse fallito. La domanda non è nuova, ovviamente. In un dibattito sulla rivista on-line “Caffè Europa”, Giovanni Sabbatucci si è spinto fino alla seguente affermazione:
    «Se mentre Gavrilo Princip, l’attentatore di Sarajevo, puntava la pistola contro l’arciduca Francesco Ferdinando, una mosca fosse passata davanti al suo naso e gli avesse fatto sbagliare mira, sono assolutamente convinto che la storia del mondo sarebbe cambiata»12 .

    Avendo più tempo a disposizione, la prospettiva controfattuale avrebbe potuto essere ampliata fino a domandarsi che cosa sarebbe accaduto in Europa e nel mondo se la Grande guerra non fosse mai scoppiata.

    Ho preferito invece partire dall’attentato di Sarajevo per sollecitare gli studenti ad una riflessione di tipo filosofico sul concetto di “caso”: il “caso” esiste davvero oppure ciò che noi chiamiamo “caso” è soltanto il continuo incrociarsi, inevitabile ma impossibile da ricostruire interamente, di diverse sequenze o catene di eventi indipendenti l’una dall’altra?13

     

    4.    Determinismo, libertà, caso

     A questo punto abbiamo abbandonato del tutto l’indagine storica e ci siamo concentrati sulla riflessione filosofica. La discussione sulla inevitabilità o meno della Grande guerra evoca infatti non soltanto il tema del “caso”, ma anche quelli, ad esso correlati, del determinismo, nelle sue varie sfaccettature, e della libertà dell’uomo, ovvero del “libero arbitrio”. Sono temi attorno ai quali i filosofi hanno dibattuto fin dall’antichità e sui quali continuano a discutere ancora oggi.

    Stimolato anche dai materiali che avevo trovato sul web14 , ho pensato di proporre agli studenti, in forma sintetica, le principali posizioni presenti nel dibattito filosofico contemporaneo sul tema del libero arbitrio. Esse si possono riassumere nello schema seguente:
        
     

    In breve, il determinismo radicale afferma che essendovi un unico possibile corso di eventi gli uomini non sono liberi; il compatibilismo sostiene al contrario che determinismo e libertà non sono in contraddizione tra loro; per l’incompatibilismo radicale non solo il determinismo, ma anche l’indeterminismo rende impossibile la libertà; mentre il libertarismo afferma, al contrario, che proprio perché la realtà non è interamente soggetta a leggi di tipo deterministico, la libertà è possibile, almeno per l’uomo15.

    I testi che avevo trovato su internet erano troppo lunghi e complessi, oppure erano in lingua italiana16.  Ho deciso allora di utilizzare il testo presente sull’edizione di Wikipedia in lingua inglese alla voce Free Will17.  Anche in questo caso gli studenti, dopo aver letto il testo, dovevano rispondere ad alcune domande: non soltanto dovevano dire quale di queste quattro dottrine filosofiche sembrava a loro più plausibile, ma anche suggerire quale fosse l’atteggiamento più corretto da assumere per uno storico su questa questione, che ha carattere eminentemente filosofico, ma presenta anche evidenti implicazioni per la valutazione delle decisioni e delle scelte dei grandi protagonisti della storia.

    Lo svolgimento di questa parte del modulo è stato abbastanza problematico. I concetti filosofici implicati nel dibattito sul libero arbitrio nella filosofia contemporanea sono abbastanza complessi, a volte oscuri, e a ciò si aggiungeva la difficoltà di doverli trattare in lingua inglese; inoltre il testo di Wikipedia è in alcune parti poco chiaro e ha richiesto ulteriori spiegazioni da parte mia. Penso tuttavia che gli studenti abbiano tratto beneficio dall’aver affrontato il tema delle cause della Grande guerra in una prospettiva filosofica e sono convinto che questo approccio interdisciplinare potrebbe essere ulteriormente sviluppato attraverso un percorso didattico di respiro più ampio, basato su testi adeguati rispetto alle competenze linguistiche e all’attrezzatura mentale di uno studente di Liceo.

     

    5.    Conclusioni

     In generale gli studenti hanno partecipato all’attività didattica con notevole interesse e ci sono state discussioni abbastanza accese all’interno dei gruppi. Le relazioni finali hanno mostrato che la classe si è spaccata grosso modo a metà tra le due opposte tesi di Hobsbawm e della MacMillan, con divisioni anche interne ad alcuni dei gruppi. Tutti i gruppi hanno argomentato le proprie tesi in modo abbastanza articolato e tre su sei hanno fatto riferimento non soltanto alle tesi storiografiche esaminate, ma anche al dibattito filosofico contemporaneo.

    Anche se il mio giudizio su questa esperienza è nell’insieme positivo, non voglio nascondere le criticità che da essa sono emerse: per gli studenti la difficoltà maggiore è stata quella di dover affrontare in lingua inglese un argomento molto complesso; per me quella di organizzare, gestire e infine valutare il lavoro dei gruppi; anche la valutazione finale dei risultati raggiunti dai singoli studenti si è rivelata alquanto problematica, per la difficoltà di distinguere quanto era frutto di una elaborazione personale da quanto proveniva invece dal lavoro del gruppo. Intendo comunque riproporre di nuovo il modulo che ho illustrato, ma al di fuori del CLIL e facendo tesoro dell’esperienza già fatta.   

    *(Liceo Scientifico Statale “Nomentano”, Roma)

     

    NOTE

    1Questo articolo è un ampliamento della relazione presentata al convegno della SISSCO (Società italiana per lo studio della storia contemporanea) sul tema Insegnare la storia ai millennials, svoltosi a Roma il 27 gennaio 2017.
     2Sul CLIL (Content and Language Integrated Learning) esiste una abbondante letteratura, sia cartacea sia on-line. Chi voglia approfondire l’argomento può partire dai siti istituzionali del MIUR e dell’INDIRE  . Su “Historia ludens” si può leggere l’articolodi PAOLO CECCOLI, I dolori del professore CLIL.
     3 LUIGI CAJANI, Le origini della Prima guerra mondiale e la didattica della storia controfattuale, in “Didactica historica”, I (2015), pp. 45-50.
     4Sulla storia controfattuale e la sua rilevanza per la didattica si può leggere su questo stesso sito l’articolo di ANTONIO BRUSA, E se Alessandro avesse combattuto contro i Romani? Problemi teorici e pratici di didattica controfattuale.
     5ERIC J. HOBSBAWM, L’Età degli imperi 1875-1914, Roma-Bari, Laterza, 1987 (ed. orig.: The Age of Empire, 19872); MARGARET MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, Milano, Rizzoli, 2013 (ed. orig.: The War that Ended Peace: the Road to 1914, 2013).
     6HOSBAWM, L’Età degli imperi, cit., pp. 345-373.
     7MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, cit., p. 21.
     8La conferenza si può ascoltare su YouTube. Sempre sullo stesso tema la MacMillan ha curato una pagina del sito della BBC, intitolata How close did the world come to peace in 1914? . Quest’ultimo testo è abbastanza semplice ed è quindi accessibile anche agli studenti del quinto anno del Liceo.
     9Che cosa sarebbe successo – si chiede ad esempio la MacMillan - se il figlio e successore dell’imperatore tedesco Guglielmo I, Federico III, di orientamento liberale, non fosse morto di cancro nel 1888 e avesse regnato sulla Germania per i successivi vent’anni? La Grande guerra sarebbe scoppiata ugualmente, se nel 1914 alla guida dell’Impero tedesco vi fossero stati uomini della tempra di un Bismarck? Come sarebbero andate le cose, se non fossero usciti di scena in modo abbastanza fortuito uomini come il ministro degli Esteri tedesco Kiderlen, il ministro delle Finanze francese Caillaux, il monaco Rasputin, o lo stesso Francesco Ferdinando? Tutti uomini che avrebbe potuto dare un valido contributo al mantenimento della pace, se fossero stati ancora presenti sulla scena politica nell’estate del 1914, o nei mesi ed anni successivi. Cfr. MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, cit., pp. 107, 615, 627, 645.
     10Cfr. MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, cit., pp. 607-614.  Un resoconto molto più dettagliato sia dei preparativi e dei retroscena dell’attentato, sia degli eventi del 28 giugno 1914, si può leggere in CHRISTOPHER CLARK, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 54-71, 401-410 (ed. orig.: The Sleepwalkers. How Europe Went to War in 1914, 2012).
     11Si tratta del video di INDY NEIDELL intitolato A Shot that Changed the World tratto dal canale The Great War.
     12SIMONA COLARIZI, GIOVANNI DE LUNA, GIOVANNI SABBATUCCI, NICOLA TRANFAGLIA, Forum/Il nostro "posto al sole" sotto Hitler, in “Caffè Europa”, n. 124, 10 marzo 2001 . Il testo è citato in CAJANI, Le origini della Prima guerra mondiale, cit., p. 48.
     13Gli studenti dovevano approfondire questo tema sulla voce Caso del Dizionario di filosofia on-line della Treccani.
     14Cfr. ad esempio le seguenti due voci della Stanford Encyclopedia of Philosophy: Compatibilism a cura di MICHAEL MCKENNA e di D. JUSTIN COATES, e Free Will a cura di TIMOTHY O'CONNOR; oppure la voceLibertà e determinismo, a cura di MARIO DE CARO, nella Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007).
     15Un buon punto di partenza per i docenti che vogliano affrontare questo tema è MARIO DE CARO, Il libero arbitrio. Una introduzione, Roma-Bari, Laterza, 2004.
     16Vedi la nota 14.
     17Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Free_will. Più esattamente ho utilizzato la parte introduttiva di questo articolo.

  • La guerra del Vietnam e i movimenti di protesta del ‘68. Sitografia

    di Antonio Prampolini

    GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 3Civili in fuga dalle zone di guerra nel Vietnam del Sud. http://www.apimages.com/Collection/Landing/Vietnam-The-Real-War/d52ea03a0ea2468399f694459d4c0fb7

    Negli anni Sessanta la “Guerra del Vietnam” (dove, dal 1954, si confrontavano e si scontravano, sia sul piano politico che militare, due stati indipendenti, uno al Nord e l’altro al Sud del 17° parallelo, nati in applicazione degli accordi della Conferenza di Ginevra sull’Indocina ex colonia francese) si trasforma sempre più in una “Guerra dell’America nel Vietnam”. Un conflitto regionale originato dal rifiuto degli Usa di accettare le elezioni che avrebbero portato Ho Chi Minh a governare un Vietnam unito sotto un regime comunista, ma che, proprio per questo, coinvolgeva i due blocchi, capeggiati rispettivamente dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, che si contendevano, a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta, l’egemonia mondiale.

    Parallelamente all’intensificarsi dell’intervento militare americano in Vietnam (la “guerra più lunga” combattuta dagli Stati Uniti) aumentava il malcontento dell’opinione pubblica per la conduzione del conflitto e si diffondevano i movimenti e le manifestazioni di protesta sia in America che in Europa, a cui partecipavano in particolare i giovani.

    Gli storici si chiedono quale sia stato il peso dei movimenti giovanili e in genere di protesta in quel lungo e complicato processo che portò alla pace del 1975. Infatti, dal punto di vista meramente elettorale, si deve osservare che - in America come in Francia e anche in Italia – le elezioni del ’68 e immediatamente successive, furono insoddisfacenti per la sinistra e in genere per gli oppositori alla guerra. Dal punto di vista sociale e culturale, e sul lungo periodo, invece, questi movimenti ebbero un grande risultato, perché contribuirono in tutto il mondo al formarsi di gruppi – politici e culturali – di sostegno alle politiche internazionali di pace.

    L’opposizione alla Guerra del Vietnam, che all’inizio degli anni ‘60 era circoscritta a  una ristretta cerchia di critici che esprimevano il loro dissenso su di un conflitto in gran parte sconosciuto al di fuori del Sud-Est asiatico, alla fine del decennio divenne un fenomeno di massa che si estese in tutto il mondo, superando confini nazionali, di classe e di genere e fu il catalizzatore di tutti i movimenti per la pace successivi.

    «Una volta il Vietnam era un nome senza eco /.../ora il Vietnam è ovunque» (Jack Lindsay, poeta e scrittore australiano, 1971).

    La globalità dell’opposizione alla Guerra del Vietnam non deve però far dimenticare che essa assunse forme particolari, contenuti diversi e modalità di azione specifiche nei differenti contesti nazionali/locali. Essa fu ogni volta diversa, a seconda del livello di sviluppo democratico della società, del grado di partecipazione dei cittadini alla vita politica, delle posizioni deivari governi nei confronti del conflitto e dei loro rapporti con gli Stati Uniti. Convisse in forme più o meno collaborative con altri movimenti di protesta e di lotta. Ci furono movimenti che si ispiravano ad un pacifismo universale (di matrice religiosa o laica) o che, all’opposto, erano portatori di istanze più radicali, anti-capitaliste e anti-imperialiste, o sostenitori del comunismo nella sua versione cinese e nord-vietnamita (identificato nelle due figure carismatiche di Mao Tse-tung e Ho Chi Minh).

    La doppia natura, globale e nazionale/locale, della contestazione della Guerra del Vietnam richiede oggi agli storici ricerche e riflessioni approfondite in più direzioni, e ai docenti, che intendono affrontare l’argomento nei loro corsi, di avere ben presente la complessità del fenomeno.

    Si è ritenuto, pertanto, utile affiancare alla sitografia generale sul Sessantotto una nuova sitografia dedicata specificatamente alla Guerra del Vietnam e ai movimenti di protesta del ‘68. La sitografia è suddivisa in due parti. La prima, introduttiva, contiene le risorse digitali sulla storia del conflitto; la seconda è dedicata ai movimenti di protesta in America (USA) e in Europa (Francia, Germania, Inghilterra e Italia). Anche questa sitografia, come la precedente, è completata da un indice in ordine alfabetico degli autori citati.

    Tutti i link sono stati controllati alla data del 30 giugno 2020.

     

    PARTE PRIMA: la guerra

    Enciclopedie 

     

    GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 2Elicotteri americani in azione nel Vietnam del Sud. http://www.apimages.com/Collection/Landing/Vietnam-The-Real-War/d52ea03a0ea2468399f694459d4c0fb7

     

     

    L’Enciclopedia Britannica dedica alla Guerra del Vietnam una voce a firma di Ronald H. Spector, studioso americano di storia militare. La voce, Vietnam War 1954-1975 (il cui ultimo aggiornamento risale al 28 aprile 2020) è strutturata in diversi capitoli corredati da carte geografiche, fotografie e video: French Rule Ended, Vietnam Divided; The Diem Regime And The Viet Cong; The U.S. Role Grows; The Conflict Deepens; The Gulf Of Tonkin; The United States Enters The War; Firepower Comes To Naught; Tet Brings The War Home; De-Escalation, Negotiation, And Vietnamization; The United States Negotiates A Withdrawal; The Fall Of South Vietnam.Oltre alla voce Vietnam War 1954-1975, l’enciclopedia comprende una voce redazionale sull’offensiva nord vietnamita del Tet,Tet Offensive (1968),una sul ruolo dei media nella guerra,The Vietnam War and the media (l’autore è Ronald H. Spector), ed una timeline,Vietnam War Timeline, a cura dello storico americano Michael Ray.  Alla geografia e alla storia del paeseasiatico l’enciclopedia dedica la voceVietnam.

    Nell’Enciclopedia Larousse troviamo le voci:Guerre du Viêt Nam,  nell’ambito del dossier sulla “guerra fredda” (la voce è suddivisa in quattro capitoli: Le deux Viêt Nam; L’intervention américaine,1965-1968; Le retrait américain, 1969-1973; La fin de la guerre, 1973-1975);Viêt Nam : histoire,con una sintesi della storia del Vietnam dalle origini ad oggi;Ho Chi Minh(1890-1969), sulla figura del patriota e presidente nord-vietnamita (la voce fa parte del dossier sulla “decolonizzazione”).

     

    Dal portale della Treccaniè possibile accedere alle voci: Vietnamdell’Enciclopedia online (voce redazionale sulla geografia e la storia del paese asiatico); Storia del Vietnam(voce scritta da Francesco Tuccari) nell’Enciclopedia dei Ragazzi (2006). Il portale propone anche, nella sezione “Scuola”, una lezione per la LIM sulla Guerra del Vietnam, tra decolonizzazione e guerra fredda.

     

    Tra le voci di Wikipedia sulla Guerra del Vietnam nelle diverse edizioni linguistiche dell’enciclopedia online segnaliamo:Vietnam War (indice: Background; Transition period; Diệm era, 1954–1963; Kennedy's escalation, 1961–1963; Johnson's escalation, 1963–1969; Vietnamization, 1969–1972; U.S. exit and final campaigns, 1973–1975; Opposition to U.S. involvement, 1964–1973; Involvement of other countries; War crimes; Aftermath; References: Primary and Secondary sources);Guerre du Viêt Nam (indice: Origine du conflit: l’après-guerre d'Indochine; Contexte médiatique de l'entrée en guerre des États-Unis; Escalade; Enlisement; Retrait américain; Bilan; Conséquences de la guerre; Chronologie; Notes et références; Bibliographie).LaCategory:Vietnam War e laCatégorie:Guerre du Viêt Nam contengono l’elenco delle voci delle due edizioni linguistiche (inglese e francese) che trattano argomenti inerenti alla Guerra del Vietnam.

     

    Archivi, Agenzie, Istituti di ricerca e divulgazione, Enti radiotelevisivi

     

    GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 4 OFFENSIVA DEL TET 30 31 GENNAIO 1968Vietcong nell'Offensiva del Tet (30-31 gennaio 1968). http://www.apimages.com/Collection/Landing/Vietnam-The-Real-War/d52ea03a0ea2468399f694459d4c0fb7

     

     

    LaNational Archives and Records Administration (NARA)conserva una vasta gamma di documenti e informazioni sul conflitto del Vietnam (visto dagli USA) che consistono in testi, fotografie, registrazioni audiovisive, risorse educative, articoli. Il sito web dispone di un proprio motore di ricerca interno e di una sezione dedicata allaVietnam War che propone un’esplorazione per grandi temi:Diplomacy,In Country,The War at Home,Post-Conflict Events

    Per una selezione dei documenti ai fini didattici, si può consultareDOCSteach/VietnamWar (The online tool for teaching with documents, from the National Archives).

     

    Il Virtual Vietnam Archive (The Vietnam Center and Sam Johnson Vietnam Archive at Texas Tech University) consente di effettuare ricerche(Search The Archives) su una grande archivio di documenti digitalizzati (fotografie, diapositive,  storie orali, immagini in movimento, registrazioni sonore, mappe, ecc.)riguardanti la Guerra del Vietnam.

     

    La CIA (Central Intelligence Agency) ha pubblicato in rete due raccolte di documenti recentemente desecretati relativi all’attività dell’agenzia durante la Guerra del Vietnam:The Vietnam CollectioneVietnam Histories.

     

    La NSA/CSS (National Security Agency/Central Security Service) ha messo a disposizione del pubblico della rete la propria documentazione relativa alla Conferenza di Pace di Parigi(Declassified Records Related to the Vietnam Paris Peace Talks 1972 – 1973).

     

    Sul sito dell’Istituto di studi politici Sciences Po si possono leggere articoli che affrontano alcuni aspetti ed eventi della “Guerre du Viêt Nam”:Napalm in American Bombing Dottrine and Practice, 1942-1975 (Marine Guillaume);Ecocide (de Pompignan Nathalie);The March 1968 Massacre in My Lai 4 and My Khe 4 (Greiner Bernd).

     

    La Bundeszentrale für politische Bildung (l’Agenzia federale tedesca per l’educazione civica) ha pubblicato nel 2008 sul proprio sito, nella sezione “Aus Politik und Zeitgeschichte” un dossier dedicato alVietnam che contiene un interessante articoloDie USA und Vietnam di Stephen Maxner sugli effetti a lungo termine della guerra e sulla sua presenza nella cultura americana.

     

    Sul sito della BBCè possibile consultare una serie di schede illustrative dedicate alla Guerra del Vietnam:The main events during the Vietnam War;Reasons for US involvement in Vietnam;Reasons for US failure in defeating the Vietcong;Vietcong military tactics;Changing views of the war in the USA;Impact of the war;Impact on international relations.

     

    La RAI mette a disposizione del pubblico della rete le registrazioni di programmi televisivi sulla Guerra del Vietnam:Guerre di liberazione del Vietnam (“Il Tempo e la Storia”, 15/11/2013);Il 30 aprile 1975.Quarant'anni fa la fine della guerra del Vietnam, un percorso di video e photogallery per ricordare quel giorno (30/04/2015);La Guerra del Vietnam: un viaggio all’inferno (“La Storia siamo noi”, 12/10/2017).

     

    Articoli, Schede informative, Saggi e Approfondimenti

     

    Guerra del Vietnam,raccolta di articoli sull’argomento pubblicati dal settimanale «L’Espresso» dal 1965 al 1969.

    Guerre du Vietnam 1959-1975, i numerosi articoli sulla guerra della rivista «Le Monde diplomatique».

    Vietnam eLa guerra del Vietnam (1964-1975), schede informative sulla storia del paese asiatico e sul conflitto con gli USA consultabili nel portale per la scuola della casa editrice Zanichelli.

    Das Scheitern des „begrenzten Krieges“. Vietnamkrieg und Indochinakonflikt diMarc Frey, in «Zeithistorische Forschungen/Studies in Contemporary History, Online-Ausgabe», 2 (2005).

    La Guerra del Vietnam. Un inutile massacro che ha segnato un’intera generazione di Luigi Buonanno, in «InStoria», n.22 - marzo 2007.

    Der Vietnamkrieg di Rolf Steininger – Bundeszentrale für politische Bildung, 10/10/2008.

    Children of the Vietnam War diDavid Lamb, in «Smithsonian Magazine», giugno 2009.

    Sechs Gründe, warum die USA in Vietnam verloren di Sven Felix Kellerhoff, 28/04/2015.

    40 Jahre nach dem Vietnam-Krieg. “Der Stolz hat sich übertragen” di Udo Schmidt, Deutschlandfunk, 29/04/2015.

    Lessons from the Vietnam War di John Marciano, in «Monthly Review», dicembre 2016.

    Vietnam and the Sixties di W. D. Ehrhart, in «Monthly Review», dicembre 2016.

    The Vietnam War, ampia e documentata ricostruzione storica della Guerra del Vietnam proposta dal sito <United States Foreign Policy – History & Resource Guide> sponsorizzato dalla Peace History Society, 2017.

    The Vietnam War in History di Michael G. Kort, inThe Vietnam War Reexamined,Cambridge University Press, 2017.

    Why the United States Went to War in Vietnamdi Heather Stur – Foreign Policy Research Institute,28/04/2017.

    Studying the Vietnam War diMark Atwood Lawrence,in «Humanities»,autunno 2017, volume 38, numero 4.

     

    Immagini (mappe, foto, audiovisivi)

     GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 1Divisione del Vietnam in due stati indipendenti secondo gli accordi della Conferenza di Ginevra sull'Indocina francese (aprile-luglio 1954) https://libguides.nps.edu/vietnamwar/maps

     

     

    Vietnam Conflict –Maps, elenco siti web contenenti diversi tipi di mappe sulla guerra.

    Mapping the War,mappa interattiva sulla Guerra del Vietnam.

    Vietnam War Maps,mappe relative alle guerre combattute nel Vietnam dal XIX° al XX° Secolo.

    Vietnam: The Real War, vasta collezione di fotografie sulla guerra (1963-1975).

    Vietnam War, collezione di foto dell’agenzia fotografica Getty Images.

    Iconic photos of the Vietnam War,selezione di foto della CNN.

    Guerra del Vietnam, playlist su YouTube con numerosi audiovisivi che coprono l’intera storia del conflitto.

     

    Cronologie

      

    The Vietnam War Timeline: Understanding the nature of a controversial conflict, National Archives – DOCSteach (The online tool for teaching with documents, from the National Archives).

    The Vietnam War, The History Place.La cronologia della guerra è articolata in quattro sotto-periodi:Seeds of Conflict1945 – 1960;America Commits1961 – 1964;The Jungle War1965 – 1968;The Bitter End1969 – 1975.

    Il sito della History of American Wars propone una cronologia dellaGuerra del Vietnam suddivisa in due parti:Vietnam War Historical Causes 1802-1965Vietnam War Facts 1965-1973.

     

    Bibliografie

     

    Vietnam War Bibliography, vasta bibliografia sulle diverse fasi e sui molteplici aspetti della Guerra del Vietnam a cura dello storico Edwin E. Moïse.

    Vietnam War Bibliography, ampia e articolata bibliografia a cura dello storico Richard Jensen

    Guerre du Vietnam 1959-1975,  bibliografia a cura di Le Monde Diplomatique che comprende sia libri che articoli.

    Guerra del Vietnam: libri da leggere per capirne la storia,selezione di libri in lingua italiana sul sitoTuttoVietnam.

    Guerra del Vietnam, libri in lingua italiana proposti in vendita dalla <libreriauniversitaia.it>.

     

    PARTE SECONDA: i movimenti di protesta

    NEL MONDO

     

    PROTESTE CONTRO LA GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 1Proteste contro la guerra del Vietnam negli USA e in Europa nel corso del 1968. https://www.pinterest.it/larryhellie/vietnam-protests/

    Lists of protests against the Vietnam War, cronologia delle proteste contro la guerra (1955-1973) in Wikipedia edizione in lingua inglese.

    Guerre du Vietnam 1959-1975, i numerosi articoli sulla guerra della rivista «Le Monde diplomatique», di cui alcuni dedicati ai movimenti pacifisti.

    Guerra del Vietnam,raccolta di articoli sull’argomento pubblicati dal settimanale «L’Espresso» dal 1965 al 1969, di cui alcuni relativi alla contestazione della guerra.

    Dal no alla guerra in Vietnam al no alla guerra contro i Curdi,rassegna di materiali a cura di Jacopo Perazzoli, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

    Laprotesta contro la guerra in Vietnam, photogallery con materiali tratti dall’archivio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

    The Anti-Vietnam War Movement. International Activism and the Search for World Peace diChris Dixon and Jon Piccini, 2018.

    17-18 Février 68: La jeunesse européenne avec le Vietnam di Jean Marc B.,17/02/2018.

    L’année 68 débute au Vietnam – L’offensive du Têt, la solidarité internationale, la radicalité di Pierre Rousset, 20/02/2018.

     

    IN AMERICA (USA)

     

    PROTESTE CONTRO LA GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 2Proteste contro la guerra del Vietnam a Washington dopo l'Offensiva del Tet. https://www.pinterest.it/larryhellie/vietnam-protests/ 

    Opposition to United States involvement in the Vietnam War, voce dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia.

    Vietnam War protests at the University of Michigan, voce dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia.

    Moratorium to End the War in Vietnam, voce dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia.

    Vietnam War di William W. Riggs, in «The First Amendment Encyclopedia».

    Protesting in the 1960s and 1970s, fonti archivistiche sull’argomento proposte dal sito American Archive.

    Vietnam War Bibliography:The Antiwar Movement a cura di Edwin Moise, History Department Clemson University.

    Vietnam Protests, fotografie sulle proteste contro la Guerra del Vietnam pubblicate sul sito di Pinterest.

    Vietnam Antiwar Movement: Selected full-text books and articles, selezione di libri e articoli sull’argomento nel sito Questia.

    Widerstand gegen den Vietnamkrieg in den USA di Michaela Jandl, Universität Salzburg, Institut für Geschichte, WS 1996/97.

    Mythed Opportunities: The Truth About Vietnam Anti-War Protests di Adam Garfinkle, 01/06/2000.

    Voices of Southern Protest during the Vietnam War Era: The University of South Carolina as a Case Study di Andrew Grose, in «Peace & Change», April 2007.

    Etudiantes américaines, militantisme et guerre du Vietnam: guerre, paix et «genre» dans les années 1960diAlexandra Boudet-Brugal, in «Amnis», n.8/2008.

    The US Anti-Vietnam War Movement (1964-1973) diStephen Zunes and Jesse Laird, ICNC – International Center on Nonviolent Conflict, January 2010.

    1968: The Democrats and the antiwar movement di Joe Allen, in«ISR– International Socialist Review», n. 74, November 2010.

    Composantes sociales et politiques du mouvement anti-guerre aux Etats-Unis (1965-1975) di John Barzman,Europa Solidaire Sans Frontières,13/01/2012.

    Il potere dimenticato delle proteste contro la guerra del Vietnam, 1965-1975, Tom Hayden, 29/04/2015.

    Une recontre transatlantique: les  Viêt-Nam  nés du mouvement anti-guerre en France et aux États-Unis di John Broucke,Université du Québec à Montréal, Mai, 2015.

    ► I movimenti di protesta USA contro la guerra in Vietnam di Alessandro Pagani,ALBAinformazione, 19/07/2015.

    A Three Part Analysis of the Antiwar Movement during the Vietnam War di Gus Anchondo - University of Nebraska – Lincoln, Spring 2016.

    The campus and the Vietnam War: protest and tragedy di Lyle Denniston, 26/09/2017.

    Backgroung to 68 Student Movements in the United States di Matthew Baker, SciencesPo, Avril 2018.

    Anti-Vietnam War Movement, 1963-1973 di Sharon Park, last modified: April 3, 2019.

    An Overview of the Vietnam War Protests di Robert J. McNamara, 28/07/2019.

     

    IN FRANCIA

     

    PROTESTE CONTRO LA GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 3Proteste contro la guerra del Vietnam a Parigi (maggio 1968). https://www.pinterest.it/larryhellie/vietnam-protests/

     

     

    Aux origines de la génération 1968: les étudiants français et la guerre du Vietnam di Laurent Jalabert, in «Vingtième Siècle. Revue d'histoire», Année 1997/55.

    La solidarité envers les luttes indochinoises dans la «France de 68»: les années 1960-1970 di Pierre Rousset,Europa Solidaire Sans Frontières, février 2008.

    Mai 1968 et la guerre du Vietnam di Jean-Michel Krivine, Europa Solidaire Sans Frontières, avril 2008.

    Une recontre transatlantique: les Viêt-Nam  nés du mouvement anti-guerre en France et aux États-Unis di John Broucke,Université du Québec à Montréal, Mai, 2015.

     

    IN GERMANIA (REPUBBLICA FEDERALE)

     

    PROTESTE CONTRO LA GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 4Proteste contro la guerra del Vietnam a Berlino Ovest https://www.pinterest.it/larryhellie/vietnam-protests/

     

     

    Berlin und der Vietnamkrieg.Studenten gegen die Schutzmacht di Uwe Soukup, in «Der Tagesspiegel», 30/04/2015.

    68er-Proteste in Berlin: Stimmungsbild der revolutionären Bewegung di Maritta Adam-Tkalec, «Berliner Zeitung», 12/02/2018.

    Studenten demonstrierten gegen den Vietnamkrieg di Monika Köpcke, Deutschlandfunk, 18/02/2018.

    Vietnam war das Fanal zum Aufstand di René Lüchinger, 20/06/2019.

     

    IN INGHILTERRA (UK)

     

    PROTESTE CONTRO LA GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 5Proteste contro la guerra del Vietnam a Londra https://www.pinterest.it/larryhellie/vietnam-protests/

     

     

    Anti Vietnam war – files overview, doumenti del Ministero degli Interni inglese sui movimenti di protesta contro la Guerra del Vietnam.

    The Viet Nam War and the British Student Left: A Study in Political Symbolism di Anthony O. Edmonds, History Department, Ball State University, 25/01/1999.

    The British Movement against the Vietnam War: An Example of Transnational Solidarity? di Claire Mansour, Université Toulouse 2 Jean Jaurès, in «Revue Miroirs» (en ligne), 5 Vol.I, 2017.

    My part in the anti-war demo that changed protest for ever di Donald Macintyre, «The Guardian», 11/03/2018.

    50 Years On: The Anti-Vietnam War Protest in London, fotografie di David Hurn, Magnum Photos, 12/03/2018.

    1968 – Protest and Special Branch diDónal O’Driscoll, 14/04/2018.

     

    IN ITALIA

     

    PROTESTE CONTRO LA GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 6Manifestazioni contro la guerra del Vietnam a Milano https://www.pinterest.it/larryhellie/vietnam-protests/

     

     

    I documentari “militanti” italiani, Casa del Cinema, schede di presentazione di alcuni filmati di registi italiani sul Vietnam ela contestazione in Italiadell’intervento militare americano, realizzati tra il 1965 e il 1972.

    Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico: filmati di manifestazioni contro la Guerra del Vietnam che si sono svolte in Italia negli anni sessanta.

    La contestazione della guerra del Vietnam, in Controcultura e politica nel Sessantotto italiano. Una generazione di cosmopoliti senza radici di Silvia Casilio, «Storicamente»,5 (2009), no. 12.

    Vietnam, Ho Chi Minh, Italia molti annidopo… di Agostino Bagnato, maggio-giugno 2018.

    Il Vietnam e le parole della rivolta, a cura del Centro Studi Movimenti, 29/06/2018.

    Cattolici di Francia e d’Italia dinanzi alla guerra in Vietnam: verso la rottura del “fronte filoatlantico” (1963-1965) di Francesca Ghezzi, in «Chrétiens et Sociétés XVIe-XXIe siècles», 26, 2019.

     

    INDICE AUTORI

     

    A

    ► Adam-Tkalec Maritta,68er-Proteste in Berlin: Stimmungsbild der revolutionären Bewegung, «Berliner Zeitung», 12/02/2018.

    ► Allen Joe,1968: The Democrats and the antiwar movement, in«ISR– International Socialist Review», n. 74, November 2010.

    American Archive,Protesting in the 1960s and 1970s, fonti archivistiche sulle proteste contro la Guerra del Vietnam negli anni sessanta e settanta.

    ► Anchondo Gus,A Three Part Analysis of the Antiwar Movement during the Vietnam War, University of Nebraska – Lincoln, Spring 2016.

    ► Archivi AAMOD,Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico: filmati di manifestazioni contro la Guerra del Vietnam che si sono svolte in Italia negli anni sessanta.

    B

    ► Bagnato Agostino,Vietnam, Ho Chi Minh, Italia molti annidopo…, maggio-giugno 2018.

    ► Baker Matthew,Backgroung to 68 Student Movements in the United States, SciencesPo, Avril 2018.

    Barzman John,Composantes sociales et politiques du mouvement anti-guerre aux Etats-Unis (1965-1975),Europa Solidaire Sans Frontières,13/01/2012.

    ► BBC,The main events during the Vietnam War;Reasons for US involvement in Vietnam;Reasons for US failure in defeating the Vietcong;Vietcong military tactics;Changing views of the war in the USA;Impact of the war;Impact on international relations.

    ► Boudet-Brugal Alexandra,Etudiantes américaines, militantisme et guerre du Vietnam: guerre, paix et «genre» dans les années 1960, in «Amnis», n.8/2008.

    ► Broucke John,Une recontre transatlantique: les  Viêt-Nam  nés du mouvement anti-guerre en France et aux États-Unis,Université du Québec à Montréal, Mai, 2015.

    Bundeszentrale für politische Bildung, Vietnam; Die USA und Vietnam (Stephen Maxner).

    ► Buonanno Luigi,La Guerra del Vietnam. Un inutile massacro che ha segnato un’intera generazione, in«InStoria», n.22 - marzo 2007.

    C

    ► Casa del Cinema,I documentari “militanti” italiani, schede di presentazione di alcuni filmati di registi italiani sul Vietnam ela contestazione in Italiadell’intervento militare americano, realizzati tra il 1965 e il 1972.

    ► Casilio Silvia,La contestazione della guerra del Vietnam, inControcultura e politica nel Sessantotto italiano. Una generazione di cosmopoliti senza radici, «Storicamente»,5 (2009), no. 12.

    ► Centro Studi Movimenti (a cura di),Il Vietnam e le parole della rivolta, 29/06/2018.

    CIA (Central Intelligence Agency), The Vietnam Collection e Vietnam Histories.

    CNN,Iconic photos of the Vietnam War,selezione di foto sulla Guerra del Vietnam.

    D

    ► Denniston Lyle,The campus and the Vietnam War: protest and tragedy, 26/09/2017.

    ► DePompignan Nathalie,Ecocide, Sciences Po, 03/11/2007.

    Dixon Chris e Piccini Jon, The Anti-Vietnam War Movement. International Activism and the Search for World Peace, 2018.

    E

    ► Edmonds Anthony O.,The Viet Nam War and the British Student Left: A Study in Political Symbolism, History Department, Ball State University, 25/01/1999.

    Ehrhart W. D.,Vietnam and the Sixties, in«Monthly Review», dicembre 2016.

    ► Enciclopedia Treccani online,Vietnam;Guerra del Vietnam, tra decolonizzazione e guerra fredda.

    ► Enciclopedia dei Ragazzi Treccani,Storia del Vietnam (Francesco Tuccari), 2006.

    ► Encyclopædia Britannica,Vietnam War 1954-1975 (Ronald H. Spector);Tet Offensive (1968);The Vietnam War and the media (Ronald H. Spector);Vietnam War Timeline (Michael Ray);Vietnam.

    Encyclopédie Larousse,Guerre du Viêt Nam;Viêt Nam: histoire;Ho Chi Minh(1890-1969).

    F

    ► Fondazione Giangiacomo Feltrinelli,Dal no alla guerra in Vietnam al no alla guerra contro i Curdi,rassegna di materiali a cura di Jacopo Perazzoli;Laprotestacontro la guerra in Vietnam, photogallery con materiali tratti dall’archivio della fondazione.

    Frey Marc,Das Scheitern des „begrenzten Krieges“. Vietnamkrieg und Indochinakonflikt, in«Zeithistorische Forschungen/Studies in Contemporary History, Online-Ausgabe», 2 (2005).

    G

    Garfinkle Adam,Mythed Opportunities: The Truth About Vietnam Anti-War Protests, 01/06/2000.

    ► Getty Images,Vietnam War,collezione di foto proposte dall’agenzia fotografica.

    ► Ghezzi Francesca,Cattolici di Francia e d’Italia dinanzi alla guerra in Vietnam: verso la rottura del “fronte filoatlantico” (1963-1965), in«Chrétiens et Sociétés XVIe-XXIe siècles», 26, 2019.

    Greiner Bernd, The March 1968 Massacre in My Lai 4 and My Khe 4, Sciences Po, 05/10/2009.

    Grose Andrew, Voices of Southern Protest during the Vietnam War Era: The University of South Carolina as a Case Study, in «Peace & Change», April 2007.

    Guillaume Marine,Napalm in American Bombing Dottrine and Practice, 1942-1975, Sciences Po, 26/01/2017.

    H

    ► Hayden Tom,Il potere dimenticato delle proteste contro la guerra del Vietnam, 1965-1975, 29/04/2015.

    ► History of American Wars,Vietnam War Historical Causes 1802-1965Vietnam War Facts 1965-1973, cronologia dellaguerra suddivisa in due parti.

    ► Home Office (UK),Anti Vietnam war – files overview,doumenti del Ministero degli Interni (Home Office) inglese sui movimenti di protesta contro la Guerra del Vietnam.

    ► Hurn David,50 Years On: The Anti-Vietnam War Protest in London,fotografie, Magnum Photos, 12/03/2018.

    J

    ► Jalabert Laurent,Aux origines de la génération 1968: les étudiants français et la guerre du Vietnam, in «Vingtième Siècle. Revue d'histoire», Année 1997/55.

    ► Jandl Michaela,Widerstand gegen den Vietnamkrieg in den USA, Universität Salzburg, Institut für Geschichte, WS 1996/97.

    Jensen Richard,Vietnam War Bibliography,ampia e articolata bibliografia.

    K

    Kellerhoff Sven Felix,Sechs Gründe, warum die USA in Vietnam verloren,28/04/2015.

    Köpcke Monika, Studenten demonstrierten gegen den Vietnamkrieg, Deutschlandfunk, 18/02/2018.

    Kort Michael G.,The Vietnam War in History,inThe Vietnam War Reexamined,Cambridge University Press, 2017.

    Krivine Jean-Michel,Mai 1968 et la guerre du Vietnam, Europa Solidaire Sans Frontières, avril 2008.

    L

    ► Laird Jesse e Zunes Stephen,The US Anti-Vietnam War Movement (1964-1973),ICNC – International Center on Nonviolent Conflict, January 2010.

    Lamb David,Children of the Vietnam War, in«Smithsonian Magazine», giugno 2009.

    Lawrence Mark Atwood,Studying the Vietnam War, in «Humanities»,autunno 2017, volume 38, numero 4.

    Le Monde diplomatique, Guerre du Vietnam 1959-1975, i numerosi articoli sulla guerra pubblicati dalla rivista nel corso degli anni fino ad oggi.

    L’Espresso,Guerra del Vietnam,raccolta di articoli sull’argomento pubblicati dal settimanale dal 1965 al 1969.

    Lüchinger René,Vietnam war das Fanal zum Aufstand,20/06/2019.

    M

    Macintyre Donald, My part in the anti-war demo that changed protest for ever,«The Guardian», 11/03/2018.

    Mansour Claire,The British Movement against the Vietnam War: An Example of Transnational Solidarity?, Université Toulouse 2 Jean Jaurès, in «Revue Miroirs» (en ligne), 5 Vol.I, 2017.

    Marciano John,Lessons from the Vietnam War, in«Monthly Review», dicembre 2016.

    Maxner Stephen,Die USA und Vietnam, Bundeszentrale für politische Bildung, 19/06/2008.

    McNamara Robert J.,An Overview of the Vietnam War Protests, 28/07/2019.

    Moïse Edwin E. (a cura di),Vietnam War Bibliography eVietnam War Bibliography:The Antiwar Movement.

    N

    National Archives and Records Administration (NARA),Vietnam War;DOCSteach/VietnamWar;The Vietnam War Timeline: Understanding the nature of a controversial conflict.

    NSA/CSS (National Security Agency/Central Security Service),Declassified Records Related to the Vietnam Paris Peace Talks 1972 – 1973.

    O

    O’Driscoll Dónal,1968 – Protest and Special Branch,14/04/2018.

    P

    Pagani Alessandro,I movimenti di protesta USA contro la guerra in Vietnam, ALBAinformazione, 19/07/2015.

    ► Park Sharon,Anti-Vietnam War Movement, 1963-1973, 03/04/2019.

    ► Perazzoli Jacopo (a cura di),Dal no alla guerra in Vietnam al no alla guerra contro i Curdi, rassegna di materiali, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

    Pinterest,Vietnam Protests, fotografie sulle proteste contro la Guerra del Vietnam.

    Q

    Questia,Vietnam Antiwar Movement: Selected full-text books and articles, selezione di libri e articoli sull’argomento proposta dal sito Questia.

    R

    RAI,Guerre di liberazione del Vietnam (“Il Tempo e la Storia”, 15/11/2013);Il 30 aprile 1975.Quarant'anni fa la fine della guerra del Vietnam,un percorso di video e photogallery per ricordare quel giorno (30/04/2015);La Guerra del Vietnam: un viaggio all’inferno (“La Storia siamo noi”, 12/10/2017).

    ► Ray Michael,Vietnam War Timeline, Enciclopedia Britannica.

    ► Riggs William W.,Vietnam War, in«The First Amendment Encyclopedia».

    Rousset Pierre,La solidarité envers les luttes indochinoises dans la «France de 68»: les années 1960-1970, Europa Solidaire Sans Frontières, 01/02/2008;L’année 68 débute au Vietnam – L’offensive du Têt, la solidarité internationale, la radicalité, 20/02/2018.

    S

    ► Schmidt Udo,40 Jahre nach dem Vietnam-Krieg. “Der Stolz hat sich übertragen”, Deutschlandfunk, 29/04/2015.

    ► Sciences Po,Napalm in American Bombing Dottrine and Practice, 1942-1975 (Marine Guillaume);Ecocide (de Pompignan Nathalie);The March 1968 Massacre in My Lai 4 and My Khe 4 (Greiner Bernd).

    ► Soukup Uwe,Berlin und der Vietnamkrieg. Studenten gegen die Schutzmacht, in «Der Tagesspiegel», 30/04/2015.

    ► Spector Ronald H.,Vietnam War 1954-1975 eThe Vietnam War and the media,  Enciclopedia Britannica.

    ► Steininger Rolf,Der Vietnamkrieg,Bundeszentrale für politische Bildung, 10/10/2008.

    Stur Heather, Why the United States Went to War in Vietnam, Foreign Policy Research Institute, 28/04/2017.

    T

    The History Place,The Vietnam War, cronologia della guerra.

    Tuccari Francesco,Storia del Vietnam, Enciclopedia dei Ragazzi Treccani, 2006.

    TuttoVietnam, Guerra del Vietnam: libri da leggere per capirne la storia,selezione di libri in lingua italiana, 15/03/2020.

    U

    ► United States Foreign Policy,The Vietnam War, 2017.

    V

    ► Virtual Vietnam Archive, Search The Archives

    W

    ► Wikipedia, edizione in lingua inglese,Vietnam War;Category:Vietnam War;Lists of protests against the Vietnam War;Opposition to United States involvement in the Vietnam War;Vietnam War protests at the University of Michigan;Moratorium to End the War in Vietnam.

    ► Wikipedia, edizione in lingua francese,Guerre du Viêt Nam;Catégorie:Guerre du Viêt Nam.

    Z

    ► Zanichelli Editore,Vietnam eLa guerra del Vietnam (1964-1975), schede informative sulla storia del paese asiatico e sul conflitto con gli USA.

  • La Guerra fredda ritorna sulla scena mondiale. Sitografia didattica.

    di Antonio Prampolini

     

     

    Indice

    1. L'attualità della Guerra fredda

    2. Lo Student Center dell'Enciclopædia Britannica

    3. Le risorse didattiche sulla Guerra fredda

     

    GUERRA FREDDA ENCICLOPEDIA BRITANNICA IMMAGINE 1Fig.1: Raffigurazione simbolica della Guerra fredda Fonte1. L'attualità della Guerra Fredda

    Il riferimento alla Guerra fredda è oggi sempre più ricorrente nell’interpretazione della crisi ucraina da parte dei media occidentali (stampa, televisione, internet), e il linguaggio della guerra fredda è ritornato nelle parole di molti protagonisti della politica internazionale.1
    I giornalisti e gli studiosi di geopolitica parlano di “Seconda guerra fredda” per definire lo stato dei rapporti tra l’America, con i suoi alleati europei, e la Russia di Putin dopo l’aggressione russa dell’Ucraina. Una definizione che richiede che si conoscano le relazioni Est-Ovest nella seconda metà del Novecento, per potere individuare le analogie e le differenze tra la situazione di ieri e quella di oggi.
    Come ha osservato acutamente Carlo Galli: la “Prima guerra fredda” era stata combattuta in un clima di paura per la minaccia nucleare ma anche di «fiducia nel progresso e nelle risorse di sviluppo sociale che ciascuno dei due mondi [quello capitalista e quello comunista] attribuiva a sé stesso», mentre la “Seconda guerra fredda” si presenta «nel segno dell’incertezza, come un momento particolarmente intenso del disordine che caratterizza la fine della globalizzazione».2

    In rete sono numerose le fonti a cui accedere per intraprendere un percorso conoscitivo sulla Guerra fredda. Di seguito prenderemo in esame l’Enciclopædia Britannica come opera di consultazione che propone un interessante uso didattico dei propri contenuti storici.3

    GUERRA FREDDA ENCICLOPEDIA BRITANNICA IMMAGINE 2Fig.2: Logo dello Student Center dell’Enciclopædia Britannica Fonte2. Lo Student Center dell’Enciclopædia Britannica

    La Britannica ha creato uno Student Center che si rivolge al mondo della scuola (americano e non solo) selezionando ed integrando le voci enciclopediche dedicate ad argomenti specifici. E tra questi, in particolare, trova posto la storia, così suddivisa: Storia degli Stati Uniti (United States History), Storia del mondo (World History), Storia antica(Ancient History: Significant Places and Institutions of Ancient Rome; Key People and Enemies of Rome; Ancient Rome; Ancient Cities Videos: Rome, Paestum, The Acropolis and The Parthenon).

    Gi argomenti vengono trattati utilizzando testi di facile comprensione e immagini (Historic Image Galleries, Educational Student Videos), nella consapevolezza che la multimedialità può svolgere una funzione importante nell’apprendimento della storia da parte degli studenti. Numerose sono le infografiche: mappe, tabelle, linee del tempo (Educational Infographic Series) e le registrazioni audio (Podcasts) al fine di vivacizzare le narrazioni. Per mettere alla prova le conoscenze degli studenti vengono proposti divertenti quiz su temi specifici (History Quizzes).

     

     

     

    GUERRA FREDDA ENCICLOPEDIA BRITANNICA IMMAGINE 3Fig.3: Composizione di immagini relative ad alcuni eventi della Guerra fredda Fonte3. Le risorse didattiche sulla Guerra fredda

    Lo Student Center dell’Enciclopædia Britannica affronta la Storia del mondo (World History) limitandola al Novecento e suddividendola in quattro grandi aree tematiche: Prima guerra mondiale (World War I), Seconda guerra mondiale (World War II), Guerra del Vietnam (Vietnam War), Guerra fredda (Cold War).
    Alla storia della Guerra fredda sono dedicati diversi capitoli: Introduzione (Introduction), Eventi principali (Major Events), Alleanze e Lider (Alliances & Leaders), Paura rossa (Red Scare), Guerra nucleare e controllo degli armamenti (Nuclear War & Arms Control), Competizione (Competition), Politiche e propaganda (Policies & Propaganda).

     

    Introduzione (Introduction)

    Nell’Introduzione troviamo una sintesi delle origini storiche della Guerra fredda: la crisi, alla fine della Seconda guerra mondiale, della difficile alleanza che aveva unito nella lotta contro la Germania nazista gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica; l’imposizione di regimi comunisti da parte dell’URSS nell’Europa orientale; la nascita nel 1949 della Repubblica popolare cinese, in seguito alla vittoria dei comunisti nella guerra civile con i nazionalisti di Chiang Kai-shek, che aggiungeva la Cina al blocco sovietico; la creazione di alleanze militari contrapposte (NATO e Patto di Varsavia).

    Per approfondimenti, il capitolo iniziale rinvia alle voci enciclopediche: Cortina Di Ferro (Iron Curtain), Muro di Berlino (Berlin Wall), Comunismo (Communism), Terzo mondo (Third World), Superpotenza (Superpower).

    Le Guerre calde. A volte i nemici della Guerra fredda si affrontavano tramite sostituti in conflitti armati locali-regionali. Tuttavia ci furono delle eccezioni. Nella Guerra di Corea, gli Stati Uniti e i loro alleati, operando sotto la bandiera delle Nazioni Unite, si impegnarono direttamente in una “guerra calda" con uno dei giganti comunisti (la Cina). In questo caso la Corea del Nord fu rifornita e consigliata dall'Unione Sovietica mentre le forze armate della Repubblica popolare cinese si unirono ai combattenti nord-coreani. Così pure nella Guerra del Vietnam, dove gli Stati Uniti intervennero direttamente nel conflitto, alleati dei sudvietnamiti, contro il Vietnam del Nord comunista, sostenuto dalla Cina e dall'Unione Sovietica. A ruoli invertiti nell’invasione sovietica dell’Afghanistan, dove gli americani appoggiarono i mujaheddin (i guerriglieri mussulmani anticomunisti).

     

    Eventi principali (Major Events)

    Tra gli Eventi principali della Guerra fredda vengono indicati in ordine cronologico:

    - il Blocco di Berlino (Berlin blockade), ovvero il blocco, a partire dal giugno 1948 e fino al maggio 1949, da parte dell’Unione Sovietica dei collegamenti ferroviari, stradali e idrici tra Berlino Est (controllata dai russi) e Berlino Ovest (controllata dagli anglo-franco-americani);

    - la Crisi di Suez (Suez Crisis), luglio 1956 – marzo 1957: la nazionalizzazione del Canale di Suez, di proprietà di una compagnia franco-britannica, da parte del presidente egiziano Nasser e il conseguente intervento militare di Francia e Regno Unito, insieme a Israele, nel tentativo di riprendere il controllo del canale e di deporre Nasser;

    - la Rivoluzione ungherese(Hungarian Revolution), ottobre – novembre 1956: il tentativo del premier riformista ungherese Imre Nagy di uscire dal Patto di Varsavia e di riformare in senso liberale il regime comunista, represso nel sangue dall’intervento militare sovietico;

    - l’Incidente dell’aereo spia americano U2(U-2 Incident), maggio 1960: l’abbattimento dell’aereo pilotato da Frances Gary Powers durante un volo di ricognizione sul territorio dell’URSS;

    - l’Invasione della Baia dei Porci (Bay of Pigs invasion), aprile 1961: il tentativo, fallito, organizzato dalla CIA, di invadere Cuba inviando sull’isola caraibica esuli cubani armati in attesa di una rivolta popolare di massa contro il regime comunista di Fidel Castro;

    - la Crisi di Berlino del 1961 (Berlin crisis of 1961): l’isolamento della parte occidentale della città e la costruzione di un muro di separazione in seguito al rifiuto degli Stati Uniti e alleati (Regno Unito e Francia) di rinunciare alla loro occupazione di Berlino;

    - la Crisi dei missili cubani, ottobre 1962: in seguito alla costruzione da parte dei russi di siti missilistici a Cuba, il presidente degli Stati Uniti John Kennedy ordina il blocco navale dell’isola caraibica per ottenere la rimozione dei missili sovietici;

    - la Primavera di Praga (Prague Spring), 1968: tentativo del segretario del Partito Comunista Cecoslovacco Alexander Dubček di riformare in senso liberale e democratico il regime comunista d’impronta staliniana e conseguente intervento delle forze armate sovietiche e del Patto di Varsavia per impedire la realizzazione di un “socialismo dal volto umano”;

    - l’Ascesa di Solidarność (The Rise of Solidarity): fondato nel settembre 1980, il sindacato polacco Solidarność è stato il primo sindacato indipendente in un paese del blocco sovietico. Soppresso dal governo polacco nel dicembre 1981, sotto la guida di Lech Waƚᶒsa è riemerso nel 1989 per diventare il primo movimento di opposizione a partecipare a libere elezioni nel blocco sovietico dagli anni '40;

    - l’Incidente Di Piazza Tienanmen (Tiananmen Square Incident): la manifestazione di protesta a Pechino per una svolta democratica del regime comunista cinese repressa violentemente dal governo nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989;

    - il Crollo dell’Unione Sovietica(Collapse of the Soviet Union): le riforme della “perestrojka” e della "glasnost” introdotte in Unione Sovietica a metà degli anni '80 da Mikhail Gorbaciov hanno creato un conflitto tra il vecchio e il nuovo ordine che è culminato in un fallito colpo di stato dei sostenitori della linea dura del Partito Comunista nell'agosto 1990, contrastato in parte da Boris Yeltsin. Successivamente le ambizioni sovrane delle repubbliche costituenti l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) portarono allo scioglimento ufficiale dell'unione nel dicembre 1991.

     

    • Alleanze e Leader (Alliances & Leaders):

    - Alleanze

    Al blocco sovietico dei settori occidentali di Berlino Ovest nel giugno 1948, gli Stati Uniti risposero con un massiccio ponte aereo che rifornì Berlino Ovest di cibo, medicine e carburante. Il blocco spinse le potenze occidentali ad adottare nuove misure più forti di contrasto all’espansionismo sovietico, inclusa la creazione nell’aprile del 1949 di un’alleanza militare NATO (North Atlantic Treaty Organization). L’Unione Sovietica rispose nel maggio del 1955 con la formazione di una propria alleanza, il Patto di Varsavia (Warsaw Pact). Di fronte all’intensificarsi della Guerra fredda, i paesi del “terzo mondo” intrapresero la via del neutralismo fondando nel 1961 il Movimento dei Non Allineati (NAM);

    - Leader

    Ogni epoca storica ha i suoi leader straordinari e la Guerra fredda non ha fatto eccezione, a cominciare da Joseph Staline Winston Churchill che guidarono l'Unione Sovietica e il Regno Unito, rispettivamente, durante la Seconda guerra mondiale e nei primi anni della “Guerra fredda”. A causa della natura bipolare delle rivalità della Guerra fredda, i leader dell'epoca sono spesso ricordati in coppia, insieme all’avversario. Il leader sovietico Nikita Khruschev e il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy sono per sempre legati dalla crisi dei missili cubani, e il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e il segretario generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov dai ruoli che hanno giocato nel porre fine alla Guerra fredda.

     

    • Paura rossa (Red Scare)

    Con l'intensificarsi della Guerra Fredda negli anni '50, l'anticomunismo pervase la società americana. La ricerca dei “sovversivi” è stata al centro della spietata crociata anticomunista del senatore Joseph McCarthy e lo smascheramento di una minaccia rossa a Hollywood l’obiettivo principale delle indagini della House Un-American Activities Committee (HUAC). Queste indagini, che spesso erano autentiche cacce alle streghe, alla fine scoprirono ben pochi “traditori”. La pratica dello spionaggio (CIA, KGB) era però assai diffusa su entrambi i lati della “cortina di ferro” (Iron Curtain) ed era una fonte inesauribile per la narrativa e la cinematografia del periodo insieme alla minaccia della guerra nucleare.

     

    GUERRA FREDDA ENCICLOPEDIA BRITANNICA IMMAGINE 4Fig.4: Esplosione nucleare a Nagasaki in Giappone, 9 agosto 1945 Fonte• Guerra nucleare e controllo degli armamenti (Nuclear War & Arms Control)

    Il lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, in Giappone, nell'agosto del 1945, pose fine bruscamente alla Seconda guerra mondiale e cambiò per sempre il panorama delle relazioni internazionali. L'era atomica era iniziata. Durante la guerra, gli Stati Uniti e la Germania avevano gareggiato nell’utilizzo della fissione nucleare al fine di produrre un'arma di ineguagliabile distruttività. Vincendo quella gara, gli Stati Uniti divennero la prima superpotenza del mondo. Uno status privilegiato che presto cessò con l’accesso alla tecnologia nucleare da parte dell'Unione Sovietica. Nel momento in cui due stati potevano ricorrere all’arma nucleare, chiunque avesse pensato di iniziare una guerra utilizzando tale arma avrebbe dovuto d'ora in poi considerare la possibilità di ritorsioni ugualmente distruttive. Lo sviluppo e l'accumulo di armi nucleari sempre più potenti divenne il perno della rivalità tra USA e URSS durante la Guerra fredda.

    Il capitolo segnala diverse voci enciclopediche, tra queste: Atomic Bomb, International Atomic Energy Agency, Treaty on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons.

     

    GUERRA FREDDA ENCICLOPEDIA BRITANNICA IMMAGINE 5Fig.5: Francobollo sovietico commemorativo dell’orbita dello Sputnik 1 Fonte• Competizione (Competition)

    - Corsa allo spazio

    La rivalità tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica era totale, nessun campo era escluso. Ciascuna delle due superpotenze cercava di convincere il mondo e il proprio popolo della superiorità delle rispettive società. Non solo la potenza militare, l'integrità ideologica e l'efficienza economica erano oggetto della loro competizione, ma anche la gara per la preminenza tecnologica era di enorme importanza. Di conseguenza, la cosiddetta “corsa allo spazio” (essere il primo a lanciare un essere umano nello spazio e poi a farlo atterrare sulla Luna) aveva un enorme valore simbolico. Il 4 ottobre 1957, il lancio dello Sputnik 1 fu uno shock per la maggior parte degli americani. Prima del lancio, vi era un diffuso scetticismo sulle capacità tecniche dell'URSS di sviluppare sia un sofisticato satellite che un razzo abbastanza potente da metterlo in orbita. La conquista sovietica scosse la fiducia americana ed europea nel deterrente nucleare degli Stati Uniti inaugurando una nuova fase della Guerra fredda.
    Per approfondimenti, il capitolo rinvia alle voci enciclopediche: NASA, Astronaut, Neil Armstrong.

    - Competizione sui campi di gioco

    Negli anni della Guerra fredda ci fu anche un'intensa rivalità atletica tra il blocco sovietico e quello occidentale (Stati Uniti e suoi alleati). Entrambe le parti pubblicizzavano le vittorie sportive come prova della loro superiorità. Il successo dipendeva dall'identificazione e dal reclutamento di atleti, dalle innovazioni nell'allenamento, dai progressi nella medicina e nella psicologia dello sport e dall'investimento di ingenti somme per sostenere questi sistemi sportivi d'élite. Beneficiando di elaborati programmi di medicina sportiva e scienza dello sport, i paesi del blocco sovietico avevano superato le loro controparti occidentali fino a quando le principali nazioni sportive occidentali iniziarono ad adottare programmi simili sponsorizzati dallo stato.

     

    • Politiche e propaganda (Policies & Propaganda)

    La Guerra Fredda è stata una gara strategica e tattica per influenzare la natura dei governi e delle società dei paesi del mondo. Da un lato, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno cercato di diffondere il capitalismo (più o meno democratico); dall'altro, l'Unione Sovietica e la Repubblica popolare cinese hanno tentato di esportare le loro versioni del comunismo. Per fare questo, le superpotenze hanno fornito aiuti militari, materiali, tecnici e finanziari ai paesi che speravano di portare nelle loro sfere di influenza, e ricorso massicciamente agli strumenti della propaganda ideologica. L’obiettivo delle loro agende geopolitiche consisteva nel bloccare l'avanzata delle potenze rivali e intervenire negli affari degli altri paesi per affermare i propri interessi. Molti studi sono stati dedicati al tentativo di comprendere le motivazioni, gli obiettivi e le strategie reciproche e il modo di contrastarle al meglio.

    Per approfondimenti, il capitolo rinvia a diverse voci enciclopediche: Piano Marshall (Marshall Plan), Destalinizzazione (De-Stalinization), Contenimento (Containment), Teoria del dominio (Domino Theory), Dottrina Breznev (Brezhnev Doctrine), Eurocomunismo (Eurocommunism), Distensione (Détente), Ostpolitik, Glasnost, Perestrojka.

     


     

    Note

    1 Sara Lorenzini, Focus Ucraina. Ritorno alla guerra fredda? La Russia e l'uso della storia.

    Carlo Galli, La seconda guerra fredda.

    Sulla storia dell'Enciclopædia Britannica e sulla sua organizzazione editorale, la voce: 

     https://en.wikipedia.org/wiki/Encyclopædia_Britannica.

  • La lunga guerra tra uomo e microbi

    Con una postilla sul “Laboratorio del tempo presente” (di HL)

    di Salvatore Adorno*

    Illustrazione di apertura dell’articolo di Salvatore Adorno, pubblicato da «La Sicilia», 20 marzo 2020

    Domesticazioni riuscite e no

    La vicenda del corona virus ci permette di utilizzare come chiave di lettura della storia dell’umanità il conflitto tra uomo e microbi.

    I microbi, virus e batteri, hanno una storia più lunga di quella dell’uomo. L’uomo è comparso sul pianeta 4 milioni di anni fa, quando i virus e i batteri erano già presenti da due miliardi di anni. Erano allora le più numerose forme di vita, i veri padroni della terra. Da quel momento l’uomo a grandi tappe ha forgiato il pianeta e ha riorganizzato il mondo degli altri esseri viventi in funzione del suo dominio: alcuni sono stati addomesticati come il cane e il cavallo, altri sono risultati restii al processo, come il bisonte che è stato così sterminato, altri sono rimasti ribelli come i virus e i batteri, i cosiddetti microbi: i nemici più pericolosi della specie umana.

    Per lungo tempo la forza di virus e batteri stava nel loro essere invisibili e quindi nella possibilità di agire indisturbatamente, uccidendo l’uomo. La scoperta del cannocchiale (siamo con Galileo nella prima metà del XVII secolo) e quindi del microscopio ha permesso di individuarli. Successivamente Pasteur e Kock, nel corso dell’Ottocento, hanno definito il loro ruolo nella trasmissione delle malattie, arrivando alla preparazione dei vaccini. Fleming nel primo Novecento ha scoperto gli antibiotici.

    La guerra degli uomini ai microbi

    Vaccini, antibiotici e risanamento dell’ambiente (si pensi alle bonifiche dei terreni malarici) sono state le armi con le quali l’uomo nel Novecento ha compiuto un vero “colpo di stato” nei confronti della maggioranza delle forme di vita fino ad allora dominanti, i microbi, che nella storia dell’umanità hanno ucciso mille volte più uomini di quanti ne abbiano ucciso guerre e disastri naturali.

    Non a caso, la ricerca scientifica e l’organizzazione dei sistemi sanitari nazionali hanno portato al ridimensionamento dell’azione di virus e batteri e in particolare all’eliminazione del virus del vaiolo e all’eradicazione di quello della difterite, del morbillo e di altre malattie endemiche. Tutto ciò ha contribuito in modo rilevante ad allungare la vita delle persone, migliorandone il controllo sanitario e la qualità. Un solo esempio: il vaiolo nel XX secolo, prima di scomparire definitivamente nel 1980, ha fatto 300 milioni di vittime.

    La risposta dei microbi

    La nostra epoca dei consumi di massa individuali, che inizia dopo la seconda guerra mondiale ed evolve nella globalizzazione, ha visto così un netto miglioramento delle condizioni di vita e lo sterminio dei più feroci nemici dell’uomo. Nei principali libri di storia della medicina si legge come nella seconda metà del Novecento siano diminuite le patologie legate alla trasmissione e al contagio e siano aumentate quelle tumorali e cardiopatiche legate all’inquinamento, all’alimentazione allo stress, ovvero all’attività umana. Il paradosso sta nel fatto che questa vittoria è avvenuta in un’epoca in cui si sono moltiplicate vertiginosamente le condizioni che favoriscono la diffusione e il contagio di batteri e virus: l’aumento dell’irrigazione, la crescita esponenziale dei trasporti, il deterioramento degli ecosistemi, il cambiamento delle relazioni tra animali e uomini, la nascita delle megalopoli e il moltiplicarsi all’infinito dei contatti quotidiani tra gli uomini.

    Ecco allora che la vittoria strategica sui microbi, realizzata tra la fine del XIX secolo e la seconda metà del XX secolo, risulta sempre più instabile, anche perché i batteri hanno risposto all’attacco degli antibiotici diventando resistenti MDR (multi drug resistence), producendo così nuove forme di malaria e di tubercolosi, e i virus, approfittando del sovvertimento ecologico del pianeta, sono mutati sfuggendo al controllo dei vaccini. Nel 1977, ad esempio, circa 50 milioni di esseri umani sono stati affetti da tubercolosi MDR. Per cui oggi la transizione epidemiologica che sembrava portare al trionfo dell’uomo pare essersi fermata e il nemico ritorna più pericoloso che mai nelle forme dell’HIV, della Sars, del corona virus.

    La coevoluzione tra uomo e microbi sembra di nuovo sfuggire al controllo dell’uomo.

    Una guerra che cambia la storia

    L’epidemia attuale di corona virus rappresenta l’altra faccia del dominio dell’uomo sulla natura, è la risposta della natura alla pretesa superiorità biologica dell’uomo. Un microbo sta mettendo a repentaglio il sistema dell’economia, della cultura e della società globale. L’uomo con la sua intelligenza riuscirà probabilmente a vincere questa guerra (così ormai viene rappresentata dei media) che però è anche l’ennesimo e forse più netto segnale del nostro essere entrati in un’altra fase della storia della specie. La pandemia di oggi per un verso si pone in continuità con la guerra infinita tra uomini e microbi, per un altro segna una cesura profonda perché agisce, per la prima volta e quindi in modo imprevedibile, in un pianeta iperconnesso e ipertecnologico che l’uomo ha forgiato come non mai a sua misura.

    Ambiente, migrazioni e virus

    C’è infatti uno stretto nesso tra l’emergenza ambientale, quella migratoria e quella sanitaria. Tutte e tre sono il frutto della globalizzazione e sono strettamente connesse tra loro. Tutte e tre pongono alla società globale una doppia sfida: mantenere la sicurezza e modificare gli stili di vita.

    Fino ad oggi il tema della sicurezza è stato affrontato polarizzando la paura e alzando barriere di odio nei confronti dei migranti, che tolgono lavoro, portano malattie e violenza. Questo atteggiamento spinge così a blindare il nostro stile di vita basato sui consumi di massa individuali e sull’uso indiscriminato delle risorse naturali.

    Il corona virus ribalta questa narrazione e ci dimostra all’improvviso che l’insicurezza, sanitaria ed economica, viene dalle aree più ricche ed è il prodotto della nostra società dei consumi e dell’alterazione degli equilibri ambientali che noi stessi abbiamo creato. Oggi per bloccare il virus tutte le autorità richiedono di rimodulare temporaneamente il nostro stile di vita rendendolo più controllato e più parco. A ben vedere è la stessa richiesta di Greta Thumberg, che ci invita a un cambiamento strutturale delle nostre modalità di produzione, di mobilità, di alimentazione e di svago, per salvare il pianeta dal riscaldamento globale e dall’esaurimento delle risorse.

    Di fronte all’insicurezza e alla precarietà prodotta dalla globalizzazione possiamo rispondere individuando un nemico esterno, trincerandoci nella certezza della bontà del nostro modello di vita, oppure prendendo atto che è il nostro modello di vita che genera instabilità e insicurezza, spingendoci a ripensarlo. La pandemia da corona virus e il riscaldamento globale, sono due facce di un pianeta iperconnesso e profondamente alterato nelle sue matrici naturali (acqua, suolo, aria, vita animale e vegetale), che la specie umana ha messo sotto stress.

    I segnali di questa malattia della terra sono ormai molti, forse è arrivato il momento di fermarsi a riflettere sul nostro futuro come individui, come società e come specie. Forse la politica dovrebbe occuparsi proprio di questo.

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    Una postilla sul “Laboratorio del tempo presente” (di HL)

    Un’infermiera della Croce Rossa indossa una mascherina durante la pandemia del 1918 (da Jstor)

    A cosa serve parlare a scuola di corona virus? Certo, non ad aggiungere dati e polemiche a quelle che già inondano i media. Non c’è bisogno di una tabella in più o di una ulteriore raccomandazione a comportarsi correttamente. Quello che manca, e che i media non sono molto interessati a dare (comprensibilmente, vista l’emergenza), è la risposta a una folla di domande, che – per quanto inespresse – ci angosciano quanto quelle quotidiane, perché riguardano il destino della nostra società. Dopo, ci chiediamo, che cosa succederà? Ci stiamo accorgendo, infatti, che questo evento sta agendo nel nostro modo di vivere in modo molto profondo. Quindi, intuiamo, più o meno confusamente, che “il dopo” sarà diverso.

    È fondamentale cominciare a capire che cosa questo evento sta mettendo in discussione. La storia è uno degli strumenti a nostra disposizione. Lo fa in due direzioni. Quella del tempo, in primo luogo. La storia mette il nostro evento in una prospettiva temporale che, in questo caso, è lunghissima. Dura quanto l’intera vicenda umana. Coinvolge l’idea stessa di evoluzione. Adorno richiama il concetto di “coevoluzione”: quella dell’uomo e quella del virus. Se non conosciamo bene la dinamica di questo confronto, non potremo mai immaginare quale “mossa” ci convenga fare contro un avversario, adattabile almeno quanto lo siamo stati noi.

    La seconda direzione è quella della contestualizzazione. In quale contesto inserire questo evento? In quello del piccolo paese, della regione o del singolo stato? C’è una risposta ovvia: nel contesto dell’ambiente globale. C’è, infatti, una seconda coevoluzione che viene messa in gioco oggi: quella fra umanità e ambiente. E questa chiama in causa – come sottolinea Adorno – la globalizzazione con i suoi aspetti più visibili, quali le migrazioni, le crisi climatiche e i nostri stili di vita (ma potremmo aggiungere anche la finanza mondiale, le politiche internazionali e così via). Anche in questo caso, nessuna previsione futura, ma solo la lettura di una situazione con le possibili scelte: rispondiamo chiudendoci (e cioè cercando di conservare i vecchi assetti)? Oppure proveremo a modificare quegli aspetti che sembrano incidere negativamente nel dialogo fra noi e il nostro pianeta?

    Un laboratorio di cittadinanza

    Sono problemi che riguardano la vita di tutti. Quindi, è fondamentale, in una società democratica, che diano luogo a una discussione pubblica. Discuterne a scuola significa affermare il principio che, per essere buoni cittadini, occorre intervenire nel dibattito con cognizione di causa. Usando gli strumenti giusti. Quelli della storia, per esempio.

    Le piattaforme, che molti docenti usano o stanno affannosamente imparando a usare, consentono di discutere, di inviare materiali. Un laboratorio è possibile. Anzi, è molto più adatto alle tecnologie digitali di una lezione in video. L’articolo di Adorno può essere il punto di partenza. È certamente leggibile in una secondaria superiore. È una possibile apertura del dibattito. Il tempo e la contestualizzazione, come ho suggerito sopra, costituiscono la guide della discussione. All’insegnante il compito di ricondurvi i discorsi dei ragazzi che, come può succedere quando si tratta di “temi caldi”, tenderanno a scivolare nella “ricerca del colpevole” o nei “buoni o cattivi sentimenti”. Sempre in rete potremo trovare materiali da far leggere, da assegnare per gruppi, con i quali far lievitare il discorso e tenerlo aderente ai fatti e alle problematizzazioni storiche. Jstor, la più grande raccolta di riviste storiche, ne ha messi online parecchi (alcuni molto belli). Sono in inglese (ma Google traduttore si rivela una delle più grandi invenzioni del XXI secolo!). Vi permetteranno excursus nel passato e approfondimenti nelle problematiche del presente. Vi permetteranno, se saprete organizzarvi, di lavorare trasversalmente su molte discipline, da storia a scienze a letteratura.

    Insomma: anche su questo versante il “durante” – ciò che facciamo oggi – può annunciare un “dopo” alquanto diverso.

     


     

    * Questo articolo è stato scritto da Salvatore Adorno, docente di Storia dell’ambiente presso l’Università di Catania, per “La Sicilia” del 19 marzo 2020. HL ringrazia l’autore per averci consentito di riprenderlo qui, con qualche modifica, e di rilanciarlo fra i docenti.

  • La normalità dello sterminio. I nazisti, gli ebrei e gli altri

    Autore: Luigi Cajani

     

    Introduzione

    E’ ben noto il proverbio arabo, fatto proprio da Marc Bloch nell’ Apologia della storia, secondo il quale siamo figli più dei nostri tempi che dei nostri padri. E’ un detto che, quando si affronta il tema doloroso e difficile della comprensione della Shoah, suggerisce riflessioni dirimenti per uno storico. In molte ricostruzioni, infatti, si tende a privilegiare “l’asse dei padri”, cioè il lungo periodo dell’antisemitismo, invocato come la spiegazione predominante dello sterminio. Questo asse, tuttavia, va incrociato con l’asse della contemporaneità, e, quindi, con la specificità del Nazismo. Non è una differenza da poco. Nel primo caso, la Shoah è il culmine tragico di un antisemitismo secolare. Nel secondo, è l’applicazione agli ebrei della logica dello sterminio nazista.  E’ una differenza importante dal punto di vista dello storico, attento alla natura dei fenomeni che analizza. Lo è dal punto di vista della conoscenza diffusa e dell’uso sociale della storia, perché la specificità del fenomeno nazista è il baluardo più forte contro la banalizzazione della Shoah  e contro le continue analogie con situazioni tragiche del nostro mondo. Lo è, infine, dal punto di vista dell’insegnante di storia, perché riconduce all’interno di un territorio metodologicamente determinato un tema che, nelle scuole, è diventato un contenitore estremamente variegato. In questa prospettiva, hl pensa utile ripubblicare questo articolo di Luigi Cajani, uscito nella rivista “Giano”, nel 1996, la cui analisi resta valida nonostante gli anni trascorsi e le ricerche successive. (A.B.) *

     

    Le strategie naziste di occupazione

    Durante la Seconda guerra mondiale, la Germania perseguì due diverse strategie di occupazione, distinte a seconda degli ambiti territoriali  e razziali a cui si applicavano. Per l’Europa occidentale era prevista un’occupazione che, pur sfruttando le risorse locali, lasciasse però sostanzialmente immutata la struttura demografica e sociale e garantisse alla popolazione un discreto livello di vita. Per l’Europa orientale, abitata da slavi, che erano considerati razzialmente inferiori non solo ai tedeschi, ma anche agli altri europei occidentali di stirpe latina, era invece prevista un’occupazione di tipo coloniale, con l’insediamento di popolazione tedesca e con uno sfruttamento senza scrupoli delle risorse. Il popolo tedesco, secondo la propaganda nazista, mancava di Lebensraum (spazio vitale), e se lo sarebbe conquistato con la guerra in Europa orientale, dove sarebbe diventato lo Herrenvolk (popolo dei signori).

     

    Fig. 1. Il nuovo Atlante Scolastico del 1942 insegna ai bambini tedeschi “lo spazio vitale” del loro popolo 

     

    I progetti  di espansione vennero formulati nel cosiddetto Generalplan Ost (piano generale per l’est), il quale prevedeva che la zona comprendente la Polonia, la Bielorussia e l’Ucraina occidentale fosse svuotata della maggior parte dei suoi abitanti: su circa 45 milioni, 31 milioni sarebbero stati deportati al di là degli Urali, mentre gli altri sarebbero rimasti a disposizione dei coloni tedeschi che vi si sarebbero insediati1 .


    L’asservimento della Russia

    Si trattava dunque di modificare radicalmente la struttura demografica e sociale dei paesi occupati ad oriente, in funzione dell’asservimento ai tedeschi. Le conseguenze che questo sconvolgimento avrebbe avuto sulle popolazioni locali non preoccupavano affatto la dirigenza nazista, se non, appunto, nell’ottica dell’interesse del Terzo Reich. L’assoluto disinteresse per la sorte degli Untermenschen, gli uomini inferiori, emerge da più parti. Un esempio significativo è rappresentato da un progetto per lo sfruttamento delle risorse alimentari della Russia, redatto circa un mese prima dell’inizio delle ostilità. Dal punto di vista della produzione di generi alimentari la Russia presentava due zone: una eccedentaria, cioè la parte meridionale (la Russia nera) e quella caucasica, e una deficitaria, cioè la parte settentrionale, o delle foreste, e i bacini industriali di Mosca e Leningrado. Le eccedenze della prima zona sarebbero state totalmente assorbite dalla Germania, che avrebbe lasciato alla popolazione locale solo di che sopravvivere. Ciò significava che la zona deficitaria sarebbe rimasta totalmente priva dei suoi consueti rifornimenti, e pertanto i suoi abitanti, soprattutto quelli delle città, sarebbero stati ridotti alla fame.

    Di fronte a questa prospettiva - scriveva l’estensore del progetto - “l’amministrazione tedesca può certo cercare di mitigare le conseguenze della carestia... e accelerare il processo di ritorno ad un’economia di natura. Ci si può sforzare di sviluppare queste regioni nel senso di estendere la coltivazione delle patate e delle altre piante più importanti per il consumo alimentare. Ma comunque la carestia non può essere evitata. In queste regioni molte decine di milioni di uomini diverranno superflui e moriranno oppure dovranno emigrare in Siberia. Tentativi di salvare questa popolazione dalla morte per fame importando il surplus dalla Russia nera possono essere realizzati solo a spese dell’Europa. Ma così si mina la capacità di tenuta della Germania in guerra, la capacità della Germania e dell’Europa di resistere al blocco continentale.  Ciò deve essere assolutamente chiaro”2.

     

    Fig.2. Hitler e Mussolini studiano la carta geografica europea con il Feldmaresciallo Wilhelm Keitel e il generale Jodl.

     

    Lo sterminio dei prigionieri di guerra sovietici

    Lo stesso disprezzo per la vita umana ispirò il trattamento dei prigionieri sovietici: considerati solo bocche inutili da sfamare, essi vennero lasciati morire in massa di fame, di maltrattamenti e di malattie (soprattutto tifo petecchiale), quando non venivano direttamente fucilati al momento della cattura. Dei 3.350.000 prigionieri sovietici catturati dall’inizio dell’attacco all’Unione sovietica, al 1 febbraio 1942 circa il 60% aveva perso la vita3.

    Il tasso di mortalità cominciò ad abbassarsi solo quando la dirigenza nazista si rese conto che in tal modo stava dilapidando un utile capitale di forza lavoro: pertanto i prigionieri di guerra sovietici cominciarono ad essere trattati un po’ meglio, per essere impiegati nell’industria pesante e soprattutto in miniera. Nonostante questo cambiamento di politica, la loro sorte rimase comunque molto dura, la più dura fra i prigionieri in mano tedesca: si calcola che alla fine del conflitto su un totale di circa 5.700.000 prigionieri di guerra sovietici i morti siano stati circa 3.300.0004.

     

    Gli ebrei: deportazione e sterminio

    Deportazione e sterminio erano dunque due misure complementari e contigue nella politica nazista nei confronti degli slavi. Lo sterminio non era in questo caso un obiettivo diretto e autonomo, ma semplicemente la conseguenza di misure come la deportazione in Siberia o la requisizione delle risorse alimentari. Si può parlare di uno sterminio indiretto, come elemento di passaggio dalla deportazione allo sterminio diretto.

    Deportazione e sterminio fecero parte della politica nazista nei confronti degli ebrei, che prima dello sterminio aveva preso in considerazione alcune ipotesi di deportazione. Dapprima, dopo la vittoria  sulla Polonia, si era pensato di concentrare gli ebrei polacchi in una “riserva” vicino a Lublino. La deportazione in quella regione implicava consapevolmente uno sterminio: infatti, come notava Arthur Seyss-Inquart, si trattava “di una regione molto paludosa... il che avrebbe portato ad una grande decimazione degli ebrei”5.

    Questa prima idea di deportazione si rivelò inadeguata e venne sostituita, dopo la vittoria sulla Francia, dal progetto di deportazione degli ebrei in Madagascar, che venne però abbandonato nel settembre del 1940, a causa della mancata vittoria sulla Gran Bretagna, che era necessaria alla realizzazione del nuovo progetto. Il passaggio dalla deportazione allo sterminio si realizzò con la guerra contro l’Unione sovietica, iniziata il 22 giugno 1941.

     

    Lo sterminio degli ebrei

    Il rapporto fra questa guerra e lo sterminio degli ebrei è molto complesso. Un elemento di cui tener conto è che si trattava non soltanto di una guerra di espansione territoriale, ma anche di una guerra ideologica, che aveva lo scopo di annientare il comunismo, che i nazisti consideravano il loro nemico mortale, insieme all’ebraismo. Dunque all’interno di questa guerra, oltre ai piani di deportazione o eliminazione della popolazione slava, c’era un piano di sterminio mirato, una vera e propria caccia all’uomo, degli elementi politicamente pericolosi. A questo scopo vennero impartiti ordini per l’eliminazione della dirigenza comunista sovietica: la Wehrmacht, prima dell’inizio delle ostilità, emanò il cosiddetto Kommissarbefehl, che prevedeva l’eliminazione di tutti i commissari politici dell’Armata Rossa;  e subito dopo vennero organizzate quattro Einsatzgruppen, reparti  speciali incaricati della “pacificazione” delle retrovie attraverso l’eliminazione di tutti i funzionari di partito, di tutti gli elementi pericolosi (come sabotatori e agitatori) e di tutti gli ebrei nel partito e nell’amministrazione statale.

    Gli ebrei rientravano dunque, in quanto politicamente pericolosi, in questo primo piano di sterminio. Ma ben presto l’annientamento degli ebrei venne esteso oltre questo ambito politico, e investì l’intera popolazione ebraica in quanto tale. Infatti le Einsatzgruppen già dalla metà di agosto del 1941 iniziarono a fucilare in massa gli ebrei, senza distinzione di sesso o di età6, e intensificarono la loro attività nei mesi successivi: a metà aprile del 1942 il numero degli ebrei uccisi era arrivato a circa mezzo milione7.

    Gli ebrei sovietici diventavano così oggetto di sterminio totale. E la loro sorte divenne quella di tutti gli ebrei europei. Infatti proprio in quei mesi venne decisa e messa a punto la “soluzione finale del problema ebraico”. Nel dicembre del 1941 entrò in funzione il primo campo sterminio, Bełzec, seguito ben presto da Chełmno, Sobibór e Treblinka, e il processo di sterminio fece un salto tecnologico, passando dalle fucilazioni delle Einsatzgruppen ai camion a gas e alle camere a gas. Infine il 20 gennaio 1942 si tenne infatti la conferenza di Wannsee, che definì le modalità della deportazione degli ebrei europei. Le Einsatzgruppen continuavano intanto i loro massacri, utilizzando anch’esse i camion a gas, oltre alle fucilazioni: nella primavera del 1943 - secondo alcune stime - avevano ucciso complessivamente 1.250.000 ebrei, oltre ad altre centinaia di migliaia di cittadini sovietici non ebrei8.

     

    Fig. 3. In questa cartina interattiva, realizzata dall’Istituto Maiorana di Bergamo, le notizie sintetiche sui principali campi di concentramento tedeschi

     

    Problemi aperti: la tesi di Browning

    Se è indubbio che la “soluzione finale” venne decisa durante la prima fase della guerra contro l’Unione sovietica, nell’estate o nell’autunno del 1941, ci sono ancora questioni irrisolte riguardo alla cronologia e alle motivazioni di questa decisione, e al ruolo avuto non solo da Hitler, ma anche dai vari esponenti della dirigenza nazista. Non sono infatti stati rintracciati ordini scritti, ed è anche possibile che non siano mai esistiti, dato il segreto di cui si voleva circondare la materia. Gli storici si dividono sostanzialmente intorno a due ipotesi. Christopher Browning, ad esempio, sostiene che Hitler decise di sterminare gli ebrei intorno alla metà di luglio del 1941, quando la vittoria definitiva sull’Unione sovietica sembrava facile e imminente. Sarebbe stata dunque l’euforia del successo a spingerlo a compiere il salto di qualità nella persecuzione degli ebrei, facendogli abbandonare ogni esitazione rispetto alle misure estreme9. In questo contesto va inserito un documento, recante una data imprecisata del  luglio 1941, nel quale Göring conferiva a Heydrich i pieni poteri per la “soluzione globale” (Gesamtlösung) della questione ebraica in Europa10, e  la prima gasazione sperimentale con lo Zyklon B, fatta ad Auschwitz il 3 settembre su un gruppo di prigionieri di guerra sovietici.

     

    Problemi aperti: la tesi di Mayer

    Opposta è invece l’ipotesi di Arno Mayer, secondo il quale Hitler avrebbe deciso di sterminare gli ebrei non durante la prima fase dell’attacco all’Unione sovietica, ma  durante l’autunno, di fronte alle prime serie difficoltà, che facevano fallire il sogno di un nuovo Blitzkrieg. Secondo Mayer, dopo l’euforia delle prime due settimane di guerra già a fine luglio la dirigenza nazista doveva ammettere che l’avanzata rallentava e si faceva sempre più costosa, contrariamente a quanto previsto. I primi insuccessi militari avrebbero spinto dunque Hitler a eliminare intanto coloro che considerava i principali responsabili di tutti i mali della Germania: gli ebrei.

    Mayer sostiene che i primi massacri di ebrei sovietici, nel luglio, furono opera non tanto delle Einsatzgruppen, ma degli antisemiti locali, che scatenavano dei pogrom appena arrivavano le truppe tedesche. I reparti tedeschi - egli scrive - iniziarono i grandi massacri di ebrei solo “dopo l’autunno del 1941, quando l’Armata Rossa aveva rallentato l’avanzata tedesca imponendo i più tremendi e sanguinosi combattimenti.... Da quel momento, i comandanti della Wehrmacht e delle Einsatzgruppen denunciarono specificatamente gli ebrei come mandanti, membri e fiancheggiatori delle attività partigiane dietro le linee tedesche e si servirono di queste accuse per giustificare il fatto di averli scelti come capri espiatori dell’ostinata resistenza sovietica....”.  

    Secondo Mayer,  per Hitler e la dirigenza nazista lo sterminio degli ebrei fu un’opzione che venne adottata solo a causa del fallimento dei piani legati alla guerra contro l’Unione sovietica. Egli scrive infatti: “Non si può... affermare che lo sterminio degli ebrei sovietici sia stato parte integrante del grande disegno di Hitler di creare un Reich millenario. Dopo una breve e vittoriosa campagna; i nazisti si proponevano di trasferire gli ebrei d’Europa, compresi quelli russi, in una riserva come quella di Lublino, al di là del Volga o degli Urali. E’ soltanto dopo aver preso coscienza dell’enorme difficoltà di vincere la guerra e di ”liberare” Mosca... che i fanatici nazisti concentrarono la loro attenzione sugli ebrei, la più accessibile e vulnerabile incarnazione del “giudebolscevismo”...” 11.

    Secondo Mayer sarebbero dunque state l’”angoscia” e la “paura” di fronte al fallimento dei suoi sogni di potere a spingere Hitler a decidere lo sterminio degli ebrei.

     

    Le obiezioni di Vidal-Naquet

    Questa tesi non ha mancato di suscitare perplessità: in particolare Pierre Vidal-Naquet, nella prefazione all’edizione francese del libro di Mayer, ha messo in discussione proprio la cronologia della consapevolezza del fallimento da parte della dirigenza nazista, rimproverando a Mayer di non essere stato chiaro in proposito: “Quando è cominciata la sconfitta? - scrive Vidal-Naquet - Negli ultimi giorni di luglio? In agosto? Il 19 settembre, giorno in cui fu conquistata a caro prezzo Kiev? Il 1° dicembre, con le dimissioni di von Rundstedt? Oppure l’8 dicembre, quando venne sospesa l’offensiva? Lo storico può certo stabilire qual è stato il momento della sconfitta,  e Arno Mayer ha tutto il diritto di ritenere che  sia stato l’autunno del 1941, e non l’autunno-inverno del 1942 (Stalingrado e sbarco il Africa settentrionale), a segnare il punto di svolta nella guerra. Ma dovrebbe anche provare... che già a settembre, o al più tardi in ottobre, Hitler e i suoi crociati erano consapevoli di essere ormai sconfitti”12.

     

    La normalità dello sterminio

    Al di là di queste due ipotesi, se la decisione di sterminare gli ebrei sia stata in frutto di un delirio di onnipotenza o di un senso di frustrazione, dell’euforia o della rabbia, ipotesi che rimangono aperte e che non necessariamente si escludono totalmente l’un l’altra, mi sembra che ci sia comunque un punto fermo: e cioè che la dimensione dello sterminio, già insita nella cultura nazista, divenne proprio nel contesto della guerra contro l’Unione sovietica un’opzione tranquillamente accettata e praticata. Si sterminarono gli slavi e si sterminarono gli ebrei, perché inutili o pericolosi. Ma prima di allora erano stati sterminati oltre 70.000 malati mentali, tedeschi, questa volta, e non appartenenti a razze inferiori, ma comunque “lebensunwerte Leben”, vite senza valore13. E poi sarebbe venuto il momento degli Zingari.

     


    Fig. 4. “Il trasporto del ricordo”, è il titolo del monumento eretto a Pirna, una delle località tedesche dove, fra il 1940 e il 1941, si compì l’Aktion T4, con l’uccisione sistematica di oltre 70mila malati psichici

     

    Questi stermini, pur tanto diversi fra loro nelle motivazioni e nelle modalità di esecuzione, hanno in comune il fatto di essere  “normali”. Se fra una deportazione e uno sterminio diretto esiste un salto di qualità, esiste però anche, ed è forse più importante, un elemento di continuità, se osserviamo queste due strategie dal punto di vista nazista, per i quali l’obiettivo era quello di una pulizia etnica del Reich e dell’Europa occidentale, eliminandone la presenza ebraica, e di una pulizia ancora più radicale, un vero e proprio svuotamento etnico, nei territori dell’est. La scelta delle due opzioni, deportazione o sterminio, non rappresentava tanto un salto culturale, la brusca radicalizzazione di una strategia, ma dipendeva piuttosto dalla loro efficacia e dalla loro praticabilità. In questo senso la guerra contro l’Unione sovietica, che faceva aumentare considerevolmente il numero degli ebrei nella zona di influenza tedesca, ma rendeva impraticabile, almeno a breve, l’opzione di una deportazione al di là degli Urali, fece diventare l’opzione dello sterminio come l’unica praticabile.

     

    Tra le letture più recenti, si consigliano

    Enzo Traverso, Simon Levi Sullam, Marcello Flores, Marina Cattaruzza (a cura di), Storia della Shoah, Torino, UTET, 2005-2006
    Christopher Browning, Le origini della soluzione finale: l'evoluzione della politica antiebraica del nazismo: settembre 1939-marzo 1942, Milano, Il Saggiatore, 2008

     

    Note

    1. Cfr. DIETRICH EICHHOLTZ, Geschichte der deutschen Kriegswirtschaft 1939-1945, II, Berlin, Akademie Verlag, 1985, pp. 434-435.

    2.  Bericht des Wirtschaftsstabes Ost, Gruppe Landwirtschaft vom 23. Mai 1941: Richtlinien für die Wirtschaftspolitik zur Ausnutzung russischer Quellen für die Ernährung der deutschen Wehrmacht und zum Teil für die deutsche Zivilbevölkerung (doc. 126 EC), in Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher vor dem Internationalen Militärgerichtshof. Nürnberg 14. November 1945 - 1. Oktober 1946, Nürnberg, 1949, XXXVI, pp. 135-157, qui pp. 144-145.

    3.  CHRISTIAN STREIT, Keine Kamaraden. Die Wehrmacht und die sowjetischen Kriegsgefangenen 1941-1945, Bonn, Verlag J.H.W. Dietz Nachf., 1991, p. 136.
    4.  Ibidem, p. 244.

    5.  Bericht über eine Inspektionsreise Seyss-Inquarts in Polen vom 17. bis 22. November 1939  (doc.  2278-PS), in Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher..., cit.,  XXX, pp. 84-101, qui p. 95.
    6.  Cfr. PHILIPPE BURRIN, Hitler and the Jews. The Genesis of the Holocaust, London, Melbourne,Auckland, Edward Arnold, 1994, p. 110 (ed. orig. Hitler et les juifs. Genèse d’un génocide, Paris, Seuil, 1989).
    7.  Cfr. GERT ROBEL, Sowjetunion, in Dimension des Völkermords. Die Zahl der jüdischen Opfer des Nationalsozialismus, a cura di Wolfgang Benz, München, Oldenbourg, 1991, p. 543.
    8.  Cfr. Einsaztgruppen, in Enzyklopädie des Holocaust, München - Zürich, Piper, I, 1995, p. 399. L’edizione originale di questa enciclopedia è stata pubblicata contemporaneamente in ebraico in Israele, col titolo  Entsiklopedja shel ha-shoa, e in inglese negli USA, col titolo Encyclopedia of the Holocaust.
    9.  CHRISTOPHER BROWNING, L’origine de la solution finale: du contexte militaire et politique à la prise de décision (1939-1941), in La politique nazie d’extermination (a cura di François Bédarida), Paris, Albin Michel, 1989, pp. 156-176.
    10.   Auftrag Görings an Heydrich vom Juli 1943 zur Vorbereitung einer Gesamtlösung der Judenfrage im deutschen Einflussgebiet in Europa (doc. 710-PS), in Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher..., cit.,  XXVI, pp. 266-267.
    11.  ARNO MAYER, Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea, Milano, Arnoldo Mondadori, 1990, pp. 242-243 (ed. orig. Why Did the Heavens not Darken? The “Final Solution” in History, New York, Pantheon Books, 1988).
    12.  ARNO MAYER, La “solution finale” dans l’histoire, Paris, Éditions La Découverte, 1990,  p. VI.
    13.   Cfr. MICHAEL BURLEIGH, WOLFGANG LIPPERMANN, Lo stato razziale, Germaia 1933-1945, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 127-151.

  • La shoah spiegata ai ragazzi

     Autore: Antonio Brusa

     

     

     

    Ricavo dal libro di Francesca Romana Recchia Luciani quelle che mi sembrano “le conoscenze storiche essenziali per la giornata della memoria”, un momento che molti (della scuola come dell’Università) vorrebbero smettesse i panni della celebrazione e della commemorazione per acquistare quelli dello studio.

    Per realizzare questo obbiettivo occorre costruire la profondità temporale della Shoah. Questa si articola su tre livelli. I tempi lunghissimi dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo, che accompagnano l’intera storia del cristianesimo e delle società che a questa religione si rifanno. I tempi intermedi della scientifizzazione del concetto di razza (e quindi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento). Il tempo breve, infine, quello dei dodici anni dell’esperienza nazista.

    Zoomando su quest’ultimo periodo, si osserva il percorso che conduce alla “Soluzione finale”, e quindi a Auschwitz. Anche questo è un percorso niente affatto lineare. Le sue prime mosse sono quelle della violenza diffusa che culmina con le rapine, le botte e le uccisioni della Notte dei Cristalli. Poi si cambia registro. Basta violenza nelle città, i nazisti provano a utilizzare le strutture dello stato: leggi e burocrazia. Gli ebrei vengono censiti, segregati, spogliati progressivamente, messi ai margini della società, costretti a emigrare. L’entrata in guerra – infine -  mette i nazisti di fronte agli ebrei dell’Europa orientale. Fino ad allora se l’erano vista con gli appena 500 mila ebrei interni, ora devono vedersela con i milioni di ebrei slavi, ungheresi,  baltici.

    Ci si avvia alla fase finale. Anche questa segue un percorso tortuoso. Fermo dal punto di vista ideologico, si avvale di soluzioni empiriche, messe a punto qua e là: la logistica, sperimentata da Eichmann in Austria; le uccisioni di malati e di portatori di handicap; gli omicidi di massa degli ebrei, ai quali si danno sia gli Einsatzgruppen, sia le popolazioni civili; l’uso dei gas di scarico dei camion; il complesso dei campi di concentramento che, fin da subito, il regime ha cominciato a costruire.

    Sulle sponde del Wannsee, nel gennaio del 1942, si tirano le somme di queste pratiche dell’orrore. Tutte insieme concedono ai nazisti il potere di sterminare un popolo. In questa impresa, essi profondono ricchezze, uomini, strutture, industrie, capacità organizzative collettive e individuali. Costruiscono una macchina così possente e funzionale che continua a produrre morte anche quando le loro armate si ritirano sconfitte. Un’impresa ciclopica che li mette in grado di “dimostrare -  sono parole di Goebbels  - che tutto è possibile”.

    Messa a punto la contestualizzazione,  si entra nell’universo concentrazionario, un termine - ormai passato nell’uso storiografico - con il quale si sottolinea il fatto che esso era costituito da una rete fitta di campi, che innervava sia la Germania, sia molti dei territori conquistati, dall’Italia fino alla Polonia. Campi di diverso genere, da quelli destinati alla raccolta e al transito, alla detenzione, al lavoro, fino a quelli specializzati nello sterminio, con un gradiente di violenze – tuttavia - che faceva sì che l’omicidio e la morte per fame o per stenti fossero di casa ovunque.

    Questo universo ha uno scopo che persegue con determinazione. Non si tratta, soltanto, di uccidere. Occorre produrre un essere meritevole di essere ucciso. Occorre “dimostrare” che l’ebreo è un subumano. Questo universo, dunque, lo “produce”.  Lo fa creando un clima di sofferenze, di privazioni, di perdita di identità, di routine della violenza che conducono l’individuo a perdere tutto ciò che lo rende umano. Facendogli percorrere l’ultimo tratto della sua vita in una terra che ricrea l’inferno, con la sua logica capovolta: premiare i cattivi, punire i buoni. Il “mussulmano”, parola che Primo Levi ci ha fatto conoscere, è l’abitante di questo inferno.

    Attraversarlo per intero  in classe è impossibile. Bisogna scegliere e focalizzare la propria attenzione. Francesca Romana indica tre luoghi -  Teresienstadt, Varsavia, Auschwitz – quali esempi di “studi di caso” capaci di illustrare la varietà delle situazioni storiche;  e due personaggi, Primo Levi e Hanna Arendt, perché non solo ci parlano dell’orrore, ma pongono le basi per tematizzare il nostro rapporto con quei fatti. Quello che ci conduce alla giornata del 27 gennaio, momento nel quale si affronta la questione, vitale per la formazione storica dei cittadini, dell’educazione della memoria.

     

    Francesca R. Recchia Luciani, La Shoah spiegata ai ragazzi,il melangolo, Genova 2014

  • La storia alla radio: i podcast di storia della Rai. Da Napoleone al Muro di Berlino

    di Antonio Prampolini

    La storia non solo possiamo “leggerla” sui libri, le riviste e i giornali (in formato cartaceo o digitale), “guardarla” al cinema, alla televisione o sui video, che circolano numerosi in Internet, ma possiamo anche “ascoltarla” nelle registrazioni audio.

    Nei podcast, come ha osservato acutamente Enrica Salvatori, sottolineandone le potenzialità, «la narrazione storica viene “recitata”, riportata alla dimensione uditiva, che in quanto tale ha stili, effetti speciali, pause e ritmi suoi propri» funzionali ad una comunicazione più partecipata e coinvolgente dei contenuti.

  • La storia contemporanea nel Web. L’esempio della Germania: il Centro per la storia contemporanea di Potsdam.

    di Antonio Prampolini

    Prampolini Zeitgeschichte Digital immagine 1Fig.1: logo del Leibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung Potsdam (ZZF) Fonte1. L’istituto di ricerca

         IlLeibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung Potsdam (ZZF) è un istituto di ricerca interdisciplinare creato nel 1996 con sede in Germania a Potsdam (capoluogo del Brandeburgo). Studia la storia contemporanea tedesca ed europea del XX secolo e i suoi effetti fino ai giorni nostri. L’attività scientifica dell’istituto è organizzata in dipartimenti (attualmente quattro) che si dedicano ciascuno ad una specifica area tematica: Comunismo e società,Storia dell'economia, Storia della società, Storia dei media e della società dell'informazione.

    Le ricerche e le pubblicazioni dell’istituto riguardano in particolare: 

    - la “Guerra fredda”

    - le crisi e il crollo dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est

    - la storia della Repubblica Democratica Tedesca (DDR).

     

     

     

     

     

     

     

    Prampolini Zeitgeschichte Digital immagine 2Fig.2: homepage del portale Zeitgeschichte Digital Fonte2. Il portale

       L’istituto è presente in rete con un’ampia e articolata offerta open access di informazioni e riflessioni sulla storia contemporanea. Attraverso il portale Zeitgeschichte Digital (Storia Contemporanea Digitale) è possibile accedere ai siti dello ZZF:

    -      Docupedia-Zeitgeschichte

    -     Zeithistorische Forschungen

    -     Zeitgeschichte online

    -     ZZF e-Dok-Server

                                                                                 -     Visual History

    Il portale mette a disposizione degli utenti un catalogo di tutti gli articoli online pubblicati dall‘istituto nei diversi siti. Gli articoli possono essere ricercati con differenti modalità (per Autori/autrici, Argomenti, Anni/periodi storici, Stati/territori, Siti di pubblicazione), attivabili sia separatamente che collegate fra di loro. Ad esempio, scegliendo l‘argomento antisemitisno, si può circoscrivere la ricerca (tra le varie opzioni) agli Anni Venti o agli Anni Trenta del Novecento, all‘Europa Occidentale o a quella Orientale.

    Gli articoli vengono visualizzati a mosaico (segundo l‘ordine cronologico inverso di pubblicazione) in una schermata-indice che riporta per ciascuno un‘immagine-icona accompagnata dalle tradizionali informazioni bibliografiche (autori, titolo, sito e data di pubblicazione). Selezionando un articolo si accede ad una scheda con le prime righe del testo, la didascalia e la fonte dell‘immagine-icona, la segnalazione degli articoli correlati consultabili online sui siti ZZF, le classificazioni tematiche, geografiche e cronologiche (oltre alle informazioni già contenute nella schermata-indice e agli estremi per la citazione dell‘articolo).

    Dalla scheda si accede al testo completo dell‘articolo.

    Gli articoli sono pubblicati prevalentemente in lingua tedesca (gli utenti possono sempre attivare il traduttore online di Google, che in questo caso fornisce una versione in lingua italiana dei testi nel complesso accettabile).

     

     

    Prampolini Zeitgeschichte Digital immagine 3Fig.3: logo di Docupedia-Zeitgeschichte Fonte3. Un’enciclopedia storica rivolta a tutti

        Docupedia-Zeitgeschichte (Docupedia – Storia Contemporanea) è il sito ZZF che si rivolge ad un pubblico più vasto di quello degli specialisti del settore per trasmettere le conoscenze di base relative alla storia contemporanea e per documentare i dibattiti sui fondamenti metodologici e teorici della ricerca storica. Contiene articoli autoriali suddivisi in sette categorie: Fondamenti(Grundlagen), Concetti (Begriffe), Metodi (Methoden), Campi di ricerca (Forschungsfelder), Dibattiti (Debatten), Paesi (Länder), Storici (Klassiker).

     

    Appartengono alla prima categoria Fondamenti (Grundlagen), insieme ad altri, gli articoli:

    -     Modelli teorici della storia contemporanea (Theoriemodelle der Zeitgeschichte) di Stefan Haas. L’autore, dopo avere riconosciuto l’importanza della teoria nel definire la logica progettuale e funzionale della ricerca storica, spiega i diversi modelli teoriciutilizzabili dagli storici dell’età contemporanea.

    -      Narrazione e narratologia. Teorie narrative nella storiografia(Narration und Narratologie. Erzähltheorien in der Geschichtswissenschaft) di Achim Saupe e Felix Wiedemann. Gli autori affrontano le teorie narrative e le loro applicazioni negli studi storici.

    -      Storia contemporanea e Digital Humanities (Zeitgeschichte und Digital Humanities) di Peter Haber. L’autore traccia lo sviluppo delle Digital Humanities e si chiede se la digitalizzazione ha cambiato solo la qualità e la quantità delle fonti o anche l'intero processo di lavoro degli storici contemporanei.

    -      Didattica della storia (Didaktik der Geschichte) di Lars Deile. Per l’autore la didattica della storia riguarda la visibilità del passato nel presente.  Del passato rimangono solo dei frammenti. Attraverso le domande del presente questi frammenti possono diventare una fonte di conoscenza.

     

    Alla seconda categoria, Concetti (Begriffe), appartengono, insieme ad altri, gli articoli:

    -      Tempo e concezioni del tempo nella storia contemporanea(Zeit und Zeitkonzeptionen in der Zeitgeschichte) di Rüdiger Graf. L’autore, dopo avere introdotto il concetto del tempo alla luce delle teorie più recenti, afferma che la storiografia dovrebbe occuparsi maggiormente delle connessioni tra passato, presente e visioni del futuro.

    -      Cittadino, Borghesia, Attitudini borghesi (Bürger, Bürgertum, Bürgerlichkeit) di Manfred Hettling. Nel suo contributo l’autoreapprofondisce il concetto di "cittadino", la formazione sociale della "borghesia", il suo modello culturale, e presenta gli approcci e i metodi della ricerca storica sull’argomento.

    -      Burocrazia (Bürokratie) di Peter Becker. L’autore ricostruisce i cambiamenti di significato del temine “burocrazia” nel corso dei secoli XIX e XX e analizza i nuovi indirizzi storiografici che la riguardano.

    -      Antisemitismo e ricerca sull’antisemitismo (Antisemitismus und Antisemitismusforschung) di Wolfgang Benz. Nell’articolo viene descritta la storia dell'antisemitismo dal primo Medioevo al XXI secolo. L’autore fornisce una panoramica dei vari metodi e modelli esplicativi utilizzati nella ricerca interdisciplinare sull'antisemitismo.

    -      Fordismo (Fordismus) di Rüdiger Hachtmann. L’autore descriveil pensiero el’ideologia di Henry Ford e ladiffusione del termine “fordismo”,approfondendone i livelli di significato più importanti.

    -      Fascismo – Concetto e teorie (Faschismus – Begriff und Theorien) di Fernando Esposito. L’autoreprende in esame ilsignificato del termine fascismo alla luce dell’attuale uso/abuso da parte dei media e della politica e discute gli approcci delle più recenti ricerche sul fascismo.

    -      Antifascismo. Concetto, storia e campo di ricercanell'Europa occidentale (Antifaschismus. Begriff, Geschichte und Forschungsfeld in westeuropäischer Perspektive) di Jens Späth. L'articolo fornisce, con un’ottica comparativa transnazionale, una panoramica della storiadell’antifascismonell’Europa occidentale.

    -      Anticomunismo (Antikommunismus) di Bernd Faulenbach. L’autore analizza l’anticomunismo dal 1917 al 1989-91 considerandolo una irrinunciabile categoria interpretativa della storia del Novecento.

     

    Alla terza categoria, Metodi(Methoden), appartengono, insieme ad altri, gli articoli:

    -      Storia Globale (Global History) di Dominic Sachsenmaier. L’articolo spiega come la “Global History” si identifica con una vasta gamma di approcci di ricerca che vanno dalla storia economica alla storia culturale e dalla storia di genere alla storia ambientale, caratterizzati da un crescente interesse per concezioni alternativeal nazionalismo metodologico e all'eurocentrismo.

    -      Storia Visiva (Visual History) di Gerhard Paul. Per l’autore, che è uno dei fondatori della “Visual History” nell’ambito della storia moderna e contemporanea, le immagininon sono solo “fonti”ma anche “oggetti indipendenti”dellastoriografia.

    -      Storia Culturale – (Kulturgeschichte) di Achim Landwehr. L’articolo offre una breve panoramica della Storia Culturalesottolineando come essa abbia risposto alle nuove sfide politiche e sociali dagli anni '90.

    -      Storia dei Media (Mediengeschicte) di Frank Bösch e Annette Vowinckel. Nell’articolo viene analizzato il ruolo che i media giocano nella ricerca interdisciplinare sulla storia contemporanea.

    -      Storia sociale e Scienze sociali storiche (Sozialgeschichte und Historische Sozialwissenschaft) di Klaus Nathaus. L’autore prende in esame le macroaree in cui la storia socialetrova oggi applicazione offrendo un utile orientamento in un campo di ricerca assai vasto.

     

    Alla quarta categoria, Campi di ricerca (Forschungsfelder), appartengono, insieme ad altri, gli articoli:

    -     Storia dei lavoratori (Arbeitergeschichte) di Peter Hübner. L’articolo spiega in una prospettiva interdisciplinare i vari aspetti della “Storia dei lavoratori”, che coinvolge la storia del lavoro, della classe operaia e del movimento operaio.

    -      Storia afroamericana (Afroamerikanische Geschichte) di Christine Knauer. L’autricetraccia la genesi della storiografia afroamericana e fa riferimento alla stretta connessione tra storiografia, lotta per la libertà e movimento per i diritti civili nel XIX e soprattutto nel XX secolo.

    -      Ricerca biografica storica (Historische Biografieforschung) di Levke Harders. In questo contributo l’autrice, dopo avere offerto una panoramica dello sviluppo delle biografie nelle scienze storiche di lingua tedesca e inglese, prende in esame le attuali ricerche biografiche.

    -      “Guerra fredda” (Kalter Krieg und “Cold War Studies”) di Bernd Greiner. L‘autore,analizzandogli studi sulla “Guerra fredda” emersi negli ultimi dieci anni,evidenzia come il campo di ricerca si stiaemancipando dalla prospettiva storicalimitata alla politica delle due superpotenze (USA e URSS) per interrogarsi sul ruolo dei piccoli attori della scena internazionale.

     

    Fanno parte della quinta categoria Dibattiti (Debatten), insieme ad altri, gli articoli:

    -      Potere carismatico e nazionalsocialismo (Charismatische Herrschaft” und der Nationalsozialismus) di Rüdiger Hachtmann. L’articolo prende in esame il modello idealtipico del sociologo tedesco Max Weberper applicarloal regime nazista, mostrandone i limiti e riconoscendone, allo stesso tempo, i meriti.

    -      La “disputa degli storici” (Der Historikerstreit) di Klaus Große Kracht.Per l’autore la “Historikerstreit” (il dibattito pubblico oltre che scientifico che ha avuto inizio nell'estate del 1986 a seguito di un articolo del filosofo sociale Jürgen Habermas sul settimanale di Amburgo "Die Zeit") rappresenta un importante punto focale all'interno della cultura politica della Repubblica federale di Germania negli anni '80.

    -      Storia vivente (Living History) di Juliane Tomann. L’autrice passa in rassegna le varie definizioni, forme ed espressioni della “Living History” sia negli Stati Uniti che in Europa.

     

    Della sesta categoria, Territori (Länder), fanno parte, insieme ad altri, gli articoli:

    -      Francia: Histoire du Temps présent tra problemi nazionali e apertura internazionale(Frankreich - Histoire du Temps présent zwischen nationalen Problemstellungen und internationaler Öffnung) di Rainer Hudemann.L’autore, in qualità di osservatore esterno, individua alcune aree problematiche importanti per lo sviluppo della Histoire du temps présent e ne presenta la forza innovativa e la diversificata produzione tematica.

    -      Gran Bretagna: "Storia contemporanea" oltre il consenso e il declino (Großbritannien - "Contemporary History" jenseits von Konsens und Niedergang) di Detlev Mares. L’articolo offre una panoramica dei problemi centrali della periodizzazione della ricerca storica contemporanea in Gran Bretagna.

    -     Spagna: Tra memoria e storia contemporanea  (Spanien – Zwischen Erinnerung und Zeitgeschichte) di Walther L. Bernecker e Sören Brinkmann.Gli autori esaminano la gestione della storia contemporanea in Spagna alla luce l'elaborazione dei due grandi eventi del Novecento: la guerra civile eil passaggio alla democrazia.

     

    Della settima e ultima categoria, Storici (Klassiker), fanno parte, insieme ad altri,  gli articoli:

    -      Max Weber e la storia contemporanea (Max Weber und die Zeitgeschichte) di Gangolf Hübinger. L’articolosi interroga sull’importanza e sull’attualitàdi Max Webernello studio della storia contemporanea.

    -      Raul Hilberg. “Fantasia della Buocrazia”. Studio pionieristico sullo sterminio degli ebrei europei (Raul Hilberg. “Phantasie der Bürokratie”. Pionierstudie zur Vernichtung der europäischen Juden) di Nicolas Berg. L’autore racconta la vita e gli studi di Raul Hilberg, storico statunitense di origini austriache, autore della monografia The Destruction of the European Jews, pubblicata per la prima volta nel 1961.

    -      Francis Fukuyama e la “Fine della storia” (Francis Fukuyama und das "Ende der Geschichte” di Stefan Jordan. In questo contributo l’autore discute la tesi di Fukuyama così come i dibattiti sul suo libroThe End of History and the Last Man (1992).

     

    Oltre a questa suddivisione, Docupedia-Zeitgeschichte raggruppa gli articoli in tre macroaree (Cluster): Ricerca sul Comunismo (Kommunismusforschung), Ricerca sul Nazionalsocialismo (Nationalsozialismus-Forschung), Storia Pubblica – Storia Applicata (Public History - Applied History).

     

    Nel sito DZ è sempre possibile (come pure nel portale Zeitgeschichte Digital) effettuare ricerche per Autori/autrici e per Argomenti, oltre a ricerche testuali libere.

    Docupedia-Zeitgeschichte non segue un piano editoriale predefinito, è un progetto dinamico, aperto alle proposte e ai contributi degli storici. In continua crescita, dai 20 articoli del febbraio 2010 - quando il sito è stato messo online - agli attuali 169  (15/12/2020). Gli autori che hanno contribuito al progetto con i loro articoli dal 2010 ad oggi sono 155.

    Il riferimento a Wikipedia è implicito, oltre che nel nome, nell’utilizzo dello stesso software open source MediaWiki(che permette di supportare processi editoriali snelli e in continuo aggiornamento), nella possibilità di partecipazione dei lettori, a cui viene offerto uno spazio per i commenti agli articoli pubblicati (Kommentar) e per le discussioni sui temi trattati (Debatten), nella modifica degli articoli dopo la loro pubblicazione, nell’accesso libero e gratuito ai testi e nel loro utilizzo. Ma allo stesso tempo ci sono grandi differenze tra le due “enciclopedie”: gli articoli (come pure i commenti e gli interventi nelle discussioni) in Docupedia non sono anonimi (o individuati da pseudonimi) come in Wikipedia e sono sottoposti, prima della loro pubblicazione, a unprocesso di valutazione(peer review) o all’autorizzazione redazionale.

     

    Docupedia(che è un’opera di reference specialistica) propone contributi concisi e panoramiche sulla storia/storiografia contemporanea, in grado di fornire un corretto orientamentoin un contesto scientifico e di stimolare ulteriori approfondimenti. Ciò che, invece, è l’eccezione e non la regola nelle voci di Wikipedia dedicate alla storia.

     

     

    Prampolini Zeitgeschichte Digital immagine 4Fig.4: copertina della rivista Zeithistorische Forschungen, n. 1/2019 Fonte4. “Zeithistorische Forschungen”: la rivista

         Zeithistorische Forschungen / Studies in Contemporary History” - ZF / SCH (Ricerche di Storia Contemporanea) è una rivista bilingue (tedesco/inglese) pubblicata in formato cartaceo con cadenza quadrimestrale e accessibile liberamente in rete dal 2004. La rivista propone articoli sulla storia contemporanea tedesca, europea e globale. La “Guerra fredda” e i media audiovisivi del XX e XXI secolo (origine, natura, ricezione, effetti) costituiscono i focus privilegiati della rivista. Tra i temi affrontati rientraanche l’attualità, esaminata però in una prospettiva storica.

    Il sito web consente ricerche sui numeri quadrimestrali della rivista dal 2004 ad oggi (Archiv), sugli autori (Autorenregister), sulle rubriche/categorie (Rubrikenregister), sulle parole chiave/tag (Sclagwortregister).

    Tra gli articoli pubblicati sugli ultimi numeri della rivista disponibili online (2019-2020/2) segnaliamo:

     

    Sulla storia sanitaria:

    -     La salute come investimento. La doppia storia dell’economia sanitaria(Gesundheit als Investment. Die doppelte Geschichte der Gesundheitsökonomie) di Martin Lengwiler. Indice: 1. All'ombra delNew Deal: la genesi dell'economia sanitaria; 2. Dall'efficienza dei costi al nuovo universalismo: approcci economici nell'OMS; 3. Distanza dall’economia neoclassica: l’economia sanitaria in Occidente.

    -      Sul mercato. L'ospedale tedesco - Schizzi per una storia del tempo presente (Auf dem Markt. Das bundesdeutsche Krankenhaus – Skizzen zu einer Gegenwartsgeschichte)di Richard Kühl e Henning Tümmers. Indice: 1. L'ospedale malato; 2. Più mercato; 3. Concorrenza come ordine e principio di ottimizzazione; 4. Outlook.

     

    Sulla diversità:

    -    Diversità. Prospettive storiche su un termine chiave del presente (Diversität. Historische Perspektiven auf einen Schlüsselbegriff der Gegenwart) di Georg Toepfer. Indice: 1. La lunga storia della diversità; 2. Diversità nel XX secolo; 3. I quattro paradigmi della diversità.

     

    Sulle fonti digitali:

    -     Studi sulle fonti digitali. Compiti futuri delle scienze storiche di base (Digitale Quellenkunde. Zukunftsaufgaben der Historischen Grundwissenschaften) di Nicola Wurthmann e Christoph Schmidt. Indice: 1. Una nuova scienza delle fonti digitali; 2. Implicazioni del continuo cambiamento dellefonti digitali; 3. Garanzia di fonti digitali affidabili einalterate; 4. Prospettive: valutare con competenza le fonti digitali autentiche.

     

    Sul processo di Norimberga:

    -     Voci nella testa. Ascolto e partecipazione ai processi di Norimberga, 1945-1949(Stimmen im Kopf. Mithören und Mitmachen in den Nürnberger Prozessen, 1945–1949)di Kim Christian Priemel. Indice: 1. Il suono nell’immagine; 2. Traduzioni; 3. Ilpaesaggio sonoro di Norimberga; 4. L’uso delle cuffie; 5. Ascoltare correttamente.

     

    Sul Gioco e sulla Guerra Fredda:

    -     Giocare alla “Guerra fredda”. Giochi da tavolo e per computer nel confronto tra sistemi (Den Kalten Krieg spielen. Brett- und Computerspiele in der Systemkonfrontation) diFlorian Greiner e Maren Röger. Indice: 1. Il gioco come fattore economico e tecnica culturale in tempi di confronto tra i blocchi;2. Giochi competitivi? La guerra fredda come competizione; 3. I giochi come mezzo di identificazione - confronto tra i blocchi e cultura nazionale; 4. Giochi di resistenza - Critica sociale nella "Seconda Guerra Fredda"; 5. Ansia per la limitazione del gioco: i giochi come pericolo; 6. Conclusione.

     

    Prampolini Zeitgeschichte Digital immagine 5Fig.5: screenshot della piattaforma digitale Zeitgeschichte online Fonte5. Zeitgeschichte online: la piattaforma digitale

       Zeitgeschichte online (Storia Contemporanea online)fornisce informazioni sulle nuove tendenze della ricerca e sui dibattiti in corso in materia di storia contemporanea, con l’obiettivo principale di farli conoscere al di fuori della comunità degli storici. I contributi e i dossier pubblicati sulla piattaforma analizzano le questioni politiche, culturali e sociali del presente, contestualizzandole storicamente, e riflettono in particolare su come vengono affrontate dai media.

    Il sito si presenta con una homepage colorata, dove i contributi e i dossier sono identificati, in ordine cronologico inverso, da riquadri con immagini e/o titoli, con i nomi degli autori e le date di pubblicazione. Cliccando sui riquadri è possibile accedere ai testi con le relative classificazioni (e liste dei tag) tematiche, geografiche e cronologiche.

     

    Tra i i contributi e i dossier più recenti, segnaliamo:

    -      Storicizzazione di una Icona. Willi Brandt in ginocchio a Varsavia 50 anni fa (Historisierung einer Ikone. Willy Brandts Kniefall in Warschau vor 50 Jahren) di Kristina Meyer;

    -      Ora sappiamo tutto. Un dossier sulla situazione attuale in Bielorussia(Jetzt kennen uns alle*. Ein Dossier zur gegenwärtigen Situation in Belarus) diMelanie Arndt e Annette Schuhmann;

    -      Ricerca sull'antisemitismo come progetto politico (Fragen über Fragen. Antisemitismusforschung als politisches Projekt) diChristian Mentel;

    -     Gli USA nella storia contemporanea. Una raccolta di materiale sulle elezioni presidenziali statunitensi del 3 novembre 2020(Die USA in der Zeitgeschichte. Eine Materialsammlung zur US-Präsidentschaftswahl am 3. November 2020) di Alina Müller;

    -      La memoria dell'Olocausto ai tempi del COVID-19. Un inventario (Die Erinnerung an den Holocaust in Zeiten von COVID-19. Eine Bestandsaufnahme) di Tobias Ebbrecht-Hartmann;

    - Immagini della liberazione. Rappresentazioni dell'8 maggio e 75 anni di cultura della memoria(Bilder der Befreiung. Perspektiven auf den 8. Mai und 75 Jahre Erinnerungskultur), dossier a cura di Sophie Genske e Rebecca Wegman.

     

    6. ZZF e-Dok-Server: l’archivio

       Il Leibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung (ZZF) offre l'opportunità di pubblicare (previa autorizzazione) documenti attinenti la storia contemporanea su un proprio server dedicato. I documenti possono essere: libri o parti di libri, articoli di  riviste, pubblicazioni digitali.

    E' possibile impostare le ricerche con diverse modalità: Ricerca Avanzata (Advanced Search: Author(s), Title, Additional Person(s), Referee(s), Abstract, Fulltext, Year(s)); Tutti i Documenti (All documents); Ultimi Documenti (Latest documents).

    La navigazione può essere circoscritta ai differenti tipi di documenti archiviati (Browse documents by type) e agli anni di pubblicazione (Browse documents by year).

     

    Prampolini Zeitgeschichte Digital immagine 6Fig.6: fotografia di Klaus Bergmann pubblicata su Visual History (articolo di Christine Bartlitz, 10/02/2020) Fonte7. Visual History: la storia per immagini

      L'indagine sulle immagini del passato è una parte importante dello studio della storia. Lo testimonia la nascita della Visual History come nuovo campo di ricerca.

    Per gran parte del Novecento gli studi storici sono stati principalmente studi testuali; solo negli ultimi decenni le immagini sono state sempre più incluse come fonti e, allo stesso tempo, come oggetto di indagine.

    Nel corso del 2013 lo ZZF di Potsdam ha messo in rete una piattaforma digitale dedicata specificatamente alla Visual History per fornire informazioni sulle attività degli storici e degli altri specialisti in tale ambito, per accogliere e diffondere i risultati dei loro studi, per approfondire i fondamenti teorici e metodologici della ricerca storica delle immagini.

    La piattaforma consente di effettuare ricerche per Rubriche (Rubriken): Archivi e collezioni (Archive und Sammlungen), Fonti (Quellenbestände), Progetti di ricerca (Forschungsprojekte), Dossier tematici (Themendossiers), Concetti e metodi (Konzepte und Methoden), Dibattiti (Debatten), Recensioni (Rezensionen); per Temi/tag(Themen); per Archivi (Archiv).

    I documenti/articoli vengono visualizzati in ordine cronologico inverso.

     

    Tra i Dossier tematici segnaliamo:

    -      Etica dell’immagine. Per gestire le immagini in Internet (Bildethik. Zum Umgang mit Bildern im Internet) a curadi Christine Barlitz, Sara Dellmann e Annette Vowinkel;

    -      Immagini antisemite – Produzione, Uso, Effetti (Antisemitische Bilder – Herstellung, Gebrauch, Effekte) a cura di Isabel Enzenbach.

     

    Tra gli Articoli nella rubrica/sezione Concetti e metodi:

    -      Immagini storiche nell’arte contemporanea. Strategie artistiche per mettere in discussione le immagini della storia dagli anni '90   (Geschichtsbilder in der Gegenwartskunst) di Melanie Franke;

     

    Tra i Progetti di ricerca:

    • L’immagine digitale (Das Digitale Bild). Il progetto (attivo dalla fine del 2019 sotto la guida congiunta di Hubertus Kohlen, e Hubert Locher) vuole contribuire a una migliore comprensione del ruolo delle immagini nello spazio digitale;
    • Storia visiva dell’Olocausto nell’era digitale(Visuelle Geschichte des Holocaust im digitalen Zeitalter). Il progetto (condotto dall'Istituto Ludwig Boltzmann per la storia digitale di Vienna) è focalizzato sulle possibilità e sui limiti delle tecnologie digitali nella conservazione, indicizzazione e comunicazione dei documenti dell’Olocausto;
    • Il colonialismo italiano nella cultura visuale e nella memoria familiare(Italian Colonialism in Visual Culture and Family Memory). Ricerca di dottorato di Markus Wurzer che, in primo luogo,esplora le pratiche fotografiche private, i loro legami con la cultura visiva coloniale e fascista e la loro partecipazione alla costruzione e diffusione della conoscenza della storia del colonialismo italiano. In secondo luogo, esamina il posto delle fotografie coloniali nella memoria familiare del dopoguerra.

    8. Dalla carta al Web

       Nell’offerta digitaledelLeibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung Potsdam(ZZF) sono rappresentate le diverse modalità organizzative e comunicative del sapere storico, da quelle tradizionali nate nel “mondo della carta” (l’enciclopedia, la rivista, l’archivio), alle nuove forme che appartengono al Web: il portale, la piattaforma digitale, il blog.

    Ciò che le accomuna è l’obiettivo di mettere in contatto la produzione del mondo accademico con un più vasto pubblico formato non solo da ricercatori, ma, anche e soprattutto, da insegnanti, studenti, divulgatori e appassionati di storia.

    Una produzione che, pur rimanendo fedele ai propri statuti disciplinari, deve essere consapevole della necessità di adeguarsi alle nuove esigenze comunicative e partecipative dell’era digitale di cui il Web si è fatto portatore.

  • La storia contemporanea nella Biblioteca digitale della Fondazione Feltrinelli

    di Antonio Prampolini

    Una biblioteca per tutti

    Biblioteca della Fondazione Feltrinelli1. Biblioteca della Fondazione Feltrinelli (Fonte)

    La digitalizzazione del patrimonio archivistico e bibliografico è un processo in forte crescita, che da anni coinvolge anche in Italia sia istituzioni pubbliche che private, la cui indubbia utilità al fine di una più agevole fruizione è stata evidenziata dalle recenti misure di lock down.

    La Fondazione Giangiacomo Feltrinelli è in prima fila in questo processo di digitalizzazione, e sul proprio sito, <https://fondazionefeltrinelli.it/>, offre agli utenti della rete, e in particolare agli insegnanti e agli studenti delle scuole italiane, una ricca documentazione sulla storia contemporanea, di grande interesse sia dal punto di vista divulgativo che didattico.

    Con la Biblioteca digitale la Fondazione permette di accedere a porzioni crescenti del proprio vasto patrimonio, proponendo percorsi di lettura collegati a specifici progetti di ricerca; ad oggi:

    Il Risorgimento e la costruzione dell’Italia

    La storia del Risorgimento italiano viene affrontata attraverso cinque percorsi di lettura:

    Camillo Benso di Cavour2. Camillo Benso di Cavour (1810-1861) – ritratto di Francesco Hayez (Fonte) Carlo Cattaneo3. Carlo Cattaneo (1801-1869) - xilografia (Fonte)

    Al centro del primo percorso, Diventare nazione (I linguaggi dell’identità nazionale), la nascita e la definizione dell’identità nazionale tra fine Settecento e gli anni Settanta dell’Ottocento nei diversi scenari politici e sociali del Risorgimento italiano, per evidenziare la specificità dei loro linguaggi: la comunicazione pubblica, la cultura popolare, la Chiesa cattolica e i sostenitori del suo primato, l’esperienza dell’esilio, la cultura politica di Cavour e quella di Felice Cavallotti. Il percorso propone in formato pdf la scansione di 85 documenti a stampa, tra cui: Silvio Pellico, Dei doveri degli uomini,1834; Vincenzo Gioberti, Il gesuita moderno, 1846-1847; Massimo D’Azeglio, Proposta d’un programma per l’opinione nazionale italiana, 1847; Giuseppe Mazzini, La rivoluzione italiana, 1851 e La questione italiana e i repubblicani, 1861; Cavour, Discorsi alla Camera dei deputati e al Senato del regno, 1860-1861; Felice Cavallotti, Opere,1881-1885.

    Tema del secondo percorso, Costruire la nazione (Gli economisti nell’Italia Risorgimentale), è il “modello di sviluppo” indagato attraverso testi in cui il dibattito sul progetto politico e la discussione sulle questioni economiche s’intrecciano in un’unica riflessione. Tra i 55 testi digitalizzati, segnaliamo: Antonio Scialoja, I principi dell’economia sociale, 1840 e Carestia e governo, 1853; Nicolò Tommaseo, Delle nuove speranze d’Italia: presentimenti,1848; Stefano Jacini, Gli interessi cremonesi e lombardi nella questione delle strade ferrate, 1856; Cavour, Ouvrages politiques-economiques, 1858; Francesco Ferrara, La tassa sul macinato: dev’ella abolirsi, mantenersi o riformarsi? Considerazioni, 1871; Quintino Sella, Sulla discussione del progetto di legge per modificazioni della legge sulla tassa del macinato, 1878; Carlo Cattaneo, Proemi e considerazioni, in Scritti politici ed epistolario, 1892 – 1901.

    Stefano Jacini4. Stefano Jacini (1826-1891) - ritratto (Fonte) Luigi Luzzatti5. Luigi Luzzatti (1841-1927) - foto (Fonte)

    Nei documenti (187) del terzo percorso, Essere italiani (Conoscenza e sviluppo economico), ritorna la riflessione sull’organizzazione dell’economia, sulla conoscenza del territorio, sulla costruzione del mercato nazionale. Tra questi segnaliamo: Melchiorre Gioia, Nuovo prospetto delle scienze economiche, 1815-17; Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi, Histoire des républiques italiennes du Moyen-âge, 1818; Cosimo Ridolfi, D'alcune osservazioni economico agrarie relative all'Italia superiore, 1829 e Considerazioni sull'industria e specialmente sull'agricoltura, 1834; Gino Capponi, Sui vantaggi e svantaggi sì morali che economici del sistema di mezzeria, 1833; Carlo Cattaneo, Sismondo de' Sismondi, 1842; Marco Minghetti, Della proprietà rurale e dei patti fra il padrone ed il lavoratore, 1842-44; Carlo Berti Pichat, Della inopportunità di un codice agrario, 1847-48; Angelo Marescotti, Sugli economisti italiani del nostro secolo, 1853; Stefano Jacini, La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia : studj economici, 1856 e Sulle opere pubbliche d'Italia nel loro rapporto collo stato, 1869.

    Anna Maria Mozzoni6. Anna Maria Mozzoni (1837-1920) - foto (Fonte)

    Il quarto percorso, Fare gli italiani (Politica e società da Garibaldi al mutualismo), è dedicato ai nodi strutturali della società civile in Italia: i processi di auto-organizzazione, di tutela e di mutualismo, che riguardano il mondo del lavoro, l’emergere della questione meridionale. I documenti sono 113; tra questi: Ottavio Gigli, Scuole per il povero fondate e mantenute dalla famiglia Borghese: relazione, 1845; Leone Carpi, Del credito agrario e fondiario e delle casse di risparmio, lavoro e sussidi, 1854; Ignazio Cantù, Uno per tutti e tutti per uno: mutualità e cooperazione: libro pel popolo, 1871; Gustavo Strafforello, La quistione sociale ovvero capitale e lavoro: ammaestramenti e consigli agli operai, 1872; Giustino Fortunato, Le società cooperative di credito, 1877; Luigi Luzzatti, Previdenza libera e previdenza legale: studi, 1882; Francesco De Luca, I fasci e la questione siciliana, 1894; Sebastiano Cammareri Scurti, Il problema agrario Siciliano e la nazionalizzazione della terra. Volume 1, La lotta di classe in Sicilia, 1896.

    Nel quinto percorso, Gli “altri italiani” (Anarchici, socialisti, cattolici e cultura popolare), sono inclusi cinque documenti: Anna Maria Mozzoni, La questione della emancipazione della donna, 1871 e Del voto politico delle donne, 1877; Associazione internazionale dei lavoratori: Federazione italiana, Programma e regolamento della Federazione italiana della Associazione internazionale dei lavoratori, 1872; Tito Zanardelli, Discorso pronunziato al Secondo Congresso regionale italiano dell'Associazione internazionale dei lavoratori, 1873; Francesco Ivrea, Il Comune e la sua funzione sociale, 1902.

    La Grande Guerra

    Sulla storia della Grande Guerra (La Grande Trasformazione 1914-1918) il sito propone otto percorsi di lettura per indagare, con l’accesso diretto alle fonti, le premesse e le conseguenze politiche, economiche e sociali, ideologiche e culturali di quel tragico evento epocale che segna l’avvio del “secolo breve”:

    Cesare Battisti7. Cesare Battisti (1875-1916) - foto (Fonte) Woodrow Wilson8. Woodrow Wilson (1856-1924) - foto (Fonte)

    Il primo percorso, Patria (Identità, confini, nazioni), vuole indagare l’intreccio tra patriottismo e nazionalismo attraverso opere di scrittori e artisti, economisti e giuristi, geografi, giornalisti, politici e militari all’inizio e nel corso della Prima guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi. Le opere sono 89, e tra queste segnaliamo: Alfredo Rocco, Che cosa è il nazionalismo e cosa vogliono i nazionalisti, 1914; Filippo Carli, Le basi economiche della guerra, 1914; Cesare Battisti, Al parlamento austriaco e al popolo italiano, 1915; Luigi Einaudi, Preparazione morale e preparazione finanziaria, 1915; Maffeo Pantaleoni, Tra le incognite. Problemi suggeriti dalla guerra, 1917; Gabriele D’Annunzio, La riscossa, 1918 e Lettera ai Dalmati, 1919; Scipio Slataper, Il mio Carso, 1920; Benito Mussolini, Il mio diario di guerra (1915-1917), 1923; Filippo Tommaso Marinetti, Futurismo e fascismo, 1924.

    Tema del secondo percorso, Cittadini del mondo (Tra le nazioni e l’Europa), è il Vecchio Continente come sistema politico, come spazio intellettuale, come luogo del diritto, al centro delle grandi trasformazioni della modernità. Tra i 62 documenti che formano il percorso: Norman Angell, La grande illusione. Studio sulla potenza militare in rapporto alla prosperità delle nazioni, 1913 e La guerra e la natura umana, 1916; Arcangelo Ghisleri, La guerra e il diritto delle genti secondo la tradizione italiana, 1913; Romain Rolland, Al di sopra della mischia, 1916; Guglielmo Ferrero, La vecchia Europa e la nuova, 1918; Woodrow Wilson, La nuova libertà. Invito di liberazione alle generose forze di un popolo, 1919; Curzio Malaparte, L’Europa vivente, 1923.

    Antonio Salandra9. Antonio Salandra (1853-1931) - foto (Fonte) Cantieri navali Orlando10. Cantieri navali Orlando (Livorno), 1917 - foto (Fonte)

    I testi (72) del terzo percorso, Mobilitazione (Tutti in guerra, nessuno escluso), aiutano a ricomporre, nei suoi molteplici aspetti, il complesso quadro della mobilitazione totale. Tra questi: Benito Mussolini, La guerra per la libertà e per la fine della guerra. Lettera ai socialisti d'Italia, 1914; Antonio Salandra, "La nostra guerra è santa", 1915; Ugo Ojetti, L'Italia e la civiltà tedesca, 1915; Gaetano Salvemini, Guerra o neutralità?, 1915; Sidney Sonnino, Discorsi per la guerra, 1922; Luigi Einaudi, La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, 1933.

    Il quarto percorso, Industria (Produrre per la Grande Guerra), approfondisce gli aspetti economico-finanziari della guerra e, in particolare, il ruolo determinante dell’industria come “fabbrica della modernità”. I documenti che ne fanno parte sono 58; tra questi: Federico Chessa, Costo economico e costo finanziario della guerra, 1920; Felice Vinci, Come migliorare l'organizzazione del lavoro nelle nostre industrie, 1920; Umberto Ricci, Il fallimento della politica annonaria, 1925; Vincenzo Nitti, Saggio di scienza della produzione industriale, 1926.

    Le delegazioni degli stati belligeranti riunite a Versailles11. L’Asino, 1915 – copertina del periodico (Fonte) L’Asino, 1915 – copertina del periodico12. Le delegazioni degli stati belligeranti riunite a Versailles per la firma dei Trattati di Pace (28/06/1919) (Fonte)

    Nel quinto percorso, Periodici (La guerra di carta), vengono proposti alcuni seriali italiani ed europei, a cavallo tra la Grande guerra e il primo dopoguerra, che hanno influito sulla formazione dell’opinione pubblica. Tra questi, segnaliamo: L’Asino, 1912-1916; La Voce, 1914-1916; Il Secolo XX, 1915-1918; Guerra alla guerra, 1913-1918; Critica sociale, 1911-1926; Der Kampf, 1909-1918; Die Gesellschaft, 1924-1933; Europe, 1923-1936.

    Il sesto percorso, Movimenti politici (I partiti nella Grande Guerra), e il settimo, Musica (Le note della Grande Guerra), rinviano rispettivamente ai documenti messi a disposizione sui loro siti dalla Fondazione Gramsci e dalla Accademia Nazionale di Santa Cecilia.

    L’ottavo percorso, Guerra senza fine (Le ferite del primo dopoguerra), è dedicato alle grandi trasformazioni prodotte o accelerate dalla guerra e dalla pace di Versailles. Tra i 67 documenti del percorso segnaliamo: Augusto Graziani, La guerra e le leggi economiche, 1916; Luciano De Feo, La lotta economica del dopoguerra, 1917; Antonio De Viti De Marco, Problemi del dopo guerra, 1919; Umberto Zanotti-Bianco e Andrea Caffi, La pace di Versailles: note e documenti, 1919; Luigi Einaudi, Il problema della finanza post-bellica, 1919; John Maynard Keynes, Le conseguenze economiche della pace, 1920.

    La Rivoluzione d’Ottobre

    In occasione del centenario della Rivoluzione d’Ottobre (1917-2017), la Fondazione Feltrinelli ha pubblicato sul proprio sito una selezione della sua nutrita collezione di documenti (monografie e manifesti) sulla storia della Russia sovietica, Oltre il confine (La Rivoluzione d’Ottobre). Tre sono i percorsi tematici proposti:

    Vladimir Ilʹič Lenin13. Vladimir Ilʹič Lenin, ottobre 2018 - foto (Fonte) Costruzione della centrale idroelettrica14. Costruzione della centrale idroelettrica Dnieper nel 1931 - foto (Fonte)

    Nel primo percorso, Idee (L’innesco della Rivoluzione), figurano testi che ruotano attorno alle idee alla base dell’evento rivoluzionario e manifesti che raffigurano il popolo insorto contro l’oppressione zarista e le strutture sociali tradizionali.

    Tra le monografie del percorso segnaliamo: Romain Rolland, Al di sopra della mischia, 1916; Vladimir Ilʹič Lenin, Documenti storici della rivoluzione, 1918 e L'opera di ricostruzione dei Soviet, 1919; Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, 1922; John Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo, 1930; Aleksandr Kerenskij, La rivoluzione russa, 1932.

    Il secondo percorso tematico (Economia (Modernizzazione dall’alto)) è dedicato al processo di edificazione di un nuovo sistema economico: una industrializzazione forzata dagli alti costi sociali. I testi del percorso documentano la profonda trasformazione della società sovietica; tra questi: L'opera economica, politica e sociale dei Soviet di Russia, 1919; Ettore Lo Gatto, URSS 1931: vita quotidiana, piano quinquennale, 1932; Rita Montagnana, Che cosa è il Kolcos?, 1945; Ja. Lugantsev, La pianificazione dell'Unione Sovietica, 1962.

    Manifesto di propaganda15. Manifesto di propaganda di Denisovskij N. (Fonte)

    Tema del terzo percorso (Propaganda (Educare la collettività) è l’utilizzo della propaganda come strumento per promuovere l’ideologia comunista e “moralizzare” le masse. Tra le monografie: Gustave Le Bon, Psicologia delle folle, 1927; Lenin and Stalin on propaganda, 1942; Angelo Tasca, Politica russa e propaganda comunista, 1957.

    Le opere qui segnalate sono solo una parte delle numerose risorse offerte dalla Biblioteca digitale della Fondazione Feltrinelli sui temi del Risorgimento, della Prima guerra mondiale e della Rivoluzione russa del 1917. Scopo della presente sitografia è quello di informare gli utenti della rete, e in particolare gli insegnanti e gli studenti, dell’esistenza di tali risorse, invitandoli ad accedere direttamente al sito della fondazione.

  • La storia in tribunale

    di Daniele Boschi

    EngelkingBarbara Engelking e Jan Grabowski, i due storici della Shoah condannati per diffamazione da un tribunale di Varsavia il 9 febbraio 2021 Immagine1 Immagine2Finora erano stati soprattutto alcuni studiosi accusati di negazionismo a finire in tribunale e ad essere condannati per quanto avevano scritto in merito all’Olocausto (tra i casi più noti vi sono quelli di Robert Faurisson, di Roger Garaudy e di David Irving). Ma ora le parti sembrano essersi invertite. Martedì 9 febbraio un tribunale di Varsavia ha giudicato colpevoli di diffamazione due importanti studiosi della Shoah, per alcune affermazioni fatte in un libro in cui raccontano le persecuzioni subìte dagli ebrei in Polonia durante la Seconda guerra mondiale. 

    Ma procediamo con ordine. Barbara Engelking (direttrice del Polish Center for Holocaust Research) e Jan Grabowski (dell’Università di Ottawa) hanno curato la pubblicazione di un libro di circa 1600 pagine, diviso in due volumi, dal titolo Notte senza fine. Il destino degli ebrei in alcune contee della Polonia occupata (ho tradotto il titolo dall’inglese, il libro è uscito nel 2018 in lingua polacca). È il risultato di una ricerca vastissima, che ha messo in evidenza, da un lato, la determinazione e il coraggio con cui gli ebrei lottarono per sfuggire allo sterminio, e dall’altro lato la complicità di alcuni segmenti della società polacca con i nazisti.

    Tra le tante vicende ricostruite nei due ponderosi volumi c’è quella di Edward Malinowski, sindaco del villaggio di Malinowo, nella Polonia nordorientale, negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. Stando a quel che si legge nel libro, Malinoswski avrebbe dapprima aiutato una donna ebrea, Estera Siemiatycka, a sfuggire ai nazisti rifugiandosi in Germania, ma successivamente avrebbe consegnato ai tedeschi decine di ebrei che si erano nascosti nei boschi nelle vicinanze del villaggio.

    Nel libro questa storia ha un ruolo assolutamente marginale. Ma la nipote del sindaco Malinowski (oramai defunto), Filomena Leszczyńska, ha intentato una causa per diffamazione nei confronti di Engelking e Grabowski, accusandoli di avere ignorato il fatto che nel 1949-50 suo zio fu processato e assolto dall’accusa di complicità con i nazisti. Barbara Engelking ha replicato a questa accusa affermando che l’esito di quel processo fu falsato dalle intimidazioni subìte da alcuni testimoni, e che un’altra testimone – la donna ebrea che il sindaco di Malinowo aveva aiutato a scappare - dichiarò espressamente, molti anni dopo (nel 1996), di aver mentito per salvare Malinowski. Ciononostante, il tribunale distrettuale di Varsavia ha condannato Engelking e Grabowski a scusarsi con la Leszczyńska, sia in privato che in pubblico, e a correggere il loro libro in eventuali future edizioni. I giudici hanno però respinto la richiesta della ricorrente di far pagare una multa di 22mila euro ai due storici. Questi ultimi hanno comunque rifiutato di dar seguito alla sentenza, annunciando che ricorreranno in appello.

     

    Ghetto di VarsaviaIl bambino di Varsavia, scattata da un soldato tedesco ignoto durante l'evacuazione del ghetto: immagine simbolo della persecuzione degli ebrei in Polonia durante la Seconda guerra mondiale Fonte

     

    Riporto qui di seguito il breve testo incriminato (la traduzione dall’inglese è mia):

    “Dopo aver perso la sua famiglia, Estera Drogicka (cognome di nascita Siemiatycka), avendo comprato dei documenti da una donna bielorussa, decise di andare a lavorare in Prussia. Edward Malinowski, sindaco di Malinowo, la aiutò (derubandola allo stesso tempo) e nel dicembre del 1942 lei si recò a Rastenburg (Kętrzyn), dove lavorò come domestica presso una famiglia tedesca di nome Fittkau. Non soltanto incontrò lì il suo secondo marito (un polacco che era anche lui un lavoratore), ma avviò anche un piccolo commercio, inviando a Malinowski dei pacchi con vari oggetti da vendere. Inoltre si recava a visitarlo quando tornava ‘a casa’ in licenza. Si rese conto che lui era stato complice nell’uccisione di diverse dozzine di ebrei, che si erano nascosti nei boschi ed erano stati consegnati ai tedeschi, tuttavia testimoniò falsamente in sua difesa nel processo a suo carico dopo la fine della guerra.”

    Una nota a piè di pagina riporta le esatte parole pronunciate dalla Siemiatycka nella deposizione resa durante il processo del 1949-50; e aggiunge che Malinowski fu assolto. La nota non fa riferimento però alla decisiva testimonianza resa dalla Siemiatycka alla Shoah Foundation della University of Southern California nel 1996. A quanto sembra, la storica polacca ha indicato quest’ultima fonte soltanto nella lunga memoria difensiva, che abbiamo più volte citato, scritta quando il processo era già in corso.

    Non è facile dare un giudizio su questa controversia senza aver consultato gli atti del processo. La messa in discussione di una sentenza assolutoria passata in giudicato (com’è quella del 1950) pone delicati problemi di ordine giuridico, in quanto il diritto all’onore e alla reputazione personale entra in conflitto col diritto di critica del giornalista o dello storico1.

    In questo caso, tuttavia, molti commentatori hanno visto nel processo contro i due studiosi un grave attacco alla libertà della ricerca storica. Hanno preso posizione in tal senso numerose istituzioni e centri di ricerca che si dedicano alla memoria della Shoah, dallo Yad Vashem alla International Holocaust Remembrance Alliance, dalla World Jewish Restitution Organization alla Fondation pour la Mémoire de la Shoah. A queste voci si sono aggiunte anche quelle della Associazione degli storici e delle storiche della Germania e della Società storica polacca. In Italia l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri ha espresso profonda preoccupazione per la condanna e ha dichiarato che “in uno Stato democratico il tribunale non può essere il luogo per risolvere controversie relative ai risultati della ricerca, nonché ai metodi di selezione delle fonti e all'interpretazione della documentazione storica”.

    A nessun osservatore indipendente è sfuggito il particolare contesto politico in cui si colloca il processo contro i due storici polacchi. Il partito al governo in Polonia, Diritto e giustizia, espressione della destra nazionalista, non ha fatto mistero di non gradire che si parli di complicità polacche nell’Olocausto. Nel 2018 è stata approvata una legge che vieta di attribuire falsamente alla nazione polacca una parte di responsabilità nello sterminio degli ebrei. Inizialmente erano previsti fino a tre anni di carcere per i trasgressori, ma in seguito un emendamento ha abolito questa pena.

    A quanto sembra, nel processo contro Engelking e Grabowski non si è fatto ricorso alla legge del 2018. Tuttavia la causa della Leszczynska contro i due storici è stata sostenuta da una organizzazione denominata “Lega polacca contro la diffamazione”, che ha come scopo la difesa del “buon nome” della Polonia e ha ricevuto finanziamenti dal governo. Inoltre, il processo è stato accompagnato da una violenta campagna mediatica tesa a screditare i due studiosi, come ha sottolineato Wojciech Czuchnowski sulle pagine della “Gazeta Wyborcza” (22/01/2021).

    Infine, a giudizio di molti, non è soltanto la libertà della ricerca storica ad essere minacciata in Polonia, ma la stessa libertà di espressione, oltre che l’indipendenza del potere giudiziario. Mercoledì 10 febbraio i media liberi polacchi hanno scioperato contro il governo. “In Polonia la democrazia sta diventando una facciata, una finzione”, ha detto in un’intervista a “Repubblica” (11/02/2021) Adam Michnik, storico leader dell’opposizione contro il regime comunista polacco e fondatore del quotidiano “Gazeta Wyborcza”.
    Nella Polonia post-comunista la libertà della ricerca e la libertà di pensiero e di parola appaiono dunque strettamente legate, come del resto la storia del mondo occidentale ci ha già tante volte mostrato.

     

    1 In Italia il diritto alla critica storica può ‘scriminare’ la diffamazione (cioè può rendere legittimo un discorso critico che altrimenti si configurerebbe come un atto di diffamazione), ma solo a determinante condizioni, come si evince, ad esempio, da questa sentenza della Corte di Cassazione, nella quale, richiamando una precedente sentenza della stessa Corte, si afferma che “secondo la giurisprudenza di legittimità, al fine di ritenere scriminata una condotta astrattamente diffamatoria ‘l’esercizio del diritto di critica storica postula l’uso del metodo scientifico che implica l’esaustiva ricerca del materiale utilizzabile, lo studio delle fonti di provenienza e il ricorso ad un linguaggio corretto e scevro da polemiche personali. Ne deriva che il giudice al fine di stabilire il carattere storico dell’opera, oggetto di contestazione, deve accertare l’esistenza - quanto meno sotto forma di indizi certi, precisi e concordanti - delle fonti indicate ed utilizzate dall’autore per esprimere i propri giudizi…’ (Cass., Sez. V, n. 34821 dell’11/05/2005, Lehner, Rv 232562)”.

     

    Bibliografia/Sitografia

    - Altares, Guillermo, Polonia, processo alla Storia e alla memoria della Shoah, “La Repubblica”, 14/02/2021.

    - Comunicato sulla condanna di Barbara Engelking e Jan Grabowski, “Istituto Nazionale Ferruccio Parri”, 11/02/2021.

    - Czuchnowski, Wojciech, The plan to destroy Holocaust scholars. Polish Anti-Defamation League goes after the authors of the book "Night Without End", “Gazeta Wyborcza”, 23/01/2021.

    - Davies, Christian, Poland makes partial U-turn on Holocaust law after Israel row, “The Guardian. International edition”, 27/06/2018.

    - Déclaration à propos des poursuites judiciaires contre des historiens polonaise, “Fondation pour la Mémoire de la Shoah”, 01/02/2021.

    - Engelking, Barbara, On Estera Siemiatycka, sołtys Edward Malinowski, and lawsuits, “Polish Center for Holocaust Research”, 26/01/2021.

    - Fears rise that Polish libel trial could threaten future Holocaust research, “The Guardian. International edition”, 03/02/2021.

    - Goldkorn, Wlodek, Processo alla Storia: in Polonia va alla sbarra la memoria della Shoah, “La Repubblica”, 05/02/2021.

    - Henley, Jon, Poland provokes Israeli anger with Holocaust speech law, “The Guardian. International edition”, 01/02/2018.

    - Henley, Jon, Fears for Polish Holocaust research as historians ordered to apologise, “The Guardian. International edition”, 09/02/2021.

    - Higgins, Andrew, Polish Court Orders Scholars to Apologize Over Holocaust Study, “The New York Times”, 09/02/2021.

    - IHRA Chair's Statement on the suing of Holocaust historians in Poland, “International Holocaust Remembrance Alliance”, 01/02/2021.

    - La critica storica può scriminare la diffamazione, “Altalex”, 15/11/2016.

    - NIGHT without an END. Fate of Jews in selected counties of occupied Poland, pagina del sito web “Polish Center for Holocaust Research” (consultata l’ultima volta il 19/02/2021).

    - Polish court tells two Holocaust historians to apologise, “BBC News”, 09/02/2021.

    - Stanowisko Prezydium Zarządu Głównego PTH z dnia 5 lutego 2021 roku, “Polskie Towarzystwo Historyczne”, 08/02/2021.

    - Statement by prof. Barbara Engelking and prof. Jan Grabowski, “Polish Center for Holocaust Research”, 10/02/2021.

    - Tarquini, Andrea, Michnik: “Il governo polacco odia la stampa libera. Ecco perché scioperiamo”, “La Repubblica”, 11/02/2021, p. 15.

    - Waszak, Stanislaw, Holocaust historians face verdict in Poland defamation trial, “The Times of Israel”, 07/02/2021.

    - VHD verurteilt das Gerichtsverfahren gegen Barbara Engelking und Jan Grabowski, “Verband der Historiker und Historikerinnen Deutschlands”, 08/02/2021.

    - WJRO and the Claims Conference respond to verdict in defamation trial of internationally known scholars in Poland, “World Jewish Restitution Organization”, 09/02/2021.

    - Yad Vashem Expresses Concern Over the Legal Procedures Against Polish Scholars of the Holocaust, “Yad Vashem. The World Holocaust Remembrance Center”, 31/01/2021.

  • La storia molto contemporanea. Come realizzare, rapidamente, l’ultima parte del programma.

    Autore: Antonio Brusa
    Appunti da Dan Smith

    In questa cartina, tratta dall’atlante di Dan Smith, le nazioni in viola scuro (paesi arabi, Guyana e Brunei) hanno oltre il 30% di immigrati.Seguono Usa, Canada, Arabia, Australia, Libia e paesi europei centro settentrionali con una percentuali di migrazione fra il 20 e il 30%. L’Italia è fra i paesi con meno del 10%.

     

    Perché studiare gli ultimi decenni

    L’atlante di Dan Smith,The State of the World (New Internationalist, Oxford 2014), è un magnifico aiuto per il docente in difficoltà  alla fine del percorso formativo. L’intoppo nel quale si trova solitamente è ben conosciuto: da una parte si vorrebbe finire il programma arrivando ai giorni nostri; dall’altra, fra prima e seconda guerra mondiale, fascismi, comunismi e giornate della memoria, aggiungiamoci gli esami da preparare, il tempo è risicatissimo. La sintesi di Dan Smith permette di tracciare in poche battute le linee dell’ultima parte di questo programma. E’ una sintesi aperta che consente, al docente che voglia (come spero) dedicare a questo periodo un tempo non residuale, di inserire in questo quadro approfondimenti e studi di caso coinvolgenti. 

    Partiamo con le motivazioni (e quindi con gli obiettivi) per studiare questo periodo. Da qualsiasi parte ci voltiamo, dice Smith, troviamo cose che cambiano. Si annunciano ad ogni piè sospinto cose nuove, che, immediatamente dopo, svaniscono. Professori e allievi ne ricavano un senso di incertezza frustrante. Abbiamo bisogno di qualche appiglio; ma soprattutto, abbiamo il dovere di verificare la sensazione, che attanaglia tutti, di avvicinarsi all’orlo di un baratro.

    Come tutti i punti di vista sul periodo che stiamo vivendo, anche questo è oggetto di discussione. Ma non è un difetto. Il tempo presente impone la capacità di problematizzare, proprio con questi suoi aspetti controversi. Esso  richiede il coinvolgimento nella discussione, dal momento che gli allievi sono attori della storia che si studia, al pari dei loro professori e degli autori dei testi che compulsano.

    Una volta aperta la discussione, Dan Smith dispiega i suoi strumenti: una rapida cronologia e l’individuazione di cinque temi che considera fondamentali. Per la conoscenza puntuale di questo dispositivo, rinvio naturalmente all’originale. Qui ne presento una sintesi, con i rimandi sitografici che consentiranno, anche a chi non può consultare l’Atlante, di approfondire questo o quello dei temi che vi sono descritti.

     

    La cronologia

    La mappa sintetica della contemporaneità si articola intorno a tre momenti chiave.


    a.    Il tornante degli anni ’89-91: con il crollo del mondo comunista, finisce anche l’età della guerra fredda, del mondo diviso in blocchi. Dal punto di vista degli Usa (ma certamente non solo) inizia una sorta di età dell’oro, nella quale si afferma la loro centralità. La prima Guerra del golfo li vede nelle vesti di guida di una coalizione di stati, che si mobilita per ripristinare l’ordine internazionale


    b.    Il 2001: gli attentati delle Torri gemelle, ma più ancora il modo aggressivo con il quale gli Usa vi rispondono, segna la fine di questa età effimera. Inizia un periodo più instabile, che tuttavia non ostacola il forte sviluppo economico, durante il quale decollano nuovi centri economici del mondo, come la Cina e l’India, altri segnano il passo. Ma tutti, anche i più poveri, godono di qualche briciola di questo banchetto.


    c.    Il 2008. La crisi finanziaria innesta una nuova spaccatura nel mondo: c’è chi la supera e ricomincia a crescere, c’è chi invece precipita nella stagnazione, se non nella recessione (su questo potranno essere di aiuto i lavori sulle crisi qui su Historia Ludens, e su Novecento.org). 


    E’ una ricostruzione della quale va sottolineato il pregio della facilità (al di là delle discussioni di cui sopra). Si basa su avvenimenti forti, anche facili da raccontare, ben circoscritti. Si può calcolare un tempo abbastanza rapido per spiegarli e studiarli.

    Dentro questa cornice cronologica Dan Smith disegna la struttura del mondo nel quale viviamo: la popolazione, giunta a 7 miliardi di persone, la cui vita è organizzata in Stati (l’ultimo è il Sud Sudan, nel 2010); diverse per istruzione, speranza di vita, religione e etnia. Indica la forma di insediamento principale di questa massa immensa, le città e le megacittà, ma, al tempo stesso avverte che questa popolazione è caratterizzata dalla forte mobilità delle migrazioni.

     

    I temi di studio

    Dan Smith, inoltre, propone cinque temi di studio. Li descrivo brevemente, mettendo in evidenza alcuni aspetti che li rendono problematici. Ciascuno di essi, infatti, presenta aspetti positivi e negativi. E’ fondamentale aiutare gli allievi a passare da una percezione uniforme ad una variegata, che eviti il rischio di essere “o apocalittici o integrati”.  Ad ogni tema ho fatto seguire alcuni sottotemi esemplari, che segnalo anche per il loro carattere fortemente interdisciplinare, a partire naturalmente dalla Geografia e dall’Educazione civile. E’ evidente che, nell’economia di una programmazione, questo sarà il campo dei lavori opzionali, magari assegnati per gruppi.

     

    Benessere e povertà 

    La sperequazione fra le diverse aree geografiche è drammatica. La ricchezza, con il benessere conseguente, è concentrata in alcune regioni del mondo. Tuttavia, l’ultimo ventennio ha visto la rivoluzione delle gerarchie mondiali di questa ricchezza. La Cina balza al primo posto, gli Usa retrocedono al secondo (per la prima volta da un secolo a questa parte), l’India è la terza potenza. L’Europa, come spazio geografico, è ancora il primo mercato mondiale. Le sue divisioni politiche, tuttavia, le impediscono mettere a frutto questo vantaggio. Per quanto riguarda i paesi più poveri, va notato con forza che la quota di umanità che vive con meno di un dollaro al giorno sta diminuendo.

    Sottotemi: crescita e povertà; qualità della vita; ineguaglianza; il debito; obiettivi mondiali dello sviluppo

     

    In questa infografica, che riproduco come esempio, si mostra come i Miliardari, colpiti dalla crisi del 2008, “rimbalzino”, per aumentare nel periodo successivo sia per numero sia per ricchezza complessiva


    Guerra e pace

    Tutti abbiamo negli occhi immagini atroci di guerra. Proprio per questo, occorre rimarcare il fatto che “il periodo che viviamo è il più pacifico dai tempi della Prima guerra mondiale e, come alcuni sostengono, di tutti i tempi” (p.11). Se, poi, ci limitiamo agli ultimi trent’anni, si deve ricordare che si è passati dai 50 conflitti degli anni ’80, ai 37 del decennio successivo, fino ad arrivare ai 30 nei primi dieci anni di questo secolo (pp. 58-59). Certamente le spese militari restano altissime e la guerra rimane la prima causa di morte. Si deve sottolineare (si veda su HL il testo di Yves Michaud), il cambiamento radicale e terribile, imposto dalle nuove guerre, e il fatto che i civili ne sono le vittime principali. Va ancora evidenziato l’incremento dei conflitti religiosi e etnici.

    Sottotemi: i signori della guerra; la corsa agli armamenti; i nuovi fronti di guerra (cibernetica, media); rifugiati; le operazioni di peacekeeping, conflitti religiosi.

     

    Diritti e rispetto

    Nel brevissimo periodo fra il 2008 e il 2012 i paesi stabilmente democratici sono passati dal 43% al 48%. Un dato positivo che va subito immesso in un contesto nel quale le democrazie non sono mai un bene garantito per sempre; che spesso l’esercizio delle libertà viene confiscato da “falsi amici della democrazia” e che le fasi di transizione verso la democrazia (laddove si attivino) sono difficoltose e irte di pericoli.

    Sottotemi: diritti religiosi; conflitti religiosi; diritti umani; diritti dei bambini; diritti delle donne; diritti dei gay


    Salute degli uomini

    Se guardiamo la curva dell’Aids (pp. 13 e 98-99) si vede che le infezioni hanno cominciato a decrescere a partire dalla metà degli anni ’90, e le morti dal 2005. Nel ventennio che fa dal 1990 al 2010, la popolazione mondiale sottonutrita è passata dal 20% al 15%. Ci sono progressi evidenti anche nella cura del cancro. Per converso, si deve tenere conto del fatto che il successo nella lotta contro le malattie varia sensibilmente da regione a regione; così come le regioni più ricche sono esposte a patologie che un tempo non erano epidemiche, come l’obesità.

    Sottotemi: il fumo; obesità e fame; aids e cancro; handicap e società.

     

    Salute del pianeta  

    La scala dei temi, sulla base della quale valutare la salute del pianeta eccede i pochi decenni della contemporaneità immediata. Gli analisti ci danno alcune certezze. La prima è che la natura del problema “Terra”, richiede che la cura sia approntata dall’umanità nel suo complesso. L’aspetto positivo, paradossalmente, è proprio nella gravità della situazione, la cui soluzione impone solidarietà sempre più profonde fra gli umani. Si può fare molto, conclude, Smith: ma ogni giorno che passa aumenta la scala delle difficoltà da superare.

    Sottotemi: i segnali di allarme; l’acqua; i rifiuti; la biodiversità; l’energia, le variazioni climatiche.

     

    Sitografia

    Dall’atlante di Smith, estraggo alcuni siti, dai quali si può partire per un lavoro scolastico. Non elenco i più citati, come quello della Cia o della Banca Mondiale, perché possono essere consultati per la maggior parte delle voci che seguono.

     

    Acqua: www.fao.org
    Alfabetizzazione:  www.uis.unesco.org
    Aspettativa di vita: www.who.int
    Biodiversità: www.iucnreditlist.org
    Crisi alimentari: www.iiss.org
    Debito: www.imf.org
    Diritti dei bambini: www.childinfo.org
    Diritti delle donne: www.ipu.org
    Diritti religiosi: www.religiousfreedom.com
    Disastri naturali: www.ifrc.org
    Ecologia planetaria: www.ecologyandsociety.org
    Guerre: www.pcr.uu.se
    Ineguaglianza economica: www.forbes.com
    Minoranze, diritti: www.minorityrights.org
    Minoranze, lingue del mondo: www.Ethnologue.com
    Pace mondiale: www.visionofhuanity.org
    Religioni, distribuzione: www.cia.gov
    Rifiuti: www.unep.org
    Rifugiati: www.unhcr.org
    Sviluppo, obiettivi: www.un.org
    Urbanizzazione: www.unhabitat.org

  • La Visual History. Che cos’è e quali storie ci fa conoscere

    di Antonio Prampolini

    PARTE PRIMA: SITOGRAFIA DELLE FONTI E DEI TEMI DI INDAGINE*

    1. Che cos’è la Visual History

    Innanzitutto, che cosa è la Visual History ? Navigando in Internet, una prima risposta la possiamo trovare nelle enciclopedie online.

    Docupedia-Zeitgeschichte (Docupedia – Storia Contemporanea), l’enciclopedia open access del Centro per la Ricerca di Storia Contemporanea di Potsdam (Leibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung Potsdam ZZF) contiene una voce autoriale, a firma Gerhard Paul, dedicata specificatamente alla Visual History.

    Paul, che è uno dei più noti specialisti della Visual History nell’ambito della storia contemporanea, sottolinea come nel corso del primo ventennio del nostro secolo si sia verificato un cambio di paradigma negli studi storici, favorito dalle nuove possibilità offerte dalla rivoluzione digitale e dal Web. Questo cambio ha portato al pieno riconoscimento dell’importanza delle fonti visive. Ha incentivato, soprattutto tra gli storici più giovani, lo studio delle immagini intese non solo come una delle possibili fonti della storia (insieme alle fonti scritte e a quelle orali), ma come oggetti che meritano un’indagine storiografica autonoma poiché condizionano i modi di vedere, percepire, rappresentare e comunicare la realtà.

    In questo nuovo quadro si afferma la Visual History: l’indagine sul ruolo delle immagini nella storia, attraverso un approccio multi e transdisciplinare, che utilizza i criteri e i metodi della storia dell’arte, dell’antropologia, della psicologia e della sociologia.

    Secondo Paul, la Visual History dovrebbe porre al centro delle proprie ricerche la «forza generativa delle immagini» (Bilder als generative Kräfte) poiché esse non solo riflettono la storia, ma anche la influenzano e la determinano.

    «Le immagini, [egli osserva] sono più che fonti che si riferiscono a un fatto o evento al di fuori della propria esistenza; sono più che media che usano il loro potenziale estetico per trasmettere interpretazioni [della realtà]. Le immagini hanno anche la capacità di creare prima di tutto realtà, sono dotate di una potenza energetica e generativa».

    La storia visiva del XX e dell'inizio del XXI secolo dovrebbe, pertanto, a suo parere, dedicare maggiore attenzione a questo potere energetico/generativo delle immagini.

    «I movimenti totalitari hanno ripetutamente e intenzionalmente fatto uso del potere energetico/generativo delle immagini nella storia del Novecento. Le immagini del nemico, dell'ebreo nella propaganda antisemita della "soluzione finale" dei nazisti, la messa in scena di manifestazioni di massa (così come oggi quelle dello straniero o dell'islamista) hanno sempre rappresentato [e rappresentano] un invito all'azione».

    La voce Visual Historydi Docupedia, disponibile oltre che in lingua tedesca (versione 3.0, 13/03/2014) anche in lingua inglese (versione 1.0, 07/11/2011), è un testo consistente e ben articolato che comprende diversi capitoli:

    • La storia nel Visual Turn (Die Geschichtswissenschaft im Visual Turn);
    • Immagini come fonti (Bilder als Quellen);
    • Immagini come media (Bilder als Medien);
    • Immagini come forze generative (Bilder als generative Kräfte);
    • Visual History come campo di ricerca transdisciplinare (Visual History als transdisziplinäres Forschungsfeld);
    • Critica e prospettive (Zustimmung, Kritik, Perspektiven);
    • Bibliografia(Empfohlene Literatur zum Thema).

    In Wikipedia troviamo la voce Visual History non nell’edizione in lingua inglese (come ci si aspetterebbe) ma nell’edizione in lingua tedesca.

    In questa edizione linguistica, la Visual History viene definita come la disciplina che «considera le immagini sia come fonti che come oggetti indipendenti della ricerca storica»; immagini che possono essere sia statiche che dinamiche, analogiche che digitali. Una disciplina che combina i metodi analitici della storia dell’arte, della filosofia, dell’antropologia, dell’etnologia e della sociologia dei media.

    La voce enciclopedica (che, a giudicare dall’argomento e dalla qualità della sua trattazione, è stata scritta da specialisti della materia, anche se in anonimato) analizza il contributo degli storici tedeschi alla Visual History, soffermandosi in particolare sugli studi e le ricerche di Gerhard Paul (l’autore della voce in Docupedia) e Heike Talkenberger, e sull’influenza del modello d’indagine storico-artistica sviluppato da Erwin Panofsky.

    Di Paul vengono presi in esame i tre livelli fondamentali della Visual History; vale a dire la ricerca storica sulle immagini intese come:

    • fonti,
    • media,
    • “forze generative” autonome.

    Di Talkenbergervengono descritti gli approcci all'analisi delle immagini (che dovrebbero essere combinati in modo flessibile):

    • l’approccio di storia della cultura materiale;
    • l’approccio semiotico, focalizzato sul simbolismo dell'immagine e sulla sua funzione comunicativa;
    • l’approccio della ricezione estetica,per indagare il significato attribuito alle immagini dai destinatari dei messaggi visivi.

    Del modello di indagine storico artistica di Erwin Panofsky vengono richiamati i tre “passi iconologici(ikonologischen Dreischritts):

    • la descrizione preiconografica: l’esame della struttura dell’immagine e del suo contenuto;
    • l’analisi iconografica: la decodifica del sistema di riferimenti e dei significati interni all’opera pittorica;
    • l'interpretazione iconologica: la ricerca del significato socio-culturale dell'immagine.

    La voce, molto consistente (la versione stampabile alla data del 22/01/2021 è di 17 pagine in formato A/4), è suddivisa nei seguenti capitoli:

    L’edizione in lingua francese di Wikipedia riporta la voce Histoire du visuel.

    Questa voce definisce la “nuova” disciplina storiografica come quella che ha per oggetto «lo studio di tutte le produzioni visive umane dalla preistoria [ai giorni nostri] e che comprende tutti gli aspetti creativi, come pure tutti gli usi e la moltiplicazione industriale delle immagini [fisse o in movimento] su tutti i media».

    L’Histoire du visuel studia pertanto la totalità delle produzioni visive anche quelle che tradizionalmente non appartengono al mondo dell’arte ma a quello ludico. All'epoca di Internet, tra i miliardi di immagini elettroniche che circolano in rete, quelle che si possono definire creazioni artistiche sono infatti un’esigua minoranza.

    «Oggi è necessario considerare tutte le produzioni visive perché le emanazioni di tutte le epoche, di tutte le civiltà, di tutti i media sono riunite sullo stesso schermo [di un dispositivo elettronico collegato a Internet]».

    La voce descrive le origini e lo sviluppo degli studi iconologici in Francia e la nascita della “nuova” disciplina a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, dedicando un capitolo centrale alla rivoluzione prodotta da Internet nel mondo delle immagini (À l'ère d'Internet, une science en développement nécessaire).

    L’edizione in lingua inglese di Wikipedia non contiene una voce specifica sulla Visual History,ma alcune voci correlate: Visual culture, Iconology, Iconography, con le relative definizioni sintetiche e informazioni bibliografiche.

    • La Visual Culture viene definita come «la cultura espressa nelle immagini» che è oggetto di studio da parte di diverse discipline: dalla filosofia alla storia dell’arte, dalla antropologia alla sociologia.
    • La Iconology è un «metodo di interpretazione della storia culturale e della storia delle arti visive, utilizzato da Aby Warburg, Erwin Panofsky e dai loro seguaci, che vuole scoprire il background culturale, sociale e storico di temi e soggetti nelle arti visive».
    • La Iconography è «una branca della storia dell'arte che studia l'identificazione, la descrizione e l'interpretazione del contenuto delle immagini».

    Alla Visual culture la <encyclopedia.com> (sito in lingua inglese che aggrega informazioni tratte da fonti enciclopediche, dizionari e da altre opere di reference) dedica una voce autoriale assai consistente e ben articolata scritta da Jonathan Beller e pubblicata originariamente nel «New Dictionary of the History of Ideas».

    Beller afferma che la Visual culture, intesa come «una componente specifica della cultura in generale, un insieme di pratiche visive o una disciplina accademica» è il prodotto di una nuova considerazione del ruolo delle immagini alla fine del XX secolo in quella che viene definita “società postindustriale”, dove le tecnologie visive dominano nei media dell’informazione. La voce è strutturata nei seguenti capitoli:

    • The Visual Turn;
    • Visuality;
    • Historical Emergence of the Field of Vision as a Site of Power and Social Control;
    • Historicity of the Senses;
    • Race and Photo-Graphics;
    • Gender, Sexuality and the Image;
    • Alternative Media;
    • Advertising, Attention and Society of the Spectacle;
    • Visuality, Mediation, Simulation and Cybernetics;
    • The Future of Visual Culture and Visual Studies.

    Anche nell’edizione in lingua italiana di Wikipedia non troviamo una voce dedicata specificatamente alla Visual History, ma solamente due voci correlate: Iconologia e Iconografia, che riservano poche righe ai rispettivi argomenti.

    Il portale della Treccani <treccani.it> indirizza il visitatore verso i Visual Studiescon una voce redazionale nel «Lessico del XXI Secolo» (2013) e una voce autoriale nella «Enciclopedia Italiana – IX Appendice» (2015) a firma Roberto Terrosi.

    Terrosi definisce i Visual Studies il «campo di studi accademici che hanno come oggetto il visibile e le pratiche dello sguardo in forme culturalmente organizzate».

    La voce è strutturata in capitoli:

    • Storia dei Visual studies,
    • Temi e protagonisti dei Visual studies,
    • La ‘svolta visuale’,
    • Crisi dei Visual studies?,
    • La politicizzazione dei Visual studies,
    • I Visual studies e l’Europa,
    • Gli studi di ‘cultura della rappresentazione’ in Giappone,
    • Conclusioni.

    2. Che cosa ci fa conoscere?

    Immagini relative a: guerra, nazifascismo, stalinismo, antisemitismo, migrazioni

    La piattaforma digitale bilingue (tedesco – inglese) Visual History del Leibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung Potsdam (ZZF) propone un indice, Themen, che offre un’interessante panoramica delle diverse aree tematiche, nell’ambito della storia contemporanea, in cui trova applicazione la nuova disciplina storiografica (l’indice non comprende articoli sui media audiovisivi). Una panoramica che, pur facendo prevalentemente riferimento ai contributi degli storici tedeschi, può, tuttavia, considerarsi egualmente rappresentativa dei più generali orientamenti a livello internazionale degli studi e delle ricerche della Visual History dal 2013 (anno di attivazione della piattaforma) ad oggi.

    Di seguito, l’elenco delle principali aree tematiche:

    (Cliccare sulle immagini per ingrandirle)

    A. Le fotografie di guerra nel primo e nel secondo conflitto mondiale

    In questa area tematica segnaliamo in particolare:

    Walter Kleinfeldt: fotografie dal fronte 1915–191801. Walter Kleinfeldt: fotografie dal fronte 1915–1918. (Fonte)

    ► 01. Agosto 1916: “Distruzione totale”

    Una raccolta di fotografie, lettere, ritagli del diario di un giovane soldato tedesco (Walter Kleinfeldt) sul fronte occidentale. La recensione sottolinea come nel volume vengono presentate due categorie di fotografie del fronte di guerra scattate da Kleinfeldt: da un lato, quelle che lasciano deliberatamente fuori dal campo visivo i militari morti o feriti e mostrano invece paesaggi distrutti, fucili abbandonati, alberi bruciati; dall'altro, ci sono le fotografie che rendono immediatamente comprensibile la violenza della guerra sugli uomini, come le immagini di caduti e feriti.

    August 1916: “Alles zusammengeschossen” di Lisa-Sophie Meyer, 19/10/2015, recensione del volume Walter Kleinfeldt. Fotos von der Front 1915-1918 di Ulrich Hägele e Irene Ziehe, Waxmann Verlag, Münster/New York, 2014.

    Il sorriso del boia viennese fotografato dopo l'esecuzione del patriota italiano Cesare Battisti a Trento nel 1916.02. Il sorriso del boia viennese fotografato dopo l'esecuzione del patriota italiano Cesare Battisti a Trento nel 1916. (Fonte)

    ► 02. Sul sorriso del boia nella Prima guerra mondiale

    Il sorriso è quello del boia viennese fotografato dopo l'esecuzione del patriota italiano Cesare Battisti nel 1916. Il boia e i suoi assistenti posano come se fossero all'osteria. Solo a una seconda occhiata la vista cattura l'impiccato in mezzo a loro, tenuto come un trofeo dal fiero boia che mostra con le mani il possesso del corpo della vittima.

    Anton Holzer ha usato questa foto per la copertina del suo libro che documenta con una lunga serie di immagini le violenze dell’esercito austroungarico contro la popolazione civile sul fronte orientale. Immagini che dovrebbero entrare a far parte della storia e della memoria del Primo conflitto mondiale accanto a quelle della guerra di trincea sul fronte occidentale, al fine di confutare il mito della presunta guerra "pulita" che non avrebbe coinvolto i civili come vittime dirette delle azioni militari.

    Vom Lächeln der Henker im Ersten WeltKrieg di Christine Bartlitz, 12/08/2014, recensione del volume Das Lächeln der Henker.Der unbekannte Krieg gegen die Zivilbevölkerung 1914-1918 di Anton Holzer, Primus Verlag, 2014.

    Sepoltura di un soldato tedesco sul fronte russo (1941)03. Sepoltura di un soldato tedesco sul fronte russo (1941) (Fonte)

    ► 03. Le fotografie private dei soldati

    L’attacco all’Unione Sovietica del 1941 documentato negli album fotografici privati dei soldati tedeschi.

    Si tratta di album messi insieme nel corso della guerra, che riducono al minimo la finestra temporale tra ciò che viene vissuto e ciò che viene documentato, e che pertanto non subiscono la distorsione retrospettiva, consapevole o inconsapevole, tipica dei racconti fotografici dei soldati tedeschi che, nel dopoguerra, tendono ad esaltare il loro ruolo nella Wehrmacht.

    Die Fotografie der Landser di Armin Kille, 30/11/2020.

    Immagini di propaganda: l’avanzata italiana su Adua (1935).04. Immagini di propaganda: l’avanzata italiana su Adua (1935). (Fonte)

    ► 04. Immagini disciplinate del Fascismo e del Nazismo

    Markus Wurzer analizza, confrontandoli, i reportage fotografici di guerra nella Germania nazista e nell’Italia fascista.

    Nella Germania nazista le immagini di guerra non solo erano state censurate (come già durante il Primo conflitto mondiale) ma anche organizzate/disciplinate da uno specifico apparato di propaganda. E così pure era avvenuto nell’Italia fascista dove i reportage fotografici di guerra erano stati sottoposti ad uno stretto controllo da parte del regime già prima del giugno 1940, in occasione dell’aggressione contro l'Impero Abissino.

    Disziplinierte Bilder di Markus Wurzer, 06/04/2020.

    Cartolina commemorativa dell’incendio di Oradour-sur-Glane e del massacro dei suoi abitanti da parte delle SS in ritirata.05. Cartolina commemorativa dell’incendio di Oradour-sur-Glane e del massacro dei suoi abitanti da parte delle SS in ritirata. (Fonte)

    ► 05. Ricordando il 10 giugno. La cura della memoria a Lidice e Oradour

    L’occupazione nazista dell’Europa è stata accompagnata da distruzioni di città e villaggi.

    Il 10 giugno 1942, Lidice, distante pochi chilometri da Praga, era stata incendiata e rasa al suolo dalle SS tedesche come rappresaglia all’uccisione di un loro alto ufficiale da parte della resistenza. I suoi abitanti erano stati fucilati o inviati nei campi di concentramento.

    Il 10 giugno 1944 a Oradour, un piccolo villaggio nel dipartimento della Haute-Vienne nella Francia centro-occidentale, le SS incendiarono le case e massacrarono tutti gli abitanti.

    Zeina Elcheikh documenta nel suo articolo, con diverse immagini (fotografie, cartoline postali, francobolli, manifesti), sia la distruzione dei due villaggi che la cura della memoria, dal dopoguerra ad oggi, di quegli eventi tragici.

    Remembering 10 June. Curating Memory in Lidice and Oradour di Zeina Elcheikh, 09/06/2020.

     

    B. I movimenti e i regimi politici nell’Europa del Novecento: socialismo, fascismo, nazismo e stalinismo

    In questa area tematica segnaliamo in particolare:

    Sbandieratore, immagine del ’calendario dei lavoratori’ 1923-1929.06. Sbandieratore, immagine del ’calendario dei lavoratori’ 1923-1929. (Fonte)

    ► 06. La Rivoluzione sui muri

    Il volume dello storico dell'arte e della fotografia Wolfgang Hesse (pubblicato open access in Internet <https://core.ac.uk/download/pdf/268020278.pdf>) tratta dei "calendari rossi a strappo" del KPD (Die Kommunistische Partei Deutschlands) nella Repubblica di Weimar.

    La tradizione dei calendari a strappo risale all'ultimo terzo del XIX secolo. Diversamente dai “calendari del popolo”, i “calendari rossi” non contenevano “storie eroiche” ma dati e immagini della storia generale del mondo, dei movimenti democratici e dei lavoratori tedeschi.

    La recensione di Mario Keßler propone, contestualizzandole, diverse immagini estratte dal volume di Wolfgang Hesse.

    Die Revolution als Wandschmuck di Mario Keßler, 16/03/2020, recensione del volume Der rote Abreißkalender. Revolutionsgeschichte als Wandschmuck di Wolfgang Hesse, Eigenverlag, Lübeck 2019.

    ’Idea Vincit’, linoleografia di Otto Heinrich Strohmeyer del 1926.07.’Idea Vincit’, linoleografia di Otto Heinrich Strohmeyer del 1926. (Fonte)

    ► 07. I francobolli a favore e contro la guerra e il fascismo

    I francobolli emessi dallo Stato sono “veicoli illustrati” nella “epoca della riproducibilità tecnica delle immagini” (Walter Benjamin) con i quali lo Stato ha diffuso soprattutto nel passato (e diffonde ancora oggi) i simboli del proprio potere, della propria ideologia, della propria storia ben oltre i confini nazionali.

    Nell’articolo citato, Esposito analizza in particolare il simbolismo racchiuso nei francobolli che riproducono immagini dell’aviazione (i “veicoli alati”) sia con riferimento alle riflessioni dello storico dell’arte Aby Warburg che alla produzione filatelica dell’Italia fascista.

    Beflügelte Bilderfahrzeuge für und wider Krieg und Faschismus di Fernando Esposito, 18/05/2020.

    Gli abitanti di Sülfeld ritratti davanti al monumento a ricordo della vittoria dei nazionalsozialisti alle elezioni del Reichstag del 5 marzo 1933.08. Gli abitanti di Sülfeld ritratti davanti al monumento a ricordo della vittoria dei nazionalsozialisti alle elezioni del Reichstag del 5 marzo 1933. (Fonte)

    ► 08. Mobilitazione rurale a favore del nazismo

    La presa del potere da parte dei nazisti è stata accompagnata da una diffusa mobilitazione delle zone rurali della Germania a favore del nuovo regime. Anche Sülfeld, un piccolo villaggio dello Schleswig-Holstein, fu investito dall'ondata di euforia nazionale innescata dalla vittoria del NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei – Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori) alle elezioni del Reichstag del 5 marzo 1933.

    Kraus e Ullmann ricostruiscono tale mobilitazione con l’aiuto delle fotografie scattate nel villaggio di Sülfeld negli anni trenta.

    Sülfeld schafft dem 5. März 1933 ein Denkmal di Alexander Kraus e Maik Ullmann, 24/09/2018.

    Lavori forzati in un “campo correttivo” dell’Unione Sovietica.09. Lavori forzati in un “campo correttivo” dell’Unione Sovietica. (Fonte)

    09. Le immagini delle carceri e dei “campi correttivi” nell’URSS

    Le immagini fisse e in movimento scattate nelle carceri e nei “campi correttivi” dell’Unione Sovietica tra gli anni '30 e '70 del Novecento.

    Le istituzioni statali penali e giudiziarie dell'Unione Sovietica facevano spesso appello a cineasti e fotografi per una rappresentazione ufficale, in chiave pedagogica e propagandistica, del sistema penitenziario.

    L'articolo di Irina Tcherneva esamina in primo luogo le diverse concezioni visive della reclusione, il modo in cui le immagini plasmano lo sguardo delle istituzioni penali che hanno commissionato le immagini. In secondo luogo, l’articolo affronta le finalità e gli usi dei documenti visivi da parte delle istituzioni e dei detenuti.

    For an Exploration of Visual Resources of the History of Imprisonment Photo and Film in Penal Spaces in the USSR (1940–1970) di Irina Tcherneva, in «The Journal of Power Institutions in Post-Soviet Societies», n. 19/2018.

    (L’articolo non è presente nell’indice tematico della piattaforma digitale Visual History)

    Stalin il grande timoniere dell’URSS.10. Stalin il grande timoniere dell’URSS. (Fonte)

    ► 10. Il culto della personalità di Stalin nei manifesti di propaganda sovietici

    Dall'inizio del regime sovietico, i manifesti sono stati considerati come un mezzo di vitale importanza per comunicare ed educare la vasta popolazione dei territori dell'URSS. Nonostante lo sviluppo e la diffusione del cinema, il poster rimase, durante gli anni della leadership di Stalin, una forma primaria di propaganda, prodotta sotto uno stretto controllo centralizzato che rifletteva le priorità del regime.

    Anita Pisch analizza i manifesti di propaganda di Stalin sia da una prospettiva iconografica che iconologica, impiegando la metodologia utilizzata per la prima volta da Erwin Panofsky.

    The personality cult of Stalin in Soviet posters, 1929–1953 di Anita Pisch, 2016.

    (l’articolo non è presente nell’indice tematico della piattaforma digitale Visual History)

     

    C. L’antisemitismo, la persecuzione degli ebrei e la Shoah

    In questa area tematica segnaliamo in particolare:

    Caricatura antisemita su un documento fiscale inglese del 1233.11. Caricatura antisemita su un documento fiscale inglese del 1233. (Fonte)

    ► 11. La prima caricatura antisemita?

    La più antica caricatura antisemita conosciuta è un disegno su un documento fiscale inglese del 1233. La caricatura mostra tre ebrei dall’aspetto strano in compagnia di demoni ed evidenzia la somiglianza dei loro nasi a becco.

    Questa caricatura è diventata un’immagine iconica tra gli storici. È pubblicata sul sito web educativo degli Archivi nazionali del Regno Unito.

    Sara Lipton ne propone una lettura critica per esaminare ogni aspetto dell’immagine al fine di comprendere il suo significato politico e il ruolo che gli ebrei hanno in essa.

    Die erste antisemitische Karikatur? di Sara Lipton, 30/03/2020.

    Partenza del transatlantico St. Louis dal porto di Amburgo il 13 maggio 1939.12. Partenza del transatlantico St. Louis dal porto di Amburgo il 13 maggio 1939.(Fonte)

    ► 12. L’odissea del St. Louis

    Il 13 maggio 1939 il transatlantico tedesco “St. Louis”, con a bordo 937 ebrei (uomini, donne e bambini) in fuga dalla Germania nazista, iniziava dal porto di Amburgo la traversata oceanica con destinazione Cuba. Due settimane dopo raggiungeva il porto dell'Avana. Ma lo sbarco veniva rifiutato dalle autorità cubane.

    Iniziava così una vera e propria odissea con il ritorno in Europa dei passeggeri e la ricerca di porti di altri paesi in cui poter sbarcare e mettere in salvo gli ebrei.

    Sono state conservate numerose fotografie del viaggio e delle condizioni di vita sulla St. Louis. L’articolo qui citato mostra alcune foto commentate da estratti di due testimonianze contemporanee: il diario di Erich Dublon e il reportage di viaggio di Fritz Buff.

    Die Irrfahrt der St. Louis di Eva Schöck-Quinteros, 17/06/2019.

    ’Juden unter sich’ (Ebrei tra di loro), «Berliner Illustrierte Zeitung», 24  luglio 1941.13. “Juden unter sich” (Ebrei tra di loro), «Berliner Illustrierte Zeitung», 24 luglio 1941. (Fonte)

    ► 13. Gli ebrei nel ghetto

    I Propagandakompanien (PK) della Wehrmacht e i ghetti ebraici nella Polonia occupata.

    Una delle più influenti azioni di propaganda antisemita prodotte nel "Terzo Reich" era basata negli anni 1939-1941 su immagini e rapporti provenienti da vari ghetti nella Polonia occupata. Gran parte del materiale era stato raccolto dalle Propagandakompanien (PK) della Wehrmacht.

    Per Daniel Uziel, l’analisi del contributo delle Propagandakompanien alla politica antisemita dei nazisti richiede di prendere in esame non solo i materiali visivi, ma anche i contesti storici in cui sono stati prodotti. Ciò include gli aspetti organizzativi, le strategie di propaganda del regime, la situazione di guerra generale e locale.

    “Juden unter sich” di Daniel Uziel, 20/04/2020.

    I sopravvissuti Alfred Stüber (a destra) e Ludwig Stikel in una foto scattata dopo il 20 aprile 1945 nel campo di concentramento di Buchenwald.14. I sopravvissuti Alfred Stüber (a destra) e Ludwig Stikel in una foto scattata dopo il 20 aprile 1945 nel campo di concentramento di Buchenwald. (Fonte)

    ► 14. L'auto-rappresentazione dei sopravvissuti ai campi di concentramento

    Quasi tutte le fotografie di prima della liberazione dei campi di concentramento sono state scattate dalle SS con l'intenzione di presentarli come un sistema gerarchico altamente efficiente e una organizzazione funzionale senza violenze arbitrarie.

    I prigionieri vi appaiono come una folla docile e silenziosa.

    Dopo la liberazione dei campi nel 1945, gli internati sopravvissuti vengono raffigurati nelle foto scattate dai militari degli eserciti alleati come vittime anonime di un’immane tragedia.

    Sandra Starke vuole, invece, indagare la produzione di immagini “proprie e autodeterminate” degli ex-internati, utilizzando alcuni esempi riferiti al campo di concentramento di Buchenwald.

    Zur visuellen Selbstrepräsentation von KZ-Überlebenden di Sandra Starke, 26/10/2020.

    Erich Muhsfeldt sul profilo Facebook del Museo statale di Auschwitz-Birkenau del 2 gennaio 2011.15. Erich Muhsfeldt sul profilo Facebook del Museo statale di Auschwitz-Birkenau del 2 gennaio 2011. (Fonte)

    ► 15. Erich il malvagio

    Il primo gennaio 1945, Erich Muhsfeldt, capo del commando dei forni crematori di Auschwitz, sparò e uccise 200 prigionieri polacchi nel campo di Auschwitz II.

    Il primo gennaio 2011 il Museo di Stato di Auschwitz Birkenau ha pubblicato sul suo profilo Facebook una foto di Muhsfeldt. La fotografia ha innescato una marea di commenti.

    Nell’articolo citato, Ina Lorenz analizza la nuova modalità di trasmissione visiva della storia nello spazio virtuale.

    He even looks evil … di Ina Lorenz, 12/10/2015.

    Poster della conferenza internazionale “An End to Antisemitism” (Vienna, 2018).16. Poster della conferenza internazionale “An End to Antisemitism” (Vienna, 2018). (Fonte)

    ► 16. Le immagini contro l'antisemitismo

    L’articolo prende in esame le immagini utilizzate nella lotta contro l'antisemitismo e focalizza la sua attenzione sul poster della conferenza internazionale "An End to Antisemitism", che si è svolta a Vienna nel febbraio del 2018.

    Per Axster il poster della conferenza suggerisce una mancanza di sensibilità alle implicazioni razziste dell’antisemitismo e testimonia la necessità di mettere in relazione la lotta contro l'antisemitismo con quella contro il razzismo.

    Fallstricke im (visuellen) Kampf gegen Antisemitismus di Felix Axster, 10/06/2019.

     

    D. Le migrazioni e le immagini dello straniero

    In questa area tematica segnaliamo in particolare:

    Copertina del catalogo di una mostra sui flussi migratori: “Fuga, Espulsione, Integrazione, Patria” (2005).17. Copertina del catalogo di una mostra sui flussi migratori: “Fuga, Espulsione, Integrazione, Patria” (2005). (Fonte)

    ► 17. Immagini che colpiscono

    Un’analisi del “potere discorsivo” delle immagini nelle mostre a tema sull’emigrazione.

    Gli eventi storici o i diversi aspetti/fenomeni della vita sociale sono spesso rappresentati da poche immagini consolidate che sono passate attraverso un processo di selezione e canonizzazione che è alla base della loro efficacia mediatica.

    Ed è proprio questo processo che l’autore dell’articolo citato vuole approfondire svolgendo una ricerca sulle immagini dell’emigrazione nelle mostre a tema che sono state organizzate in Germania tra il 1974 e il 2013.

    Bilder mit Impact di Tim Wolfgarten, 29/06/2020.

    Richiedenti asilo davanti all'Ufficio immigrazione in Puttkamer Strasse.(18 agosto 1978, Berlino Ovest).18. Richiedenti asilo davanti all'Ufficio immigrazione in Puttkamer Strasse.(18 agosto 1978, Berlino Ovest). (Fonte)

    ► 18. I rifugiati nelle immagini della stampa tedesca

    Le fotografie giocano un ruolo centrale nella comunicazione dei mass media. I fenomeni migratori vengono differenziati attraverso le fotografie pubblicate sui giornali e sulle riviste. Esse comunicano punti di vista etici e legittimano il bisogno di azione.

    Questo progetto di ricerca raccoglie le fotografie per la stampa pubblicate in cinque quotidiani e settimanali nazionali nella Repubblica Federale di Germania («Frankfurter Allgemeine Zeitung», «Stern», «Spiegel», «Süddeutsche Zeitung», «Die Welt» - e in alcuni casi «Zeit» e «Tageszeitung») e utilizzate nei dibattiti sull’emigrazione dagli anni Cinquanta alla metà degli anni Novanta.

    Zur visuellen Produktion von “Flucht” und “Asil” in Pressefotografien der Bundesrepublik di Lisa-Katharina Weimar, progetto di ricerca, 26/09/2017.

    Immigrati italiani nella “Klein Neapel” (Piccola Napoli) a Wolfsburg (ottobre 1962).19. Immigrati italiani nella “Klein Neapel” (Piccola Napoli) a Wolfsburg (ottobre 1962). (Fonte)

    19. Gli italiani, “lavoratori ospiti” nella stampa degli anni ‘60

    Violetta Rudolf ha svolto un interessante ricerca sulle immagini e sulle relative didascalie delle foto di lavoratori immigrati italiani pubblicate dalla stampa locale di Wolfsburg (la citta della Bassa Sassonia sede dell'industria automobilistica Volkswagen) all’inizio degli anni Sessanta del Novecento.

    La ricerca vuole fare emergere dalle immagini tutto quello che non è possibile ottenere dalle fonti scritte e orali, evidenziando l’importante funzione comunicativa delle fotografie sui giornali nell’orientare l’opinione pubblica.

    Auf fotografischen Spuren italienischer „Gastarbeiter“ in der Wolfsburger Tagespresse 1962 di Violetta Rudolf, 23/01/2019.

     

    * Tutte le fonti e gli articoli segnalati nella sitografia erano consultabili in rete alla data del 08/02/2021.

    Parte Seconda: Visual history. L'uso didattico delle fonti iconografiche

  • Le foibe: i fatti, la costruzione della memoria, la ricerca storica.

    Autore: Antonio Brusa

     

    Le foibe: i fatti, la costruzione della memoria, la ricerca storica.
    Strumenti per la didattica1

     

    Sommario

    a. Introduzione
    b. I fatti, cronologia e carte
    c. Una storia tra politica e scuola
    d. La didattica. Qualche avvertenza

     

    A. Introduzione

    Digito “foibe” sul motore di ricerca. Un milione e duecentosettantamila pagine (al 10 febbraio 2013). Si aprono con l’immancabile Wikipedia, poi è un susseguirsi di voci contrastanti: ora un giornale di destra, ora il sito Anpi, ora il circolo anarchico e poi quello neofascista. Dopo un centinaio di titoli, finalmente, compare qualche storico: è la manchette del libro di Raoul Pupo e Roberto Spazzali.

    Un testo di riferimento, preceduto però da un cupo avvertimento. Attenti: secondo la sinistra va a finire che gli italiani si sono meritati di finire ammazzati. Mi accorgo, da storico non specialista del problema, che mi oriento con grande difficoltà in questo frastuono di documenti, foto, invettive, svelamenti di silenzi e disvelamenti di svelamenti. Mi chiedo: cosa farà uno studente, al quale l’improvvido prof abbia dato la consegna di onorare la Giornata del Ricordo con una bella e esaustiva ricerca su internet? E, al contrario, il docente prudente si dovrà limitare ai manuali? Farà ricorso dalla documentazione prodotta dal ministero? Oppure si darà alle fotocopie da libri e da ricerche? O, ancora, visto che gli editori aprono siti, in cui travasano paginate di materiali, darà ordine di scaricarle, magari sui tablet nuovi di zecca, in omaggio alla modernizzazione impartita dal Miur?


    Naturalmente HL non pretende di risolvere questo problema. Sa bene che questa sarà solo l’ultramilionesima pagina. Vuole però offrire uno strumento rapido di consultazione, nel quale ci siano le conoscenze essenziali che aiutino il prof a costruire un percorso didattico e gli forniscano gli strumenti critici fondamentali.  Luigi Cajani, che insegna storia moderna e didattica della storia alla Sapienza di Roma,  ha condotto un’accurata ricerca su come i manuali hanno trattato questo tema che, parzialmente pubblicata in Germania, verrà finalmente edita a breve in Italia.  Dal suo lavoro abbiamo ricavato questo strumento.

     

    In una recente intervista, il cantante  Simone Cristicchi mette insieme, in un unico calderone, Auschwitz, la risiera di san Sabba e le foibe e ritiene che, ancora oggi, la sinistra tenti di occultare quei tragici fatti. Dice, ancora, che non ha mai studiato questo argomento storico, e che tali convinzioni sono solo il frutto delle sue considerazioni personali. E’ la prova, credo, della diffusione ormai endemica di luoghi comuni e di stereotipi, sedimentati nella nostra società nei sessant’anni che ci separano ormai da quegli avvenimenti. E, se ce ne fosse bisogno, un incentivo in più per trattarli correttamente in classe.

     


    B. I fatti

     

    Da un dossier, ormai storico, pubblicato dalla rivista “I Viaggi di Erodoto” nel 1998, a cura di Franco Cecotti e Raoul Pupo2, ricavo le notizie essenziali e la cartina, relative alla storia delle foibe. Si deve partire dal quadro del popolamento della regione (dalla Venezia Giulia fino a comprendere tutta l’Istria). Si tratta di un territorio abitato da genti che parlano lingue diverse e di diversa composizione etnica. Difficile dare numeri certi, dal momento che i censimenti (ci spiegano gli studiosi) non erano sempre affidabili, perché erano, spesso “guidati” dai censitori, interessati a modificare le proporzioni etniche a proprio vantaggio. Le città erano prevalentemente abitate da italiani. Ma non mancavano gli slavi, che, ad esempio a Trieste raggiunsero le 50 mila unità. Allo stesso modo, la predominanza slava nelle campagne non era assoluta. Sia perché vi erano contadini e imprenditori italiani; sia perché abbondavano rumeni, ungheresi, ebrei; sia perché la stessa componente slava era a sua volta frazionata in popolazioni spesso in contrasto fra di loro. Nel corso del XIX secolo, si era sviluppato un doppio irredentismo. Quello degli italiani, che reclamavano l’unificazione con il neonato Regno, e quello slavo, tutto teso a costruire un’identità nazionale, spesso marcata fortemente dalla religione. Al tempo stesso, la regione era attraversata dai conflitti che interessavano tutta l’Europa: fra città e campagna; fra possidenti e agricoltori; fra ceti operai e contadini; fra borghesie (italiana e slava) in competizione fra di loro.

     

    In questo quadro di lungo periodo, i momenti fondamentali, fissati dalla cartina, sono i seguenti:

     

    Primo periodo: dal Trattato di Rapallo (1920), poi modificato dal Trattato di Roma del 1924, fino al 1941. Durante questo periodo, il confine del 1918 viene spostato fino a comprendere gran parte dell’Istria.

     

    Secondo Periodo: Dal 1941 fino al 1943. A seguito dell’invasione della Jugoslavia, il confine italiano viene spostato fino a comprendere buona parte della Slovenia, con la capitale Lubiana, che diventa una provincia italiana.

     

    Terzo Periodo: Dal 1943 al 1945. Dopo l’8 settembre, la Germania assume il controllo diretto dell’intera regione Venezia Giulia-Istria-Slovenia, che, con il nome di Adriatisches Küstenland viene governata dalle truppe tedesche, con l’aiuto di collaborazionisti locali. La tragedia delle foibe si articola in due fasi, al principio e alla fine di questo periodo.


    L’intera regione “Adriatisches Küstenland”, o “Regione del Litorale Adriatico”, con i confini successivi dopo la prima guerra mondiale, dopo l’impresa di Fiume e dopo l’invasione jugoslava

     

    Cronologia essenziale

     

    1941


    6 aprile: inizia l’invasione della Jugoslavia. Debole resistenza locale

     

    17 aprile: spartizione della Jugoslavia fra Germania, Bulgaria, Italia e Ungheria. All’Italia tocca il Montenegro, una parte del Kosovo e della Macedonia, parte della Dalmazia e la Slovenia. La Croazia da vita al regime guidato da Ante Pavelić, che viene diviso a sua volta in due zone di influenza, italiana e tedesca.

     

    3 maggio. Il nuovo commissario italiano, Grazioli, promuove una politica di fascistizzazione e di italianizzazione della regione.

     

    http://casarrubea.files.wordpress.com/2010/02/campi-di-concentramento-transit0001.jpg (con interventi che “antologizzano” bene il dibattito pubblico in Italia)


    Estate: scoppia la rivolta in Montenegro. Movimenti di resistenza in Slovenia. Feroce repressione italiana.

     

    1942/1943

     

    Il Fronte di Liberazione slavo unisce comunisti, cristiano-sociali e liberali. L’Italia promuove lo stato di “guerra totale”. Il generale Mario Roatta, al comando della II armata, assume il controllo politico della regione. Centinaia di processi sommari, con decine di condanne a morte e migliaia di condannati all’ergastolo o a pene di 30 anni. E’ molto difficile un censimento preciso. Tone Ferenc, storico sloveno, ha registrato 1569 esecuzioni capitali; 1376 decessi nei campi di concentramento italiani, dove furono deportate 25 mila persone, pari grosso modo all’8% della popolazione slovena (336 mila abitanti), ma a questo dato minimo va aggiunto un gran numero, nell’ordine delle molte migliaia, di vittime della guerra antipartigiana3.

    Il campo di concentramento di Gonars.

     

    Carta dei campi di concentramento.

     

    1943.

     

    8 settembre. L’esercito italiano è allo sbando. La Slovenia vive un periodo di interregno, durante il quale si scatenano sommosse prima a carattere contadino (jacqueries), poi a carattere nazionalistico anti-italiano. Processi sommari, a seguito dei quali 5-700 italiani vengono uccisi e gettati nelle foibe.

     

    1944

     

    Entra in azione l’Ozra, la polizia politica partigiana. Il suo compito, al principio, è quello di scovare i fascisti. Rapidamente diventa quello di annientare i “reazionari”, categoria nella quale si comprendono italiani, avversari del regime comunista e vittime di vendette occasionali.

     

    1945

     

    Maggio-inizi giugno. E’ la seconda fase delle foibe, diretta, questa volta, politicamente “dall’alto”. Impossibile il conto preciso delle vittime, peraltro non tutte gettate nelle foibe, ma in gran parte fucilate nei campi di concentramento: le stime oscillano fra i 5 e i 10 mila morti.

    Mappa delle principali foibe

     

    1945-1956

     

    L’esodo. Circa 300 mila italiani abbandonano la regione. La maggior parte di loro si insedia nel territorio nazionale.

     


    C. Una storia tra politica e scuola

     

    Il lungo silenzio del dopoguerra

    La vicenda del confine orientale ha visto alternativamente italiani e jugoslavi (in particolare sloveni e croati) nel ruolo di oppressori e oppressi, di vittime e carnefici. Per lungo tempo ha ricevuto scarsa attenzione da parte della dalla storiografia italiana e di conseguenza nessuna dalla scuola, come scrivevano i curatori del dossier della rivista “I Viaggi di Erodoto”. Le cause di questo lungo silenzio erano molte. In generale, per quanto riguarda l’insieme di queste vicende, va rilevato che le fonti d’archivio italiane e jugoslave rimasero in massima parte inaccessibili per decenni, sia per i normali tempi di segretezza che per l’imbarazzo che queste vicende suscitavano, per motivi diversi, in entrambi i governi. Per quanto riguarda il ruolo degli italiani come oppressori e carnefici, erano mancati quei processi, che consentono di raccogliere informazioni e danno loro risonanza presso l’opinione pubblica. La Jugoslavia aveva compilato una lista di militari italiani accusati di aver commesso crimini di guerra, in primo luogo  generali che avevano comandato le forze d’occupazione, ma non ne aveva ottenuto l’estradizione.

     

    La Banda Guidi-Colotti agiva sull’altopiano del Carso triestino, con il compito di reprimere il movimento insurrezionale sloveno. Dall’intervista a Alessandra Kersevan, nella quale se ne descrivono le gesta

     

    I governi italiani infatti poterono rifiutarsi di concederla, grazie all’appoggio degli Alleati, nel complesso gioco diplomatico che aveva come sfondo l’incipiente guerra fredda4. Per quanto riguarda invece gli italiani come vittime di massacri e del massiccio esodo nel dopoguerra, i maggiori partiti politici mostrarono un chiaro interesse a non sollevare la questione.


    I partiti italiani e la questione delle foibe

    La Democrazia Cristiana, il partito costantemente al governo dal dopoguerra, perseguì, nel contesto internazionale della guerra fredda, una politica di accomodamento con la Jugoslavia, che sfociò nel trattato di Osimo del 1975, con cui venne fissato in maniera definitiva il confine fra i due Stati. Il Partito Comunista Italiano, la seconda maggiore forza politica, costantemente all’opposizione, aveva pure esso steso volentieri un velo di silenzio, perché corresponsabile di quanto avevano subito gli italiani, dal momento che fra il 1943 e il 1945 aveva appoggiato in vario modo la politica annessionistica jugoslava. Un esponente di quel partito, Gianni Cervetti, ha così ricostruito autocriticamente, nel 2007, quella scelta:

     

    Fu un errore gravissimo, ma preferimmo rimuovere. … Il tema delle foibe diventò una parte della questione dei rapporti al confine orientale, cioè dei rapporti con la Jugoslavia». Il «Partito» ne discusse, negli anni Cinquanta e Sessanta, ma ne discusse … «soprattutto a Trieste e in modo molto acceso. Ma poi si fece un gran lavoro per stabilire rapporti di buon vicinato sul confine» con lo stato titino. E così ideologia e diplomazia si fusero e «queste due cause portarono a un errore gravissimo che fu quello di rimuovere il dramma delle foibe, di stendere non un velo ma una vera e propria coperta, per nascondere quello che non si voleva vedere. E non se ne parlò più5.

     

    Solo il Movimento Sociale Italiano, partito erede del fascismo e della Repubblica Sociale Italiana e che era ai margini della vita politica italiana, faceva sua la causa degli esuli giuliani e dalmati. Nell’opinione pubblica, dunque, memoria e rimozione delle sofferenze degli italiani erano politicamente divise.

     

    La rimozione sociale

    Per quanto riguarda le violenze commesse dagli italiani, regnava una diffusa inconsapevolezza, che va vista nel più generale contesto di una rimozione di lunga durata di tutti i crimini di guerra italiani, compiuti sia durante la Seconda guerra mondiale che, in precedenza, il Etiopia e in Libia. Un’inconsapevolezza alimentata dalle memorie autoassolutorie pubblicate immediatamente dopo la fine della guerra dal generale Mario Roatta6, comandante della II Armata in Slovenia dal gennaio 1942 e dal suo ufficiale di Stato Maggiore Giacomo Zanussi7, nonché dalla prima ricostruzione fatta nel 1978 da Salvatore Loi8 per conto della Stato Maggiore dell’Esercito Italiano.

     

    Le prime ricerche storiche

    Un primo quadro della durezza dell’occupazione italiana in Slovenia emerse da un breve saggio di Teodoro Sala del 19669, che si basava sugli studi di storici jugoslavi, in particolare Ivo Juvančič e Tone Ferenc, e citava alcuni importanti documenti italiani conservati nell’archivio dell’Institut za zgodovino delavskega gibanja di Lubiana, fra cui i bandi emanati nel 1941 dall’Alto commissario Emilio Grazioli e da Mussolini, la Circolare n. 3 C emanata nel 1942 dal generale Mario Roatta, comandante della II Armata dal gennaio 1942, dove si davano dure indicazioni sulla lotta antipartigiana, e il fonogramma del generale Mario Robotti che conteneva una frase divenuta famosa: “si ammazza troppo poco!”.

    Teodoro Sala, a lungo presidente della Commissione didattica dell’Insmli, la rete degli Istituti per lo studio dei movimenti di Liberazione, si è prodigato per sensibilizzare storici e insegnanti sulla vicenda delle foibe e del confine orientale.

     


    Sala accennava però appena al fenomeno della deportazione degli sloveni nei campi di concentramento. Più in generale sulla Jugoslavia, uscirono negli anni ’70 le memorie del cappellano militare Pietro Brignoli10 e le ricerche dello scrittore Giacomo Scotti11. Si trattava complessivamente di pochissimi scritti, talora di nicchia, e di scarsissimo impatto sull’opinione pubblica. Maggiore era stata l’attenzione sull’Africa, soprattutto grazie allo storico Angelo Del Boca, che aveva scritto sull’Etiopia12 e sulla Libia13, e su quest’ultima era uscito nel 1977 anche un libro del giornalista Eric Salerno14.

     

    Il ruolo dei media

    L’Etiopia salì comunque alla ribalta soprattutto con il documentario televisivo L’Impero, un’avventura africana, scritto e diretto dal regista Massimo Sani con la consulenza di Del Boca, trasmesso in seconda serata dalla prima rete della RAI il 3 ottobre 1985, in occasione del cinquantenario dello scoppio della guerra15. In particolare, vennero presentate molte prove dell’uso dei gas asfissianti.

     

    Durante questo seminario, organizzato dall’istituto Storico della Resistenza friulano vennero proiettati il film di Ken Kirby, Fascist Legacy, di Lordan Zafranović, La caduta dell’Italia (1981) e Occupazione in 26 immagini (1978), oltre ai documentari di Massimo Sani, Quell’Italia del ’43 (1993) e di Alessandra Kersevan e Stefano Raspa, The Gonars Memorial 1941-1943: il simbolo della memoria italiana perduta (2005).


    Pochi anni dopo il documentario di Sani un altro documentario televisivo, questa volta non italiano, venne ad affrontare l’intera questione dei crimini di guerra italiani, non solo in Etiopia ma anche in Libia e nei Balcani. Si trattò di Fascist Legacy, messo in onda il 1 e l’8 novembre 1989 dalla BBC con la regia di Ken Kirby e con la consulenza del giornalista americano Michael Palumbo, il quale per primo aveva lavorato sui fondi della United Nations War Crimes Commission. Per quanto riguarda la Libia, il documentario dava conto della durissima repressione fra gli anni ’20 e ’30, e per l’Etiopia parlava non solo dell’uso di gas asfissianti, ma anche del bombardamento di ospedali della Croce rossa durante la guerra e, successivamente, della sanguinosa rappresaglia seguita al fallito attentato contro il governatore Rodolfo Graziani. Per quanto riguarda la Jugoslavia, il documentario trattava in particolare del campo di concentramento nell’isola di Arbe (Rab in croato), dove si ebbe un alto tasso di mortalità, e si spiegavano le ragioni della mancata consegna dei criminali di guerra italiani alla Jugoslavia. Il documentario suscitò reazioni negative da parte italiana, forse proprio per le questioni legate alla Seconda guerra mondiale. L’ambasciata italiana a Londra protestò immediatamente con la BBC, denunciando una denigrazione dell l’Italia. La RAI acquistò il documentario nel 1991, ma non lo trasmise mai. Pertanto esso circolò soltanto in circoli antifascisti italiani, e solo nel 2004 venne diffuso dall’emittente privata La7.


    Le nuove ricerche storiche

    Intanto, nel corso degli anni ’80, le ricerche storiche sui rapporti italo-jugoslavi presero un nuovo e deciso impulso, soprattutto a causa  del mutare della situazione politica della Jugoslavia, dove dopo la morte di Tito nel 1980 si aprì una crisi politica che portò nel 1991 alla sua dissoluzione. La fine del regime comunista portò con sé una revisione critica della sua storia e mise in moto nuove ricerche e l’accesso a nuove fonti d’archivio16, fra cui il libro Fašisti brez krinke: Dokumenti 1941-1942, di Tone Ferenc, del 1987, tradotto nel 1994 in italiano17. Anche in Italia vennero avviate nuove ricerche d’archivio: l’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito affidò a Marco Cuzzi una ricerca sull’occupazione della Slovenia, pubblicata nel 199818, dalla quale emersero molti dettagli sulle violenze a danno dei civili esercitate dagli italiani nelle azioni di repressione e rappresaglia. E’ così iniziato un filone di ricerche sulla guerra italiana nei Balcani, che non si è ancora esaurito19.

     

    Soldati italiani guardano vittime slovene


    Un importante segno di questo cambiamento dei tempi fu la mozione approvata all’unanimità dal consiglio comunale di Trieste nel 1990 in cui si auspicava la costituzione di una commissione storica italo-jugoslava che prendesse in esame la storia del rapporto fra i due Stati. Subito dopo la Jugoslavia si dissolse, e la proposta venne concretizzata nel 1993, per iniziativa dei rispettivi ministeri degli Esteri, con la costituzione di due commissioni, una italo-croata e l’altra italo-slovena.

     

    La commissione italo-slovena

    La prima commissione si arenò quasi subito20, mentre la seconda21 riuscì a produrre nel 2000 un rapporto22 che ricostruiva in maniera sostanzialmente equilibrata la storia comune fra il 1880 e il 1956. Dopo aver ricordato la politica di “distruzione integrale dell'identità nazionale slovena e croata” portata avanti dall’Italia nel periodo fra le due guerre, e le violenze a danno degli sloveni durante la Seconda guerra mondiale, dall’internamento in campi di concentramento, all’incendio di villaggi, alla fucilazione di ostaggi, gli autori passano a parlare delle violenze subite dagli italiani ad opera degli jugoslavi subito dopo l’armistizio del 1943 e dopo la fine della guerra, nel 1945, chiarendo il duplice significato di queste violenze, come conseguenza dell’occupazione italiana ma anche come strumento di un piano politico volto all’annessione di quelle zone alla Jugoslavia:

     

    Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo23.

     

    Esumazione di salme da una foiba. Immagine di apertura Rai 1, del 10 febbraio 2012

     

    Nelle scuole italiane si comincia a studiare meglio il Novecento

    Altri elementi sopraggiunsero in quegli anni ad animare il dibattito sulla storia recente dell’Italia. In primo luogo la decisione del ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer, che nel 1996 stabilì che il programma di storia dell’ultimo anno della scuola medie e della scuola secondaria superiore venisse dedicato al solo Novecento, mentre fino ad allora si studiava anche l’Ottocento24. Questo notevole ampliamento dello studio della storia contemporanea riaccese l’annosa polemica sull’opportunità di insegnare la storia contemporanea, una polemica tutta italiana, che aveva avuto origine nell’immediato dopoguerra, quando, nel corso della defascistizzazione della scuola, condotta dalla Sotto-commissione per l’educazione della Commissione Alleata di Controllo, venne sospeso l’insegnamento della storia successiva alla fine della Prima guerra mondiale, che nei manuali era la parte più intrisa di ideologia fascista25. Questa decisione doveva essere una misura d’emergenza in attesa di nuovi manuali ispirati a principi democratici, ma venne mantenuta fino al 1960, creando una situazione del tutto inedita, e paradossale, nella scuola italiana. Il fatto era che il fascismo e la Resistenza erano temi scottanti, su cui la Democrazia Cristiana, dopo aver estromesso i socialisti e i comunisti dal governo dal 1947, preferiva stendere un velo di silenzio, in un’ottica moderata. La sinistra, che stava all’opposizione, ne reclamava invece lo studio, anche per combattere nostalgie fasciste. Solo con il mutare del clima politico e la prima apertura a sinistra lo studio degli anni più recenti venne reintrodotto nei programmi, ma la divisione fra destra e sinistra sull’opportunità di insegnare la storia contemporanea non svanì mai, e appunto riemerse vivacemente in occasione in occasione del decreto di Berlinguer. Fra i fautori, a sinistra, Vittorio Foa affermava l’importanza di uno studio attento del Novecento nella formazione dei giovani: “Gli studenti devono studiare questo secolo per capire il rapporto fra il ricordo del passato e il futuro della loro vita”26. Fra gli oppositori, a destra, Indro Montanelli scriveva invece: “Esistono dei testi scolastici di Storia contemporanea dei quali ci si possa fidare come equilibrio e imparzialità? Non ne conosco27”.

    La polemica divenne particolarmente rovente a causa della profonda crisi politica che l’Italia stava attraversando in quegli anni, con la fine o la profonda trasformazione di partiti storici come la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano e il Partito Comunista Italiano, e la nascita di nuovi partiti come la Lega Nord e Forza Italia. Il Movimento Sociale Italiano si trasformò in Alleanza Nazionale e grazie all’alleanza con Forza Italia arrivò per la prima volta della sua storia al governo. In questa nuova fase politica, questo partito cercò naturalmente anche una legittimazione del proprio passato, attraverso l’attacco al paradigma antifascista28, che permeava l’insegnamento della storia, indipendentemente dall’orientamento marxista, liberale o cattolico degli autori dei manuali. In particolare vennero denunciati, anche con libri di grande diffusione come quelli del giornalista Giampaolo Pansa29, i crimini commessi dai partigiani, in particolare subito dopo la fine del conflitto, e si rivendicò dignità anche per i combattenti della Repubblica Sociale Italiana, nella quale qualcuno dei membri più anziani di Alleanza Nazionale aveva militato, con l’argomento che anche loro si erano battuti per la Patria. In tal modo si voleva eliminare uno storico conflitto, da cui era nata la Repubblica, e promuovere una pacificazione nazionale.

     

    La battaglia sui libri di testo

    Uno dei momenti più aspri della polemica, che investì direttamente l’insegnamento della storia, fu l’autunno del 2000, quando, il 9 novembre, il Consiglio della regione Lazio, di cui era presidente Francesco Storace, di Alleanza Nazionale, approvò una mozione in cui accusava i manuali di storia per la scuola superiore di mistificare la storia italiana, con una faziosità mirante a alimentare “uno scontro generazionale” e a impedire “la ricostruzione di un'identità nazionale comune a tutti i cittadini italiani e l'affermarsi di un sentimento di autentica pacificazione nazionale”. La mozione lamentava poi la mancanza in Italia di un’autorità di controllo sui libri di testo, e per ovviare almeno parzialmente a questa carenza impegnava il presidente a istituire una commissione di esperti che svolgesse un'analisi attenta dei testi scolastici evidenziandone carenze o ricostruzioni arbitrarie, nonché a promuovere la scrittura di nuovi libri di testo da diffondere nelle scuole della regione.

    Nella mozione si faceva riferimento ad un opuscolo di poche pagine30 diffuso poco tempo prima dai militanti di Azione Studentesca, un’organizzazione di Alleanza Nazionale, nel quale, con argomentazioni molto elementari si denunciavano alcuni fra i più diffusi manuali di storia per le scuole secondarie superiori come inquinati dall’ideologia di sinistra, che portava la maggior parte di loro a tacere dei massacri delle foibe e, nei rari casi in cui ne parlavano, a negare a questi massacri il carattere di pulizia etnica antitaliana. In particolare quest’accusa veniva rivolta al Camera-Fabietti31, insieme a quella di rifiutare esplicitamente di mettere sullo stesso piano etico-politico partigiani e repubblichini. Oltre che a queste vicende, gli autori davano ancor maggiore attenzione agli eventi più recenti della storia italiana, dagli anni del terrorismo al governo Berlusconi, accusando molti manuali di fare solo propaganda elettorale.

    Immediatamente altri consigli regionali governati dalla destra votarono iniziative analoghe, scatenando un’immediata valanga di furibonde reazioni negative non solo da parte di esponenti politici di sinistra, ma anche più in generale fra gli storici e nel mondo della scuola. In effetti, non era solo l’attacco al paradigma antifascista a suscitare indignazione, ma anche l’idea di un controllo sui libri di testo, che era stato abolito dopo la fine del fascismo. In proposito il Presidente del Consiglio Giuliano Amato affermò con chiarezza, nel corso del dibattito alla Camera dei Deputati, che si tenne il 15 novembre, che nessun organismo pubblico deve interferire in materia di testi scolastici, e che la commissione prevista nella mozione rappresentava “una forma di censura dissuasiva invece che proibitiva” che può avere “un effetto omologante pericolosissimo su quella che deve rimanere una dialettica tra libertà, tra autori, tra insegnanti e autori e tra insegnanti e studenti”32. Di fronte a questa levata di scudi, Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, al momento all’opposizione, che pur aveva salutato la mozione della regione Lazio rallegrandosi del fatto che “i nostri figli non dovranno … più studiare su testi di storia con deviazioni marxiste”, preferì fare marcia indietro, affermando che bisognava stare attenti a non passare dalla parte del torto “offrendo pretesti di critica” agli avversari33, preoccupato evidentemente di un riflesso negativo di queste proteste sulla prossima campagna elettorale. E tutta l’iniziativa finì nel dimenticatoio.

     

    Un caso esemplare: Il manuale di Camera e Fabietti

    Ormai, sotto la spinta di nuove ricerche storiche e polemiche politiche e culturali, anche il mondo della scuola cominciava ad occuparsi delle vicende del confine orientale. Il confronto fra i manuali per le scuole secondarie superiori fino alla metà degli anni ’90 e quelli successivi è eloquente. Ad esempio, il Camera-Fabietti, nella terza edizione del 1987, presentava solo una cartina con una breve didascalia che sottolineava come dopo la Seconda guerra mondiale l’Italia avesse perso quasi tutte le acquisizioni fatte dopo la Prima guerra mondiale, con l’eccezione di Trieste, Gorizia e Monfalcone34. Nella successiva edizione di questo manuale, del 1999, si trova una nuova scheda (firmata da Camera) dal titolo Foibe e Risiera di San Sabba, lunga ben 5 pagine35, a riprova della nuova attenzione a quegli eventi, ma senza la completezza e l’equilibro dell’informazione, che caratterizzava invece il dossier della rivista I viaggi di Erodoto. Camera si sofferma in primo luogo sulla politica di italianizzazione forzata delle popolazioni slave nei territori annessi dopo la Prima guerra. Passando però alla Seconda guerra mondiale, egli presenta le violenze italiane in maniera del tutto minimizzatrice e fuorviante, addirittura eufemistica:

     

    al presidio delle terre balcaniche occupate e alla lotta contro i partigiani slavi parteciparono più di trenta divisioni italiane, che nell’adempimento di questa sciagurata funzione certo non ci attirarono le simpatie dei popoli assoggettati36.

     

    A questa carente informazione ne segue una più precisa sulla Risiera di San Sabba, un campo di concentramento ed eliminazione presso Trieste, dove furono sterminati a migliaia non solo ebrei, ma anche e soprattutto oppositori politici, resistenti e partigiani sloveni e croati,  che fu installato dai tedeschi quando, dopo l’armistizio italiano, assunsero il controllo della regione, ma di cui anche le autorità repubblichine furono corresponsabili. Con queste due informazioni, di peso molto ineguale, Camera spiega il risentimento degli sloveni nei confronti degli italiani. E passa poi a descrivere le violenze subite da questi ultimi, distinguendo due fasi: la prima immediatamente successiva all’armistizio dell’8 settembre 1943, nei pochi giorni di vuoto di potere prima che i tedeschi prendessero il controllo della zona, e durante i quali furono uccise fra le 500 e le 700 persone. L’autore spiega questi eventi come una conseguenza di uno “sfogo dell’ira popolare sloveno-croata contro gli italo-fascisti”, senza quel disegno politico preordinato che invece caratterizzò la violenze della seconda fase, nel maggio-giugno del 1945. Camera analizza qui con inusuale dovizia di documenti le intenzioni di Tito di annettere alla Jugoslavia tutta la Venezia Giulia, e quindi la decisione di combattere non solo contro gli italiani fascisti e responsabili di crimini di guerra, ma anche contro gli italiani antifascisti, come i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) di Trieste, che volevano che quelle zone rimanessero all’Italia, e che in quanto tali erano automaticamente nemici dell’armata liberatrice jugoslava. Chiara e documentata è anche la denuncia delle responsabilità del Comitato cittadino del partito comunista di Trieste, il quale nel 1944 uscì dal CLN per appoggiare la politica di Tito. Si noti, a margine, quanto sia grossolana e infondata l’accusa mossa all’autore dall’opuscolo di Azione studentesca di negare la dimensione etnica delle violenze antitaliane. Sul numero delle vittime di questa seconda fase l’autore non si pronuncia, rilevando l’incertezza dei dati, e denunciando la strumentalizzazione politica fattane dalla destra italiana, ma anche la negazione della gravità di quegli eventi da parte di chi, nella sinistra italiana, diceva che in quelle terre si era solo fatta giustizia. Insomma, una posizione che prendeva nettamente le distanze da entrambe le parti.


    I manuali italiani degli ultimi venti anni

    I manuali italiani, dunque, cominciano a parlare di foibe nel corso degli anni ’90 (per quanto prima della querelle sui libri di testo che abbiamo appena ricordato). Difficile darne conto completamente, dato il loro altissimo numero e, soprattutto, considerando il fatto che gli editori ne presentano versioni nuove a ripetizione. Esaminandone alcuni, si scopre che, in realtà, la vera storia occultata non è quella delle foibe, quanto piuttosto quella del comportamento degli italiani in Slovenia. A volte, si cita solo “la brutale dominazione nazifascista”, senza ulteriori dettagli. Si parla di «programma di distruzione delle identità», e di “eliminazione delle istituzioni nazionali  slovene e croate”. Si spiega che il solo sentimento di vendetta non basta a spiegare questa tragedia e si fa riferimento a un non meglio precisato intreccio complesso di fattori. Si ricorda il sentimento anti-italiano, diffuso nel mondo slavo ben prima della seconda guerra mondiale. Si denuncia l’opera di “fascistizzazione anche violenta”. Ma le descrizioni più dettagliate sono riservate al comportamento slavo:  

     

    I partigiani comunisti jugoslavi … facevano ben poche distinzioni fra fascisti e italiani; … essi consideravano l’intera popolazione italiana come nemica e procedettero a massacri contro i civili, che gettavano, già uccisi o ancora vivi, con mani e piedi legati, nelle foibe, le profonde cavità carsiche del terreno. Il loro intento era non solo di ripulire il territorio dai  fascisti, ma di costringere l’intera popolazione di lingua italiana all’esodo. Anni dopo la fine della guerra si procedette al parziale recupero dei resti degli “infoibati”, sicuramente diverse migliaia. Gli esuli dalla Venezia Giulia furono 300.00037

     

    Fra i rari esempi di trattazione equilibrata, citerei il recente manuale di Alberto Mario Banti. Questi, infatti, oltre a parlare delle foibe, descrive, anche se sommariamente e senza citare singoli episodi, la politica repressiva italiana sia in Grecia che in Jugoslavia, fatta di rastrellamenti, esecuzioni di civili sospetti di appoggiare i partigiani, distruzione di villaggi e deportazioni, e cita anche in generale Roatta38. Banti inserisce la repressione italiana nel più generale contesto della “guerra contro i civili”, che caratterizzò in vario modo il comportamento delle truppe tedesche e italiane, e delle cui vittime egli dà un sommario bilancio nei vari teatri di guerra, soffermandosi peraltro sugli episodi di cui furono responsabili i tedeschi.

     

    Lettera censurata di un internato croato nel campo di Gonars.

     

    La Giornata del Ricordo

    Il quadro distorto e manchevole, che la manualistica mette in evidenza, rischia di essere aggravato dall’intervento della politica sulla storia e sul suo insegnamento. Infatti il Parlamento italiano ha istituito nel 2004 la celebrazione di una “Giornata del Ricordo” per commemorare le foibe e l’esodo degli Italiani dall’Istria e dalla Dalmazia39, e fra queste celebrazioni la legge prevede “iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado”. Il dibattito parlamentare su questa legge, che è stata votata non solo dalla maggioranza di centro-destra al governo, che l’ha proposta, ma anche da buon parte dell’opposizione di sinistra, con l’eccezione dei partiti della Rifondazione Comunista e dei Comunisti Italiani, si è concentrato sulle violenze subite dagli italiani, e solo pochi sono stati i riferimenti al contesto generale e alle violenze subite in precedenza dagli jugoslavi, riferimenti peraltro viziati da quella imprecisione e genericità già lamentata a proposito di vari manuali di storia. Nel corso del dibattito alla Camera dei Deputati, tenuto il 10 febbraio 2004, Pietro Fassino, segretario dei Democratici di Sinistra, si limitò a parlare di “misfatti” e “angherie” commessi durante l’occupazione italiana, precisando che comunque a suo avviso non potevano giustificare le successive violenze commesse contro gli italiani40. Il giorno scelto per questa celebrazione è stato il 10 febbraio, anniversario della firma del Trattato di Parigi che nel 1947 assegnò l’Istria alla Jugoslavia.

    Questa scelta della politica italiana è in continuità con la decisione presa dal ministero degli Esteri di non pubblicare il rapporto della commissione italo-slovena41, nonostante la raccomandazione dei due copresidenti, raccomandazione che venne invece accolta dall’omologo ministero sloveno. Con la legge sulla “giornata del ricordo” la politica italiana ha così vanificato il senso del lavoro degli storici: superare le memorie contrapposte con un discorso storico comune. E così facendo ha smentito proprio le sue buone intenzioni iniziali. La Slovenia, peraltro, ha finito per seguire la stessa strada dell’Italia, cadendo nella provocazione e decidendo di contrapporle una sua celebrazione.

     

    La comunità slava triestina era corposa, oltre 50 mila abitanti. Aveva teatri, centri culturali, bar e scuole. Qui è il Narodni Dom, incendiato dai fascisti nel 1920

     

    Si proposero dapprima date che ricordavano le violenze italiane, come l’anniversario dell’incendio del Narodni Dom di Trieste, la Casa del Popolo slava, compiuto nel 1920 da nazionalisti italiani, o la fucilazione di cinque sloveni condannati nel 1930 dal Tribunale Speciale42, ma alla fine si scelse una data che commemorava una vittoria slovena, il 15 settembre del 1947, quando entrò in vigore quello stesso Trattato di Parigi che assegnava alla Jugoslavia il Primorska, cioè il litorale adriatico43. Così, lo stesso trattato viene celebrato in Italia e in Slovenia, ma in date diverse e con segno opposto.

     

    La scuola e la Giornata del Ricordo

    Importante, a questo punto, è vedere come reagisce la scuola italiana all’imposizione di celebrare il 10 febbraio. Si è visto come i manuali di storia tendano per lo più ad una rappresentazione squilibrata dell’intera vicenda, e questa tendenza può essere facilmente aggravata dalla legge del 2004. Un volume pubblicato nel 2010 dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca44, che presenta un quadro di iniziative prese nelle scuole, conferma che nei vari interventi didattici ci si è concentrati solo sulle violenze subite dagli italiani. E simile impostazione ha il materiale didattico prodotto dall’Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea45. In senso opposto va peraltro l’iniziativa congiunta presa nel 2007 dalla giunta provinciale di Roma (allora di centro-sinistra) e dal Liceo scientifico statale “P. Paleocapa” di Rovigo, con due convegni, i cui atti sono stati poi pubblicati in un unico volume46. L‘iniziativa è stata posta esplicitamente in continuità con i lavori della commissione italo-slovena, ed ha riunito storici italiani, sloveni e croati, che hanno composto un quadro a più voci su tutti gli aspetti principali di quelle vicende a partire dalla metà dell’Ottocento.

    Il problema di un insegnamento equilibrato delle vicende del confine orientale dell’Italia è dunque ancora lontano dalla soluzione, e va notato che anche la manualistica slovena mostra uno squilibrio, di segno opposto a quello della manualistica italiana,  portando l’attenzione sull’occupazione italiana e ignorando le violenze antitaliane, come si rileva ad esempio in uno dei manuali più diffusi, quello di Božo Repe47. La ricerca storica congiunta ha compiuto passi molto importanti, ma la politica, dopo iniziali aperture, è tornata a contrapposizioni strumentali, che probabilmente hanno una maggiore efficacia là dove, come in Slovenia, i manuali scolastici sono sottoposti al controllo delle autorità ministeriali.

     

    D. La didattica. Qualche avvertenza

     

    Per avviare un buon approfondimento sul tema  è opportuno, al principio, sincerarsi che gli allievi padroneggino alcuni concetti, utili sempre per la correttezza del ragionamento storico, ma indispensabili in temi caldi, come questo48. Ad esempio: i ragazzi (come molti adulti) tendono a ragionare in termini di “colpevoli”. Gli storici, invece, parlano di cause, individuano responsabilità a diversi gradi. E’ opportuna la distinzione, dal momento che occorre aiutare gli allievi a separare il piano giuridico (e politico) da quello storico. Inoltre, questo argomento richiama con insistenza parole/concetti quali “identità”, “memoria collettiva”, “memoria condivisa”, “etnia”, “confini” e così via. Si faccia attenzione, in questi casi, al fatto che questi termini designano dei processi di costruzione politica: non indicano dati “naturali” o “essenziali” di una popolazione, come spesso si crede. La vicenda delle foibe, in particolare, è anche un momento di costruzione identitaria, sia pure con tempi e modalità diversi, da entrambi i fronti; ed è stata un argomento per tracciare e rendere definitivi dei confini. Questo vuol dire che una buona trattazione di questo tema implica una programmazione accurata precedente, dal momento che è impossibile avviare l’apprendimento di questo complesso di termini in una sola unità didattica. In mancanza di questi prerequisiti, il docente deve mettere nel conto il fatto che gli allievi tenderanno a usare questi concetti nella forma stereotipata, consueta nella società, e rafforzata purtroppo dal dibattito pubblico.

     

    Recupero di resti umani dalla foiba di Vines, località Faraguni, presso Albonad’Istria negli ultimi mesi del 1943, Dahttp://www.dismappa.it/giorno-del-ricordo-2013/, che riporta le iniziative ufficiali del comune di Verona in occasione della giornata della memoria del 2013. Vi si riporta una ricca documentazione, che si sforza di essere equilibrata fra le tesi della Kersevan, definita “negazionista” e la testimonianza, molto contestata da parte storica, di Graziano Udovisi, testimone “infoibato”.

     

     Per comprendere storicamente il fatto “foibe”, occorre contestualizzarlo. I processi cognitivi sono fondamentalmente due. Il primo “verticale”, inserisce la strage in una retta cronologica. Questa attività serve a ricostruire una catena, sicuramente non lineare ma complessa, di relazioni, che aiuta a mettere in prospettiva questa tragedia. Un primo strumento (oltre alle conoscenze eventualmente riportate nel manuale) possono essere la cronologia riportata sopra e i dati sul popolamento e sulla complessità della storia regionale. Il secondo modo per contestualizzare un fatto è “orizzontale”. Occorre disporre “le foibe” sul tavolo dei fenomeni simili. In questo caso,  quelli che caratterizzano l’immediato dopo-guerra, con le vendette, le espulsioni e gli eccidi di massa, a danno sia dei fascisti e dei nazisti, ma soprattutto delle popolazioni civili. A seguito di questo processo drammatico, oltre dieci milioni di civili furono cacciati dalle loro terre. Tedeschi dalla Polonia e dalla Cechia, ungheresi e rumeni dalla Jugoslavia, italiani dall’Istria. Si contarono oltre due milioni di vittime. La contestualizzazione è fondamentale sia per capire il fatto delle foibe, sia per discuterne in classe, evitando gli equivoci del dibattito pubblico, che tende a inserire nella stessa categoria di “massacro”, eccidi storicamente diversi, quali quelli perpetrati dal nazismo durante la guerra e quelli a danno delle popolazioni sconfitte, dopo la guerra. Alcuni storici, di recente, dilatano i tempi, includendo in questi processi di migrazione forzata una cronologia che risale a metà ottocento49.

     

    L’istituto Storico della Resistenza di Trieste pubblica fra l’altro un dvd con una ricca documentazione, ben equilibrata, sulle violenze italiane e slave

     

    Tuttavia, il “fatto” foibe è ormai inseparabile dal processo di rimozione/rimemorizazione, attraverso il quale è giunto fino a noi. Il complesso delle notizie (film, documentari, denunce, memoriali e diari, interviste, biografie, articoli di giornale e, infine, l’intero circuito mediatico-digitale) è lo strumento fondamentale attraverso il quale questo processo si è attivato. Questa consapevolezza è vitale, per il docente che voglia avviare gli allievi alla sua comprensione. Infatti, le cosiddette “fonti”, alle quali gli studenti rischiano di abbeverarsi sono le stesse protagoniste del processo di rielaborazione dell’evento. Queste attivano un complicato gioco di rimandi all’interno del quale ci si perde facilmente. Un gioco che non si basa più sugli eventi del passato, così come riusciamo a ricostruirli, ma sulla reinterpretazione di quei fatti. O meglio, su dei “fatti interpretati”. Su dei “fattoidi”, come qualche volta si dice, quando si parla di media. Quindi, l’eccidio diventa – di volta in volta: “pulizia etnica”, “massacro comunista” e così via. Pensiamo di analizzare una tragedia della seconda guerra mondiale, e ci troviamo, senza saperlo, a discutere – invece – dell’opinione di questo giornalista o di quell’uomo politico.

     

    Tenere, dunque, le strade separate quanto più possibile (per quanto esse si intreccino inevitabilmente, come abbiamo visto nella ricostruzione di Luigi Cajani). Da una parte la strada della rielaborazione politico/sociale; dall’altra quella della ricostruzione storica. Sono diverse fra di loro non per la passione politica che le attraversa. Anche gli storici hanno le loro appartenenze. Sono diverse per tanti motivi. Quello che qui sottolineo è dato dagli scopi: lo storico vuole ricostruire un fatto. Può fare questo lavoro bene o male. Ma il suo obiettivo, quale che sia la sua appartenenza, è conoscitivo. Il politico o l’operatore dei media vogliono altro: convincere, interessare, stupire, scandalizzare, rassicurare. Obiettivi legittimi, che qui non contesto. Sottolineo solo che sono altri, rispetto all’obiettivo fondamentale e assoluto della conoscenza.

     

    Due mestieri diversi. E conseguentemente, opere diverse e procedimenti diversi per costruirle.

     

    Come fare a tenerli separati? Certamente, pretendere di riuscirvi con una sola unità didattica, e per giunta su un tema scottante come questo, è chiedere troppo. Si tratta di obiettivi di lungo periodo, che vanno accuratamente preparati nel corso del curricolo, soprattutto attraverso qualche attività di laboratorio, che insegni agli allievi (concretamente) che cosa vuol dire lavorare con dei documenti, cimentarsi nell’attività di ricostruzione di un fatto.

     

    Tuttavia, nella prassi didattica internazionale, si è trovato che un buon sistema per affrontare questi temi caldi è quello della didattica controversiale: insegnare a discutere, o meglio insegnare le regole della discussione storica. Una o più tesi da sostenere50. Degli argomenti e dei documenti come prove da citare nelle proprie argomentazioni. Il prof svolge il ruolo di regolatore della controversia. Al termine del lavoro non è importante osservare chi vince e chi perde, quanto ritornare sulla discussione stessa per valutarne la regolarità e per osservare la differenza fra questa e il talk show, nel quale gli argomenti si sovrappongono e i giudizi si confondono con i fatti.

     

    A differenza del talk show, infine, nel quale non vale nessun principio di auctoritas, se non la capacità di realizzare una performance (in fin dei conti si tratta di uno spettacolo), il dibattito storico ruota intorno al riconoscimento scientifico dello storico. Alle sue capacità e alla considerazione che le sue tesi riscuotono presso i colleghi. Per questo, gli storici (che troverete citati in abbondanza nel testo di Cajani) sono i punti di riferimento di chiunque voglia accedere al processo di ricostruzione del passato. Quindi, la conclusione più idonea di una unità controversiale è la lettura diretta di un brano storiografico appropriato. Lo si apprezzerà più a fondo, dopo aver sperimentato il fuoco di un dibattito.

     

    Per quanto riguarda questa “cassetta di strumenti”, penso che la chiusura migliore siano le parole con le quali Filippo Focardi finisce il suo libro sul “cattivo tedesco e il bravo italiano”:

     

    “Nel luglio 2010 ha avuto grande significato politico e simbolico l’incontro a Trieste fra il presidente Giorgio Napolitano, il presidente sloveno Danilo Türk e quello croato Ivo Josipović in occasione del concerto diretto dal maestro Riccardo Muti eseguito in piazza unità d’Italia da un’orchestra di musicisti dei tre paesi. Prima del concerto, come atto di reciproca riconciliazione i tre presidenti hanno deposto una corona di fronte alla lapide che ricorda l’incendio del Narodni Dom la Casa del Popolo slovena data alle fiamme nel 1920 dai nazionalisti italiani (poco dopo confluiti nel fascismo), recandosi poi insieme a rendere omaggio al monumento che ricorda l’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia (…) Nell’occasione, i due presidenti (italiano e croato) hanno ricordato sia “la tragedia delle vittime del fascismo italiano” sia le vittime “della folle vendetta delle autorità postbelliche dell’ex-Jugoslavia” (…)

     

    Un internato nel campo di Arbe.

     

    Ma insieme ai gesti simbolici, e prima ancora di essi, servirebbe una ben maggiore diffusione della conoscenza della nostra storia, a partire dalle scuole. E’ doveroso che gli studenti conoscano Sant’Anna di Stazzema e Monte Sole, come Auschwitz e le foibe, ma dovrebbero sapere anche che cosa hanno rappresentato Domenikon (in Grecia) e Raab (Arbe), per non dire di Debrà Libanos in Etiopia. Allo stesso modo può avere un valore formativo che venga loro additato l’esempio di un Giorgio Perlasca, ma non dovrebbero essere taciute le colpe di un Rodolfo Graziani o di un Mario Roatta. Anche così si costruisce una memoria europea fondata sull’etica della responsabilità e aperta alla dimensione globale e multietnica delle società in cui viviamo, al di là di una memoria nazionale finora centrata su se stessa, vittimistica e autocelebrativa”51



     

    Il sacrario di Basovizza Il memoriale di Gonar

     

    Note

    1. Il testo è ricavato in gran parte da un contributo di Luigi Cajani, che io ho ridotto e organizzato: Luigi Cajani, Die Ostgrenze Italiens im 20. Jahrhundert. Eine Geschichte zwischen Politik und Schule, in Patrick Ostermann, Claudia Müller, Karl-Siegbert Rehberg (Hg.), Der Grenzraum als Erinnerungsort. Über den Wandel zu einer postnationalen Erinnerungskultur in Europa, Bielefeld, transcript Verlag, 2012, pp. 153-170. Le immagini sono ricavate da internet e si intendono controllate al 10 febbraio 2013.
    2. Franco Cecotti, Raoul Pupo, Il confine orientale. Una Storia rimossa, in “I viaggi di Erodoto”, 12, 34, 1998, pp. 88-150 (con la riproduzione del contributo fondamentale di Carlo Schiffrer, Sguardo storico sui rapporti fra italiani e slavi nella Venezia Giulia, pp. 127-150).
    3. Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, Bari 2013, p. 132.
    4. Cfr. Filippo Focardi, La questione della punizione dei criminali di guerra in Italia dopo la fine del secondo conflitto mondiale, in “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, 80 (2000), pp. 543-624.
    5. Gianna Fregonara, Cervetti: così noi del Pci arrivammo al negazionismo, in “Corriere della Sera”, 12.2.2007.
    6. Mario Roatta, Otto milioni di baionette, L'esercito italiano in guerra dal 1940 al 1944,  Milano, A. Mondadori, 1946.
    7. Giacomo Zanussi, Guerra e catastrofe d’Italia. 1: giugno 1940-giugno 1943, Roma, Corso [1945].
    8. Salvatore Loi, Le operazioni delle unità italiane in Jugoslavia (1941-1943), Roma, Ufficio storico SME 1978
    9. Teodoro Sala, Occupazione militare e amministrazione civile nella «provincia» di Lubiana (1941-1943), in Enzo Collotti, Teodoro Sala, Giorgio Vaccarino, L’Italia nell’Europa danubiana durante la seconda guerra mondiale, Milano, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, 1967, pp. 73-93.
    10. Pietro Brignoli, Santa Messa per i miei fucilati, Milano, Longanesi, 1973.
    11. Giacomo Scotti, “Bono taliano” Gli italiani in Jugoslavia (1941-43), Milano, La Pietra, 1977.
    12. In particolare i quattro volumi dell’opera Gli italiani in Africa orientale, pubblicati dall’editore Latera fra il 1976 e il 1987.
    13. Gli Italiani in Libia, due volumi pubblicati da Mondadori nel 1997.
    14. Eric Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell'avventura coloniale (1911-1931), Milano, SugarCo, 1979.
    15. Giuseppe Mayda, Cinquant’anni fa, in Abissinia, in “La Stampa”, 13.7. 1985; Ugo Buzzolan, Com’era buio quel posto al sole, in “La Stampa”, 3.10.1985; Arminio Savioli, Guerra d’Etiopia Vietnam italiano, in “l’Unità”, 3.10.1985; Beniamino Placido, 19 salve di cannone. E Craxi ringraziò: Africa, ciao, in “la Repubblica” 6/7.10.1985.
    16. Cfr. Nevenka Troha, La questione delle “foibe” negli archivi sloveni e Italiani, in Jože Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Torino, Giulio Einaudi editore, 2009, pp. 245-294, qui pp. 245 s.
    17. Tone Ferenc, La provincia “italiana” di Lubiana. Documenti 1941-1942, Udine, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, 1994.
    18. Marco Cuzzi, L’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943), Roma, Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio storico, 1998.
    19. Si vedano: L’Italia fascista potenza occupante: lo scacchiere balcanico, dossier monografico a cura di Brunello Mantelli in “Quale storia”, XXX, n. 1, giugno 2002; Davide Rodogno, Il Nuovo Ordine Mediterraneo. Le politiche di occupazione dell'Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino, Bollati Boringhieri, 2003; Costantino di Sante (a cura di), Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Verona, ombre corte, 2005; Davide Conti, L'occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della "brava gente" (1940-1943), Roma, Odradek, 2008; Elena Aga Rossi, Maria Teresa Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani, Bologna, Società editrice il Mulino, 2011; Amedeo Osti Guerrazzi, L’Esercito italiano in Slovenia 1941-1943. Strategie di repressione antipartigiana, Roma, Viella, 2011.
    20. Va peraltro segnalato il successo di una contemporanea iniziativa congiunta della Società di Studi Fiumani di Roma e dello Hrvatski Institut za Povijest di Zagabria, sulle vittime italiane a Fiume, che rivestiva anche un carattere di ufficialità politica, avendo avuto l’alto patronato del Presidente della Repubblica italiana Oscar Luigi Scalfaro e l’approvazione del Presidente della Repubblica di Croazia Franjo Tudman. Ne è scaturito un volume bilingue: Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski (a cura di), Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-47) - Žrtve talijanske nacionalnosti u Rijeci i okolici (1939-1947), Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per gli Archivi, 2002.
    21. All’inizio la Commissione comprendeva per la parte italiana Sergio Bartole (copresidente), Fulvio Tomizza, Lucio Toth, Fulvio Salimbeni, Elio Apih, Paola Pagnini e Angelo Ara. Per diversi motivi si sono avute le dimissioni del copresidente, sostituito da Giorgio Conetti, e di Fulvio Tomizza e Elio Apih, sostituiti con Marina Cataruzza e Raoul Pupo. Per la parte slovena furono nominati Milica Kacin Wohinz (copresidente), France Dolinar, Boris Gombac, Branko Marušic, Boris Mlakar, Nevenka Troha e Andrej Vovko. Boris Mlakar si dimise dapprima e fu sostituito da Aleksander Vuga, ma rientrò successivamente in seguito alle dimissioni di Boris Gombac.
    22. Relazione della Commissione italo-slovena sui rapporti fra i due Paesi fra il 1880 e il 1956, in “Storia contemporanea in Friuli”, XXX (2000), n. 31, pp. 9 – 35, qui p. 28. Il testo sloveno in Slovensko-italijanski odnosi 1880-1956. Porocilo slovensko - italijanske zgodovinsko - kulturne komisije (Koper - Capodistria, 25. julij 2000), Ljubljana, Nova revija, 2001.
    23. Relazione della Commissione italo-slovena …, cit., p. 28
    24. Ministero della Pubblica Istruzione, Decreto n 682 del 4.11.1996: Modifiche delle disposizioni relative alla suddivisione annuale del programma di Storia.
    25. Cfr. Sotto-commissione dell’Educazione della Commissione Alleata in Italia, La politica e la legislazione scolastica in Italia dal 1922 al 1943, con cenni introduttivi sui periodi precedenti e una parte conclusiva sul periodo post-fascista…, Garzanti, 1947, p. 389.
    26. M. Ajello, Cari ragazzi, finalmente scoprirete un secolo. Il vostro, in “Il Messaggero”, 1 ottobre 1996.
    27. Il progetto Berlinguer? Che brividi! (La stanza di Montanelli), in “Corriere della Sera”, 5 ottobre 1996.
    28. Per una ricostruzione generale si veda Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Torino, Giulio Einaudi editore, 2004.
    29. Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, Milano, Sperling & Kupfer, 2003.
    30. Quando la storia diventa una favola... sinistra!, s.n.t.
    31. L’edizione qui presa in esame è Augusto Camera, Renato Fabietti, Elementi di storia. XX secolo, quarta edizione, Bologna, Zanichelli, 1999.
    32. Camera dei Deputati- XIII Legislatura, Resoconto stenografico dell'Assemblea, Seduta n. 811 del 15.11.2000.
    33. Wanda Valli, Berlusconi sulla scuola “No ai testi marxisti” ,in “la Repubblica”, 13.11.2000.
    34. Augusto Camera, Renato Fabietti, L’età contemporanea, Bologna, Zanichelli, 1987, p. 1373.
    35. Augusto Camera, Renato Fabietti, Elementi di storia. XX secolo, Bologna, Zanichelli, 1999, pp. 1564-1568.
    36. Ivi, p. 1565.
    37. Questo brano, da considerarsi solo esemplare, è tratto da Adriano Prosperi, Paolo Viola, Corso di storia. Il secolo XX, Milano, Einaudi scuola, 2000, pp. 224 e 231. Gli altri manuali presi in considerazione sono: Alberto De Bernardi, Scipione Guarracino, La conoscenza storica. Manuale. 3. Il Novecento, Milano, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 2000; A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Storia, documenti. storiografia. Il mondo contemporaneo, Roma – Bari, Editori Laterza, 19941, p. 951; Luca Baldissara,  Stefano Battilossi, Corso di storia e percorsi di approfondimento, nuove edizione, con temi di educazione civica e lezioni di metodo. Volume 3, il Novecento, Firenze, Sansoni per la Scuola, 2003; Massimo Cattaneo, Claudio Canonici, Albertina Vittoria, Manuale di storia. Il Novecento e il nuovo millennio, Bologna, Zanichelli, 2009, pp. 375 s; Pietro Cataldi, Ennio Abate, Sara Luperini, Lidia Marchiani, Cinzia Spingola, Di fronte alla storia. Eventi, persone, luoghi fra passato e presente. 3. Il Novecento e oltre (dal 1914 a oggi), Palermo, G. B. Palumbo editore, 2009, p. 238
    38. Alberto Mario Banti, Il senso del tempo. Manuale di storia. 1870-oggi, Roma-Bari, Editori Laterza, 2008, pp. 455 s.
    39. Legge 30 marzo 2004, n. 92: Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati, in “Gazzetta Ufficiale” n. 86, 13.4.2004.
    40. Camera dei Deputati, Atti parlamentari, XIV Legislatura — Discussioni — Seduta dell’11 febbraio 2004 — N. 422, p. 28.
    41. Peraltro neppure un governo di centrosinistra ha ritenuto di intervenire in tal senso. Ad una interrogazione in proposito presentata l’8 febbraio 2007, dalla deputata Anna Maria Cardano, di Rifondazione comunista, il Ministero degli Esteri rispose infatti che “tenuto quindi conto anche del lungo tempo trascorso, non appare opportuna una nuova pubblicazione ufficiale della relazione, mentre potrebbe essere utile una sua diffusione nel mondo della cultura e della scuola” (Atto Camera, Risposta scritta pubblicata mercoledì 30 maggio 2007 nell'allegato B della seduta n. 161 all'interrogazione 4-02510 presentata da Cardano).
    42. Bojan Brezigar, Globlji pomen “dneva kasneje”, in “Primorski dnevnik”, 1.9.2005.
    43. Zakon o praznikih in dela prostih dnevih v Republiki Sloveniji uradno precišceno besedilo, in  “Uradni list Republike Slovenije”, n. 112 / 15 dicembre  2005, pp. 12019 s.
    44. Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e per l’Autonomia Scolastica (a cura della), Le vicende del confine orientale ed il mondo della scuola, in “Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istruzione”, 133/2010.
    45. Giovanni Codovini,  Dino Renato Nardelli, Le Foibe. Una storia dai confini mobili. Archivio simulato per la scuola secondaria di secondo grado, Perugia, Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea, 2005.
    46. Pierluigi Pallante (a cura di), Il giorno del ricordo. La tragedia delle foibe, presentazione di Oscar Luigi Scalfaro, Introduzione di Nicola Zingaretti, Editori Riuniti, Roma 2010.
    47. Božo Repe, Sobodna zgodovina. Zgodovina za 4. Letnik gimnazij, Ljubjiana, Modrijan, 2008, pp. 188ss, 213 ss.
    48. Franco Ceccotti – professore e storico di frontiera -  ha scritto una pagina molto sentita sulla difficoltà di insegnare questo tema, e al tempo stesso sulla passione di insegnarlo. Insegnare in una regione di frontiera, in http://www.irsml.eu/didattica/materiali-scuola/156-f-cecotti-insegnare-in-una-regione-di-frontiera
    49. Antonio Ferrara, Niccolò Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa: 1953, Il mulino, Bologna 2012
    50. Mary Wolley, T.E.A.C.H. Teaching Emotive And Controversial History: vedine la recensione in “Mundus, 1, 2006, pp. 222 s.
    51. Filippo Focardi, Il cattivo tedesco, cit., pp. 191-193

     

  • Le guerre del Novecento nelle foto. L’uso didattico di Wikimedia Commons

    di Antonio Prampolini

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