storia contemporanea

  • Il laboratorio del tempo presente. Ucraina.

    di Antonio Brusa

    1395136612Fig.1 Il cosacco ucraino e il mugiko russo si confrontano in questo disegno umoristico FonteNe abbiamo parlato spesso. Ora è il momento. La guerra entra nelle nostre case, i ragazzi non fanno che parlarne. Hanno i loro strumenti di informazione. Tik Tok li tiene al corrente dei fatti e diffonde interpretazioni incontrollate. Noi adulti siamo con gli occhi fissi sui programmi di approfondimento delle varie reti.

    Proviamo a imbastire il laboratorio.

    a. Le fonti. Nel corso della guerra sono il problema reale. Le informazioni, soprattutto quelle rilasciate dai soggetti implicati nel conflitto, fanno parte della guerra. Lo siamo anche noi, in Italia, per quanto non direttamente, per fortuna. Quindi occorre fare attenzione: chi rilascia l’informazione? qual è il suo scopo? È possibile incrociare le informazioni? Difficile trovare un soggetto perfettamente neutrale. Anche un sito pacifista, dichiaratamente neutrale nel conflitto, non lo sarà nelle informazioni, dal momento che ha uno scopo politico, nobilissimo certo, ma potenzialmente in grado di orientare il suo punto di vista.
    b. La chiacchiera televisiva. Tendenzialmente ne farei a meno. Userei solo le dichiarazioni degli attori della crisi. Farei eccezione per interventi di studiosi riconosciuti (ai quali venga lasciato il tempo giusto di esprimere un’opinione compiuta).
    c. Le fonti privilegiate dei ragazzi. Tik Tok, i social? Riproducono le altre fonti? Hanno qualcosa di particolare?
    d. Un sito di riferimento? Come abbiamo visto nel caso del Bataclan qui su HL, non esiste in Italia un sito della P.I destinato a soccorrere i docenti in frangenti di questo tipo. Tuttavia, il sito dell’Ispi è ben informato. Soprattutto segue la questione da tempo (non si è improvvisato esperto dell’Ucraina). Ovviamente si deve tenere conto che è un sito italiano, vicino tradizionalmente al nostro ministero degli esteri.
    e. Bibliografia e sitografia: da valutare con cura (spero che HL possa reclutare qualche esperto che ci aiuti).

    fd777ee126b8b6ce2b6f7e266737 1587349Fig.2 FonteCosa fare in un laboratorio del tempo presente?

    a. Si parte da un punto fermo, ineludibile: la Russia ha invaso l’Ucraina e sta bombardando (anche) obiettivi civili. Per quante attenuanti e motivi a favore possa avere, si tratta di una violazione del diritto internazionale indiscutibile.
    b. Produrre una timeline. Potrà essere di diversi tipi. Quella recente (dal 1991) e quella di lungo periodo, dall’Ottocento ad oggi: la politica zarista, la prima guerra mondiale e la prima proclamazione di indipendenza dell’Ucraina, il periodo sovietico e l’holodomor, la guerra mondiale e le stragi etniche relative (ebrei, polacchi residenti in ucraina, ucraini residenti in Polonia, ecc.), il dopoguerra, Chernobyl, il 1991 e la proclamazione dell’indipendenza, la politica culturale ucraina e russa (tese entrambe ad esasperare i rispettivi nazionalismi). Su questo, probabilmente potranno essere utili i miei due articoli sull’Ucraina, pubblicati su “Historia Magistra” (2017). Potrà essere di aiuto anche un buon manuale.
    c. Analizzare i soggetti implicati direttamente. Si può preparare una scheda economico/militare, e una nella quale si registrino le cause (soggettive) del conflitto, gli obiettivi politici, alleanze, le prospettive
    d. Analizzare i soggetti implicati indirettamente (Cina, Europa, Turchia, altri paesi)
    e. Analizzare l’attività delle organizzazioni internazionali (a partire dall’ONU)
    f. Analizzare per quanto possibile le fonti. È ovvio che la critica delle fonti è condotta a livello professionale dagli storici. Ma è importante che ci si abitui a considerare i soggetti produttori della fonte, i loro scopi e gli effetti che quella certa notizia ha sul pubblico. Ma è altrettanto importante “accorgersi” della differenza delle fonti. Non spaventiamoci se le fonti sono in lingua: il traduttore dà una buona mano, e con un po’ di discernimento ci permette di capire. Non occorre dar conto di tutte le fonti. Basta anche un lavoro esemplare su alcune.
    g. Ricostruire uno scenario, indicando il grado di certezza degli elementi presi in considerazione (le modalità didattiche saranno a scelta: collettivamente, o divisi in gruppi)
    h. Gli allievi esprimono il loro parere. Quali sono le ragioni degli uni e degli altri. Se ne discute. Lo scopo del laboratorio non è individuare “da che parte sta la scuola, o la storia”, ma mettere in grado gli allievi di esprimere un giudizio motivato.

    È una proposta. Mi piacerebbe che HL riuscisse a fare due cose: dar conto di laboratori realizzati e, in tempi brevi, dare notizie più dettagliare su bibliografie e sitografie affidabili (che per parte nostra cercheremo di preparare).

    Per incominciare, ecco i contributi di Marcello Flores e altri, sul Mulino.

  • Il Sessantotto e le risorse della rete. Sitografia per autori

    di Antonio Prampolini

    Assai consistente è la presenza del Sessantotto nel web. Numerose sono le risorse online riguardanti gli eventi e i movimenti di protesta che hanno caratterizzato nel mondo quell’anno cruciale della storia della seconda metà del Novecento. La natura globale, ipertestuale e multimediale del nuovo medium ha permesso di rappresentare il Sessantotto nelle sue diverse realtà e nei suoi molteplici aspetti.

    Le varie iniziative (conferenze/seminari, ricerche/pubblicazioni, mostre/esposizioni) poste in essere in Europa e in America per la ricorrenza dei cinquant’anni dal ‘68 hanno notevolmente accresciuto in rete le risorse (testi, immagini, audiovisivi) utilizzabili da tutti coloro che, sia pure con diverse finalità, intendono approfondire la conoscenza degli accadimenti del Sessantotto in un quadro internazionale.

    La sitografia che qui si propone è il frutto di una selezione di tali risorse. È suddivisa in due sezioni.

    La prima è la Sitografia per nazioni, a sua volta suddivisa in vari capitoli: nel mondo; in Italia; in Francia; in Germania; in Inghilterra; in Cecoslovacchia; in America. In ogni capitolo le fonti digitali sono organizzate per tipologie: Enciclopedie; Fondazioni, Agenzie/Istituti di ricerca, Enti radiotelevisivi, Archivi; Articoli, Saggi e Approfondimenti; Immagini; Cronologie; Bibliografie.

    La seconda sezione, qui sotto, è la Sitografia per autori: tutti gli autori sono ordinati in un solo elenco, in modo da facilitare il ritrovamento dei contributi. Tutti i link sono stati controllati alla data del 22/05/2020.

    SEZIONE SECONDA

    Il Sessantotto in ordine alfabetico

     

    A

    ► À babord ! Revue sociale et politique, Nous sommes héritiers de 1968,dossier pubblicato dalla rivista (n. 24 - aprile-maggio 2008).

    ► Adam-Tkalec Maritta, 68er-Proteste in Berlin: Stimmungsbild der revolutionären Bewegung, Berliner Zeitung, 12/02/2018.

    ► Albarran Elena, Davidson John E., Steigerwald David, Time It Was: 1968 Around the World, «Origins. Current Events in Historical Perspective», vol. 12, issue 4, january 2019.

    ► Alinari, Il 1968 in Italia.La protesta studentesca, collezione fotografie.

    ► Alinari, Il Maggio francese – Il movimento studentesco, collezione fotografica.

    ► Almonte Ronnie, Richard Parrish, the Black Caucus, and the 1968 Ocean Hill–Brownsville strikes, «ISR International Socialist Review», n. 111, Winter 2018-2019.

    ► Althaus Dieter, “Und es war Sommer – Das Jahr 1968 in der DDR”,nel dossier Alte und neue Mythen - Eine Streitschrift, Konrad Adenauer Stiftung, 12/11/2008.

    ► Archives nationales, 68, les archives du pouvoir, mostra basata sui documenti di archivio dello Stato francese per «scoprire il 68 dall'altro lato della barricata».

    ► Armanni Vittore, Lanzi Loretta, Puttini Spartaco, Sessantotto globale, Sessantotto plurale, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2018.

    ► Assmann Aleida, 1968 in Germany: A generation with two phases and faces, 22/06/2018.

    ► Audigier François, Les comités de défense de la République (CDR) et l’Éducation en 1968-1969. Entre combat contre la subversion marxiste et volonté réformiste, nel dossier Les oppositions aux réformes éducatives de l'après-Mai 1968, «Histoire@Politique», n. 37, janvier–avril 2019.

    ► Augias Damien, Mai 68: l'Etat à l'épreuve, «Nonfiction», 04/05/2018.

    ► Augias Damien, 68 au-delà du périphérique, «Nonfiction», 31/05/2018.

    ► Augias Damien, 68: de la "sainte thèse" aux synthèses historiques, «Nonfiction», 30/06/2018.

    B

    ► Baader Meike Sophia, Erziehung und 68, nel dossier Die 68er-Bewegung, Bundeszentrale für politische Bildung, 2008.

    ► Badiou Alain, Mai 68 à la puissance quatre,nel dossier Nous sommes héritiers de 1968 pubblicato dalla rivista «À babord ! - Revue sociale et politique», n. 24, aprile / maggio 2008.

    ► Baker Matthew, Background to 68 student movements in the United States, nel dossier Voir plus loin que mai: les mouvements étudiants dans le monde en 1968, Sciences Po, 2018.

    ► Ballot Nicolas, Blain Didier, Primault Dominique, Que reste–t–il de mai 68?, 25/05/2018.

    ► Barberis Giorgio, Ivan Illich e la Teologia della Liberazione, videoconferenza in Figure e interpreti del Sessantotto, Fondazione Luigi Micheletti, a.s. 2017/2018.

    ► Barker Colin, Some Reflections on Student Movements of the 1960s and Early 1970s, in «Revista Crítica de Ciências Sociais», 81/2008.

    ► Barral Véronique e Mouaoued Latifa, Mai 68 dans le monde, raccolta di fotografie, disegni e manifesti sulle proteste del maggio ‘68 suddivisa per continenti.

    ► Beaux-Arts de Paris, Images en lutte La culture visuelle de l’extrême gauche en France (1968-1974), Exposition du 21 février au 20 mai 2018 Palais des Beaux-Arts.

    ► Becker Heike, South African student protests, 1968 to 2016. Dissent, disruption, decolonization, «ISR International Socialist Review», n. 111, Winter 2018-2019.

    ► Behrent Megan, May 1968 and the revolt of the lycéens, «ISR International Socialist Review», 02/05/2019.

    ► Benci Antonio, E’ scoppiata la rivoluzione…” Il maggio francese e il movimento del Sessantotto in Italia, «Storicamente», 2009.

    ► Benda Ernst, Nicht nur Blumenkinder. Die 68er und ihre Leistungen, nel dossier Alte und neue Mythen - Eine Streitschrift, Konrad Adenauer Stiftung, 12/11/2008.

    ► Benda Stepan, Rudi Dutschke in Prag 1968, nel dossier Prag 1968, Bundeszentrale für politische Bildung, 2018.

    ► Biagi Francesco e Pezzella Mario, Henri Lefebvre e la trasformazione del marxismo, videoconferenza in Figure e interpreti del Sessantotto, Fondazione Luigi Micheletti, a.s. 2017/2018.

    ► Bibliothèque Interuniversitaire de la Sorbonne, Mai 68. Dans les fonds de la Bibliothèque Interuniversitaire de la Sorbonn, 30/04/2018.

    ► Birke Peter, 1968 in Germany, nel dossier Voir plus loin que mai: les mouvements étudiants dans le monde en 1968, Sciences Po, 2018.

    ► Bogucka Teresa, Poland in 1968: “The freedom we needed so badly was so obvious elsewhere”,in 1968 revisited 40 years of protest movements, a cura di Nora Farik, Heinrich Böll Foundation, 2008.

    ► Böll Heinrich, Toni Krahl: "Prag war einfach ein Lebensgefühl"; "Moskaus moralischer Bankrott..."Ein Brief aus Prag”,nel dossier Prag 1968, Bundeszentrale für politische Bildung, 2018.

    ► Bond Niall, Allemagne 68,nel dossier Mai 68 dans le monde. Le jeu d'échelles, in «Histoire@Politique», 2008/3 – 6.

    ► Bond Niall, Démocratie et opposition extraparlementaire en Allemagne sous la Grande Coalition, nel dossier Les héritages de Mai 68 ? a cura di Christophe Premat e Carole Dely, «Paris Match», 16/02/2009.

    ► Bongiovanni Bruno, Sessantotto, Enciclopedia dei ragazzi -Treccani, 2006.

    ► Borchard Michael, Religiös unmusikalisch? Ideologische Ziele einer Lehrergeneration?, nel dossier Alte und neue Mythen - Eine Streitschrift, Konrad Adenauer Stiftung, 12/11/2008.

    ► Bordron Maïwenn e Contreras Maria, 13 mai 1968 : la journée de l'unité, 13/05/2018.

    ► Borowsky Peter, Das Ende der "Ära Adenauer", nel dossier Die 68er-Bewegung, Bundeszentrale für politische Bildung, 2008.

    ► Boulouque Sylvain, Maoïsme et ses critiques en France, «Nonfiction», 29/03/2018.

    ► Boulouque Sylvain, Du militantisme à l’histoire, «Nonfiction», 19/04/2018.

    ► Boulouque Sylvain, Le militant inconnu de Mai 68, «Nonfiction», 07/06/2018.

    ► Boulouque Sylvain, Mai 68 aux bords du Rhin,«Nonfiction», 14/06/2018.

    ► Brown Timothy S., 1968. Transnational and Global Perspectives, «Docupedia Zeitgeschichte», 11/06/2012.

    ► Brown University Library, 1968: Bibliography.

    ► Bundeszentrale für politische Bildung, Die 68er-Generation, dossier sul ‘68 in Germania, 26/05/2002.

    ► Bundeszentrale für politische Bildung, Die 68er-Bewegung, dossier sul ‘68 in Germania e nel mondo, 2008.

    ► Bundeszentrale für politische Bildung, Prag 1968, dossier sulla “Primavera di Praga”, 2018.

    ► Burkett Jodi, The National Union of Students [UK] and transnational solidarity, 1958–1968, «European Review of History», vol. 21, 2014.

    ► Buton Philippe, Les gauchistes et la question de la participation dans les universités, nel dossier Les oppositions aux réformes éducatives de l'après-Mai 1968, «Histoire@Politique», n. 37, janvier–avril 2019.

    C

    ► Campanozzi Simone, I giovani ribelli della “Zanzara” e le origini del ´68, <novecento.org>, 8, 2017.

    ► Capovin René, Luc Boltanski interprete e critico del Sessantotto, videoconferenza in Figure e interpreti del Sessantotto, Fondazione Luigi Micheletti, a.s. 2017/2018.

    ► Capovin René, Interpreti francesi del '68: Bourdieu, Castoriadis, De Certeau, videoconferenza in Figure e interpreti del Sessantotto, Fondazione Luigi Micheletti, a.s. 2017/2018.

    ► Capovin René e Dalla Vigna Pierre, Mario Perniola e l'avventura situazionista,videoconferenza in Figure e interpreti del Sessantotto, Fondazione Luigi Micheletti, a.s. 2017/2018.

    ► Cappitti Massimo, La critica anticipatrice di Rosa Luxemburg, videoconferenza in Figure e interpreti del Sessantotto, Fondazione Luigi Micheletti, a.s. 2017/2018.

    ► Caraco Benjamin, Sousles clichés, l’Histoire, «Nonfiction», 22/03/2018.

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    ► Casilio Silvia, Controcultura e politica nel Sessantotto italiano. Una generazione di cosmopoliti senza radici, nel dossier Il sessanotto, e dopo?, «Storicamente», 2009.

    ► Centro Studi Piero Gobetti, Quarant'anni fa il Sessantotto, bibliografia con relativi abstract, 2008.

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    ► Chabot Alexis, Condat Carole, Dalançon Alain, Hubert Roland, Leiritz Matthieu, Actualité de Mai 68.Dossier, 21/05/2008.

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    ► CIA (Central Intelligence Agency), A Look Back … The Prague Spring & the Soviet Invasion of Czechoslovakia, last updated: Apr 30, 2013.

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    ► Cohn-Bendit Daniel (interview with), “Today the big political game is ‘bashing the 1960s’”in 1968 revisited 40 years of protest movements, a cura di Nora Farik, Heinrich Böll Foundation, 2008.

    ► Condette Jean-François, «Mai 1968 en perspective» Ruptures et continuités, accélérations et résistances à la réforme dans le champ éducatif (1968-1975), nel dossier Les oppositions aux réformes éducatives de l'après-Mai 1968, «Histoire@Politique», n. 37, janvier–avril 2019.

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    ► Dadà Adriana e Tozzi Tommaso, L’immagine nella protesta – L’immaginario visuale del sessantotto tra reale e virtuale, stage realizzato nell'anno accademico 2014-2015 presso l'Accademia di Belle Arti di Firenze, Corso di Teoria e Metodo dei Mass Media.

    ► Danie Alexander, 1968 in Moscow – A Beginning, in 1968 revisited 40 years of protest movements, a cura di Nora Farik, Heinrich Böll Foundation, 2008.

    ► Dassas Véronique, Quelques notes sur le féminisme aux États-Unis en 1968, nel dossier Nous sommes héritiers de 1968, «À babord ! - Revue sociale et politique», n. 24, aprile / maggio 2008.

    ► De La Chevalerie Xavier, Les journées de mai 1968 à l’Elysée et leur épilogue, nel dossier Mai 68 della Fondation Charles De Gaulle, 2018.

    ► De Luna Giovanni, Pasolini e il '68, videoconferenza in Figure e interpreti del Sessantotto, Fondazione Luigi Micheletti, a.s. 2017/2018.

    ► Della Porta Donatella ( a cura di), Memory in Movements.1968 in 2018, «Annale 2018», Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

    ► Dely Carole e Premat Christophe (a cura di), Les héritages de Mai 68 ?, dosier in «Paris Match», 16/02/2009.

    ► Desvignes Arnaud, Les enjeux de la participation dans le monde universitaire de la loi Faure à l’abrogation de la loi Sauvage (1968-1981), nel dossier Les oppositions aux réformes éducatives de l'après-Mai 1968, «Histoire@Politique», n. 37, janvier–avril 2019.

    ► Devers-Dreyfus Nicolas, Mai 68: Chronologie des évènements, 20/09/2008.

    ► Di Méo Nicolas, Ce que Mai 68 a fait aux avant-gardes, «Nonfiction», 10/05/2018.

    ► Di Scianni Laura, Capelloni, moda, Inghilterra e Beatles: i simboli della contestazione giovanile nell’Italia degli anni Sessanta, in «Storia e Futuro», n. 26, giugno 2011.

    ► Diamond Andrew e Rolland-Diamond Caroline, Au-delà du Vietnam: Chicago 1968 et l'autre mouvement étudiant-lycéen, nel dossier Mai 68 dans le monde. Le jeu d'échelles, in «Histoire@Politique», 2008/3 – 6.

    ► Dogan Mattei, La classe politique prise de panique en mai 1968 : comment la guerre civile fut évitée?, nel dossier Les héritages de Mai 68 ? a cura di Christophe Premat e Carole Dely, 16/02/2009.

    ► Dreyfus-Armand Geneviève, Les années 1968, ou la jeunesse du monde,avril 2008.

    ► Duart Guillaume, Le mouvement étudiant de 1968 à Mexico, nel dossier Voir plus loin que mai: les mouvements étudiants dans le monde en 1968, Sciences Po, 2018.

    ► Duarte Sandra, Mai 68 dans la presse catholique portugaise, nel dossier Les héritages de Mai 68 ? a cura di Christophe Premat e Carole Dely, «Paris Match», 16/02/2009.

    ► Dülffer Meike, 1968 - Eine europäische Bewegung?, nel dossier Die 68er-Bewegung, Bundeszentrale für politische Bildung, 2008.

    ► Duvoux Nicolas e Naudet Jules, Une contre-histoire de Mai 68, 21/05/2018.

    ► Echeverría V. Pedro, Mouvement étudiant mexicain de 1968 : que s’est-il passé au Yucatan et quelles furent les réactions de la presse ?, nel dossier Les héritages de Mai 68 ? a cura di Christophe Premat e Carole Dely, «Paris Match», 16/02/2009.

    E

    ► Éduquer, Mai 68, un «vieux monde» derrière nous?, dossier a cura di Martine Vandemeulebroucke, n.138, maggio 2018.

    ► Eisel Stephan, Gewaltverharmlosung als 68er-Erbe, nel dossier Alte und neue Mythen - Eine Streitschrift, Konrad Adenauer Stiftung, 12/11/2008.

    ► El Waer Moutaa Amine, «Mars 68» et le non-mai 68 tunisien, nel dossier Voir plus loin que mai: les mouvements étudiants dans le monde en 1968, Sciences Po, 2018.

    ► Elger Katrin e Friedmann Jan, Die 68er.Chronik einer Rebellion, 11/04/2008.

    ► Eltchaninoff Marie-Nadine, Que reste–t–il de mai 68?, 18/05/2018.

    ► Encyclopædia Britannica, voci: Events of May 1968 (Richard Wolin); The Prague Spring (John F.N. Bradley, Z.A.B. Zeman, Milan Hauner).

    ► Encyclopédie Larousse, Événements de mai 1968, nel dossier sulla Ve République.

    F

    Fahlenbrach Katrin, Zwischen Faszination, Grauen und Vereinnahmung, nel dossier Die 68er-Bewegung, Bundeszentrale für politische Bildung, 2008.

    ► Faloppa Federico e Rabini Edi, Alexander Langer: un percorso esemplare,

    videoconferenza in Figure e interpreti del Sessantotto, Fondazione Luigi Micheletti, a.s. 2017/2018.

    ► Farin Klaus, Swinging Sixties, nel dossier Die 68er-Bewegung, Bundeszentrale für politische Bildung, 2008.

    ► Ferrara Enzo, Giulio Maccacaro e Medicina democratica,videoconferenza in Figure e interpreti del Sessantotto, Fondazione Luigi Micheletti, a.s. 2017/2018

    ► Fissore Gianpaolo, Al cinema nel Sessantotto,in «Storicamente», 2009.

    ► Fondation Charles De Gaulle, Mai 68. Il dossier contiene, oltre a documenti di archivio e ad una cronologia degli eventi, diverse testimonianze.

    ► Fondation Jean Jaurès, Archives socialistes, fondi archivistici conservati dalla fondazione sugli eventi del maggio 1968 in Francia.

    ► Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Memory in Movements.1968 in 2018, «Annale 2018», a cura di Donatella Della Porta.

    ► Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, Bibliografia ragionata sui movimenti del Sessantotto – Monografie, a cura di Marco Torello, 2017.

    ► Fondazione Livorno, Il mio ´68. Storie raccontate dai protagonisti, a cura di Stefania Fraddanni, 2018.

    ► Fondazione Luigi Micheletti, Figure e interpreti del Sessantotto, ciclo di seminari, anno scolastico 2017/2018.

    ► Forestier Yann, La presse de l’après-68 face à l’évolution de l’école : du malaise à la consécration d’une lecture idéologique, nel dossier Les oppositions aux réformes éducatives de l'après-Mai 1968, «Histoire@Politique», n. 37, janvier–avril 2019.

    ► Fraddanni Stefania (a cura di), Il mio ´68.Storie raccontate dai protagonisti, Fondazione Livorno, 2018.

    ► Frost Matthew, Czech Republic: A Chronology Of Events Leading To The 1968 Invasion, 09/08/1998.

    ► Fücks Ralf, What is left? 1968 revisited, in 1968 revisited 40 years of protest movements, a cura di Nora Farik, Heinrich Böll Foundation, 2008.

    G

    ► Gambino Ferruccio, Malcolm X e la rivolta dei neri americani, videoconferenza in Figure e interpreti del Sessantotto, Fondazione Luigi Micheletti, a.s. 2017/2018.

    ► Gattaz Yvon, Le drame économique de Mai 68, nel dossier Mai 68 della Fondation Charles De Gaulle, 2018.

    ► Gauger Jörg-Dieter, “68” – Wirkung auf Bildung und Erziehung, nel dossier Alte und neue Mythen - Eine Streitschrift, Konrad Adenauer Stiftung, 12/11/2008.

    ► Geldern (von) Wolfgang, Jenseits der Barrikaden, nel dossier Alte und neue Mythen - Eine Streitschrift, Konrad Adenauer Stiftung, 12/11/2008.

    ► Getty Images, Prague Spring, photo gallery.

    ► Gobille Boris, L'événement Mai 68(Pour une sociohistoire du temps court), in «Annales. Histoire, Sciences Sociales», 2008/2 (63e année).

    ► Gobille Boris, Mai 68, Repères bibliographiques, 2009.

    ► Goethe-Institut, Wendepunkt 1968, dossier sul ‘68 in Germania.

    ► Gogos Manuel, "The Whole World is Watching"Internationale Solidarität und Synergien 1968, nel dossier Die 68er-Bewegung, Bundeszentrale für politische Bildung, 2008.

    ► Graziani Nicola, 50 Anni Fa Cominciava La Primavera Di Praga. L'eredità Di Una Rivoluzione Fallita, 05/01/2018.

    ► Grispigni Marco e Musci Leonardo (a cura di), Guida alle fonti per la storia dei movimenti in Italia (1966-1978), Ministero per i beni e le attività culturali - Direzione generale per gli archivi, 2003.

    ► Grossmann Robert, Mai 68, la révolution avec de Gaulle, nel dossier Mai 68 della Fondation Charles De Gaulle, 2018.

    ► Guadagni Davide, Cronologia del 1968 nel mondo e a Pisa, in Il mio ´68. Storie raccontate dai protagonistitra Pisa e Livorno, a cura di Stefania Fraddanni, La Fondazione per la scuola – Fondazione Livorno, 2018.

    ► Guerrieri Loredana, La giovane destra neofascista italiana e il '68 Il gruppo de «L'Orologio», nel dossier Il sessanotto, e dopo?, «Storicamente», 2009.

    ► Gunthert André, La “Marianne” de Mai 68, ou l’effet Disneyland, 19/12/2018.

    H

    ► Habib-Deloncle Michel, 30 mai 1968: non à la «chienlit», nel dossier Mai 68 della Fondation Charles De Gaulle, 2018.

    ► Hammerstein Katrin, Wider den Muff von 1000 Jahren.Die 68er Bewegung und der Nationalsozialismus, nel dossier Die 68er-Bewegung, Bundeszentrale für politische Bildung, 2008.

    ► Heartfield James, May 1968 in the United Kingdom, 20/05/2018.

    ► Heinrich Böll Foundation, 1968 revisited 40 years of protest movements, raccolta di saggi a cura di Nora Farik sul ‘68 in Europa, Brasile e Sud Africa, con interviste ai protagonisti dei movimenti di protesta in Germania e in Francia, 2008.

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  • Il Sessantotto e le risorse della rete. Sitografia per nazioni

    di Antonio Prampolini

    Assai consistente è la presenza del Sessantotto nel web. Numerose sono le risorse online riguardanti gli eventi e i movimenti di protesta che hanno caratterizzato nel mondo quell’anno cruciale della storia della seconda metà del Novecento. La natura globale, ipertestuale e multimediale del nuovo medium ha permesso di rappresentare il Sessantotto nelle sue diverse realtà e nei suoi molteplici aspetti.

    Le varie iniziative (conferenze/seminari, ricerche/pubblicazioni, mostre/esposizioni) poste in essere in Europa e in America per la ricorrenza dei cinquant’anni dal ‘68 hanno notevolmente accresciuto in rete le risorse (testi, immagini, audiovisivi) utilizzabili da tutti coloro che, sia pure con diverse finalità, intendono approfondire la conoscenza degli accadimenti del Sessantotto in un quadro internazionale.

    La sitografia che qui si propone è il frutto di una selezione di tali risorse. È suddivisa in due sezioni.

    La prima, qui sotto, è la Sitografia per nazioni, a sua volta suddivisa in vari capitoli: nel mondo; in Italia; in Francia; in Germania; in Inghilterra; in Cecoslovacchia; in America. In ogni capitolo le fonti digitali sono organizzate per tipologie: Enciclopedie; Fondazioni, Agenzie/Istituti di ricerca, Enti radiotelevisivi, Archivi; Articoli, Saggi e Approfondimenti; Immagini; Cronologie; Bibliografie.

    La seconda sezione è la Sitografia per autori: tutti gli autori sono ordinati in un solo elenco, in modo da facilitare il ritrovamento dei contributi. Tutti i link sono stati controllati alla data del 22/05/2020.

    SEZIONE PRIMA

    La geografia del Sessantotto

    NEL MONDO

     

    La mappa geografica dei movimenti di protesta1. La mappa geografica dei movimenti di protesta

    Enciclopedie

    ► L’edizione in lingua italiana di Wikipedia contiene una voce Sessantotto, dedicata ai movimenti sociali, culturali e politici di massa che si sono manifestati in Italia e nel mondo (Europa, America, Cina) nel 1968, il cui tratto comune (pur nella specificità delle diverse realtà nazionali) consisterebbe nella «forte carica di contestazione contro gli apparati di potere dominanti e le loro ideologie». La voce, che fornisce un quadro sintetico dei vari movimenti (origini, caratteristiche, azione, obiettivi), viene segnalata dalla stessa enciclopedia (alla data del 22/05/2020) come non “neutrale”, in quanto «tratta l'argomento quasi esclusivamente dal punto di vista dei manifestanti (studenti, operai, etc.) schierandosi dalla loro parte», ed anche «carente di note e riferimenti bibliografici puntuali».

    ► La voce Protests of 1968 dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia informa brevemente sui numerosi movimenti di protesta che nel mondo hanno caratterizzato il 1968, rinviando alle voci di approfondimento dell’enciclopedia sulle diverse esperienze nazionali.

    ► L’edizione in lingua francese di Wikipedia con la voce Mouvements sociaux de 1968 dans le monde propone una cronologia delle proteste che si sono succedute nelle diverse parti del mondo dal mese di febbraio a quello di ottobre del 1968.

    ► La voce 68er-Bewegung dell’edizione in lingua tedesca di Wikipedia descrive i principali movimenti di contestazione in Europa e in America alla fine degli anni sessanta utilizzando un’ampia biliografia in materia.

    ► Il portale <treccani.it> pubblica online la voce Sessantotto dell’Enciclopedia dei ragazzi. La voce, a firma dello storico Bruno Bongiovanni, ripercorre brevemente la storia dei movimenti giovanili dai campus americani alle università e alle piazze europee, concludendo la sua analisi con capitolo dedicato al tramonto del Sessantotto e alla sua eredità.

    Fondazioni, Agenzie / Istituti di ricerca, Enti radiotelevisivi, Archivi

    ► Il sito della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli propone alcuni interessanti approfondimenti sul Sessantotto: Sessantotto globale, Sessantotto plurale di Vittore Armanni, Loretta Lanzi, Spartaco Puttini; Le eredità ambigue del Sessantotto del sociologo e politologo britannico John Crouch; La primavera, l’estate, l’autunno e l’inverno di Praga di Alessia Masini. In occasione della ricorrenza dei 50 anni dal 1968, la Fondazione ha dedicato l’Annale 2018 (Memory in Movements.1968 in 2018, a cura di Donatella della Porta) alle memorie e alle eredità dei movimenti del Sessantotto. La prima parte dell’Annale contiene studi sulle diverse realtà nazionali in Europa e in America (Italia, Francia, Grecia, Spagna, Germania, Est Europa, America Latina). La seconda è costituita dai documenti conservati negli archivi della Fondazione e provenienti da differenti aree culturali, politiche e geografiche (Stati Uniti, Francia, Germania, Italia, Cina, Polonia, Cecoslovacchia, Giappone).

    ► La Fondazione Luigi Micheletti ha organizzato nel corso dell’anno scolastico 2017/2018 un ciclo di seminari dal titolo Figure e interpreti del Sessantotto. Dal sito della Fondazione è possibile accedere alle registrazioni audio-video dei seminari. In questa sezione della sitografia ci limitiamo a segnalare: Luc Boltanski interprete e critico del Sessantotto - Conferenza di René Capovin; Le ambivalenze del '68 in Hannah Arendt - Conferenza di Eugenia Lamedica; La critica anticipatrice di Rosa Luxemburg - Conferenza di Massimo Cappitti; Malcolm X e la rivolta dei neri americani- Conferenza di Ferruccio Gambino; Herbert Marcuse e il '68 - Conferenza di Marco Maurizi; Lacan e il discorso del capitale - Conferenza di Mario Pezzella; Henri Lefebvre e la trasformazione del marxismo - Conferenza di Francesco Biagi e Mario Pezzella; Interpreti francesi del '68: Bourdieu, Castoriadis, De Certeau - Conferenza di René Capovin; Alexander Langer: un percorso esemplare - Conferenza di Federico Faloppa ed Edi Rabini; Ivan Illich e la Teologia della Liberazione- Conferenza di Giorgio Barberis.

    ► La Heinrich Böll Foundation ha pubblicato nel 2008 una raccolta di saggi a cura di Nora Farik sul ‘68 in Europa, Brasile e Sud Africa, con interviste ai protagonisti dei movimenti di protesta in Germania e in Francia, 1968 revisited 40 years of protest movements: What is left?1968 revisited (introduction by Ralf Fücks); 1968 – Again! Reference year for an age. The events in Brazil (Marcelo Ridenti); Poland in 1968: “The freedom we needed so badly was so obvious elsewhere” (Teresa Bogucka); 1968: Czechoslovakia (Oldřich Tůma); 1968 in Moscow – A Beginning (Alexander Danie); 1968 – An East German Perspective (Wolfgang Templin); Apartheid South Africa in 1968: Not quite business as usual (Bill Nasson); Belgrade, June 1968 (Nebojša Popov); May 1968 in Belgium: The crack bursts open(Benoît Lechat). Germany 1968 – SDS, Urban Guerillas and Visions of Räterepublik (interview with Klaus Meschkat), “Today the big political game is ‘bashing the 1960s’” (interview with Daniel Cohn-Bendit).

    ► Il sito della Bundeszentrale für politische Bildung (l’Agenzia federale tedesca per l’educazione civica) permette di accedere ad un ampio dossier (Die 68er-Bewegung) sui movimenti del ‘68. Il dossier (datato 2008) comprende testi di approfondimento, video, chat, link, glossari sui diversi aspetti del Sessantotto in Germania e nel mondo. La sezione 68 internationalpropone i seguenti articoli: "The Whole World is Watching"Internationale Solidarität und Synergien 1968 di Manuel Gogos; 1968 als transnationales Ereignis di Martin Klimke; 1968 - Eine europäische Bewegung? di Meike Dülffer; Die Arbeiter und "1968" in West- und Südeuropa di Gerd-Rainer Horn; Der "Prager Frühling" di Stefan Karner.

    ► L’Istituto di studi politici Sciences Po ha pubblicato nel 2018 sul proprio sito il dossier Voir plus loin que mai: les mouvements étudiants dans le monde en 1968. Indice del dossier : 1968 a été un accelélérateur des changements di Gerard-Rainer Horn; 1968, Une année de mobilisations étudiantes dans le monde (chronologie); Dakar, mai 68 di Christelle Lamy; Un « mai anglais » ? di Marie Scot; 1968 in Germany di Peter Birke; Background to 68 student movements in the United States di Matthew Baker; Le mouvement étudiant de 1968 à Mexicodi Guillaume Duart; Les étudiants japonais en 1968di Grégoire Sastre; The Polish 1968 student revolt di Tom Junes; Le long 68 italien di Giulia Strippoli; « Mars 68 » et le non-mai 68 tunisien di Moutaa Amine El Waer; Bibliographie.

    Rai Storia ha realizzato un racconto suddiviso in 12 puntate, per descrivere i mesi del 1968. Un racconto (1968. Niente come prima) basato sulla selezione dei programmi televisivi di cronaca, di costume e di spettacolo che hanno caratterizzato il Sessantotto.

    Rai Radio 3 – Wikiradio permette di accedere ai podcast del proprio archivio (2012-2019) che trattano argomenti attinenti al ‘68, Storie di Sessantotto in Italia enel mondo. Tra i podcast segnaliamo: Il maggio francese(Luisa Passerini); L’occupazione del Politecnico di Varsavia (Guido Crainz); Il movimento studentesco in Giappone (Marco Del Bene); Rudi Dutschke (Paolo Soldini).

    Rai Easy Web propone una selezione di programmi radiofonici tratti dai propri archivi, 1968-2018: i cinquant’anni della contestazione giovanile.

    ► Sul sito della RSI Radiotelevisione svizzera di lingua italianaè possibile ascoltare nel dossier Cinquant’anni fa, il 1968 registrazioni audio relative a interviste, racconti, servizi giornalistici sui movimenti di protesta del Sessantotto in Svizzera, Francia, Italia, Belgio, Cecoslovacchia, Stati Uniti.

    Le Monde Diplomatique ha realizzato nel 2018 un dossier, Il y a cinquante ans 1968, dedicato ai movimenti di protesta in Francia e nel mondo con numerosi articoli tratti dal proprio archivio.

    ► Sul sito del settimanale L’Espresso è possibile di accedere all’archivio degli articoli pubblicati tra il 1965 e il 1969 attinenti ai movimenti di contestazione in Italia e nel mondo: Il ‘69. Temi, Foto e Autori.

    Articoli, Saggi e Approfondimenti

    ► Sul sito della rivista francese «À babord ! - Revue sociale et politique»è possibile consultare Une embellie en mai, una raccolta di articoli e dossier della rivista sul ‘68 in Francia, Italia, Cecoslovacchia, Québec, Stati Uniti, Messico.

    ► La rivista «Histoire@Politique» del Centre d'histoire de Sciences Po ha pubblicato nel 2008 (2008/3 – 6) il dossier Mai 68 dans le monde. Le jeu d'échelles. Il dossier comprende i seguenti articoli: Introduction di Emmanuelle Loyer; Allemagne 68 di Niall Bond; Mouvement de mars 1968 en Pologne et ses liens de parenté avec la contestation dans le mondedi Georges Mink; 1968 entre Varsovie et Paris: un cas de transfert culturel de contestation di Martha Kirszenbaum; Y eut-il un «Mai 1968» en Angleterre? di Marie Scot; Au-delà du Vietnam: Chicago 1968 et l'autre mouvement étudiant-lycéen di Andrew Diamond et Caroline Rolland-Diamond; Les processus de diffusion des révoltes juvéniles de 1968di Isabelle Sommier; Conclusion: le moment 1968, un objet pour la World History? di Jean-François Sirinelli.

    Some Reflections on Student Movements of the 1960s and Early 1970s di Colin Barker, in «Revista Crítica de Ciências Sociais», 81/2008. Indice dell’articolo: Situating student movements; A protest wave; The global context; University expansion; Student revolt; The beginning, Berkeley 1964; The movement spreads; The Student Left; The End of the Wave; Retrospect and Prospect.

    Les années 1968, ou la jeunesse du monde di Geneviève Dreyfus-Armand (2008). Indice dell’articolo: Chronologies décalées, Tout commence en Amérique, La France avant mai, RFA: une contestation précoce, Le «mai rampant» Italien, Du Nord au Sud, En Amérique latine, Effets de miroir?.

    ► La rivista «Paris Match» ha pubblicato nel febbraio del 2009 il dossier Les héritages de Mai 68 ? a cura di Christophe Premat e Carole Dely. Il dossier comprende numerosi articoli dedicati al Sessantotto sia in Francia che nel mondo. In questa sezione della sitografia segnaliamo: Mouvement étudiant mexicain de 1968 : que s’est-il passé au Yucatan et quelles furent les réactions de la presse ? di Pedro Echeverría V.; Mai 68 dans la presse catholique portugaise di Sandra Duarte; Démocratie et opposition extraparlementaire en Allemagne sous la Grande Coalition di Niall Bond.

    ► La rivista «Storicamente» del Dipartimento di Storia dell’Università di Bologna ha pubblicato nel 2009 un dossier dedicato al ‘68, Il sessanotto, e dopo?, a cura di Marica Tolomelli, del dossier, consultabile in rete, segnaliamo in questa sezione della sitografia i seguenti articoli: Luce sul sessantotto. Introduzione di Marica Tolomelli; “È scoppiata la rivoluzione…” Il maggio francese e il movimento del Sessantotto in Italia di Antonio Benci; Al cinema nel Sessantotto di Gianpaolo Fissore; Importation du Mouvement 68 en Turquie. Circulations des idées et des pratiques di Ayşen Uysal.

    ► La rivista «ISR International Socialist Review» da dedicato, nella ricorrenza dei cinquantanni, un numero monografico ai movimenti del Sessantotto, 50 Years Since the Global Revolt, n. 111, Winter 2018-2019. Indice: 1968 in México, and 50 years later di Manuel Aguilar Mora; South African student protests, 1968 to 2016.Dissent,disruption, decolonizationdi Heike Becker; Black Power at the point of production,1968–73 di Lee Sustar; May 1968 and the revolt of the lycéens. Asking for the impossibledi Megan Behrent; May 1968: Workers and students together.May 1968 in France and its lessons di Ernest Reed; Richard Parrish, the Black Caucus, and the 1968 Ocean Hill–Brownsville strikes di Ronnie Almonte.

    Looking back with the 1968 rebels di Sean Coughlan (2011). Indice dell’articolo: Going undergroun; Generation gaps; Later years; Winners and losers.

    1968. Transnational and Global Perspectives di Timothy S. Brown (2012).

    The Boomerang of 1968: Reflections on Prague, Paris, and Moscow Fifty Years On di Andrei Kolesnikov (2018).

    Time It Was: 1968 Around the World di David Steigerwald, Elena Albarran, John E. Davidson (2019). Indice dell’articolo: Is it Still 1968? Musings on a Frozen History (David Steigerwald); Mexico and the Memory of 1968 (Elena Albarran); The Federal Republic of Germany (FRG), 1968: Fighting (for) the People (John E. Davidson).

    Immagini

    ► Sul sito della vetrina multimediale di arte, design e fotografia Keblog è possibile visionare alcune immagini relative ai movimenti giovanili di contestazione del ‘68: I giovani che vollero cambiare il mondo: i movimenti del Sessantotto in 34 immagini straordinarie.

    ► Le foto pubblicate dal settimanale L’Espresso negli articoli dedicati ai movimenti del ´68 in Italia e nel mondo.

    ► Sul sito dell’agenzia fotografica Magnum Photos: 1968: Power, Protest and Politics (Photographs from a tumultuous year of uprisings and unrest).

    ► Sul sito d’informazione Webdoc rfi, una raccolta di fotografie, disegni e manifesti sulle proteste del maggio ‘68 suddivisa per continenti: Mai 68 dans le monde.

    Cronologie

    ► Il sito Timelines of History propone una propria cronologia degli eventi del 1968 nel mondo, Timeline 1968.

    ► La rivista «À babord ! - Revue Sociale et Politique» ha pubblicato una Chronologie des événements in appendice al dossier Nous sommes héritiers de 1968.

    ► Il Lemo – Lebendiges Museum Online fornisce una cronologia (Zeitstrahl) degli eventi del 1968 (come pure degli anni precedenti e successivi), Jahreschronik 1968.

    1968, une année de mobilisations étudiantes dans le monde: cronologia degli eventi a cura dell’Istituto di studi politici Sciences Po.

    Bibliografie

    Bibliografia ragionata sui movimenti del Sessantotto - Monografie a cura di Marco Torello – Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, 2017.

    ► La Mondadori Education pubblica sul proprio sito una ricca bibliografia sul ’68 aggiornata al 2010.

    Eppure il vento soffia ancora.Il ’68, quarant’anni dopo: bibliografia dei testi relativi al fenomeno ’68 presenti nel catalogo delle biblioteche cantonali e associate del Sistema bibliotecario ticinese (SBTc), 2008.

    ► Bibliografia sui movimenti di protesta in Francia e nel mondo a cura della Bibliothèque Interuniversitaire Sorbonne – BIS, 30/04/2018.

    ► Bibliografia del dossier Voir plus loin que mai: les mouvements étudiants dans le monde en 1968 a cura della biblioteca dell’Istituto di studi politici Sciences Po, aprile 2018.

    Bücher zum Themenkomplex "1968" im Spiegel der Kritik, bibliografia sui libri pubblicati tra il 2005 e il 2019 in lingua tedesca e inglese, Zeithistorische Forschungen, 28/10/2019.

    IN ITALIA

    Enciclopedie

    ► La voce “Sessantotto” dell’edizione italiana di Wikipedia dedica un ampio capitolo a Il movimento in Italia.

    ► La voce Battaglia di Valle Giulia dell’edizione italiana di Wikipedia sugli scontri avvenuti a Roma il 1° marzo 1968 tra manifestanti universitari e polizia nel tentativo da parte degli studenti di rioccupare la Facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza.

    Fondazioni, Agenzie / Istituti di ricerca, Enti radiotelevisivi, Archivi

    ► La Fondazione Luigi Micheletti ha organizzato nel corso dell’anno scolastico 2017/2018 un ciclo di seminari dal titolo Figure e interpreti del Sessantotto. Dal sito della Fondazione è possibile accedere alle registrazioni audio-video dei seminari. In questa sezione della sitografia ci limitiamo a segnalare: L'operaismo italiano, conferenza di Fabio Milana; Eretici italiani: Giorgio Cesarano, Gianfranco Faina, Danilo Montaldi, Primo Moroni, conferenza di Giorgio Moroni, Neil Novello e Pier Paolo Poggio; Mario Perniola e l'avventura situazionista, conferenza di Pierre Dalla Vigna e René Capovin; Elvio Fachinelli: psicanalisi e politica,conferenza di Lea Melandri; Pasolini e il '68, conferenza di Giovanni De Luna; Ernesto Balducci e il dissenso cattolico, conferenza di Franco Toscani; Giulio Maccacaro e Medicina democratica, conferenza di Enzo Ferrara; Aurelio Peccei e Dario Paccino, conferenza di Luigi Piccioni e Pier Paolo Poggio.

    La rivolta studentesca in Italia2. La rivolta studentesca in Italia

    ► La Fondazione Livorno ha pubblicato nel 2018 una raccolta di testimonianze Il mio ´68. Storie raccontate dai protagonisti a cura di Stefania Fraddanni.

    ► Sul portale della Treccani è possibile accedere alla registrazione audiovisiva del seminario 1968...2018 comincia il sessantotto. Un’idea di Rivoluzione. Al seminario organizzato dall’Istituto della Enciclopedia Italiana hanno partecipato Massimo Di Menna, Giorgio Benvenuto, Massimo Pieri, Valentina Sereni, Mario Tronti.

    ► La Rete degli Istituti storici della Resistenza emiliano-romagnoli e il Centro studi per la stagione dei movimenti di Parma (con la collaborazione della Regione Emilia-Romagna) hanno realizzato il sito web Il ‘68 lungo la Via Emilia. Il sito contiene: una mappa interattiva dei luoghi più significativi del Sessantotto da Piacenza a Rimini, una panoramica dei diversi fondi archivistici e documentari del territorio, interviste ai leader del movimento studentesco, un glossario e una cronologia.

    Rai Storia ha realizzato un racconto suddiviso in 12 puntate per descrivere i mesi del 1968. Un racconto (1968. Niente come prima) basato sui programmi televisivi di cronaca, di costume e di spettacolo che hanno caratterizzato il Sessantotto.

    Rai Easy Web propone una selezione di programmi radiofonici tratti dai propri archivi 1968-2018: i cinquant’anni della contestazione giovanile.

    ► Sul sito del settimanale L’Espresso è possibile di accedere all’archivio degli articoli pubblicati tra il 1965 e il 1969 attinenti ai movimenti di contestazione in Italia e nel mondo: Il ‘69. Temi, Foto e Autori.

    Guida alle fonti per la storia dei movimenti in Italia (1966-1978) a cura di Marco Grispigni e Leonardo Musci – Ministero per i beni e le attività culturali - Direzione generale per gli archivi, 2003.

    Articoli, Saggi e Approfondimenti

    Du mai rampant à l’automne chaud di Claude Rioux nel dossier Nous sommes héritiers de 1968 pubblicato dalla rivista «À babord ! - Revue sociale et politique», n. 24, aprile / maggio 2008.

    Worker and student struggles in Italy, 1962-1973 di Sam Lowry, 12/03/2008.

    ► La rivista «Storicamente» del Dipartimento di Storia dell’Università di Bologna ha pubblicato nel 2009 un dossier dedicato al ‘68, Il sessanotto, e dopo? Del dossier, consultabile in rete, segnaliamo in questa sezione della sitografia seguenti articoli: Controcultura e politica nel Sessantotto italiano. Una generazione di cosmopoliti senza radici di Silvia Casilio; La giovane destra neofascista italiana e il '68 Il gruppo de «L'Orologio» di Loredana Guerrieri.

    Aspetti del Sessantotto di Alfio Squillaci, in «La Frusta letteraria – Rivista di critica culturale online», 12/09/2013.

    Documenti inediti per la cronaca e per la lettura storica del Sessantotto napoletano di Carmine Marino, in «Diacronie», 27, 3/2016.

    I giovani ribelli della “Zanzara” e le origini del ´68 di Simone Campanozzi, in <novecento.org>, 8, 2017.

    Il passato in azione: la memoria del 1968 nel movimento studentesco italiano di Lorenzo Zamponi, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 12/12/2018.

    Contestare il sistema, riformare il sistema, abbattere il sistema: la complessità e le diverse anime degli anni Sessanta di Marco Tarallo, Treccani Magazine, 25/04/2018.

    Il Sessantotto: lingua e politica, scuola e postverità di Giuseppe Patota, Treccani Magazine, 09/04/2018.

    Donne nel Sessantotto di Francesca Rigotti, in «Doppiozero», 30 giugno 2018.

    Le long 68 Italien di Giulia Strippoli, nel dossier di Science Po Voir plus loin que mai: les mouvements étudiants dans le monde en 1968, aprile 2018.

    Il Ribellismo del Sessantotto narrato da Giorgio Gaber di Teresa Schillaci, Treccani Magazine, 19/02/2019.

    Capelloni, moda, Inghilterra e Beatles: i simboli della contestazione giovanile nell’Italia degli anni Sessanta di Laura Di Scianni, in «Storia e Futuro», n. 26, giugno 2011.

    Immagini

    ► Le foto pubblicate dal settimanale L’Espresso negli articoli dedicati ai movimenti del ´68 in Italia e nel mondo

    Il 1968 in Italia. La protesta studentesca – Foto Alinari.

    L’immagine nella protesta – L’immaginario visuale del sessantotto tra reale e virtuale di Adriana Dadà e Tommaso Tozzi, stage realizzato nell'anno accademico 2014-2015 presso l'Accademia di Belle Arti di Firenze, Corso di Teoria e Metodo dei Mass Media.

    Cronologie

    Cronologia del 1968 nel mondo e a Pisadi Davide Guadagni, in Il mio ´68. Storie raccontate dai protagonistitra Pisa e Livorno, a cura di Stefania Fraddanni, Fondazione Livorno, 2018.

    Cronologia deglieventi accaduti in Emilia-Romagna negli annidal 1967 al 1969 inIl ´68 lungo la via Emilia,sito realizzato da: Rete degli Istituti storici della Resistenza emiliano-romagnoli e il Centro studi per la stagione dei movimenti di Parma.

    Bibliografie

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    ► Mondadori Education pubblica sul proprio sito una Bibliografia sui movimenti del Sessantotto aggiornata al 2010.

    Quarant'anni fa il Sessantotto - bibliografia con relativi abstract del Centro Studi Piero Gobetti, 2008.

    Bibliografia ragionata sui movimenti del Sessantotto - Monografie a cura di Marco Torello – Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, 2017.

    Il ´68 IN FRANCIA

    Enciclopedie

    ► La voce Maggio francese dell’edizione italiana di Wikipedia. La voce è suddivisa in 4 capitoli: Fasi; Origini; Eventi; Il Maggio nell’arte e nella cultura.

    ► L’edizione francese di Wikipedia dedica agli eventi del maggio 1968 una voce ampia e documentata. La voce Mai 68 è così articolata: Contexte; Événements; Conséquences;Répercussions.La voce è corredata da una ricca bibliografia.

    La rivolta studentesca in Francia3. Il maggio francese: gli insegnanti e gli studenti sfilano insieme a Parigi
    contro la riforma scolastica del governo

    ► La voce May 68 dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia. La voce comprende i capitoli: Events of May; June and July; May in popular culture(Cinema, Music, Literature, Art).

    ► Nell’edizione tedesca di Wikipedia, la voce Mai 1968 in Frankreich. La voce è così articolata: Vorbedingungen; Mai 1968; Auswirkungen.Segue ampia bibliografia sul maggio francese in lingua tedesca.

    ► L’Encyclopédie Larousse propone una voce redazionale, Èvénements de mai 1968, che fa parte del dossier sulla Ve République. Indice della voce: Les trois crises du mai français (La révolte des étudiants, La grève générale, La crise politique); Les causes sociologiques (L'augmentation de la population estudiantine, Le commencement d'une mutation de la société); Les interprétations de mai 68 («Le défoulement de pulsions agressives», Une société dépassée).

    ► Nell’Encyclopædia Britannica troviamo la voce Events of May 1968 a firma Richard Wolin. La voce è così articolata: Background, Confrontation And Revolt, Aftermath And Influence.

    Fondazioni, Archivi

    ► La Fondation Charles De Gaulle ha pubblicato nel 2018 un dossier tematico sul Mai 68. Il dossier contiene, oltre a documenti di archivio e ad una cronologia degli eventi, diverse testimonianze: Mai 68, la révolution avec de Gaulle di Robert Grossmann; Le drame économique de Mai 68 di Yvon Gattaz; Les journées de mai 1968 à l’Elysée et leur épilogue di Xavier de La Chevalerie; 30 mai 1968: non à la «chienlit» di Michel Habib-Deloncle; Notes sur le 29 et le 30 mai 1968 di Bernard Tricot.

    ► Gli Archives socialistes della Fondation Jean Jaurès permettono di accedere ai fondi archivistici conservati dalla fondazione sugli eventi del maggio 1968 in Francia.

    ► Le Monde Diplomatique ha realizzato nel 2018 un dossier, Il y a cinquante ans 1968, dedicato ai movimenti di protesta in Francia e nel mondo con numerosi articoli tratti dal proprio archivio.

    ► Gli Archives nationales hanno organizzato nel 2019 a Parigi la mostra 68, les archives du pouvoir basata sui documenti d’archivio in gran parte inediti delle prefetture, delle amministrazioni pubbliche, degli uffici governativi per «scoprire il 68 dall'altro lato della barricata».

    Articoli, Saggi e Approfondimenti

    L'événement Mai 68(Pour une sociohistoire du temps court) di Boris Gobille in «Annales. Histoire, Sciences Sociales», 2008/2 (63e année).

    Mai 68 à la puissance quatre di Alain Badiou nel dossier Nous sommes héritiers de 1968 pubblicato dalla rivista «À babord ! - Revue sociale et politique», n. 24 – aprile / maggio 2008.

    Mai 68 et l'enseignement: mise en place historique di Youenn Michel, in Les Sciences de l’éducation 2008/3 (Vol. 41).

    Actualité de Mai 68 –Dossier di Alexis Chabot, Carole Condat, Alain Dalançon, Roland Hubert et Matthieu Leiritz, 21/05/2008.

    Les héritages de Mai 68 ?, dossier a cura di Christophe Premat e Carole Dely, «Paris Match», 16/02/2009. Il dossier comprende numerosi articoli dedicati al Sessantotto sia in Francia che nel mondo. In questa sezione della sitografia segnaliamo: May 68: A Contested History di Chris Reynolds; La classe politique prise de panique en mai 1968 : comment la guerre civile fut évitée? di Mattei Dogan; Les héritages contestataires de Mai 68 di Irène Pereira; Mai 68, le conflit des interprétations di Christophe Premat; A la recherche de 68 di Júlia Lángh.

    Noircir Mai 68. L'exemple de «Paris Match», mai-juin 1968 di Audrey Leblanc, in «Storicamente», 5, 2009.

    La France de Mai-68 di Bruno Modica, in «Clio-Texte», 30/11/2015.

    Cinquante ans de Mai 68 : revivez les moments-clés du mouvement de protestation – articolo redazionale pubblicato su «Le Monde» in data 22/03/2018.

    Que reste–t–il de mai 68? di Jérôme Citron, 03/05/2018.

    The Paris riots of May 1968: How the frustrations of youth brought France to the brink of revolution di Andreas Whittam Smit, «Independent», 06/05/2018.

    Mai 68: la grève du 13 mai ou l'union difficile entre ouvriers et étudiants, articolo di Camille Lestienne pubblicato su «Le Figaro» in data 11/05/2018.

    Que reste–t–il de mai 68? di Marie-Nadine Eltchaninoff, 18/05/2018.

    Que reste–t–il de mai 68? di Nicolas Ballot, Didier Blain et Dominique Primault, 25/05/2018.

    ► La rivista «Éduquer» ha pubblicato nel maggio 2018 (n.138) il dossier Mai 68, un «vieux monde» derrière nous? a cura di Martine Vandemeulebroucke. Il dossier comprende i seguenti articoli: Le marché a récupéré les valeurs de liberté et d’autonomie di Martine Vandemeulebroucke; Élections, piège à cons? di Marc Jacquemain; L’université est moins démocratique aujourd’hui di Martine Vandemeulebroucke.

    13 mai 1968 : la journée de l'unitédi Maïwenn Bordron e Maria Contreras, 13/05/2018.

    1968: a Turning Point in History? di Philippe Testard-Vaillant, 17/04/2018.

    Une contre-histoire de Mai 68 di Nicolas Duvoux e Jules Naudet, 21/05/2018.

    May 1968 and the revolt of the lycéens di Megan Behrent, «ISR International Socialist Review», n. 111, Winter 2018-2019.

    May 1968: Workers and students together di Ernest Reed, «ISR International Socialist Review», n. 111, Winter 2018-2019.

    ► Sul sito «Nonfiction» il dossier, pubblicato nel 2018, Mai 68: retrouver l'événement a cura di Damien Augias e Benjamin Caraco. Indice del dossier: 68: de la "sainte thèse" aux synthèses historiques di Damien Augias; Vivre Mai 68 en historien di Nicolas Charles; Mai 68 aux bords du Rhin di Sylvain Boulouque; Les cinéastes-ouvriers des groupes Medvedkine di Marc Mousli; Le militant inconnu de Mai 68 di Sylvain Boulouque; 68 au-delà du périphérique di Damien Augias; Mai 68: un débat à partir du Débat di Christian Ruby; Mai 68 en images et en témoignages di Christian Ruby; Ce que Mai 68 a fait aux avant-gardes di Nicolas Di Méo; Mai 68: l'Etat à l'épreuve di Damien Augias; Les « années 68 » à travers les souvenirs de l’outre-gauche di Irène Pereira; Mai 68, ou l'expérience du refus des événements et des commémorations di Christian Ruby; Du militantisme à l’histoire di Sylvain Boulouque; La crise d’ados de Mai 68 di Benjamin Caraco; Une histoire visuelle deMai 68 di Christian Ruby; Une évocation sensible et dense de Mai 68di Anne Coudreuse; Maoïsme et ses critiques en France di Sylvain Boulouque; Sous les clichés, l’Histoire di Benjamin Caraco.

    ► La rivista «Histoire@Politique» del Centre d'histoire de Sciences Po ha pubblicato nel 2019 (n. 37, janvier–avril 2019) il dossier Les oppositions aux réformes éducatives de l'après-Mai 1968. Il dossier comprende i seguenti articoli: «Dans le sens inverse de l'histoire »? Les résistances aux réformes éducatives de l'après-Mai 1968 di Yves Verneuil; «Mai 1968 en perspective» Ruptures et continuités, accélérations et résistances à la réforme dans le champ éducatif (1968-1975) di Jean-François Condette; Les enjeux de la participation dans le monde universitaire de la loi Faure à l’abrogation de la loi Sauvage (1968-1981) di Arnaud Desvignes; Les «réactionnaires» à Nanterre aux lendemains de Mai 68 di Charles Mercier; Les gauchistes et la question de la participation dans les universités di Philippe Buton; Les députés contre la « chienlit » dans l’Éducation nationale (1969-1973) di Bernard Lachaise; Les comités de défense de la République (CDR) et l’Éducation en 1968-1969. Entre combat contre la subversion marxiste et volonté réformiste di François Audigier; La presse de l’après-68 face à l’évolution de l’école : du malaise à la consécration d’une lecture idéologique di Yann Forestier; Des gardiens de l’ordre établi dans l’enseignement secondaire ? Le SNALC, la CNGA et la Société des agrégés face aux conséquences de Mai 1968 di Yves Verneuil; Blocages sur la commission Braudel (1968-1969). L’histoire scolaire au cœur des enjeux des sciences de l’homme di Patricia Legris; Mai 68: une rupture pédagogique? di Antoine Prost, Yves Verneuil.

    Immagini

    L’iconographie de Mai 68 : un usage intentionnel du photoreportage noir et blanc ou couleur di Audrey Leblanc, 16/02/2009.

    De la Photographie d’actualitéà l’icône médiatique: «la jeune fille au drapeau» devient«la Marianne de 68» di Audrey Leblanc, 06/01/2010.

    Images en lutte La culture visuelle de l’extrême gauche en France (1968-1974), Beaux-Arts de Paris, Exposition du 21 février au 20 mai 2018 Palais des Beaux-Arts.

    Dix affiches pour raconter les événements de Mai 68 di Laurent Jeanneau, 16/05/2018.

    La “Marianne” de Mai 68, ou l’effet Disneylanddi André Gunthert, 19/12/2018.

    Il Maggio francese – Il movimento studentesco, collezione Foto Alinari.

    Mai 68:Une liste très complète des affiches.

    Mai 68:415affiches et des photographies.

    Cronologie

    Chronologie des événements de mai - juin 1968 – fr. wikipedia.

    Chronologie de Mai 1968, Fondation Charles De Gaulle.

    Mai 68 : chronologie des évènements,dossier de la CGT, 25/04/2008.

    Mai 68: Chronologie des évènements di Nicolas Devers-Dreyfus, 20/09/2008.

    May 1968: The 50th Anniversary di Nicholas Cox, 10/05/2018.

    Bibliografie

    Mai 1968 en France - Istituto di studi politici Sciences Po. La bibliografia (aggiornata al 1998) è articolata in cinque sezioni: Les événements; L’analyse des événements; Les réactions aux événements; Le mouvement étudiant; Le mouvement social.

    Mai 68, Repères bibliographiques di Boris Gobille, 2009.

    Mai 68. Dans les fonds de la Bibliothèque Interuniversitaire de la Sorbonne, 30/04/2018.

    May '68 Reading Listdi Agathe Reigneron and Shannon Sullivan (2018).

    Mai 68 raconté aux enfants en littérature jeunesse, liste de 25 livres, Lire sous Le Tilleul (2018).

    IL ´68 NELLA GERMANIA OCCIDENTALE

    Enciclopedie

    ► L’edizione in lingua tedesca di Wikipedia contiene una voce dedicata ai movimenti studenteschi degli anni sessanta nella Germania Occidentale: Westdeutsche Studentenbewegung der 1960er Jahre.

    Fondazioni, Agenzie / Istituti di ricerca e divulgazione

    ► La Konrad Adenauer Stiftung, nel 2008, in occasione dei quarant’anni dagli eventi del Sessantotto, ha pubblicato sul proprio sito il dossier: Alte und neue Mythen - Eine Streitschrift. Indice del dossier: Nicht nur Blumenkinder. Die 68er und ihre Leistungen di Ernst Benda; Die 68er: politische Verirrungen und gesellschaftliche Veränderungen di Wulf Schönbohm; Jenseits der Barrikaden di Wolfgang von Geldern; Irrweg. Schluss mit den Mythen von 68! di Hans-Ulrich Jörges; Rudi Dutschke und das Konzept Stadtguerilla di Gerd Langguth; Gewaltverharmlosung als 68er-Erbe di Stephan Eisel; 1968 und die Medien di Sven Felix Kellerhoff; Irrtum ausgeschlossen di Ruprecht Polenz; Die West-68er und ihr “Marsch durch die Institutionen” di Rudolf van Hüllen; 1968 und die Folgen – Reflexionen nach 40 Jahren di Manfred Wilke; Neunzehnhundertachtundsechzig di Richard Schröder; “Und es war Sommer – Das Jahr 1968 in der DDR” di Dieter Althaus; “68” – Wirkung auf Bildung und Erziehung di Jörg-Dieter Gauger; Religiös unmusikalisch? Ideologische Ziele einer Lehrergeneration? di Michael Borchard; 40 Jahre 1968 – Zurück in die Zukunft? Matthias Kutsch.

    Manifestanti a Berlino nell’aprile del 19684. Manifestanti a Berlino nell’aprile del 1968

    ► Il Goethe-Institut ha realizzato nel 2008 un dossier sul ‘68, Wendepunkt 1968. Il dossier è suddiviso in capitoli che includono numerosi articoli: Gesellschaftspolitischer Kontext; Feminismus; Helden; 1968 in Kunst und Kultur; 1968 Ost - 1968 West.

    ► Sul sito della Bundeszentrale für politische Bildung (l’Agenzia federale tedesca per l’educazione civica) è possibile accedere ad un ampio dossier, Die 68er-Bewegung,sui movimenti del ‘68. Il dossier comprende testi di approfondimento, video, chat, link, glossari sui diversi aspetti del Sessantotto in Germania e nel mondo. In questa sezione della sitografia segnaliamo: Trau keinem über 30 di Axel Schildt; Swinging Sixties di Klaus Farin; Vor der Revolte: Die Sechziger Jahre di Axel Schildt; Das Ende der "Ära Adenauer" di Borowsky, Peter; Amerikanisierung oder Internationalisierung?Populärkultur in beiden deutschen Staaten di Uta G. Poiger; Der 2. Juni 1967 und die Staatssicherheit di Cornelia Jabs e Helmut Müller-Enbergs; Wider den Muff von 1000 Jahren.Die 68er Bewegung und der Nationalsozialismus di Katrin Hammerstein; Ein direkter Weg von der Spassguerilla zum Terrorismus? di Rudolf Walther; "Das erweiterte Bewusstsein ist die Intuition" di Cara Schweitzer; Sound und Revolte di Detlef Siegfried; Orgasmen wie Chinaböller.Sexualität zwischen Politik und Kommerz di Dagmar Herzog; Neue Linke und Studentenbewegung di Axel Schildt; Die versäumte Revolte: Die DDR und das Jahr 1968 di Stefan Wolle; Rudi Dutschke und der bewaffnete Kampf di Dr. Wolfgang Kraushaar; Zwischen Faszination, Grauen und Vereinnahmung di Katrin Fahlenbrach; Ohne Frauen keine Revolution.68er und Neue Frauenbewegung di Kristina Schulz; Erziehung und 68 di Meike Sophia Baader; 68 in den Betrieben di Wolfgang Schroeder e Viktoria Kalass.

    ► La Bundeszentrale für politische Bildungha pubblicato anche un altro dossier sul Sessantotto, Die 68er-Generation, che comprende i seguenti articoli: 1968 istGeschichte di Claus Leggewie; Vor der Revolte: Die sechziger Jahre di Axel Schildt; Denkmodelle der 68er-Bewegung di Wolfgang Kraushaar; "1968" in der gegenwärtigen deutschen Geschichtspolitik di Edgar Wolfrum; Die versäumte Revolte: Die DDR und das Jahr 1968 di Stefan Wolle.

    Articoli, Saggi e Approfondimenti

    '68 Movement Brought Lasting Changes to German Society di Louisa Schaefer, 11/04/2008.

    Die 68er-Bewegung in Deutschland di Dorothea Jung, 24/08/2008.

    Allemagne 68 di Niall Bond, in «Histoire@Politique», 2008/3 (n°6).

    Démocratie et opposition extraparlementaire en Allemagne sous la Grande Coalition di Niall Bond 16/02/2009.

    68er-Proteste in Berlin: Stimmungsbild der revolutionären Bewegung di Maritta Adam-Tkalec, Berliner Zeitung, 12/02/2018.

    1968 in Germany: A generation with two phases and faces di Aleida Assmann, 22/06/2018.

    Komplizierter Kampf um den Frieden di Merièm Strupler, 25/10/2018.

    “Ein Jubelschrei ging durch die Massen. Furchtlos, schlägereierfahren!” di Sven Felix Kellerhoff, 04/11/2018.

    50 Jahre danach – Erfahrungen in und mit der 68er-Bewegung (Teil 1), (Teil 2), (Teil 3), (Teil 4), (Teil 5) di Wolfgang Lieb, 22/03/2018 – 29/04/2018.

    Immagini

    Deutschlands wilde Jahre - Fotos der Studentenrevolte 1968 di Michael Sontheimer, 08/09/2015.

    Cronologie

    Jahreschronik 1968 – Lemo (Lebendiges Museum Online).

    Die 68er. Chronik einer Rebellion di Katrin Elger e Jan Friedmann,11/04/2008.

    Bibliografie

    Bücher zum Themenkomplex „1968“ im Spiegel der Kritik, Website der Zeitschrift “Zeithistorische Forschungen” (bibliografia aggiornata al 28/10/2019).

    IL ´68 IN INGHILTERRA (UK)

    Articoli, Saggi e Approfondimenti

    University of Brighton -1968: the student revolution di Philippa Lyon (2008).

    Looking back with the 1968 rebels di Sean Coughlan, 03/09/2011.

    Proteste a Londra contro la guerra del Vietnam5. Proteste a Londra contro la guerra del Vietnam

    The National Union of Students[UK]and transnational solidarity, 1958–1968 di Jodi Burkett, in «European Review of History», vol. 21, 2014.

    The Repression of Student Movements in the UK di Connor Woodman (2017).

    Un «Mai anglais»? di Marie Scot, nel dossier di Sciences Po Voir plus loin que mai: les mouvements étudiants dans le monde en 1968 (aprile 2018).

    50 years ago: May 1968 and the British art school uprising di Stephen Hunt, 04/05/2018.

    May 1968 in the United Kingdom di James Heartfield, 20/05/2018.

    Remembering the Birmingham Student Protests of 1968 di Jenny Wickham, 27/11/2018.

    Essex, May 68 - a personal memory di Chris Ratcliffe (2018).

    IL ´68 IN CECOSLOVACCHIA

    Enciclopedie

    ► La voce Primavera di Praga nell’edizione italiana di Wikipedia. La voce si distingue per le indicazioni bibliografiche di testi in lingua italiana sugli eventi cecoslovacchi del 1968. Indice della voce: Antefatti; Origine del termine; Politica estera dell'Unione Sovietica; L'invasione; Conseguenze dell'occupazione; Riferimenti nella musica, nella letteratura, nell'arte e nello sport.

    La fine della Primavera di Praga6. La fine della “Primavera di Praga”:
    l’occupazione delle truppe del Patto di Varsavia

    ► La voce Prague Spring dell’edizione inglese di Wikipedia. La voce tratta con sufficiente ampiezza l’argomento. Indice della voce: Background; Dubček's rise to power; Socialism with a human face; Soviet reaction; Aftermath; Anarchist analysis; Memory.

    ► La voce Printemps de Prague dell’edizione francese di Wikipedia. Indice della voce: Contexte; Le socialisme à visage humain (1968); L’attitude de l’URSS; L’attitude de l’URSS; Réactions; La normalisation; Dans la culture.

    ► La voce Prager Frühling dell‘edizione tedesca di Wikipedia. Indice della voce: Vorgeschichte; Führungswechsel in der KPČ; Die Ziele des „Prager Frühlings“ und das Aktionsprogramm der KPČ; Emanzipation der Öffentlichkeit; Reaktion der Sowjetunion; Einmarsch der Truppen des Warschauer Paktes; Ziviler Widerstand; Das Ende des Prager Frühlings; Rezeption im Ausland; Diplomatische Nachwirkungen in der Gegenwart; Filme; Literatur.

    ► La Encyclopædia Britannicadedica agli eventi cecoslovacchi del 1968 il capitolo The Prague Spring (John F.N. Bradley, Z.A.B. Zeman, Milan Hauner) della voce Czechoslovak history.

    Agenzie / Istituti di ricerca e divulgazione

    Sul sito della Bundeszentrale für politische Bildung (l’Agenzia federale tedesca per l’educazione civica) è possibile accedere al dossier Prag 1968 (2018) che comprende i seguenti articoli/documenti: Der Einmarsch des Warschauer Pakts im Überblick di Holger Kulick; Zeitzeugenfotos vom Einmarsch in Prag am 21. August 1968; Zeitzeugenfotos vom ersten Jahrestag der Militärintervention 1968; 50 Jahre nach Prag 68 di Jan Pauer; Proteste mit Folgen 1968 in Berlin - Ein Erinnerungsmosaik di Ingo Juchler; Toni Krahl: "Prag war einfach ein Lebensgefühl"; "Moskaus moralischer Bankrott..."Ein Brief aus Prag” di Heinrich Böll; Rudi Dutschke in Prag 1968 di Stepan Benda; Der Prager Frühling 1968 und die Deutschen di Jan Pauer; Stasi-Akten aus und über Prag 1968 di Holger Kulick; Menschen, die 1968 prägte di Joachim Jauer; 50 Jahre später in Prag: Gedenken an 1968; “Halten Sie stand – Behalten Sie Hoffnung” di Doris Liebermann; 1968 in Prag - Das Jahr danach di Martin Schulze Wessel.

    Articoli, Saggi e Approfondimenti

    Les chars soviétiques contre le socialisme di David Mandel nel dossier Nous sommes héritiers de 1968 pubblicato dalla rivista «À babord ! - Revue sociale et politique», n. 24 – aprile / maggio 2008.

    Der "Prager Frühling" di Stefan Karner, nel dossier della Bundeszentrale für politische Bildung 68er-Bewegung, 2008.

    1968: Czechoslovakia di Oldřich Tůma, nel dossier della Heinrich Böll Foundation, 1968 revisited 40 years of protest movements, 2008.

    A Look Back … The Prague Spring & the Soviet Invasion of Czechoslovakia – CIA (Central Intelligence Agency), Last Updated: 30/04/2013.

    50 anni fa cominciava la Primavera di Praga. L'eredità di una rivoluzione fallita di Nicola Graziani, 05/01/2018.

    La Primavera di Praga che non abbiamo capito, una lezione per il presente di Matteo Zola, 03/04/2018.

    The Utopian Rationalism of the Prague Spring of 1968 di Jiří Suk, in «The American Historical Review», Volume 123, Issue 3, June 2018

    Moscow crushes the Prague Spring - archive, August 1968 di Richard Nelsson, 10/08/2018

    Prague Spring: 50 years on what can we learn from Czechoslovakia's failed attempt to reform communism? di Mick O'Hare, 19/08/2018.

    The Prague Spring: Dubček, the Media, and Mass Demoralisation di Jan Culik, 23/08/2018.

    50 years after Prague Spring, lessons on freedom di Marc Santora, 24/08/2018.

    1968 Prague Spring at 50 di Jacques Rupnik,  Center for International Studies Sciences Po, 09/2018.

    Slovakia and Dubcek in 1968. Slovak Culture in EarlySpring di Miroslav Londak, Center for International Studies Sciences Po, 09/2018.

    Immagini

    Verwandte Dokumente zum Thema "Prager Frühling" – Stasi Mediathek (DDR).

    The Crushing of The Prague Spring di Amos Chapple, 10/08/2018.

    Prague 1968: lost images of the day that freedom died di Robert Tait, 19/08/2018.

    PragueSpring – photo gallery Getty Images.

    Prague Spring – photo gallery Pinterest.

    Cronologie

    Czech Republic: A Chronology Of Events Leading To The 1968 Invasion di Matthew Frost, 09/08/1998.

    Bibliografie

    Czech and Slovak History: An American Bibliographyfrom 1945 to 1989, a cura di George J. Kovtun – The Library of Congress.

    IL ´68 IN AMERICA (USA)

    Proteste multietniche all’Università della California-Berkeley7. Proteste multietniche all’Università della California-Berkeley

    Articoli, Saggi e Approfondimenti

    Personal recollections of the 1968 student uprising at Columbia University di Frank da Cruz, aprile 1998.

    Former students recall 1968 protests that shut down Columbia di Karen Matthews, 22/04/2018.

    1968: Barnard & the Historic Protests di Rosalind Rosenberg, 23/04/2018.

    Background to 68 student movements in the United States di Matthew Baker nel dossier di Sciences Po Voir plus loin que mai: les mouvements étudiants dans le monde en 1968 (aprile 2018).

    Quelques notes sur le féminisme aux États-Unis en 1968 di Véronique Dassas nel dossier Nous sommes héritiers de 1968 pubblicato dalla rivista «À babord ! - Revue sociale et politique», n. 24 – aprile / maggio 2008.

    Columbia University e il ’68 in America. La speranza, l’utopia e il grande freddo di Enrico Pugliese, 21/05/2018.

    Black Power at the point of production, 1968–73 di Lee Sustar, «ISR International Socialist Review», n. 111, Winter 2018-2019.

    Immagini

    1968: Power, Protest and Politics - Photographs from a tumultuous year of uprisings and unrest - Magnum Photographers.

    Cronologie

    A timeline of 1968 a cura di Matthew Twombly e Kendrick McDonald – Smithsonian Magazine.

    Timeline: 1968 - New York University Library.

    Bibliografie

    Bibliography on Student Protests/Student Activism in the U.S. – Library at Washington University in St. Louis.

    1968: Bibliography - Brown University Library.

    Civil Rights Movement Bibliography – University of Miami Libraries.

     

    Fonti delle immagini

    img_1: Istituto Storico di Modena
    img_2: sessantotto68.wordpress.com
    img_3: Corriere della Sera
    img_4: Der Tagesspiegel
    img_5: Spectres Du Cinema Facebook
    img_6: Seaton Hall University – History Department
    img_7: New York Times
  • Il Sessantotto. Un laboratorio didattico su un anno spartiacque*

    di Antonio Brusa

    PARTE PRIMA: L’EVENTO E LA MEMORIA

    1. Manifesti di un tempo passato

    I manifesti del Sessantotto erano stampati in stretta economia o disegnati, uno per uno, in stanze piene di fumo, dove si ragionava della rivoluzione del giorno dopo. Oggi sono venduti all’asta, a prezzi a volte esorbitanti. Quelli introvabili sono conservati nelle biblioteche, come i quattordici manifesti dai quali Marie Jamet ricava alcuni motivi di quella rivolta: la lotta contro l’autorità, per una informazione alternativa e dunque contro la censura, a sostegno della classe operaia, contro il conformismo.

    Ne riproduco solo due, prodotti dall’Atélier Populaire, un gruppo di artisti che si propose come “designer collettivo delle masse” (alcuni di loro fecero poi una bella carriera), perché ci mostrano - in solo un colpo d’occhio - la lontananza e la vicinanza di quell’evento. La fabbrica novecentesca col pugno alzato è l’icona di una lotta che, a dispetto dello slogan, “non è più continuata”. Invece, il “ritorno alla normalità”, contro il quale inneggia il secondo manifesto, non cesserà mai di attrarre adolescenti ansiosi di apparire anticonformisti, per quanto non sappiano nulla di quel periodo lontano, di quasi mezzo secolo fa, quando i loro coetanei si ribellarono.

    Questa duplicità va ricordata sia nell’analisi storico-didattica di quell’evento (scopo della prima parte di questo lavoro), sia nella elaborazione di proposte didattiche, che vedremo in seguito, nella seconda parte.

    2. «Perché questi studenti protestano?»

    Quella rivolta sorprese la politica e i mezzi di informazione del tempo. Il «Time Magazine», il settimanale più letto in America, quasi non sa che pesci pigliare, al principio di quel fatidico maggio del ’68. Fa sua la domanda che tutti si ponevano: «Perché questi studenti protestano?». Cerca di metterla sul paterno: «Certe volte questi studenti fanno perdere la pazienza anche ai santi», ma rivela tutto il suo disorientamento quando l’unico paragone che riesce a trovare risale a un lontanissimo giorno in cui sant’Agostino si incavolò di brutto con i suoi studenti, licenziosi e scostumati, e se ne andò sbattendo la porta (Per i pignoli, si trattava del 382 d.C: in «Time», 3 maggio 1968). Certo, quel maggio fu bollente nelle università di tutto il mondo. Con buona pace di sant’Agostino, la storia ci suggerisce un solo parallelo: il 1848. Con la differenza, di non poco conto, che le rivolte giovanili erano state, allora, soltanto europee.

    "DaLes révoltes des jeunes, Paris, 1968."/>

    4. Una rivolta mondiale

    Il Manuale degli anni ’60 (The Routledge Handbook of the Global Sixties. Between Protest and Nation Building, a cura di Chen Jan et al., N.Y, 2018, d’ora in poi RH) ci aiuta a inquadrare la dimensione spazio-temporale del fenomeno. Per quanto riguarda il tempo, la rivolta giovanile rappresenta l’emersione di un ribollire che covava da parecchio e non si esaurì col ’68. Gli studiosi americani tendono a far coincidere questo periodo di turbamenti con la guerra del Vietnam (dal 1954 al 1975, dunque). Quelli europei sono più sfumati, perché inseriscono l’evento nel quadro dei cambiamenti antropologici e culturali che caratterizzano “i lunghi anni ’60”. Analogamente, anche la dimensione spaziale pone dei problemi. Infatti, se guardiamo la cartina, vediamo che la rivolta tocca tutti i continenti. Certo, si addensa in Europa e negli Usa: ma dal sud Africa, all’Australia, all’Argentina, non ci sono università che restarono tranquille. Se, tuttavia, guardiamo ai motivi della rivolta, vediamo che questi non sempre coincidono. Tanto che, quando i giovani di tutto il mondo tentarono di costruire una piattaforma rivendicativa comune, la cosa fallì miseramente. Ciò che chiedevano gli studenti italiani contrastava con le attese dei loro coetanei cecoslovacchi, africani o statunitensi, come ci si rese conto nei grandi raduni giovanili che si tennero – proprio in quell’anno - a Lubiana, a Sofia e a New York (Martin Klimke e Mary Nolan, The Globalization of the Sixties, Introduzione a RH, p. 3).

    5. Ribelli diversi

    Ci si ribella ovunque e nello stesso tempo, ma per motivi diversi. Certamente: è difficile accettare l’idea di una simultaneità che coinvolga individui e gruppi sociali per motivi dissimili tra di loro. Tuttavia, è un fatto che quelle convergenze non furono trovate dai ragazzi di allora, e nemmeno sono state individuate dagli storici nei tempi successivi. Questa è la conclusione di Marcello Flores e Giovanni Gozzini nella loro recente opera di sintesi: 1968. Un anno spartiacque (Il Mulino, 2018: d’ora in poi FG). I due storici smontano, una per una, le diverse “cause unificanti” proposte dalla storiografia. Il raggiungimento dell’età adulta da parte della “baby boom generation” è una delle spiegazioni più diffuse. Secondo questa teoria, la fine della Seconda guerra mondiale rappresentò un momento di forte ripresa della natalità. Quei bambini del dopoguerra corrispondono ai giovani che animano le manifestazioni sessantottesche. Tuttavia, questa fascia giovanile, demograficamente preponderante, caratterizzò molte nazioni occidentali, ma non quelle dell’allora “terzo mondo”. Forse, continuano i due storici, l’aspetto più interessante è che questi giovani, ovunque essi fossero, facevano parte delle prime leve popolari di studenti universitari. Erano colti, leggevano, facevano progetti. Probabilmente percepivano con acutezza il contrasto fra ciò che studiavano e la realtà; fra le loro aspettative e la risposta che le Università riuscivano a dare. Erano progressisti, dunque? Non sempre. In Africa, per esempio, provenivano dai ceti più facoltosi, avversi alle riforme socialisteggianti che si tentavano nell’euforia di un’indipendenza appena raggiunta; e se la generazione del baby boom americana ed europea scendeva nelle piazze contro la guerra, quella israeliana “che non conosceva gli orrori della guerra, era pronta a difendere con le armi la propria nazione” (FG, p. 93). Laici e anticonformisti in molte nazioni occidentali, in altrettante parti del mondo musulmano molti giovani vedevano nella Sharià l’alternativa alle ideologie, che giudicavano oppressive, del comunismo e del capitalismo.

    6. Tanti inneschi per una sola rivolta

    Questa diversità è messa ben in evidenza dalle cause immediate, quelle che scatenarono materialmente le sommosse. Le riassumo in questo specchietto (FG, p. 18).

    CittàMotivo della protesta
    Praga Mancanza di riscaldamento
    New York Richiesta di apertura degli alloggi alle studentesse
    Parigi Richiesta di apertura degli alloggi alle studentesse
    Rio de Janeiro Condizioni fatiscenti degli alloggiamenti
    Città del Messico Presenza dell'esercito nell'Università
    Dacca Imposizione dell'urdu a una popolazione che parla il bengalese
    Chennay Imposizione dell’hindi a una popolazione che parla il tamil
    Ankara Divieto alle studentesse di portare il velo
    Addis Abeba Sfilata di moda occidentalizzante
    Cairo Esami di ammissione all'Università troppo difficili

    Sono motivi disparati. Qualcuno di questi ci appare un pretesto decisamente secondario. Nonostante ciò, i partecipanti a queste manifestazioni ebbero tutti la sensazione di condividere un’unica, fondamentale, rivoluzione.

    7. L’azione dei media

    Qui entrano in gioco i media. Il 10 luglio del 1962 era stato lanciato dalla base di Cape Canaveral il satellite Telstar. Permetteva di vedere in Europa una partita di football americano, e a tutto il mondo di guardare in diretta Kennedy che parlava ai suoi. Nasceva la mondovisione. I media introducevano nella storia umana una pratica della simultaneità, come nessuno mai l’aveva vissuta prima. Il Sessantotto rese contemporanei i giovani del mondo.

    “I media rappresentano una condizione indispensabile per la trasformazione delle agitazioni locali”. Senza di loro, queste “non avrebbero risonanza e il loro esempio non potrebbe diffondersi. Di più: i media, trasmettendo motivi e forme delle agitazioni, contribuiscono a dare nuovi significati ai contesti e a trasformare le identità personali e collettive” (FG, p. 17).

    I media giocano una parte rilevante, inoltre, in quell’ “effetto farfalla” con il quale Flores e Gozzini cercano di spiegare perché una quota così piccola di giovani (appena il 4% della loro generazione partecipò ai movimenti) ebbe una risonanza così estesa.

    8. Testimoni privilegiati e generazioni invisibili

    I media, dunque, non si limitano a comunicare i fatti, ma intervengono sull’evoluzione stessa del movimento. Contribuiscono, ancora, alla creazione dei “testimoni privilegiati”, quei personaggi che guidarono i movimenti o ne furono elementi di spicco e che, nei tempi successivi, attraverso la loro storia personale e le loro varie testimonianze, ne hanno costruito l’interpretazione egemone: quella di una baby generation che, occupate le posizioni apicali della società, ha spesso disinvoltamente messo da parte i valori per i quali combatté. Scrive impietosamente Julie Pagis sulle pagine di «Libération»: “La memoria del Maggio ’68 è stata largamente costruita (confiscata) da un pugno di porta-parola autoproclamati, che hanno fatto della loro vicenda singolare e non rappresentativa la storia di una sedicente generazione del ‘68”. Julie Pagis è una ricercatrice che ha cercato ostinatamente i “giovani comuni”, quelli che affollavano le assemblee e riempivano le strade, ma che non erano mai saliti sul palco, dalla parte del microfono. Li ha intervistati, ne ha ricostruito le biografie, la loro partecipazione al movimento, la loro condizione attuale.

    Copertina del libro di Julie Pagis

    Ha scoperto che la “generazione sessantottina”, così come è raccontata nel discorso comune, semplicemente non esiste. I giovani che parteciparono al movimento erano classificabili in un buon numero profili, dalle istanze sociali e politiche disomogenee. Ha smontato altri stereotipi, come quelli sulla “ribellione contro i padri” o sulla “distruzione della famiglia”. Al contrario – scrive la studiosa – quei giovani sono la prova del radicamento delle tradizioni. I figli di comunisti, per esempio, si focalizzano sulla questione algerina, allora un cavallo di battaglia della sinistra francese; quelli provenienti da famiglie cattoliche, invece, si aprono a un terzomondismo quasi missionario. Pur con queste differenze, vissero tutti quel maggio del ‘68 come un trionfo: avevano messo il governo con le spalle al muro. Addirittura lo avevano fatto cadere. Ma per tutti, a giugno, arrivò il naufragio (pavé). Nelle nuove elezioni, De Gaulle vinse con una maggioranza mai vista nella storia repubblicana.

    Per quanto limitato a una nazione, il caso francese potrebbe essere paradigmatico anche di altre realtà. Quei giovani persero, ma la loro vita cambiò. Tutti, ad esempio, diventati genitori, mandarono i loro figli in scuole che ritenevano innovative; tutti conservarono nel tempo una forte sensibilità ai problemi sociali. «Non essendo riusciti a cambiare la vita – conclude Julie Pagis – hanno cambiato la loro vita».

    Potremmo dire che la “generazione del ’68” nacque, paradossalmente, sulle ceneri del movimento.

    9. Il lungo post-sessantotto

    Se non ha prodotto i cambiamenti desiderati, l’azione simultanea di centinaia di migliaia di giovani non è stata effimera, né ha riguardato unicamente la loro vita personale.

    Gustavo Prado Alvarez (Pitin) <br>Le galline hanno il loro numero <br>(riferito all’obbiettivo cubano di produrre <br>60 milioni di uova ogni anno). <br>«Palante», 11 Giugno 1964.

    Ha inciso profondamente nella storia umana, lasciando tracce e cicatrici che sono ancora oggi visibili. Di queste siamo abituati a mettere in evidenza solo quelle che hanno scavato nella storia italiana: l’autunno caldo del 1969; le rivolte sociali e le conseguenti riforme (lo statuto dei lavoratori e il diritto di famiglia fra questi); la stagione triste del terrorismo; una sorta di cronicizzazione del ribellismo studentesco che si perpetuò, sempre più stancamente, nel rito delle occupazioni autunnali delle scuole. E, per restare nelle scuole italiane, il Sessantotto è diventato per alcuni commentatori il male assoluto, a partire dal quale la scuola ha intrapreso il suo percorso di discesa agli inferi (Per tutti, si veda E. Galli della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio, 2019)

    Ma se allarghiamo lo sguardo, osserveremo lasciti mondiali non secondari. Una parte di questi ebbe origine dai “paesi non allineati”, un gruppo di stati che, è bene tenerlo presente, operò quando il pianeta era spartito in due blocchi. Eman Morsi, studiosa di letteratura e culture postcoloniali, ne tratta un aspetto insolito, quello dei cambiamenti di dieta in Egitto e Cuba. È un caso solo apparentemente marginale, perché – in realtà – mette in evidenza il modo con il quale negli anni ’60 si concepiva il rapporto fra sviluppo e sottosviluppo. Cuba e Egitto, che vogliono incamminarsi lungo la strada dello sviluppo, promuovono – tra altre riforme sociali ed economiche – l’introduzione di proteine animali nell’alimentazione popolare. Come nei paesi ricchi. Perciò, mettono in atto un grande programma per incrementare la produzione di uova e di polli, e spingere la popolazione a nutrirsene (un’abitudine alimentare che, fra l’altro, è rimasta ed è attualmente interpretata come “tradizionale”).

    Come molti in quegli anni, Castro e Nasser pensano che la storia corra lungo un binario, e che il loro compito (la loro “rivoluzione”) consista nel raggiungere e superare chi sta davanti. Riflettono speranze e modi di vedere – tipici degli anni ’60 – che si trasformarono in disillusioni cocenti nel decennio successivo (E. Morsi, Let them eat Meat, in RH, pp. 565 ss).

    Othman Bahjat, Ecco che succede con Nasser!<br> Lui vuole che la gente mangi noi al posto delle fave!<br> 1963. Nasser Foundation.

    9. Messaggi al mondo

    Il Terzo mondo non parla solo a se stesso, ma lancia messaggi che ebbero una qualche influenza sia sul ’68, sia sulla storia culturale e politica mondiale successiva. Ne scrive Robert Young, studiando la conferenza dell’Avana del gennaio del 1966 (Disseminating the Tricontinental, in RH pp. 517 ss). In quell’occasione, si ritrovarono a Cuba i rappresentanti di 82 di stati, molti dei quali non allineati, tutti anti-occidentali. Vi parteciparono protagonisti delle rivoluzioni sociali e politiche del tempo, come Malcom X, Salvador Allende, Amilcar Cabral. Vi sarebbe andato Ben Barka, se non lo avessero fatto sparire i servizi segreti. Molti di questi avrebbero partecipato poi alla conferenza dell’anno successivo a Londra, con Herbert Marcuse, Régis Debray, Paul Sweezy, Allen Ginzborg, Angela Davis: l’intera biblioteca, potremmo dire, divorata dai ragazzi del ’68. «Questa grande umanità ha detto “Basta!” e ha cominciato a camminare». Questo fu lo slogan del Convegno dell’Avana, che, con l’altro, coniato per l’occasione da Che Guevara, su «due, tre, molti Vietnam», fu tra i più ripetuti nelle assemblee giovanili.

    Quarta di copertina della brochure di preparazione alla Conferenza Tricontinentale, La Avana 1966.

    A quella conferenza presero parte decine e decine di disegnatori, di artisti e di fotografi. Dalla foto di Che Guevara nelle vesti del “Guerrillero heroico”, scattata da Alberto Korda, alle rielaborazioni psichedeliche di volti di politici e cantanti, di film – come Yellow Submarine (1968) - ai poster e alle raffigurazioni stilizzate e astratte («il nostro nemico è l’imperialismo, non l’arte astratta» aveva detto Fidel Castro, mandando in frantumi la tradizione del realismo socialista) troviamo in quel convegno, e nelle pagine del «Magazine Tricontinental» che se ne fece portavoce, l’intero alfabeto iconico che innervò il Sessantotto, ma non morì con questo, perché fu adottato dalle culture alternative e pop fino ai giorni nostri.

    "“IlJohn Birch fu un missionario battista, reclutato dall’esercito americano e ucciso dai soldati comunisti cinesi nel 1945.
    La John Birch Society è un gruppo di estrema destra americano, ancora oggi attivo, considerato fra i grandi elettori di Trump."/>

    11. Globalizzazione alternativa e Liberazione

    La fortuna del “Tricontinental Style” è testimoniata dall’icona di Barak Obama, disegnata da Shepard Fayrey per la campagna elettorale del 2008, «la più efficace illustrazione politica dopo Uncle Sam Wants You», scrive Anne Garland Mayer. “Il nostro poster è un arma di guerra”, aveva gridato Olivio Martìnez, rivoluzionario e disegnatore del «Tricontinental Magazine». A distanza di mezzo secolo, Anne Garland Mayer ci avverte che quest’arma non ha mai cessato di essere usata. Essa è la spia della sopravvivenza di quelle idee dentro i nuovi movimenti del XXI secolo, come Occupy Wall Street, e della formazione della nuova coscienza di un “Sud Globale” (From the Tricontinental to Global South. Race. Radicalism and transnational Solidarity, Duke U.P., 2018, prefazione e capitolo V).

    – Shepard Fayrey, Poster “Obama Hope”, disegnato per la campagna presidenziale del 2008<br> – Alfredo Rostgaard-Alberto Korda, 1970 (da un’asta di Katawiki)

    L’idea di liberazione, che gli anni ’60 ci consegnano, resta per noi un modello assoluto di radicalismo utopico. La riassumo con le parole di Christian Connery: «Attraverso gli anni ’60, la liberazione è diventata l’obiettivo e l’unità di misura dell’attività radicale e rivoluzionaria. Liberazione nazionale, liberazione psichica, liberazione sessuale, liberazione economica, liberazione sociale, liberazione del desiderio: gli anni ’60 promisero la liberazione dai capi, dai padroni della terra, dai genitori, dagli uomini, dai colonizzatori, dalla società, la liberazione della propria personalità, dai sistemi – capitalisti, fascisti e del socialismo di stato – o dal regime del genere, della sessualità o della razza» (Ch. Connery, The Dialectics of Liberation. The Global 1960s and the Present, in HR, p. 575).


    * Questo articolo è lo sviluppo della prima parte della lezione che ho tenuto nel corso per insegnanti ticinesi a Bellinzona, dedicato appunto all’ “anno della rivolta”. Nella seconda parte, presenterò diverse proposte didattiche, a partire dal tentativo di considerare questo evento come un “laboratorio periodizzante”, nel quale un insegnante può esercitare i propri allievi a lavorare sulle temporalità, sui sistemi complessi, sui documenti, sulla capacità di discutere, sulle fonti orali ecc.

     

  • Il Sessantotto. Un laboratorio su un anno spartiacque (parte seconda)

    di Antonio Brusa

    Nove laboratori sulla contestualizzazione storica*

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    A. IL LABORATORIO DELLA CONTESTUALIZZAZIONE

    In questo gruppo di laboratori inserisco quelle attività che mirano ad analizzare il fatto storico “Sessantotto”. Sono laboratori che vorrei definire “top-down”. Vanno dall’insegnante all’allievo in un percorso abbastanza tradizionale. L’insegnante prepara i materiali (lezioni, schemi) e pone agli allievi delle questioni da risolvere.

    Il campo di indagine è quello della contestualizzazione storica. Lo organizzo in due parti. La prima si occupa della complessità. Comprende cinque attività che, a partire da un modello storiografico, cercheranno di collegare l’“evento Sessantotto” a un contesto più ampio. La seconda si occupa del tempo, con quattro proposte, attraverso le quali questo evento verrà inserito in contesti temporali diversi. Questo articolo, quindi, andrebbe inteso come una sorta di antologia dalla quale un insegnante può prelevare l’attività che pensa più utile alla sua classe. A questa antologia ne seguirà una seconda, in un prossimo intervento su HL, dedicata a un tipo di laboratorio diverso (e forse più consueto fra gli insegnanti esperti), cioè il laboratorio con i documenti. Si tratta di progetti che riguardano la secondaria superiore. Per quella inferiore andranno adattati. In ogni caso, questi progetti vanno considerati dei “semilavorati”, che il docente dovrà completare, con consegne o scalette di conversazione più dettagliate, con riferimenti al manuale, eventuali altri materiali.

    Ma torniamo ai laboratori sulla contestualizzazione dell’“evento Sessantotto”. Braudel scriveva che un evento assomiglia a un vulcano dal quale si sprigionano tutti i tempi della storia. Ciò vale, in particolare, quando l’evento è talmente pesante da “dividere i tempi”. “Un evento spartiacque”, si è detto del Sessantotto. Difatti, è esattamente a metà strada fra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine della Guerra fredda. Questa espressione, usata da James Chapman, è stata ripresa da Marcello Flores e Giovanni Gozzini nel loro 1968. Un anno spartiacque (Il Mulino 2018, d’ora in poi FG: qui è possibile leggerlo), uno studio dal quale ricavo i materiali per questi laboratori.

    Da questo punto di vista, questo lavoro vorrebbe (anche) suggerire agli insegnanti un metodo di lettura dei testi storici forse diverso dal solito. Un insegnante legge un libro di storia con la segreta speranza di poterlo raccontare in classe, magari trovare qualche spunto oppure, nell’insegnamento superiore, per inserirlo in un contesto critico. Si potrebbe, secondo me, aggiungere a queste modalità di lettura senz’altro meritorie, quelle del “libro-palestra-per-pensare”. Un buon libro di storia, per me, è esattamente come una palestra, all’interno della quale si trovano macchine per fare esercizi di tipo diverso. Quindi lo leggo non solo per trovare fatti o problemi da poter raccontare; ma anche per trovare meccanismi da smontare e rimontare, con i quali giocare e inventare esercizi: cose che, fuori di metafora, non sono altro che idee, ragionamenti e storie.

    B. IL LABORATORIO DELLA COMPLESSITÀ

    b1.Un modello complesso

    Chapman utilizzava il termine watershed/spartiacque discutendo il “libro più innovativo sul Sessantotto”: 1968. The World Transformed (a cura di Carole Fink, Philipp Gassert e Detlef Junker, N.Y., Cambridge University Press, 1998). Lo utilizzo per costruire una parte del modello per lo studio di quel periodo.

    Nella loro Introduzione (pp. 1-30), Fink, Gassert e Junker espongono gli elementi fondamentali di un modello basato sul fatto che le rivolte del Sessantotto furono mondiali. Quindi inseriscono i movimenti giovanili in un quadro contrassegnato da una doppia crisi planetaria, politica ed economica.

    Modello per lo studio del Sessantotto

    La prima – la crisi politica - si era manifestata in due eventi: l’offensiva del Tet (gennaio-marzo 1968), scatenata dalle truppe nord vietnamite e dai viet-cong contro gli Usa, nella quale questi ultimi, pur vincendo militarmente, avevano capito che avrebbero perso una guerra, per la prima volta nel corso del XX secolo. A questo smacco occidentale faceva da contraltare, nel mondo comunista, la Primavera di Praga (gennaio-agosto 1968) che, in modo analogo, opponeva alla vittoria militare dell’Urss la sua evidente sconfitta sul piano del consenso fra i cittadini del Patto di Varsavia. La seconda - la crisi economica - era iniziata dopo la Guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967), che aveva messo in dubbio la facilità con la quale, fino ad allora, l’Occidente si era approvvigionato di petrolio, e si era ingigantita a causa della crisi economica americana, che allora fu giudicata “la peggiore dalla Grande Depressione”.

    Queste due crisi indebolirono strutturalmente il blocco Est/Ovest, in particolare – per ciò che riguarda questo lavoro - dal punto di vista della capacità degli Usa e dell’Urss di esercitare il controllo sulle popolazioni, e dunque sui manifestanti. Questa debolezza si manifestò su due livelli. Quello ideologico, dell’attrattività dei sistemi capitalisti e comunisti quali modelli di vita; e quello del controllo sociale, che, di fatto, consentì una relativa tolleranza nei confronti di manifestazioni, che in tempi precedenti si sarebbero ostacolate con più efficacia. Mettendo insieme a questi elementi le questioni relative ai giovani (viste nella prima parte di questo lavoro, già pubblicata su HL), otteniamo questo modello per lo studio del Sessantotto. Si compone di due parti. Quella “soggettiva”, riguardante gli studenti (con i caratteri in blu), e quella “oggettiva”, riguardante la situazione mondiale (caratteri in nero).

    b2. Come si lavora con un modello

    a. Chiamerei la prima attività “Mettere le parole”. Uno schema (o come ormai è d’uso nelle scuole, una “mappa concettuale”) viene solitamente impiegato alla fine di un percorso di studi, come sintesi. Resta lì, quasi la foto degli apprendimenti realizzati. In realtà, se noi chiediamo agli allievi di verbalizzare lo schema, ne troveremo non pochi in difficoltà. Per prevenirla, suggerirei di far leggere loro questi brevi brani, tratti dal libro di Flores e Gozzini, per cercare in quali caselle dello schema andrebbero inseriti, e per spiegare come un certo elemento dello schema influisce sugli altri (quindi, riempiendo gli spazi con i punti interrogativi).

    I mass media sono il primo fattore del modello, il secondo è la fase nuova che gli eventi del 1968 aprono nella guerra fredda, il terzo è la “rete informale di comunicazione e collaborazione” che lega fra loro gli attivisti di ogni parte del mondo e infine la quarta è il collante ideologico che tiene insieme questi ultimi. Perché i protagonisti credevano in una causa comune. Lottarono in opposizione allo status quo interno e internazionale a Est e Ovest, a Nord e a Sud, in appoggio alla libertà, alla giustizia e alla autoderminazione (FG, p. 33).

    Il tempo della guerra fredda è un tempo “artificialmente” globalizzato dalle necessità di controllo delle due superpotenze. Questa storicamente inedita forma della politica internazionale stabilisce il quadro di riferimento unitario entro cui gli studenti si muovono. E li predispone di fatto al contagio, all’imitazione, alla risonanza, in qualsiasi continente si trovino (Ibidem).

    La simultaneità globale del Sessantotto si spiega con fattori soggettivi (accesso di massa alle università) ma anche con fattori oggettivi (il prepotente potere di Usa e Urss insieme ai segni della loro crisi in Vietnam e Cecoslovacchia) (Ibidem).

    I media rappresentano una condizione indispensabile per la trasformazione delle agitazioni locali. Senza di loro, queste non avrebbero risonanza e il loro esempio non potrebbe diffondersi. Di più: i media, trasmettendo motivi e forme delle agitazioni, contribuiscono a dare nuovi significati ai contesti e a trasformare le identità personali e collettive (FG, p. 17).

    b. Chiamerei una seconda attività “Arricchire il modello”. Questo modello non spiega tutto, come – del resto - qualsiasi modello scientifico. Il suo scopo è quello di mettere a fuoco un elemento fondamentale del Sessantotto: il fatto che fu una rivolta globale e simultanea. Bene: all’inizio della prima parte di questo articolo (qui su HL), si riportano i temi della rivolta, quali furono propagandati nei manifesti dei giovani parigini:

    • La lotta contro l’autorità
    • Per una informazione alternativa e contro la censura
    • A sostegno della classe operaia
    • Contro il conformismo

    Possiamo integrarli nel modello? Quali caselle, quali connessioni nuove dobbiamo immaginare? Il modello mette in relazione gli aspetti soggettivi della rivolta (in blu) con quelli oggettivi (in nero). Possiamo fare in modo che questo modello rappresenti e spieghi meglio gli aspetti soggettivi? Oppure il modello deve essere radicalmente cambiato, e ne dobbiamo immaginare uno nuovo?

    Per quanto riguarda gli aspetti soggettivi, non si può non ricordare che tra i portati fondamentali del Sessantotto vi sono la rivoluzione sessuale e la nascita del femminismo attuale (se ne parlerà in seguito). Flores e Gozzini ne danno ampie notizie (pp. 36-40). Quali modifiche ci suggerisce, quindi, la storia di genere?

    c. Una terza attività potrebbe essere “Mettere le date”. Un modello astrae dai fatti tendenze e problemi. Per questo, normalmente, non ha delle date. Ma possiamo introdurle. La crisi politica, per esempio, si riferisce alla guerra del Vietnam e alla Primavera di Praga (e a tanti altri eventi). Chiediamo agli allievi di cercarli sul manuale e di inserirli nello schema usando gli opportuni grafismi.

    Questa ricerca porta a interrogarci sull’insieme dei fatti che sono collegabili al nostro modello (quando scoppia la Guerra del Vietnam e per quali motivi? quando i media diventano globali? Quando e perché si forma una Boom Generation? Per quali motivi scoppia la crisi economica del 1968? C’entra in questa Bretton Wood? E così via). Alla fine, avrete bisogno di un poster abbastanza grande e complicato, nel quale potrete sintetizzare buona parte della storia dopo il ’45.

    d. Regionalizzare il modello. Il Sessantotto, per quanto globale e simultaneo, fu diverso nei singoli paesi. Questo suggerisce altre modifiche al modello, in modo da rappresentare:

    • La situazione italiana e francese nella quale avvenne una saldatura fra movimento studentesco e movimento operaio. Per quali motivi questa si verificò? E in che modo la possiamo integrare nel modello? (per questo punto e il successivo possono bastare le notizie riportate in un buon manuale).
    • La situazione dell’Europa Orientale. Qui, l’obiettivo principale dei giovani è quello della critica al modello comunista e la liberazione dal dominio dell’Urss.
    • La situazione Medio-orientale. La medesima rivolta prende quattro direzioni diverse. In Egitto è, da una parte, al Nakba (la Catastrofe): il desiderio di rivincita dopo la sconfitta nella Guerra dei Sei giorni, un movimento laico, socialisteggiante e modernizzante; dall’altra è la diffusione dei Fratelli Musulmani, uno dei primi movimenti fondamentalisti musulmani. In Palestina è Karameh (Dignità), dal nome di un paesino i cui abitanti risposero con le armi all’invasione israeliana. Da questo movimento nasce Al Fatah, il gruppo del quale Yasser Arafat divenne leader. In Israele fu un movimento di sostegno alla guerra dei Sei giorni, da parte di tanti giovani che si riconoscevano in Moshe Dayan, ministro della difesa (per informazioni più particolareggiate su questo punto: FG, pp. 91-98).

    e. Valutare l’evento. “Spartiacque” è un termine metaforico. Indica che quell’evento fa in modo che il tempo successivo sia diverso da quello precedente. Ma quanto sono profondi questi cambiamenti? Autorizzano, per esempio, a pensare che ci fu una rivoluzione? Occorre fare attenzione quando usiamo questo concetto, dal momento che è cambiato parecchio dai tempi di Robespierre e di Marx. Secondo Jack Goldstone, ci stiamo avviando verso una “quarta generazione di teorie rivoluzionarie”, nella quale gli studiosi preferiscono una definizione molto più estesa di quella ottocentesca. Possiamo discutere in classe, perciò, se il “Sessantotto” (i cui protagonisti agli occhi dei classici probabilmente non avrebbero passato l’esame del buon rivoluzionario) vi sia compreso, e cioè se sia un complesso di movimenti nel quale troviamo:

    • Delle spinte a cambiare il regime politico, basate su visioni antagonistiche di un ordine giusto.
    • Un notevole livello di mobilitazione di massa, formale o informale.
    • Delle spinte a forzare il cambiamento attraverso azioni non istituzionalizzate, come dimostrazioni di massa, proteste, scioperi o violenze.

    (FG, p. 35. Dall’originale J.A. Goldstone, Toward a Fourth Generation of Revolutionary theory, in «Annual Review of Political Science», 2001, p. 141 ss. si ricaveranno altri argomenti per una discussione epistemologico-storiografica).

    f. Raccontare l’evento. Questa non è un’attività separata, ma va considerata una conclusione, direi obbligata, di ciascuna delle attività descritte sopra (le quali, lo ricordo ancora, sono a scelta del docente). Il racconto, infatti, è lo strumento principale della memorizzazione. Serve per “racchiudere” il percorso svolto in un testo che abbia un senso e che, in un certo modo, ti puoi portare via. Occorre, quindi, trasformare la mappa dei concetti, che rappresenta in sincrono la complessità di un evento, in una sequenza nella quale i vari elementi dello schema siano disposti uno dopo l’altro. Possiamo seguire una strategia cronologica o una logica. Nel primo caso, estraiamo dallo schema i fatti, li datiamo (se il caso, approssimativamente) e poi li disponiamo su un cronogramma, che funzionerà da scaletta per il testo. Nel secondo, assegniamo un numero ad ogni elemento dello schema, partendo dal punto che giudichiamo più adatto, e costruiamo il racconto basandoci sulla sequenza numerica.

    C. IL LABORATORIO DEL TEMPO

    c1. Anche il tempo storico è complesso

    La critica che si oppone a questo genere di modelli è che non curano un aspetto particolarmente caro agli storici: il tempo. In effetti, occorrerebbe mettere in moto la complessità rappresentata, osservare come si è formata, quali erano gli antecedenti e quali gli sviluppi successivi. Anche in questo caso, Braudel aveva ragione, quando ci ha spiegato che una “società nel tempo” è, in realtà, un insieme di parti che mutano e, man mano, interagiscono fra di loro. Un intrico mobile che mette in seria difficoltà le nostre capacità di comprensione. Come sempre in didattica (ma non solo), dobbiamo semplificare. Prendiamo il modello base di analisi di un evento e applichiamolo al Sessantotto.

    Modello generale di un evento

    Ogni evento è frutto di un complesso di antecedenti che assumono una certa configurazione nel tempo x nel quale si verifica. Per rappresentare questo processo, collochiamo lungo l’asse temporale alcuni aspetti sui quali il Sessantotto incide in maniera molto evidente. Scelgo, sempre dal lavoro di Flores e Gozzini, tre aspetti:

    • la questione del terrorismo
    • la questione femminile
    • il problema dei diritti umani

    Sull’asse verticale, invece, segniamo quegli aspetti “spaziali” che riguardano lo scenario mondiale alla fine degli anni ’60: la globalizzazione, i mass media, la decolonizzazione e l’indebolimento dei blocchi, perché caratterizzano il Sessantotto come momento globale e simultaneo di rivolte giovanili. L’ideale sarebbe studiare come i fattori temporali coevolvono e, a un certo momento, reagiscono con quelli spaziali. La semplificazione didattica ci consiglia di prendere un fattore per volta, e vedere che rapporto ha con il Sessantotto. La scoperta finale sarà che, ogni volta che cambiamo i fattori, cambieranno anche tempi e periodizzazione.

    c2. Il tempo del terrorismo

    Siamo abituati ad una periodizzazione del terrorismo riferita allo spazio nazionale, accostato semmai a quello tedesco. In questo spazio ristretto, il Sessantotto diventa il punto di origine di una sequenza mortifera che ha insanguinato la nazione e che aveva come un unico precedente, non sempre ricordato, gli attentati separatisti dell’Alto Adige. Se allarghiamo lo sguardo, invece, vediamo che il terrorismo non è affatto una realtà originale italiana, ma ha una lunga storia internazionale alla quale il fenomeno italiano si collega. Ecco il cronogramma.

    Cronogramma del terrorismo

    Questa cronologia allontana il rischio di far coincidere l’immagine del Sessantotto italiano con quella del terrorismo e, per estensione, ci salvaguarda dallo stereotipo di un’altra “specificità italiana”, quegli “anni di piombo” che oscurano la più profonda stagione di riforme che la Repubblica abbia conosciuto. Ecco, dunque, i quattro cicli di terrorismo, quali li riconosciamo nell’età contemporanea, con le parole di Flores e Gozzini.

    Il primo ciclo è quello “anarchico” che, soprattutto nell’Europa dell’Ottocento e del primo Novecento prende a bersaglio uomini rappresentanti delle istituzioni e raggiunge il proprio acme nel 1914 a Sarajevo.

    Il secondo è quello “anticoloniale” che va dall’insurrezione irlandese del 1916 fino alla “battaglia di Algeri” del 1962.

    Il terzo è quello “della nuova sinistra” che negli anni Sessanta si collega alla guerriglia in Vietnam e in America Latina per diffondersi in Europa occidentale, America, Medio Oriente e Giappone.

    Il quarto è quello “religioso” che si apre con la rivoluzione iraniana del 1979, colpisce in Afghanistan, Medio Oriente, India, Algeria, Stati Uniti e Giappone negli anni Novanta per poi estendersi su scala globale negli anni Duemila (FG, p. 231)

    c3. Come si lavora con un cronogramma

    Succede che i cronogrammi patiscano la stessa sventura didattica delle mappe concettuali. Si fanno alla fine, come sintesi di ciò che si è studiato. Invece andrebbero considerati strutture mobili, che crescono e si modificano man mano che si studia. Nei cronogrammi che qui presento ci sono alcuni eventi. Nel manuale, come in altri testi, ce ne saranno altri che vi possono trovare posto. Nei rettangoli sotto la cronologia ho posto i “nomi” delle periodizzazioni. Non li farei vedere agli allievi, ma porrei il problema. Posto che il Sessantotto è un evento spartiacque, come chiamare il periodo precedente e come quello successivo? “Dare nome al tempo”, cioè “periodizzare”, è una delle operazioni più interessanti che la storia ci permette. Lanciamo la sfida. Chi trova il nome più adatto. Poi, discutiamo i nomi proposti: si vedrà che ognuno di questi implica una certa lettura del periodo.

    Confrontiamo i cronogrammi. Quello che abbiamo prodotto nel laboratorio con gli altri riportati sotto, anche se non sono stati studiati. Mettiamolo a confronto, anche, con la timeline di storia generale, eventualmente presentata dal manuale. Quali relazioni intravvediamo? Riusciamo a spiegarle?

    Infine, utilizziamo il cronogramma come base per un racconto. Mettiamo in evidenza gli eventi più importanti, quelli che andranno sottolineati. Teniamo presente che il testo deve anche far risaltare il ruolo del Sessantotto. Poi raccontiamo. Basta un testo breve, purché contenga i riferimenti precisi al cronogramma. La sintassi ci rivelerà il grado di maturazione degli allievi: chi troverà connessioni complesse e cercherà di spiegarle; chi, invece, non saprà andare oltre il “e poi”.

    c4. Il tempo delle donne

    Anche la storia contemporanea delle donne è divisa in quattro periodi. Ma qui il Sessantotto gioca un ruolo chiaramente fondamentale. Costituisce, infatti, il momento di passaggio fra la fase “evolutiva” e quella “rivoluzionaria” di questa storia. È Claudia Goldin che ha elaborato questa cronologia, nella quale la prima fase, che inizia alla fine del XIX secolo, vede giovani donne impegnate in lavori generalmente di bassa qualità, che devono però abbandonare una volta sposate. La Prima guerra mondiale genera la spinta verso la seconda fase, che inizia intorno agli anni venti, nella quale il lavoro diventa più facile per le donne. Quelle che hanno studiato possono accedere anche a posti di lavoro intellettuale, ma per tutte il momento del matrimonio coincide con il ritiro dalla vita produttiva. La Seconda guerra mondiale favorisce l’avvento di una terza fase, “di transizione”, con le donne che possono studiare, ritardare l’età del matrimonio, accedere a lavori più interessanti mentre comincia a perdere di forza il vincolo della gravidanza: molte, infatti, possono continuare a lavorare anche dopo il matrimonio.

    Cronogramma della storia delle donne

    Claudia Goldin definisce “evolutive” queste tre fasi perché – per quanto si noti un lento e continuo miglioramento - non comportano cambiamenti fondamentali nell’orizzonte di vita delle donne, nel loro senso di identità e nella capacità di controllare il proprio destino. Ma, giusto alla fine di questa terza fase, troviamo un momento che Goldin definisce di “rivoluzione rumorosa”. Esso è legato alle battaglie per i diritti civili, all’uso della pillola, alla rivoluzione sessuale. È, finalmente, il Sessantotto. Questo, in modo analogo alle guerre mondiali, introduce la fase attuale della storia delle donne, quella della “rivoluzione silenziosa”, nella quale masse di donne, pacificamente, si diffondono nella società, occupandone posti che, nei tempi precedenti, erano stati loro interdetti (FG, pp. 40-41; Claudia Goldin, The Quiet Revolution that transformed Women’s employment, Education and Family, 2006).

    c5. Il tempo dei diritti

    Quando il 10 dicembre del 1948 fu proclamata la Dichiarazione Universale dei Diritti umani, questa, “più che l’annuncio della nuova era, fu una corona funebre posta sulla tomba della guerra”. Con questa battuta pessimistica inizia L’ultima utopia, il libro che Samuel Moyn ha dedicato alla storia dei diritti umani (The Last Utopia, The Belknap Press of Harvard University Press Cambridge, Massachusetts and London, England 2010). Tuttavia, a quasi settant’anni di distanza, non possiamo negare che nel mondo è diffusa la convinzione che “agli esseri umani spetti di godere dei diritti umani” (FG 142). A dispetto dello scetticismo di Moyn, dunque, questa “utopia” ha avuto successo: in particolare dopo il 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, che inaugurò una stagione nella quale molti sperarono che, finalmente, non ci sarebbero stati più ostacoli nell’applicazione di quella Dichiarazione. Oggi i diritti umani si sono imposti come cultura universale, soprattutto nel confronto con le nuove guerre e i genocidi (FG, p. 120 s).

    Qui ci chiediamo se il Sessantotto abbia giocato un ruolo in questa vicenda e se sia stato un ruolo di “spartiacque”. E’ una questione controversa. Ma proprio questa difficoltà può dar luogo a un interessante laboratorio di discussione (l’argomento è spiegato dettagliatamente in un lungo capitolo di FG, pp. 127-145).

    Alcuni studiosi, come Moyn, sostengono che il Sessantotto non ha inciso nella storia dei diritti umani. Di parere diverso altri, come Flores e Gozzini. Al centro della contesa c’è la questione della decolonizzazione. Infatti, i nuovi stati indipendenti si erano distinti – in particolare negli anni ’60 – nella battaglia per il riconoscimento dei diritti umani. Secondo Moyn, però, fu una battaglia viziata dall’antioccidentalismo. Per quegli stati i diritti umani non erano altro che il proprio diritto di combattere contro il colonialismo.

    L’editto di Ciro il Grande, conservato al British Museum

    La Conferenza di Teheran, tenutasi nell’aprile-maggio del 1968, è significativa. Fu inaugurata dallo Shah Reza Pahlevi (non certo un campione dell’umanità) il quale iniziò il suo discorso ricordando l’editto di Ciro il Grande del 539 a.C, suo supposto antenato, considerato spesso il primo editto di tolleranza; ma poi mise ben in chiaro che lo scopo di quella riunione era di rinsaldare i legami e le attività anti-occidentali fra i paesi del Terzo mondo (con l’Urss spettatrice interessata). Quindi, conclude Moyn, il vero decennio dei diritti umani fu quello successivo, con la Conferenza di Helsinki del 1975. E, in ogni caso, fu a Vienna, nel 1993, a venticinque anni di distanza dalla convention di Teheran, che si svolse la prima conferenza delle Nazioni Unite sui Diritti umani.

    Flores e Gozzini non sono d’accordo sul giudizio di “insincerità” espresso nei confronti dell’azione dei paesi del Terzo mondo. Si basano sul lavoro di Steven Jensen, The Making of International Human Rights: The 1960s. Decolonization, and the Reconstruction of Global Values (Cambridge, Cambridge University Press, 2016. Qui Phillipp Kandler ce ne propone una recensione critica esauriente). Secondo Jensen, sono proprio i paesi decolonizzati che spingono per l’accettazione dei Diritti umani. Questi, infatti, sono figli di culture extra-europee (orientali o africane) che preferiscono al guadagno e alla sopraffazione i valori della vita comunitaria, dell’equilibrio e della pace. Ne consegue, prosegue Jensen, che il Sessantotto – nato in un ambiente universitario occidentale - non ebbe nulla a che vedere con i Diritti umani, argomento che non era nella cima dei pensieri dei giovani in rivolta.

    Ma su questo punto il disaccordo con Flores e Gozzini è totale. Ricordano che gli anni ’60 hanno visto il fiorire di manifestazioni contro il razzismo, il machismo, a favore dell’ambiente e per i diritti umani economici. Lo stesso antiautoritarismo, una delle costanti del movimento studentesco, fu un motore nella lotta a favore dei diritti umani, dal momento che i principali conculcatori di questi diritti erano proprio gli stati. E proprio il 1968 fu proclamato dalle Nazioni Unite il primo “Anno internazionale dei diritti umani” (Marcello Flores è autore di opere fondamentali su questo argomento. Qui ne possiamo ascoltare una sintesi.

    Cronogramma dei diritti umani

    c6. Costruire timeline

    Ci sono ancora cinque argomenti, nel nostro libro-palestra: l’Islam, la finanza, il lavoro, il digitale, la cultura. Di ciascuno di questi si può tracciare un cronogramma e interrogarsi sul ruolo del Sessantotto: se fu marginale o “spartiacque”. Si tratta di leggere selettivamente il testo. Sottolineare le date. Cercare quelle parti dove si parla di periodizzazione e, infine, elaborare una timeline. Qui ho usato un programma elementare (Frisechrono). Ma ce ne sono molti che permettono soluzioni più ricche e spettacolari. In ogni caso, sarebbe un buon esercizio di lettura/palestra per gli insegnanti. Se, poi, si riesce a elaborare una timeline che, in linea di principio, sia facilmente riproducibile da un allievo, allora la si proponga loro come esercitazione. Nel caso di una classe estremamente competente, poi, si assegneranno i capitoli a gruppi diversi con il compito di costruire una timeline e spiegarla ai colleghi.

    D. SUGGERIMENTI PER IL LAVORO

    d1. Il ruolo della lezione

    Nel loro insieme queste proposte disegnano un quadro abbastanza completo della vicenda storica. Prese singolarmente ne forniranno solo un pezzettino: ma questo è il destino obbligato per qualsiasi laboratorio che contempli un minimo di attività autonoma da parte degli allievi. Tutto ciò vuol dire che il compito di fornire un quadro generale e complessivo spetta al docente, attraverso la sua lezione. Questo fino a che i discenti non saranno in grado di costruire con una certa autonomia una visione generale di un determinato problema. Giunti a questo livello potrebbero intavolare con i loro professori un dialogo formativo: ma si tratterà di un momento di lavoro scolastico sofisticato, da escludere, a mio modo di vedere, nel segmento di scolarità al quale è diretto questo insieme di laboratori.

    In questo lavoro prevedo due tipi di lezione. La lezione introduttiva, molto breve (non si dovrebbe andare oltre i 15 minuti). Questa dà agli allievi qualche notizia del campo nel quale si lavorerà e cerca di motivarli. Per prepararla, il docente potrà usare come scaletta il modello di Sessantotto che qui ho presentato, mentre dalla prima parte dell’articolo ricaverà spunti narrativi e immagini.

    Il secondo tipo di lezione è quella conclusiva, al termine dell’attività laboratoriale. Più lunga, intorno ai trenta minuti, darà al docente la possibilità di fornire un quadro completo della vicenda, mostrando come i diversi elementi studiati si interrelano fra di loro, tenendo conto, al tempo stesso, dei problemi e degli interessi e delle difficoltà emerse nel corso del lavoro.

    d2. Un modello di unità di lavoro

    L’unità di lavoro, quindi, inizia con la messa a punto del quadro generale, fatta nella lezione introduttiva. A questo punto, il docente prende la prima decisione: lavorare sulla complessità o sul tempo? Sceglie il laboratorio che gli sembra più adatto. Per questo motivo ho disposto i laboratori in una scala latamente progressiva. Per esempio, l’attività sul terrorismo è più agevole di quella sui diritti umani, che richiede letture, comprensione di testi e capacità di discutere, mentre l’ultima attività libera è decisamente riservata a classi competenti.

    I lavori, tutti, prevedono sempre un ricorso ai testi. Infatti, i modelli e le cronologie sono degli strumenti per interrogare i testi, per leggerli selettivamente e cercare le notizie che di volta in volta sono necessarie. Qui ho riportato dei brani molto brevi: saranno sufficienti per un lavoro rapido. Per un lavoro più lungo e intenso, si daranno agli allievi le parti indicate del libro. Laddove possibile (come a volte ho indicato) si faccia ricorso al manuale.

    Terminata la fase della ricerca e del completamento del modello o del cronogramma, si passa alla fase della narrazione. Qui ho descritto brevemente come ricavare un racconto da uno schema (sopra, il punto f). Per il cronogramma è più facile. Basta seguire la linea del tempo, come abbiamo già visto. Per renderla più complicata (e in connessione con l’insegnamento della lingua), si proporranno delle varianti: fai una narrazione a ritroso, partendo dall’oggi; fai una narrazione ad anello, centrata sul Sessantotto. Questa parte del modulo potrà essere svolta a casa, individualmente (anche nel caso del lavoro di gruppo).

    Infatti, posto che questo lavoro si svolge in classe con le modalità di una lezione partecipata, si suggerisce anche la formula del lavoro a gruppi, soprattutto se si dispone di una classe competente. Per quanto riguarda il lavoro sulla complessità, l’insegnante mostra come si lavora su uno schema. Sviluppa questo esempio sul caso più difficile, lasciando agli allievi i casi più facili. Di seguito, assegna ad ogni gruppo uno schema. Per quanto riguarda il lavoro sul tempo, invece, dal momento che gli esempi che ho presentato sono tre, ne adopera uno per mostrare agli allievi “come si fa”, poi divide la classe in due (o quattro) gruppi, assegnando a questi i due cronogrammi rimanenti. Si è già detto che, nel caso di una classe molto competente, si assegnerà il lavoro “libero” sui capitoli del testo che qui non sono stati trattati.

    Il modulo di lavoro termina con la lezione frontale del docente, nel quale questi, tenendo conto dei lavori dei ragazzi, del livello di comprensione che questi hanno rivelato e dei problemi emersi, espone agli allievi la sua ricostruzione del periodo.

    Qui sopra il diagramma operativo. Suggerisco di progettare un modulo di due ore. Nella prima si apre con la lezione introduttiva e si lavora con lo schema (o con la cronologia). Si assegna il compito da svolgere a casa. Nella seconda, si continua a lavorare o si discute e, nell’ultima mezz’ora, si eroga la lezione conclusiva.

     


     

    * La prima parte “L’evento e la memoria” è stata già pubblicata su HL. La terza parte e la postilla conclusiva verranno pubblicate a breve.

  • Io non condivido

    Autore: Antonio Brusa

    Immagini di guerra, social e didattica della storia

     

    Indice
    •    Introduzione
    •    Testimonianze da una guerra passata, ancora moderna
    •    La globalizzazione del fronte interno
    •    Il ruolo dell’insegnante di storia


    Introduzione
    In tempi angosciosi, nei quali i social network sono invasi da immagini di guerra, vorrei discutere sull’impulso di indignazione e di compassione che mi spinge a condividerle sulla mia bacheca. Ci vorrei ragionare, però, non come cittadino, utente di Fb. Qui ognuno fa la sua scelta. Il tasto “mi piace” serve apposta per sottometterla all’approvazione degli altri. E penso che funzioni, tutto sommato. Ci vorrei discutere come storico e insegnante di storia. C’entra il mio mestiere in questo giro di immagini, mi chiedo; mi aiuta a vedere la questione da un punto di vista particolare, e da questa angolazione mi permette di suggerire qualche riflessione, forse utile per chi fa il mio lavoro?

    La prima considerazione è quasi automatica. Le immagini di guerra fanno parte della guerra. Da sempre. Da quelle graffite nelle grotte neolitiche, a quelle dei raffinati decoratori della ceramica greca, ai bassorilievi romani, ai monaci che adornavano i loro manoscritti con teste mozzate, combattimenti e città sotto assedio: non proseguo una lista che molti saprebbero completare meglio di me. Ritorno, invece, sulla frase di sopra, perché non è a effetto. Le immagini di guerra FANNO parte della guerra, e lo hanno fatto da SEMPRE. L’eroe che uccide, è il campione che ci libera dai malvagi. Noi lo vediamo in azione e ci esaltiamo nella sua ammirazione. E se quella scena la vedono gli altri, i nemici, che stiano ben attenti, rappresentati come sono nella loro prostrazione umiliante. Tutta un’altra storia, invece, se sono loro a uccidere. In questo caso diventano barbari e feroci, e noi le vittime innocenti che suscitano compassione. Sono tanto cattivi, che uno non può non condividere il fatto che bisogna proprio ammazzarli.

    E dagli, con la tua storia antica e medievale, mi direte. Oggi siamo in un’altra epoca, quella della documentazione della realtà. Quelle antiche sono immagini costruite. Nascono con un messaggio “politico” dentro. Sono fatte per eccitare gli animi, incutere paura, giustificare il massacro. Queste no. Ecco il morto, ecco il reporter, tu vedi quello che accade sul campo di battaglia. Tu HAI diritto a vedere quello che succede. Nei tempi andati, era il “potere” che decideva quello che potevi vedere. Oggi è diverso, perché i media sono gli strumenti della democrazia visiva. E i social sono ancora più democratici, perché mettono nelle tue mani questi mezzi. Che ti sei messo in testa, vuoi discutere la democrazia della rete? Vuoi mettere in dubbio il lavoro meritorio di tanti reporter, che, a rischio della vita, documentano i fatti più atroci dei nostri tempi?

    No. Non ne voglio parlare. Non mi avventuro nella diatriba intricatissima, se questa sia o meno la democrazia cognitiva che tutti aspettiamo. Io voglio solo ragionare sul gesto personale della condivisione.


    Testimonianze da una guerra passata, ancora moderna

     

     

     

    Alcuni anni fa, in una piccola e bella mostra sulla Prima Guerra mondiale, organizzata nelle Marche da Costantino Di Sante,  quando ancora non si erano accesi i riflettori del centenario, vidi questa foto di Cesare Battisti, scattata dai suoi carnefici subito dopo la sua esecuzione. La didascalia non ricorda l’eroicità di Cesare Battisti, il “martire purissimo”, come veniva celebrato nei discorsi ufficiali, nella stampa e perfino nei manuali, ma denuncia l’oltraggio del cadavere. Il massimo della barbarie. Quella era una guerra giusta – veniva a dire così la foto - mossa da genti civili contro gli imperi barbari che schiavizzavano dei popoli europei.

    Quell’immagine ebbe una grandissima diffusione. Me ne colpì la versione trovata da Di Sante, perché era stata riprodotta su una cartolina postale. Dunque, venne utilizzata in quello stesso circuito comunicativo, attraverso il quale ormai passavano le rappresentazioni delle bellezze locali (non solo paesaggistiche); si tenevano in vita i rapporti affettivi e ci si diceva spesso delle futilità. Le cartoline postali erano molto meno impegnative di una lettera, e perciò più rapide da scrivere. Oggi sono pressoché scomparse, ma fino a poche decine di anni fa costituivano una fetta importante della comunicazione sociale. Tessevano una sorta di rete meccanica, che funzionava con i treni e le biciclette dei postini. Un social network a pedali.

    In questo modo gli italiani reimpiegarono una fotografia austriaca, scattata per onorare la memoria di un’uccisione, che al di là delle Alpi venne considerata sacrosanta. Battisti, eroe per l’Italia, era un traditore per l’Impero e - a giudicare dalla letteratura successiva e dalle vicende commemorative in quel di Trento - la questione non si chiuse affatto con la pace di Versailles. Non so quanto quella foto circolasse in Austria. La notizia dei fatti, sì. Ne ho trovato una traccia stupefacente nella mostra Am meine Völker, che si visita alla Biblioteca Nazionale di Vienna. Questa esposizione si apre con l’appello alla guerra di Francesco Giuseppe a austriaci, ungheresi, italiani e alle numerose altre genti dell’Impero, “i miei popoli”, e si chiude malinconicamente con il proclamacon il quale Carlo I, il suo successore, annunciò l’autonomia di quegli stessi popoli, un mese prima della capitolazione del novembre 1918.

    Vi ho appreso che, al principio della guerra, qualcuno ebbe l’idea di creare un centro di documentazione al quale i cittadini potessero inviare le loro testimonianze, scritte, visive o materiali del conflitto. Subito il successo fu tale che i depositi non bastavano. Poi, con il declinare degli eventi, l’entusiasmo scomparve e quei centri vennero dimenticati. Furono riscoperti ai nostri giorni dagli storici, che solitamente mostrano grande soddisfazione quando – di un fatto epocale – trovano le testimonianze della gente comune, come questa raffigurazione del supplizio di Battisti.

     

     

     

    Si tratta di un compito. Il disegno di uno scolaro di Graz. Molto probabilmente non conosce la nostra foto. Ce lo dicono il paesaggio, l’atteggiamento dei presenti e la forca, disegnata come fanno sempre i bambini. Ha sentito un racconto. Cesare Battisti marcia, vestito da “cacciatore delle Alpi”, come il ragazzo avrà visto in tante sfilate, questa volta verso il patibolo, dove un prete lo attende con un ufficiale che legge la condanna. Non ho nessun elemento per immaginare i sentimenti e i pensieri profondi di quel ragazzo. Ma ne ho qualcuno per ipotizzare un contesto di quel disegno. Siamo in una scuola. L’insegnante avrà parlato della cattura di Battisti, del processo e dell’esecuzione. Ha pensato che fosse suo dovere di educatore e, probabilmente, gliene giunsero esortazioni pedagogiche autorevoli. Poi ha dato le consegne, e l’allievo si è ingegnato per eseguirle. Forse il compito è stato svolto in classe; oppure a casa, dove lo avranno visto i genitori, ai quali il ragazzo potrà aver riferito il giudizio (“visto!”, se leggo bene) dell’insegnante.

    Quante volte abbiamo visto i disegni dei bambini in tempo di guerra? Quelli strazianti dei piccoli prigionieri di Terezin e quelli delle vittime degli innumerevoli altri conflitti dell’ultimo secolo? Ci commuovono. Li sentiamo come nostri, quei ragazzini. Ma questo ragazzo e quella rivoltante pedagogia di guerra ci turbano. Ci fanno percepire, a un secolo di distanza, l’enorme differenza che intercorre fra una società che vive in guerra, e una, come la nostra, che non la sperimenta da quasi settant’anni. Quello scolaro è lontano da noi, esattamente come quel fidanzato che, pensando di fare una cosa carina, inviò alla sua ragazza la cartolina postale con un boia e un cadavere.

    Quelle immagini, infatti, sono – per uno storico – le fonti (alcune delle tante) che testimoniano della costruzione del fronte interno. Sono strumenti attraverso i quali la gente dietro le trincee venne compattata e schierata contro un nemico, che quelle stesse figurine contribuivano a creare. Il nostro ipotetico fidanzato italiano e lo scolaro austriaco combattevano, per quanto in abiti civili. Senza imbracciare il fucile, ma usando mezzi della vita pacifica e quotidiana, come la posta e la scuola. Perché questi, in guerra, vengono trasformati in armi.


    La globalizzazione del fronte interno

    Sento l’obiezione. Ancora fatti d’altri tempi? Quel fronte interno (della Prima, come della Seconda Guerra mondiale) era strettamente legato al nazionalismo e alle sue aberrazioni. Roba vecchia, che non conta più come allora. Per lo meno, ha una presa assai minore nell’Europa occidentale, laica, civile, imbelle, secolarizzata, disincantata.

     È vero. Le cose sono cambiate, ma in modo sorprendente. Considerate una fotografia celebre, quella del bambino di Varsavia. Fu scattata da un gerarca che si voleva far bello alla corte di Hitler; diventò una denuncia del massacro ebraico. Decontestualizzata, si trasformò in simbolo generico di violenza contro i bambini; fino ad essere capovolta, ai nostri giorni e proprio nel gioco ideologico generato dai conflitti vicino-orientali, e costretta a diventare il simbolo dell’oppressione israeliana nei confronti dei palestinesi. Una vicenda complessa e lunga, raccontata da Frédéric Rousseau , che ha portato quella foto, testimonianza di un’azione di sterminio, a diventare un’icona, ormai scollegata dalla sua origine, comprensibile in ogni parte del mondo, adattabile ad ogni situazione violenta. Un’icona globale. (Ilenia Rossini e Anna Vera Sulam Calimani ne fanno delle recensioni esaurienti (http://www.unive.it/media/allegato/dep/n10-2009/Schede/Recensione_Sullam.pdf; http://www.officinadellastoria.info/magazine

    /index.php?option=com_content&view=article&id=352:recensione-f-rousseau-il-bambino-di-varsavia-storia-di-una-fotografia&catid=68:fotografia-e-storia )

      Un disegnatore danese, Per Marquard Otzen, accosta il disegno del bambino palestinese alla celebre immagine del bambino di Varsavia

     

    E’ vero, dunque. Quel meccanismo, che abbiamo visto attivarsi al tempo di Battisti, è cambiato, perché è diventato pervasivo e potente. Ciascuno di noi se ne rende conto, sfogliando un album di icone globali che vanno dall’insegna di Auschwitz, ai carri merci, ai mucchi di cadaveri, alle fosse comuni, fino ai Che Guevara indossati dai ragazzi di estrema destra.
    E’ cambiato anche un altro aspetto di queste immagini: la loro efficacia nella creazione di un fronte interno. Anche in questo caso, si tratta di una potenza che non ha fatto che crescere, man mano che avanzavano i processi di globalizzazione. Ci basta rammentare – per tutte - la napalm girl, la bambina vietnamita che fugge impaurita dai bombardamenti americani. Entrambe contribuirono potentemente alla creazione di un fronte antiamericano le cui dimensioni coincisero con il pianeta, e con il quale gli Usa, prima potenza militare del mondo, dovettero scendere a patti.

    Ecco:  potenti, duttili e globali, queste sono le nuove armi iconiche a disposizione dei signori delle guerre odierne. Il social è uno dei campi preferiti di questa battaglia. Tu clicchi “condividi” e vieni arruolato. Il signore vanterà un fronte interno smisurato, incomparabilmente più vasto dei bacini ai quali si rivolsero le nazioni del secolo scorso.

    Immagino che la sera, quando si tirano le somme, i capi contino le bombe lanciate sulla testa del nemico, i razzi scagliati, i nemici ammazzati (militari o no, vanno tutti nel mucchio) e le immagini condivise. Trecento razzi, dice uno; duecentomila condivisioni, dice l’altro. Il capo (o il team delle teste pensanti) approva, decide la strategia per il giorno dopo. Vaglia le immagini che hanno avuto più successo: la mamma straziata, la bambina che cerca i libri fra le macerie, il mucchio di cadaveri. Soggetti che una guerra produce con generosità. Non importa come siano state realizzate: se da un reporter coraggioso o da una persona qualunque con lo smartphone, o da un fotografo embedded. Si tratta di individuare quelle che funzionano di più, che hanno iscritto più gente al proprio fronte interno globalizzato. Non importa il motivo per il quale, domani, uno le condividerà: per informare, testimoniare, vendicarsi, indignarsi, chiedere la pace e la fine del massacro. Domani, ognuno combatterà con le sue armi. Uno con il lanciarazzi e l’Ak47, il Raphael o l’Iron Dome. L’altro col tasto “condividi”.

    Ecco perché esito a condividere. Ecco perché non condivido, per quanto il mio primo impulso sia quello di comunicare agli amici la mia rabbia e la mia pietà per gli uccisi, pensando che quella foto dia forza e verità al mio sentimento. Non lo faccio per lo sdegno piccato di chi sospetta di essere strumentalizzato. Perché “non mi va di essere arruolato a mia insaputa”. Ma, perché – come mi ha insegnato il disegno della ragazzino di Graz – io vivo in un altro mondo, che in questo momento è fortunatamente in pace. Posso scegliere il mio ruolo. Entrare nel conflitto, a sostegno dell’uno o dell’altro, o dire basta. Cessate le armi. Ma con quale credibilità chiederò il passo indietro di entrambi, se faccio parte di uno dei fronti? Come posso chiedere la pace, se entro in guerra?

    Perché non contribuire a creare un altro fronte interno, a sostegno di quelli – palestinesi e israeliani – che chiedono la pace, l’hanno chiesta in passato, e oggi sono stati messi in minoranza,  vittime di nemici e di connazionali? Perché non incoraggiarli con la consapevolezza di avere alle spalle un fronte interno grande e potente?

    Non è necessario essere pacifisti, per valutare questa opzione. Non so che cosa farei se gli italiani fossero coinvolti direttamente in un conflitto. Non sono dentro una guerra, quindi non posso giudicare chi si trova nell’inferno e ne segue la logica. Né giudico chi, animato da intenzioni generose, si schiera sul web. Credo, però, che un buon compito per chi si trova momentaneamente in pace, per chi da settant’anni non sperimenta la guerra sulla propria pelle (privilegio unico nella storia), sia quello di aiutare gli altri ad abbassare le armi. E questo non si fa applaudendo i guerrieri, né brandendo le vittime.


    Il ruolo dell’insegnante di storia

    Condividere o no è una scelta personale. Ne ho esposto i miei motivi. Penso che gli autori di moltissime condivisioni ne avranno di altrettanto validi e che se ne possa discutere. In fondo, è il lusso che ci concede lo stato di pace. Quello che so, per certo, è che – essendo una scelta personale – questa non può essere oggetto di valutazione, e quindi di una qualche direttività didattica. Libera per me, libera anche per gli studenti.

    Allora, che cosa insegnare di questa vicenda?
    La storia della circolazione sociale delle immagini, che ho ricordato senza alcuna pretesa di completezza (per questa occorre studiare i lavori di chi se ne è occupato professionalmente, come Giovanni De Luna  o Peppino Ortoleva),  pur nella sua brevità, è sufficiente per alcune risposte. Provo a suggerirne cinque.

    Costruire la profondità temporale dell’evento. La storia fornisce una prospettiva temporale a ciò che sembra un tipico prodotto del presente. C’è un passato, nell’uso bellico delle immagini, che mi permette di riflettere sul fatto che io sono in grado di vedere qualcosa di un evento bellico che si svolge a distanza. Questa vicinanza al fronte di chi sta nel retroterra non è “naturale”. E’ costruita, ha i suoi scopi, le sue regole, i suoi problemi, a volte i suoi controllori. Questo sistema complesso, attivato nelle società fin da tempi lontanissimi, si è modificato nel tempo. Oggi ne viviamo una fase molto particolare e molto efficace. Per mettere in grado il soggetto di valutare questa specificità, occorre che egli sia in grado di ricostruire questa prospettiva. Di conseguenza è importante, proprio per prepararlo a gestire il flusso di immagini belliche odierne, insegnargli a leggere quelle del passato.

    - Comprendere il meccanismo della diffusione sociale delle conoscenze. La storia ci mostra come funziona questo meccanismo intricato, che lega il fronte al retroterra. Quali sono gli interessi, gli attori, gli strumenti della comunicazione, gli effetti. Ti avvisa che accedere a questo sistema è entrare nel gioco, diventarne un soggetto attivo – anche se non lo si vuole. Lo era in passato. Oggi, con i sistemi di computo delle visualizzazioni, e con la possibilità di contribuire alla circolazione delle informazioni, lo è ancora di più.

    - Saper gestire criticamente le fonti. La disciplina storica è il più antico deposito di tecnologia dell’informazione che l’umanità abbia costruito. Lo facciamo da 2500 anni, da quando Erodoto cominciò a raccogliere notizie e a interrogarsi quale fosse verosimile, quale vera e quale invece una fandonia. La storiografia ha elaborato un sistema di critica delle notizie, che ci permette di costruire un’immagine ponderata della realtà, a dispetto della loro fallacia, voluta o inconsapevole (Elena Musci ha mostrato come si possano utilizzare in classe anche le “foto false” del fascismo).  Nessuno di noi “vede” le atrocità della guerra. Noi vediamo documenti visivi di queste atrocità. L’effetto di realismo di queste immagini, accentuato dal movimento e dal suono, ha lo straordinario potere di ingannare il suo fruitore. Il suo disinganno è la premessa insostituibile per un uso corretto delle immagini. Oggi, fornire gli allievi degli strumenti elementari per valutare le notizie, diventa un compito che qualifica l’utilità civile dell’insegnamento della storia.

    - Avere un approccio critico ai media. C’è un’educazione ai media alla quale la storia può fornire un contributo specifico.  Per valutare criticamente un’immagine, occorre sapere chi l’ha scattata, per quale scopo, attraverso quali agenti è stata messa in circolo, qual è l’uso che se ne sta facendo. Senza queste notizie, l’immagine non riuscirà mai a funzionare come documento che aiuta il fruitore a capire quello che succede. E, mentre diminuisce il suo potenziale informativo, aumenta parallelamente il rischio che si presti a essere ingrediente di un discorso politico, ideologico, o di altro genere. Potremmo dire, allora, che un soggetto è educato ai media non solo quando sceglie per sé le immagini dotate di questi requisiti; ma anche quando se ne fa tramite attraverso la rete.

    - Conoscere la storia sociale della guerra e della pace. La storia può (deve) insegnare la differenza che esiste fra una società in guerra e una in pace. Non, come si fa solitamente, le cause, lo svolgimento, i protagonisti e l’esito di una guerra. Deve far capire quanto distanti siano le due società. Quanto diversamente funzionino le rispettive logiche; come si pensi diversamente, la scala diversa dei sentimenti, e gli ordini morali ribaltati.


    C’è infine, una forma di condivisione della quale non parlano mai i guru del web, ma che interessa la scuola da vicino: quella che inzeppa tesine, ppt e ogni genere di elaborato-compito multimediale. Mi capita spesso di vederne, in giro per le scuole. Solitamente i docenti me li mostrano con gli occhi lucenti di soddisfazione. Ne ricordo uno per l’imbarazzo che mi procurò. Era un 25 aprile. Il prof aveva curato, con i suoi allievi, un ppt sulla Liberazione, intitolato Democrazia contro Dittatura. Un montaggio ammirevole, veloce. La musica hard, sparata a mille, commentava una collezione di poveri impiccati, torturati, bruciati vivi, come se ne trovano a bizzeffe nella rete. Immagini scattate dagli stessi boia o con gli smartphone da chi si assiepava a vedere lo spettacolo. Di grande presa emotiva. Osservavo i ragazzi, catturati dai ritmi musicali e iconici. Per quello che riesco a capire era tecnicamente inappuntabile. Per quello che so, era una grave opera di diseducazione.

  • Italiani di Crimea

    Diario di bordo, 6 marzo

    Seguendo un breve e frettoloso articolo dell'Espresso, un riassunto in verità dell'intervista che sussidiario.it ha ottenuto da Giulia Boico, cittadina ucraina di origini italiane, ho scoperto che fin dal principio dell'Ottocento, si stabilì una piccola comunità italiana nella penisola di Crimea. Secondo l'Espresso si tratterebbe di una comunità le cui origini risalgono alle immigrazioni favorite dalla zarina Caterina II, e sarebbero composte da genovesi, pugliesi, friulani ecc.

    Da questa intervista sono risalito a un libro (un pamphlet, dicono i suoi stessi autori), scritto dalla Boico e da Giulio Vignoli, un docente universitario di Genova. Lo potrete leggere nel link che trovate alla fine (se lo volete in cartaceo, dovete ordinarlo dall'Ucraina...). Il sito da cui l'ho preso è quello dell'Unione Monarchica, nel quale si vede uno degli autori affianco ad un'Altezza Reale, durante la presentazione del libro.

    Intuibile il coté ideologico di questo lavoro. Ma il lettore accorto lo saprà ben neutralizzare. Vi troverà tante notizie utili, anche per correggere il frettoloso articolo dell'Espresso. Innanzitutto, il fatto che Caterina II c'entrava ben poco con questa comunità. In secondo luogo, che essa (circa 2000 persone) era prevalentemente composta da pugliesi, della provincia di Bari, per la precisione. In terzo luogo, che non è vero - come suggerisce l'articolista vittima anche lui dell'epidemia di "castite", che ha colpito l'Italia - che "il governo" ha dimenticato questa enclave italiana. Anzi, è proprio il contrario: i governi italiani non hanno mancato di occuparsene, spesso a sproposito e cercando di sfruttarla a proprio vantaggio. E questa ne ha pagato durissime conseguenze, quali le vendette postbelliche che Stalin organizzò contro tutti quelli che, a torto o a ragione, lui sospettò di collusione con i nazifascisti.

    Ma la parte più interessante, anche per un docente, è costituita da 14 piccole autobiografie, raccolte dai due autori, si vede con amore. Vi troverete quella di Angelina Caminelli, originaria di Bisceglie. La storia incredibile di Nicola Bassi, che prima emigra in America e poi se ne va in Crimea, perchè, dice un suo nipote "l'America non gli fu piaciuta". E tante altre. Se ne può fare un bel lavoro in classe. O le si possono leggere.

    Anche perché a dimenticare questa storia non sono i governi che si sono succeduti in Italia. Non è che siano stati degli stinchi di santo. Ma gettare sempre a loro la colpa di tutto è come autoassolversi. E, in questo caso, siamo stati noi a dimenticare. 

    Il libro lo trovate qui: http://www.monarchia.it/pubblicazioni_crimea.html

    Su questa comunità, che alcuni anni fa fu visitata da una delegazione della regione puglia, è intervenuto varie volte Marco Brando

    http://www.mondimedievali.net/microstorie/kerc.htm

     

    http://espresso.repubblica.it/internazionale/2014/03/05/news/noi-italiani-di-crimea-dimenticati-dal-governo-1.155873?ref=HRBZ-1

  • L'assalto alle statue di Colombo

    di Daniele Boschi

     

    Immagine 1. Colombo BostonFig.1: La statua di Cristoforo Colombo a Boston (Massachusetts) decapitata lo scorso 10 giugno. Fonte Un corposo dossier sulla Guerra delle statue

    Historia Ludens è intervenuta più volte sulla questione dell’abbattimento delle statue, con articoli sugli attacchi ai monumenti avvenuti a partire dal giugno scorso, sul dibattito sviluppatosi intorno alla cosiddetta “guerra delle statue” e sulla proposta di abbattere la statua di Costantino il Grande; abbiamo pubblicato inoltre una sitografia analitica e la presa di posizione degli storici che lavorano al progetto Contested Histories dell’IHJR (Institute for Historical Justice and Reconciliation). Ma l’analisi degli eventi più recenti rimarrebbe sicuramente incompleta, se tralasciasse il fatto che la principale vittima della furia iconoclasta, scatenatasi negli USA dopo l’uccisione di George Floyd lo scorso 25 maggio, non è stata il generale Robert Lee, né Jefferson Davis, né alcun altro dei Confederati, ma piuttosto Cristoforo Colombo.
    Il navigatore genovese, pur non avendo mai messo piede sul territorio attuale degli Stati Uniti, è considerato infatti dai suoi detrattori come una figura simbolo del colonialismo, dello schiavismo e del genocidio dei nativi americani. Per questo motivo, circa trenta statue di Colombo sono state vandalizzate, abbattute o rimosse tra il 9 giugno e il 31 luglio di quest’anno, un numero molto più alto di quelle di ognuno dei Confederati preso singolarmente. E non è affatto detto che la vicenda si chiuda così, dato che ci sono ancora svariate decine di monumenti dedicati a Colombo ancora al loro posto, sparsi sul territorio statunitense (lo si deduce confrontando questo elenco con quello delle statue abbattute o rimosse).

     

    Colombo nella memoria degli Stati Uniti

    Gli attacchi alle statue di Colombo negli Stati Uniti hanno alle spalle una lunga storia, che credo sia utile ricostruire sommariamente (per una analisi più approfondita si veda A. Brusa, Colombo eroe o malfattore? in M. Gazzini, Il falso e la storia, Feltrinelli, Milano 2020, in corso di stampa).
    Va tenuto presente anzitutto che la figura di Cristoforo Colombo ha avuto un ruolo molto importante nella definizione dell’identità e delle origini degli Stati Uniti d’America. Nel corso dell’800 Colombo è divenuto l’oggetto di un autentico culto, sia da parte delle élites sia nella cultura popolare della nuova nazione nordamericana. Un importante e ben noto contributo alla costruzione del mito di Colombo fu la celebre biografia di Washington Irving, A History of the Life and Voyages of Christopher Columbus (1828), alla quale si devono buona parte degli elementi costitutivi dell’immagine eroica e romantica del navigatore genovese, tramandata a generazioni di scolari fino a non molto tempo fa. A ciò si aggiunge il fatto che, a partire dalla fine del XIX secolo, Cristoforo Colombo è stato innalzato a figura simbolo degli immigrati italiani negli USA e della loro travagliata integrazione in quel paese. Fu anche in seguito alle pressioni esercitate da un influente uomo d’affari italo-americano, Generoso Pope, che il Presidente degli Stati Uniti F. D. Roosevelt riconobbe nel 1934 il Columbus Day (12 ottobre)come festa nazionale[1].

    A Colombo sono dedicate strade, piazze e monumenti in tutti gli Stati Uniti. Numerose contee e città – tra le quali le capitali dell’Ohio e della South Carolina – e una prestigiosa università – la Columbia University di New York - portano il suo nome, o quello da lui derivato di Columbia. In suo onore il territorio della capitale degli Stati Uniti si chiama, appunto, District of Columbia.
    In netto contrasto con questo glorioso passato, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso la figura dell’esploratore genovese è divenuta oggetto di dure critiche, sia da parte della cosiddetta storiografia ‘revisionista’, sia da parte degli attivisti dei movimenti che si battevano per i diritti dei nativi americani e di altre minoranze[2]. Si è cominciata allora a diffondere una nuova immagine di Colombo, visto non più come il grande navigatore che ha scoperto l’America, ma come l’uomo che ha avviato lo sfruttamento e il genocidio degli abitanti originari del Nuovo Mondo. 

    La decostruzione del mito di Colombo ha avuto varie ripercussioni, anche per effetto delle campagne organizzate dalle associazioni dei nativi americani. Come è ben noto, numerose città e stati, a partire dal 1990, hanno abolito il Columbus Day, rimpiazzandolo in molti casi con l’Indigenous Peoples’ Day(o Native Americans’ Day)[3]. E gruppi di attivisti hanno cominciato a chiedere la rimozione delle statue e dei monumenti dedicati a Colombo, che sono stati talora oggetto di vandalismo, soprattutto in questi ultimi anni, fino all’escalation avvenuta a partire dal giugno scorso.

     

    Immagine 2. Washington IrvingFig.2: Washington Irving (1783-1859), autore della History of the Life and Voyages of Christopher Columbus (1828), alla quale risalgono buona parte degli elementi costitutivi dell’immagine eroica e romantica del navigatore genovese. Fonte Colombo nella memoria storica dell'America latina

    È utile ricordare che anche nell’America latina la fortuna di Colombo ha seguito una parabola abbastanza simile a quella descritta negli USA. A partire dal secondo decennio del ‘900, diversi Stati dell’America centro-meridionale hanno celebrato il 12 ottobre come Día de la Raza, per ricordare l’incontro e la contaminazione tra spagnoli e nativi americani come elemento fondante della propria identità nazionale. Ma a partire dalla fine del secolo scorso, molti governi hanno cambiato il nome di questa ricorrenza, che è diventata ad esempio in Venezuela il Día de la resistencia indígena e in Argentina il Día del Respeto a la Diversidad Cultural. Inoltre, alcune statue di Cristoforo Colombo sono state abbattute o rimosse, per essere poi sostituite con monumenti dedicati ai protagonisti della resistenza dei nativi contro i colonizzatori europei. Nel 2015, a Buenos Aires, una statua di Juana Azurduy de Padilla, che lottò per l’indipendenza della Bolivia, ha sostituito un monumento del navigatore genovese. E nello stesso anno a Caracas è stato inaugurato un monumento a Guaicaipuro, leader della resistenza ai conquistadores, sullo stesso posto dove prima si ergeva una statua di Colombo, abbattuta nel 2004.
    La trasformazione dell’immagine di Colombo avvenuta negli ultimi decenni è un fenomeno molto complesso. Infatti, come ha messo in evidenza Antonio Brusa (nel saggio che ho già citato) l’azione demistificatrice, tipica di una storiografia critica, è stata accompagnata da un curioso processo di mitopoiesi “che mentre distrugge il vecchio mito – del Colombo modello di cittadinanza – ne produce uno nuovo, del Colombo simbolo del dominio occidentale sul pianeta e concentrato di crimini contro l’umanità”[4]. C’è inoltre un evidente rapporto – secondo Brusa – tra questo processo e lo stretto connubio tra storia e identità, che si è affermato in tutte le società nel passaggio dall’età della guerra fredda al caotico mondo globale dei nostri tempi. Come vedremo, il dibattito statunitense sugli assalti alle statue di Colombo conferma questa interpretazione.

     

     Colombo nei media americani

    Per esaminare le reazioni e i commenti ai recenti attacchi alle statue di Colombo negli Stati Uniti, diamo un rapido sguardo ad alcuni dei principali quotidiani statunitensi: essi rivelano un’opinione pubblica divisa e non di rado perplessa.
    Alcuni commentatori e, soprattutto, molti amministratori locali non sembrano nutrire molti dubbi sul fatto che i monumenti a Cristoforo Colombo vadano rimossi. Ad esempio, lo scorso 23 luglio, il “Chicago Tribune”, di fronte alle pressanti richieste di rimuovere le statue del navigatore genovese dagli spazi pubblici della città, ha pubblicato un editoriale il cui titolo dice già tutto: “Christopher Columbus was a fraud. He doesn’t deserve statues or a holiday in his honor” (Su Cristoforo Colombo ci hanno ingannati. Non merita statue né una festa in suo onore). L’autrice dell’articolo, Dahleen Glanton, afferma che i libri scolastici, sui quali lei stessa e i suoi concittadini si sono formati, sono pieni di bugie riguardo alla cosiddetta “scoperta dell’America”; e fornisce questa breve ma densa descrizione della figura e delle imprese di Colombo:

    Egli fu certamente un esploratore coraggioso e di successo, ma fu anche un uomo malvagio e brutale che non mise mai piede in quel posto dove ora sono gli Stati Uniti. Sbarcò per caso nei Caraibi, lasciando un retaggio di razzie e schiavitù, per poi essere alla fine arrestato e tornare in Spagna in catene, privato della sua nobiltà. Per la maggior parte dei bianchi americani, Colombo è l’intrepido conquistatore che diede inizio alla colonizzazione transatlantica, che ha reso possibile la loro presenza qui. Ma per molti nativi americani, egli rappresenta il perfetto esemplare di un barbaro colonizzatore. Il sanguinoso processo dell’occupazione coloniale delle Americhe cominciò con lui. Sulla scia della colonizzazione un numero enorme di nativi americani furono uccisi, ridotti in schiavitù o altrimenti cacciati dalla loro terra” (le traduzioni di questo e degli altri brani sono mie).

    Altri editorialisti si sono espressi con maggiore cautela. Per esempio, sullo stesso quotidiano (“Chicago Tribune”, 22/07/2020), Blair Kamin aveva manifestato forti perplessità circa la richiesta di rimuovere le statue di Colombo:

    | Per i suoi difensori, che comprendono molti membri della comunità italo-americana di Chicago, Colombo è ben rappresentato come un audace, pioneristico esploratore che aprì la strada alla prosperità e al progresso sia in America che in Europa. Eppure alcuni recenti studi storici lo dipingono come uno spietato colonizzatore e sfruttatore dei nativi. Per alcuni storici, egli è entrambe le cose. Data questa diversità di opinioni, la questione se sia giusto onorarlo si colloca, almeno a mio giudizio, in una zona grigia, diversa dal caso, facile da risolvere, dei monumenti dei capi dei Confederati, che combatterono sia per distruggere l’Unione, sia per perpetuare la schiavitù.

     

    Colombo e le associazioni dei nativi americani

    D’altro canto, come era logico aspettarsi, l’abbattimento o la rimozione delle statue di Colombo sono stati appoggiati, o addirittura promossi, dalle associazioni dei nativi americani.
    Per esempio, dopo che una statua di Colombo è stata decapitata a Boston il 10 giugno scorso, Jean-Luc Pierite, presidente del North American Indian Center, ha dichiarato che quel monumento rappresentava “la violenza di stato subita dai neri e dai nativi americani per oltre 500 anni” e che qualsiasi tentativo di restaurarlo avrebbe incontrato l’opposizione di queste due comunità. A St. Paul nel Minnesota, Mike Forcia, esponente dell’American Indian Movement, ha promosso e organizzato lui stesso l’abbattimento della statua di Cristoforo Colombo nei pressi dello State Capitol. A Baltimora, dopo lo smantellamento di un’altra statua del navigatore genovese il 4 luglio scorso, Jessica Dickerson, rappresentante dell’associazione Indigenous Strong, ha commentato l’evento con queste parole: “Noi non otteniamo molte vittorie, giusto? Questa è una piccola, ma grande vittoria, [Colombo] è stato un assassino per il mio popolo”.

     

    Immagine 3. Colombo Baltimora 1Fig.3: La statua di Cristoforo Colombo nella zona di Little Italy a Baltimora (Maryland), prima che fosse abbattuta il 4 luglio scorso. Fonte Colombo e le comunità italiane

    Vigorose sono state invece le lamentele e le proteste dei rappresentanti delle comunità italo-americane.
    A Baltimora John Pica Jr., presidente dell’associazione Little Italy’s Columbus Day Commemoration, ha dichiarato che la statua di Colombo appena abbattuta era un monumento agli italo-americani e che questi continueranno comunque a celebrare il Columbus Day. A Columbus, capitale dell’Ohio, dopo l’annuncio che la statua dell’esploratore genovese sarebbe stata rimossa dalla West Broad Street, il Columbus Piave Club ha rilasciato una vibrante dichiarazione di protesta, lamentando di non essere stato nemmeno consultato dalle autorità municipali e ricordando il contributo dato dalla comunità italo-americana all’acquisto e alla manutenzione della statua. Non poteva mancare, anche in questo caso, un riferimento al Columbus Day, una ricorrenza con la quale – si legge nella dichiarazione - si celebrano “gli italo-americani e le positive realizzazioni con le quali gli italiani hanno dato il loro contributo alla nostra società”.
    A questo genere di interventi si replica dal fronte opposto sostenendo che gli italo-americani potrebbero benissimo scegliere, come simbolo della propria identità, un altro personaggio storico meno controverso; tra i nomi proposti ci sono Dante Alighieri, Marco Polo, Michelangelo, Garibaldi, Sacco e Vanzetti, Enrico Fermi[5].
    Lo scontro tra i due opposti gruppi etnici (o tra due gruppi che si presumono tali) e tra le loro storie e memorie contrapposte, è talmente forte da condizionare – come abbiamo visto - anche il giudizio di osservatori indipendenti, e conferma in pieno le osservazioni di Antonio Brusa circa il ruolo centrale che ha assunto la questione dell’identità etnica o nazionale nella cultura storica diffusa.

     

    La voce degli storici: la revisione del mito

    Anche gli storici hanno partecipato al dibattito pubblico sulle statue e sulla figura di Colombo, pur svolgendo in esso un ruolo meno importante rispetto a quello che hanno avuto nelle discussioni sui monumenti dei Confederati[6].
    Tra i commenti dedicati agli attacchi alle statue del navigatore genovese, troviamo ad esempio quello dello storico Michael D. Hattem sul “Washington Post”. Hattem ha posto l’accento sul fatto che la storia del mito di Colombo “rivela in che modo la nostra memoria collettiva del passato venga costruita e cambi col passare del tempo, piuttosto che essere una intrinseca espressione del passato”. Egli ha quindi rievocato le principali tappe dell’evoluzione del mito di Colombo negli Stati Uniti: dall’uso del termine Columbia come personificazione femminile dell’America fin dagli anni ’60 del Settecento alle grandi celebrazioni organizzate nel 1792 in occasione del tricentenario della scoperta del Nuovo Mondo; dall’esaltazione di Colombo nella letteratura e nei libri di testo scolastici fino all’uso politico della sua figura nel corso dell’Ottocento, sia per legittimare l’espansione degli Stati Uniti verso Ovest, sia per facilitare l’assimilazione culturale e politica della sempre più numerosa comunità italo-americana. Ma proprio perché la memoria collettiva si evolve nel tempo, non c’è da sorprendersi se personaggi che per un certo periodo sono stati ingigantiti e celebrati cadano poi in disgrazia quando cambia il contesto culturale o politico.
    Ci si può chiedere, però, se la sostituzione dell’ottocentesca immagine eroica di Colombo con l’antitetica rappresentazione del navigatore genovese come una specie di assassino e mostro genocida sia veramente utile alla comprensione della storia di questo personaggio e dei suoi tempi.
    Il giudizio degli storici, naturalmente, è più cauto e sfumato rispetto a quello totalmente negativo che si è diffuso in una parte dell’opinione pubblica. Kris Lane, che insegna storia alla Tulane University di New Orleans, è intervenuto più volte negli ultimi anni nel dibattito pubblico attorno alla figura di Colombo. Nel 2015 ha scritto un editoriale sul “Washington Post” per confutare ‘cinque miti’ riguardanti l’esploratore genovese, tra i quali vi è quello secondo cui egli sarebbe responsabile del genocidio dei nativi delle isole dei Caraibi. In proposito, Lane ha riconosciuto che non vi sono dubbi sul fatto che Colombo abbia oppresso la popolazione di quelle isole e abbia ridotto in schiavitù quasi 1500 nativi per deportarli e venderli in Europa. Peraltro, Colombo non dovette inventare nulla di nuovo, poiché non fece altro che seguire l’esempio dei Portoghesi e degli Spagnoli, che già da molto tempo erano attivi nel commercio degli schiavi. L’accusa di genocidio, invece, va circostanziata, perché Colombo non aveva nessuna intenzione di sterminare i nativi dei Caraibi: voleva piuttosto avere dei sudditi da tassare e governare. Si può parlare quindi di genocidio solo come risultato involontario delle decisioni prese da Colombo e dai suoi familiari.
    Dopo gli attacchi ai monumenti avvenuti nel giugno scorso, Lane ha rilasciato una lunga e interessante intervista, nella quale ha distinto con precisione le caratteristiche di Colombo come personaggio storico da quelle del mito costruito nell’Ottocento attorno alla sua figura: Colombo fu certamente un grande navigatore, anche se sbagliò nel ritenere di poter arrivare in Asia; cercava l’oro, ma forse più per dimostrare ai sovrani spagnoli l’utilità della sua impresa che per avidità personale; diede inizio nel Nuovo Mondo al commercio degli schiavi, ma questa era una pratica molto diffusa - anche se non universalmente accettata - alla fine del ‘400; fu un uomo del suo tempo, ma fece comunque delle scelte in base alla sua personale visione del mondo. Attorno alla sua figura è stato costruito un mito e ora che esso si è rivelato in buona parte privo di fondamento, è naturale che gran parte della gente non senta più il bisogno di celebrare il navigatore genovese e che molti vogliano disfarsi delle sue statue.

     

    La rilevanza storica di Colombo

    Molto diverso è invece il giudizio dello storico italiano Matteo Casini, che insegna all’Università del Massachusetts. Intervistato dal “Boston Globe”, Casini ha affermato che la figura di Colombo “non deve essere vista per ciò che egli ha fatto più di 500 anni fa, ma, prima di tutto, come un simbolo per gli italiani che cominciarono ad arrivare qui alla fine dell’Ottocento”. Ed ha aggiunto:

    Essi combatterono, come tutti sanno, una battaglia estremamente dura per l’uguaglianza razziale e per il riconoscimento sociale, molto simile a quella degli africani e dei nativi americani. La festa del ‘Columbus Day’ e le statue a dedicate a Colombo negli ultimi 150 anni, devono essere considerate come ‘armi dell’orgoglio’ di una minoranza che voleva conquistare il suo posto nella ‘terra delle opportunità’, mediante il duro lavoro, l’accettazione delle regole comuni e una piena integrazione.

    Fa notare poi un altro storico, William J. Connell, che anche se tutti i monumenti dedicati a Colombo dovessero scomparire, il navigatore genovese rimarrebbe ancora con noi: “E la ragione è molto semplice: il 12 ottobre del 1492 è la data più importante nella storia dell’umanità, a partire almeno dall’invenzione dell’agricoltura”. È infatti da quella data che ha avuto inizio il mondo globalizzato nel quale oggi viviamo. È vero, Colombo diede inizio nel Nuovo Mondo alla deportazione degli schiavi e alla spoliazione delle terre dei nativi. Ma queste colpe non sono soltanto sue: sono infatti i due ‘peccati originali’ della Conquista e degli stessi Stati Uniti d’America.
    Data la vivacità del dibattito, e considerando la grande quantità di statue del navigatore genovese che sono tuttora in piedi, tutto lascia prevedere che negli Stati Uniti le discussioni su Colombo e sul Columbus day si protrarranno ancora per molto tempo.

     

    Immagine 4. Contro il Columbus DayFig.4: Studenti di origine messicana manifestano contro il “Columbus Day”. Fonte Il dibattito italiano: il "processo" a Colombo

    Gli attacchi alle statue e alla figura di Cristoforo Colombo negli Stati Uniti hanno avuto più di una eco anche in Italia. Se in alcuni casi vi è stata una piena adesione alla demolizione della figura eroica dell’esploratore genovese, non sono però mancate diverse voci critiche rispetto a questo completo capovolgimento dell’immagine tradizionale di Colombo e alle sue implicazioni per il tipo di cultura storica veicolata dai media e dalle università.
    Citerò come esempio del primo atteggiamento il Processo a Cristoforo Colombo messo in scena da Jacopo Fo e Mario Pirovano presso la Libera Università di Alcatraz e diffuso in occasione del Columbus Day del 2017. Secondo i promotori dell’iniziativa “Cristoforo Colombo, un italiano, era un assassino, torturatore, schiavista, e bisogna rompere questa italica censura sulla verità dei fatti e insegnare ai ragazzini che di Colombo c’è da vergognarsi che fosse italiano, tale quale a Totò Riina” (così si legge nella presentazione del video). Il processo – molto ben realizzato e facilmente spendibile a livello didattico - vede Mario Pirovano nel ruolo dell’avvocato difensore, mentre Jacopo Fo sostiene l’accusa. Documenti alla mano, Jacopo Fo presenta tutti i principali capi d’accusa contro Colombo, mentre Pirovano cerca inutilmente di difenderlo. Il tutto si conclude con la damnatio memoriae del genovese, eseguita coprendo la sua statua con un sacco della spazzatura.
    In una diversa prospettiva, il “processo a Colombo” è stato di recente oggetto di un saggio dello storico Antonio Musarra. Lo stesso autore ha fornito sul web una accurata presentazione del suo libro (farò qui riferimento soltanto ad essa). Musarra parte dal fatto che il giudizio degli storici su Cristoforo Colombo negli ultimi trent’anni è cambiato radicalmente: Colombo non è più visto ormai come il sognatore dedito ad oltrepassare i limiti del mondo conosciuto, ma come il primo dei conquistadores, come colui che ha dato inizio all’occupazione delle Americhe, che avrebbe poi provocato lo sterminio di milioni di persone. E tuttavia l’assalto alle statue di Colombo, che si configura come una vera e propria damnatio memoriae, suscita – secondo Musarra - molte perplessità. In primo luogo perché processare la storia non è soltanto sbagliato, anzi si può rivelare pericoloso. In secondo luogo perché le accuse mosse a Colombo sono, sotto vari aspetti, esagerate: non ha senso, ad esempio, accusarlo di genocidio, dato che non gli passò mai per la testa di sterminare i nativi americani. In realtà, a coloro che deturpano o abbattono le statue del navigatore genovese, così come a molte amministrazioni americane, la figura storica di Colombo non interessa veramente: egli è assurto a simbolo della violenza colonizzatrice dell’uomo bianco e la generale condanna nei suoi confronti rivela anche la persistente difficoltà degli Stati Uniti di fare i conti col proprio passato.

     

    Immagine 5. Colombo ProvidenceFig.5: Una statua di Cristoforo Colombo a Providence (Rhode Island) vandalizzata in occasione del “Columbus Day” dell’ottobre 2019. Fonte Il "relativismo totalitario"

    Un approccio critico, ma di altra natura, è stato poi quello di Raffaele Romanelli, che in una lettera al presidente e al comitato direttivo della Società italiana per lo studio della storia contemporanea (pubblicata sul “Foglio” del 24/06/2020) ha denunciato il “relativismo totalitario” che starebbe prendendo piede nel mondo accademico anglosassone. Con riferimento proprio ai recenti attacchi alle statue e alla figura di Cristoforo Colombo, Romanelli ha messo in evidenza come addebitare a Colombo tutti i crimini e le sopraffazioni che hanno fatto seguito alla sua “scoperta” significa cancellare il principio della responsabilità personale - che è uno dei capisaldi dello stato di diritto e dei diritti dell’uomo e del cittadino – per sostituirlo col concetto di una responsabilità di gruppo: un gruppo, quello dei bianchi occidentali, che tende ad assumere connotati genetici e razziali, e che quindi diventa, nel suo insieme, colpevole dello sterminio dei nativi americani e della schiavitù dei neri. Secondo Romanelli questa tendenza si collega a un più generale clima di intolleranza, che si sta diffondendo negli ambienti universitari americani, canadesi e britannici, e che si manifesta anche con la messa al bando di chiunque non accetti il dogma imperante secondo cui le differenze di genere non hanno una base biologica. Si sta affermando, insomma, una sorta di “relativismo totalitario”, nel senso che la verità viene presentata come relativa/soggettiva, in quanto insensibile ai dati (storici o biologici), ma viene al tempo stesso imposta con le tecniche della persecuzione totalitaria.
    È appena il caso di ricordare che la lettera di Romanelli ha preceduto di sole due settimane la Letter on Justice and Open Debate (pubblicata il 07/07/2020 sullo “Harper’s Magazine”) nella quale 153 intellettuali americani hanno denunciato il pericolo che le giuste richieste di una maggiore giustizia, eguaglianza ed inclusione nella società statunitense possano generare anche una crescente intolleranza nel mondo della cultura, dai giornali alle case editrici alle università. Un’analisi di questa lettera e del dibattito che ha suscitato ci porterebbe molto lontano dall’argomento di questo articolo. Ma riprenderemo certamente, su Historia Ludens, la questione della “cancel culture” (sulla quale si veda intanto The Harper’s ‘Letter,’ cancel culture and the summer that drove a lot of smart people mad, sul “Washington Post” del 23/07/2020).

     

    Piste di lavoro didattico

    L’attacco alle statue di Colombo e il capovolgimento del mito costruito attorno alla sua figura sono anzitutto un’espressione del malessere, delle contraddizioni e dei mutamenti che si sono sviluppati nella società e nella cultura degli Stati Uniti e del mondo occidentale negli ultimi decenni. Sebbene la richiesta di una maggiore giustizia sociale e di un definitivo superamento dell’interpretazione tradizionale delle imprese di Colombo sia assolutamente condivisibile, la furia vendicatrice che si è scatenata nei mesi scorsi sembra essere un ostacolo a una riflessione equilibrata.
    A livello didattico, gli assalti alle statue di Colombo possono rappresentare un’ottima occasione per sviluppare ricerche e dibattiti tra gli studenti, non solo negli Stati Uniti ma anche in Italia, dato che il navigatore genovese è stato a lungo celebrato anche da noi come una figura simbolo della storia e dell’identità nazionale. Molti sono gli interrogativi e i problemi che potrebbero essere posti al centro di un percorso didattico. Ad esempio i seguenti: ha ancora senso parlare di una “scoperta” dell’America? è fondata l’accusa di genocidio mossa nei confronti dell’esploratore genovese? È giusto abbattere o rimuovere le statue di Colombo? Che cosa dovremmo fare se anche qui in Italia qualcuno proponesse di rimuoverle? Fino a che punto i libri di testo scolastici hanno superato l’immagine tradizionale di Colombo e delle sue imprese? È legittimo fare processi ai grandi protagonisti della storia?
    Una seconda occasione, collegata a questa, è data dalla possibilità di riflettere sul nesso storia-memoria-politica. Il caso americano mostra come non solo lo stato, ma anche le comunità (in questo caso etniche) facciano pressione sulla memoria collettiva (i monumenti, le festività) e la storia scolastica (le “bugie dei manuali”) e come la storia e gli storici siano in reale difficoltà a far sentire la propria voce. In ogni caso, questo argomento si aggancerebbe al filone didattico del rapporto fra storia e memoria che, in Italia, rischia di essere circoscritto alle celebrazioni del 27 gennaio e dell’11 febbraio.
    Infine, sono di grande interesse le riflessioni sviluppate, in margine al “processo” a Colombo, da Antonio Musarra e da Antonio Brusa sugli stereotipi, sull’epistemologia naïve e sulla difficoltà di far comprendere, anche al di fuori di ristrette cerchie intellettuali, la complessità dei processi storici. A partire dagli stessi fatti e documenti riguardanti la vicenda di Colombo, il dibattito storico e il dibattito pubblico giungono a conclusioni differenti:

    | Quest’ultimo si conclude con una condanna senza appello, mentre la controversia storica può giungere a conclusioni differenziate, di comprensione varia del “fenomeno Colombo”, e – soprattutto – rifiuta a priori l’alternativa eroe/malfattore, che tanto appassiona la gente[7].

    La comunicazione fra ricerca accademica e società – sostiene Brusa - sembra aver funzionato nella divulgazione di alcune conoscenze, ma non nella trasmissione delle capacità di elaborarle. Si è costretti ancora una volta a constatare una preoccupante divaricazione tra storiografia e senso comune storico, tra sapere accademico e cultura popolare, tra una concezione della società e dello sviluppo storico come fenomeni complessi e una visione semplicistica della storia basata su poche convinzioni e sull’importanza decisiva di singoli eventi e personaggi chiave.
    È davvero auspicabile quindi che l’insegnamento della storia possa tener conto delle problematiche e delle contraddizioni che il “processo” a Colombo, e più in generale la “guerra delle statue”, hanno fatto emergere nel dibattito pubblico, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo occidentale.

     

    [1] Il Columbus day divenne poi una vera e propria festa federale nel 1968 (vedi ancora la voce di Wikipedia citata nel testo).

    [2] Oltre al saggio già citato di Antonio Brusa, vedi H. Schuman, B. Schwartz, H. d’Arcy, Elite Revisionists and Popular Beliefs: Christopher Columbus, Hero or Villain?, “Public Opinion Quarterly”, vol. 69, No. 1, Spring 2005, pp. 2-29.

    [3] Vedi Luke O'Neil, Goodbye, Columbus: holiday in decline as brutal legacy re-evaluated, “The Guardian (International Edition)”, 08/10/2018, e la già citata voce di Wikipedia sul Columbus Day.

    [4] A. Brusa, Colombo eroe o malfattore?, cit.

    [5] Vedi ad esempio: Eric Zorn, Ethnic pride, yes. Columbus Day? No, “Chicago Tribune”, 03/03/2020; Chris Leblanc, As Italian Americans in Boston debate the legacy of Christopher Columbus, some want his statue – recently beheaded – permanently gone, “Chicago Tribune”, 17/06/2020; The false narrative about Christopher Columbus, “Chicago Tribune”, 21/07/2020. 

    [6] Questa è l’impressione che ho ricavato dalle fonti più facilmente accessibili sul web. Ma naturalmente è impossibile passare al setaccio lo smisurato numero di quotidiani e riviste online, blog e siti internet che trattano argomenti storici.

    [7] A. Brusa, Colombo eroe o malfattore?, cit.

  • L'operazione Husky nel suo anniversario. Storia, memoria e fake indistruttibili.

    di Antonio Brusa

     

    Operazione HuskyLa lapide che commemora la battaglia di Gela https://www.avvenire.it/amp/agora/pagine/sbarco-in-sicilia-77-anni

    Tre anni fa, di questi giorni di luglio, cadeva il 75° anniversario dell’“Operazione Husky”, il primo vero DDay della seconda guerra mondiale, quando quasi tremila navi sbarcarono sulle coste siciliane truppe inglesi, canadesi e americane. Allora intervennero molti quotidiani a commemorare l’evento. Quest’anno, in tono minore, la tv lo ha ricordato nei giorni scorsi proiettando il film di Pif In guerra per amore (2016), e, a quanto mi risulta, solo Vincenzo Grientine ha parlato dalle pagine dell’ “Avvenire” (9 luglio 2020).

    Grienti mette in rilievo alcuni aspetti che vanno ricordati. Che la resistenza italiana non fu all’acqua di rosa (se mai furono i tedeschi che se la svignarono “brillantemente”), e che dunque quello sbarco non fu un’ “avanzata trionfale fra due ali di folla”. Al contrario, fu ostacolato da battaglie sanguinose, come quella di Gela, e macchiato da stragi. Tedesche innanzitutto (purtroppo questo Grienti non lo segnala): ben 65 episodi di violenza con 133 vittime costituiscono il prologo di quel rosario di eccidi che costellò la ritirata tedesca lungo la penisola. Ma anche americane, con civili e militari uccisi a freddo. Rosario Mangiameli, fra i tanti storici che hanno studiato l’argomento, ce ne parla diffusamente in un bel saggio apparso nel 2012.

    Fra qualche giorno cadrà l’anniversario di un episodio che non so se verrà commemorato, nemmeno nella città dove avvenne, Canicattì: forse l’unica città al mondo dove si susseguirono a stretto giro una strage tedesca (il 12) e una americana (il 14). La conosciamo solo grazie al lavoro e al coraggio di J. S. Salemi della N. Y. University.

    Quindi lode a Grienti che ritiene giusto non dimenticare. Aggiungo, però, a evitare un’eccessiva retorica, due osservazioni. La prima riguarda l’accenno all’accordo fra gli americani e Lucky Luciano, che avrebbe garantito l’appoggio della mafia agli invasori. E’ una diceria. Dura a morire, certo: ma proprio per questo non dobbiamo stancarci di ribadirlo. Nacque proprio durante gli eventi, proprio in quegli ambienti fascisti che avevano bisogno di raccontare alla popolazione perché un esercito che avrebbe dovuto immobilizzare l’invasore “sul bagnasciuga” fallì il suo compito. La mafia era una buona scusa. Riciclata e rifunzionalizzata da Michele Pantaleone nel 1962 (qualcuno ricorderà il suo Mafia e Politica), diventò un cavallo di battaglia della sinistra contro la Democrazia Cristiana e, finalmente, è diventata di dominio pubblico, al punto da fornire il pretesto narrativo al film di Pif, appunto passato in tv in questi giorni. (Su questi fatti HL è già intervenuta).

    La seconda osservazione riguarda il fatto che Grienti, presentando delle nuove ricerche su questi eventi, riporta la favola che la storiografia ufficiale ha sempre evitato di affrontare questi argomenti, giudicati spiacevoli. Anche questa è una fake, una post-verità alla quale i media indulgono volentieri. Non è vero che gli storici non se ne sono occupati e che, quindi, si tratta di una “controstoria” che viene finalmente raccontata ai ragazzi “diversamente da quanto si legge nei libri di scuola” (come se i manuali raccontassero ampiamente dell’operazione Husky).

    Sono decenni che si susseguono gli studi (italiani e americani) su questi eventi e la bibliografia è ormai abbastanza lunga. Mangiameli, nell’articolo citato sopra, spiega le ragioni per cui gli stessi testimoni prima, e poi l’opinione pubblica, ma oggi potremmo dire la storia pubblica, hanno scelto di tacere. Gli studi ci sono. Sono i media che non ne parlano. Non rovesciamo le responsabilità, per piacere.

  • L’immaginario coloniale. L’Africa nelle fotografie dell’Istituto Luce

    di Antonio Prampolini

     

    Indice

    1. La fotografia e l’immaginario coloniale

    2. L’Istituto Luce e il monumento visivo dell’Italia fascista

    3. La produzione fotografica del Reparto Africa Orientale Italiana

    3.1 La Guerra di Etiopia

    3.2 Una “colonizzazione civilizzatrice”

    4. Il sito online dell’Archivio Storico Luce

     

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 1Fig.1: Somalia italiana - donna al mercato - foto di Carlo Pedrini (1894-1932) Fonte1. La fotografia e l’immaginario coloniale

    Una delle eredità culturali più interessanti dei vari colonialismi europei in Africa è costituita dalle numerose fotografie prodotte, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, da soggetti diversi (esploratori, viaggiatori, scienziati, militari, missionari, scrittori e giornalisti, fotografi di professione, coloni e funzionari delle amministrazioni coloniali) con lo scopo di documentare e comunicare visivamente un continente “altro” rispetto all’Europa, a cui la storia aveva affidato una “missione civilizzatrice” di popoli “razzialmente e culturalmente inferiori”. Conseguentemente, l’Africa veniva rappresentata come una terra abitata da “etnie primitive” ma dotata di grandi risorse naturali e demografiche che avrebbero potuto essere sfruttate vantaggiosamente dai colonizzatori1.

    A partire dalla metà del secolo XIX, la fotografia aveva messo a disposizione degli europei un nuovo e “rivoluzionario” strumento di raffigurazione delle colonie, che prima della sua invenzione si era limitata a rappresentazioni cartografiche, a disegni e acquerelli che illustravano racconti esotici, diari di viaggio e articoli di giornale.

     

    L’ultimo secolo del colonialismo globale europeo - hanno osservato Matthias Harbeck e Moritz Strickert - è coinciso con una rivoluzione tecnologica e mediatica che avrebbe cambiato per sempre l’immagine pubblica del mondo: l’invenzione della fotografia. Sebbene le immagini fotografiche hanno immortalato molti aspetti della vita pubblica e privata moderna, è nella cultura e nell’immaginazione coloniale che hanno avuto un significato particolare: le colonie non erano più solo territori lontani, oltre l’orizzonte [oltremare], ma ora potevano essere “guardate da casa”. Questa improvvisa vicinanza dei territori colonizzati ha dato vita a una cultura visiva che illustrava il paradosso stesso delle ambizioni globali dell'Europa: da un lato, la legittimazione del colonialismo si basava su immagini di “alterità” del mondo non occidentale, dall'altro, i nuovi territori dovevano essere familiarizzati e quindi rivendicati [e integrati] come parte degli imperi2.

     

    La fotografia coloniale condizionava «la percezione della realtà che agli occhi di molti sarebbe finita col coincidere con la sua rappresentazione [visiva]». E così facendo, svelava la società e la cultura del tempo, «riflettendo i miti [e anche le paure] che l’avventura coloniale stimolava nella popolazione [europea]»3.

     

    La macchina fotografica non è mai stata un mezzo neutrale: parte integrante delle conquiste coloniali venne utilizzata sia per creare mappe, sia per controllare i nuovi territori e favorire una conoscenza di stampo positivista dei popoli e dei luoghi conquistati. La fotografia rientrava dunque in quel vasto flusso di informazioni da cui dipendeva lo stesso progetto coloniale, specializzandosi ben presto nella creazione d’immagini di sterminati spazi vuoti - ideali per nuovi insediamenti colonici -, di popoli primitivi da civilizzare e di categorie razziali da classificare (Monica Cillario, La fotografia e il colonialismo. Ieri e oggi, op. cit.).

     

    La fotografia contribuì, nei decenni successivi alla sua invenzione, a creare un immaginario coloniale del continente africano caratterizzato da pregiudizi e stereotipi (che lasciarono non poche tracce sia nella memoria pubblica che in quella privata), funzionali alla propaganda politica di tutti gli imperi europei4. Una propaganda che non avrebbe mai avuto un successo di legittimazione senza un uso sistematico della fotografia (e, in seguito, anche del cinema) adeguatamente supportata da enti e/o finanziamenti pubblici, come vedremo in Italia con la creazione dell’Istituto Luce.

     

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 2Fig.2: Logo dell'Istituto Luce Fonte2. L’Istituto Luce e il monumento visivo dell’Italia fascista

    L’Istituto Nazionale Luce era stato fondato da Mussolini nel novembre del 1925 come ente di diritto pubblico (in sostituzione della precedente società anonima L.U.C.E - L’Unione Cinematografica Educativa - creata nel 1924) con il compito di organizzare l’informazione e la propaganda del regime fascista attraverso la produzione e la distribuzione di immagini fotografiche e cinematografiche5.

    Grazie alle capacità tecniche e, soprattutto, all’appoggio politico dello stesso Mussolini, in poco tempo, l’Istituto Luce arrivò a detenere di fatto il monopolio delle riprese degli avvenimenti ufficiali del regime e delle immagini del duce, che poi inviava gratuitamente alla stampa nazionale e a quella estera.

    Le fotografie dell’Istituto Luce (nel 1927 era stato creato un apposito Servizio Fotografico) svolsero un ruolo fondamentale nel forgiare l’immagine di Mussolini, alimentando negli italiani il culto del “capo”, esempio di “capacità e virtù straordinarie” a cui tutti avrebbero dovuto ispirarsi.

     

    Un Mussolini solitamente fotografato con inquadrature dal basso che lo elevavano al di sopra degli uomini comuni. Nei ritratti in primo piano, inoltre, si prediligevano le inquadrature che facevano risaltare sul viso di Mussolini uno sguardo pensieroso, rivolto verso il futuro, cercando di identificare il suo volto con il progresso e la vittoria. [...] L’Istituto, inoltre, doveva cercare di diffondere un’immagine di Mussolini rassicurante ma forte allo stesso tempo. La fotografia del Luce testimonia così la molteplicità semantica dell’immagine di Mussolini, non soltanto fra essere dinamico e statuario, ma anche edificandolo nell’icona del condottiero militare e, contemporaneamente, divulgandolo come il paterno protettore della nazione, sempre prodigo a dispensare interessamento e affetto verso la popolazione (Stefano Mannucci, Storia della fotografia dell'Istituto Luce, op. cit.).

     

    L’Istituto Luce aveva attivamente collaborato alla realizzazione della Mostra della Rivoluzione Fascista allestita nel 1932 nel Palazzo dei Musei della capitale in occasione del “Decennale della Marcia su Roma” (28 ottobre 1922). La mostra ricostruiva i momenti salienti dell’affermazione del fascismo, offriva un quadro delle opere del regime e proponeva una rilettura in chiave fascista dell’intera storia nazionale6.

     

    La mostra non rappresentò soltanto il culmine raggiunto dalla fotografia come strumento d’appropriazione del passato, e mezzo per costruire una storia secondo la propria concezione ideologica. La mostra cercò, soprattutto, di oggettivare la fotografia nel suo rapporto con la storia medesima. Infatti, nel momento in cui la fotografia era posta accanto ad oggetti reali del passato, come gli zaini, le armi, le lettere, essa stessa diveniva un oggetto reale ed obiettivo, un prodotto materiale della storia, e non l’effimera visione del mondo da parte di una determinata intenzionalità, donandole così una maggiore forza nel suo rapporto d’oggettività con la storia stessa (Stefano Mannucci, Storia della fotografia dell'Istituto Luce, op. cit.).

     

    E sempre in occasione del Decennale, l’Istituto Luce aveva pubblicato L’Italia fascista in cammino, un fotoracconto che conteneva oltre cinquecento immagini che dovevano «insegnare agli italiani ad osservare il paese e la realtà quotidiana non con i propri occhi, ma con quelli dello stesso regime fascista»7.

    Ma fu soprattutto durante la Guerra di Etiopia che l’Istituto Luce impegnò i propri fotografi e le proprie strutture produttive e distributive in un intenso e straordinario lavoro di documentazione fotografica, oltre che cinematografica, sottoposto al controllo censorio del Ministero per la Stampa e la Propaganda (dal 1937, Ministero per la Cultura Popolare). Documentazione che non si limitò ai soli eventi bellici, volendo fornire agli italiani anche una rappresentazione visiva della nuova colonia.

     

    3. La produzione fotografica del Reparto Africa Orientale Italiana

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 3Fig.3: Guerra di Etiopia - Colonna someggiata in marcia Fonte3.1 La Guerra di Etiopia

    Nel settembre del 1935, su espressa richiesta dello stesso Mussolini, l’Istituto Luce creò il Reparto foto-cinematografico per l’Africa Orientale per seguire l’impresa coloniale dell’Italia in Etiopia (ottobre 1935 - maggio 1936).

    Ricorrendo alle moderne tecniche di propaganda, il regime voleva rendere popolare la guerra coloniale caricandola di contenuti retorici (il mito della Roma imperiale, la missione civilizzatrice dell’Italia fascista, la conquista di uno “spazio vitale” in Africa) per suscitare nel paese una massiccia mobilitazione e giustificare gli inevitabili sacrifici che essa avrebbe comportato (e tra questi, le sanzioni della Società delle Nazioni). La conquista dell’Etiopia, oltre a mettere a disposizione degli italiani nuove terre da coltivare e risorse economiche (più immaginarie che reali) doveva essere, a livello internazionale, una palese dimostrazione della forza militare e delle capacità organizzative dell’Italia fascista8.

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 4Fig.4: Guerra di Etiopia - colonna di autocarri militari in marcia – ottobre 1935 FonteIl Reparto foto-cinematografico per l’Africa Orientale venne strutturato potendo contare su di una consistente disponibilità di uomini e mezzi. Furono create diverse unità fotografiche da dislocare nei vari punti del fronte, dotate ciascuna di carri-laboratorio in grado di sviluppare i negativi da inviare alla sede operativa del reparto Luce ad Asmara (in Eritrea, dove si trovava il quartier generale delle forze militari italiane), che poi li avrebbe sottoposti alla verifica censoria dell’Ufficio Stampa e Propaganda Africa Orientale; ufficio a cui spettava il compito di controllare e selezionare le immagini da trasmettere ai corrispondenti dei giornali italiani e stranieri9.

    Durante i sette mesi di guerra, i fotografi del reparto Luce seguirono le truppe italiane nella conquista dell’Etiopia scattando migliaia di fotografie. Le immagini dovevano dare l’impressione di una “guerra facile”, dove la superiorità degli armamenti, le capacità logistiche e organizzative dell’esercito italiano avrebbero garantito una rapida vittoria con perdite molto limitate tra i propri soldati10.

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 5Fig.5: Guerra di Etiopia – aerei italiani FonteLe fotografie dell’Istituto Luce non documentarono nessuna delle atrocità di cui si erano macchiati gli italiani durante il conflitto, in particolare l’esteso utilizzo delle armi chimiche11. La guerra non veniva ritratta nel suo reale svolgimento, ma rappresentata prevalentemente secondo gli stilemi dell’iconografia tradizionale dei conflitti otto-novecenteschi, che utilizzava, per non allarmare l’opinione pubblica, immagini dove il dolore e la morte costituivano un’eccezione: sentinelle impegnate nei turni di guardia, artiglieri accanto ai loro cannoni, genieri che costruivano ponti, soldati che scrivevano lettere a casa o si rilassavano nei momenti di svago.

    Squarci della realtà bellica erano tuttavia presenti nelle numerose fotografie scattate dai militari italiani (ufficiali e soldati), che, muniti di macchina fotografica, si dilettavano a ritrarre senza reticenze i corpi dei nemici orribilmente sfigurati, le vittime civili dei bombardamenti, le impiccagioni e le fucilazioni degli abissini. Fotografie che, tollerate dai comandi o sfuggite ai controlli della censura, circolavano tra le truppe, e che oggi vengono ritrovate negli album di ricordi personali dell’avventura in Africa Orientale dei militari italiani12.

     

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 6Fig.6: costruzione di case ad Addis Abeba (1936-1937) Fonte3.2 Una “colonizzazione civilizzatrice”

    Dopo la presa della capitale etiope (5 maggio 1936), l’obiettivo principale del Reparto foto-cinematografico per l’Africa Orientale (la cui sede era stata trasferita da Asmara a Addis Abeba) divenne quello di documentare "l'incivilimento e la valorizzazione delle terre conquistate".

    Pertanto, numerose erano le fotografie che, con un evidente taglio propagandistico, mostravano la costruzione di strade e ponti, di mulini e forni per la produzione di farine e pane, la consegna ai coloni di trattori e aratri, l’installazione di linee elettriche e antenne della radio, l’insediamento ad Addis Abeba di filiali commerciali delle aziende industriali italiane come la Fiat, la Lancia, l’Olivetti, e il Banco di Roma.

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 7Fig.7: costruzione di strade nella regione di Addis Abeba FonteA queste si aggiungevano le fotografie che riprendevano le attività dei giovani etiopi inseriti nelle organizzazioni del regime fascista (come ad esempio i saggi ginnici della Gioventù Etiopica del Littorio) o ritraevano gli adulti inquadrati nelle truppe coloniali (gli Àscari) e trasformati da guerrieri “selvaggi” in soldati “disciplinati” di un esercito regolare13. Ricorrenti erano pure le fotografie che ritraevano gli indigeni liberati dalle “catene della schiavitù” o di ras locali che baciavano la bandiera italiana o si inchinavano alle autorità in segno di sottomissione14.

     

     

     

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 8Fig.8: bambini della Gioventù Etiopica del Littorio durante un saggio ginnico FonteGran parte delle fotografie dell’Istituto Luce diffondevano un’immagine fittiziamente bonaria e paternalista delle forze di occupazione e dei coloni italiani; un’immagine che si prestava a coprire il razzismo di fondo del regime fascista, lo sfruttamento delle popolazioni indigene nelle attività economiche e la repressione violenta di ogni loro forma di ribellione15.

     

     

     

     

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 9Fig.9: ufficiali medici italiani con una donna etiope FonteGli etiopi (uomini e donne) venivano generalmente ritratti con un misto di curiosità e talora di attrazione (il mito delle “veneri nere”) per mostrare, in immagini che evidenziavano i loro caratteri somatici, una presunta “inferiorità etnica”. Raramente venivano fotografati nello svolgimento delle loro attività tradizionali o nelle manifestazioni della loro cultura. Ciò che importava ai fotografi dell’Istituto Luce non era far conoscere agli italiani quell’antico popolo africano, ma riaffermare attraverso immagini stereotipate il punto di vista, gli interessi e la “superiore civiltà” dei colonizzatori.

     

     

     

    FOTOGRAFIA COLONIALE IN ITALIA IMMAGINE 10Fig.10: logo dell’Archivio Luce Fonte4. Il sito online dell’Archivio Storico Luce

    Dal 2018 l’Archivio Storico Luce è presente in rete con un proprio sito che permette di accedere a gran parte dei fondi iconografici costituiti dai materiali realizzati o acquisiti dall’Istituto Luce nel corso del Novecento (e oggi opportunamente digitalizzati), offrendo agli storici e a tutti gli interessati una vasta e preziosa documentazione visiva del “secolo breve”16.

    Alcuni fondi dell’archivio online riguardano gli eventi bellici e le occupazioni militari dell’Italia fascista dalla Guerra di Etiopia alla Seconda Guerra Mondiale. Si tratta della produzione foto-cinematografica di quattro reparti dell’Istituto: Reparto Africa Orientale Italiana (1935-1938), Reparto Guerra di Spagna (1936-1939), Reparto Albania (1939-1943), Reparto Guerra (1940-1944).

    In particolare, la sezione dell’archivio Reparto Africa Orientale Italiana (1935-1938) permette di accedere ad oltre diecimila fotografie (10451) attraverso diverse modalità di ricerca: Persone, Temi, Luoghi; per ogni immagine vengono indicati: data, luogo, evento. È sempre possibile impostare ricerche multiple associando Persone, Temi, Luoghi.

    Notevole è quindi il patrimonio fotografico del Reparto Africa Orientale Italiana che l’Archivio Storico Luce ha reso disponibile online sul proprio sito.

    Un patrimonio che richiede però un attento approccio critico per essere utilizzato correttamente a fini didattici. Le fotografie coloniali dedicate all’Etiopia (come tutte le altre prodotte dall’Istituto Luce) «esprimono sempre un messaggio articolato» in cui coesistono “vero e falso”. Sono “vere” per la «autenticità degli elementi contenuti» (persone e oggetti, luoghi ed eventi); sono “false” come «messaggio politico» nel rappresentare l’Etiopia come una colonia pacificata e sotto il pieno controllo del regime fascista (numerose erano le ribellioni e gli attentati che manterranno la colonia in un perenne “stato di guerra” per il breve periodo di durata dell’impero italiano, dal 1936 al 1941); e sono infine ancora “vere” come «documento autentico della propaganda del regime»17.

    Inoltre, non va dimenticato che le fotografie degli etiopi (in particolare delle donne e dei bambini, gli elementi più “deboli” delle comunità locali), come pure quelle degli altri africani, erano spesso il prodotto di una costrizione, di una forzatura da parte dei fotografi, che si traduceva inevitabilmente in una forma di violenza nei loro confronti18.

     


    Note

    1 Genoveffa Palumbo, Gli imperi coloniali, in Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, Treccani, 2014. Romuald Valentin Nkouda Sopgui, Kolonialfotografie: Kulturelle Wahrnehmungsformen und Mediatisierung transnationaler Beziehungsverflechtung, 11/04/2024. Anna Schade, Lukas Kleine-Schütte, Robin Spitzer und Deike Terhorst, Visual Histories. Ein studentisches Podcast-Projekt über fotografisch illustrierte Reiseberichte des frühen 20. Jahrhunderts, 16/07/2021. Matthias Harbeck und Moritz Strickert, Freiwilligkeit und Zwang. Eine Diskussion im Kontext der frühen ethnologischen Fotografie, 28/09/2020. Alberto Baldi, Fotografia antropologica ottocentesca e possesso del mondo. Maria Francesca Piredda, Fotografia missionaria e immaginario esotico: l’incontro con l’Altrove. Monica Cillario, La fotografia e il colonialismo. Ieri e oggi, maggio 2017.

    2 Matthias Harbeck e Moritz Strickert, Freiwilligkeit und Zwang. Eine Diskussion im Kontext der frühen ethnologischen Fotografie, op.cit..

    Stefano Mannucci, La creazione dell’immaginario nel colonialismo italiano, in «Afromagazine» n. 05, gennaio 2009, e Dodo Scaramello, In posa per l’impero. L’uso della fotografia nella propaganda coloniale italiana, 2019. Monica Cillario, La fotografia e il colonialismo. Ieri e oggi, maggio 2017. Giovanni Perillo, Primi anni '80: fototeca e pratiche visive razziste nel colonialismo italiano, in «Cinergie – Il cinema e le altre arti», n.22 (2022). Patrizia Cacciani, Impero filmato, impero-esibito. La cineteca del museo coloniale di Roma (1923-1951), 30/03/2023.

    4 Markus Wurzer, Italian colonialism in visual culture and family memory, 17/09/2018. Nadia Olivieri, L’invenzione dell’Africa. La formazione dell’immaginario coloniale italiano, dossier Insegnare il Mediterraneo contemporaneo, in Novecento.org, n. 4, giugno 2015. Giulia Grechi e Viviana Gravano (a cura di), Presente imperfetto. Eredità coloniali e immaginari razziali contemporanei, Mimesis, Milano, 2016.

    5 Stefano Mannucci, Storia della fotografia dell'Istituto Luce; e sempre dello stesso autore, La fotografia strumento dell’imperialismo fascista. Gabriele D’Autilia, Un caso di studio: l’Archivio fotografico dell’Istituto Luce, in L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, pp. 191-198, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2005. Gian Piero Brunetta, Istituto nazionale L.U.C.E, «Enciclopedia del Cinema», Treccani, 2003.

    6 Archivio Centrale dello Stato, Mostra della Rivoluzione Fascista. Gigliola Fioravanti (a cura di), Mostra della Rivoluzione Fascista - Inventario, Roma, 1990. Stefano Mannucci, Mostra della Rivoluzione fascista. Jeffrey T. Schnapp, Anno X. La mostra della rivoluzione fascista del 1932, Ist. Editoriali e Poligrafici, 2003. Claudio Fogu, The historic imaginary. Politics of history in fascist Italy, Toronto University Press, 2003.
    Per un confronto con l’uso propagandistico delle immagini fotografiche nella Germania nazista: Antonio Prampolini, Gerhard Paul e la storia visiva della Germania nazista, in «Historia Ludens», 10/04/2024.

    7 Stefano Mannucci, Storia della fotografia dell'Istituto Luce, op. cit.. Nel 1932, l’Istituto Luce aveva pubblicato il libro illustrato L’Italia fascista in cammino che comprendeva 516 fotografie tratte dal suo archivio. Stampato in edizione plurilingue (le didascalie erano in italiano, francese, inglese, spagnolo e tedesco), il libro, utilizzando anche diversi fotomontaggi, celebrava le istituzioni e le realizzazioni del regime fascista.

    Gianmarco Mancosu, Vedere l’impero. L’Istituto Luce e il colonialismo fascista, Mimesis, Milano, 2022; dello stesso, la tesi di dottorato La Luce per l’impero. I cinegiornali sull’Africa Orientale Italiana 1935-1942, Università degli Studi di Cagliari, anno accademico 2013-2014. Benedetta Guerzoni, Una guerra sovraesposta. La documentazione fotografica della guerra di Etiopia tra esercito e Istituto Luce, RS Libri, Reggio Emilia, 2017. Angelo Del Boca, Nicola Labanca, L’Impero africano del fascismo nelle fotografie dell’Istituto Luce, Editori Riuniti, Roma, 2002. Patrizia Cacciani, Il fascismo e il suo impero nell’Archivio dell’Istituto Luce, 08/11/2018. Luigi Goglia, Storia fotografica dell’Impero fascista 1935-41, Laterza, 1985. Markus Wurzer, Disziplinierte Bilder. Kriegsbildberichterstattung im nationalsozialistischen Deutschland und faschistischen Italien im Vergleich, 06/04/2020.
    Sugli aspetti economici del colonialismo italiano in Africa Orientale: Giulia Ricci, Alla conquista economica dell’Impero. La guerra coloniale in Etiopia, dossier Insegnare il Mediterraneo contemporaneo, «Novecento.org», n. 4, giugno 2015. Alessio Gagliardi, La mancata «valorizzazione» dell’impero. Le colonie italiane in Africa orientale e l’economia dell’Italia fascista, in «Storicamente», n.12, 2016.

    9 In un bilancio consuntivo, a guerra finita, il direttore dell’Istituto Luce, Giacomo Paulucci di Calboli, dichiarò che erano stati realizzati oltre 8.000 negativi fotografici, dai quali, una volta sviluppati, erano state distribuite circa 350.000 immagini del conflitto, sia in Italia che all’estero. A questa produzione si deve aggiungere un numero considerevole di serie fotografiche stampate in piccolo formato e destinate ai soldati (Adolfo Mignemi, Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 127).

    10 Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. Vol. 2, La conquista dell’impero, Laterza, Bari, 1986. Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall'impero d'Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino 2008. Nicola Labanca, La guerra d'Etiopia. 1935-1941, il Mulino, Bologna, 2015.

    11 Angelo Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra di Etiopia, Editori Riuniti, Roma, 2021.

    12 Adolfo Mignemi, Immagini per il soldato e il soldato fotografo. Fotografia militare e propaganda, in Immagine coordinata per un impero. Etiopia 1935-1936, a cura di A. Mignemi, Gruppo Editoriale Forma, Torino, 1984. Markus Wurzer, The social lives of mass-produced images of the 1935-41 Italo-Ethiopian War, Cambridge University Press, 10/11/2022. Sul sito https://www.memoriecoloniali.org/ i Fondi documentali

    13 La voce Àscari in Wikipedia edizione italiana.

    14 Gino Satta, L’ultimo baluardo della schiavitù. La “barbarie abissina” nella propaganda per la guerra d’Etiopia, in Variazioni africane. Saggi di antropologia e storia, a cura di Fabio Viti, Il Fiorino, Modena, 2016.

    15 Marida Brignani, Colonialismo e tutela della razza, Dossier Insegnare il Mediterraneo contemporaneo, in «Novecento.org», n. 4, giugno 2015. Gianluca Gabrielli, Razzismo coloniale italiano: dal madamato alla legge contro le unioni miste, in «Novecento.org», n. 12, agosto 2019. Francesco Filippi, Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie, Bollati Boringhieri, 2021. Cecilia Pennacini, Razzismo e imperialismo nel regime fascista, 29/01/2023.

    16 Il Fondo Cinegiornali e Fotografie dell’Istituto Nazionale Luce è stato inserito nel 2013 dall’UNESCO nel prestigioso registro Memory of the World con la seguente motivazione: «La collezione costituisce un corpus documentario inimitabile per la comprensione del processo di formazione dei regimi totalitari, dei meccanismi di creazione e sviluppo di materiale visivo e delle condizioni di vita della società italiana. Si tratta di una fonte unica di informazioni sull’Italia negli anni del regime fascista, sul contesto internazionale del fascismo (tra cui l’Africa orientale e l’Albania, ma anche ben oltre le aree occupate dall’Italia durante il fascismo, soprattutto per quanto riguarda il periodo della Seconda Guerra Mondiale) e sulla società di massa negli anni Venti e Trenta del Novecento».

    17  Gabriele D’Autilia, L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, op.cit., p.196.

    18 Sulla natura “coercitiva” della fotografia etnografica quale espressione del potere coloniale e del suprematismo dei “bianchi”: Matthias Harbeck e Moritz Strickert, Freiwilligkeit und Zwang. Eine Diskussion im Kontext der frühen ethnologischen Fotografie, op.cit..

  • L’importanza delle immagini: Gerhard Paul e la storia visiva della Germania nazista

    di Antonio Prampolini

     

    INDICE

    1. Fotografia e propaganda nella Germania nazista

    1.1 La politica delle immagini

    1.2 Il culto del capo e i fotografi personali di Hitler

    1.3 I fotomontaggi antisemiti

    1.4 Le fotografie di guerra

    2. Gerhard Paul e le immagini di una dittatura

    3. Collezioni fotografiche online: sitografia

     

    1. Fotografia e propaganda nella Germania nazista

    PAUL GERHARD STORIA VISIVA DELLA GERMANIA NAZISTA IMMAGINE 1Fig.1: fotomontaggio propagandistico pubblicato sulla rivista nazista in lingua inglese «The American Illustrated News», agosto-ottobre 1936. Fonte1.1 La politica delle immagini

    I nazisti, che già a partire dagli anni Venti si erano serviti in larga misura della fotografia come mezzo di propaganda del loro partito, dopo la “presa del potere” (30 gennaio 1933), la utilizzarono abilmente come strumento della politica del nuovo regime. Il 1° gennaio 1934 approvarono una legge sulla censura delle attività editoriali la quale stabiliva che i fotografi e i giornalisti erano da considerarsi “servitori dello Stato e del popolo tedesco” e che, pertanto, vietava la pubblicazione di immagini e articoli in cui il regime nazista fosse rappresentato in modo negativo o non adeguatamente celebrativo. Per poter continuare a esercitare la propria professione, i fotografi dovevano iscriversi all’associazione della stampa tedesca (Reichsverband der Deutschen Presse). Erano istituiti tribunali professionali che potevano emettere avvertimenti ai fotografi che non rispettavano le direttive in materia di propaganda, o, nel peggiore dei casi, rimuoverli dall'albo professionale, inoltrando i loro dati alla Gestapo (la polizia segreta della Germania nazista)1.

    Il nazismo era diventato un movimento di massa anche grazie alla propaganda, posta sotto la direzione di Joseph Goebbels a partire dal 1930. Un'attenta coreografia di grandi eventi con uniformi, bandiere, fiaccole e altri simboli esercitava un fascino seducente sui tedeschi e, soprattutto, sui giovani. Il regime si serviva del potere suggestivo delle immagini; le fotografie delle adunate oceaniche alla presenza di Hitler dovevano apparire agli occhi dei più come la rappresentazione plastica della nuova Germania: uno stato forte guidato da un leader carismatico2.

    Il lavoro e il progresso tecnico conoscevano una trasfigurazione mitica. Le immagini dei nuovi edifici, degli impianti industriali e delle autostrade erano “costruite” per testimoniare l'azione del governo nazionalsocialista a beneficio del popolo tedesco. Allo stesso tempo, la propaganda del regime glorificava la figura interclassista del lavoratore. Gli operai, i contadini e i soldati erano raffigurati come i difensori della "comunità nazionale" il cui nucleo e garante dell'ordine morale era la famiglia tradizionale con numerosi figli (le fotografie dovevano mostrare famiglie con almeno quattro bambini).

     

    PAUL GERHARD STORIA VISIVA DELLA GERMANIA NAZISTA IMMAGINE 2Fig.2: manifesto ricavato da una fotografia di Heinrich Hoffmann del1935. Fonte1.2 Il culto del capo e i fotografi personali di Hitler

    Durante la Repubblica di Weimar, in anni caratterizzati da una permanente instabilità politica e da un diffuso malessere economico-sociale, i nazisti seppero sfruttare al massimo l’aspirazione del popolo tedesco ad essere guidato da un capo forte e decisionista, capace di infondere in loro sicurezza e speranza in un futuro migliore. Si avvalsero di campagne propagandistiche accuratamente studiate per trasformare Adolf Hitler da estremista poco conosciuto (nato in Austria e non in Germania) a salvatore della patria e uomo del destino della nazione.

    A partire dall'inizio degli anni '30, per rappresentare e allo stesso tempo favorire la crescente popolarità di Hitler, i responsabili della propaganda nazista utilizzarono immagini panoramiche del "Führer", posizionate diagonalmente su entrambi i lati, davanti a folle oceaniche.

    Il fotografo più importante dell’iconografia propagandistica del Terzo Reich fu sicuramente Heinrich Hoffmann, amico e ritrattista personale di Hitler. Le sue fotografie contribuirono in maniera rilevante alla creazione del mito hitleriano nell’immaginario collettivo del popolo tedesco. Nel 1932 Hoffmann pubblicò un opuscolo dal titolo Hitler wie ihn keiner kennt (Hitler come nessuno lo conosce). Per aiutare il popolo a identificarsi con il "Führer", Hitler fu ritratto come un "tedesco normale", un amante dei bambini, della natura e dei cani3.

    Tra i principali fotografi della Germania nazista deve essere annoverato anche Hugo Jaeger che accompagnò Hitler negli anni Trenta e nel corso della Seconda Guerra Mondiale, scattandogli circa duemila fotografie a colori, All’epoca, Jaeger fu uno dei pochi fotografi che utilizzavano pellicole a colori. Un lavoro, il suo, che ci consegna un sorprendente ritratto di Hitler e una straordinaria documentazione visiva della criminale politica del nazismo in Polonia (Ghetto di Varsavia)4.

     

    PAUL GERHARD STORIA VISIVA DELLA GERMANIA NAZISTA IMMAGINE 3Fig.3: fotomontaggio “Entartung der Kunst” (Degenerazione dell'arte): manifesto per la grande mostra antibolscevica del 1937 a Norimberga. Fonte1.3 I fotomontaggi antisemiti

    Nel 1937 la mostra antibolscevica Grosse antibolschewistische Shau (Grande esposizione antibolscevica), allestita inizialmente nel novembre del 1936 presso la biblioteca del Deutches Museum di Monaco, esponeva in un nuovo allestimento a Norimberga un gigantesco fotomontaggio antisemita sulla “degenerazione dell'arte” Entartung der Kunst. Si trattava (come ha osservato Konstantin Akinsha) di una strategia propagandistica di grande effetto, ispirata alle tecniche sovietiche dei decenni precedenti e utilizzata anche nella Mostra della Rivoluzione fascista tenutasi a Roma nel 19325.

     

     

     

    PAUL GERHARD STORIA VISIVA DELLA GERMANIA NAZISTA IMMAGINE 4Fig.4: Fotomontaggo 'Judenvisagen' (Facce di giudei), per la mostra “Der Ewige Jude” (L'ebreo errante), Monaco di Baviera, 1937. FonteUn altro famoso fotomontaggio antisemita, Judenvisagen (Facce di giudei), fu presentato nella mostra Der ewige Jude (L'eterno ebreo), allestita a Monaco sempre nel 1937. In questo fotomontaggio erano state inserite foto che ritraevano personaggi di origine ebraica appartenenti al mondo della cultura, della politica e della scienza. Personaggi di cui venivano esasperati, abbruttendoli, i tratti fisiognomici che denotavano l’appartenenza ad una razza diversa da quella ariana e, per questo, considerata inferiore.

    Maestro della iconografia antisemita era il giornalista e scrittore Hans Diebow che aveva pubblicato nel 1924 Die Rassenfrage (La questione razziale), e numerosi altri pamphlet sullo stesso tema negli anni successivi. Nel 1937 curò la raccolta di illustrazioni, in prevalenza fotografiche, Der ewige Jude (L’eterno ebreo), un’opera feroce e provocatoria che denigrava e ridicolizzava gli ebrei per giustificare la politica antisemita dei nazisti e l’obiettivo di una Germania “Judenfrei”. Le sue pubblicazioni, che avevano contribuito a diffondere l’odio razziale non solo in Germania ma anche negli altri paesi dell’Asse, possono essere definite come una sorta di “foto-album ideologici” dove le parole dovevano essere subordinate alle immagini6.

     

    PAUL GERHARD STORIA VISIVA DELLA GERMANIA NAZISTA IMMAGINE 5Fig.5: gruppo di militari facenti parte delle Propagandakompanien. Fonte1.4 Le fotografie di guerra

    Per i responsabili della propaganda nazista la guerra doveva essere drammatizzata e personalizzata utilizzando tutti i mezzi visivi, e, tra questi, in particolare la fotografia.

    Nel 1938 furono create le Propagandakompanien, reparti della Wehrmacht la cui attività era però posta sotto il controllo diretto del Ministero della Propaganda, che comprendevano fotografi, cineoperatori, disegnatori e giornalisti. Il loro compito era quello di fornire immagini della guerra che, puntando sull’emotività, dovevano raffigurare la forza, il coraggio e l’eroismo dei soldati dell’esercito tedesco7.

    Le numerose fotografie prodotte dalle Propagandakompanien nel corso della Seconda Guerra Mondiale erano però in gran parte il frutto di “messe in scena” che, per rassicurare le famiglie tedesche o esaltare le figure dei combattenti, avevano poco o niente in comune con la realtà. Allo scoppio della Secondo conflitto mondiale nel 1939, i fotografi documentarono i successi della Wehrmacht nei vari teatri di guerra. Dopo l'attacco all'Unione Sovietica, nel giugno 1941, le foto contenevano anche immagini che raffiguravano sia le condizioni di estrema indigenza in cui vivevano le popolazioni locali che la violenza dei soldati tedeschi nei confronti degli ebrei. Quando, a partire dal 1943, la sconfitta militare della Germania sul fronte orientale era di giorno in giorno sempre più evidente, i soldati della Wehrmacht venivano ancora rappresentati come combattenti vittoriosi. L’iconografia ufficiale glorificava la guerra e le virtù militari: il cameratismo, la lealtà e il coraggio. I detentori della Croce di Cavaliere della Wehrmacht venivano corteggiati come eroi dalla propaganda nazista; tra questi, in particolare, Erwin Rommel, che godeva di un'alta reputazione tra la popolazione ed era una figura in cui si identificavano molti soldati dell’esercito tedesco.

     

    2. Gerhard Paul e le immagini di una dittatura

    Gerhard Paul è uno storico tedesco che ha insegnato didattica della storia presso la Europa-Universität di Flensburg (Germania) e che da più di trent’anni studia le immagini dell’età contemporanea, intese non solo come una delle possibili fonti della storia, insieme alle fonti scritte e a quelle orali, ma come oggetti che meritano un’indagine storiografica autonoma. Le immagini, a suo parere, sono dotate di una propria «forza generativa» poiché esse non solo riflettono la storia, ma anche la influenzano e la determinano8.

    «Le immagini, [egli osserva] sono più che fonti che si riferiscono a un fatto o evento al di fuori della propria esistenza; sono più che media che usano il loro potenziale estetico per trasmettere interpretazioni [della realtà]. Le immagini hanno anche la capacità di creare prima di tutto realtà, sono dotate di una potenza energetica e generativa»9.

    Numerose sono le sue pubblicazioni (purtroppo nessuna è stata ancora tradotta in italiano) dedicate alle immagini della propaganda e della politica del terrore dei nazisti contro gli ebrei e le popolazioni dell’Europa orientale, e alla iconografia delle guerre, nella consapevolezza che le “guerre moderne” sono diventate sempre più “guerre di immagini” (la Seconda guerra mondiale, la Guerra del Vietnam, la Guerra in Iraq contro Saddam Hussein)10.

    Nel 2020 ha pubblicato Immagini di una dittatura. La storia visiva del Terzo Reich (Bilder einer Diktatur. Zur Visual History des Dritten Reiches) nella collana «Visual History» dell’editore Wallstein Verlag11.

    PAUL GERHARD STORIA VISIVA DELLA GERMANIA NAZISTA IMMAGINE 6Fig.6: copertina di “Bilder einer Diktatur” editore Wallstein Verlag. FonteIn cinquecento pagine, Paul prende in esame l’iconografia del nazismo negli anni che vanno dal 1932 al 1945 utilizzando 42 “immagini chiave”. La selezione riflette il primato della fotografia nella memoria collettiva dei tedeschi. Infatti, due terzi delle “immagini chiave” selezionate da Paul sono fotografie, prodotte sia da fotografi professionisti, alle dipendenze delle agenzie di propaganda del regime o inquadrati in reparti militari, che da fotografi amatoriali (soldati o civili). A ciascuna delle immagini selezionate, riprodotte in ordine cronologico, viene dedicato un capitolo dove l’autore descrive le circostanze della loro creazione, come furono utilizzate e interpretate, e come lui stesso le ha incontrate per la prima volta.

    Nella sua indagine iconografica Paul ha potuto constatare che, nonostante siano trascorsi più di 70 anni dalla fine del cosiddetto Terzo Reich, le foto provenienti dalla propaganda nazista plasmano ancora la visione collettiva di quel periodo storico. Sono onnipresenti in rete, negli articoli dei giornali e nelle mostre, illustrano i libri e i testi scolastici, dove spesso si dimentica che esse non rispecchiano in modo oggettivo e neutrale la realtà, poiché sono spesso il prodotto di “messe in scena”, di costruzioni mediatiche che necessitano di un’attenta critica delle fonti.

    «Siamo ancora circondati da immagini dell’era nazista [scrive Paul nell’introduzione a Bilder einer Diktatur]. Uno sguardo ai giornali e alle riviste, allo schermo televisivo [o a quello dei computer e dei telefonini collegati a Internet] conferma continuamente questo fatto: la barriera di confine rotta a Danzica è una metafora visiva dell'inizio della Seconda Guerra Mondiale; la fotografia dei fratelli Scholl rappresenta in tutto il mondo la resistenza contro Hitler; la rampa ferroviaria di Auschwitz-Birkenau costituisce una icona globale dell’Olocausto. Nel cosmo di queste immagini si è formata la nostra visione del nazionalsocialismo e del Terzo Reich. Quella che era un'esperienza reale per coloro che vivevano in quel momento viene veicolata ai posteri mediaticamente attraverso immagini. La memoria che ne scaturisce proviene spesso dalla stessa propaganda nazista che è stata adottata talvolta in modo acritico, influendo così sul giudizio di quella tragica esperienza storica»12.

    PAUL GERHARD STORIA VISIVA DELLA GERMANIA NAZISTA IMMAGINE 7 PAUL GERHARD STORIA VISIVA DELLA GERMANIA NAZISTA IMMAGINE 8 Bilder einer Diktatur inizia con una foto scattata a Kiel (Schleswig-Holstein) nel dicembre 1932 e si chiude con una foto scattata a Flensburg (Schleswig-Holstein) il 23 maggio 1945. La prima mostra un candelabro di Hanukkah (candelabro a nove bracci, Menorah, per celebrare la festa ebraica di Hanukkah) posto sul davanzale di una finestra con vista sull’edificio sede della locale direzione del partito nazista (NSDAP) dove sventolava una bandiera con la svastica. La fotografia è una “messa in scena” della fotografa Rachel Posner, moglie del rabbino di Kiel, per rappresentare visivamente la situazione di tensione e di pericolo in cui si trovava la popolazione ebraica a causa delle azioni violente dei nazisti di quella città. Questa fotografia viene utilizzata da Paul per raffigurare simbolicamente la radicale contrapposizione tra il nazionalsocialismo e il mondo ebraico, tema centrale di Bilder einer Diktatur. La seconda foto documenta l’arresto avvenuto a Flensburg di alcuni alti gerarchi nazisti: Karl Dönitz (il successore di Hitler), Albert Speer (il ministro degli armamenti e delle munizioni del Reich) e Alfred Jodl (il capo l'organizzazione Todt). Si tratta anche in questo caso di una “messa in scena” voluta dalla potenza occupante britannica per offrire ai numerosi rappresentanti della stampa internazionale un’immagine iconica della fine della dittatura nazista.

    Circa un terzo delle fotografie di Bilder einer Diktatur sono dedicate alla persecuzione degli ebrei. In molte immagini, gli ebrei vengono ritratti secondo gli stereotipi razziali definiti dai nazisti per rafforzare le tendenze antisemite della popolazione tedesca ed escluderli così dalla “comunità nazionale”, riservata ai soli cittadini di razza ariana. Particolarmente inquietanti sono le foto di Lviv, in Ucraina, che mostrano giovani che compiono violenze sessuali contro donne ebree davanti alla macchina fotografica. Ci sono anche immagini scattate clandestinamente che provengono dalle stesse vittime del terrore nazionalsocialista.

    Per Paul, ciò che colpisce nell’iconografia nazista è la discrepanza tra la violenza degli eventi e la «osservazione apparentemente estranea» di gran parte dei fotografi. Miglia di fotografie venivano pubblicate sui quotidiani e sulle riviste illustrate promosse dal regime per creare un nuovo immaginario delle masse, per renderle partecipi degli eventi e trasformarle in corresponsabili, estendendo così la base di consenso del regime.

    Nel riflettere sui criteri da lui seguiti nella scelta delle immagini in Bilder einer Diktatur, Paul così descrive la dinamica delle immagini nella memoria collettiva:

    «La nostra memoria basata sulle immagini non è mai statica, ma dinamica, caotica e associativa. Ciò vale anche per la memoria dell’era nazista. Alcune immagini sopravvivono al passare del tempo, cambiando interpretazione e significato. Altre immagini vengono dimenticate e scompaiono dalla nostra memoria. Nuove immagini sostituiscono quelle più vecchie. Tra queste ci sono immagini che, a causa del loro potere iconico, sono prive di leggende, mentre altre richiedono l’accompagnamento di un testo descrittivo. Alcune immagini acquisiscono un significato maggiore, vengono collocate nella memoria come immagini di riferimento per un contesto storico più ampio. Tutto questo avviene a seconda dei tempi, dei mutevoli interessi e delle domande che poniamo alla storia»13.

    Grazie all’ampia e approfondita ricerca iconografica sull’era nazista, che affianca alle fotografie ufficiali del regime immagini meno conosciute o del tutto sconosciute, e mostra eventi nelle strade e nelle piazze, così come nei lager o nelle prigioni, nelle stanze private o nei nascondigli, Bilder einer Diktatur è un'opera di grande interesse che può essere utilizzata proficuamente anche in ambito didattico per esercitarsi ad analizzare criticamente le fonti visive, mettendo in discussione la produzione, la ricezione e l’interpretazione delle fotografie di quell'epoca barbarica.

     

    3. Collezioni fotografiche online: sitografia

    Elenchiamo di seguito alcune risorse della rete ad accesso libero e gratuito, che propongono collezioni fotografiche sulla storia visiva della Germania nazista. Per quanto riguarda le collezioni fotografiche sulla Shoah/Olocausto rinviamo alla sitografia dell’articolo Le quattro foto “vere/false” di Auschwitz. Georges Didi-Huberman e il dibattito sulla rappresentazione della Shoah (in «Historia Ludens», 21/01/2024), con la stessa avvertenza: le fotografie digitali che circolano numerose sul web devono sempre essere sottoposte ad una critica delle fonti, con una particolare attenzione sia all’organizzazione che alle finalità dei siti che le pubblicano.

    - In Wikimedia Commons (l’archivio digitale open access di immagini, suoni e video, di pubblico dominio o con licenza libera, creato nel 2004 dalla Wikimedia Foundation, e che funge da repository di file multimediali per i vari progetti della fondazione, tra cui Wikipedia) segnaliamo le categorie (aggregati di file strutturati):

    Category: Nazi Germany

    Category: Nazi propaganda

    Category: Nazi photographers

    Category: Photographs by Heinrich Hoffmann

    Category: Propagandakompanie

    E’ possibile anche effettuare una ricerca in Wikimedia Commons digitando nazi photography nel campo di testo libero; in tal caso, il risultato è un mosaico di immagini non strutturate.

    - Il Bundesarchiv, l’Archivio federale della Germania, conserva circa 12 milioni di immagini, foto aeree e manifesti sulla storia tedesca e non solo. Dal sito dell’archivio è possibile impostare ricerche per periodo. Ad esempio, la ricerca dal 1933 al 1945permette di visualizzare numerose immagini relative alla Germania negli anni del nazismo al potere. L’archivio conserva, in particolare, le fotografie delle Compagnie di Propaganda della Wehrmacht che mostrano l’impiego nelle diverse zone di guerra delle forze armate tedesche durante il Secondo conflitto mondiale. Dal sito dell’archivio è possibile visualizzare le foto: Propagandakompanien der Wehrmacht.

    - Il LEMO – Lebendiges Museum Online permette di accedere a diverse raccolte fotografiche sulla Germania (Fotografien). Nella lista Epoche segnaliamo: Weimarer Republik, NS-Regime, Zweiter Weltkrieg. La ricerca delle immagini può essere impostata per tag, luoghi e persone.

    - Il sito Süddeutsche Zeitung Photo pubblica numerose fotografie dedicate al nazionalsocialismo in Germania: Nationalsozialismus in Deutschland. Le fotografie sono raggruppate per temi e ogni tema propone diversi dossier con le relative immagini (ad esempio, il tema La politica educativa dei nazionalsocialisti comprende tre dossier: Schule im Nationalsozialismus (La scuola nella Germania nazionalsocialista); Universität im Nationalsozialismus(L’università nella Germania nazionalsocialista); Vormilitärische Ausbildung bei der Hitlerjugend(L’addestramento premilitare della Gioventù hitleriana).

     


    Note

    1 Cfr. Thekla Kausch,Die Fotografie im NS-Regime, Deutsches Historisches Museum, Berlin, 18. August 2015.

    2 Cfr. Arnulf Scriba,Die NS-Propaganda, Deutsches Historisches Museum, Berlin, 14. Juli 2015. Sulla fotografia di propaganda: Gabriele D’Autilia,L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2005, pp. 165-169.

    3 Cfr.Heinrich Hoffmann (photographer), Wikipedia edizione in lingua inglese. Si veda anchePhoto archive of Heinrich Hoffmann, Bayerische StaatsBibliothek.

    4 Cfr.Hugo Jaeger, Wikipedia edizione in lingua inglese. Si veda anche lacollezione di foto a coloridi Hugo Jaeger su flickr.

    5 Cfr. Konstantin Akinsha,Il naso di Alfred Flechtheim. Antisemitismo e immagini nella propaganda nazista, «Storicamente», 5 (2009), no. 54.

    6 Cfr. Konstantin Akinsha,Il naso di Alfred Flechtheim.

    7 Cfr. Carola Jüllig,Propagandakompanien, Deutsches Historisches Museum, Berlin, 29. April 2020.

    8 Per maggiori informazioni bio-bibliografiche su Gerhard Paul: lavoce relativa in Wikipedia edizione in lingua tedesca e ilcatalogo della Deutsche National Bibliothek.

    Bilder als generative Kräfte, nella voceVisual History scritta da Gerhard Paul per la «Docupedia-Zeitgeschichte», 13.03.2014.

    10 Tra le pubblicazioni in lingua tedesca di Gerhard Paul, segnaliamo:Aufstand der Bilder. Die NS-Propaganda vor 1933 (La rivoluzione delle immagini. Propaganda nazista prima del 1933), Bonn 1990;Bilder des Krieges – Krieg der Bilder. Die Visualisierung des modernen Krieges (Immagini di guerra - guerra di immagini. La visualizzazione della guerra moderna), Schöningh, Paderborn 2004;Der Bilderkrieg. Inszenierungen, Bilder und Perspektiven der “Operation Irakische Freiheit” (La guerra delle immagini nella “Operazione Iraqi Freedom”), Wallstein, Göttingen 2005;Das visuelle Zeitalter. Punkt & Pixel, (L'era visiva: punto & pixel ) Wallstein, Göttingen 2015;Bilder einer Diktatur. Zur Visual History des Dritten Reiches (Immagini di una dittatura. Per una storia visuale del Terzo Reich), Wallstein, Göttingen 2020. In rete si possono leggere in modalità open access:Die Geschichte hinter dem Foto. Authentizität, Ikonisierung und Überschreibung eines Bildes aus dem Vietnamkrieg (La storia dietro una foto. Autenticità, iconizzazione e sovrascrittura di un'immagine della guerra del Vietnam), in «Zeithistorische Forschungen/Studies in Contemporary History», n. 2, 2005;Die Geschichte der fotografischen Kriegsberichterstattung (La storia del reportage fotografico di guerra), nel dossier «Bilder in Geschichte und Politik» della Bundeszentrale für politische Bildung, 28/12/2005; Kriegsbilder – Bilderkriege (Immagini di guerra, guerre di immagini), in «Aus Politik und Zeitgeschichte», Bundeszentrale für politische Bildung, 16/07/2009;Das Mao-Porträt Herrscherbild, Protestsymbol und Kunstikone (Il ritratto di Mao. Immagine del potere, simbolo di protesta e icona dell'arte), in «Zeithistorische Forschungen/Studies in Contemporary History», n. 6, 2009;“Icons Art” & “Double Take”. Anmerkungen zu einer Berliner Ausstellung (Le icone mediatiche della fotografia e del cinema. Appunti su una mostra di Berlino), in «Visual History», 11/03/2019.

    11 In rete è possibile leggere l’introduzione e alcuni capitoli iniziali (Bilder einer Diktatur. Zur Visual History des Dritten Reiches).

    12Cfr. Bilder einer Diktatur. Zur Visual History des Dritten Reiches – Einleitung, pp. 9-16.

    13 Cfr.Bilder einer Diktatur. Zur Visual History des Dritten Reiches – Einleitung, pp. 9-16.

  • La "Cancel Culture"

    I contorni di una controversia*

    di Daniele Boschi

    In Italia, come in altri paesi occidentali, le diverse manifestazioni del 'politicamente corretto' e della cosiddetta cancel culture continuano ad essere oggetto di analisi e studi più o meno approfonditi e di interpretazioni e giudizi assai disparati e, in alcuni casi, del tutto opposti e inconciliabili.

    Immagine1Fig.1: vignetta pubblicata sulla rivista “MR Online” nell’ottobre 2020 FonteDa una parte vi sono coloro che affermano che si starebbe sviluppando una vera e propria guerra contro la storia e l’identità dell’Occidente o che sarebbe in atto una sorta di ‘suicidio’ della nostra civiltà. Sul fronte opposto si collocano invece i commentatori che sostengono che non c’è alcun tentativo di cancellare alcunché che non meriti di essere cancellato e che la cancel culture è un fenomeno inventato ad arte da esponenti della destra per squalificare le lotte di movimenti che si battono in favore dei diritti delle minoranze e per una maggiore equità e giustizia sociale. Non mancano posizioni più sfumate e analisi che mettono a fuoco in modo più preciso particolari aspetti e manifestazioni del fenomeno. In questo articolo, e in altri che seguiranno, cercheremo di dar conto di alcuni degli interventi più significativi su questo argomento.

     

    La cancel culture come guerra contro la Storia

    “I monumenti cadono. Le chiese vengono distrutte. L’intero Occidente è percorso da una pazzia iconoclasta che negli ultimi anni – in particolare dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2016 – ha assunto dimensioni preoccupanti”.1

    Così si apre il prologo del libro di Emanuele Mastrangelo ed Enrico Petrucci, intitolato Iconoclastia. La pazzia contagiosa dellaCancel Culture che sta distruggendo la nostra storia, pubblicato alla fine del 2020. Mastrangelo è il caporedattore della rivista online “Storia in rete”, alla quale collabora anche Petrucci. I due autori dichiarano apertamente la propria simpatia per la destra e in particolare per le posizioni assunte sul tema della cancel culture da Fratelli d’Italia.

    Nel volume edito da Eclettica, Mastrangelo e Petrucci, dopo un’analisi di carattere generale del fenomeno, ricostruiscono in modo dettagliato le molte forme che la guerra alle statue e ad altri monumenti ha assunto in diversi paesi dell’Occidente, spaziando dalla distruzione di statue che ricordavano l’ideologia o i regimi comunisti nei paesi dell’Europa dell’Est all’assalto ai monumenti dedicati ai Confederati e a Cristoforo Colombo negli USA, dall’abbattimento delle statue di Franco in Spagna alla demolizione delle chiese neogotiche in Francia, per arrivare infine all’Italia, dove tuttavia l’ondata iconoclasta fa molta fatica ad attecchire, almeno per ora.

    Immagine2Fig.2: Gli attacchi alle statue di importanti personaggi storici sono stati spesso presentati come una manifestazione della ‘cancel culture’ FonteLa responsabilità di questa ondata di violenza viene addebitata in primo luogo all’attivismo di piccole minoranze di estremisti, come i cosiddetti social justice warriors, alle spalle dei quali vi sarebbero però settori importanti dell’intellighenzia progressista, in particolare quegli ambiti del mondo universitario in cui, secondo i due autori, domina il ‘marxismo culturale’, versione degradata e distorta della originaria dottrina di Marx ed Engels. A un livello ancora più alto vi sarebbero poi i vari governi nazionali e le istituzioni sovranazionali “che sulla spinta dell’ideologia woke preparano le basi per l’imposizione giuridica della cancel culture come prassi legale”2 con strumenti quali le leggi che introducono nuovi reati d’opinione o trattati internazionali come la Convenzione di Faro.3

    Le conclusioni di Mastrangelo e Petrucci sono allarmanti:

    “Quella presente è una vera e propria guerra contro la Storia, contro il passato, contro l’eredità lasciata dagli antenati in ciascuna nazione dell’Occidente. Si vuole spezzare il patto fiduciario fra le generazioni del passato e quelle del futuro”.4

    Vi sono già stati naturalmente altri momenti storici in cui si è tentato di rompere quel legame col passato, ma a farlo sono stati generalmente grandi movimenti religiosi o ideologie para-religiose come il Comunismo, che si proponevano di rigenerare l’umanità:

    “Comunque la si pensi sui monoteismi o sul Marxismo realizzato, non si può disconoscere la loro grandezza e profondità di vedute. La distruzione del passato doveva far posto a un futuro nuovo e, secondo costoro, radioso. Molto hanno distrutto, pure molto hanno costruito. … Ma le orde iconoclaste che oggi assediano la cittadella della cultura in Occidente non hanno alcuna reale prospettiva, non un’ideologia organica né una religione. Non verranno abbattuti templi pagani per edificare cattedrali, né saranno distrutte statue per far posto a giardini delle delizie, non verranno venduti i gioielli dello Zar per un giorno mandare un uomo nello spazio”.5

     

    Il ‘suicidio dell’Occidente’

    La critica nei confronti della cancel culture non viene però soltanto da destra. Basti pensare al libro di Federico Rampini Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, uscito nel 2021. Rampini, pur essendo molto critico nei confronti della sinistra radicale statunitense ed europea, non è certo un fautore della destra trumpiana o dei vari sovranismi e populismi del nostro continente. La sua analisi, a differenza di quella di Mastrangelo e Petrucci, è incentrata sugli Stati Uniti, paese del quale è da anni un attento osservatore. Egli riconduce la cancel culture a una più generale smania autodistruttiva che sembra essersi impossessata delle élite americane:

    Immagine3Fig.3: Lo scrittore Ian Buruma è stato indicato da Federico Rampini come una delle vittime più illustri della ‘cancel culture’ Fonte“L’ideologia dominante, quella che le élite diffondono nelle università, nei media, nella cultura di massa e nello spettacolo, ci impone di demolire ogni autostima, colpevolizzarci, flagellarci. Secondo questa dittatura ideologica, non abbiamo più valori da proporre al mondo e alle nuove generazioni, abbiamo solo crimini da espiare. Questo è il suicidio occidentale”.6

    Dopo aver dato conto della campagna denigratoria contro Cristoforo Colombo e della riscrittura della storia americana che ad essa si accompagna, Rampini dipinge a tinte fosche il clima di intolleranza che si è diffuso nelle università e nei media statunitensi e che sta mettendo a repentaglio la lunga tradizione di libertà di parola e di pensiero così fortemente radicata nella storia degli Stati Uniti:

    “Un attacco insidioso rischia di distruggere dall’interno la più preziosa delle tradizioni americane. È stata definita anchecancel culture o ‘cultura della cancellazione’. È l’avanzata di una nuova forma di pensiero unico, solo in apparenza ‘progressista’, che cancella i disobbedienti privandoli del diritto di parola, denuncia pubblicamente persone accusate di avere offeso qualche valore sacro del politically correct e lancia campagne di boicottaggio contro i reprobi”.7

    Rampini non esita a proporre un paragone con i regimi dittatoriali del passato:

    “[La cancel culture] È una sottile forma di dittatura, anche se non ha una singola cabina di regia: non c’è dietro un Mussolini, uno Stalin, un Mao che silenzia chi dà fastidio. Gli effetti sono egualmente pervasivi e deleteri: le epurazioni avanzano nei campus universitari e nel mondo della ricerca, nelle redazioni dei giornali e delle Tv, nelle case editrici, perfino ai piani alti di molti colossi capitalistici”.8

     

    La cancel culture non esiste

    Una tesi diametralmente opposta a quella formulata, in forma diversa ma parzialmente convergente, da Mastrangelo e Petrucci e da Rampini è quella avanzata dallo storico Germano Maifreda in un articolo pubblicato lo scorso 9 maggio sul sito della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli:

    “La ‘cancel culture’ non esiste. È un grande ombrello denigratorio formulato dalla destra conservatrice e integralista statunitense per designare un insieme molto eterogeneo di proposte relative all’uso del linguaggio e a contenuti intellettuali e figurativi fra loro estremamente diversificati. Ad accomunare queste proposte è solo il fatto che vengono (anche se non sempre) avanzate da membri di minoranze discriminate e sono finalizzate al riconoscimento di maggiori o migliori diritti, dignità, spazi pubblici; nonché alla difesa della propria voce quando non della propria incolumità fisica”.

    Maifreda accosta poi il vittimismo di coloro che presumono di esser stati ‘cancellati’ alla vena profonda di vittimismo presente nella radice culturale del nazismo e di altre forme di totalitarismo e aggiunge:

    “Il vittimismo dei vincitori – lo abbiamo più volte visto in atto anche nell’Italia berlusconiana – è uno strumento formidabile di aggregazione del consenso e di mantenimento delle asimmetrie di potere vigenti, ai danni di ogni alterità”.

    Infine, riferendosi più specificamente al mondo dell’editoria, Maifreda si chiede come sia possibile parlare di censura, o di complotto dei censori, per definire “libere pratiche editoriali odierne di modifica linguistica e terminologica di testi – o di mancata pubblicazione o ripubblicazione di determinati testi, o parti di testi”:

    “Anche in questo caso bisognerebbe meglio riflettere sull’uso delle parole. ‘Censura’ – termine che a sua volta parrebbe avvicinare queste pratiche ai roghi dei libri – è fuorviante: non esistendo in questi casi né leggi, né polizie e tribunali politici, né indici di libri proibiti, né pene previste per i trasgressori di inesistenti divieti”.

     

    Immagini contese

    Maifreda aveva già trattato, in modo meno diretto, il tema della cancel culture nel suo libro Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento alla cancel culture, pubblicato da Feltrinelli nel 2022. È uno studio sul modo in cui l’esposizione pubblica e la stessa conservazione di diverse tipologie di immagini, figure o forme visuali sono state di volta in volta permesse, ostacolate o impedite dalle autorità e dalle élite politiche, spesso interagendo con altri soggetti, gruppi di pressione, movimenti sociali.

    Immagine4Fig.4: La statua di Giordano Bruno eretta a Roma in piazza Campo dei Fiori alla fine dell’800 FonteSi parte dalla rimozione, ordinata dal giudice criminale del ducato di Mantova nel giugno del 1625, di un quadro del pittore Vincenzo Sanvito che raffigurava l’impiccagione di sette ebrei, per arrivare alla censura esercitata nei confronti della cinematografia in Italia nel corso del Novecento, passando attraverso altre più o meno note vicende, tra le quali ad esempio le contese politiche che precedettero e accompagnarono la decisione di erigere il celebre monumento a Giordano Bruno in piazza Campo dei Fiori a Roma alla fine dell’Ottocento.

    La tesi generale di Maifreda è la seguente:

    “Come i discorsi, anche le forme che ci sono state consegnate dal passato – e che possiamo decidere se preservare nel presente – non sono né innocenti né neutrali. Ognuna di esse è emersa da un intreccio di rapporti di potere che non procedono solo dall’alto verso il basso della piramide sociale, ma tracciano percorsi variegati, talora minuti, situati nel tempo e nello spazio. In questi fasci di relazioni politiche possono di volta in volta combinarsi o prevalere le logiche di schieramento, la posizione dei soggetti nei sistemi di produzione o nella gerarchia della ricchezza, i divari e le discriminazioni di genere, generazionali, culturali, etnici o di altro tipo”.9

    Immagine5Fig.5: “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini è tra i tanti film che caddero nelle maglie della censura cinematografica in Italia FonteDi qui la critica riguardo al modo in cui molti commentatori hanno trattato il tema degli abbattimenti o delle richieste di rimozione di statue o altre forme visuali collocate in spazi pubblici, etichettandoli sbrigativamente come espressioni di cancel culture:

    “La maggior parte dei commentatori di queste azioni non è andata molto oltre una generica denuncia di lesa maestà storica, rinunciando così ad aprire spazi di discussione. Si è per esempio rinunciato a indagare il significato profondo di quelle immagini e di quelle collocazioni nello spazio pubblico, entrambe –ancora una volta – tutt’altro che neutrali e innocenti; a interrogarsi sulla capacità o meno di specifiche immagini, poste in specifici luoghi, di rappresentare gruppi che in passato non avevano voce ma che guadagnano ora centralità; a denunciare il divario oramai abissale esistente tra manufatti visuali creati e selezionati sulla base di rapporti di forza vigenti in passato e un futuro inesorabilmente pluriculturale”.10

     

     Un possibile terreno di incontro

    A questo punto viene da chiedersi come sia possibile tentare di descrivere e definire in modo oggettivo un fenomeno da alcuni definito come cancel culture, e presentato come una minaccia per l’Occidente, e da altri giudicato come assolutamente insussistente, quantomeno nei termini in cui i primi lo rappresentano. Per cui mentre da una parte si compilano lunghi e minuziosi elenchi di monumenti, opere d’arte, libri, idee, autori, che sarebbero stati ingiustamente ‘cancellati’, dall’altra parte si ribatte che proprio nulla, o quasi nulla, è stato in realtà cancellato che non meritasse di esserlo; e che questo processo è parte di una sana e normale dialettica politica, sociale e culturale.

    Va da sé poi che questa diatriba italiana è in fondo soprattutto un riflesso della battaglia culturale e politica in corso da diversi anni negli Stati Uniti d’America, paese nel quale osservatori e analisti che non hanno posizioni pregiudiziali rimangono non di rado perplessi di fronte alla disparità di valutazioni e opinioni e cercano, a volte, di promuovere un terreno d’incontro tra gli opposti schieramenti.

    Ad esempio Conor Friedersdorf in un articolopubblicato su “The Atlantic” (28/04/2022) ha osservato che la maggioranza degli americani che insistono nel dire che la cancel culture è un problema e la minoranza che lo nega stanno parlando in realtà due lingue diverse senza capirsi.

    Il problema, afferma Friedersdorf, è che si usa un’unica espressione per inquadrare controversie di natura assai differente; e questo non aiuta a capire su che cosa effettivamente i due schieramenti non sono d’accordo. Un primo rimedio potrebbe essere il seguente:

    “Le persone che si lamentano a proposito della ‘cancel culture’ dovrebbero sempre chiarire a che cosa sono contrarie. Bisognerebbe dire loro: dovete specificare meglio le vostre accuse, a meno che non vogliate veramente affermare che nessuno dovrebbe essere licenziato o stigmatizzato per qualsiasi cosa abbia detto o fatto. Analogamente, alle persone che lodano la ‘accountability culture’ o liquidano la cancel culture come un’invenzione bisognerebbe dire: dovete specificare meglio che cosa intendete per giusta punizione, a meno che non vogliate veramente affermare che chiunque sia stato licenziato o stigmatizzato per ciò che ha detto sia stato trattato equamente”.11

    Friedersdorf poi aggiunge:

    “Se tutti quanti specificassero meglio ciò che intendono dire, le persone che sono su opposti schieramenti nell’astratto, generico dibattito sulla cancel culture potrebbero trovare qualche accordo su casi concreti”.

     

    A che cosa si riferisce l’espressione cancel culture

    Sono piuttosto scettico riguardo alla possibilità di arrivare a un accordo tra le diverse correnti di pensiero attorno alla cancel culture, ma una maggiore concretezza e precisione gioverebbero quantomeno a placare gli animi e a rendere più comprensibili i termini della polemica.

    Aggiungo che Friedersdorf ha usato l’espressione cancel culture con un significato piuttosto circoscritto. Ma, come si è visto, questa espressione viene usata anche in un senso molto più ampio. Pertanto, a seconda dell’uso che ne viene fatto, essa può alludere a tutti i seguenti avvenimenti o solo ad alcuni di essi:

    1) la messa sotto pubblica accusa attraverso i social media e la stampa – e la successiva emarginazione - di intellettuali, artisti, ricercatori, docenti, ecc., ma anche di comuni cittadini, per aver detto o fatto cose sconvenienti;
    2) la decisione di non pubblicare, ripubblicare o mettere in mostra - o di farlo solo con opportune modifiche - testi o altre opere prodotte ai nostri tempi perché ‘politicamente scorretti’ o perché i loro autori o autrici sono stati accusati di aver detto o fatto cose sconvenienti;
    3) la decisione di non pubblicare, ripubblicare o mettere in mostra – o di farlo solo con opportune avvertenze o modifiche - o di depennare dai programmi scolastici o universitari, opere letterarie, artistiche, storiografiche, ecc. del passato, perché il loro contenuto, o anche soltanto la condotta dei loro autori o autrici, non sono conformi ai canoni etici odierni;
    4) il divieto di trattare nei libri o nei programmi scolastici argomenti ritenuti controversi o sensibili, come ad esempio negli Stati Uniti quelli attinenti al razzismo e all’antirazzismo o alle questioni di genere;
    5) il deturpamento, l’abbattimento o la rimozione violenta di statue, monumenti, iscrizioni e simili perché celebrano personaggi la cui condotta è ritenuta offensiva o poco in linea rispetto ai codici etici contemporanei;
    6) la decisione legittimamente presa dalle autorità cittadine, locali, o statali, di rimuovere o ricontestualizzare statue, monumenti, iscrizioni e simili per gli stessi motivi sopra indicati.

    Questa lista, che è probabilmente incompleta, evidenzia la notevole complessità dei fenomeni e delle problematiche a cui ci si riferisce o si allude quando si parla di cancel culture. Aggiungo che i problemi sollevati o evocati da chi ha scritto su tali questioni sono almeno di due ordini, in quanto ci si può chiedere se la cancel culture (o qualsiasi cosa si intenda designare con questa espressione):

    a) rappresenti o no una minaccia per la libertà di pensiero e di espressione;
    b) rappresenti o no una minaccia per la conservazione e la trasmissione della storia, dei valori, del patrimonio artistico e culturale, e dell’identità stessa dell’Occidente.

    Queste due domande sono tra loro correlate ma non necessariamente hanno la stessa risposta, negativa o affermativa che sia.
    Ritengo tuttavia che per provare a rispondere a questi e ad altri interrogativi sia necessario esaminare in modo più dettagliato almeno alcuni dei diversi aspetti della questione, come alcuni studi sia italiani che americani hanno cominciato a fare. Li illustreremo nei prossimi articoli.

     


    Note

    *Ho organizzato questo argomento in diversi articoli, che trattano partitamente le singole questioni relative a un tema così complesso come la cancel culture

    1Emanuele Mastrangelo – Enrico Petrucci, Iconoclastia. La pazzia contagiosa dellaCancel Culture che sta distruggendo la nostra storia, Massa, Eclettica Edizioni, 2020, p. 43.

    2Ivi, p. 359.

    3Si tratta della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, adottata a Faro in Portogallo il 27 ottobre 2005 e ratificata attualmente da 24 Stati, tra cui l’Italia, che la ha ratificata il 15 dicembre 2020. 

    4Mastrangelo - Petrucci, Iconoclastia, cit., p. 362.

    5Ivi, pp. 362-363.

    6Federico Rampini, Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, Milano, Mondadori, 2021, p. 3. 

    7Ivi, p.43.

    8Ivi, p.43.

    9Germano Maifreda, Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento alla cancel culture, Milano, Feltrinelli, 2022, pp. 9-10.

    10Ivi, pp. 10-11.

    11 È mia la traduzione dall’inglese di questo brano e di quello immediatamente successivo.

     

    Bibliografia/Sitografia

    - “Cancel culture”, voce di Wikipedia in lingua inglese.

    - Friedersdorf, Conor, The Real Reason Cancel Culture Is So Contentious, “The Atlantic”, 28 aprile 2022.

    - Maifreda, Germano, Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento alla cancel culture, Milano, Feltrinelli, 2022.

    - Maifreda, Germano, La “cancel culture” non esiste, “Fondazione Giangiacomo Feltrinelli”, 9 maggio 2023.

    - Mastrangelo, Emanuele - Petrucci, Enrico, Iconoclastia. La pazzia contagiosa dellaCancel Culture che sta distruggendo la nostra storia, Massa, Eclettica Edizioni, 2020.

    - Messina, Dino, La storia cancellata degli italiani, Milano, Solferino, 2022.

    - Monaco, Emanuele, Fenomenologia della Cancel culture: tra Woke Capitalism e diritti delle minoranze, articolo pubblicato su “CanadaUsa” nel 2022 (senza data precisa).

    - Rampini, Federico, Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, Milano, Mondadori, 2021.

    - Rizzacasa D’Orsogna, Costanza, Scorrettissimi. Lacancel culture nella cultura americana, Bari-Roma, Laterza, 2022.

     
  • La Campagna di Russia 1941-1943. Propaganda e mistificazione nei cinegiornali Luce.

    di Antonio Prampolini

     

    Indice

    1. L’Istituto Luce e la produzione di cinegiornali

    1.1 L’Italia fascista

    1.2 L’Italia in guerra

    1.3 L’Archivio Storico dell’Istituto Luce

    2. I cinegiornali della Campagna di Russia

    2.1 Il Corpo di spedizione italiano in Russia (CSIR)

    2.2 L’Armata italiana in Russia (ARMIR)

    2.3 La ritirata nella neve

    2.4 Il ritorno in patria

     

    CAMPAGNA DI RUSSIA NEI CINEGIORNALI LUCE IMMAGINE 1Fig.1: Apparato scenografico con gigantografia di Mussolini allestito in occasione della cerimonia di fondazione della nuova sede dell'Istituto Luce (Roma, 10/11/1937) Fonte1. L’Istituto Luce e la produzione di cinegiornali

    1.1 L’Italia fascista

    L’Istituto Luce, che fin dal momento della sua fondazione come ente parastatale (regio decreto legge del 5 novembre 1925) aveva come principale finalità la propaganda del regime fascista attraverso lo sviluppo della cinematografia, nel giugno del 1927 iniziò a produrre e a distribuire cinegiornali1.

    La proiezione del “Giornale Luce”, inizialmente con cadenza settimanale e in seguito con maggiore frequenza, era obbligatoria nelle sale italiane prima di ogni spettacolo. Veniva proiettato anche all’aperto nelle piazze durante le notti estive grazie al “cinema ambulante”, un servizio dell’Istituto Luce che si avvaleva di furgoncini, dotati di un proiettore e di uno schermo, in grado di raggiungere tutti i comuni privi di sale cinematografiche2.

    CAMPAGNA DI RUSSIA NEI CINEGIORNALI LUCE IMMAGINE 2Fig.2: costruzione del ponte del Littorio a Roma (ottobre 1928) FonteIl “Giornale Luce” era un cortometraggio della durata di alcuni minuti che comprendeva una serie di argomenti fissi che andavano dalla politica, nazionale e internazionale, allo sport, dallo spettacolo alla cultura, sempre proposti con un forte taglio propagandistico e solo dopo l’approvazione degli organi di controllo e di censura3.

    Riprendendo pose di prime pietre, vari di navi, inaugurazioni di strade e ponti, linee ferroviarie, fabbriche, arsenali e caserme si voleva dimostrare la capacità del regime fascista e, soprattutto, del suo capo “onnipresente” di fare dell’Italia una grande potenza economica e militare. L’Italia povera e sottosviluppata non veniva ripresa dai cineoperatori del Luce, la loro attenzione doveva concentrarsi sul cammino del paese verso la modernità, non dimenticando però le tradizioni, gli usi e i costumi di una società ancora prevalentemente rurale. 

    CAMPAGNA DI RUSSIA NEI CINEGIORNALI LUCE IMMAGINE 3Fig.3: campo di avanguardisti a Roma (settembre 1929) FonteInsistendo sugli avvenimenti ufficiali del regime e delle sue organizzazioni (come i sabati fascisti, le manifestazioni ginniche e paramilitari della gioventù, l’attività delle colonie estive dell’Opera Nazionale Dopolavoro, ecc.), i cinegiornali Luce offrivano l’immagine di un’Italia i cui ritmi di vita erano scanditi dalle liturgie del fascismo.

    Con l’arrivo del sonoro (la produzione “muta” proseguì fino al gennaio 1931) i cinegiornali iniziarono ad essere accompagnati dalla registrazione della voce di Mussolini, che si rivolgeva dai balconi delle piazze italiane direttamente al popolo raccolto in “adunate oceaniche”, dai commenti e dalle musiche che si caratterizzavano per il timbro solenne e marziale richiesto dal regime. 

     

    CAMPAGNA DI RUSSIA NEI CINEGIORNALI LUCE IMMAGINE 4Fig.4: I Littoriali della neve e del ghiaccio a Cortina D’Ampezzo (febbraio 1936) FonteIl passaggio dal muto al sonoro accrebbe notevolmente il potere persuasivo e manipolatorio dei cinegiornali, i cui messaggi propagandistici, con questa innovazione (che non richiedeva più la lettura delle didascalie a commento delle immagini), riuscivano a raggiungere con maggiore facilità anche il pubblico analfabeta (nell’Italia del Ventennio fascista l’analfabetismo era ancora un fenomeno rilevante e diffuso)4.

    «Grazie al Luce e al suo ruolo istituzionale [ha scritto Gian Piero Brunetta] il fascismo fu il primo governo al mondo a esercitare un controllo diretto sulla cronaca cinegiornalistica e Mussolini il primo capo di stato capace di costruirsi, grazie ai cinegiornali, un gigantesco arco di trionfo per le proprie imprese»5.

     

    CAMPAGNA DI RUSSIA NEI CINEGIORNALI LUCE IMMAGINE 5Fig.5: unità mobile del Reparto Guerra dell’Istituto Luce Fonte1.2 L’Italia in guerra

    Per riprendere visivamente la partecipazione dell’Italia al secondo conflitto mondiale, l’Istituto Luce, come già era avvenuto per la Guerra di Etiopia, aveva organizzato un’apposita struttura formata da numerose squadre di cineoperatori e fotografi, dislocate presso le Forze Armate e denominata “Reparto Guerra”.

    Il materiale prodotto dal “Reparto Guerra” sui vari fronti affluiva alla sede romana dell’Istituto dove veniva sottoposto all’esame preventivo dei consulenti dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica, per decidere la composizione ed il montaggio dei filmati, quali conservare nelle cineteche e quali utilizzare nei cinegiornali, previa autorizzazione del Ministero della Cultura Popolare (ministero che non si limitava alla sola attività censoria, ma interveniva anche come committente nella costruzione di quella che doveva essere l’immagine ufficiale della guerra dell’Italia fascista)6.

    Nei cinegiornali, come nelle fotografie, l’Istituto Luce, per enfatizzare e celebrare lo sforzo bellico dell’esercito italiano, e offrire al paese un’immagine rassicurante del conflitto, ricorreva spesso ad una “estetica” della guerra che riproponeva canoni iconografici già consolidati nel passato. Di regola, le immagini erano il prodotto di ricostruzioni degli eventi in modo da esaltare la potenza degli armamenti, le capacità operative dei militari e il loro coraggio. I combattimenti venivano spesso fatti percepire mostrando gli automezzi o i carri armati del nemico distrutti sui campi di battaglia o le file di prigionieri. I morti apparivano solo raramente, tranne quelli dei nemici. Molte immagini, per tranquillizzare i familiari lontani, ritraevano i soldati nelle retrovie, nei momenti di riposo, intenti a mangiare, a scrivere lettere o a leggere la posta in arrivo. I filmati non riprendevano i soldati in situazioni drammatiche. Durante le visite di Mussolini negli ospedali militari, i feriti venivano mostrati distesi nei loro letti, sereni e non doloranti, orgogliosi di ricevere le carezze del duce. Si voleva così dimostrare che il regime fascista si prendeva “amorevolmente” cura di chi combatteva per la patria mettendo a rischio la propria vita. E per i morti, il cimitero militare rappresentava un «luogo di sonno eterno» in cui la patria onorava il loro sacrificio. Le immagini dei cimiteri dovevano contribuire a rappresentare la morte non come una tragedia, un lutto individuale, ma come un «momento della vita collettiva e della storia nazionale»7.

    All’inizio della partecipazione dell’Italia al conflitto mondiale [giugno del 1940], seguendo le direttive di Mussolini, i cinegiornali Luce presentavano la guerra come un’impresa che sarebbe stata di breve durata e che non avrebbe comportato grandi sacrifici per il paese. La forza militare della Germania nazista era incontenibile e la sua rapida avanzata in Europa lo dimostrava. Sconfitta la Francia in poche settimane di combattimenti e rimasta in campo la sola Inghilterra, Mussolini, nonostante l’inadeguatezza dell’esercito italiano, pensava di poter condurre nei Balcani e in Africa una “guerra parallela”, con propri fini e mezzi, a quella dell’alleato tedesco.

    I cinegiornali, mostravano una diversa immagine del duce. Mussolini aveva «smesso le pose istrionesche e gli atteggiamenti esagitati per indossare il cappotto grigioverde [e manifestare] i suoi umori marziali nelle rassegne alle truppe»8.

    E come ha evidenziato Guido Quazza:

    Mussolini nei cinegiornali del 1940-41] è’ sorridente e comprensivo, bonario e incoraggiante in mezzo agli ufficiali e ai soldati, collega ed esperto, quasi pari, tra i generali che studiano le mosse di guerra nelle immediate retrovie del campo di battaglia. E i centri di potere del vecchio stato vengono esposti in primo piano, quasi a dimostrare il profondo radicamento del regime nel paese; più ancora, il servizio che il fascismo fa all’Italia portandola alla guerra come prova necessaria della sua raggiunta grandezza e potenza9.

    Ma la guerra seguì un altro corso, ben diverso da quello auspicato da Mussolini. Il conflitto mondiale, combattuto su fronti molto diversi e geograficamente lontani, fu lungo e logorante, con l’Italia costretta a svolgere un ruolo militare (e politico) del tutto subalterno a quella della Germania nazista10.

    Negli ultimi mesi del 1942 e all’inizio del 1943, quando la sconfitta delle forze dell’Asse si profilava all’orizzonte, lo scollamento tra la propaganda dei cinegiornali dell’Istituto Luce e la realtà della guerra si faceva sempre più evidente e, conseguentemente, più debole la loro capacità persuasiva e mistificatoria nel mantenere il consenso degli italiani al regime fascista. Ne sono un chiaro esempio i cinegiornali della Campagna di Russia.

     

    1.3 L’Archivio Storico dell’Istituto Luce

    Il sito dell’Archivio Storico dell’Istituto Luce, presente in rete dal 2018, permette di visualizzare i cinegiornali prodotti dal 1927 al 1945.

    I “Giornali Luce” sono suddivisi in tre serie cronologiche: Giornali Luce “A” (cortometraggi muti dal 1927 al 1932), Giornali Luce “B” (cortometraggi con commento sonoro dal 1931 al 1940), Giornali Luce “C” (cortometraggi degli anni di guerra, dal 1940 al 1945).

    Selezionata una serie, la ricerca può essere effettuata: per Persone (Benito Mussolini, Italo Baldo, Vittorio Emanuele III, …); per Temi (Manifestazioni del regime fascista, Opere pubbliche del fascismo, Celebrazioni civili, Celebrazioni militari, ecc. - negli anni del Secondo conflitto mondiale vengono elencati nuovi temi relativi alla guerra); per Luoghi. È inoltre prevista la combinazione delle diverse tipologie di ricerca.

    I cinegiornali Luce relativi alla Campagna di Russia sono visualizzabili, contraddistinti da un numero progressivo ed elencati in ordine di data crescente a partire dall’estate del 1941, nella serie “C”: La Guerra in Europa Orientale.

    Il sito dell’Archivio Storico dell’Istituto Luce offre, quindi, l’opportunità di effettuare ricerche sistematiche su un patrimonio iconografico che rappresenta una fonte importante per comprendere sia il progressivo processo di fascistizzazione della società italiana negli anni Venti e Trenta che la “fabbrica del consenso” intorno alle scelte imperialiste e belliciste del regime mussoliniano (dalla Guerra di Etiopia alla Seconda Guerra Mondiale).

    I cinegiornali dell’Istituto Luce, per le loro caratteristiche tecniche e comunicative (montaggio, commenti vocali, registrazioni sonore e colonne musicali), più delle fotografie, svolgevano un’importante funzione propagandistica e mistificatoria. Pertanto, il loro uso didattico deve essere sempre accompagnato da una analisi critica dei loro contenuti e finalità, avendo ben presente che essi erano, allo stesso tempo, testimoni e strumenti attivi della politica del regime fascista.

     

    2 I cinegiornali della Campagna di Russia

    CAMPAGNA DI RUSSIA NEI CINEGIORNALI LUCE IMMAGINE 6Fig.6: ordine del giorno del generale Messe per elogiare l’operato dei soldati dello CSIR (9 maggio 1942) Fonte2.1 Il Corpo di spedizione italiano in Russia (CSIR)

    Nel giugno del 1941, in seguito all’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania nazista (operazione “Barbarossa”), Mussolini decise di partecipare a quel conflitto inviando il CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia)11.

    Formato da oltre sessantamila militari al comando del generale Giovanni Messe, il corpo di spedizione raggiunse il fronte orientale a metà luglio dello stesso anno per essere inquadrato nell’XI Armata dell’esercito tedesco e venire subito impiegato nelle ampie manovre di inseguimento dei reparti sovietici in ritirata. Alla metà di ottobre, i militari italiani iniziarono ad operare in una zona compresa fra le rive occidentali del Mar Nero e il bacino del fiume Donec. In dicembre affrontarono l’ultimo ciclo operativo del 1941, in condizioni climatiche estreme (l’inverno russo), riuscendo tuttavia a respingere l’attacco dell’Armata Rossa in quella che la letteratura militare definisce “Battaglia di Natale”12.

    Il Luce diede ampio risalto alla Campagna di Russia con cortometraggi realizzati sulla base delle riprese del “Reparto Guerra” e con materiali filmici delle “Propaganda Kompanie” della Wehrmacht13. Ne sono prova i cinegiornali prodotti tra l’estate del 1941 e quella del 1942, che mostravano la rapida avanzata degli eserciti dell’Asse, la loro capacità di resistere al duro inverno russo, e che, in particolare, enfatizzavano il contributo alla guerra con uomini e mezzi dello CSIR.

    Tra questi, segnaliamo:

    I cinegiornali Luce non solo proiettavano immagini di guerra ma mostravano anche momenti di relativa “serenità”, come ad esempio, in occasione della ricorrenza del Natale 1941, la Distribuzione pacchi natalizi ai nostri combattenti sul fronte orientale (cinegiornale n. 214 del 15 gennaio 1942), oppure la partecipazione dei militari dello CSIR alle attività agricole di aratura e semina dei cereali in una visione bucolica che voleva esaltare la figura dei “bravi italiani” nei rapporti con i contadini delle pianure dell’Ucraina «liberata dal terrore bolscevico» (Il ritorno dei contadini al lavoro dei campi, cinegiornale n. 256 del 19 giugno 1942)14.

     

    CAMPAGNA DI RUSSIA NEI CINEGIORNALI LUCE IMMAGINE 7Fig.7: schieramento dell’ARMIR sul fronte del Don nel novembre 1942 Fonte2.2 L’Armata italiana in Russia (ARMIR)

    La resistenza dell’esercito russo all’avanzata delle forze dell’Asse in direzione del Caucaso (per impadronirsi del petrolio di cui quel territorio era ricco) e l’obiettivo della conquista di Stalingrado (importante per il controllo del traffico sul fiume Volga e per le fabbriche di armamenti presenti in zona, oltre che per il suo alto valore simbolico), spinsero Hitler a richiedere a Mussolini l’invio di nuove divisioni da schierare sul fronte del Don. Fu così che nel luglio del 1942 le unità dello CSIR confluirono nell’Armata Italiana in Russia (ARMIR), posta sotto il comando del generale Gariboldi e composta da circa 230.000 uomini, di cui facevano parte tre divisioni del corpo degli Alpini (“Tridentina”, “Julia” e “Cuneense”). Le nuove divisioni, a causa della mancanza di automezzi, raggiunsero solo dopo lunghe marce il fronte del Don, con armamenti del tutto inadeguati a tenere testa a un nemico dotato di potenti mezzi corazzati, e con equipaggiamenti non adatti ad affrontare il freddo dell’inverno russo. Su quel fronte, le forze dell’ARMIR furono impegnate, fin dai primi giorni, a resistere ai continui e logoranti attacchi dell’esercito sovietico che culminarono nelle grandi offensive del dicembre 1942 e del gennaio 194315.

    Nei cinegiornali Luce dell’estate–autunno 1942 veniva enfatizzata la forza dell’ARMIR e l’efficacia delle sue azioni; ma le immagini mostravano un esercito che si avvaleva di dotazioni e modalità operative che appartenevano più alla Prima che alla Seconda Guerra Mondiale.

    Ne è un esempio il cinegiornale n. 272 del 18 agosto 1942 che documentava l’impiego della cavalleria italiana nell’inseguimento di unità dell’esercito russo, le interminabili file dei soldati dell’ARMIR costretti a raggiungere a piedi (gli alpini accompagnati dai loro inseparabili muli) le zone di combattimento. Nel cinegiornale n. 291 del 21 ottobre 1942 i militari italiani affrontavano con armi leggere i «rossi» dotati di carri armati e di artiglieria pesante; e nel cinegiornale n. 295 del 5 novembre 1942, le fortificazioni italiane sulla linea del Don, simili alle trincee della Grande Guerra, venivano presentate come efficaci difese contro il nemico e i rigori dell’inverno.

     

    CAMPAGNA DI RUSSIA NEI CINEGIORNALI LUCE IMMAGINE 8Fig.8: La ritirata dell’ARMIR dal fronte del Don nel gennaio del 1943 Fonte2.3 La ritirata nella neve

    Le grandi offensive dell’Armata rossa del dicembre 1942 e del gennaio 1943 travolsero le divisioni dell’ARMIR schierate sul Don chiudendole in una sacca e costringendole ad una disordinata e tragica ritirata, in gran parte a piedi, nel pieno dell’inverno16. L’ARMIR perse la metà dei propri effettivi (su circa 230.000 uomini, secondo stime approssimative, 85.000/95.000 furono i morti/dispersi/prigionieri in mano ai sovietici e 30.000 i feriti e i congelati) oltre a gran parte degli armamenti e depositi logistici. Una perdita in uomini e mezzi che per la sua gravità decretò la fine all’intervento italiano sul fronte orientale e il fallimento della Campagna di Russia, che, con i suoi alti costi materiali e morali, inciderà pesantemente sulle residue capacità belliche dell’Italia e sul consenso degli italiani al regime fascista.

    I cinegiornali del Luce prodotti nei mesi di dicembre e gennaio, ovviamente, non mostravano immagini della ritirata dell’ARMIR; il loro compito era quello di nascondere e mistificare la realtà. Il cinegiornale n. 310 del 31 dicembre 1942, intitolato Visioni invernali al fronte russo, riprendeva i soldati italiani mentre si allenavano ad affrontare il freddo dell’inverno arrotolandosi nella neve (quasi un gioco), la distribuzione di cibi caldi e l’abbondanza di scorte alimentari, i “camerati germanici” che combattevano sul fronte di Leningrado (nessun accenno a Stalingrado, dove le divisioni tedesche, accerchiate dai russi, si arrenderanno il 2 febbraio 1943), gli alpini che posavano mine anticarro nella “terra di nessuno”.

    Il cinegiornale n. 322 datato 13 febbraio 1943, il cui titolo era A.R.M.I.R. Come i nostri soldati e le Camicie Nere si battono eroicamente nelle steppe ghiacciate del fronte meridionale, utilizzava immagini di repertorio per celebrare l’eroismo di una armata che di fatto non esisteva più, facendo credere che i suoi soldati fossero ancora pienamente operativi a fianco dell’esercito tedesco.

     

    CAMPAGNA DI RUSSIA NEI CINEGIORNALI LUCE IMMAGINE 9Fig.9: omaggio della città di Firenze ai reduci della Campagna di Russia (giugno 1943) Fonte2.4 Il ritorno in patria

    Il viaggio del rimpatrio dei superstiti dell’ARMIR dai centri di raccolta nelle retrovie in Ucraina fu lungo e faticoso. Dopo le interminabili marce nella neve, con temperature proibitive e i molti compagni morti di freddo nella steppa, le loro forze e il loro morale erano allo stremo. Vennero caricati su tradotte stipate di uomini «continuamente tormentati dalla fame e dai pidocchi, e circondati dal fetore di membra in cancrena, con soste continue – anche di decine di ore – nelle stazioni e stazioncine»17. Diversi di loro morirono durante il viaggio.

    In Italia i treni con i reduci venivano accolti da una folla di familiari che chiedevano notizie dei loro cari; ma era difficile o impossibile rispondere: troppi commilitoni, travolti dalla ritirata, erano rimasti in Russia: morti, dispersi o fatti prigionieri.

    Tutti ritornavano in un paese [ha osservato Maria Teresa Giusti] dove la situazione era drammatica e incerta: solo pochi mesi dopo, il fascismo sarebbe crollato [25 luglio 1943] in conseguenza delle disfatte militari; probabilmente anche i loro racconti avrebbero contribuito a creare nella società italiana disagio e risentimento verso Mussolini per quella guerra inutile18.

    Il cinegiornale n. 354 del 3 giugno 1943 (Tutto il popolo fiorentino tributa il suo più fervido saluto ai gloriosi reparti dell'Armir, reduci dal fronte russo) mostrava la sfilata per le vie di Firenze dei reduci della Campagna di Russia, tra il tripudio della gente, il lancio di coriandoli dalle finestre e l’offerta di fiori ai militari. Un cinegiornale che raggiungeva il vertice della mistificazione propagandistica della realtà facendo apparire il ritorno in patria dell’ARMIR come quello di una armata vittoriosa. Tutto questo in un’Italia esausta, stanca della guerra, delle sue distruzioni e dei suoi lutti, nell’imminenza dello sbarco degli angloamericani in Sicilia (10 luglio 1943).

     


    Note

    Gian Piero Brunetta, Istituto Nazionale L.U.C.E, in «Enciclopedia del Cinema», Treccani, 2003; Serafino Murri, Cinegiornale, in «Enciclopedia del Cinema», Treccani, 2003; Giampaolo Bernagozzi, Propaganda di regime e giudizio della storia. Ciclo di lezioni proiezioni di cinegiornali LUCE, Deputazione Emilia Romagna per la storia della Resistenza, 1973; dello stesso autore, I cinegiornali Luce. L’Italia di cartapesta e la gioventù del regime, in L’Italia in guerra 1940-1943, Roma, 1975; Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in L’immagine fotografica, 1845-1942 di Carlo Bertelli e Giulio Bollati, Storia d’Italia – Annali 2, Tomo primo, Einaudi, Torino, 1979; Tommaso Casini, Lo smontaggio delle cronache artistiche nei cinegiornali come modello critico narrativo, 04/12/2018; Stefano Mannucci, Storia della fotografia dell'Istituto Luce; Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Res Gestae, Milano, 2022; Antonio Prampolini. L’immaginario coloniale. L’Africa nelle fotografie dell’Istituto Luce, «Historia Ludens», 03/10/2024.

    2 Elisabetta Balducelli, Il cinema come mezzo di propaganda: l’Istituto Nazionale Luce e il cinema ambulante, 15/06/2020.

    3 Sulla censura nell’Italia fascista: la voce Censura fascista in Wikpedia edizione italiana; La censura cinematografica in epoca fascista di Roberto Guli.

    4 Francesco Finocchiaro, L’autorappresentazione musicale del fascismo nei cinegiornali Luce, in L'industria della persuasione. Musica e mass media nella politica culturale del fascismo, a cura di F. Finocchiaro, Accademia University Press, Torino, 2022.

    5 Cfr. Gian Piero Brunetta, Istituto Nazionale L.U.C.E, op.cit..

    6 Vincere, Vinceremo. Ciclo di lezioni proiezioni di cinegiornali Luce 1940-1943 a cura dell’Istituto LUCE e dell’Archivio Nazionale cinematografico della Resistenza, 1975; Stefano Mannucci, La seconda guerra mondiale nelle fotografie dell’Istituto Luce.

    7 Stefano Mannucci, La seconda guerra mondiale nelle fotografie dell’Istituto Luce, op. cit..

    Giampaolo Bernagozzi, La propaganda del regime, in Vincere, Vinceremo. Ciclo di lezioni proiezioni di cinegiornali Luce 1940-1943, op.cit. .

    9 Guido Quazza, La politica del consenso nei cinegiornali Luce, in Vincere, Vinceremo. Ciclo di lezioni proiezioni di cinegiornali Luce 1940-1943, op.cit..

    10 Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943, Einaudi, Torino 2008.

    11 Maria Teresa Giusti, La campagna di Russia (1941-1943), Il Mulino, Bologna, 2016.

    12 Cfr Fronte russo 1941, la battaglia di Natale.

    13 I materiali prodotti dalle “Propaganda Kompanie” della Wehrmacht venivano utilizzati nei cinegiornali della Germania nazista proiettati nelle sale cinematografiche negli anni 1940-1945. Sulle “Propaganda Kompanie”: Antonio Prampolini, L’importanza delle immagini: Gerhard Paul e la storia visiva della Germania nazista, in «Historia Ludens», 10/04/2024. Sui cinegiornali nazisti: la voce Die Deutsche Wochenschau in Wikipedia.

    14 Sullo stereotipo del “bravo italiano” nella Seconda Guerra Mondiale: Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari, 2013. 

    15 Maria Teresa Giusti, La campagna di Russia (1941-1943), op.cit..

    16 Cfr. Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve e Ritorno sul Don, Einaudi, Torino, 1990. Nuto Revelli, La strada del davai, Einaudi, Torino, 2019.

    17 Eugenio Corti, I più non tornarono. Diario di ventotto giorni in una sacca sul fronte russo (inverno 1942-43), Mursia, Milano, 1990, p. 223.

    18 Maria Teresa Giusti, La campagna di Russia (1941-1943), op.cit., p. 270.

  • La celebrazione e la rimozione. La mostra itinerante per i 100 anni dell’Aeronautica Militare Italiana

    di Antonio De Mario

    01Fig.1: Piloti e specialisti in forza all’Aeronautica Nazionale Repubblicana.Documenti che parlano chiaro

     

     Contro orde barbare pronte compiere ogni orrore quali quelle che avanzano, ritengo non debba essere risparmiata alcuna arma. Chiedo pertanto massima libertà azione per impiego gas asfissianti (…)

     

    Così recita il testo di un telegramma cifrato, il n.375 del 15 dicembre 1935, a firma del generale Rodolfo Graziani, comandante delle armate italiane in Somalia impegnate dell’attacco all’Abissinia, regione dell’Impero di Etiopia. Fra i destinatari, Pietro Badoglio, capo delle operazioni su quel fronte. Ma, come è noto dalla documentazione d’archivio disponibile, quella libertà d’azione venne autorizzata direttamente dal Capo del Governo in persona che, con telegramma 14551 A 1475, datato 12 gennaio 1936, scrisse a Graziani “Sta bene impiego gas nel caso V.E. lo ritenga necessario per supreme ragioni difesa”.

    Poco dopo, lo stesso Graziani avvisò il generale Mario Bernasconi, comandante della Brigata aerea mista in Somalia, che si stava preparando a

     

    ricacciare verso nord l’armata di Ras Destà (…) con azione che dovrà avere esito definitivo e risolutivo. Pertanto, come già verbalmente accennato a vossia, occorre che il concorso dell’aviazione sia portato al massimo della possibilità dei mezzi. Le ultime azioni compiute    hanno dimostrato quanto sia efficace l’impiego dei gas (…).1

     

    La mostra del Centenario

    A cento anni dalla sua fondazione nel 1924, l’Arma aerea d’Italia allestisce una mostra fotografica destinata a essere esposta in diverse città italiane da Roma a Firenze, Bari passando per Milano, Ferrara, Viterbo fino a Lecce, tra marzo e dicembre del 2023, nell’ambito di un ricco programma celebrativo. A Bari la mostra è stata ospitata nelle sale del Palazzo della Provincia, sul lungomare Nazario Sauro

    Alcuni pannelli, con piccoli corredi fotografici e brevi didascalie, schematizzano le tappe principali di una vicenda profondamente legata a un secolo segnato da eventi bellici di immane intensità e tutti tragicamente incistati – a vario titolo - nel nostro immaginario popolare e nazionale. Ma invano cercheremo, tra i documenti d’epoca e i preziosi cimeli esposti, qualche traccia dei documenti appena visti. Cosicché, la celebrazione sembra far rima con rimozione, a spulciare con occhio analitico fra le didascalie, redatte dai curatori della mostra, vagliate e supervisionate dall’Ufficio storico dell’Aeronautica Militare Italiana. Questa struttura, vale la pena notarlo, è quanto mai rilevante in ciascuna delle Armi italiane, corpi e specialità, perché è il vero custode delle tradizioni e dell’identità, della loro corporate reputation. Lo provano le numerose e prestigiose pubblicazioni che da questi enti promanano. Fonti sempre, giustamente, tenute in gran conto dagli storici militari.

     

    02Fig.2: Modello di bomba da lancio caricata a gas Yprite in uso durante la campagna di Etiopia del 1936.L'Etiopia, i bombardamenti, il gas.

    Sulle didascalie che accompagnano il corredo fotostorico della mostra si condensa l’attenzione del visitatore e qui si concentra un forte sapore di rimozione, soprattutto in riferimento a quelle dedicate ad anni cruciali, per l’Italia e per l’evoluzione della Regia Aeronautica.2

    Eccone una.

     

    Etiopia 1936. Quella etiope si dimostra da subito una campagna impegnativa: i reparti della Regia Aeronautica si prodigano in ricognizioni, trasporti, rifornimenti, bombardamenti in uno scenario complesso per le difficoltà ambientali e per la  vastità del territorio. La cooperazione con le truppe di terra viene sviluppata al massimo grado, ma questa lezione non sarà poi tradotta in atto nel secondo conflitto mondiale.

     

     Tutto qui.

     

     

    03Fig.3: Piloti e meccanici in posa con bomba caricata a gas tossico, durante la Campagna d’Etiopia 1936.Ricognizioni, trasporti, cooperazione con le truppe di terra: il freddo e asettico linguaggio militare e neppure il minimo accenno al fatto che fu una guerra di aggressione a una nazione indipendente che vide il ricorso a strumenti bellici espressamente vietati dalle Convenzioni internazionali come i gas asfissianti. Circa 30 tonnellate di aggressivi chimici proibiti furono complessivamente lanciate dagli apparecchi italiani nel corso di tutta la campagna, con effetti atroci non solo sulle bande combattenti ma anche sulle martoriate popolazioni civili. Che altre potenze coloniali nella stessa epoca vi abbiano fatto ricorso, salvo poi celare tutto sotto la coltre del segreto militare, non riduce la gravità dell’azione italiana.3

    Si dirà che non è una mostra celebrativa il luogo per articolate analisi storiografiche. Vero. Ma appare eccessivo ridurre quella feroce invasione a una “campagna impegnativa”. E affidare l’unico accenno critico a una “lezione che non sarà poi tradotta in atto nel secondo conflitto mondiale” pare davvero una scelta fuorviante. Inoltre, quale lezione tattica o strategica si potesse ricavare attaccando una nazione totalmente priva di una propria aviazione o di qualsivoglia difesa antiaerea degna di questo nome è davvero difficile comprendere, pur restando nell’ambito del mero dibattito storico-militare.

     

    La Spagna e gli aviatori che vennero travestiti

     

    Spagna 1936. La Spagna è un importante banco di prova per velivoli ed equipaggi che vengono inizialmente inquadrati nel “Servicio del Aviacion del Tercio”, poi Aviazione Legionaria. Purtroppo non tutte le lezioni apprese saranno adeguatamente sviluppate.4

     

    Anche in questa didascalia nessuno può pretendere l’apertura di una riflessione approfondita di politica militare. Tuttavia, andrebbe notato che in quell’occasione il governo italiano impiegò quote notevoli della forza aerea nazionale, con aviatori travestiti da “volontari” con abiti civili e documenti falsi, spedite a rinforzo del generale Francisco Franco, intento a rovesciare il legittimo governo della Repubblica di Spagna nel 1936. Cosa ci sia stato di così glorioso nell’arrivare a organizzare addirittura un finto atto di vendita di velivoli a un giornalista monarchico iberico, tale Luis Bolìn, e a far arruolare militari italiani nella Legione straniera spagnola, nota come Tercio de extranjeros, è davvero faticoso da comprendere.

    Forse andava fatto notare che, a leggere le cronache del tempo, l’adesione al franchismo fu entusiastica, a partire dal generale Giuseppe Valle, nella doppia veste di Sottosegretario al Ministero della Regia Aeronautica e Capo di Stato Maggiore della medesima, che non esitò a prendere egli stesso i comandi di uno dei primi dodici trimotori S.81, inviati in fretta e furia alle Baleari per trasportare le truppe ribelli franchiste sul suolo iberico.

    Se, dunque, teniamo presenti i fatti ricordati da questi pannelli, il tema, ricorrente nella mostra, delle “lezioni apprese e non adeguatamente sviluppate” suggerirebbe domande imbarazzanti: che cosa non ha ben sviluppato l’Italia? Il modo di fare dei colpi di stato? Come travestire i propri militari o bombardare delle città indifese?

     

    Il topos dell'"unanime ammirazione"

    In un altro pannello si cita lo scrittore Guido Mattioli:

     

    L’opera degli aviatori e dell’Aviazione italiana in Spagna, cioè dell’Aviazione Legionaria, ha già riscosso la unanime ammirazione del mondo e perfino quella dei suoi avversari.

     

    Nel leggerlo pare di udire la voce inconfondibile di Guido Notari, giornalista in forza all’Eiar e all’Istituto Luce. Il Conte Guido Mattioli Belmonte Cima, raccontano le cronache biografiche, fu un provetto pilota, eroe decorato nella Grande Guerra, “il Conte che amava volare”. Negli anni Venti diresse la nota rivista “L’aviazione”. Nel ventennio, poi, fu anche podestà di Rimini, fra il 1933 e il 1939, e durante quel periodo, nel 1938 realizzò e inaugurò l’aeroporto di Miramare.

    Quanto all’unanime ammirazione, davvero non si sa di cosa si parli: per il bombardamento di Guernica? Forse no: l’Italia vi partecipò con tre soli apparecchi Savoia Marchetti S.79. La parte più rilevante di quel modello di bombardamento terroristico di una città priva di difesa nonché di rilevanza militare, fu svolta da diciotto apparecchi Ju.52 che, con 22 tonnellate di bombe, in parte incendiarie, rasero al suolo la cittadina iberica con molte centinaia di vittime civili (1650 secondo alcune fonti). Più probabile allora che il Mattioli volesse riferirsi al bombardamento di Barcellona, compiuto dai regi velivoli il 16-18 marzo 1938, per espresso ordine di Mussolini, con 44 tonnellate di bombe, provocando tra i 600 e i 1300 morti”.5

     

    I due volti di Italo Balbo

    La Regia è, a detta degli analisti storici, il fiore all’occhiello del Regime sin dall’impresa del suo indimenticato fondatore, quell’Italo Balbo che pianificò e condusse la Crociera del Decennale: una imponente e spettacolare trasvolata atlantica condotta con ben 26 idrovolanti S.55, evento che fece epoca ed è oggi considerabile un po’ come il mito fondativo della nostra attuale AMI.

    La Mostra del Centenario gli dedica puntualmente ampio spazio, come è giusto che sia dal punto di vista storico. Ma, anche in questo caso, stonano i termini unicamente encomiastici: Balbo fu certamente un aviatore di notevole livello, capace di fondare e organizzare con moderni criteri l’Arma aerea italiana, ma fu anche uno dei più spregiudicati esponenti della gerarchia fascista, con una fama, un prestigio e un peso politico quasi pari a quello del suo Duce (il quale, peraltro, dopo l’impresa del Decennale, ne fece il governatore della Libia, allontanandolo dalla ribalta dei media internazionali: ma questa è un'altra storia).

     

    La tragedia della scelta

    Proseguendo nel cammino cronologico proposto dalla mostra, si giunge a un altro momento chiave, tra i più controversi della vicenda nazionale legata all’ultimo conflitto mondiale. Siamo ai terribili mesi della crisi finale: la guerra irrimediabilmente persa, la crisi del regime fascista culminata con le dimissioni del 25 luglio, e poi l’armistizio dell’8 settembre. Trauma nazionale, totale, trasversale e delle cui tragiche conseguenze le nostre Forze Armate furono probabilmente le principali vittime. Momenti difficilissimi da ricostruire e raccontare, nella loro complessità e nell’ampiezza delle diverse articolazioni e interpretazioni.

    Il lacerante dramma che travolse gli oltre due milioni di italiani in divisa, in quelle ore fu forte e nella mostra lo si riassume così:

     

    La regia aeronautica segue il Re e il Governo monarchico al Sud per combattere l’invasore tedesco al fianco degli Alleati e sui velivoli i fasci littori lasciano spazio alle coccarde tricolori. Una minoranza di uomini tuttavia rimane al Nord, nella repubblica Sociale Italiana dove, inquadrati nell’Aeronautica Nazionale Repubblicana, combatterono per difendere il territorio italiano martoriato dalle incursioni anglo-americane. Altri aviatori, invece impossibilitati a raggiungere i Reparti costituiti al sud, si uniscono alle formazioni partigiane.

     

    Qui la questione interpretativa si fa delicata. La consecutio degli eventi fornita dalla didascalia è corretta. Tuttavia, è arduo spiegare con la sola registrazione dei fatti il nodo storico della vicenda dell’A.N.R. (Aeronautica Nazionale Repubblicana), ovvero quel simulacro di arma aerea concesso di malavoglia dai vertici militari germanici occupanti alla Repubblica Sociale fondata da Mussolini, e operante dall’ottobre del 1943 all’aprile del 1945 alle dirette dipendenze degli stessi tedeschi.

    Fu una scelta, quella dei piloti e del personale della Regia che preferirono restare fedeli al Fascismo nella sua ultima e più feroce versione, quella di Salò, che non appare affatto risolvibile nella formula “combatterono per difendere il territorio italiano martoriato dalle incursioni anglo-americane”: proprio per il rispetto che si deve a chi si orientò secondo scienza e coscienza in ciò che andava accadendo in Italia in quei mesi, nel calderone della Seconda Guerra Mondiale.

    Forte è il sospetto che questa sia più una motivazione auto-assolutoria elaborata ex post, che l’espressione del sentimento che animò chi scelse di confermare la sua fedeltà al Fascismo e all’alleanza con la Germania nazista. Infatti, fu chiaro da subito, soprattutto ai militari, il vero volto di questa alleanza, dal momento che, con l’Operazione “Achse”, i tedeschi assunsero il pieno controllo delle regioni italiane del centro-nord e della condotta della guerra in Italia.

     

    Tutte le scelte furono giustificabili?

    Ci si domanda qui se sia corretta questa sorta di equiparazione fra chi, tra il personale della Regia, volle e poté obbedire agli ultimi ordini del Governo Badoglio che, in coerenza con le clausole armistiziali firmate a Cassibile il 3 settembre 1943, prevedevano lo spostamento di personale, mezzi e materiali presso le basi del Mezzogiorno occupate dagli Alleati; tra chi, non potendo materialmente eseguire tali ordini, successivamente si unì alle formazioni partigiane operanti al Nord; e chi invece scelse prima di mettersi a disposizione degli occupanti nazisti (diversi piloti italiani furono assorbiti nei reparti di volo della Luftwaffe operanti sul suolo italiano) e successivamente optò per farsi inquadrare nelle formazioni della A.N.R. della Repubblica Sociale Italiana.

    Questione annosa, delicata, che tocca un nervo da sempre scoperto della nostra storia recente quello della “scelta” che molti, moltissimi italiani, in divisa e no, dovettero fare nelle circostanze più drammatiche.6

    Il sentimento imperante che sembra aleggiare oggi, tra gli hangar e sulle piste di volo della nostra AMI - e la didascalia in qualche misura lo rappresenta – è che tutte le scelte furono giustificabili.

    Valgano, per meglio spiegare questo sentimento, le parole di Giulio Lazzati in un bel libro del 1965 dedicato al sacrificio degli aviatori italiani tra il 1940 e il 1945. Parlando della A.N.R. egli scrive: “Tanti morti, proprio come noi giù al Sud, anzi, peggio di noi perché i piloti della “repubblica” hanno dovuto combattere contro forze enormemente superiori e con la certezza che ormai era tutto perduto. Perché lo hanno fatto? Me lo sono chiesto pure io, ma chi di noi può scandagliare l’animo umano e spiegare il perché di certe supreme decisioni? Solo, per me, contano la spontaneità e la dirittura morale, con cui si segue una strada, non il perché della sua scelta”.7

     

    Un'asetticità solo apparente

    Queste didascalie, che inducono il visitatore a focalizzare la sua attenzione sul dramma personale degli aviatori, lo disorientano per quanto riguarda le scelte interpretative odierne dell’aeronautica: un’arma che, oggi, difende una nazione democratica, nata dalla lotta al fascismo e che, di conseguenza, sarebbe obbligata a rivedere criticamente il proprio passato.

    L’asciuttezza e l’asetticità delle didascalie, quindi, non sono un fatto tecnico. Nascondono un’interpretazione univoca del passato, fuorviante e distonica, soprattutto ove si consideri che queste occasioni pubbliche sono rivolte anche agli studenti delle scuole che, in particolare attraverso lo studio e la conoscenza delle vicende più dolorose e laceranti della storia nazionale, dovrebbero costruire la propria capacità di leggere il presente. Può davvero una mostra costruita con questi criteri contribuire a fornire un onesto e limpido bagaglio cognitivo a quanti, giovani e no, vogliano capire e sapere di più e meglio dei momenti cruciali del nostro passato?

     


    Note

    1 Questi documenti sono conservati all’Archivio Centrale dello Stato e ora in Alessandro Cova,Graziani, un generale per il regime, Roma, Newton Compton Editori, 1987.

    Data al 1884 la nascita di un primo Servizio aeronautico a Roma, con l’uso di aerostati da ricognizione. Fino a tutta la Prima guerra mondiale, l’arma aerea operò come branca del Regio Esercito. Fu poi elevata ad Arma autonoma con Regio Decreto del 28 marzo 1923, mentre il 30 agosto 1925 venne costituito il Ministero dell’Aeronautica. Dopo l’8 settembre, la Regia Aeronautica continuò a operare sotto il controllo degli Alleati in alcuni aeroporti pugliesi nella fase della cosiddetta co-belligeranza. Al centro-nord, una volta costituitasi la Repubblica Sociale Italiana, a partire dal 27 ottobre 1943 venne costituita l’Aviazione Repubblicana, dal giugno 1944 Aviazione Nazionale Repubblicana (ANR). L’attuale denominazione Aeronautica Italiana risale invece al 1946, poco dopo la nascita della Repubblica italiana.

    Fra gli storici che si sono occupati delle guerre coloniali italiane, segnalo Nicola Labanca, Oltremare storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2007; Franco Bandini, Gli italiani in Africa, Longanesi Milano, 1971; Angelo Del Boca, I gas di Mussolini, il fascismo e la guerra d’Etiopia, Editori Riuniti 2021. Il colonialismo nei nostri libri di testo: Cajani L., Colonialism and Decolonization in History Textbooks for Italian Upper Secondary School, in The Colonial Past in History Textbooks. Historical and Social Psychological Perspectives, (a cura di K.V. Nieuwenhuyse e J.P. Valentim), IAP, Charlotte NC, 2018; A. Desio, La decolonizzazione nei manuali di storia italiani per le scuole secondarie di secondo grado: 1990-2020, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 1/2021, pp. 159-182.

    4Cfr.http://www.icsm.it/articoli/ri/civispagnola2.html Alberto Rosselli, Breve Storia dell’aviazione legionaria in Spagna 1936-1939: “Per cercare di non urtare la suscettibilità dei governi europei favorevoli alla Repubblica, i 12 aerei, ai quali vennero cancellate tutte le insegne nazionali e i distintivi di reparto, vennero venduti, tramite un finto atto, al giornalista spagnolo Luis Bolìn. A scopo prudenziale tutti gli equipaggi italiani vennero inoltre forniti di abiti civili e documenti falsi”. Sull’apporto dell’Italia alla Guerra civile spagnola: cita qualche testo o riferimenti online.

    5Giorgio Rochat, Le guerre degli italiani, Torino, Einaudi, 2006, pp. 113-114.

    Su questo aspetto la letteratura storica è autorevole e ha dato luogo a un dibattito pubblico molto partecipato. Fa specie che non se ne trovi nemmeno l’eco in questa mostra: Claudio Pavone, Una guerra civile, Bollati Boringhieri, Torino, 1991; Angelo Del Boca, La scelta, Neri Pozza Venezia, 2006. Come esempio di “letteratura dei vinti”, gli esempi sono assai precoci: Giose Rimanelli, Tiro al piccione, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1953.

    Giulio Lazzati,I soliti quattro gatti, Milano, Mursia, 1965, p. 295. Per una ricostruzione aggiornata delle vicende A.N.R. vedi Guido Garello,L’Aeronautica Nazionale Repubblicana, in “Rivisita di Storia Militare”, 20 – 21, Luglio-settembre 2015.

     

  • La Cupola di Hiroshima. Un fotoracconto della bomba

    Autore: Ilaria Sabbatini


    Il mattino del 6 agosto 1945, alle 8:15, l’Aeronautica militare statunitense sganciò la bomba atomica “Little Boy” sulla città giapponese di Hiroshima, seguita tre giorni dopo dal lancio dell’ordigno “Fat Man” su Nagasaki.

    Genbaku Dome, ossia Cupola della bomba atomica, era nata nel 1915 come edificio per ospitare la Fiera commerciale della prefettura di Hiroshima. La  Sala espositiva dei prodotti della prefettura di Hiroshima era stata progettata dall’architetto ceco Jan Letzel, che aveva realizzato la struttura in stile occidentale, usando mattoni e cemento. Il palazzo, sul lato sud, si apriva su un giardino anch’esso tipicamente all’occidentale e la cupola, oggi sventrata, aveva una copertura in rame. Nel 1933 il nome fu cambiato in  Sala promozionale dell’industria della prefettura di Hiroshima e nel 1944, a causa della guerra, l’edificio venne adibito a uffici governativi.

    Il 6 agosto 1945 l’esplosione nucleare avvenne ad appena 150 metri di distanza dall’edificio. Gli occupanti morirono all’istante mentre la struttura prendeva lentamente fuoco. Al momento dell’esplosione, avvenuta a un’altezza di circa 580 metri dal suolo, tutte le costruzioni in legno, tipiche dell’urbanistica giapponese, vennero spazzate via. Le foto aeree successive all’esplosione mostrano un panorama completamente piatto, quasi vuoto. Spiccano soltanto alcuni edifici di mattoni che, pur gravemente danneggiati, sopravvissero alla bomba. Tra le strutture che resistettero alla bomba, quella della fiera era la più vicina all’ipocentro. Essa rimane tutt’oggi nello stesso stato in cui si trovava subito dopo l’attacco atomico.
     
    La posizione dell’ex Palazzo della Fiera di Hiroshima si può vedere su Google Map

    Si può fare un tour virtuale dentro la Cupola della bomba atomica

    Questa è la visione dall’esterno della Cupola della bomba atomica

    Ecco una collezione di fotografie contemporanee, che risulta interessantissima per comprendere come oggi viene vissuta la memoria di Genbaku Dome

    Quivengono documentate le prime attività di soccorso, quelle in cui si cominciano a rilevare le proporzioni degli effetti della bomba

    A questo link dell’Hiroshima Peace Memorial Museum si possono vede una serie di di fotografie degli effetti dell’esplosionesu vari oggetti conservati

     

    Il palazzo della Fiera di Hiroshima in costruzione, completato nel 1915 su progetto dell’architetto ceco Jan Letzel

     


     Il palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima sul lato sinistro del fiume Motoyatsu, uno dei sette rami dell’estuario del fiume Ota

     

     
    Hiroshima Prefectural Industrial Promotion Hall seen from the west end of Motoyasu Bridge. 1933. Taken by Masao Okuno / Courtesy of Katsuhiko Okuno
     


    Il palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima vicino al Ponte Motoyatsu, sulla biforcazione tra il fiume Ota e il fiume Motoyatsu
     


    Il ponte Motoyatsu sulla biforcazione tra il fiume Ota e il suo effluente Motoyatsu

     

     

    Il palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima dopo l’esplosione atomica, 8 settembre 1945


     
    ll palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima dopo l’esplosione atomica

     


     Enola gay, bombardiere B-29 Superfortress, l’aereo che sganciò la bomba il 6 agosto 1945. Enola Gay era il nome della madre del pilota Paul Tibbets.
     


    Little Boy, la bomba Mk.1, la seconda atomica costruita nell’ambito del Progetto Manhattan, è la prima arma nucleare della storia a essere stata utilizzata in un conflitto. Si tratta dell’ordigno originale prima dell’esplosione.


    Little boy, usata su Hiroshima, era la seconda bomba atomica realizzata mentre Fat man, usata su Nagasaki, era la terza. La prima nucleare era una bomba a implosione che venne fatta esplodere nel Nuovo Messico, vicino a Sonora, il 16 luglio 1945 nel Trinity test.

     

    Il fungo atomico sopra Hiroshima circa un’ora dopo l’esplosione, 6 agosto 1945


    Si incontra un problema nella ricostruzione per immagini delle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Spesso è difficile stabilire a quale luogo si riferiscano i rispettivi funghi di fallout. In alcuni video, non sufficientemente curati, Nagasaki va sotto il titolo di Hiroshima e viceversa. Altri usano addirittura il Trinity test o l’esplosione di Bikini.

    Le foto che seguono si riferiscono alle due esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Nel caso di Hiroshima la foto è avallata dal Museo della Memoria di Hiroshima, nel caso di Nagasaky dal Museo della Bomba Atomica di Nagasaky.

           Hiroshima                                Nagasaki  

                                                           

    La foto di sinistra è Hiroshima. È stata presa da un aereo che accompagnava Enola Gay con lo scopo di scattare fotografie. La foto di destra è Nagasaki, scattata il 9 agosto1945 da Charles Levy da uno degli aerei che accompagnavano l’attacco.


      Questa foto ricognizione del 1945, fornita dal Museo della Seconda Guerra Mondiale di Boston, mostra le informazioni di targeting per la missione di bombardamento atomico di Hiroshima.L’esplosione, che coinvolse il palazzo della fiera, avvenne sulla verticale dell’ospedale. Sotto il numero 22 si vede il ponte Motoyatsu sulla biforcazione tra il fiume Ota e il suo effluente Motoyatsu


     
    Diorama dell’esplosione di Little Boy. La prospettiva è con le spalle alla sorgente del fiume Ota che, dopo la prima triforcazione, a sinistra si biforca ulteriormente. Il ramo sinistro della seconda biforcazione è il fiume Motayatsu. Dopo il ponte sulla biforcazione, sulla riva sinistra, è collocato l’edificio della Fiera di Hiroshima.
     
     
    Diorama dell’esplosione di Little Boy. Sotto, a 150 metri di distanza dall’ipocentro, sulla riva sinistra del ramo sinistro dell’effluente Motayatsu (individuabile dal ponte), si trovava l’edificio della Fiera di Hiroshima, uno dei pochi a rimanere in piedi (vedi foto successiva)


     
    Sulla riva sinistra del ramo sinistro dell’effluente Motayatsu (individuabile dal ponte), si trovava l’edificio della Fiera di Hiroshima

     

     

    Vicino al ground zero, prima dell’esplosione

    Vicino al ground zero, dopo l’esplosione

     

     

     

     

    L’orario dell’esplosione, fissato da un orologio da polso esposto agli effetti della bomba


     
    L’effetto ombra creatosi durante l’esplosione

     

     
    Ragazze con le mascherine nelle strade di Hiroshima, 6 ottobre 1945

     


    Genbaku Dome, la Cupola della bomba atomica, oggi
     


    Genbaku Dome, la Cupola della bomba atomica, dall’alto, oggi

     

     

     

     

     

     

    Foto rare scattate nei giorni successivi all’evento

     

     

    Il racconto di Sunao Tsuboi sopravvissuto all’esplosione



     

  • La Grande guerra poteva essere evitata?

    Autore: Daniele Boschi*  

    Un modulo Clil, ma non solo1

     

    1. Un’esperienza didattica
    2. Due opposte tesi storiografiche
    3. Il ruolo del “caso” nella storia: un colpo di pistola ha cambiato la storia del mondo?
    4. Determinismo, libertà, caso
    5. Conclusioni

     

    1.    Un’esperienza didattica

     

    In questo articolo riferirò un’esperienza didattica realizzata nel passato anno scolastico in una classe quinta del Liceo Scientifico Statale “Nomentano” di Roma. Ho proposto ai miei studenti un modulo sul tema: la Grande guerra poteva essere evitata?

    Il modulo è stato svolto in modalità CLIL: ovvero in lingua inglese e con una metodologia didattica che attribuisce allo studente il ruolo di protagonista del processo di apprendimento2 .

    L’idea di un percorso didattico su questo argomento è nata da un articolo di Luigi Cajani dedicato alle origini della Prima guerra mondiale e alla didattica della storia controfattuale3 . In questo articolo Cajani aveva esaminato le posizioni assunte dalla recente storiografia e dalla manualistica scolastica riguardo alla questione se la Prima guerra mondiale fosse o meno evitabile. Ed aveva spezzato decisamente una lancia in favore della storia controfattuale, considerandola come un utile ed interessante strumento di analisi storica, dal quale può trarre spunto anche la pratica didattica.

    Cajani aveva inoltre osservato che da parecchio tempo la storia controfattuale ha smesso di essere un tabù per gli storici: sia alcuni storici contemporaneisti italiani, sia un buon numero di studiosi dell’area anglosassone hanno fatto ricorso, in diverse occasioni, alla controfattualità, superando così l’anatema lanciato contro di essa da storici del calibro di Edward Carr e di Edward P. Thompson4 .  

    La prospettiva controfattuale è stata perseguita, con cautela, anche nel mio modulo. Questo ha impegnato la classe per un totale di nove ore di lezione, delle quali sei ore dedicate allo studio dell’argomento e tre ore destinate alle relazioni e alle verifiche finali.

    La classe è stata divisa in sei gruppi di lavoro composti da quattro o cinque studenti ciascuno. Nella prima parte del modulo (le prime sei ore) ho sottoposto agli studenti una serie di testi della lunghezza di una pagina/una pagina e mezzo, seguiti da alcune domande. Gli studenti dovevano leggere e discutere questi testi, rispondere alle domande nell’ambito del loro gruppo e poi riferire brevemente le loro conclusioni al resto della classe.

    Successivamente ho assegnato ulteriori testi da leggere a casa per approfondire vari aspetti dell’argomento. I gruppi avevano un mese di tempo per riesaminare e ridiscutere tutti i testi e per preparare una relazione scritta nella quale dovevano sostenere una propria tesi, argomentandola in modo adeguato. Il modulo si è concluso con la presentazione orale delle sei relazioni, seguita da una verifica scritta finale di tipo individuale (questa fase conclusiva ha occupato le ultime tre ore del modulo).

    Un aspetto importante della preparazione dell’attività didattica è stato quello relativo alla predisposizione dei testi da sottoporre agli studenti. Occorrevano infatti dei testi non troppo lunghi o complessi, ma allo stesso tempo dotati di un livello di articolazione e di approfondimento sufficiente a porre le basi per un confronto tra punti di vista differenti e adeguatamente motivati. Sottolineo questo aspetto perché ho l’impressione che la difficoltà di reperire o elaborare testi e materiali didattici adeguati sia uno dei principali ostacoli allo sviluppo di una pratica didattica alternativa al modello di stampo tradizionale.

    Mi soffermerò ora sulle principali tematiche affrontate nel modulo e su alcuni dei testi proposti agli studenti.

     

    2.    Due opposte tesi storiografiche

     Nella prima parte del modulo ho proposto anzitutto agli studenti le due opposte tesi di Eric Hobsbawm e di Margaret MacMillan riguardo alla questione se la Grande guerra poteva o no essere evitata. Eric Hobsbawm nel suo classico studio sulla “età degli imperi” affermò che i contrasti tra le potenze europee, derivanti dallo sviluppo del capitalismo e dall’espansione coloniale e imperialistica, avrebbero inevitabilmente prodotto, prima o poi, una guerra generale. Margaret MacMillan, nel suo recente libro intitolato The War that Ended Peace, ha invece affermato che la Grande guerra poteva essere evitata. Laddove Hobsbawm aveva posto l’accento sui processi storici di lungo e medio periodo, la MacMillan pone l’accento sulle scelte individuali, sulla cattiva qualità degli statisti che si trovarono a capo delle principali potenze europee e sul ruolo svolto da alcuni eventi che potremmo definire “casuali”5.

    Date le caratteristiche e la complessità dei due libri, non era possibile estrarre da essi dei brani che contenessero sia la tesi fondamentale dello storico, sia le argomentazioni addotte per sostenerla.

    Hobsbawm sviluppa il suo lungo e complesso ragionamento circa le origini della Prima guerra mondiale nelle quasi trenta pagine del cap. XIII dell’Età degli imperi6 . E’ stato indispensabile effettuare una sintesi di questa parte del suo libro.

    La Macmillan afferma subito con chiarezza che la Grande guerra non era inevitabile7 , ma le “prove” a sostegno di questa tesi sono sparse per l’intero suo volume, lungo circa settecento pagine. In questo caso ho preferito prendere come testo di base quello di una conferenza tenuta dalla MacMillan a Sarajevo il 27 giugno 2014 sul tema Was World War I Inevitable? e farne un breve riassunto8 .    

                                           

    Ho presentato quindi agli studenti le due opposte tesi storiografiche in un unico testo di circa trenta righe. Dopo un primo esame gli studenti si sono quasi tutti schierati a favore della tesi di Hobsbawm. Questa uniformità di giudizi mi ha lasciato alquanto perplesso e ho ipotizzato che essa fosse dovuta al fatto che la tesi di Hobsbawm faceva riferimento a fatti già noti agli studenti, come lo sviluppo del sistema capitalistico, il colonialismo, l’imperialismo; mentre la MacMillan rinviava a fatti non altrettanto noti, come ad esempio lo sviluppo di varie associazioni e movimenti di orientamento “pacifista” nel periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo.

    Ho deciso perciò di presentare la tesi della MacMillan in un secondo testo più dettagliato; a questo punto diversi studenti hanno cambiato opinione, motivando questa decisione con il fatto che la tesi della storica canadese non era risultata del tutto chiara dopo la lettura del primo testo. Questo episodio mi ha fatto comprendere un fatto importante: quando si vuole sollecitare una presa di posizione degli studenti su tesi contrapposte, è necessario che esse siano presentate non soltanto in modo equilibrato, ma anche tenendo conto delle conoscenze già in possesso degli studenti.

     

    3.    Il ruolo del “caso” nella storia: un colpo di pistola ha cambiato la storia del mondo?

     La MacMillan richiama l’attenzione sul ruolo svolto dal “caso” nella lunga catena di eventi che condussero alla Prima guerra mondiale9 . Ho deciso allora di affrontare più direttamente il tema della apparente casualità di molti eventi storici, a partire da una narrazione molto dettagliata degli avvenimenti della giornata del 28 giugno 1914 a Sarajevo, culminati nell’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono austro-ungarico, e di sua moglie Sofia.

    Tutti sappiamo che l’attentato ai danni dell’arciduca stava per fallire e andò a segno, alla fine, soltanto per il concorso di una serie di circostanze apparentemente fortuite.

    I fatti sono noti, ma li riassumo brevemente. Nel giugno del 1914 un gruppo di nazionalisti serbi, informati della decisione dell’arciduca Francesco Ferdinando di visitare la Bosnia, provincia annessa all’Impero austro-ungarico nel 1908, aveva preparato un attentato per uccidere l’erede asburgico. Nonostante l’evidente pericolo al quale l’arciduca si stava per esporre, ben poche misure furono prese per garantire la sua incolumità. La sua visita ufficiale a Sarajevo avvenne, come previsto, il 28 giugno.

     
    L’attentato di Sarajevo nel disegno di Achille Beltrame per la copertina della «Domenica del Corriere» del 5 luglio 1914.

    La mattina di quel giorno ben sette giovani terroristi serbo-bosniaci erano appostati nel centro di Sarajevo sul lungofiume Appel, dove il corteo di auto nel quale viaggiava Francesco Ferdinando doveva transitare prima di arrivare al municipio. Il primo terrorista ad entrare in azione fu Čabrinović che lanciò una bomba in direzione dell’autovettura scoperta sulla quale sedevano l’arciduca e la moglie, ma mancò il bersaglio e l’ordigno esplose sotto la vettura che seguiva, ferendo diverse persone. Mentre gli altri terroristi si dileguavano, Francesco Ferdinando proseguì il suo viaggio fino al palazzo del municipio dove ci fu una breve cerimonia. In seguito l’arciduca espresse il desiderio di recarsi in ospedale per visitare i feriti. Il corteo di auto ripercorse a ritroso il lungofiume Appel, ma l’autista che guidava il corteo, non essendo stato informato del nuovo programma, sbagliò strada girando a destra in via Francesco Giuseppe, dove si era nel frattempo appostato Gavrilo Princip. Le auto si fermarono per tornare indietro e Princip poté allora facilmente avvicinarsi all’auto dell’arciduca e uccidere lui e la moglie Sofia con due colpi di pistola esplosi da distanza ravvicinata10

    Per il racconto di questi eventi mi sono servito di un video in lingua inglese abbastanza ben fatto, tratto da una canale di “YouTube” dedicato alla Grande guerra11 . Ho proposto agli studenti la visione di questo filmato e la lettura della trascrizione del testo audio. Ho chiesto quindi agli studenti di immaginare se la Prima guerra mondiale sarebbe ugualmente scoppiata qualora l’attentato fosse fallito. La domanda non è nuova, ovviamente. In un dibattito sulla rivista on-line “Caffè Europa”, Giovanni Sabbatucci si è spinto fino alla seguente affermazione:
    «Se mentre Gavrilo Princip, l’attentatore di Sarajevo, puntava la pistola contro l’arciduca Francesco Ferdinando, una mosca fosse passata davanti al suo naso e gli avesse fatto sbagliare mira, sono assolutamente convinto che la storia del mondo sarebbe cambiata»12 .

    Avendo più tempo a disposizione, la prospettiva controfattuale avrebbe potuto essere ampliata fino a domandarsi che cosa sarebbe accaduto in Europa e nel mondo se la Grande guerra non fosse mai scoppiata.

    Ho preferito invece partire dall’attentato di Sarajevo per sollecitare gli studenti ad una riflessione di tipo filosofico sul concetto di “caso”: il “caso” esiste davvero oppure ciò che noi chiamiamo “caso” è soltanto il continuo incrociarsi, inevitabile ma impossibile da ricostruire interamente, di diverse sequenze o catene di eventi indipendenti l’una dall’altra?13

     

    4.    Determinismo, libertà, caso

     A questo punto abbiamo abbandonato del tutto l’indagine storica e ci siamo concentrati sulla riflessione filosofica. La discussione sulla inevitabilità o meno della Grande guerra evoca infatti non soltanto il tema del “caso”, ma anche quelli, ad esso correlati, del determinismo, nelle sue varie sfaccettature, e della libertà dell’uomo, ovvero del “libero arbitrio”. Sono temi attorno ai quali i filosofi hanno dibattuto fin dall’antichità e sui quali continuano a discutere ancora oggi.

    Stimolato anche dai materiali che avevo trovato sul web14 , ho pensato di proporre agli studenti, in forma sintetica, le principali posizioni presenti nel dibattito filosofico contemporaneo sul tema del libero arbitrio. Esse si possono riassumere nello schema seguente:
        
     

    In breve, il determinismo radicale afferma che essendovi un unico possibile corso di eventi gli uomini non sono liberi; il compatibilismo sostiene al contrario che determinismo e libertà non sono in contraddizione tra loro; per l’incompatibilismo radicale non solo il determinismo, ma anche l’indeterminismo rende impossibile la libertà; mentre il libertarismo afferma, al contrario, che proprio perché la realtà non è interamente soggetta a leggi di tipo deterministico, la libertà è possibile, almeno per l’uomo15.

    I testi che avevo trovato su internet erano troppo lunghi e complessi, oppure erano in lingua italiana16.  Ho deciso allora di utilizzare il testo presente sull’edizione di Wikipedia in lingua inglese alla voce Free Will17.  Anche in questo caso gli studenti, dopo aver letto il testo, dovevano rispondere ad alcune domande: non soltanto dovevano dire quale di queste quattro dottrine filosofiche sembrava a loro più plausibile, ma anche suggerire quale fosse l’atteggiamento più corretto da assumere per uno storico su questa questione, che ha carattere eminentemente filosofico, ma presenta anche evidenti implicazioni per la valutazione delle decisioni e delle scelte dei grandi protagonisti della storia.

    Lo svolgimento di questa parte del modulo è stato abbastanza problematico. I concetti filosofici implicati nel dibattito sul libero arbitrio nella filosofia contemporanea sono abbastanza complessi, a volte oscuri, e a ciò si aggiungeva la difficoltà di doverli trattare in lingua inglese; inoltre il testo di Wikipedia è in alcune parti poco chiaro e ha richiesto ulteriori spiegazioni da parte mia. Penso tuttavia che gli studenti abbiano tratto beneficio dall’aver affrontato il tema delle cause della Grande guerra in una prospettiva filosofica e sono convinto che questo approccio interdisciplinare potrebbe essere ulteriormente sviluppato attraverso un percorso didattico di respiro più ampio, basato su testi adeguati rispetto alle competenze linguistiche e all’attrezzatura mentale di uno studente di Liceo.

     

    5.    Conclusioni

     In generale gli studenti hanno partecipato all’attività didattica con notevole interesse e ci sono state discussioni abbastanza accese all’interno dei gruppi. Le relazioni finali hanno mostrato che la classe si è spaccata grosso modo a metà tra le due opposte tesi di Hobsbawm e della MacMillan, con divisioni anche interne ad alcuni dei gruppi. Tutti i gruppi hanno argomentato le proprie tesi in modo abbastanza articolato e tre su sei hanno fatto riferimento non soltanto alle tesi storiografiche esaminate, ma anche al dibattito filosofico contemporaneo.

    Anche se il mio giudizio su questa esperienza è nell’insieme positivo, non voglio nascondere le criticità che da essa sono emerse: per gli studenti la difficoltà maggiore è stata quella di dover affrontare in lingua inglese un argomento molto complesso; per me quella di organizzare, gestire e infine valutare il lavoro dei gruppi; anche la valutazione finale dei risultati raggiunti dai singoli studenti si è rivelata alquanto problematica, per la difficoltà di distinguere quanto era frutto di una elaborazione personale da quanto proveniva invece dal lavoro del gruppo. Intendo comunque riproporre di nuovo il modulo che ho illustrato, ma al di fuori del CLIL e facendo tesoro dell’esperienza già fatta.   

    *(Liceo Scientifico Statale “Nomentano”, Roma)

     

    NOTE

    1Questo articolo è un ampliamento della relazione presentata al convegno della SISSCO (Società italiana per lo studio della storia contemporanea) sul tema Insegnare la storia ai millennials, svoltosi a Roma il 27 gennaio 2017.
     2Sul CLIL (Content and Language Integrated Learning) esiste una abbondante letteratura, sia cartacea sia on-line. Chi voglia approfondire l’argomento può partire dai siti istituzionali del MIUR e dell’INDIRE  . Su “Historia ludens” si può leggere l’articolodi PAOLO CECCOLI, I dolori del professore CLIL.
     3 LUIGI CAJANI, Le origini della Prima guerra mondiale e la didattica della storia controfattuale, in “Didactica historica”, I (2015), pp. 45-50.
     4Sulla storia controfattuale e la sua rilevanza per la didattica si può leggere su questo stesso sito l’articolo di ANTONIO BRUSA, E se Alessandro avesse combattuto contro i Romani? Problemi teorici e pratici di didattica controfattuale.
     5ERIC J. HOBSBAWM, L’Età degli imperi 1875-1914, Roma-Bari, Laterza, 1987 (ed. orig.: The Age of Empire, 19872); MARGARET MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, Milano, Rizzoli, 2013 (ed. orig.: The War that Ended Peace: the Road to 1914, 2013).
     6HOSBAWM, L’Età degli imperi, cit., pp. 345-373.
     7MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, cit., p. 21.
     8La conferenza si può ascoltare su YouTube. Sempre sullo stesso tema la MacMillan ha curato una pagina del sito della BBC, intitolata How close did the world come to peace in 1914? . Quest’ultimo testo è abbastanza semplice ed è quindi accessibile anche agli studenti del quinto anno del Liceo.
     9Che cosa sarebbe successo – si chiede ad esempio la MacMillan - se il figlio e successore dell’imperatore tedesco Guglielmo I, Federico III, di orientamento liberale, non fosse morto di cancro nel 1888 e avesse regnato sulla Germania per i successivi vent’anni? La Grande guerra sarebbe scoppiata ugualmente, se nel 1914 alla guida dell’Impero tedesco vi fossero stati uomini della tempra di un Bismarck? Come sarebbero andate le cose, se non fossero usciti di scena in modo abbastanza fortuito uomini come il ministro degli Esteri tedesco Kiderlen, il ministro delle Finanze francese Caillaux, il monaco Rasputin, o lo stesso Francesco Ferdinando? Tutti uomini che avrebbe potuto dare un valido contributo al mantenimento della pace, se fossero stati ancora presenti sulla scena politica nell’estate del 1914, o nei mesi ed anni successivi. Cfr. MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, cit., pp. 107, 615, 627, 645.
     10Cfr. MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, cit., pp. 607-614.  Un resoconto molto più dettagliato sia dei preparativi e dei retroscena dell’attentato, sia degli eventi del 28 giugno 1914, si può leggere in CHRISTOPHER CLARK, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 54-71, 401-410 (ed. orig.: The Sleepwalkers. How Europe Went to War in 1914, 2012).
     11Si tratta del video di INDY NEIDELL intitolato A Shot that Changed the World tratto dal canale The Great War.
     12SIMONA COLARIZI, GIOVANNI DE LUNA, GIOVANNI SABBATUCCI, NICOLA TRANFAGLIA, Forum/Il nostro "posto al sole" sotto Hitler, in “Caffè Europa”, n. 124, 10 marzo 2001 . Il testo è citato in CAJANI, Le origini della Prima guerra mondiale, cit., p. 48.
     13Gli studenti dovevano approfondire questo tema sulla voce Caso del Dizionario di filosofia on-line della Treccani.
     14Cfr. ad esempio le seguenti due voci della Stanford Encyclopedia of Philosophy: Compatibilism a cura di MICHAEL MCKENNA e di D. JUSTIN COATES, e Free Will a cura di TIMOTHY O'CONNOR; oppure la voceLibertà e determinismo, a cura di MARIO DE CARO, nella Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007).
     15Un buon punto di partenza per i docenti che vogliano affrontare questo tema è MARIO DE CARO, Il libero arbitrio. Una introduzione, Roma-Bari, Laterza, 2004.
     16Vedi la nota 14.
     17Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Free_will. Più esattamente ho utilizzato la parte introduttiva di questo articolo.

  • La guerra del Vietnam e i movimenti di protesta del ‘68. Sitografia

    di Antonio Prampolini

    GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 3Civili in fuga dalle zone di guerra nel Vietnam del Sud. http://www.apimages.com/Collection/Landing/Vietnam-The-Real-War/d52ea03a0ea2468399f694459d4c0fb7

    Negli anni Sessanta la “Guerra del Vietnam” (dove, dal 1954, si confrontavano e si scontravano, sia sul piano politico che militare, due stati indipendenti, uno al Nord e l’altro al Sud del 17° parallelo, nati in applicazione degli accordi della Conferenza di Ginevra sull’Indocina ex colonia francese) si trasforma sempre più in una “Guerra dell’America nel Vietnam”. Un conflitto regionale originato dal rifiuto degli Usa di accettare le elezioni che avrebbero portato Ho Chi Minh a governare un Vietnam unito sotto un regime comunista, ma che, proprio per questo, coinvolgeva i due blocchi, capeggiati rispettivamente dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, che si contendevano, a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta, l’egemonia mondiale.

    Parallelamente all’intensificarsi dell’intervento militare americano in Vietnam (la “guerra più lunga” combattuta dagli Stati Uniti) aumentava il malcontento dell’opinione pubblica per la conduzione del conflitto e si diffondevano i movimenti e le manifestazioni di protesta sia in America che in Europa, a cui partecipavano in particolare i giovani.

    Gli storici si chiedono quale sia stato il peso dei movimenti giovanili e in genere di protesta in quel lungo e complicato processo che portò alla pace del 1975. Infatti, dal punto di vista meramente elettorale, si deve osservare che - in America come in Francia e anche in Italia – le elezioni del ’68 e immediatamente successive, furono insoddisfacenti per la sinistra e in genere per gli oppositori alla guerra. Dal punto di vista sociale e culturale, e sul lungo periodo, invece, questi movimenti ebbero un grande risultato, perché contribuirono in tutto il mondo al formarsi di gruppi – politici e culturali – di sostegno alle politiche internazionali di pace.

    L’opposizione alla Guerra del Vietnam, che all’inizio degli anni ‘60 era circoscritta a  una ristretta cerchia di critici che esprimevano il loro dissenso su di un conflitto in gran parte sconosciuto al di fuori del Sud-Est asiatico, alla fine del decennio divenne un fenomeno di massa che si estese in tutto il mondo, superando confini nazionali, di classe e di genere e fu il catalizzatore di tutti i movimenti per la pace successivi.

    «Una volta il Vietnam era un nome senza eco /.../ora il Vietnam è ovunque» (Jack Lindsay, poeta e scrittore australiano, 1971).

    La globalità dell’opposizione alla Guerra del Vietnam non deve però far dimenticare che essa assunse forme particolari, contenuti diversi e modalità di azione specifiche nei differenti contesti nazionali/locali. Essa fu ogni volta diversa, a seconda del livello di sviluppo democratico della società, del grado di partecipazione dei cittadini alla vita politica, delle posizioni deivari governi nei confronti del conflitto e dei loro rapporti con gli Stati Uniti. Convisse in forme più o meno collaborative con altri movimenti di protesta e di lotta. Ci furono movimenti che si ispiravano ad un pacifismo universale (di matrice religiosa o laica) o che, all’opposto, erano portatori di istanze più radicali, anti-capitaliste e anti-imperialiste, o sostenitori del comunismo nella sua versione cinese e nord-vietnamita (identificato nelle due figure carismatiche di Mao Tse-tung e Ho Chi Minh).

    La doppia natura, globale e nazionale/locale, della contestazione della Guerra del Vietnam richiede oggi agli storici ricerche e riflessioni approfondite in più direzioni, e ai docenti, che intendono affrontare l’argomento nei loro corsi, di avere ben presente la complessità del fenomeno.

    Si è ritenuto, pertanto, utile affiancare alla sitografia generale sul Sessantotto una nuova sitografia dedicata specificatamente alla Guerra del Vietnam e ai movimenti di protesta del ‘68. La sitografia è suddivisa in due parti. La prima, introduttiva, contiene le risorse digitali sulla storia del conflitto; la seconda è dedicata ai movimenti di protesta in America (USA) e in Europa (Francia, Germania, Inghilterra e Italia). Anche questa sitografia, come la precedente, è completata da un indice in ordine alfabetico degli autori citati.

    Tutti i link sono stati controllati alla data del 30 giugno 2020.

     

    PARTE PRIMA: la guerra

    Enciclopedie 

     

    GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 2Elicotteri americani in azione nel Vietnam del Sud. http://www.apimages.com/Collection/Landing/Vietnam-The-Real-War/d52ea03a0ea2468399f694459d4c0fb7

     

     

    L’Enciclopedia Britannica dedica alla Guerra del Vietnam una voce a firma di Ronald H. Spector, studioso americano di storia militare. La voce, Vietnam War 1954-1975 (il cui ultimo aggiornamento risale al 28 aprile 2020) è strutturata in diversi capitoli corredati da carte geografiche, fotografie e video: French Rule Ended, Vietnam Divided; The Diem Regime And The Viet Cong; The U.S. Role Grows; The Conflict Deepens; The Gulf Of Tonkin; The United States Enters The War; Firepower Comes To Naught; Tet Brings The War Home; De-Escalation, Negotiation, And Vietnamization; The United States Negotiates A Withdrawal; The Fall Of South Vietnam.Oltre alla voce Vietnam War 1954-1975, l’enciclopedia comprende una voce redazionale sull’offensiva nord vietnamita del Tet,Tet Offensive (1968),una sul ruolo dei media nella guerra,The Vietnam War and the media (l’autore è Ronald H. Spector), ed una timeline,Vietnam War Timeline, a cura dello storico americano Michael Ray.  Alla geografia e alla storia del paeseasiatico l’enciclopedia dedica la voceVietnam.

    Nell’Enciclopedia Larousse troviamo le voci:Guerre du Viêt Nam,  nell’ambito del dossier sulla “guerra fredda” (la voce è suddivisa in quattro capitoli: Le deux Viêt Nam; L’intervention américaine,1965-1968; Le retrait américain, 1969-1973; La fin de la guerre, 1973-1975);Viêt Nam : histoire,con una sintesi della storia del Vietnam dalle origini ad oggi;Ho Chi Minh(1890-1969), sulla figura del patriota e presidente nord-vietnamita (la voce fa parte del dossier sulla “decolonizzazione”).

     

    Dal portale della Treccaniè possibile accedere alle voci: Vietnamdell’Enciclopedia online (voce redazionale sulla geografia e la storia del paese asiatico); Storia del Vietnam(voce scritta da Francesco Tuccari) nell’Enciclopedia dei Ragazzi (2006). Il portale propone anche, nella sezione “Scuola”, una lezione per la LIM sulla Guerra del Vietnam, tra decolonizzazione e guerra fredda.

     

    Tra le voci di Wikipedia sulla Guerra del Vietnam nelle diverse edizioni linguistiche dell’enciclopedia online segnaliamo:Vietnam War (indice: Background; Transition period; Diệm era, 1954–1963; Kennedy's escalation, 1961–1963; Johnson's escalation, 1963–1969; Vietnamization, 1969–1972; U.S. exit and final campaigns, 1973–1975; Opposition to U.S. involvement, 1964–1973; Involvement of other countries; War crimes; Aftermath; References: Primary and Secondary sources);Guerre du Viêt Nam (indice: Origine du conflit: l’après-guerre d'Indochine; Contexte médiatique de l'entrée en guerre des États-Unis; Escalade; Enlisement; Retrait américain; Bilan; Conséquences de la guerre; Chronologie; Notes et références; Bibliographie).LaCategory:Vietnam War e laCatégorie:Guerre du Viêt Nam contengono l’elenco delle voci delle due edizioni linguistiche (inglese e francese) che trattano argomenti inerenti alla Guerra del Vietnam.

     

    Archivi, Agenzie, Istituti di ricerca e divulgazione, Enti radiotelevisivi

     

    GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 4 OFFENSIVA DEL TET 30 31 GENNAIO 1968Vietcong nell'Offensiva del Tet (30-31 gennaio 1968). http://www.apimages.com/Collection/Landing/Vietnam-The-Real-War/d52ea03a0ea2468399f694459d4c0fb7

     

     

    LaNational Archives and Records Administration (NARA)conserva una vasta gamma di documenti e informazioni sul conflitto del Vietnam (visto dagli USA) che consistono in testi, fotografie, registrazioni audiovisive, risorse educative, articoli. Il sito web dispone di un proprio motore di ricerca interno e di una sezione dedicata allaVietnam War che propone un’esplorazione per grandi temi:Diplomacy,In Country,The War at Home,Post-Conflict Events

    Per una selezione dei documenti ai fini didattici, si può consultareDOCSteach/VietnamWar (The online tool for teaching with documents, from the National Archives).

     

    Il Virtual Vietnam Archive (The Vietnam Center and Sam Johnson Vietnam Archive at Texas Tech University) consente di effettuare ricerche(Search The Archives) su una grande archivio di documenti digitalizzati (fotografie, diapositive,  storie orali, immagini in movimento, registrazioni sonore, mappe, ecc.)riguardanti la Guerra del Vietnam.

     

    La CIA (Central Intelligence Agency) ha pubblicato in rete due raccolte di documenti recentemente desecretati relativi all’attività dell’agenzia durante la Guerra del Vietnam:The Vietnam CollectioneVietnam Histories.

     

    La NSA/CSS (National Security Agency/Central Security Service) ha messo a disposizione del pubblico della rete la propria documentazione relativa alla Conferenza di Pace di Parigi(Declassified Records Related to the Vietnam Paris Peace Talks 1972 – 1973).

     

    Sul sito dell’Istituto di studi politici Sciences Po si possono leggere articoli che affrontano alcuni aspetti ed eventi della “Guerre du Viêt Nam”:Napalm in American Bombing Dottrine and Practice, 1942-1975 (Marine Guillaume);Ecocide (de Pompignan Nathalie);The March 1968 Massacre in My Lai 4 and My Khe 4 (Greiner Bernd).

     

    La Bundeszentrale für politische Bildung (l’Agenzia federale tedesca per l’educazione civica) ha pubblicato nel 2008 sul proprio sito, nella sezione “Aus Politik und Zeitgeschichte” un dossier dedicato alVietnam che contiene un interessante articoloDie USA und Vietnam di Stephen Maxner sugli effetti a lungo termine della guerra e sulla sua presenza nella cultura americana.

     

    Sul sito della BBCè possibile consultare una serie di schede illustrative dedicate alla Guerra del Vietnam:The main events during the Vietnam War;Reasons for US involvement in Vietnam;Reasons for US failure in defeating the Vietcong;Vietcong military tactics;Changing views of the war in the USA;Impact of the war;Impact on international relations.

     

    La RAI mette a disposizione del pubblico della rete le registrazioni di programmi televisivi sulla Guerra del Vietnam:Guerre di liberazione del Vietnam (“Il Tempo e la Storia”, 15/11/2013);Il 30 aprile 1975.Quarant'anni fa la fine della guerra del Vietnam, un percorso di video e photogallery per ricordare quel giorno (30/04/2015);La Guerra del Vietnam: un viaggio all’inferno (“La Storia siamo noi”, 12/10/2017).

     

    Articoli, Schede informative, Saggi e Approfondimenti

     

    Guerra del Vietnam,raccolta di articoli sull’argomento pubblicati dal settimanale «L’Espresso» dal 1965 al 1969.

    Guerre du Vietnam 1959-1975, i numerosi articoli sulla guerra della rivista «Le Monde diplomatique».

    Vietnam eLa guerra del Vietnam (1964-1975), schede informative sulla storia del paese asiatico e sul conflitto con gli USA consultabili nel portale per la scuola della casa editrice Zanichelli.

    Das Scheitern des „begrenzten Krieges“. Vietnamkrieg und Indochinakonflikt diMarc Frey, in «Zeithistorische Forschungen/Studies in Contemporary History, Online-Ausgabe», 2 (2005).

    La Guerra del Vietnam. Un inutile massacro che ha segnato un’intera generazione di Luigi Buonanno, in «InStoria», n.22 - marzo 2007.

    Der Vietnamkrieg di Rolf Steininger – Bundeszentrale für politische Bildung, 10/10/2008.

    Children of the Vietnam War diDavid Lamb, in «Smithsonian Magazine», giugno 2009.

    Sechs Gründe, warum die USA in Vietnam verloren di Sven Felix Kellerhoff, 28/04/2015.

    40 Jahre nach dem Vietnam-Krieg. “Der Stolz hat sich übertragen” di Udo Schmidt, Deutschlandfunk, 29/04/2015.

    Lessons from the Vietnam War di John Marciano, in «Monthly Review», dicembre 2016.

    Vietnam and the Sixties di W. D. Ehrhart, in «Monthly Review», dicembre 2016.

    The Vietnam War, ampia e documentata ricostruzione storica della Guerra del Vietnam proposta dal sito <United States Foreign Policy – History & Resource Guide> sponsorizzato dalla Peace History Society, 2017.

    The Vietnam War in History di Michael G. Kort, inThe Vietnam War Reexamined,Cambridge University Press, 2017.

    Why the United States Went to War in Vietnamdi Heather Stur – Foreign Policy Research Institute,28/04/2017.

    Studying the Vietnam War diMark Atwood Lawrence,in «Humanities»,autunno 2017, volume 38, numero 4.

     

    Immagini (mappe, foto, audiovisivi)

     GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 1Divisione del Vietnam in due stati indipendenti secondo gli accordi della Conferenza di Ginevra sull'Indocina francese (aprile-luglio 1954) https://libguides.nps.edu/vietnamwar/maps

     

     

    Vietnam Conflict –Maps, elenco siti web contenenti diversi tipi di mappe sulla guerra.

    Mapping the War,mappa interattiva sulla Guerra del Vietnam.

    Vietnam War Maps,mappe relative alle guerre combattute nel Vietnam dal XIX° al XX° Secolo.

    Vietnam: The Real War, vasta collezione di fotografie sulla guerra (1963-1975).

    Vietnam War, collezione di foto dell’agenzia fotografica Getty Images.

    Iconic photos of the Vietnam War,selezione di foto della CNN.

    Guerra del Vietnam, playlist su YouTube con numerosi audiovisivi che coprono l’intera storia del conflitto.

     

    Cronologie

      

    The Vietnam War Timeline: Understanding the nature of a controversial conflict, National Archives – DOCSteach (The online tool for teaching with documents, from the National Archives).

    The Vietnam War, The History Place.La cronologia della guerra è articolata in quattro sotto-periodi:Seeds of Conflict1945 – 1960;America Commits1961 – 1964;The Jungle War1965 – 1968;The Bitter End1969 – 1975.

    Il sito della History of American Wars propone una cronologia dellaGuerra del Vietnam suddivisa in due parti:Vietnam War Historical Causes 1802-1965Vietnam War Facts 1965-1973.

     

    Bibliografie

     

    Vietnam War Bibliography, vasta bibliografia sulle diverse fasi e sui molteplici aspetti della Guerra del Vietnam a cura dello storico Edwin E. Moïse.

    Vietnam War Bibliography, ampia e articolata bibliografia a cura dello storico Richard Jensen

    Guerre du Vietnam 1959-1975,  bibliografia a cura di Le Monde Diplomatique che comprende sia libri che articoli.

    Guerra del Vietnam: libri da leggere per capirne la storia,selezione di libri in lingua italiana sul sitoTuttoVietnam.

    Guerra del Vietnam, libri in lingua italiana proposti in vendita dalla <libreriauniversitaia.it>.

     

    PARTE SECONDA: i movimenti di protesta

    NEL MONDO

     

    PROTESTE CONTRO LA GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 1Proteste contro la guerra del Vietnam negli USA e in Europa nel corso del 1968. https://www.pinterest.it/larryhellie/vietnam-protests/

    Lists of protests against the Vietnam War, cronologia delle proteste contro la guerra (1955-1973) in Wikipedia edizione in lingua inglese.

    Guerre du Vietnam 1959-1975, i numerosi articoli sulla guerra della rivista «Le Monde diplomatique», di cui alcuni dedicati ai movimenti pacifisti.

    Guerra del Vietnam,raccolta di articoli sull’argomento pubblicati dal settimanale «L’Espresso» dal 1965 al 1969, di cui alcuni relativi alla contestazione della guerra.

    Dal no alla guerra in Vietnam al no alla guerra contro i Curdi,rassegna di materiali a cura di Jacopo Perazzoli, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

    Laprotesta contro la guerra in Vietnam, photogallery con materiali tratti dall’archivio della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

    The Anti-Vietnam War Movement. International Activism and the Search for World Peace diChris Dixon and Jon Piccini, 2018.

    17-18 Février 68: La jeunesse européenne avec le Vietnam di Jean Marc B.,17/02/2018.

    L’année 68 débute au Vietnam – L’offensive du Têt, la solidarité internationale, la radicalité di Pierre Rousset, 20/02/2018.

     

    IN AMERICA (USA)

     

    PROTESTE CONTRO LA GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 2Proteste contro la guerra del Vietnam a Washington dopo l'Offensiva del Tet. https://www.pinterest.it/larryhellie/vietnam-protests/ 

    Opposition to United States involvement in the Vietnam War, voce dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia.

    Vietnam War protests at the University of Michigan, voce dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia.

    Moratorium to End the War in Vietnam, voce dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia.

    Vietnam War di William W. Riggs, in «The First Amendment Encyclopedia».

    Protesting in the 1960s and 1970s, fonti archivistiche sull’argomento proposte dal sito American Archive.

    Vietnam War Bibliography:The Antiwar Movement a cura di Edwin Moise, History Department Clemson University.

    Vietnam Protests, fotografie sulle proteste contro la Guerra del Vietnam pubblicate sul sito di Pinterest.

    Vietnam Antiwar Movement: Selected full-text books and articles, selezione di libri e articoli sull’argomento nel sito Questia.

    Widerstand gegen den Vietnamkrieg in den USA di Michaela Jandl, Universität Salzburg, Institut für Geschichte, WS 1996/97.

    Mythed Opportunities: The Truth About Vietnam Anti-War Protests di Adam Garfinkle, 01/06/2000.

    Voices of Southern Protest during the Vietnam War Era: The University of South Carolina as a Case Study di Andrew Grose, in «Peace & Change», April 2007.

    Etudiantes américaines, militantisme et guerre du Vietnam: guerre, paix et «genre» dans les années 1960diAlexandra Boudet-Brugal, in «Amnis», n.8/2008.

    The US Anti-Vietnam War Movement (1964-1973) diStephen Zunes and Jesse Laird, ICNC – International Center on Nonviolent Conflict, January 2010.

    1968: The Democrats and the antiwar movement di Joe Allen, in«ISR– International Socialist Review», n. 74, November 2010.

    Composantes sociales et politiques du mouvement anti-guerre aux Etats-Unis (1965-1975) di John Barzman,Europa Solidaire Sans Frontières,13/01/2012.

    Il potere dimenticato delle proteste contro la guerra del Vietnam, 1965-1975, Tom Hayden, 29/04/2015.

    Une recontre transatlantique: les  Viêt-Nam  nés du mouvement anti-guerre en France et aux États-Unis di John Broucke,Université du Québec à Montréal, Mai, 2015.

    ► I movimenti di protesta USA contro la guerra in Vietnam di Alessandro Pagani,ALBAinformazione, 19/07/2015.

    A Three Part Analysis of the Antiwar Movement during the Vietnam War di Gus Anchondo - University of Nebraska – Lincoln, Spring 2016.

    The campus and the Vietnam War: protest and tragedy di Lyle Denniston, 26/09/2017.

    Backgroung to 68 Student Movements in the United States di Matthew Baker, SciencesPo, Avril 2018.

    Anti-Vietnam War Movement, 1963-1973 di Sharon Park, last modified: April 3, 2019.

    An Overview of the Vietnam War Protests di Robert J. McNamara, 28/07/2019.

     

    IN FRANCIA

     

    PROTESTE CONTRO LA GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 3Proteste contro la guerra del Vietnam a Parigi (maggio 1968). https://www.pinterest.it/larryhellie/vietnam-protests/

     

     

    Aux origines de la génération 1968: les étudiants français et la guerre du Vietnam di Laurent Jalabert, in «Vingtième Siècle. Revue d'histoire», Année 1997/55.

    La solidarité envers les luttes indochinoises dans la «France de 68»: les années 1960-1970 di Pierre Rousset,Europa Solidaire Sans Frontières, février 2008.

    Mai 1968 et la guerre du Vietnam di Jean-Michel Krivine, Europa Solidaire Sans Frontières, avril 2008.

    Une recontre transatlantique: les Viêt-Nam  nés du mouvement anti-guerre en France et aux États-Unis di John Broucke,Université du Québec à Montréal, Mai, 2015.

     

    IN GERMANIA (REPUBBLICA FEDERALE)

     

    PROTESTE CONTRO LA GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 4Proteste contro la guerra del Vietnam a Berlino Ovest https://www.pinterest.it/larryhellie/vietnam-protests/

     

     

    Berlin und der Vietnamkrieg.Studenten gegen die Schutzmacht di Uwe Soukup, in «Der Tagesspiegel», 30/04/2015.

    68er-Proteste in Berlin: Stimmungsbild der revolutionären Bewegung di Maritta Adam-Tkalec, «Berliner Zeitung», 12/02/2018.

    Studenten demonstrierten gegen den Vietnamkrieg di Monika Köpcke, Deutschlandfunk, 18/02/2018.

    Vietnam war das Fanal zum Aufstand di René Lüchinger, 20/06/2019.

     

    IN INGHILTERRA (UK)

     

    PROTESTE CONTRO LA GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 5Proteste contro la guerra del Vietnam a Londra https://www.pinterest.it/larryhellie/vietnam-protests/

     

     

    Anti Vietnam war – files overview, doumenti del Ministero degli Interni inglese sui movimenti di protesta contro la Guerra del Vietnam.

    The Viet Nam War and the British Student Left: A Study in Political Symbolism di Anthony O. Edmonds, History Department, Ball State University, 25/01/1999.

    The British Movement against the Vietnam War: An Example of Transnational Solidarity? di Claire Mansour, Université Toulouse 2 Jean Jaurès, in «Revue Miroirs» (en ligne), 5 Vol.I, 2017.

    My part in the anti-war demo that changed protest for ever di Donald Macintyre, «The Guardian», 11/03/2018.

    50 Years On: The Anti-Vietnam War Protest in London, fotografie di David Hurn, Magnum Photos, 12/03/2018.

    1968 – Protest and Special Branch diDónal O’Driscoll, 14/04/2018.

     

    IN ITALIA

     

    PROTESTE CONTRO LA GUERRA DEL VIETNAM IMMAGINE 6Manifestazioni contro la guerra del Vietnam a Milano https://www.pinterest.it/larryhellie/vietnam-protests/

     

     

    I documentari “militanti” italiani, Casa del Cinema, schede di presentazione di alcuni filmati di registi italiani sul Vietnam ela contestazione in Italiadell’intervento militare americano, realizzati tra il 1965 e il 1972.

    Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico: filmati di manifestazioni contro la Guerra del Vietnam che si sono svolte in Italia negli anni sessanta.

    La contestazione della guerra del Vietnam, in Controcultura e politica nel Sessantotto italiano. Una generazione di cosmopoliti senza radici di Silvia Casilio, «Storicamente»,5 (2009), no. 12.

    Vietnam, Ho Chi Minh, Italia molti annidopo… di Agostino Bagnato, maggio-giugno 2018.

    Il Vietnam e le parole della rivolta, a cura del Centro Studi Movimenti, 29/06/2018.

    Cattolici di Francia e d’Italia dinanzi alla guerra in Vietnam: verso la rottura del “fronte filoatlantico” (1963-1965) di Francesca Ghezzi, in «Chrétiens et Sociétés XVIe-XXIe siècles», 26, 2019.

     

    INDICE AUTORI

     

    A

    ► Adam-Tkalec Maritta,68er-Proteste in Berlin: Stimmungsbild der revolutionären Bewegung, «Berliner Zeitung», 12/02/2018.

    ► Allen Joe,1968: The Democrats and the antiwar movement, in«ISR– International Socialist Review», n. 74, November 2010.

    American Archive,Protesting in the 1960s and 1970s, fonti archivistiche sulle proteste contro la Guerra del Vietnam negli anni sessanta e settanta.

    ► Anchondo Gus,A Three Part Analysis of the Antiwar Movement during the Vietnam War, University of Nebraska – Lincoln, Spring 2016.

    ► Archivi AAMOD,Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico: filmati di manifestazioni contro la Guerra del Vietnam che si sono svolte in Italia negli anni sessanta.

    B

    ► Bagnato Agostino,Vietnam, Ho Chi Minh, Italia molti annidopo…, maggio-giugno 2018.

    ► Baker Matthew,Backgroung to 68 Student Movements in the United States, SciencesPo, Avril 2018.

    Barzman John,Composantes sociales et politiques du mouvement anti-guerre aux Etats-Unis (1965-1975),Europa Solidaire Sans Frontières,13/01/2012.

    ► BBC,The main events during the Vietnam War;Reasons for US involvement in Vietnam;Reasons for US failure in defeating the Vietcong;Vietcong military tactics;Changing views of the war in the USA;Impact of the war;Impact on international relations.

    ► Boudet-Brugal Alexandra,Etudiantes américaines, militantisme et guerre du Vietnam: guerre, paix et «genre» dans les années 1960, in «Amnis», n.8/2008.

    ► Broucke John,Une recontre transatlantique: les  Viêt-Nam  nés du mouvement anti-guerre en France et aux États-Unis,Université du Québec à Montréal, Mai, 2015.

    Bundeszentrale für politische Bildung, Vietnam; Die USA und Vietnam (Stephen Maxner).

    ► Buonanno Luigi,La Guerra del Vietnam. Un inutile massacro che ha segnato un’intera generazione, in«InStoria», n.22 - marzo 2007.

    C

    ► Casa del Cinema,I documentari “militanti” italiani, schede di presentazione di alcuni filmati di registi italiani sul Vietnam ela contestazione in Italiadell’intervento militare americano, realizzati tra il 1965 e il 1972.

    ► Casilio Silvia,La contestazione della guerra del Vietnam, inControcultura e politica nel Sessantotto italiano. Una generazione di cosmopoliti senza radici, «Storicamente»,5 (2009), no. 12.

    ► Centro Studi Movimenti (a cura di),Il Vietnam e le parole della rivolta, 29/06/2018.

    CIA (Central Intelligence Agency), The Vietnam Collection e Vietnam Histories.

    CNN,Iconic photos of the Vietnam War,selezione di foto sulla Guerra del Vietnam.

    D

    ► Denniston Lyle,The campus and the Vietnam War: protest and tragedy, 26/09/2017.

    ► DePompignan Nathalie,Ecocide, Sciences Po, 03/11/2007.

    Dixon Chris e Piccini Jon, The Anti-Vietnam War Movement. International Activism and the Search for World Peace, 2018.

    E

    ► Edmonds Anthony O.,The Viet Nam War and the British Student Left: A Study in Political Symbolism, History Department, Ball State University, 25/01/1999.

    Ehrhart W. D.,Vietnam and the Sixties, in«Monthly Review», dicembre 2016.

    ► Enciclopedia Treccani online,Vietnam;Guerra del Vietnam, tra decolonizzazione e guerra fredda.

    ► Enciclopedia dei Ragazzi Treccani,Storia del Vietnam (Francesco Tuccari), 2006.

    ► Encyclopædia Britannica,Vietnam War 1954-1975 (Ronald H. Spector);Tet Offensive (1968);The Vietnam War and the media (Ronald H. Spector);Vietnam War Timeline (Michael Ray);Vietnam.

    Encyclopédie Larousse,Guerre du Viêt Nam;Viêt Nam: histoire;Ho Chi Minh(1890-1969).

    F

    ► Fondazione Giangiacomo Feltrinelli,Dal no alla guerra in Vietnam al no alla guerra contro i Curdi,rassegna di materiali a cura di Jacopo Perazzoli;Laprotestacontro la guerra in Vietnam, photogallery con materiali tratti dall’archivio della fondazione.

    Frey Marc,Das Scheitern des „begrenzten Krieges“. Vietnamkrieg und Indochinakonflikt, in«Zeithistorische Forschungen/Studies in Contemporary History, Online-Ausgabe», 2 (2005).

    G

    Garfinkle Adam,Mythed Opportunities: The Truth About Vietnam Anti-War Protests, 01/06/2000.

    ► Getty Images,Vietnam War,collezione di foto proposte dall’agenzia fotografica.

    ► Ghezzi Francesca,Cattolici di Francia e d’Italia dinanzi alla guerra in Vietnam: verso la rottura del “fronte filoatlantico” (1963-1965), in«Chrétiens et Sociétés XVIe-XXIe siècles», 26, 2019.

    Greiner Bernd, The March 1968 Massacre in My Lai 4 and My Khe 4, Sciences Po, 05/10/2009.

    Grose Andrew, Voices of Southern Protest during the Vietnam War Era: The University of South Carolina as a Case Study, in «Peace & Change», April 2007.

    Guillaume Marine,Napalm in American Bombing Dottrine and Practice, 1942-1975, Sciences Po, 26/01/2017.

    H

    ► Hayden Tom,Il potere dimenticato delle proteste contro la guerra del Vietnam, 1965-1975, 29/04/2015.

    ► History of American Wars,Vietnam War Historical Causes 1802-1965Vietnam War Facts 1965-1973, cronologia dellaguerra suddivisa in due parti.

    ► Home Office (UK),Anti Vietnam war – files overview,doumenti del Ministero degli Interni (Home Office) inglese sui movimenti di protesta contro la Guerra del Vietnam.

    ► Hurn David,50 Years On: The Anti-Vietnam War Protest in London,fotografie, Magnum Photos, 12/03/2018.

    J

    ► Jalabert Laurent,Aux origines de la génération 1968: les étudiants français et la guerre du Vietnam, in «Vingtième Siècle. Revue d'histoire», Année 1997/55.

    ► Jandl Michaela,Widerstand gegen den Vietnamkrieg in den USA, Universität Salzburg, Institut für Geschichte, WS 1996/97.

    Jensen Richard,Vietnam War Bibliography,ampia e articolata bibliografia.

    K

    Kellerhoff Sven Felix,Sechs Gründe, warum die USA in Vietnam verloren,28/04/2015.

    Köpcke Monika, Studenten demonstrierten gegen den Vietnamkrieg, Deutschlandfunk, 18/02/2018.

    Kort Michael G.,The Vietnam War in History,inThe Vietnam War Reexamined,Cambridge University Press, 2017.

    Krivine Jean-Michel,Mai 1968 et la guerre du Vietnam, Europa Solidaire Sans Frontières, avril 2008.

    L

    ► Laird Jesse e Zunes Stephen,The US Anti-Vietnam War Movement (1964-1973),ICNC – International Center on Nonviolent Conflict, January 2010.

    Lamb David,Children of the Vietnam War, in«Smithsonian Magazine», giugno 2009.

    Lawrence Mark Atwood,Studying the Vietnam War, in «Humanities»,autunno 2017, volume 38, numero 4.

    Le Monde diplomatique, Guerre du Vietnam 1959-1975, i numerosi articoli sulla guerra pubblicati dalla rivista nel corso degli anni fino ad oggi.

    L’Espresso,Guerra del Vietnam,raccolta di articoli sull’argomento pubblicati dal settimanale dal 1965 al 1969.

    Lüchinger René,Vietnam war das Fanal zum Aufstand,20/06/2019.

    M

    Macintyre Donald, My part in the anti-war demo that changed protest for ever,«The Guardian», 11/03/2018.

    Mansour Claire,The British Movement against the Vietnam War: An Example of Transnational Solidarity?, Université Toulouse 2 Jean Jaurès, in «Revue Miroirs» (en ligne), 5 Vol.I, 2017.

    Marciano John,Lessons from the Vietnam War, in«Monthly Review», dicembre 2016.

    Maxner Stephen,Die USA und Vietnam, Bundeszentrale für politische Bildung, 19/06/2008.

    McNamara Robert J.,An Overview of the Vietnam War Protests, 28/07/2019.

    Moïse Edwin E. (a cura di),Vietnam War Bibliography eVietnam War Bibliography:The Antiwar Movement.

    N

    National Archives and Records Administration (NARA),Vietnam War;DOCSteach/VietnamWar;The Vietnam War Timeline: Understanding the nature of a controversial conflict.

    NSA/CSS (National Security Agency/Central Security Service),Declassified Records Related to the Vietnam Paris Peace Talks 1972 – 1973.

    O

    O’Driscoll Dónal,1968 – Protest and Special Branch,14/04/2018.

    P

    Pagani Alessandro,I movimenti di protesta USA contro la guerra in Vietnam, ALBAinformazione, 19/07/2015.

    ► Park Sharon,Anti-Vietnam War Movement, 1963-1973, 03/04/2019.

    ► Perazzoli Jacopo (a cura di),Dal no alla guerra in Vietnam al no alla guerra contro i Curdi, rassegna di materiali, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

    Pinterest,Vietnam Protests, fotografie sulle proteste contro la Guerra del Vietnam.

    Q

    Questia,Vietnam Antiwar Movement: Selected full-text books and articles, selezione di libri e articoli sull’argomento proposta dal sito Questia.

    R

    RAI,Guerre di liberazione del Vietnam (“Il Tempo e la Storia”, 15/11/2013);Il 30 aprile 1975.Quarant'anni fa la fine della guerra del Vietnam,un percorso di video e photogallery per ricordare quel giorno (30/04/2015);La Guerra del Vietnam: un viaggio all’inferno (“La Storia siamo noi”, 12/10/2017).

    ► Ray Michael,Vietnam War Timeline, Enciclopedia Britannica.

    ► Riggs William W.,Vietnam War, in«The First Amendment Encyclopedia».

    Rousset Pierre,La solidarité envers les luttes indochinoises dans la «France de 68»: les années 1960-1970, Europa Solidaire Sans Frontières, 01/02/2008;L’année 68 débute au Vietnam – L’offensive du Têt, la solidarité internationale, la radicalité, 20/02/2018.

    S

    ► Schmidt Udo,40 Jahre nach dem Vietnam-Krieg. “Der Stolz hat sich übertragen”, Deutschlandfunk, 29/04/2015.

    ► Sciences Po,Napalm in American Bombing Dottrine and Practice, 1942-1975 (Marine Guillaume);Ecocide (de Pompignan Nathalie);The March 1968 Massacre in My Lai 4 and My Khe 4 (Greiner Bernd).

    ► Soukup Uwe,Berlin und der Vietnamkrieg. Studenten gegen die Schutzmacht, in «Der Tagesspiegel», 30/04/2015.

    ► Spector Ronald H.,Vietnam War 1954-1975 eThe Vietnam War and the media,  Enciclopedia Britannica.

    ► Steininger Rolf,Der Vietnamkrieg,Bundeszentrale für politische Bildung, 10/10/2008.

    Stur Heather, Why the United States Went to War in Vietnam, Foreign Policy Research Institute, 28/04/2017.

    T

    The History Place,The Vietnam War, cronologia della guerra.

    Tuccari Francesco,Storia del Vietnam, Enciclopedia dei Ragazzi Treccani, 2006.

    TuttoVietnam, Guerra del Vietnam: libri da leggere per capirne la storia,selezione di libri in lingua italiana, 15/03/2020.

    U

    ► United States Foreign Policy,The Vietnam War, 2017.

    V

    ► Virtual Vietnam Archive, Search The Archives

    W

    ► Wikipedia, edizione in lingua inglese,Vietnam War;Category:Vietnam War;Lists of protests against the Vietnam War;Opposition to United States involvement in the Vietnam War;Vietnam War protests at the University of Michigan;Moratorium to End the War in Vietnam.

    ► Wikipedia, edizione in lingua francese,Guerre du Viêt Nam;Catégorie:Guerre du Viêt Nam.

    Z

    ► Zanichelli Editore,Vietnam eLa guerra del Vietnam (1964-1975), schede informative sulla storia del paese asiatico e sul conflitto con gli USA.

  • La Guerra fredda ritorna sulla scena mondiale. Sitografia didattica.

    di Antonio Prampolini

     

     

    Indice

    1. L'attualità della Guerra fredda

    2. Lo Student Center dell'Enciclopædia Britannica

    3. Le risorse didattiche sulla Guerra fredda

     

    GUERRA FREDDA ENCICLOPEDIA BRITANNICA IMMAGINE 1Fig.1: Raffigurazione simbolica della Guerra fredda Fonte1. L'attualità della Guerra Fredda

    Il riferimento alla Guerra fredda è oggi sempre più ricorrente nell’interpretazione della crisi ucraina da parte dei media occidentali (stampa, televisione, internet), e il linguaggio della guerra fredda è ritornato nelle parole di molti protagonisti della politica internazionale.1
    I giornalisti e gli studiosi di geopolitica parlano di “Seconda guerra fredda” per definire lo stato dei rapporti tra l’America, con i suoi alleati europei, e la Russia di Putin dopo l’aggressione russa dell’Ucraina. Una definizione che richiede che si conoscano le relazioni Est-Ovest nella seconda metà del Novecento, per potere individuare le analogie e le differenze tra la situazione di ieri e quella di oggi.
    Come ha osservato acutamente Carlo Galli: la “Prima guerra fredda” era stata combattuta in un clima di paura per la minaccia nucleare ma anche di «fiducia nel progresso e nelle risorse di sviluppo sociale che ciascuno dei due mondi [quello capitalista e quello comunista] attribuiva a sé stesso», mentre la “Seconda guerra fredda” si presenta «nel segno dell’incertezza, come un momento particolarmente intenso del disordine che caratterizza la fine della globalizzazione».2

    In rete sono numerose le fonti a cui accedere per intraprendere un percorso conoscitivo sulla Guerra fredda. Di seguito prenderemo in esame l’Enciclopædia Britannica come opera di consultazione che propone un interessante uso didattico dei propri contenuti storici.3

    GUERRA FREDDA ENCICLOPEDIA BRITANNICA IMMAGINE 2Fig.2: Logo dello Student Center dell’Enciclopædia Britannica Fonte2. Lo Student Center dell’Enciclopædia Britannica

    La Britannica ha creato uno Student Center che si rivolge al mondo della scuola (americano e non solo) selezionando ed integrando le voci enciclopediche dedicate ad argomenti specifici. E tra questi, in particolare, trova posto la storia, così suddivisa: Storia degli Stati Uniti (United States History), Storia del mondo (World History), Storia antica(Ancient History: Significant Places and Institutions of Ancient Rome; Key People and Enemies of Rome; Ancient Rome; Ancient Cities Videos: Rome, Paestum, The Acropolis and The Parthenon).

    Gi argomenti vengono trattati utilizzando testi di facile comprensione e immagini (Historic Image Galleries, Educational Student Videos), nella consapevolezza che la multimedialità può svolgere una funzione importante nell’apprendimento della storia da parte degli studenti. Numerose sono le infografiche: mappe, tabelle, linee del tempo (Educational Infographic Series) e le registrazioni audio (Podcasts) al fine di vivacizzare le narrazioni. Per mettere alla prova le conoscenze degli studenti vengono proposti divertenti quiz su temi specifici (History Quizzes).

     

     

     

    GUERRA FREDDA ENCICLOPEDIA BRITANNICA IMMAGINE 3Fig.3: Composizione di immagini relative ad alcuni eventi della Guerra fredda Fonte3. Le risorse didattiche sulla Guerra fredda

    Lo Student Center dell’Enciclopædia Britannica affronta la Storia del mondo (World History) limitandola al Novecento e suddividendola in quattro grandi aree tematiche: Prima guerra mondiale (World War I), Seconda guerra mondiale (World War II), Guerra del Vietnam (Vietnam War), Guerra fredda (Cold War).
    Alla storia della Guerra fredda sono dedicati diversi capitoli: Introduzione (Introduction), Eventi principali (Major Events), Alleanze e Lider (Alliances & Leaders), Paura rossa (Red Scare), Guerra nucleare e controllo degli armamenti (Nuclear War & Arms Control), Competizione (Competition), Politiche e propaganda (Policies & Propaganda).

     

    Introduzione (Introduction)

    Nell’Introduzione troviamo una sintesi delle origini storiche della Guerra fredda: la crisi, alla fine della Seconda guerra mondiale, della difficile alleanza che aveva unito nella lotta contro la Germania nazista gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica; l’imposizione di regimi comunisti da parte dell’URSS nell’Europa orientale; la nascita nel 1949 della Repubblica popolare cinese, in seguito alla vittoria dei comunisti nella guerra civile con i nazionalisti di Chiang Kai-shek, che aggiungeva la Cina al blocco sovietico; la creazione di alleanze militari contrapposte (NATO e Patto di Varsavia).

    Per approfondimenti, il capitolo iniziale rinvia alle voci enciclopediche: Cortina Di Ferro (Iron Curtain), Muro di Berlino (Berlin Wall), Comunismo (Communism), Terzo mondo (Third World), Superpotenza (Superpower).

    Le Guerre calde. A volte i nemici della Guerra fredda si affrontavano tramite sostituti in conflitti armati locali-regionali. Tuttavia ci furono delle eccezioni. Nella Guerra di Corea, gli Stati Uniti e i loro alleati, operando sotto la bandiera delle Nazioni Unite, si impegnarono direttamente in una “guerra calda" con uno dei giganti comunisti (la Cina). In questo caso la Corea del Nord fu rifornita e consigliata dall'Unione Sovietica mentre le forze armate della Repubblica popolare cinese si unirono ai combattenti nord-coreani. Così pure nella Guerra del Vietnam, dove gli Stati Uniti intervennero direttamente nel conflitto, alleati dei sudvietnamiti, contro il Vietnam del Nord comunista, sostenuto dalla Cina e dall'Unione Sovietica. A ruoli invertiti nell’invasione sovietica dell’Afghanistan, dove gli americani appoggiarono i mujaheddin (i guerriglieri mussulmani anticomunisti).

     

    Eventi principali (Major Events)

    Tra gli Eventi principali della Guerra fredda vengono indicati in ordine cronologico:

    - il Blocco di Berlino (Berlin blockade), ovvero il blocco, a partire dal giugno 1948 e fino al maggio 1949, da parte dell’Unione Sovietica dei collegamenti ferroviari, stradali e idrici tra Berlino Est (controllata dai russi) e Berlino Ovest (controllata dagli anglo-franco-americani);

    - la Crisi di Suez (Suez Crisis), luglio 1956 – marzo 1957: la nazionalizzazione del Canale di Suez, di proprietà di una compagnia franco-britannica, da parte del presidente egiziano Nasser e il conseguente intervento militare di Francia e Regno Unito, insieme a Israele, nel tentativo di riprendere il controllo del canale e di deporre Nasser;

    - la Rivoluzione ungherese(Hungarian Revolution), ottobre – novembre 1956: il tentativo del premier riformista ungherese Imre Nagy di uscire dal Patto di Varsavia e di riformare in senso liberale il regime comunista, represso nel sangue dall’intervento militare sovietico;

    - l’Incidente dell’aereo spia americano U2(U-2 Incident), maggio 1960: l’abbattimento dell’aereo pilotato da Frances Gary Powers durante un volo di ricognizione sul territorio dell’URSS;

    - l’Invasione della Baia dei Porci (Bay of Pigs invasion), aprile 1961: il tentativo, fallito, organizzato dalla CIA, di invadere Cuba inviando sull’isola caraibica esuli cubani armati in attesa di una rivolta popolare di massa contro il regime comunista di Fidel Castro;

    - la Crisi di Berlino del 1961 (Berlin crisis of 1961): l’isolamento della parte occidentale della città e la costruzione di un muro di separazione in seguito al rifiuto degli Stati Uniti e alleati (Regno Unito e Francia) di rinunciare alla loro occupazione di Berlino;

    - la Crisi dei missili cubani, ottobre 1962: in seguito alla costruzione da parte dei russi di siti missilistici a Cuba, il presidente degli Stati Uniti John Kennedy ordina il blocco navale dell’isola caraibica per ottenere la rimozione dei missili sovietici;

    - la Primavera di Praga (Prague Spring), 1968: tentativo del segretario del Partito Comunista Cecoslovacco Alexander Dubček di riformare in senso liberale e democratico il regime comunista d’impronta staliniana e conseguente intervento delle forze armate sovietiche e del Patto di Varsavia per impedire la realizzazione di un “socialismo dal volto umano”;

    - l’Ascesa di Solidarność (The Rise of Solidarity): fondato nel settembre 1980, il sindacato polacco Solidarność è stato il primo sindacato indipendente in un paese del blocco sovietico. Soppresso dal governo polacco nel dicembre 1981, sotto la guida di Lech Waƚᶒsa è riemerso nel 1989 per diventare il primo movimento di opposizione a partecipare a libere elezioni nel blocco sovietico dagli anni '40;

    - l’Incidente Di Piazza Tienanmen (Tiananmen Square Incident): la manifestazione di protesta a Pechino per una svolta democratica del regime comunista cinese repressa violentemente dal governo nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989;

    - il Crollo dell’Unione Sovietica(Collapse of the Soviet Union): le riforme della “perestrojka” e della "glasnost” introdotte in Unione Sovietica a metà degli anni '80 da Mikhail Gorbaciov hanno creato un conflitto tra il vecchio e il nuovo ordine che è culminato in un fallito colpo di stato dei sostenitori della linea dura del Partito Comunista nell'agosto 1990, contrastato in parte da Boris Yeltsin. Successivamente le ambizioni sovrane delle repubbliche costituenti l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) portarono allo scioglimento ufficiale dell'unione nel dicembre 1991.

     

    • Alleanze e Leader (Alliances & Leaders):

    - Alleanze

    Al blocco sovietico dei settori occidentali di Berlino Ovest nel giugno 1948, gli Stati Uniti risposero con un massiccio ponte aereo che rifornì Berlino Ovest di cibo, medicine e carburante. Il blocco spinse le potenze occidentali ad adottare nuove misure più forti di contrasto all’espansionismo sovietico, inclusa la creazione nell’aprile del 1949 di un’alleanza militare NATO (North Atlantic Treaty Organization). L’Unione Sovietica rispose nel maggio del 1955 con la formazione di una propria alleanza, il Patto di Varsavia (Warsaw Pact). Di fronte all’intensificarsi della Guerra fredda, i paesi del “terzo mondo” intrapresero la via del neutralismo fondando nel 1961 il Movimento dei Non Allineati (NAM);

    - Leader

    Ogni epoca storica ha i suoi leader straordinari e la Guerra fredda non ha fatto eccezione, a cominciare da Joseph Staline Winston Churchill che guidarono l'Unione Sovietica e il Regno Unito, rispettivamente, durante la Seconda guerra mondiale e nei primi anni della “Guerra fredda”. A causa della natura bipolare delle rivalità della Guerra fredda, i leader dell'epoca sono spesso ricordati in coppia, insieme all’avversario. Il leader sovietico Nikita Khruschev e il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy sono per sempre legati dalla crisi dei missili cubani, e il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e il segretario generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov dai ruoli che hanno giocato nel porre fine alla Guerra fredda.

     

    • Paura rossa (Red Scare)

    Con l'intensificarsi della Guerra Fredda negli anni '50, l'anticomunismo pervase la società americana. La ricerca dei “sovversivi” è stata al centro della spietata crociata anticomunista del senatore Joseph McCarthy e lo smascheramento di una minaccia rossa a Hollywood l’obiettivo principale delle indagini della House Un-American Activities Committee (HUAC). Queste indagini, che spesso erano autentiche cacce alle streghe, alla fine scoprirono ben pochi “traditori”. La pratica dello spionaggio (CIA, KGB) era però assai diffusa su entrambi i lati della “cortina di ferro” (Iron Curtain) ed era una fonte inesauribile per la narrativa e la cinematografia del periodo insieme alla minaccia della guerra nucleare.

     

    GUERRA FREDDA ENCICLOPEDIA BRITANNICA IMMAGINE 4Fig.4: Esplosione nucleare a Nagasaki in Giappone, 9 agosto 1945 Fonte• Guerra nucleare e controllo degli armamenti (Nuclear War & Arms Control)

    Il lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, in Giappone, nell'agosto del 1945, pose fine bruscamente alla Seconda guerra mondiale e cambiò per sempre il panorama delle relazioni internazionali. L'era atomica era iniziata. Durante la guerra, gli Stati Uniti e la Germania avevano gareggiato nell’utilizzo della fissione nucleare al fine di produrre un'arma di ineguagliabile distruttività. Vincendo quella gara, gli Stati Uniti divennero la prima superpotenza del mondo. Uno status privilegiato che presto cessò con l’accesso alla tecnologia nucleare da parte dell'Unione Sovietica. Nel momento in cui due stati potevano ricorrere all’arma nucleare, chiunque avesse pensato di iniziare una guerra utilizzando tale arma avrebbe dovuto d'ora in poi considerare la possibilità di ritorsioni ugualmente distruttive. Lo sviluppo e l'accumulo di armi nucleari sempre più potenti divenne il perno della rivalità tra USA e URSS durante la Guerra fredda.

    Il capitolo segnala diverse voci enciclopediche, tra queste: Atomic Bomb, International Atomic Energy Agency, Treaty on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons.

     

    GUERRA FREDDA ENCICLOPEDIA BRITANNICA IMMAGINE 5Fig.5: Francobollo sovietico commemorativo dell’orbita dello Sputnik 1 Fonte• Competizione (Competition)

    - Corsa allo spazio

    La rivalità tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica era totale, nessun campo era escluso. Ciascuna delle due superpotenze cercava di convincere il mondo e il proprio popolo della superiorità delle rispettive società. Non solo la potenza militare, l'integrità ideologica e l'efficienza economica erano oggetto della loro competizione, ma anche la gara per la preminenza tecnologica era di enorme importanza. Di conseguenza, la cosiddetta “corsa allo spazio” (essere il primo a lanciare un essere umano nello spazio e poi a farlo atterrare sulla Luna) aveva un enorme valore simbolico. Il 4 ottobre 1957, il lancio dello Sputnik 1 fu uno shock per la maggior parte degli americani. Prima del lancio, vi era un diffuso scetticismo sulle capacità tecniche dell'URSS di sviluppare sia un sofisticato satellite che un razzo abbastanza potente da metterlo in orbita. La conquista sovietica scosse la fiducia americana ed europea nel deterrente nucleare degli Stati Uniti inaugurando una nuova fase della Guerra fredda.
    Per approfondimenti, il capitolo rinvia alle voci enciclopediche: NASA, Astronaut, Neil Armstrong.

    - Competizione sui campi di gioco

    Negli anni della Guerra fredda ci fu anche un'intensa rivalità atletica tra il blocco sovietico e quello occidentale (Stati Uniti e suoi alleati). Entrambe le parti pubblicizzavano le vittorie sportive come prova della loro superiorità. Il successo dipendeva dall'identificazione e dal reclutamento di atleti, dalle innovazioni nell'allenamento, dai progressi nella medicina e nella psicologia dello sport e dall'investimento di ingenti somme per sostenere questi sistemi sportivi d'élite. Beneficiando di elaborati programmi di medicina sportiva e scienza dello sport, i paesi del blocco sovietico avevano superato le loro controparti occidentali fino a quando le principali nazioni sportive occidentali iniziarono ad adottare programmi simili sponsorizzati dallo stato.

     

    • Politiche e propaganda (Policies & Propaganda)

    La Guerra Fredda è stata una gara strategica e tattica per influenzare la natura dei governi e delle società dei paesi del mondo. Da un lato, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno cercato di diffondere il capitalismo (più o meno democratico); dall'altro, l'Unione Sovietica e la Repubblica popolare cinese hanno tentato di esportare le loro versioni del comunismo. Per fare questo, le superpotenze hanno fornito aiuti militari, materiali, tecnici e finanziari ai paesi che speravano di portare nelle loro sfere di influenza, e ricorso massicciamente agli strumenti della propaganda ideologica. L’obiettivo delle loro agende geopolitiche consisteva nel bloccare l'avanzata delle potenze rivali e intervenire negli affari degli altri paesi per affermare i propri interessi. Molti studi sono stati dedicati al tentativo di comprendere le motivazioni, gli obiettivi e le strategie reciproche e il modo di contrastarle al meglio.

    Per approfondimenti, il capitolo rinvia a diverse voci enciclopediche: Piano Marshall (Marshall Plan), Destalinizzazione (De-Stalinization), Contenimento (Containment), Teoria del dominio (Domino Theory), Dottrina Breznev (Brezhnev Doctrine), Eurocomunismo (Eurocommunism), Distensione (Détente), Ostpolitik, Glasnost, Perestrojka.

     


     

    Note

    1 Sara Lorenzini, Focus Ucraina. Ritorno alla guerra fredda? La Russia e l'uso della storia.

    Carlo Galli, La seconda guerra fredda.

    Sulla storia dell'Enciclopædia Britannica e sulla sua organizzazione editorale, la voce: 

     https://en.wikipedia.org/wiki/Encyclopædia_Britannica.

  • La libertà di espressione nelle università e nei college americani/1

    di Daniele Boschi1

    Immagine 1 Laura KipnisFig.1: Laura Kipnis, docente universitaria messa sotto inchiesta per un articolo pubblicato su una rivista FonteNel febbraio del 2015 Laura Kipnis, docente alla Northwestern University di Chicago, pubblicò un articolo nel quale deprecava la ‘paranoia sessuale’ che a suo dire si era diffusa nei campus americani. Alcuni studenti chiesero e ottennero che l’università aprisse un’indagine su di lei per le opinioni che aveva espresso nel suo saggio. L’accusa era quella di creare un ambiente ostile nei confronti delle donne vittime di molestie e violenze sessuali e di scoraggiare le denunce per questo tipo di abusi2.

    Nell’ottobre dello stesso anno Nicholas e Erika Christakis, marito e moglie, entrambi docenti all’università di Yale, furono aspramente criticati da un gruppo di studenti dopo che Erika Christakis aveva scritto una e-mail nella quale si diceva perplessa circa le raccomandazioni date dall’amministrazione universitaria agli studenti riguardo ai costumi da indossare per Halloween. Nicholas Christakis fu aggredito verbalmente e insultato da alcuni studenti. Successivamente gli studenti organizzarono una ‘Marcia di Resilienza’ e chiesero la destituzione dei due docenti dall’incarico di master e associate master del Silliman College. In seguito a queste proteste i due coniugi si dimisero da quel ruolo ed Erika Christakis abbandonò anche il suo posto di insegnante all’università di Yale3.

    Nell’aprile del 2017 Heather Mac Donald avrebbe dovuto presentare agli studenti del Claremont McKenna College (in California) il suo nuovo libro, The War on Cops, molto critico nei confronti del movimento Black Lives Matter. Sulla pagina Facebook dedicata all’evento la scrittrice fu accusata di essere un’esponente del suprematismo bianco e dell’ideologia fascista e fu annunciata l’intenzione di impedire lo svolgimento della conferenza. In effetti una folla di circa 170 manifestanti impedì poi alla Mac Donald di entrare nell’edificio dove avrebbe dovuto parlare e lei non poté far altro che tenere la sua presentazione in una sala vuota dalla quale fu trasmessa in streaming4.

     

    Cancel culture o lotta contro i pregiudizi e le discriminazioni?

    Questi tre eventi che ho sommariamente rievocato sono soltanto alcuni tra gli innumerevoli episodi dello stesso tipo accaduti negli ultimi anni nei campus americani: una controversia o uno scontro verbale portano qualcuno a pretendere, e talvolta ad ottenere, una qualche forma di censura o sanzione nei confronti di qualcun altro accusato di aver fatto un commento, o espresso un’opinione, giudicati offensivi.

    Perciò molti analisti hanno visto nei college e nelle università statunitensi uno dei principali terreni di coltura del ‘politicamente corretto’ e della cancel culture. Non pochi commentatori hanno espresso serie preoccupazioni riguardo alla crescente intolleranza e alle restrizioni alla libertà di espressione, che sembrano essersi instaurati nei campus americani. Altri osservatori pensano invece che questo allarme sia eccessivo, o addirittura fuorviante, perché ciò che sta accadendo nelle università americane è semplicemente una ulteriore tappa della lunga lotta per il riconoscimento dei diritti di minoranze e gruppi sociali storicamente discriminati e svantaggiati, ad esempio le persone di colore, gli omosessuali e le donne.

    Immagine 2 Greg LukianoffFig.2: Greg Lukianoff, presidente della Foundation for Individual Rights and Expression (FIRE) FonteIl dibattito che si è sviluppato su queste problematiche negli Stati Uniti è molto ricco e articolato e prosegue tuttora. In questo articolo, e in quello che seguirà a breve, intendo rendere conto di due differenti e autorevoli punti di vista sul tema della libertà di espressione nei college e nelle università statunitensi. Entrambi gli approcci sono supportati da originali e approfondite ricerche sui cambiamenti e sugli eventi avvenuti negli ultimi anni nei campus americani. Il primo punto di vista è quello proposto da Greg Lukianoff, da Jonathan Haidt e dalla Foundation for Individual Rights and Expression (FIRE). Il secondo punto di vista è quello proposto dalla associazione PEN America in due importanti rapporti pubblicati nel 2016 e nel 2019.

     

     

    La Foundation for Individual Rights and Expression (FIRE)

    La FIRE è una organizzazione nata nel 1999, col nome di Foundation for Individual Rights in Education, con lo scopo di difendere e promuovere la libertà di espressione e di pensiero nelle università e nei college americani. Per oltre vent’anni ha perseguito questo obiettivo con campagne di informazione, con un’attività di ricerca e pubblicazione di dati, col sostegno offerto anche sul piano legale a docenti e studenti i cui diritti erano stati violati e con proposte di riforme legislative.

    Dal 2006 la presidenza della FIRE è stata assunta da Greg Lukianoff, che nel 2015 ne è diventato anche l’amministratore delegato. Nel 2022 l’organizzazione ha assunto la nuova denominazione di Foundation for Individual Rights and Expression e ha annunciato di volere estendere il suo raggio d’azione al di fuori del mondo universitario allargandolo all’intera società statunitense.

     

    The Coddling of the American Mind

    Greg Lukianoff, oltre a dare il suo importante contributo alla FIRE, ha analizzato il tema delle restrizioni alla libertà di espressione nei campus americani sotto due diversi aspetti. In un saggio pubblicato nel 2015 con il titolo The Coddling of the American Mind, scritto insieme allo psicologo sociale Jonathan Haidt, si è soffermato soprattutto sull’impatto che tali restrizioni stavano avendo sugli studenti sul piano emotivo e culturale. In un altro saggio, The Second Great Age of Political Correctness, pubblicato nel 2022, ha esaminato principalmente le cause del fenomeno e i suoi effetti sulla libertà di ricerca e di insegnamento5.

    Immagine 3 The Coddling of the American MindFig.3: Il libro tratto dall’articolo che Lukianoff e Haidt hanno scritto nel 2015 FonteNel primo testo, ben noto agli studiosi del ‘politicamente corretto’ e della cancel culture, la tesi principale dei due autori è la seguente: nelle università e nei college americani si sta diffondendo una tendenza ad eliminare qualsiasi discorso, idea o argomento che potrebbe provocare disagio tra gli studenti o offendere alcuni di loro. Sono anzitutto gli studenti stessi ad invocare diverse forme di protezione, ma sono le autorità accademiche e persino il governo federale che stanno ormai istituzionalizzando una serie di politiche e di interventi che vanno in quella direzione.

    Riemerge in tal modo la stessa inclinazione al ‘politicamente corretto’ che si era già affermata tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, ma con due importanti differenze. La prima è la maggiore enfasi che ora viene posta sul benessere emotivo degli studenti. La seconda è che il movimento attuale mira a punire chiunque possa interferire con i suoi scopi. Questo impulso alla ‘protettività vendicativa’ (vindictive protectiveness) sta creando una cultura nella quale ognuno deve pensare due volte prima di parlare, per non essere accusato di insensibilità o aggressività, o subire conseguenze ancora peggiori.

    Secondo i due autori, tutto ciò non solo rappresenta una minaccia per la libertà di ricerca e di insegnamento, ma rischia anche di avere conseguenze disastrose sul piano emotivo e psicologico per gli stessi studenti che sono oggetto di queste inusitate ed esagerate attenzioni (le ‘coccole’ cui allude il titolo del saggio). Finora si era sempre pensato che il miglior metodo educativo fosse quello socratico, che consiste nell’insegnare agli studenti non che cosa pensare, ma come pensare. Questo metodo mirava ad incoraggiare lo sviluppo del pensiero critico e della capacità di mettere in discussione le idee proprie e altrui.

     

    Un nuovo e pericoloso approccio educativo

    Del tutto diverso è invece l’approccio educativo basato sulla ‘protettività vendicativa’, che ha un impatto negativo sugli studenti per almeno due motivi. In primo luogo, non li prepara in modo adeguato alla loro futura vita professionale, nella quale essi dovranno confrontarsi, senza alcuna protezione, con persone che hanno idee diverse dalle loro. In secondo luogo, questo metodo genererà probabilmente negli studenti dei modelli di pensiero molto simili a quelli che la psicoterapia cognitivo-comportamentale ha da tempo identificato come cause della depressione e dell’ansia.

    Tali modelli di pensiero si configurano come vere e proprie distorsioni cognitive, tra le quali vi sono anzitutto il ragionamento emotivo, la costante previsione di futuri eventi negativi, la tendenza ad esagerare l’importanza delle cose, il catastrofismo, nonché l’abitudine ad etichettare globalmente in modo negativo sé stessi e gli altri focalizzando l’attenzione soltanto su alcune caratteristiche di una persona.

    Secondo Lukianoff e Haidt tali modelli di pensiero sono chiaramente operanti dietro alcune pratiche che si sono diffuse nei campus americani, come ad esempio la tendenza a giudicare offensivi determinati comportamenti o parole soltanto sulla base delle reazioni emotive di chi si ritiene offeso, i trigger warning, la denuncia delle micro-aggressioni e la pratica delle disinvitations.

     

    Immagine 4 trigger warningFig.4: Un esempio di ‘trigger warning’ FonteTrigger warning, micro-aggressioni, disinvitations

    Qualche chiarimento per chi non sia già addentro a questo dibattito. Con l’espressione trigger warning ci si riferisce alla pratica molto diffusa negli Stati Uniti per cui un docente avvisa in anticipo i propri studenti che in una prossima lezione o corso affronterà un argomento, o presenterà testi o materiali didattici, che potrebbero suscitare disagio in alcuni suoi allievi. Sebbene in molti casi siano gli studenti a chiedere queste precauzioni, a volte sono le stesse autorità accademiche a raccomandare questa pratica. Ad esempio nel 2013 allo Oberlin College in Ohio una apposita commissione ha pubblicato una guida (poi ritirata per le proteste di alcuni docenti) che raccomandava di usare trigger warning prima di trattare argomenti come il classismo e i privilegi, e di eliminare completamente o rendere facoltativi i materiali che avrebbero potuto scatenare reazioni negative tra gli studenti. In altre università gli studenti hanno richiesto trigger warning per testi come Mrs. Dalloway di Virginia Woolf, in quanto avrebbe potuto incoraggiare inclinazioni al suicidio (è accaduto alla Rutgers University nel New Jersey), e le Metamorfosi di Ovidio, perché mostrano episodi di violenza sessuale (è accaduto alla Columbia University di New York).

    Il termine ‘micro-aggressioni’ ha origine, invece, negli anni Settanta e si riferiva già allora a sottili e spesso inconsapevoli provocazioni o allusioni razziste. Ma questa definizione, sostengono gli autori del saggio, si è estesa negli ultimi anni fino a comprendere virtualmente qualsiasi cosa che possa essere percepita come offensiva. Essi riportano a titolo di esempio il caso di un docente della Università di California di Los Angeles, accusato di ostilità nei confronti degli studenti di colore perché correggendo un elaborato aveva segnato come errore il fatto che la parola ‘indigeni’ fosse stata scritta con la lettera iniziale maiuscola. Persino scherzare sulle micro-aggressioni può essere considerata una micro-aggressione, come ha scoperto uno studente della Università del Michigan, il quale è stato licenziato per questo motivo dal quotidiano del campus per il quale lavorava.

    Infine, con il termine disinvitation ci riferisce alla pratica di cancellare una conferenza o un altro evento organizzato presso una università in seguito a proteste di studenti o docenti. A questo proposito gli autori riportano i dati raccolti dalla Foundation for Individual Rights in Education (FIRE), secondo la quale negli Stati Uniti tra il 2000 e il 2015 sono state lanciate almeno 240 campagne per impedire a personaggi pubblici di partecipare ad eventi nei campus. La maggior parte di questi episodi si è verificata dopo il 2009 e tra i casi più eclatanti vi sono le disinvitations dell’ex-Segretario di Stato Condoleezza Rice e della direttrice del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde entrambe avvenute nel 2014.

     

    Immagine 5 microaggressioneFig.5: Un esempio di micro-aggressione FonteLe conclusioni del saggio del 2015

    Lukianoff e Haidt concludevano il loro saggio ribadendo che i tentativi di proteggere gli studenti da parole, idee e persone che potrebbero provocare loro un disagio a livello emotivo sono un male non solo per gli studenti stessi, ma anche per il loro futuro inserimento nel mondo del lavoro e più in generale per la democrazia americana, già paralizzata da una crescente faziosità. E suggerivano diverse contromisure, come l’adozione a livello federale di una più rigorosa definizione dei comportamenti sanzionabili come molesti e offensivi e una diversa e più liberale politica da parte dei college e delle università. Questi ultimi avrebbe dovuto eliminare i codici di linguaggio, scoraggiare ufficialmente la pratica dei trigger warning e far crescere la consapevolezza dell’importanza di trovare un equilibrio tra la libertà di espressione e la necessità di far sentire ben accetti tutti gli studenti.

     

    I cambiamenti nelle università e nei college americani negli anni Duemila

    Fin qui il saggio del 2015. Ma come ho già anticipato, Greg Lukianoff ha poi ripreso e sviluppato la sua analisi secondo una diversa prospettiva in un saggio pubblicato all’inizio del 2022, incentrato non più sull’impatto emotivo e psicologico della nuova atmosfera intellettuale sulla popolazione studentesca, ma sui mutamenti avvenuti a livello amministrativo e politico nelle università e nei college americani e sulle conseguenti restrizioni alla libertà della ricerca e dell’insegnamento.

    In questo nuovo saggio, Lukianoff parte dalla distinzione tra due ‘grandi ere’ del politicamente corretto. La prima è quella che si aprì negli anni Ottanta e si concluse nel 1995 quando un tribunale decretò che il codice di linguaggio (speech code) adottato dalla Stanford Law School era incostituzionale. Seguì un lungo periodo durante il quale il politicamente corretto, scomparso dal dibattito pubblico, si sviluppò sotterraneamente nel mondo delle università, per poi riemergere clamorosamente nella seconda decade degli anni Duemila, quando ebbe inizio la seconda delle due ‘ere’.

    Secondo Lukianoff, una serie di importanti mutamenti precedettero e prepararono l’avvento della seconda stagione del politicamente corretto. Anzitutto nei primi anni Duemila aumentò il numero dei college che adottavano codici di linguaggio molto restrittivi. Parallelamente molte università introdussero appositi programmi che miravano a individuare e sanzionare i comportamenti che manifestavano una qualche forma di pregiudizio (‘bias-related incident programs’, ‘bias response teams’o BRTs). Non a caso fu in quel periodo che si cominciò a parlare di trigger warning, micro-aggressioni e disinvitations, fenomeni che ho già descritto sopra.

    Questi cambiamenti furono promossi non tanto dai docenti, ma da una classe di amministratori in forte espansione numerica. L’istruzione universitaria divenne molto più costosa e notevolmente più burocratizzata. Tra i docenti e ancor più tra gli amministratori crebbe il peso del personale di orientamento politico progressista e diminuì corrispondentemente quello dei conservatori. Infine, il National Council for Accreditation of Teacher Education (NCATE) raccomandò che ai futuri docenti fosse richiesto di dimostrare il proprio impegno a favore della giustizia sociale; e non pochi college aderirono a tale richiesta.

     

    La seconda ‘grande era’ del politicamente corretto

    Tutti questi processi ebbero una serie di effetti a cascata che, unitamente ad altri fattori come la diffusione dei social media, aiutano a spiegare l’avvento della seconda ondata del politicamente corretto che si manifestò a partire dal 2014, sia con una ripresa dell’interesse per l’argomento nel dibattito pubblico, sia con una serie di conflitti scoppiati in varie università e degenerati poi in alcuni casi anche in aperta violenza. Lukianoff cita come casi emblematici lo scontro avvenuto nel 2015 tra gli studenti e il sociologo Nicholas Christakis sui costumi di Halloween, che ho ricordato all’inizio di questo articolo, e gli episodi di violenza verificatisi nel 2017 a Berkeley e al Middlebury College nel Vermont, dove una docente di nome Allison Stanger fu aggredita e riportò gravi lesioni durante le proteste scoppiate in occasione di una conferenza del controverso politologo Charles Murray6.

    Immagine 6 protesta contro murrayFig.6: Le proteste contro Charles Murray al Middlebury College FonteNegli stessi anni aumentarono enormemente i tentativi, non di rado riusciti, di censurare docenti o altri intellettuali, impendendo loro di parlare, chiedendo loro pubbliche scuse o incoraggiando sanzioni disciplinari nei loro confronti. A partire dal 2015 vi sarebbero stati almeno 200 tentativi, dei quali 101 coronati da successo, di ottenere la revoca dell’invito a parlare pubblicamente in un campus.
    Nello stesso periodo, quindi tra il 2015 e il 2021, sono stati riferiti alla FIRE 471 tentativi di ottenere il licenziamento o la punizione di un docente universitario in contrasto con la libertà di espressione garantita dalla costituzione americana. In quasi tre quarti di questi episodi vi è stata una sanzione di qualche tipo e in 106 casi la perdita di un incarico. La frequenza di questi tentativi è enormemente aumentata da 30 nel 2015 a 122 nel 2020. E vi sono stati ben 172 docenti di ruolo che hanno ricevuto sanzioni, dei quali 27 sono stati licenziati.

     

    Le conclusioni del saggio del 2022

    Lukianoff conclude il suo saggio affermando che durante la seconda ‘grande era’ del politicamente corretto l’istruzione universitaria in America è diventata troppo costosa, troppo illiberale e troppo conformista ed è entrata in un periodo di crisi profonda, per uscire dal quale occorre agire in modo risoluto adottando urgenti contromisure.

    Le università dovrebbero abbandonare immediatamente tutti i codici di linguaggio; adottare una dichiarazione che definisca la libertà di espressione come un valore essenziale della loro missione educativa; difendere in modo chiaro e forte il diritto alla libertà di espressione degli studenti e dei docenti; insegnare la libertà di parola, il metodo della libera indagine e la libertà accademica; raccogliere dati e consentire ricerche sull’esistenza nei campus di un clima favorevole al dibattito, alla discussione e al dissenso. Infine coloro che fanno donazioni ai college dovrebbero subordinarle alla realizzazione di questi cambiamenti.

     

    Le critiche nei confronti della FIRE

    Le analisi svolte da Lukianoff, da Haidt e dalla FIRE, per quanto autorevoli, hanno comunque suscitato diverse critiche. Lo stesso Lukianoff ha riportato alcune obiezioni avanzate nei confronti di coloro che come lui hanno espresso allarme per le crescenti restrizioni alla libertà di espressione nel mondo universitario e più in generale nella società americana.

    In particolare Lukianoff ha riferito le obiezioni fatte da Adam Gurri, fondatore della rivista online “Liberal currents”, sulla quale ha pubblicato il 20/09/2021 un lungo articolo nel quale ha preso di mira soprattutto il ben noto saggio di Anne Applebaum The New Puritans. L’argomento principale di Gurri è che i critici della cancel culture sostengono tesi che non vengono dimostrate perché non tengono conto di alcune fondamentali caratteristiche e imperfezioni di tutte le società umane:

    “Tutte le relazioni sociali creano vulnerabilità e dipendenze che possono dar luogo ad abusi. Questo è un fatto fondamentale, tipico della natura sociale degli esseri umani, una condizione di base rispetto alla quale tutte le più specifiche modalità organizzative devono essere giudicate. La maggior parte dei nostri dibattiti pubblici, tuttavia, danno per scontato che la semplice occorrenza di alcune specifiche ingiustizie sia sufficiente per mettere sotto accusa l’intero sistema. Sebbene non si debba divenire arrendevoli nell’affrontare i problemi dei nostri giorni, il quesito diagnostico dovrebbe sempre essere: ‘qual è il nostro termine di confronto’?. In nessun altro caso l’incapacità di effettuare confronti ragionevoli porta più spesso a conclusioni ridicole che nel dibattito sulla ‘cancel culture’7”.

    Benché gli strali di Gurri fossero rivolti soprattutto contro la Applebaum, egli ha poi esteso le sue critiche anche ai dati raccolti dalla FIRE e riportati da Lukianoff nei suoi saggi. Scrive infatti Gurri che, tenendo conto anche dei dati raccolti da altre associazioni, il numero totale dei casi riportati dalla FIRE “è molto piccolo sia in relazione all’ampiezza delle popolazioni da cui sono tratti che in rapporto al periodo di tempo in cui sono accaduti. Se un qualsiasi altro problema nella vita sociale accadesse con questa frequenza e a questa scala, noi lo considereremmo effettivamente risolto”.

    Lukianoff ha risposto alle critiche di Gurri osservando in primo luogo che fino a poco tempo fa anche il licenziamento di un singolo docente di ruolo per le sue opinioni o pubblicazioni sarebbe stato giudicato come un fatto assai grave; il licenziamento di ben ventisette docenti di ruolo nel giro di pochi anni non ha precedenti e non può non suscitare allarme. In secondo luogo, le restrizioni alla libertà di espressione non sono uniformemente diffuse in tutte le università americane, ma si concentrano in quelle considerate migliori, cioè quelle in cui si sta formando la gran parte della futura classe dirigente del paese. Infine, afferma Lukianoff, Gurri non considera il cosiddetto chilling effect, ossia il fatto ben noto che quando le persone non sanno quali opinioni, battute scherzose o idee potrebbero metterle nei guai, tenderanno ad autocensurarsi.

     

    Dietro la campagna della FIRE ci sono i conservatori?

    Un’altra critica riguarda l’indipendenza e la neutralità politica che la FIRE, della quale Lukianoff è presidente dal 2006, ha sempre rivendicato. La natura super partes della fondazione è stata però contestata da Jim Sleeper, giornalista e scrittore, in un articolo pubblicato sulla rivista online “The American Prospect” (19/10/2016). Sleeper ha richiamato l’attenzione sul fatto che la FIRE riceve fondi cospicui da organizzazioni vicine ai conservatori come la Earhart Foundation, la Lynde and Harry Bradley Foundation e la Scaife Family Foundation. Tutte queste organizzazioni - sostiene Sleeper – alimentano l’ostilità nei confronti della political correctness presentandola come una minaccia per la libertà accademica e per l’economia di mercato. Inoltre alcuni tra i più stretti collaboratori di Lukianoff sono di orientamento conservatore. Dunque la campagna della fondazione, lungi dall’essere ispirata da un nobile ideale di libertà, avrebbe una ben precisa connotazione politica e ideologica.

    Lukianoff ha risposto a queste critiche evidenziando il fatto che lo staff della FIRE comprende collaboratori di orientamento politico molto vario e che in moltissimi casi la fondazione ha preso le difese di docenti e studenti che avevano espresso idee di sinistra o prive di una precisa connotazione politica.

    I dati e le analisi pubblicate sul sito della FIRE supportano almeno in parte le affermazioni di Lukianoff. Ad esempio nel database Scholars Under Fire sono registrati gli attacchi alla libertà di espressione subìti dai docenti di qualsiasi colore politico e, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, i docenti presi di mira per le loro idee di sinistra non sono affatto così rari e sono divenuti più numerosi negli ultimi anni. Inoltre nel suo saggio del 2022 Lukianoff ha condannato espressamente le molte iniziative prese recentemente dai repubblicani, in singoli Stati o località, per introdurre leggi o direttive che proibiscono nelle scuole la lettura di libri o addirittura la trattazione di argomenti che possono risultare diseducativi o offensivi per gli studenti.

     

    Un diverso possibile approccio al problema

    Infine una terza possibile critica nei confronti delle posizioni sostenute da Lukianoff e dai suoi collaboratori è quella che secondo cui il loro approccio, anche se evidenzia la reale difficoltà di garantire una effettiva ed ampia libertà di espressione nei college e nelle università, è comunque parziale perché non tiene conto della complessa situazione sociale, culturale e politica nella quale vanno collocate le tensioni e i conflitti registrati nei campus americani negli ultimi anni. Quest’ultima è in estrema sintesi la prospettiva adottata da PEN America, una associazione di scrittori ed artisti che si batte anch’essa da lungo tempo per la libertà di espressione negli Stati Uniti. Esamineremo in dettaglio le sue analisi in un prossimo articolo.

     


    BIBLIOGRAFIA / SITOGRAFIA

    APPLEBAUM, Anne, The New Puritans, “The Atlantic”, 31/08/2021.

    BOLLAG, Sophia, Investigators find Prof. Laura Kipnis did not violate Title IX, “The Daily Northwestern”, 05/06/2015.

    GOLDBERG, Michelle, The Middle-Aged Sadness Behind the Cancel Culture Panic, “The New York Times”, 20/09/2021.

    GURRI, Adam, The Case Not Made: A Response to Anne Applebaum's "The New Puritans", “Liberal Currents”, 20/09/2021.

    KIPNIS, Laura, Sexual Paranoia Strikes Academe, “The Chronicle of Higher Education”, 27/02/2015.

    KIPNIS, Laura, My Title IX Inquisition, “The Chronicle of Higher Education”, 29/05/2015.

    KIRCHICK, James,New Videos Show How Yale Betrayed Itself By Favoring Cry-Bullies, “Tablet”, 22/09/2016.

    LUKIANOFF, Greg – HAIDT, Jonathan,The Coddling of the American Mind, “The Atlantic”, settembre 2015.

    LUKIANOFF, Greg, Jim Sleeper Gets It Wrong in ‘The New York Times’, FIRE, 04/09/2016.

    LUKIANOFF, Greg, The Second Great Age of Political Correctness, “Reason”, gennaio 2022.

    PEN America, AND CAMPUS FOR ALL Diversity, Inclusion, and Freedom of Speech at U.S. Universities, 17/10/2016.

    PEN America, CHASM IN THE CLASSROOM. Campus Free Speech in a Divided America, 02/04/2019.

    RIZZACASA D’ORSOGNA, Costanza, Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana, Bari-Roma, Laterza, 2022.

    SLEEPER, JIM, Political Correctness and Its Real Enemies, “The New York Times”, 03/09/2016.

    SLEEPER, JIM, The Conservatives Behind the Campus ‘Free Speech’ Crusade, “The American Prospect”, 19/10/2016.

     

    Note

    1 Ringrazio Steven C. Hughes, professore emerito di storia della Loyola University Maryland, per aver letto e commentato questo articolo e per le sue preziose indicazioni in merito al dibattito sullacancel culture negli Stati Uniti.

    2 Una accurata ricostruzione di questa controversia si può leggere in PEN America,AND CAMPUS FOR ALL Diversity, Inclusion, and Freedom of Speech at U.S. Universities, 17/10/2016, pp. 59-63. 

    3 Anche questa vicenda è stata ricostruita in modo assai dettagliato e preciso in PEN America, AND CAMPUS FOR ALL, cit., pp. 46-51

    4 Questo caso è stato riportato in PEN America, CHASM IN THE CLASSROOM. Campus Free Speech in a Divided America, 02/04/2019, pp. 30-31. 

    5 Lukianoff ha affrontato queste tematiche anche in numerose altre pubblicazioni. Ma qui per esigenze di sintesi mi soffermo soltanto su questi due testi. Sulle tesi di Lukianoff vedi anche l’intervista da lui rilasciata a Costanza Rizzacasa D’Orsogna e da lei riportata nel suo libro Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana, Bari-Roma, Laterza, 2022, pp. 29-38. 

    6 Vedi anche su questo episodio PEN America, CHASM IN THE CLASSROOM, cit., p. 30.

    7 È mia la traduzione dall’inglese di questo brano e di quello riportato nel capoverso immediatamente successivo.

  • La libertà di espressione nelle università e nei college americani/2

    di Daniele Boschi

    Come abbiamo visto nel mio precedente articolo del 6 marzo 2024, la Foundation for Individual Rights and Expression (FIRE) è una delle principali organizzazioni che si battono per la libertà di espressione negli Stati Uniti d’America. Ve ne sono però diverse altre e tra queste PEN America, una associazione nata nel 1922 con lo scopo di promuovere il diritto di scrivere liberamente. PEN era infatti in origine un acronimo che stava per Poets, Essayists, Novelists, ma ora non è più considerato tale, essendosi di molto ampliate le categorie di persone che PEN mira a rappresentare: non più soltanto scrittori in senso stretto, ma anche giornalisti, editori, traduttori e altre persone ancora, compresi i semplici lettori.

    Immagine 1 Suzanne nosselFig.1: Suzanne Nossel, Chief Executive Officer di PEN America FonteNegli ultimi anni PEN America ha dedicato molta attenzione alle controversie nate nei campus americani attorno alla questione del free speech. L’organizzazione ha svolto molte ricerche e numerose indagini sul campo, dialogando con amministratori, docenti e studenti di molte università americane. Ne sono nati parecchi articoli e rapporti pubblicati sul sito dell’associazione. Tra questi vanno segnalati in particolare due rapporti che hanno affrontato in termini generali il tema della libertà di espressione nelle università e nei college americani e sono stati pubblicati rispettivamente nel 2016 e nel 2019. In questo articolo descriverò il contenuto di questi due testi e accennerò ad alcune delle reazioni che hanno suscitato.

     

    Il primo rapporto: AND CAMPUS FOR ALL

    Il primo rapporto si intitola AND CAMPUS FOR ALL. Diversity, Inclusion, and Freedom of Speech at U.S. Universities ed è stato pubblicato nel 2016. È un testo di oltre settanta pagine che ha il grande merito di ricostruire in modo assai dettagliato le circostanze e gli episodi che sembrano aver messo a rischio la libertà di espressione nei campus americani, e di riferire le analisi e i dibattiti che su questo tema si sono moltiplicati sulla carta stampata e sul web nel periodo compreso grosso modo tra il 2011 e il 2016.

    Fin dalle prime pagine il rapporto di PEN America sottolinea che il tema del free speech nelle università e nei college americani deve essere affrontato tenendo conto degli enormi cambiamenti avvenuti nella popolazione statunitense, nella popolazione studentesca e nella mentalità collettiva negli ultimi cinquanta o sessant’anni.

    I bianchi, che nel 1960 rappresentavano l’85% della popolazione degli Stati Uniti, sono scesi al 64% nel 2010, a fronte di un 16% di ispanici, di un 12% di neri e di un 5% di asiatici. Nello stesso arco di tempo è cambiata anche la composizione della popolazione dei college. Secondo il National Center for Education Statistics, dal 1976 al 2013 la percentuale degli studenti ispanici è cresciuta dal 4 al 16 per cento, quella degli studenti neri dal 10 al 15 per cento e quella degli studenti asiatici dal 2 al 6 per cento. Sono stati inoltre riconosciuti e ampliati i diritti degli studenti che hanno un orientamento sessuale o un’identità di genere diversi da quelli della maggioranza delle persone. Era inevitabile che questi enormi cambiamenti modificassero anche le politiche e le regole adottate dai college e dalle università, che hanno da lungo tempo riconosciuto l’imperativo di diversificare la popolazione studentesca, di rendere i campus più aperti e accoglienti per studenti con differenti background, e di creare curricoli e approcci didattici che preparino i giovani a diventare adulti in una nazione e in un mondo sempre più eterogenei e compositi.

    Ma la diversificazione della popolazione studentesca e della nazione nel suo complesso ha fatto anche sorgere molte controversie e conflitti, che riguardano le modalità con cui la società americana può tutelare e ampliare i diritti di tutti, divenendo sempre più aperta e inclusiva, senza però introdurre nuove forme di intolleranza o di censura che ledano il fondamentale diritto alla libertà di pensiero e di espressione.

     

    Controversie, conflitti, nuove pratiche

    A questo proposito il rapporto propone una tassonomia delle diverse categorie di controversie o conflitti avvenuti nei campus americani negli ultimi anni:
    - le proteste contro le persone invitate nelle università per tenere discorsi o ricevere titoli onorifici;
    - la richiesta di modificare denominazioni e simboli che rievocano il passato schiavista e razzista degli Stati Uniti;
    - i tentativi di limitare la libertà di opinione di docenti o studenti e nel caso dei docenti la loro stessa libertà accademica;
    - l’ampliamento della lista delle opinioni che si ritengono assolutamente inammissibili e impronunciabili.

    Immagine 2 Christine LagardeFig.2: Christine Lagarde, all’epoca direttrice del FMI, ha rinunciato nel 2014 a tenere un discorso presso lo Smith College nel Massachusetts dopo le proteste degli studenti FontePer ciascuna di queste categorie di conflitti si riportano a titolo di esempio alcuni eventi accaduti nei campus.

    Si descrivono poi le nuove pratiche che si sono diffuse nei campus per prevenire i danni che potrebbero essere arrecati da un uso scorretto o offensivo del linguaggio o da attività didattiche su temi sensibili: la campagna contro le micro-aggressioni, i trigger warning, la creazione di ‘spazi sicuri’ (safe spaces). Di nuovo si riferiscono alcuni episodi avvenuti nei campus e soprattutto le argomentazioni pro e contro ciascuna di queste pratiche. Un intero capitolo viene dedicato alle controversie riguardanti il tema delle molestie sessuali.

     

    Due opposte interpretazioni

    Successivamente, nella parte centrale del rapporto, si mettono a confronto le due opposte e più generali interpretazioni che sono state date rispetto a questa complessa situazione che si è venuta a creare nei campus.

    Da una parte vi sono coloro che affermano che è stata istituita una sorta di polizia del pensiero che agisce con metodi dittatoriali; che si è promossa una cultura del vittimismo che indebitamente considera come violenza psicologica l’inevitabile disagio emotivo provocato da un vivace dibattito intellettuale; che tutto ciò si ripercuote a danno degli stessi studenti, sia limitando la loro libertà di pensiero e di azione, sia rendendoli meno pronti ad affrontare il mondo che li aspetta al di fuori dello spazio protetto e del ristretto orizzonte delle loro università.

    Sul fronte opposto, invece, vi sono i commentatori che sottolineano che il principale obiettivo delle proteste esplose nei campus è quello di lottare contro le persistenti manifestazioni di razzismo, sessismo e altre forme di disuguaglianza; che sebbene in alcuni casi vi siano state manifestazioni di intolleranza, questi eccessi non devono oscurare il significato enormemente positivo di queste mobilitazioni e dei dibattiti che hanno suscitato; e che nel complesso la libertà di parola non è stata compressa, ma anzi ampliata perché si è data voce a persone e gruppi sociali finora marginalizzati o discriminati. Non pochi si spingono ancora oltre, affermando che la campagna per il diritto alla libertà di espressione non è altro che una manovra diversiva messa in atto da gruppi e intellettuali conservatori per ostacolare e contrastare la battaglia per una società più equa e inclusiva.

    Qui di seguito riporto alcune prese di posizione che illustrano queste due opposte correnti di pensiero, traendo le citazioni dal rapporto di PEN America.

     

    Prima tesi: nei campus americani la libertà di espressione è in pericolo e con essa la preparazione delle future classi dirigenti

    Nell’ottobre del 2015 un’editoriale di Catherine Rampell sul “Washington Post” ha così commentato alcuni fatti accaduti alla Wesleyan University nel Connecticut:

    “Stroncare la libertà di esprimere opinioni impopolari è una lezione terribile da mandare a menti sensibili e a futuri leader, alla Wesleyan come altrove. Insegna agli studenti che il dissenso sarà punito, che piuttosto che alzare la testa, essi dovrebbero abituarsi ad abbassarla. Insegna loro, inoltre, che potrebbero essere troppo fragili per tollerare parole che li fanno sentire a disagio; che invece di confutare, essi dovrebbero mettere a tacere, togliere fondi, distruggere, disinvitare”1.

    Un mese dopo sulla rivista “New York” Jonathan Chait ha esposto i rischi che la political correctness comporta per la democrazia americana, scrivendo quanto segue:

    “Negli Stati Uniti la political correctness non ha mai ovviamente perpetrato le brutalità di un governo comunista, ma non ha neanche mai acquistato i poteri che si accompagnano a un totale controllo della macchina dello stato. La continua sequenza di reazioni di sdegno che essa genera su piccola scala è la prova di un atteggiamento illiberale che in essa è profondamente radicato”.

    Immagine 3. Jonathan ChaitFig.3: Jonathan Chait, editorialista e scrittore molto critico nei confronti del ‘politicamente corretto’ FonteNell’agosto del 2014 una commissione della American Association of University Professors ha pubblicato un rapporto sui trigger warning in cui ha espresso questa preoccupazione:

    “Il presupposto secondo cui in classe gli studenti devono essere protetti piuttosto che sfidati è allo stesso tempo infantilizzante e anti-intellettuale. Esso mette il comfort al primo posto rispetto all’impegno intellettuale … Una qualche misura di disagio è inevitabile durante le lezioni, se l’obiettivo è esporre gli studenti a nuove idee e spingerli a mettere in discussione le credenze che hanno dato per scontate, ad affrontare problemi etici che non hanno mai considerato e, più in generale, ad espandere i propri orizzonti affinché diventino cittadini informati e responsabili in un paese democratico”.

     

    Seconda tesi: la posta in gioco non è la libertà di espressione, ma la costruzione di una società più equa e inclusiva

    Aaron Lewis, uno studente dell’università di Yale, ha scritto su “Quartz” il 10/11/2015 a proposito delle controversie relative alla questione dei costumi di Halloween2:

    “Le proteste non riguardano veramente i costumi di Halloween o la festa di una confraternita studentesca. Riguardano la scarsa corrispondenza tra il modo in cui l’università di Yale viene presentata negli opuscoli al momento dell’iscrizione e il modo in cui la viviamo tutti i giorni. Riguardano la realtà del razzismo in questo campus, che per troppo tempo non è stata riconosciuta. L’università vende se stessa come un posto accogliente e inclusivo per persone che vengono da qualsiasi background, ma spesso purtroppo non lo è”.

    In un intervento pubblicato sul “New York Times” nel maggio del 2014 Henry Reichman, professore emerito alla California State University, ha fatto notare che nelle proteste studentesche dei nostri giorni non c’è niente di particolarmente nuovo:

    “In occasione del discorso inaugurale, al quale ho assistito da studente quarantacinque anni fa, gli studenti neolaureati protestarono silenziosamente uscendo dall’aula quando parlò il presidente dell’università, che era considerato un sostenitore della guerra del Vietnam. La libertà accademica è sopravvissuta. … In realtà dovrebbe essere incoraggiante per noi il fatto che gli studenti siano coinvolti e desiderosi di sostenere il loro punto di vista senza accettare passivamente le scelte imposte da altri. La protesta, dopo tutto, è un elemento vitale di quello stesso spirito democratico che il nostro sistema universitario cerca di coltivare”.

    Immagine 4 protesta studentescaFig.4: Una protesta studentesca contro il razzismo all’Università del Minnesota a Minneapolis nel 2016 FonteInfine, Jon Gould, docente alla American University di Washington, in un articolo pubblicato su “The Hill” il 17/11/2015, ha sostenuto che la campagna sul free speech distoglie l’attenzione dal ben più importante tema del razzismo:

    “Quando si sposta l’attenzione sulle restrizioni alla libertà di espressione, si perde di vista la più ampia vicenda che ha dato origine all’attivismo degli studenti. Già negli anni Ottanta gli studenti di colore protestavano contro il razzismo soft delle derisioni, delle provocazioni, delle offese, eppure trent’anni dopo stiamo ancora qui a parlare degli stessi comportamenti. Certamente li definiamo con nomi differenti, come pregiudizi impliciti o micro-aggressioni, ma quando il presidente del corpo studentesco dell’università del Missouri riferisce i molteplici insulti razzisti scagliati contro di lui, quando una svastica disegnata con degli escrementi compare sulla parete di un dormitorio, quando la polizia fa alcuni arresti per minacce di morte contro studenti afro-americani, è evidente che i college hanno ancora molto da fare per respingere il razzismo e gli atti di odio”.

     

    La posizione di PEN America

    Rispetto ai due opposti schieramenti PEN America ha assunto una posizione intermedia. Da un lato essa afferma che la libertà di espressione nei campus americani non è affatto in crisi, ma è ben viva e gode di buona salute; ma, dall’altro lato, essa riconosce che vi sono stati dei casi in cui la libertà di espressione è stata limitata in modo abbastanza inquietante. La libertà di parola dovrebbe essere quindi meglio protetta, salvaguardata e ampliata. Tutte le parti coinvolte – dirigenti delle università, personale amministrativo, studenti e docenti - dovrebbero impegnarsi affinché il legittimo e lodevole sforzo di creare nei campus un ambiente più inclusivo e rispettoso dei diritti delle minoranze e dei gruppi storicamente discriminati non porti a comprimere la libertà di pensiero e di espressione, anche quando le parole e le opinioni possono essere, o sembrare, provocatorie e offensive.

    Il rapporto prende poi posizione e fornisce indicazioni e consigli pratici in merito ai diversi aspetti delle controversie che si sono accese nei campus negli ultimi anni. Riporto in sintesi i principali suggerimenti, perché esprimono bene la posizione assai articolata e sfumata di PEN America:

    - quando una personalità esterna all’università è stata invitata a tenere un discorso, eventuali proteste non sono quasi mai una buona ragione per revocare l’invito, e non lo è nemmeno il pericolo che possano scoppiare violenze; ma anche i contestatori hanno diritto alla libertà di parola e quindi anche le proteste devono essere permesse, purché non si arrivi fino al punto di impedire all’oratore di parlare;
    - in linea di massima nessun docente o studente dovrebbe essere mai sanzionato o punito per le cose che ha detto o scritto, in tutti i casi in cui la libertà di espressione è protetta dalla legge; anche la richiesta di sanzioni è un modo di esercitare la libertà di parola, ma bisogna essere consapevoli che richieste di questo tipo tendono a soffocare il libero dibattito;
    - i singoli docenti devono sentirsi liberi di usare i trigger warning, ma le università non dovrebbero mai raccomandare o incoraggiare questa pratica;
    - dato il carattere sempre più eterogeneo e composito della popolazione studentesca, le università dovrebbero incoraggiare un uso attento e rispettoso del linguaggio, senza però arrivare a definire nel dettaglio quali parole o insulti devono essere vietati nella conversazione quotidiana perché così facendo rischierebbero di comprimere la libertà di espressione;
    - non c’è alcuna contraddizione tra l’adozione di politiche più rigorose contro le molestie e gli abusi sessuali e la tutela della libertà di parola; tuttavia lo Office for Civil Rights del Department of Education dovrebbe chiarire che la presunta creazione di un ‘ambiente ostile’ per mezzo di discorsi a sfondo sessuale non può essere considerata come una forma di molestia unicamente sulla base di impressioni soggettive circa il carattere offensivo di un discorso.

    Immagine 6. Campagna vs hate speechFig.5: La campagna per il ‘free speech’ all’università di Berkeley in California nel 1964 FonteNella sua parte finale il rapporto di PEN America mostra apprezzamento per il lavoro svolto dalla Foundation for Individual Rights in Education (FIRE), aggiungendo però che questa fondazione è considerata da molti come una organizzazione ‘libertaria’3 o conservatrice. E poiché la FIRE svolge un ruolo di primo piano nella campagna per il free speech, e dato che alcuni dei più vigorosi promotori di questa campagna sono effettivamente ‘libertari’ o conservatori, questa battaglia viene da molti considerata come parte dell’agenda politica della destra. Eppure, sottolinea il rapporto:

    “la libertà di espressione storicamente ha goduto dell’appoggio di sostenitori provenienti da una vasta gamma di posizioni politiche e dovrebbe continuare ad essere così. Tutti i gruppi che appoggiano la libertà di espressione dovrebbero raddoppiare i loro sforzi per garantire che la libertà di parola sia una causa che sta a cuore agli studenti di qualsiasi posizione politica”4.

     

    Le reazioni al primo rapporto di PEN America

    Tra le reazioni a questo primo rapporto di PEN America va segnalata quella della Foundation for Individual Rights in Education (FIRE), che lo ha commentato positivamente con un post di Will Creeley pubblicato il 20/10/2016. Creeley afferma che il rapporto di PEN America è rigoroso, equilibrato e completo, e osserva che su molti aspetti controversi la posizione di PEN America è molto vicina a quella della FIRE. Solo due sono i punti di disaccordo. In primo luogo PEN America lascia intendere che la FIRE aderisca a un’ideologia ‘libertaria’ o conservatrice, laddove la FIRE rivendica orgogliosamente di aver sempre tutelato la libertà di parola prescindendo dal punto di vista, dall’ideologia e dall’identità delle persone prese di mira, e di avere spesso difeso docenti e studenti progressisti. In secondo luogo, PEN America, a differenza della FIRE, nega che esista una vera e propria ‘crisi’ della libertà di parola nelle università e nei college americani; Creeley ritiene tuttavia che questa divergenza abbia poca importanza sul piano pratico, dato che entrambe le organizzazioni sostengono la necessità di una vigorosa battaglia in difesa della libertà di espressione.

    Meno conciliante è stata invece la reazione di altri analisti. Ad esempio Floyd Abrams, avvocato in prima linea nella lotta per la difesa del Primo Emendamento, intervistato dal “New York Times” il 16/10/2016, ha detto che è difficile leggere una descrizione così straordinariamente efficace dei fatti accaduti nei campus americani, come quella presentata da PEN America, senza concludere che sia in atto una crisi di grandi proporzioni. Sulla stessa linea anche Robby Soave che in un articolo pubblicato sulla rivista “Reason” il 21/10/2016, dopo essersi dichiarato d’accordo con Floyd Abrams, afferma che il rapporto di PEN America è un documento ammirevole che indica soluzioni ragionevoli per i problemi nei campus, ma ciononostante in alcuni punti è troppo accondiscendente nei confronti delle posizioni di alcuni gruppi studenteschi.

     

    Il secondo rapporto di PEN America: CHASM IN THE CLASSROOM

    Il secondo rapporto di PEN America, pubblicato nel 2019, si intitola CHASM IN THE CLASSROOM. Campus Free Speech in a Divided America e differisce notevolmente dal precedente, perché mette in primo piano il cambiamento del clima politico e culturale avvenuto in seguito alle elezioni presidenziali del 2016 e l’impatto di tale mutamento sulla vita dei college e delle università.

    Già nella presentazione del testo sul sito della associazione leggiamo che il rapporto, pubblicato poco dopo l’emanazione di un decreto del Presidente Donald Trump sulla libertà di parola nei campus, mira anzitutto a smontare la tesi dell’amministrazione Trump secondo cui le minacce alla libertà di espressione vengono soltanto dalla sinistra. Si afferma inoltre che il nuovo studio demolisce i miti, le rappresentazioni caricaturali e la cattiva informazione che caratterizzano gran parte del dibattito pubblico e dimostra che molte controversie insorte negli ultimi anni nei college e nelle università scaturiscono da tensioni tra i princìpi della libertà di espressione, dell’uguaglianza e dell’inclusione.

    Sono due a mio avviso le principali novità osservate nei campus rispetto agli anni precedenti: l’aumento dei discorsi e dei crimini di odio e un generale inasprimento delle polemiche e dello scontro politico. Nel nuovo studio vengono inoltre approfonditi molti aspetti non trattati, o appena accennati, nel rapporto del 2016 e tra questi l’opinione degli studenti e gli interventi legislativi a sostegno della libertà di parola nei college e nelle università.

     

    L’aumento dei discorsi e dei crimini di odio

    CHASM IN THE CLASSROOM richiama anzitutto l’attenzione sul fatto che, dopo l’elezione di Donald Trump nel 2016, sono aumentati i discorsi e i crimini di odio e diversi gruppi estremisti, come i cosiddetti suprematisti bianchi, hanno acquistato maggiore spazio. Questo è accaduto in generale nella società americana e di riflesso anche nei college e nelle università. I crimini di odio perpetrati nei campus e denunciati alla FBI sono aumentati da 194 nel 2015 a 257 nel 2016; e sono saliti a quasi 280 nel 2017. Ad essere presi mira sono stati di volta in volta studenti e studentesse di colore, di religione ebraica o musulmana, omosessuali e transessuali. Nell’anno accademico 2017-18 sono stati riportati circa 300 episodi di diffusione di messaggi di odio, mediante volantini, poster e simili, da parte di gruppi suprematisti bianchi, con un aumento del 77% rispetto all’anno precedente.

    Immagine 6. Campagna vs hate speechFig.6: La campagna conto lo ‘hate speech’ FonteTutto ciò ha portato molti studenti appartenenti a gruppi minoritari o storicamente svantaggiati a sentirsi più insicuri, vulnerabili, e discriminati. È aumentata quindi la pressione sugli amministratori delle università e dei college affinché adottassero politiche più restrittive circa i limiti della libertà di espressione e sanzionassero docenti e studenti accusati di aver tenuto discorsi di odio. Tuttavia, secondo non pochi commentatori, non è facile stabilire che cosa sia esattamente un discorso di odio distinguendolo dalla semplice espressione o propaganda di opinioni e idee politiche o personali, che negli Stati Uniti è protetta dal Primo Emendamento. Ad esempio, alcuni possono sentirsi offesi da uno slogan come ‘Make America great again’, ma se questo venisse definito e sanzionato come discorso di odio si aprirebbe la strada a gravi limitazioni alla libertà di espressione. Dopo aver riportato le diverse opinioni in materia, il rapporto di PEN America conclude su questo punto nel seguente modo:

    “Date queste preoccupazioni, e la probabilità che la censura di alcune idee porti facilmente alla richiesta di censurarne altre, PEN America ritiene che sia meglio permettere l’espressione di idee nocive piuttosto che aprire un varco alla repressione. Tuttavia, gli studenti hanno ragione nel domandare che i discorsi di odio debbano provocare una forte reazione da parte di coloro che dirigono i campus, i quali hanno la responsabilità morale di sostenere valori come l’equità e l’inclusione. Forti reazioni sono possibili senza entrare in conflitto col Primo Emendamento”5.

     

    L’inasprimento delle polemiche e dello scontro politico

    Nel periodo compreso tra il 2016 e il 2018 vi sono stati, come negli anni immediatamente precedenti, numerosi casi in cui un invito rivolto da un campus a uno speaker controverso ha suscitato proteste che hanno portato alla cancellazione dell’invito o al tentativo di mettere a tacere lo speaker mentre parlava. Simili eventi non hanno nulla di nuovo, ma in alcuni casi le polemiche sono state più accese che in passato e vi sono stati anche episodi di violenza fisica. Oltre a fare una nuova rassegna di questo genere di eventi, il rapporto mette in evidenza anche il fatto che alcuni speaker, soprattutto di orientamento conservatore, si sono specializzati nel proporre e tenere discorsi che hanno un deliberato intento provocatorio, piuttosto che essere diretti ad allargare le prospettive degli ascoltatori e a suscitare un vero dibattito. Tra questi professionisti della provocazione ci sono il giornalista Milo Yiannopoulos e il presidente del National Policy Institute Richard Spencer. Entrambi sono stati invitati a parlare in diverse università suscitando proteste che hanno determinato in alcuni casi la cancellazione dell’evento.

    Inoltre, tra il 2016 e il 2018 vi sono stati ancora parecchi casi di critiche e contestazioni, non di rado accompagnati dalla richiesta di provvedimenti disciplinari, contro docenti accusati di aver fatto discorsi o espresso opinioni giudicati offensivi e inammissibili. Sebbene questi attacchi siano venuti sia da sinistra che da destra, il rapporto sottolinea in modo particolare il ruolo svolto da diversi organi di informazione e associazioni non profit di orientamento conservatore, che hanno alimentato campagne dai toni molto accesi rivolte a dimostrare l’esistenza di un liberal bias nell’insegnamento universitario, dato che i docenti sono in gran parte di sinistra.

    Immagine 7. feminism is cancerFig.7: Milo Yiannopoulos all’università di Berkeley in California (24 settembre 2017) FonteTra gli organi di informazione che hanno alimentato queste campagne vi sono “Fox News”, “Breitbart”, “The Daily Caller”, “The Blaze” e “The Red Elephants”. Tra le associazioni non profit il rapporto cita il Leadership Institute, che ha creato nel 2015 un apposito sito web denominato Campus Reform. In alcuni casi i docenti presi di mira hanno subito molestie o minacce online, oppure sono stati oggetto di indagini e provvedimenti disciplinari da parte della propria università.

    Sembra insomma che i conservatori, pur continuando ad accusare i progressisti di voler soffocare la libertà di espressione nel mondo accademico e non solo, abbiano poi cominciato ad usare le stesse armi di cui deploravano e deplorano l’uso da parte dei loro avversari politici. Tanto è vero che anche Greg Lukianoff, il presidente della FIRE, che è accusato da alcuni di essere un conservatore, ha segnalato questa tendenza nel suo saggio del 2022 (sul quale vedi questo mio articolo su HL).

     

    L’opinione degli studenti

    Poiché diversi studiosi hanno sostenuto che le università e i college hanno introdotto varie restrizioni alla libertà di espressione per lenire il disagio degli studenti o per venire incontro alle loro proteste, non è privo di interesse cercare di capire che cosa pensino gli studenti stessi in merito alla situazione dei campus.

    Il rapporto di PEN America prende in esame i risultati di diversi sondaggi, che gettano luce solo parzialmente su una situazione che è resa assai complessa dalla sempre maggiore disomogeneità della popolazione studentesca. Da un lato risulta che la grande maggioranza degli studenti attribuisce grande valore alla libertà di espressione. Ma dall’altro lato si riscontra che molti di loro si dichiarano favorevoli all’adozione nei campus di codici di linguaggio e di altre politiche restrittive della libertà di parola. PEN America considera problematici questi risultati, perché implicano che molti studenti non si rendano conto di fornire risposte contraddittorie, oppure non capiscano quale sia l’elevato livello di protezione garantito alla libertà di parola dal Primo Emendamento. Ancora più allarmante è il fatto che una parte rilevante, anche se minoritaria, degli studenti affermi che sia giustificato rispondere con la violenza fisica a discorsi di odio o di contenuto razzista.

    È possibile però che questi sondaggi non siano lo strumento più adeguato per comprendere e rappresentare in modo adeguato ciò che davvero pensano gli studenti. Recenti ricerche basate sul metodo dell’intervista aperta dimostrano che molti studenti si rendono conto abbastanza bene della complessità e della delicatezza delle questioni sollevate dalle più recenti controversie e agitazioni scoppiate nei campus. E se alcuni di loro mostrano qualche grado di incertezza e confusione circa l’importanza del Primo Emendamento, questa è solo una ragione di più per potenziare nelle università e nei college una campagna per la difesa della libertà di espressione, che faccia meglio comprendere che essa non è in contrasto con altri valori sociali, ma è un prerequisito fondamentale della democrazia.

     

    Gli interventi legislativi a sostegno della libertà di parola nei college e nelle università

    A partire dal 2017 vi sono state diverse proposte di legge e interventi legislativi rivolti a definire meglio e a proteggere la libertà di espressione nelle università e più in particolare la libertà accademica.

    In parecchi Stati sono state proposte leggi che si ispiravano a modelli come il Campus Free Speech Act redatto dal Goldwater Institute, un think tank di orientamento libertario, o il FORUM Act, redatto dallo American Legislative Exchange Council. PEN America ha analizzato 37 proposte di legge ispirate a questi modelli, 11 delle quali sono state poi tradotte in provvedimenti legislativi in singoli Stati. Sulla base di un’attenta e circonstanziata analisi di questi testi, PEN America, pur condividendo in parte il loro contenuto, ritiene che stabilire mediante apposite norme di legge i limiti della libertà accademica porti con sé il pericolo che la sorveglianza esercitata dai governi sull’applicazione di tali norme possa indurre poi in alcuni casi, anche contro le intenzioni dei legislatori, a comprimere piuttosto che a tutelare meglio la libertà di espressione.

    Sotto l’amministrazione Trump vi sono stati poi interventi diretti del governo federale rivolti a tutelare la libertà di parola e di ricerca nelle università e nei college. Il Dipartimento della giustizia è sceso in campo in diversi casi per difendere la libertà di parola contro eccessive ingerenze da parte delle autorità accademiche. In sé e per sé tali interventi appaiono lodevoli, ma secondo PEN America non si può fare a meno di constatare la natura faziosa della retorica che li ha accompagnati e il mancato intervento dell’amministrazione Trump in alcuni casi di palese violazione della libertà di espressione di docenti e studenti di sinistra.

    Anche altri interventi dell’amministrazione Trump, come il tentativo di riscrivere le linee guida per l’applicazione della legge contro le discriminazioni sessuali nelle scuole e nelle università, e soprattutto l’ordine esecutivo emesso dal presidente Trump intitolato “Improving Free Inquiry, Transparency, and Accountability at Colleges and Universities” rischiano, secondo PEN America e stando anche alle critiche espresse da altri commentatori, di creare problemi più gravi di quelli che vorrebbero risolvere.

     

    Conclusione

    Fin qui il secondo rapporto di PEN America pubblicato al principio del 2019. Negli anni successivi la situazione dei campus si è poi ulteriormente complicata, dapprima per la nuova ondata di proteste del movimento Black Lives Matter dopo l’uccisione di George Floyd, e da ultimo per le controversie nate dopo l’attacco di Hamas a Israele lo scorso 7 ottobre e la furibonda reazione del governo di Netanyahu. Anche il dibattito sulla libertà di espressione nei campus è andato avanti, confluendo nella più generale controversia sul politicamente corretto e sulla cancel culture. Questa controversia, se la osserviamo e la analizziamo con riferimento a situazioni concrete, come abbiamo fatto soffermandoci a lungo sul mondo dei college e delle università americane, presenta problematiche molto più delicate e complesse di quanto a volte non traspaia nel dibattito pubblico. Prestare attenzione ai fatti, al loro contesto e alle diverse possibili interpretazioni: è questo il contributo che noi storici possiamo dare anche quando il nostro sguardo si posa sull’attualità piuttosto che sul passato più lontano.

     


     

    SITOGRAFIA

    AMERICAN ASSOCIATION OF UNIVERSITY PROFESSORS, On Trigger Warnings, agosto 2014.

    BAUER-WOLF, Jeremy, Report: No ‘Crisis’ in Free Speech, “Inside Higher Ed”, 02/04/2019.

    CHAIT, Jonathan, Can We Start Taking Political Correctness Seriously Now?, “The New York”, 10/11/2015.

    CREELEY, Will, Reviewing PEN America’s Campus Free Speech Report, FIRE, 20/10/2016.

    GOULD, Jon, Getting the story wrong on campus racism, “The Hill”, 17/11/2015.

    LEWIS, Aaron, I’m a Yale student, and this school’s problems with race go much deeper than Halloween costumes, “Quartz”, 10/11/2015.

    LUKIANOFF, Greg, The Second Great Age of Political Correctness, “Reason”, gennaio 2022.

    MANGAN, Katherine, If There Is a Free-Speech ‘Crisis’ on Campus, PEN America Says, Lawmakers Are Making It Worse, “The Chronicle of Higher Education”, 02/04/2019.

    NIELSEN, Laura Beth, Space, Speech, and Subordination on the College Campus, “The Smart Set”, 16/05/2016.

    PEN America, AND CAMPUS FOR ALL Diversity, Inclusion, and Freedom of Speech at U.S. Universities, 17/10/2016.

    PEN America, Chasm in the Classroom. Campus Free Speech in a Divided America, 02/04/2019.

    RAMPELL, Catherine, Free speech is flunking out on college campuses, “The Washington Post”, 22/10/2015.

    REICHMAN, Henry, Protesting a Graduation Speaker Is a Sign of a Healthy Democracy, “The New York Times”, 19/05/2014.

    SOAVE, Robby, PEN America's Report on Campus Free Speech Gets the Yale Debacle Really Wrong, “Reason”, 21/10/2016.

     

    Note

    1 È mia la traduzione dall’inglese di questo brano e di quelli successivi riportati tra virgolette.

    2 Vedi il mio articolo pubblicato su HL il 6 marzo 2024.

    3 Il termine ‘libertario’ (libertarian) allude genericamente a quelle correnti di pensiero politico che tendono ad assolutizzare i diritti individuali e a nutrire la massima fiducia nel libero mercato, mirando quindi a ridurre il più possibile l’intervento dello Stato nelle diverse sfere della vita collettiva. 

    PEN America, AND CAMPUS FOR ALL. Diversity, Inclusion, and Freedom of Speech at U.S. Universities, 17/10/2016, p. 77.

    5 PEN America, CHASM IN THE CLASSROOM. Campus Free Speech in a Divided America, 02/04/2019, p. 19. 

     

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