storia contemporanea

  • Quando l’Italia aveva le colonie. Uno strumento utile per studiare una storia spesso trascurata.

    di Maria Laura Cornelli e Daniela Rosa

    Mohamed Aden Sheikh ricordava nelle sue memorie che, studente di medicina in Italia negli anni Cinquanta, spesso gli veniva chiesto dove si trovasse la Somalia: quando rispondeva che era un’isola dei Caraibi «nessuno batteva ciglio. Rarissimi erano gli italiani che avessero una conoscenza, anche vaga, dell’Africa e della sua storia»1. Sono passati oltre sessant’anni, ma la conoscenza della storia coloniale ita­liana non è di certo aumentata, nonostante i risultati di una storiografia sempre più attenta, ed è ancora molto diffuso lo stereotipo del “buon italiano” che ha costruito strade e reso feconde lande desolate.

    Nella convinzione che solo una conoscenza non superficiale di questa parte della storia dell’Italia unitaria permetta di comprendere gli strascichi che ancora permangono, più o meno evidenti2 o latenti, nel nostro paese e di sfatare alcuni miti, le autrici, già docenti di storia, hanno pensato a un testo che ne fornisse una visione complessiva e documentata. Quando l’Italia aveva le colonie, pubblicato in due volumi da Edizioni Conoscenza, si collo­ca tra una storiografia specialistica – a partire dalle opere di Angelo Del Boca, Giorgio Rochat, Nicola Labanca e Gian Paolo Calchi Novati – e una pubblicistica spesso estemporanea. Il testo intreccia narrazione, fonti d’epoca e brani storiografici. Riporta, dunque, documenti, carte e immagini che possono costituire un materiale utile per attività di laboratorio. Infatti è rivolto a lettori non specialisti, interessati alla storia, ma soprattutto a docenti e a studenti della secondaria di secondo grado e dell’università, ed è motivato non solo dall’interesse per un importante fenomeno storico, ma anche da un intento civile: «Ripensare esplicitamente e autocriticamente la storia del colonialismo è una straordinaria occasione per agire sulla nostra cultura.»3.

    01Fig. 1 Copertina del primo volume Fonte L’immagine sotto il titolo è tratta da Eligio Klein, L’Italia guerriera, Capodistria, Scuola tip. ed. Focardi, 1936, p. 61 Lo sfondo rappresenta la battaglia di Adua, da uno schizzo di Edoardo Ximenes, in La guerra italo abissina. 1895-1896. Documentata e illustrata, Milano, Fratelli Treves, 1896, pp. 180-181.Nel primo volume – Una storia lunga quasi un secolo. 1869-1960 – cinque capitoli ripercorrono le fasi dell’espansione coloniale, dal suo avvio alla perdita delle colonie e all’amministrazione fiduciaria della Somalia: una cronologia sintetica alla conclusione di ogni capitolo consente di ricomporre il quadro diacronico e sincronico. Il sesto capitolo ricostruisce invece il complesso intreccio tra la me­moria, pubblica e privata, e la ricerca storiografica, in un per­corso scandito in diverse fasi, dall’immediato dopoguerra agli anni più recenti: dal silenziamento e dall’autoassoluzione1, ai ritorni degli stereotipi e delle minimizzazioni, accanto ad ammissioni e assunzioni di re­sponsabilità.

    02Fig.2: Fig. 2 Copertina del secondo volume Fonte L’immagine sotto il titolo è la copertina dell’edizione originale de La grande Proletaria si è mossa. Discorso tenuto a Barga ''Per i nostri morti e feriti'', di Giovanni Pascoli, Bologna, Zanichelli, 1911 Lo sfondo (“La carrareccia è costruita come per incanto”) è tratto da Africa Orientale Italiana. Il libro dell’eroismo e della gloria, a cura di Giovanni Vaccaro, Casale Monferrato, fratelli Marescalchi S. A., 1936, p. 83.Il secondo volume – Mito e realtà dell’oltremare – approfondisce aspetti specifici solo accennati nel corso della trattazione storica: il razzismo in colonia; le politiche demografiche ed economiche e quelle relative a cittadinanza e giustizia; l’ideologia della “missione civilizzatrice” come diritto all’espansione; la propaganda, il consenso e l’opposizione; l’atteggiamento della Chiesa cattolica; la narrativa coloniale. Le pagine conclusive propongono una riflessione non solo sulle conseguenze sulle popolazioni assoggettate per decenni, ma anche su quanto, del passato coloniale, permane nel nostro attuale sentire, con particolare riferimento al risorgente razzismo.

    I due volumi riportano un centinaio di documenti (46 nel primo e 53 nel secondo): atti parlamentari, pagine di viaggiatori, ministri, in­tellettuali, militari, studiosi, funzionari, giornalisti, governatori, diplomatici, ecc. Alcune carte geografiche, in gran parte riprese da opere coeve, permettono di collocare nello spazio le vicende via via narrate e pos­sono essere anche una spia della visione e della rappresentazione che ave­vano i contemporanei degli scenari coloniali. Anche le immagini sono tratte da opere di epoca coloniale.

    103Fig.3: “La repressione della rivolta a Tripoli. Arabi traditori fucilati”, da Tripoli-Cirenaica. Cronache della guerra italo-turca e della conquista della Libia, a cura di Enrico Mercatali, Milano, Sonzogno, 1911-1912, p. 104.Questa ricchezza di documenti permette di costruire facilmente dei laboratori: per esempio, sul cambiamento dell’immagine della donna “suddita” (utilizzando il repertorio che chiude il secondo volume). Oppure, impostando un dibattito tra favorevoli e contrari alla dichiarazione di guerra alla Turchia, che sfrutti la presenza di diversi soggetti (giornalista / uomo politico / geografo / sacerdote / economista o uomo d’affari). Ancora, i documenti relativi alle unioni interrazziali permettono di capire persistenze e rotture fra periodo liberale e periodo fascista.

    Un ricco repertorio bibliografico indirizza il lettore che voglia approfondire qualche aspetto della vicenda coloniale, dal momento che è organizzato funzionalmente in: Storiografia e memorialistica, Narrativa, Pubblicazioni di epoca coloniale, Pubblicazioni del Comitato per la documentazione dell’Opera italiana in Africa, Documenti istituzionali.

     


    Note

    1 Mohamed Aden Sheikh, La Somalia non è un’isola dei Caraibi. Memorie di un pastore somalo in Italia, Reggio Emilia, Diabasis, 2010, p. 45.

    2 Ne è un chiaro esempio la legge sulla cittadinanza, fondata sullo ius sanguinis: «Si tratta di un diritto di matrice interamente coloniale, che trova la sua naturale collocazione all’interno di un pensiero che fonda le differenze culturali e nazionali su basi razziali.» Barbara Sòrgoni,Pratiche antropologiche nel clima dell’impero, in L’impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941), a cura di Riccardo Bottoni, Bologna, il Mulino, 2008, p. 427.

    Paolo Jedlowski, Passato coloniale e memoria autocritica, il Mulino, fascicolo 2, marzo-aprile 2009, p. 234. 

  • Quattro modelli di verifica in storia per la quinta. A distanza e in presenza

    di Cesare Grazioli

    1. Copiare o non copiare. Questo è un problema

    Insegnante di scuola superiore catapultato per la prima volta nella didattica a distanza, ho dovuto apprendere in fretta, molto sulla mia pelle e spero il meno possibile su quella dei miei studenti. Gli aspetti negativi sono evidenti a tutti, dalla difficoltà di mantenere i rapporti umani alla grande dilatazione del tempo di lavoro (che sembra essere la norma per tutti coloro che, fuori dalla scuola, fanno smart working da tempo). Ci sono però anche notevoli aspetti positivi: il più interessante è lo stimolo a progettare e a praticare forme di valutazione che evitino il plagio/aiutino/“interferenza esterna”, o comunque si vogliano chiamare le copiature.

    Sembra questo un problema che tocca con intensità diversa le differenti discipline: mi è parso ad esempio quasi paralizzante per Matematica e Inglese, quasi irrilevante per Informatica, ma qui parliamo di Storia e, per quanto mi riguarda, Storia nel Triennio di una scuola superiore (l’I.I.S. “Blaise Pascal” di Reggio Emilia, con indirizzi sia liceali sia tecnici). Ho definito interessante e stimolante questa sfida non certo perché io ami “giocare a guardie e ladri” con i miei studenti. La questione stimolante è che prove di verifica ed esercitazioni “non copiabili”, cioè per le quali non serva andare su internet né sia decisivo potere sbirciare il libro di testo, devono inevitabilmente andare oltre la semplice assimilazione di nozioni e mettere in gioco le capacità di ragionare nelle diverse forme che il sapere storico chiama in causa. In altri termini, devono essere verifiche di competenze.

    A questo proposito, penso che, malgrado il gran parlare – e lo scrivere nelle programmazioni – di competenze e abilità, forse la vera “prova del nove” di un insegnamento/apprendimento per competenze sta nella possibilità di somministrare (per noi) e di svolgere (per i nostri studenti) verifiche “non copiabili”.

    2. La storia è una materia pratica e scritta

    Chiarisco che mi riferisco a valutazioni su prove (individuali o di gruppo) scritte, che nell’esperienza mia e della mia scuola sono largamente prevalenti. So che molti colleghi in altre scuole continuano a privilegiare le interrogazioni orali, o addirittura a considerare la Storia “materia orale”. Non perderò tempo a confutare questo luogo comune “scolastichese”, del tutto infondato sul piano della Storia-disciplina, che viceversa è da sempre attività scritta e pratica nelle sue procedure di ricerca.

    Osservo invece, in modo molto pragmatico, che per fare almeno due o tre interrogazioni orali significative ad ogni studente in un quadrimestre, servirebbe una quantità di tempo scolastico abnorme, tale da dimezzare, o peggio, il già misero tempo d’aula (le due ore settimanali, cioè circa 50 ore nette all’anno, se va bene). Per tacere della abissale differenza di affidabilità e di significatività tra una verifica scritta che, a fine modulo, esplora tutto il percorso svolto, in modo equanime per tutti gli studenti, e un’interrogazione individuale (dopo la quale, tutti lo ricordiamo dai nostri trascorsi come studenti, per uno o due mesi non si apre più il libro!).

    3. Prove di verifica, ma anche esercitazioni

    Riconosco peraltro che la didattica a distanza presenta, anche su questo punto, situazioni nuove e diverse. Molti colleghi sono tornati alle interrogazioni orali perché scoraggiati dall’impossibilità di controllare i propri studenti in verifiche scritte a distanza. Più interessante è il fatto che, con gli orari di lezione a distanza ridotti (di circa 1/3) rispetto al normale quadro orario settimanale, si possono concordare interrogazioni a piccoli gruppi di 3-4 studenti per volta, fuori orario (in “buchi” della mattina, o al pomeriggio): è vero che queste interrogazioni costano a me insegnante 5 o 6 ore extra-orario, ma in compenso avrò un pacco in meno di verifiche scritte da correggere. In queste condizioni, farò anch’io una tornata di interrogazioni orali extra-orario, ma non è di queste che voglio parlare.

    Le verifiche di cui sto parlando hanno anche altre caratteristiche che ritengo molto positive, anzi di gran lunga più importanti del non essere “copiabili” (o di esserlo poco).

    In primo luogo, molte di esse riducono o addirittura azzerano la distanza e/o la differenza tra la fase della verifica e quella dell’apprendimento, tanto che in taluni casi possono essere collocate indifferentemente alla fine del percorso, appunto come verifiche, oppure diventare esse stesse la traccia del percorso di apprendimento per gli studenti, individuale o di gruppo.

    Inoltre si tratta di verifiche di tipologie molto diverse l’una dall’altra, proprio perché si adattano alle diverse competenze sollecitate e alle diverse metodologie di lavoro di volta in volta utilizzate. Al riguardo, penso che sia importante variare le tipologie di verifica, e che sia sbagliato somministrarle sempre della stessa tipologia, come se fosse l’unica possibile: nel caso più tipico, la serie delle tre o quattro domande aperte con 10-12 righe di spazio per le risposte, sulla falsariga della tipologia più seguita della vecchia terza prova d’esame.

    4. Primo modello: immagini e racconti. Storia mondiale dal 1945 ai primi anni settanta

    La prima verifica si è basata su un album di immagini, che già avevo presentato alla classe (in dimensioni maggiori, adatte a una presentazione) come forma di ripasso del modulo. Confesso che l’idea originaria era solo quella di un’esercitazione che servisse agli studenti per ricordare fatti e vicende e nomi di protagonisti, dunque di proporre un’esercitazione di riconoscimento di immagini.

    Poi però l’idea si è sviluppata, perché ho pensato che quelle immagini potessero valorizzare una delle grandi caratteristiche della Storia: il fatto che, come tante tessere di un mosaico, o pezzi di un lego, i singoli tasselli della storia possono essere combinati diversamente, e tali diverse combinazioni danno origine a “storie” diverse. Di fatto, ho chiesto a ciascuno studente di costruire una sua storia, anzi due. L’espediente di farlo partire per la prima storia non da un’immagine a sua scelta, bensì da quella corrispondente al suo numero d’ordine del registro (ad esempio: fare partire dalla immagine n.1 l’ipotetico studente Aldo Abate), ha fatto sì che la classe, composta da 26 studenti, abbia costruito 26 storie diverse. In questo modo era impensabile scambiarsi suggerimenti, perché ognuno doveva produrre un “pezzo unico”.

    Data la novità assoluta delle consegne, per non rischiare che qualcuno ne fosse del tutto disorientato, ho poi fornito un esempio svolto, come si vede qui sotto. Il tempo disponibile era di 2 ore per consegnare su Class-room la prima storia, quella più ampia, con me presente dall’altra parte dello schermo. Ho poi lasciato tempo per completare nel pomeriggio la seconda storia. Se si preferisce evitare questa complicazione e appesantimento del lavoro, si potrebbe anche limitare il compito chiedendo di costruire una sola storia, la prima. Pubblichiamo qui le foto in due versioni: la prima, formato grande e didascalie lunghe, potrà servire al docente per una presentazione; la seconda, in formato piccolo, potrà essere riprodotta e distribuita agli allievi, nel caso si voglia sperimentare questa prova di verifica. Il file pdf che contiene le consegne e un esempio svolto può essere scaricato qui.

    Consegne del primo modello

    Costruisci due storie a partire dalle immagini. La prima storia sarà centrata sui problemi politici del secondo dopoguerra; la seconda tratterà delle questioni economico-sociali e culturali. Segui le regole elencate sotto.

    Prima storia

    • Parti dall’immagine corrispondente al tuo numero d’ordine sul registro e scegli liberamente – in tutto l’album – almeno altre cinque immagini (meglio se di più), che, secondo te, hanno attinenza con la prima.
    • Dunque, se sei il primo nell’elenco prendi l’immagine n.1, se sei il secondo la n. 2 e così via. Nel tuo testo queste immagini saranno contrassegnate dai loro numeri.
    • Tieni presente che non puoi prendere più di tre immagini consecutive.
    • Oltre alle sei immagini dell’elenco, cercane altre due (su google immagini o su altri siti), che siano di soggetti diversi da quelli già scelti (ad es. se hai inserito Kennedy, non puoi inserire un’altra sua foto). Contrassegna queste nuove immagini con le lettere dell’alfabeto (perciò in totale userai almeno otto immagini).
    • Utilizza queste immagini per costruire la tua storia. Ogni volta che ne userai una, la dovrai citare nel tuo testo con il numero o la lettera corrispondenti.

    Seconda storia

    • Scegli cinque immagini, liberamente, a partire dal gruppo di immagini fra la n. 31 e la n. 40.
    • A queste ne puoi aggiungere altre tratte da internet, se lo ritieni opportuno, e contrassegnale anch’esse con le lettere dell’alfabeto.
    • Utilizza queste immagini per costruire la tua storia. Ogni volta che ne userai una, la dovrai citare nel tuo testo con il numero o la lettera corrispondenti.

    Caratteristiche del testo

    • I testi avranno un titolo significativo, dovranno essere corretti e scorrevoli nella forma e corredati dalle immagini scelte, che segnalerai nel testo con il numero o con la lettera dell’alfabeto corrispondenti.
    • I testi saranno in cartelle word, carattere Arial o Calibri, dimensioni 12, giustificato, interlinea singola.
    • Le immagini tratte dall’elenco saranno indicate con numeri o lettere in formato 12, in grassetto (es: 5). Le immagini extra saranno riprodotte al principio del testo. Le altre non devono essere riprodotte, basta citarne il numero). Le indicherai con una lettera in formato 12, in grassetto (es. A).
    • La prima storia sarà di lunghezza compresa tra 1 e 2 cartelle (con i margini che sto usando qui). La seconda potrà essere un po’ più breve.

    Esempio svolto / traccia di correzione

    Titolo: Il cambiamento del clima politico-sociale tra gli anni cinquanta e i sessanta. Immagini utilizzate: 9, 2, 13, 14, 10, 11, A, B, 22, C, 21, 17, 27, 39, 24, 25 (totale: 13 + 3 extra = 16)

    [Questo esempio è un po’ concentrato, perché finalizzato soprattutto a farti capire come devi muoverti; inoltre ha un numero di immagini maggiore di quello che ci si attende che tu utilizzi.]

    Negli anni cinquanta il clima politico, sociale e culturale nelle società avanzate fu molto teso sia a Est che ad Ovest, influenzato dalla durezza dello scontro a tutto campo di quel decennio, il più aspro della guerra fredda. Anche dopo la fine della guerra di Corea (9), che aveva fatto temere una terza guerra mondiale per di più con le nuove armi atomiche, e dopo la morte di Stalin (2) nello stesso anno, le cose cambiarono solo in parte. Nel mondo comunista, il nuovo segretario generale del partito comunista sovietico Nikita Krusciov (13) avviò la destalinizzazione e pose le basi per quello che venne poi definito il “disgelo” con l’Occidente, ma non allentò il clima repressivo nei confronti dei “paesi fratelli”, cioè gli alleati-sudditi dell’Europa orientale. Lo si vide soprattutto nel 1956, quando fu repressa con i carri armati la rivolta esplosa in Ungheria (14), senza che l’Occidente desse alcun segnale di reazione.

    "A. California,1964"/>

    "B. a Washington nel 1964"/>

    C. Una manifestazione studentesca nel ‘68

    Anche a Ovest, peraltro, la guerra fredda alimentò un clima molto teso, sia pure in forme e modi diversi. In particolare negli Stati Uniti, all’inizio del decennio esplose una specie di moderna “caccia alle streghe” che prese il nome di “maccartismo”, dal nome del senatore repubblicano Joseph McCarthey (10): egli lanciò una martellante campagna contro spie comuniste, vere o presunte, creando un’atmosfera di persecuzione soprattutto nel mondo della cultura, dell’arte e del cinema. Le vittime più illustri di quell’atmosfera furono i coniugi Julius ed Ethel Rosenberg, (11) processati per spionaggio a vantaggio dell’Urss e messi a morte sulla sedia elettrica nell’estate del 1953, nonostante la mobilitazione a loro favore da parte di un ampio movimento dell’opinione pubblica internazionale.

    Negli anni sessanta quel clima politico, sociale e culturale cambiò profondamente, perché emersero nuovi soggetti collettivi che contestarono i valori tradizionali, le gerarchie imperanti, i privilegi di alcuni e la mancanza di diritti di altri. Ciò accadde dapprima negli Stati Uniti, in particolare ad opera di due soggetti: gli studenti, soprattutto in California, nell’università di Berkeley presso San Francisco, ove nacque il movimento detto del “Free speech” (A); e la minoranza afro-americana, ancora soggetta di fatto a un regime di apartheid: famosa fu ad esempio la marcia di Washington del 1964 (B), che reclamò la parità dei diritti, guidata da un leader prestigioso, Martin Luther King (che sarebbe poi stato vittima dell’intolleranza e del razzismo che egli combatteva, nel 1968, quando fu assassinato 22).

    Tra i giovani studenti di quel movimento di contestazione si diffusero ampiamente parole d’ordine, slogan e valori anti-imperialisti e anticapitalisti, largamente influenzati dall’ideologia marxista (C): si contestava apertamente il crescente coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, durante gli anni della presidenza di Johnson (21), e si prendevano come modelli ed eroi alcuni personaggi di orientamento comunista come Che Guevara a Cuba (17) e Ho Chi minh (27), leader del Vietnam del Nord. Ciò accadde sia negli Stati Uniti sia in Europa, ove il momento culminante fu il cosiddetto Maggio francese, all’università della Sorbona a Parigi, ove gli scontri tra giovani e forze dell’ordine assunsero per giorni caratteri di guerriglia urbana (39).

    Anche nei paesi comunisti si diffusero movimenti di contestazione, che però furono repressi con la forza, come accadde nel caso della cosiddetta “Primavera di Praga”, ovvero il tentativo, da parte dello stesso gruppo dirigente del partito comunista cecoslovacco guidato da Alexander Dubcek (24), di creare un “socialismo dal volto umano”, cioè di attuare riforme: ma nell’estate del ’68 a Praga quel tentativo venne stroncato, così come era accaduto a Budapest, in Ungheria, dodici anni prima, dall’intervento delle forze armate del patto di Varsavia. Il leader sovietico Leonid Brezniev (25), promotore della repressione, formulò in quella occasione la teoria della “sovranità limitata” a cui dovevano sottostare i “paesi fratelli”, ovvero gli alleati-sudditi dell’Europa orientale.

    Commento

    Nell’insieme, la verifica ha funzionato piuttosto bene, con un ventaglio di prestazioni comprese tra un 8,5 e due 8 (cioè una verifica molto buona e due buone), nei casi di elaborati originali, ricchi e fluidi nella forma espositiva; e, all’estremo opposto, tre verifiche incerte (5,5) e una gravemente insufficiente (4,5). Questi casi negativi lo sono stati per due o più dei seguenti difetti: trattazioni frettolose e superficiali, con molti errori formali. Inoltre, non hanno riportato fatti o processi storici fondamentali per il percorso scelto. Prive di titolo. Quest’ultimo limite si è rivelato molto penalizzante, in particolare per il primo testo: è emerso chiaramente, infatti, che non si trattava affatto di una semplice dimenticanza e che il non avere deciso il titolo era indizio del problema di fondo, cioè non avere scelto un percorso, una focalizzazione, con la conseguenza che il testo appariva faticoso da seguire e poco efficace. La grande maggioranza delle prove, peraltro, si è distribuita nelle posizioni intermedie: sei casi di sufficiente (6), tre più che sufficienti (6,5), tre discreti (7) e tre abbastanza buoni (7,5).

    5. Secondo modello: argomentazioni e controversie. La Guerra fredda

    Credo che la seguente verifica non abbia bisogno di particolari spiegazioni. Gli argomenti e gli esempi a sostegno delle due tesi da sviluppare sono individuati e selezionati autonomamente dagli studenti, dal momento che l’argomento è trattato diffusamente nel libro di testo. Non si tratta, quindi, di un Debate, come è ormai in uso in molte scuole, e del quale presenterò un esempio di quarta in un prossimo intervento su HL, quanto piuttosto di un esercizio di argomentazione e di ricerca rapida sul testo.

    Consegne del secondo modello

    Sviluppa le due tesi seguenti A e B, portando argomenti ed esempi a loro sostegno, in modo da produrre due distinti saggi storiografici.

    • Nei due testi argomentativi dovrai curare anche l’efficacia comunicativa, che ovviamente comprende gli aspetti linguistico-formali.
    • Potrai consultare, moderatamente, il libro di testo.

    Tesi A

    Quasi subito dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, la guerra fredda precipitò nuovamente l’Europa in una condizione estremamente critica, e ad Est tragica: da Centro del mondo, infatti, il Vecchio Continente si trovò declassato al ruolo di periferia di due imperi (americano e sovietico), sotto l’incubo di una possibile guerra atomica, e l’Europa orientale sotto un regime oppressivo e negatore di ogni libertà politica ed economica.

    Tesi B

    A un'Europa che era da secoli, anzi da un millennio l’area più bellicosa del mondo, e che nel primo Novecento aveva conosciuto i due più sanguinosi e distruttivi conflitti della storia umana e orribili genocidi, la Guerra fredda regalò, sotto l’ombrello ingombrante ma protettivo delle due nuove superpotenze mondiali, l’inizio di un’epoca di pace interna eccezionalmente lunga (che dura tutt’ora); a Ovest essa assicurò anche un trentennio di straordinaria crescita economica, e l’avvio di un processo di unificazione politica che era impensabile fino a pochi anni prima.

    Esempio svolto/traccia di correzione

    Argomenti ed esempi a sostegno della tesi A

    Ad appena due anni dalla fine della seconda guerra mondiale, La Guerra fredda riportò a una situazione di tensione quasi paragonabile a una guerra vera e propria; anzi, forse peggiore, per l’incubo di una possibile guerra atomica provocata dalla corsa al riarmo attuata dalle due superpotenze: una guerra atomica di cui l’Europa sarebbe stata quasi certamente bersaglio e vittima, dato che la principale posta in gioco, tra le due superpotenze, era proprio il controllo o il vero e proprio dominio sull’Europa. Dunque l’Europa, abituata a sentirsi e di fatto ad essere “Centro del mondo”, o comunque ad avere da secoli un ruolo di primissimo piano, per la potenza economica, politico-militare e tecnologico dei suoi Stati più potenti, si trovò ad essere in balia di due nuove super-potenze, che la relegarono in un ruolo secondario e subalterno.

    L’Europa occidentale ebbe sì importanti aiuti economici dagli Usa, con il piano Marshall, ma quegli aiuti servirono soprattutto a legare gli Stati europei agli Usa (legame poi rafforzato con la nascita della Nato), e a condizionarli politicamente, tanto che tutti quei paesi finirono per avere al potere governi conservatori e filo-atlantici, che emarginarono all’opposizione i partiti di diverso orientamento; inoltre, in ultima analisi gli aiuti del Piano Marshall finanziavano in gran parte le aziende americane che producevano quelle merci.

    Molto più gravi, però, furono i condizionamenti subìti dai Paesi dell’Europa orientale, ai quali l’Urss impose il suo modello economico, sociale e politico (comprese le “purghe” staliniane che l’Urss aveva già subìto alla fine degli anni trenta), oltre che il suo dominio militare, e represse con la forza ogni tentativo di ribellarsi o di cercare strade parzialmente diverse: così accadde con il blocco di Berlino nel 1948, e ancora di più con la costruzione del muro nel 1961; accadde con le repressioni in Polonia e in Ungheria, nel 1956, e contro la “Primavera di Praga” in Cecoslovacchia nel 1968.

    Commento

    Nell’insieme, la verifica ha certamente funzionato, ossia è risultata attendibile e significativa. Gran parte degli studenti ha lavorato bene o abbastanza bene. Essi sono entrati nella logica del costruire due testi argomentativi di segno opposto, dato che di fatto la TESI A chiedeva di argomentare ed esemplificare i danni della guerra fredda per l’Europa, mentre la TESI B chiedeva di argomentarne ed esemplificarne i vantaggi, sempre per l’Europa.

    Un errore, o meglio un travisamento delle tesi riscontrato in un certo numero di elaborati, è stato il seguente: parlare solo dell’Europa orientale a proposito della prima tesi, e solo dell’Europa occidentale a proposito della seconda tesi; ovvero, di fatto, sostenere che la guerra fredda ha pesantemente danneggiato i paesi sotto il dominio sovietico mentre si è risolta in una grande vantaggio per l’Europa occidentale. E’ una posizione certamente sostenibile, e diversi storici lo hanno fatto. Però le due tesi che si dovevano sviluppare erano altre, come sopra riassunto e come emerge dalla traccia di correzione.

    Tra i punteggi, ci sono stati cinque 8, tre 7,5 e un 7; c’è stata qualche verifica appena sufficiente (6-), ma solo due sotto quella soglia: una incerta (5,5) e una sola gravemente insufficiente (3), nell’unico caso di alunno che, anziché lavorare in autonomia, è andato a pescare su internet, tra l’altro in modo poco efficace (perché la prova non si prestava a questo) e platealmente maldestro.

    6. Terzo modello: il finto testo personale. Nazismo e fascismo.

    Il motivo che mi spinge a presentare questo esempio e il successivo è che, mi pare evidente, anche in questi casi si tratta di verifiche che costringono a pensare, a mettere in campo competenze diverse, a fare i conti con la complessità e la problematicità della storia. Ho somministrato queste prove in presenza, ma penso che potrebbero tranquillamente essere utilizzate anche nella Dad.

    Consegne. Scrivi otto brevi testi con le caratteristiche qui sotto indicate

    • Sei un intellettuale italiano di orientamento liberale, e nella primavera del 1920 riporti sul tuo diario il tuo scoraggiamento per il clima politico e sociale del Paese.
    • Sei la fidanzata di uno squadrista di Ferrara, e a metà del 1922 racconti in una breve lettera a tuo zio, emigrato in Argentina, la situazione italiana, così come la senti descrivere dal tuo amato.
    • Sei un dirigente socialista e nel 1927 scrivi un telegramma a un tuo compagno di partito esule a Parigi, per aggiornarlo su quanto sta accadendo in Italia.
    • Winston Churchill

    • Sei un giovane tedesco che nel 1935, di ritorno dall’annuale raduno del partito a Norimberga, descrive quel raduno in una lettera alla madre (o alla fidanzata, scegli tu).
    • Sei lo stesso tedesco di cui sopra, che, in condizioni psicologiche completamente diverse, scrive al padre dal fronte russo ove egli si trova, alle porte di Stalingrado, all’inizio di gennaio del 1943.
    • Sei un ebreo polacco e nel 1940 scrivi da Varsavia a un tuo parente emigrato a Brooklyn (New York).
    • Sei Winston Churchill, appena nominato primo ministro nel maggio 1940 e in una chiacchierata informale e privata, con la tua consueta foga, rinfacci ai tuo predecessore Neville Chamberlain, che si è appena dimesso, le gravi conseguenze della linea politica da lui finora seguita.
    • Sei un giornalista americano del New York Times e prepari gli appunti (in forma di scaletta) per un reportage dall’Italia in cui descriverai ai tuoi lettori la complessa situazione politico-militare della penisola nell’estate del 1944.

    Commento

    Ho somministrato questa prova (come anche la prossima) alcuni anni fa, per cui non posso riferirne gli esiti in dettaglio come per le due precedenti. Ricordo le forti differenze tra chi era riuscito a “entrare nella parte”, cioè ad assumere il punto di vista richiesto, e chi non l’aveva fatto, con esiti, in alcuni casi, inverosimili, ma molto utili da essere riesaminati in sede di correzione. Ad esempio (nella seconda situazione proposta) il doversi mettere nei panni della fidanzata di uno squadrista rendeva inverosimile descrivere gli atti di quest’ultimo in modo “neutro” o addirittura critico, presentandoli come “violenze” o “atti criminali”; è infatti più probabile che quella fidanzata avrebbe esaltato i “nobili e generosi atti” dell’amato che contribuiva a “liberare finalmente l’Italia dalla canaglia sovversiva”, e così via.

    7. Quarto modello: due esempi di finte interviste

    A. Un questionario ai nonni sulla Seconda guerra mondiale

    Consegne

    Per incarico del tuo prof. di Storia hai dovuto preparare un questionario per intervistare i tuoi due nonni paterno e materno, uno reggiano e l’altro di origine calabrese. Entrambi avevano la tua età nel 1944, e hai chiesto loro se quell’anno videro o vissero in prima persona le seguenti situazioni. Scrivi accanto a ciascuna delle seguenti situazioni: R, se è stata vista o vissuta dal nonno reggiano; o C, se dal nonno calabrese; oppure E, se da entrambi; o N, se da nessuno dei due.

    • _____ vivere nel continuo pericolo dei bombardamenti degli Alleati.
    • _____ vivere nel pericolo dei bombardamenti tedeschi.
    • _____ arruolarsi nell’esercito regio a fianco delle truppe alleate, cioè anglo-americane .
    • _____ sopportare che il cibo e i beni essenziali fossero razionati col tesseramento.
    • _____ doversi nascondere per evitare di essere forzatamente arruolato nel nuovo esercito della Rsi.
    • _____ rispondere al “bando Graziani” e arruolarsi nell’esercito della Rsi.
    • _____ andare in montagna per unirsi alle formazioni partigiane.
    • _____ diventare un importante esponente del Clnai.
    • _____ operare clandestinamente nei Gap, i gruppi partigiani che facevano sabotaggi nelle città.
    • _____ subire il pericolo dei rastrellamenti e della conseguente deportazione nei lager in Germania.
    • _____ essere tentato di denunciare un conoscente ebreo, per avere la forte ricompensa fissata per legge.
    • _____ dover cercare per la famiglia, alla “borsa nera” (cioè di contrabbando, ad altissimo prezzo), un po’ di cibo in più di quello previsto dal razionamento.

    Commento

    Questo esercizio, brevissimo nell’esecuzione (dato che si tratta solo di scegliere per 12 volte una delle 4 lettere, come in un questionario a scelta multipla), può essere somministrato da solo, in 15-20 minuti, o essere inserito all’interno di una verifica più ampia sulla Seconda guerra mondiale. In entrambi i casi, risulta molto spiazzante per gli studenti. E’ da chiarire che l’esercizio ha senso solo se l’insegnante non ha già presentato a lezione queste situazioni, in modo che gli studenti siano costretti a ragionare su quante difficili scelte ci si potesse trovare a dovere compiere, in quel 1944, e quanto pesasse il trovarsi da una parte o dall’altra della Linea Gotica, in una situazione estrema come quella del nostro Paese in quel periodo storico.

    Anche se i risultati del questionario sono stati molto scarsi (come in questo caso è accaduto, per molti studenti, nei diversi anni in cui ho somministrato l’esercizio), qui non è importante il punteggio conseguito, bensì il fatto che, proprio per essersi dovuti scervellare per scegliere la lettera giusta, e spesso avendola sbagliata, poi in sede di correzione si è capito in quale complessa situazione i propri nonni-coetanei si erano trovati nel 1944. E’ il tipico caso in cui la valutazione ha comunque un prevalente valore formativo, e diventa anzi una potentissima occasione di apprendimento.

    B. Scrivere una finta intervista. Dal secondo dopoguerra ai primi anni novanta

    • Sei un esperto di storia orale e intervisti i seguenti personaggi (due immaginari, uno reale), per ricostruire la storia dell’età repubblicana attraverso testimonianze orali.
    • Fa attenzione: non chiedi loro di raccontare la propria biografia. Chiedi di raccontare.
    • la storia italiana dal loro punto di vista, cioè selezionando ciò che essi hanno vissuto come importante.
    • Scrivi la testimonianza sotto le rispettive biografie.

    Salvatore P. Nato nel 1935 a Palermo, orfano del padre (ucciso a Portella della Ginestra l’1.5.47), nel 1955 emigrò a Torino e poco dopo entrò a lavorare alla Fiat Lingotto; nel 1972 diventò membro del consiglio di fabbrica, come delegato del suo reparto (verniciatura); nel 1976 passò a fare il funzionario della Fiom (la categoria dei metalmeccanici della Cgil), incarico che ricopre quando viene intervistato, nel 1982, a 47 anni …

    … … spazio di 12-14 righe.

    Gianni A(gnelli) Nato nel 1921 a Torino, nipote del fondatore della Fiat, alla morte del nonno nel 1945 (e per la morte prematura del padre, Edoardo), vide condurre l’azienda di famiglia dal manager Vittorio Valletta, per un ventennio: in quegli anni, oltre a fare la “dolce vita”, fece esperienza dirigenziale come presidente della Juventus, fino a quando, nel 1966, assunse la presidenza della Fiat. Negli anni ’70 fu anche presidente della Confindustria. Dalla fine degli anni ’70 affidò la gestione diretta della Fiat al manager Cesare Romiti. Viene intervistato nel 1982, a 60 anni …

    … … spazio di 12-14 righe.

    Luisa B. Nata nel 1946 in Brianza, dopo il liceo si trasferì a Milano, dove frequentò l’Università statale, partecipando ai primi gruppi femministi e poi al movimento del ’68. Dopo la laurea in architettura nel ’71, visse per alcuni di anni in una Comune con altre donne, e fece lavori vari. Nel 1976 entrò in uno studio di design. Nel 1979 si mise in proprio, aprendo uno studio di design e arredamento, e negli anni successivi divenne una “donna in carriera”, con un’azienda che occupa alcuni dipendenti. Viene intervistata nel 1993, a 47 anni …

    … … spazio di 12-14 righe.

    Esempio/traccia di correzione

    Salvatore P. Nato nel 1935 a Palermo, …

    È verosimile che lui ricordi:

    • Le dure condizioni di vita nel Sud, sia economiche politiche per la repressione sulle lotte contadine, e per la presenza della mafia (vedi l’eccidio di Portella della Ginestra), e il fatto che la svolta della riforma agraria pose fine alle lotte ma non migliorò molto le condizioni di vita dei contadini del Sud, tanto che molti dovettero emigrare a Torino.
    • Il trauma iniziale, per le condizioni di lavoro nella grande fabbrica, e anche di vita, nella città del nord, per molti immigrati.
    • Il graduale inserimento degli immigrati nel nuovo clima di combattività operaia negli anni ’60, tra compagni in gran parte anch’essi giovani immigrati, dai fatti di Piazza Statuto.
    • Le nuove forme di lotta, dall’autunno caldo del ‘69, con le quali fu ottenuto un importante contratto di categoria, poi lo Statuto dei lavoratori; e i nuovi organismi, i consigli di fabbrica, che rappresentavano soprattutto gli operai di linea (non qualificati), come lui.
    • Il suo coinvolgimento a livello sindacale, in una fase in cui c’era una forte coscienza sociale e politica tra gli operai.
    • Le rivendicazioni nel segno dell’egualitarismo, entro cui ci fu l’importante conquista della riforma della scala mobile, che venne unificata per operai e impiegati di tutte le categorie (1975).
    • La tensione prodotta, anche nelle fabbriche, dal terrorismo, che il sindacato cercò di isolare.
    • La delusione per il mancato “sorpasso” elettorale nel ’76 del Pci rispetto alla Dc, e forse anche la delusione per i pochi risultati dei successivi governi di solidarietà nazionale.
    • Per il periodo più recente, il senso di sconfitta e di arretramento del movimento sindacale, dopo la vertenza dell’autunno dell’80, conclusasi dopo la marcia dei quadri a favore della Fiat.

    Gianni A(gnelli) Nato nel 1921 a Torino, …

    È verosimile che lui ricordi:

    • Gli anni della grande crescita della Fiat, condotta da Valletta, con i nuovi modelli, la 600 e poi la 500, utilitarie adatte a un mercato di massa per l’Italia.
    • Gli anni favorevoli del boom economico, con l’ottimismo, l’atmosfera esuberante di quegli anni, per lui e la sua cerchia, ma anche per gran parte della società, anche nella vita privata.
    • Le difficoltà crescenti dalla seconda metà dei sessanta ai settanta, sia per l’estremismo delle lotte operaie, sia per l’inazione dei governi, poco efficaci nel contenere l’inflazione, dai ‘70.
    • Le difficoltà strutturali dell’economia italiana, a causa del rialzo del prezzo del petrolio.
    • La moderazione dei vertici sindacali, che avevano consentito di siglare l’accordo sull’unificazione della scala mobile nel ‘75, quando egli era presidente della Confindustria (e che, visto retrospettivamente, egli considera forse un errore, perché quell’accordo doveva combattere l’inflazione, ma al contrario la alimentò).
    • L’eccessivo potere conquistato sui posti di lavoro dalle frange operaie più estremiste, cosa che aveva dato spazio al terrorismo.
    • La conflittualità esasperata che aveva messo in difficoltà le aziende, specie le maggiori e più sindacalizzate, come la sua, mentre l’inflazione continuava a crescere.
    • L’energica iniziativa del gruppo dirigente della Fiat, con a capo Romiti, che con una dura vertenza ha ridimensionato il sindacato e attuato una ristrutturazione che ha ridato competitività all’azienda.
    • La perdurante preoccupazione per le frange terroristiche, e per i conti pubblici dello Stato, anche se la situazione economica generale gli appare ora migliorata.

    Luisa B.

    Nata nel 1946 in Brianza…

    È verosimile che lei ricordi:

    • gli anni all’università, allora ancora frequentata da pochi studenti, e tra questi pochissime le ragazze, come lei, proveniente dalla provincia ancora tradizionalista.
    • per lei, proveniente dalla provincia molto tradizionalista, l’enorme differenza con la cultura giovanile urbana in cui si trovò catapultata, con le nuove mode, dalla minigonna alla musica leggera.
    • la politicizzazione nel movimento studentesco, con le occupazioni e le lotte nel Sessantotto.
    • il trauma delle bombe fasciste a Piazza Fontana alla fine del ’69, primo episodio della “strategia della tensione”.
    • l’emergere di una nuova coscienza femminile e femminista, con le lotte che portarono a molti cambiamenti nel costume, come la grande battaglia ai tempo del referendum sul divorzio, nel 1974, la legge sul nuovo diritto di famiglia, a metà dei 70, e l’altra battaglia importante, qualche anno dopo, del referendum a difesa della legge sull’aborto.
    • che nella seconda metà dei ’70 quel clima di lotte si era in gran parte spento, e al contempo era degenerato negli anni di piombo, che pesarono negativamente, e coinvolsero nella “lotta armata” anche alcune sue ex compagne di tante lotte studentesche e femministe.
    • che negli anni ’80 si è aperta una fase più favorevole all’iniziativa individuale, alla possibilità di fare carriera anche per le donne che hanno saputo valorizzare sia il proprio ruolo, sia le opportunità di nuovi settori lavorativi, nei servizi, e in aree non legate al tradizionale sistema della fabbrica fordista, anche grazie alle nuove tecnologie informatiche.
    • che in quegli stessi anni ’80 il nuovo Psi di Craxi sembrava in grado di modernizzare la vita politica italiana, superando l’immobilismo dei due maggiori partiti, Dc e Pci… … mentre ora, nel 1993, è delusa e scandalizzata per il sistema di corruzione che è emerso con le indagini del pool di Mani pulite, e preoccupata per il futuro dell’economia.

    Commento

  • Come nel caso delle precedenti interviste sulla Seconda guerra mondiale, anche queste tre “finte interviste” sulla storia del secondo dopoguerra le ho somministrate alcuni anni fa. Per quanto mi ricordi, i risultati erano stati molto diversi tra gli studenti, ovvero si erano rivelate altamente discriminanti.
  • Alcuni esiti erano stati davvero brillanti, ma molti avevano incontrato due tipi di difficoltà di segno opposto, che qui cerco di riassumere. Da una parte, la difficoltà di “assumere un punto di vista” cioè di selezionare gli aspetti della storia che è plausibile immaginare siano stati più rilevanti e significativi (cioè si siano depositati nella memoria) di soggetti sociali diversi come i tre proposti. Chi non c’è riuscito, ha ovviamente scritto storie ben poco diverse, o non ha saputo “ricordare”, ad esempio, le lotte alla Fiat Mirafiori nei modi opposti che dovrebbero emergere dai racconti del lavoratore immigrato e del proprietario dell’azienda.
  • Dall’altra parte, alcuni studenti si erano troppo “schiacciati” nella dimensione biografica, finendo per “ampliare” il profilo biografico già dato per ciascuno dei tre soggetti, e dunque avevano parlato di “se stessi”, non della storia d’Italia vista dalla propria prospettiva sociale.

    Possibili rimedi per evitare questi opposti rischi, o per limitarli, potrebbero essere i seguenti: fornire una delle tre storie come “esempio già svolto”; oppure, forse ancora meglio, assegnarne una delle tre come prova formativa, domestica, poi correggerla e, sulla base di questa correzione, assegnare in aula lo svolgimento delle altre due.

  • Risorse online sulla Grande Guerra. Bambini, donne, soldati e prigionieri nel sito della International Encyclopedia of the First World War

    di Antonio Prampolini

    La International Encyclopedia of the First World War è il frutto di un progetto di ricerca internazionale diretto dallo storico Oliver Janz e realizzato dal Dipartimento di Storia moderna del Friedrich-Meinecke-Institute della Freie Universität di Berlino.

    Scopo del progetto: offrire un nuovo approccio conoscitivo, globale e multiprospettico, alla storia della “Grande Guerra”, capace di utilizzare al meglio l’ipertestualità e la multimedialità del Web.

    L’enciclopedia è presente in rete dal 2014 con un proprio sito https://encyclopedia.1914-1918-online.net/home.html in lingua inglese, che permette di accedere (liberamente e gratuitamente) ai contenuti storiografici attraverso due modalità: la navigazione in spazi virtuali interattivi(linea del tempo, mappe geografiche e tematiche) e l’utilizzo di liste/elenchi(indici delle voci enciclopediche, bibliografie e sitografie, ecc.).

  • The Saigon Execution: “La foto che fece perdere la guerra”

    Laboratorio su una foto iconica: lettura e contestualizzazione*

    di Antonio Brusa 

     

    The Saigon Executione la guerra del Vietnam

     

    saigonE. Adams/Associated Press, General Nguyễn Ngọc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon (1968)All’una e trenta della mattina del 31 gennaio del 1968 i marines nordvietnamiti e i vietcong (i guerriglieri comunisti del sud Vietnam) scatenarono l’offensiva del Têt (il Capodanno vietnamita). Ottantamila soldati attaccarono contemporaneamente le più importanti città del Vietnam del sud. Contavano sulla sollevazione della popolazione, stanca degli americani e della guerra, e sul rapido disfacimento delle truppe del Vietnam del Sud, che ritenevano un esercito-fantoccio al servizio degli Usa. Si lanciarono all’attacco convinti che non sarebbero più ritornati nei loro rifugi nella foresta e che avrebbero ributtato in mare gli invasori. La loro sconfitta fu cocente. La popolazione, per quanto antiamericana potesse essere considerata, non guardava affatto con simpatia i soldati del nord e non si ribellò. L’esercito sud-vietnamita difese strenuamente le città, mentre gli americani ebbero modo di scatenare per intero la loro potenza di fuoco su bande di guerriglieri venute finalmente allo scoperto. Le cifre non consentono dubbi: i combattenti comunisti contarono circa 60 mila morti; la coalizione americana circa 4.500 (La cronistoria della battaglia su “Retestorica”;) all’offensiva del Têt e agli eventi del ’68 è dedicato il sesto episodio della Guerra del Vietnam (PBS, 2017) di Ken Burst e Lynn Novick, significativamente intitolato Tutto cade a pezzi, che sarà oggetto di analisi nell’ultima parte di questo laboratorio: altri riferimenti si troveranno nella sitografia sui movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam, curata da Antonio Prampolini e pubblicata qui, su HL.

    2mappeL’Offensiva del Têt su Pinterest (a; https://www.pinterest.it/pin/417286721693184202/) e la guerra del Vietnam secondo l’Enciclopedia Treccani (b; http://www.treccani.it/enciclopedia/vietnam/)

    La battaglia che gli americani avevano vinto sul campo fu da loro persa politicamente. Pochi giorni dopo la sua fine, nel marzo del 1968, sospesero i bombardamenti nel Nord Vietnam, chiesero l’apertura di colloqui di pace e il presidente Lyndon B. Johnson decise di non ripresentarsi alle elezioni. Il generale William Westmoreland, comandante in capo delle armate americane, che aveva chiesto altri 200 mila soldati per concludere la guerra, fu richiamato in patria. Prese il via un estenuante e contorto percorso diplomatico che portò, nel 1975, a fermare il conflitto più lungo al quale gli Usa abbiano mai partecipato (G. Herring, America Longest War. 1950-1975 , Temple University Press, Philadelphia 1979).

    Sulle ragioni del sorprendente esito di quella battaglia, storici, politici e giornalisti hanno discusso a lungo. Hanno ragionato sul costo della guerra e il peso che questa aveva sulle finanze americane, sulla mobilitazione militare della quale il nord comunista aveva dato ampia dimostrazione, insieme con la sua tenacia nel resistere a un nemico enormemente più forte, sulle titubanze e i contrasti della dirigenza americana, sullo choc della gente che si sentì ingannata dai proclami trionfali di Johnson e Westmoreland (G. W. Hopkins, Historians and the Vietnam War. The Conflitcs Over Interpretations continue, in “Studies in Popular Culture”, 23, 2, 2000, pp. 99-108, 100).

     

    La foto iconica

    Fra le cause di questa sconfitta si citano spesso i media e, in particolare, alcune foto che ebbero un successo straordinario, dal momento che apparvero su giornali e tv di tutto il mondo. Erano immagini che colpivano il lettore. Non avevano bisogno di didascalie (No caption needed), talmente chiaro era il loro messaggio sulla brutalità della guerra. Erano foto iconiche. Robert Lariman e John Lucaites ci insegnano che per definire iconica una foto sono necessarie quattro caratteristiche:

    • è conosciuta da tutti,
    • evoca delle emozioni,
    • viene replicata all’infinito dai media,
    • continua a essere replicata nel corso del tempo (No Caption Needed: Iconic Photographs, Public Culture, and Liberal Democracy, Chicago, 2007).

    Questo genere di immagini “acquista immediatamente un carattere simbolico”: lo scrisse Wicki Goldberg, la studiosa che usò per prima questa espressione – foto iconica –  per distinguere quelle che avevano il potere metonimico di sintetizzare una storia in un colpo d’occhio e, qualche volta, addirittura di cambiarla (N. Smith Damen et al. (2018), The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon e W. Goldberg, The Power of Photography: How Photographs Changed our Lives, New York, 1991).

    Tutti ne conserviamo qualcuna in qualche angolo della memoria, come il miliziano ucciso durante la Guerra civile spagnola; o il vecchio siciliano che indica la strada al ragazzone yankee appena sbarcato in Sicilia nel 1943, entrambe frutto del genio visivo di Robert Capa; il bambino di Varsavia, immortalato da un anonimo fotografo al servizio di Hitler, e l’altro bambino, Ālān Kurdî, ripreso da Nilüfer Demir, morto sulla spiaggia di Bodrum. Le conserviamo non solo per la loro bellezza tecnica e per il loro carattere simbolico, ma perché attribuiamo loro un qualche significato profondo, un “valore” che le rende importanti ai nostri occhi.

    La guerra del Vietnam ce ne ha lasciate almeno sette:

    • The Burning Monkdi Malcom Browne (1963). Thích Quảng Đức era un monaco buddista che si diede fuoco per protestare contro il regime sud-vietnamita. “Nessuna fotografia nella storia del giornalismo ha mai generato le stesse emozioni di questa”, dichiarò John Kennedy.
    • Reaching out di Larry Barrows (1966), che informò gli americani che anche i marines potevano cadere in battaglia;
    • General Nguien Ngoc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon (1968) fu scattata da Eddie Adams per le strade di Saigon. È conosciuta anche con altri nomi: Rough Justice on a Saigon Street (Giustizia sommaria in una strada di Saigon), Têt execution o Saigon Execution, dizione che userò in questo contributo. Vinse il premio Pulitzer nel 1969 e, da allora, diventò il prototipo della foto che cambia la storia (M. Astor, A Photo That Changed the Course of the Vietnam War, 1 febbraio 2018, “N.Y. Times” e  R. Hamilton, Image and Context: The Production and Reproduction of The Execution of a VC Suspect by Eddie Adams, in J. Walsh et al. (eds.), Vietnam Images: War and Representation, Editorial Board, Lumiere (Co-operative Press Ltd 1989, p. 171).
    • And Babies? (1968) è il titolo del manifesto tratto dalla foto di Ron Haeberle, fotografo dell’esercito americano, che testimoniava le atrocità del massacro di My Lay, un evento che scosse l’opinione pubblica mondiale;
    • Kent State Massacre (1970), scattata da uno studente, John Filo, per testimoniare la sparatoria della Guardia Nazionale contro i giovani che protestavano contro la guerra del Vietnam;
    • Accidental Napalm(1972), di Nick Ut, la celebre foto della bambina nuda che fugge dal villaggio incendiato dal napalm;
    • Helicopter evacuation from Sai Gon(1975), di Hubert van Es che ritrae l’elicottero che imbarca i fuggiaschi dal terrazzo della residenza del capo della Cia a Saigon.

    Al principio del suo Flags of our Fathers(2006), il film che racconta le memorie ferite dei marines che issarono la bandiera americana sul monte Suribachi a Jwo Jima, Clint Easwood accosta The Saigon Execution alla celebre foto che ritrae la scena dell’alzabandiera (Raising the Flag on Iwo Jima), per la quale Joe Rosenthal guadagnò il Pulitzer in quello stesso 1945, proprio perché entrambe – si dice nel film - ebbero il potere di cambiare la storia: questa incoraggiando la popolazione americana a sostenere una guerra che pareva a molti troppo lunga e sanguinosa; quella, la Saigon Execution, convincendola della sua crudeltà inutile.

    The Saigon execution èinclusa da "Time"fra le cento foto che contrassegnano la storia contemporanea. Oltre a questa, il 1968 – un anno record! - ne conta altre tre: l’invasione di Praga, il saluto col pugno chiuso dei quattrocentisti neri alle olimpiadi del Messico e l’Earthrise, la foto del sorgere della terra scattata da Bill Anders mentre orbitava intorno alla luna.

    Su The Saigon execution imposterò un modello di laboratorio storico per questo genere di fonte visiva che ne permetta di mettere a fuoco i problemi storico-didattici e, al tempo stesso, fornisca ai docenti qualche idea concreta di lavoro

     

    Prima fase: lettura della fonte

    Una foto iconica si presta, quasi per natura, a un percorso che parte dall’approccio emotivo e si chiude con la riflessione critica. Lo organizzo in quattro fasi, che per ragioni di comodità vengono pubblicate in due puntate.

    Nella prima fase, dopo aver chiesto agli allievi di esprimere le proprie impressioni, li si guida alla lettura strutturata della fonte. Nella seconda, si sottopongono a revisione critica gli elementi ottenuti dalla lettura: confronto tra fonti diverse, valutazione della fonte e sua contestualizzazione. Nella terza, si affronta la questione del rapporto fra passato e presente, dal punto di vista della comunicazione e dei problemi etici che questa comporta. Nella quarta, infine, si focalizza l’attenzione degli allievi sul contributo che la storiografia può dare nella costruzione di una visione critica di quell’evento. Queste fasi sono organizzate, ancora, secondo un ordine progressivo di difficoltà. Le prime due sono composte da testi brevi, molto legati all’osservazione della fonte. Nelle successive, invece, i testi sono più lunghi e invitano a riflettere su questioni sociologiche, storiche e memoriali. Come si ribadirà in seguito, ogni fase può essere svolta sia nel modo tradizionale (lezioni e lettura dei testi: non mi occupo in questa sede della valutazione), sia in forme didattiche partecipate, delle quali si fornirà sempre un modello. Tuttavia, per favorire il docente che voglia provare strategie diverse, i brani sono di lunghezza breve (escluso gli ultimi due), in modo da poter essere “montati” altrimenti.

    Scrivono Jeffrey Walsh e James Aulich, i curatori di Vietnam Images: War and Representation (cit, pp. 1-9), che un’immagine cristallizza l’evento e lo decontestualizza. Il compito dello storico è quello di riportarlo nel suo contesto.  È questo lavoro che ci permette, da una parte, di capire in profondità quell’evento e, dall’altra, di rapportarci a quello correttamente, sia pure a distanza di quasi mezzo secolo. “Rapportarsi correttamente” vuol dire fare i conti con questioni quali la memoria pubblica, l’uso pubblico della storia, la cosiddetta “memoria condivisa” e i media, nuovi e vecchi, che sono lo strumento principale di socializzazione di questi problemi. Si tratta, dunque, di fare storia, ma al tempo stesso educazione alla cittadinanza e, come si vedrà soprattutto nella seconda parte (nelle proposte di Valerio Bernardi e Giulia Perrino), convocare intorno al tema posto dalla Saigon Execution altre discipline, come la filosofia e le scienze della comunicazione e artistiche.

    In questo laboratorio i documenti e i materiali non andrebbero presentati insieme, in un unico dossier, ma poco per volta, secondo le modalità che vengono di seguito indicate. Ho cercato di realizzare un’antica idea di Scipione Guarracino, che vagheggiava un’attività nella quale ad ogni nuovo documento gli allievi fossero spinti a modificare le conclusioni fino a quel momento raggiunte (S. Guarracino, La logica della ricerca e la didattica dell’archivio, in Didattica della storia e archivi. Atti degli incontri di studio, Caltanissetta, 1-2 dicembre 1986, a cura di C. Torrisi, Caltanissetta-Roma 1987, pp. 55-85). Mi sembra una buona strategia per far rivivere agli allievi il gusto della scoperta progressiva, tipico di una ricerca scientifica.

    Dopo aver motivato i ragazzi al lavoro e fornito gli elementi essenziali di contestualizzazione (date, luogo e motivi della guerra; cenni sull’Offensiva del Têt), l’insegnante presenta la foto, chiede di commentarla o di esprimere che cosa provano guardandola. Chiede, ancora, di ipotizzare che cosa essa rappresenti. In pratica, mette alla prova il potere della fonte iconica di suscitare emozioni senza bisogno di tante parole. Afferma un manuale recente: “La fotografia cattura perfettamente la drammaticità della morte e la disumanità della guerra. Il volto contratto del condannato e quello vuoto e rilassato dell’esecutore” (A. Graziosi, a cura di, Storie. Il passato nel presente, Giunti, Firenze 2019, p. 502). Il contrasto fra i due protagonisti della foto sollecita sentimenti e pensieri. Li si trascrive man mano che vengono espressi.

    Altre domande sono suggerite dallo stesso manuale: “le immagini della violenza contro i prigionieri vietcong ebbero un effetto dirompente nell’opinione pubblica americana”. Per riprendere il titolo di questo contributo, questa fu una foto “spartiacque”. Fino a quella foto, era stata una guerra di bravi ragazzi. Dopo, cominciò ad essere una sporca guerra. Perché? Chiediamo agli allievi di congetturare delle risposte.

     

    Una lettura strutturata

    Robert Hamilton fornisce un saggio di lettura denotativa di questa foto. Può essere una guida per mettere in luce particolari sfuggiti e stilare una descrizione analitica precisa.

     

    La fotografia mostra due figure principali. Una, in uniforme, è vista di profilo, con il braccio teso mentre punta una pistola alla testa dell’altra figura, che è in posizione frontale, veste una camicia a scacchi e ha le mani dietro la schiena. La fotografia include anche due figure marginali e l’ombra di una terza; ci sono alcune costruzioni in secondo piano, che vanno da destra verso sinistra, come uno scenario indistinto e poco chiaro.  Le due figure in primo piano stanno in piedi, in contrasto tonale con lo sfondo indistinto. La postura e l’espressione indicano che il colpo è stato appena sparato.

    La scena potrebbe indicare che “un soldato o un poliziotto spara a un civile disarmato per strada” (R. Hamilton, cit., p. 172).

     

    Angie Lovelace ci fornisce, invece, un modello di descrizione fortemente connotata, “semiotica”, come la definisce (Iconic photos of the Vietnam War era: A semiotic analysis as a means of understanting, 2010). In ogni caso, una descrizione molto partecipata.

    Il boia doveva essere consapevole della macchina fotografica puntata su di lui quando ha deciso di puntare la pistola contro il vietcong prigioniero. Ha girato il corpo e il viso lontano dall’obiettivo, nascondendo così la sua espressione e lo scopo della sua azione. Dal canto suo, il volto della vittima rivela paura e l’angoscia di essere ucciso.

    La camicia scozzese spiegazzata della vittima è l'opposto della mimetica tipica di un militare. Il suo abbigliamento dice a chi guarda che non è un militare, ma un cittadino che viene colpito a sangue freddo. Viene sparato a bruciapelo, senza processo, in una strada deserta. Non viene sparato con un mitra o un fucile, armi che in genere portano i soldati, ma con una pistola. Ciò accentua la disumanità della scena, perché questa non rappresenta più un’azione militare, ma l’odio fra due uomini, o, in questo caso, l’odio fra le due parti in conflitto

    La posizione delle braccia dei due personaggi mostra la disparità del potere. Il braccio del tiratore è steso orizzontalmente. Mentre preme il grilletto, i muscoli del suo braccio si tendono, mostrando il potere che sta esercitando sulla sua vittima. Le braccia del vietcong non sono visibili; sono legate dietro la schiena. Mostrano la sua privazione di potere e la sua impossibilità di reagire. Il vietcong è immobile. Nessuno lo sta trattenendo, ma non sta cercando di scappare. Ha accettato il suo destino. Non prova nemmeno a ruotare il suo corpo o a sottrarsi al colpo di pistola e al suo destino imminente.

    Il soldato a sinistra digrigna i denti. Il suo volto mostra l’emozione per l’atto raccapricciante che sta guardando.

    Questa foto crea empatia per la vittima e criminalizza l’esecutore. Si può anche non conoscere la situazione concreta, ma questo non impedisce di simpatizzare con la vittima e considerare questa scena inumana. Questa foto mostra un atto disumano, che enfatizza la disumanità della guerra del Vietnam nel suo complesso”  (A. Lovelace, cit., pp. 40-41).

     

    Procedimento didattico

    Questi due brani possono essere usati in vari modi. Possono essere spiegati oppure dati direttamente in lettura. Il docente li può tenere per sé e utilizzare come scaletta per domande guida per l’analisi, in un dialogo informale con gli allievi. Altrimenti, in modo più formale, proporrà di completare una tabella - individualmente o in gruppi - per poi controllarla avvalendosi delle descrizioni di Hamilton e Lovelace.

    Ciò che è importante, comunque, è tenere per fermo che più attenta è l’analisi del documento, più vivaci saranno le discussioni successive.

    Particolare della foto Descrizione analitica.   Significato                       
    Testa e volto dell'esecutore    
    Testa e volto della vittima    
    Corpo e braccia dell'esecutore    
    Corpo e braccia della vittima    
    Abbigliamento dell'esecutore    
    Abbigliamento della vittima    
    Armi    
    Personaggi secondari    
    Sfondo    

     

    La scena e i protagonisti

    In questa parte del laboratorio suggerisco di dividere la classe in tre gruppi. A tutti verrà consegnato il primo testo, la descrizione della scena (di seguito: testo a). Poi si suddivideranno le tre biografie (testi b, c, d), una per ciascun gruppo. Ogni gruppo, dunque, avrà due testi da leggere e commentare. Essendo testi brevi, si può prevedere un tempo ragionevolmente ridotto. Richard Stocktonpropone una ricostruzione dettagliata della vicenda, che può servire da guida all’insegnante per seguire il lavoro dei gruppi e gestire la discussione collettiva finale, facendo attenzione a non anticipare – e bruciare così – i temi che verranno presentati successivamente (The Story Behind Eddie Adams’ Iconic “Saigon Execution” Photo, 2020)

     

    a. La scena (per tutti i gruppi)

    Il primo febbraio i marines sudvietnamiti catturarono un sospetto vietcong presso la Pagoda buddista dove si era asserragliato un commando comunista. L’unica identificazione militare del prigioniero era una pistola, del tipo solitamente usato dagli ufficiali vietcong. Indossava una camicia a scacchi e pantaloncini corti. Fu condotto per la strada, con le mani legate dietro la schiena, di fronte al generale di brigata Nguyễn Ngọc Loan, capo della Polizia nazionale. Quando il prigioniero gli si avvicinò, Loan estrasse il revolver e lo agitò per allontanare i marines. Senza dire una parola, puntò la pistola alla tempia del prigioniero e premette il grilletto. L’uomo cadde per terra, mentre il sangue schizzava dalla ferita”. (Hamilton, p. 173). Poi, diretto verso i presenti, disse: “Questa gente uccide molti americani e molti dei nostri. Buddha mi perdonerà. (C. Bonnet, L'exécution de Saïgon: quand le photographe devient l'ami du tueur, “L’OBS”, 2017)

    saigon sequence

    Dalla sequenza delle foto si capisce che il reporter ha continuato a scattare anche dopo l’uccisione. Infatti, si vede il vietcong a terra e, nell’ultima inquadratura, un soldato americano che lo riprende, dopo che gli è stato posto sul petto un numero di riconoscimento. Poco dopo, non ripreso dal fotografo, passa un camion militare che raccoglie il corpo per seppellirlo in un posto ancora sconosciuto. 

     

    b. Nguyễn Ngọc Loan (1930 – 1998)

    Loan pizzeriaLoan nella sua pizzeria “Les trois continents” - in https://vietbao.com/a279394/ky-niem-voi-tuong-nguyen-ngoc-loan

    Aveva fatto l’aviatore nell’esercito del Vietnam del sud. Apprezzato per la sua bravura, ma anche grazie ad amicizie altolocate, fece carriera diventando generale e capo della polizia di Saigon. Svolgeva il suo lavoro con estremo rigore e spietatezza. Non faceva sconti a nessuno, nemmeno agli americani, che – difatti – lo consideravano un piantagrane fastidioso. Era adorato dai suoi uomini, tenacemente anticomunista e, al tempo stesso, convinto nazionalista, con un forte senso dello stato. Così lo descrive Pham Phong Dinh, un suo amico. Sappiamo, tuttavia, che fece accordi con la mafia locale, e dai proventi del traffico di oppio ricavava denaro da distribuire ai suoi agenti (Ho Dieu Anh and Spencer C. Tucker, voce Nguyễn Ngọc Loan, in Martin J. Manning and Clarence R. Wyatt (a cura di), Encyclopedia of Media and Propaganda in Wartime America, Clio, Oxford, 2011, p. 667).

     

    Aveva trentotto anni quando gli fu assegnato il compito di difendere il quartiere dove si trovava la Pagoda buddista, uno degli obiettivi dei guerriglieri durante l’Offensiva del Têt. La foto dell’esecuzione lo rese famoso e detestato in tutto il mondo. Tre mesi dopo l’Offensiva, fu ferito gravemente. Gli dovettero amputare una gamba. Trasportato in Australia per essere curato, venne riconosciuto e costretto a ritornare in Vietnam.

     

    Oriana Fallaci scrisse di lui che era la persona più odiata di Saigon. Lo aveva intervistato mentre era in ospedale. Gli chiese il motivo di quell’uccisione brutale. Lui rispose che il vietcong sparava senza uniforme. Era un vigliacco. Lo uccise perché fu preso da un moto di collera. “Forse fui veramente cattivo - concluse congedandosi dalla giornalista -  ma colui che uccisi era forse migliore di me?” (Niente e così sia, Rizzoli, Milano 1969, pp. 203-206)

     

    Nel 1975, quando il Vietnam del Nord vinse definitivamente la guerra, scappò negli Stati Uniti, dove aprì una pizzeria. La foto continuava a perseguitarlo anche qui. Denunciato per crimini di guerra, venne assolto da un tribunale americano: fra i testimoni a sua difesa ci fu lo stesso Eddie Adams, che nel frattempo era diventato suo amico. Morì di cancro nel 1998. Adams gli dedicò un elogio sul “Time”, nel quale scrisse: “in quella fotografia morirono due persone: il destinatario del proiettile e il generale Nguyễn Ngọc Loan. Io ho ucciso il generale con la mia macchina fotografica” (Eulogy: General Nguyen Ngoc Loan, “Time”, 27 luglio 1998).

     

     c. Nguyễn Văn Lém (1931 o 1932 – Saigon, 1 febbraio 1968)

    Nguyễn Văn Lém è stato un attivista vietnamita, membro del Fronte di Liberazione Nazionale, nelle cui fila combatteva col nome di battaglia di Bai Lop. Fu sommariamente giustiziato a Saigon dal capo della Polizia Nazionale della Repubblica del Vietnam, Nguyễn Ngọc Loan, durante l'offensiva del Têt, di fronte ad un cameraman dell'NBC e ad un fotografo dell'Associated Press, Eddie Adams. Il vietcong in questione era stato arrestato in quanto sospettato di aver ucciso un ufficiale sud vietnamita, sua moglie e sei dei suoi figli (uno dei quali sopravvisse). Nella stessa azione la sua unità, della quale Lém era l'ufficiale superiore, aveva inoltre sommariamente fucilato altri 31 civili. (Wikipedia e A. Miconi, Saigon Execution 1968: “The Photo that lost the War”, in “Problemi dell’informazione”, 63, 1, pp. 63-86).

     

    mogliePhilip Jones Griffiths, (1996), Nguyễn Thi Lop mostra un giornale con la foto del marito e la medaglia al valore del Vietnam, in https://pro.magnumphotos.com/Asset/-29YL5346576G.hIl giorno in cui fu ucciso, Nguyễn Thi Lop, sua moglie – che allora aveva 30 anni ed era incinta di un mese - vide i suoi vicini riuniti attorno a un giornale e si avvicinò loro. "Guarda Loan che uccide un vietcong!" uno di loro le disse. "Capii all'istante che era Lém", dichiarò in seguito Lop, "ma non potevo dire nulla, dovevo nascondere il mio dolore e portarmelo dietro come il fardello di un venditore ambulante mentre vagavo per la città cercando di scoprire in silenzio cosa fosse successo. Ero troppo terrorizzata per avvicinarmi alla sua unità per paura di essere identificata".

    Nel 1998, in occasione della morte del generale Loan, viene intervistata da un giornalista. È una bisnonna di 66 anni che non vuole dimenticare il passato. Ha battezzato sua figlia Loan “nel tentativo di purificare l'anima dell'uomo che lei chiama il male". Dice: “Una sola cosa avrei voluto: incontrare Loan e chiedergli perché aveva ucciso mio marito” (War secret dies with killer of Saigon, in “South China Morning Post”, 23 luglio 1998). Non serba rancore nei confronti del fotografo, perché solo grazie a lui – dice – si è conservato il ricordo di Lém, del quale non si trovò nemmeno il cadavere.

     

    Saigon Execution è esposta nel Museo della Guerra di Ho Chi Minh City (il nome odierno di Saigon). Nel nuovo contesto ha cambiato significato. Non testimonia la lotta fra mondo libero e comunismo né l’orrore della guerra. È il simbolo dei “tormenti del Vietnam” (R. Hamilton, cit., p. 181) e della guerra per la liberazione nazionale, per la quale Nguyễn Văn Lém è un eroe.

     

    d. Eddie Adams

    È il terzo protagonista di questa scena. Non compare nella foto, ma senza di lui quell’uccisione non sarebbe diventata l’Esecuzione di Saigon.

    Eddie Adams si era specializzato nei fotoreportage di guerra sotto le armi, avendo combattuto in Corea nel corpo dei marines, al principio degli anni ’50. Poi aveva cominciato a lavorare per l’Associated Press (AP), la più grande agenzia americana di fotogiornalismo. Nella sua lunga carriera ha scattato migliaia di foto, che gli avevano meritato oltre 500 premi e riconoscimenti di vario genere. Ma la foto per la quale è ricordato, e che lo rese celebre, fu proprio l’istantanea dell’uccisione di Nguyễn Văn Lém.

     

    meme lezamaIl fotografo vittima della sua foto. Montaggio (meme) di Julio Lezama, in Victimas o Victimarios, cit.Confessava di sentire quasi un senso di colpa per quella foto. Per lui, il Generale Nguyễn Ngọc Loan era una brava persona, un eroe che la foto trasformò in un mostro. In quei giorni Saigon era piena di cadaveri. Si sparava a vista contro chiunque. La foto non racconta tutta la storia – diceva - ma solo un pezzo. Racconta bugie e il generale ne era stato una vittima.

    Ma anche lui, in qualche modo, ne era una vittima. Si sentiva perseguitato da quella foto. Diceva di aver realizzato decine di reportage nei quali “nessuno si era fatto male”. Non gli piaceva di essere ricordato solo per quell’assassinio. Non sopportava, lui – ex-marine e sostenitore degli Usa – che la sua foto venisse usata come simbolo della politica militarista degli Stati Uniti dagli studenti che, nel frattempo, occupavano le Università e manifestavano nelle piazze di tutto il mondo. Non sopportava che fosse diventata “un dannosissimo e perfetto strumento di propaganda nelle mani del Vietnam del nord” (R. Hamilton, cit.,  p. 179).

     

    Quando il generale estrasse la pistola, pensava che l’avrebbe usata per minacciare il prigioniero, per farlo confessare. Dichiarò che non avrebbe mai immaginato che avrebbe sparato (BB news, 29 gennaio 2018). Ma, dopo il colpo, Loan si voltò verso di lui e disse che quell’uomo aveva ucciso molti americani e molti vietnamiti (qui Eddie Adams parla della Saigon Execution, nel 2008).

     

    Discussione e lezione conclusiva

    I tre gruppi, dopo aver letto e discusso brevemente le biografie, confrontano le loro conclusioni. Tutti insieme, poi, verificano le impressioni espresse all’inizio dell’attività. Erano corrette? Vanno modificate e in che modo? È accettabile l’assunto che una foto iconica “non ha bisogno di didascalie”?

    Può essere usato come “innesco della discussione” questo testo di Julio Lezama, che gioca molto sull’emotività. Nel caso l’unità di lavoro finisca qui, l’insegnante terrà conto – per la sua lezione conclusiva - dell’andamento del dibattito, dei problemi emersi e, soprattutto, dei nuovi dati presentati nella seconda fase.

     

    TRE FOTO

     (J. Lezama, Victimas o Victimarios, cit., con qualche modifica)

     

    Seconda fase. Lettura critica e contestualizzazione della fonte

    Adams pulitzerEddie Adams riceve il Premio Pulitzer nel 1969 e mostra la foto premiata, in J. Lezema, Victimas o Victimarios cit.

     

    Procedimento didattico

    Questa seconda fase si apre con uno schema riassuntivo delle conclusioni raggiunte, che si potrebbe comporre con l’aiuto di questa tabella:

     

      Le nostre conclusioni
    Eddie Adams  
    Nguyễn Ngọc Loan  
    Nguyễn Văn Lém  
    Impatto della foto con il pubblico  
    Incidenza della foto nella guerra  

     

    Anche in questa seconda fase consiglio tre gruppi di discussione:

    • sulla produzione della fonte iconica (testo e);
    • sul’affidabilità dei testimoni (testo f);
    • sul suo impatto sul pubblico (testo g).

    L’insegnante consegna a ciascun gruppo uno dei tre testi (e, f, g), insieme con quelli già esaminati nella prima fase (a, b, c, d). Quindi ogni gruppo avrà un dossier di cinque testi su cui lavorare, dei quali almeno due già letti e commentati. Essendo, anche in questo caso, testi brevi, si prevedrà un tempo ragionevolmente ridotto. Terminata l’analisi, ci si riunisce e si decidono le eventuali modifiche da apportare allo schema iniziale. Come per la fase precedente, se il lavoro ha preso troppo tempo, si può chiudere a questo punto con la lezione conclusiva. Altrimenti, si passerà alla terza fase.

     

    Il laboratorio di discussione

    Come abbiamo appena detto, l’insegnante consegna a ciascun gruppo il piccolo dossier e i gruppi si riuniscono separatamente per discuterlo. Questa volta, però, sono necessarie alcune avvertenze, dal momento che i nuovi testi metteranno in luce delle contraddizioni e faranno sorgere molti dubbi.

    La rete – e, in genere, la storia pubblica -  ci ha abituato a paralogismi, derivanti in larga misura dall’impianto argomentativo del negazionismo. Nel nostro caso in particolare, occorrerà fare attenzione alla regola del “falsum in uno, falsum in toto”, tipica dei legal thriller in tv e ampiamente usata nella storia “faidate”. Un testimone dice una bugia, dunque è screditato e la sua testimonianza va rigettata interamente. (Su questa “parastoria” sono già intervenuto qui, su HL).

    L’assunto storico, invece, è che tutti i testimoni “dicono bugie”, nel senso che raccontano la realtà dal loro punto di vista, e nel senso ancora che, col passare del tempo, cambiano opinione e riformulano la loro esperienza (la storiografia ha ampiamente lavorato su questi punti). Le regole della parastoria sono, a ben vedere, delle scorciatoie per pigri. La bravura dello storico è proprio quella di lavorare con pazienza sulle testimonianze, rispettandole tutte, eliminare “le scorie” e cercare di delineare una ricostruzione della realtà alla quale la fonte fa riferimento, mai facile e lineare, sempre piena di dubbi.

    Posti, dunque, di fronte a questi nuovi documenti, sarà possibile che gli allievi ricorrano a qualcuno degli espedienti conoscitivi parastorici: “allora tutto è falso”, “allora questo testimone è un imbroglione”, “allora non si può sapere cosa accadde”. Il docente sceglie se prevenire le possibili interpretazioni sbagliate con una breve lezione prima del laboratorio, oppure aspettare gli allievi al varco, con le loro interpretazioni spontanee, e discuterne con loro. “Ogni documento è menzogna. Sta allo storico di non fare l’ingenuo”: Jacques Le Goff scrisse questa regola aurea nel 1978. Vale anche per le foto iconiche (potrà essere utile attrezzarsi con la rilettura della voce monumento/documento dell’Enciclopedia Einaudi).

    Nella redazione del testo riassuntivo della discussione, dunque, il fatto in sé non va messo in dubbio. Susan Sontag, la celebre scrittrice e studiosa della fotografia, ci assicura che non c’è alcun motivo per sospettare dell’autenticità di quello che vediamo nella foto che Eddie Adams scattò il primo febbraio del 1968 (S. Sontag, Regarding pain of the Others, Picador, N.Y. 2003, p. 47). Le domande, le incertezze, le ipotesi, le suggestioni contrastanti riguarderanno i motivi di questa azione, le intenzioni dei protagonisti, il suo significato, il contesto e l’impatto che questa ebbe sulla società.

    Ecco i nuovi testi da consegnare agli allievi.

     

    e. La produzione della fonte

    Eddie Adams è solo uno dei 537 addetti stampa che seguono la guerra. L’Associated Press (AP), l’agenzia per la quale Adams lavora, è presente in forze con più di venti fotografi. Ogni giorno di guerra vengono scattate migliaia di foto. Solo poche di queste passano il filtro delle redazioni e vengono comprate dai media. Solo pochissime diventeranno le “foto che tutti guardano”, quelle che ti rendono famoso. Si può immaginare quanto sia spietata la concorrenza fra i reporter. Confessa Horst Faas, rivale acceso di Adams: "Cercavo di apparire sui giornali ogni giorno, per battere la concorrenza con foto migliori" (A. Hamilton, Horst Faas. The Chronicler of Vietnam who captured horror, 2012).

     

    E, per converso, poiché i media erano una macchina enorme che viveva delle loro foto, si può immaginare quale pressione le diverse agenzie fotografiche esercitassero sui fotoreporter, spingendoli a correre rischi a non finire pur di scattare un’istantanea di successo. Non dobbiamo dimenticare che, nel corso di quella guerra, ben 135 di loro persero la vita (T. Bartimus, A homage to the photojournalists lost to decades of war in Vietnam, 29 aprile 2020). 

     

    Adams era supportato da una troupe della NBC, una delle più importanti reti televisive americane, che lo seguiva nella sua caccia. Quella mattina, dunque, quando si seppe che un vietcong era stato catturato, il gruppo di giornalisti si precipitò per strada, seguì il drappello di soldati che scortava il prigioniero e, quando questi fu portato di fronte al generale, si schierò per riprendere ciò che sarebbe accaduto. Questo vuol dire che la foto mostra unicamente alcuni dei partecipanti alla vicenda. Ma il generale Loan non è solo con la sua vittima. Ha di fronte a sé un gruppo di fotoreporter e cameramen, con i loro assistenti, armati di macchine fotografiche, telecamere e microfoni. Sa che, attraverso loro, è osservato da un pubblico mondiale. Loan, quindi, vuol dare una lezione al mondo. “Non avrebbe giustiziato sommariamente il sospetto vietcong se non ci fossero stati dei giornalisti a testimoniarlo”, conclude lapidariamente Susan Sontag (S. Sontag, Regarding pain of the Others, Picador, N.Y. 2003, p. 47).

     

    È versaigon camera oscuraThe Saigon Execution, nella camera oscura, dopo essere stata sviluppata, viene messa ad asciugare.o che, successivamente, Adams ebbe a dolersi di questa foto. Aggiunse, per rincarare la dose, che era una foto sbagliata, fatta male, che non l’avrebbe mai voluta scattare (M. Persivale in “Corriere della Sera”, 24 dic. 2009) . Ma Peter Arnett, uno dei giornalisti americani più famosi e seguiti, racconta di quella notte in cui Adams sviluppò i negativi, aiutato proprio da Horst Faas che li esaminava con la lente di ingrandimento: rivela che quando questi vide la foto “mormorò 'maledetto' e consegnò il film a Eddie che lo guardò e lanciò un ‘whoop’ ". I due fotografi avevano capito a colpo d’occhio che quella foto valeva oro (In guerra con Eddie Adams, “The digital Journalist”, ottobre 2004). Infatti, quando il rollino giunse nella sede dell’AP, i giornalisti esplosero in esclamazioni di giubilo (R. Hamilton, cit., p. 182).

     

    f. L’affidabilità dei testimoni

     

    Non abbiamo testimonianze dirette e al tempo stesso complete della Saigon Execution. I testimoni raccontano i particolari poco per volta, spesso dopo anni. Per esempio: che cosa disse Loan, dopo aver ucciso il vietcong? Adams, in varie occasioni, dichiarò che pronunciò queste parole: "Ha ucciso molti dei miei uomini e molti della tua gente". Questa frase viene riportata concordemente dalla stampa del tempo (R. Hamilton, cit., pp. 175-176). Invece, secondo David D. Perlmutter, studioso di foto iconiche che scrive nel 2004, Lém avrebbe detto: “Molti americani sono stati uccisi in questi ultimi giorni e molti dei miei migliori amici vietnamiti. Ora lo capisci? Buddha lo capirebbe”. Altri, ancora, specificano: “Buddha mi perdonerà”. (C. Bonnet, cit., 2017). Ma noi possiamo pensare, leggendo l’intervista di Oriana Fallaci, che Loan era cristiano (“aveva un crocifisso al collo”). Quanto sono credibili le aggiunte?

     

    Inoltre: come faceva Loan a sapere che Lém aveva ammazzato senza pietà una famiglia intera? La sequenza delle foto, e più ancora il video girato dalla NBC, non sembrano lasciare spazio a un momento in cui il generale viene informato. Il prigioniero arriva e viene immediatamente giustiziato: il tutto in meno di dieci secondi. Nella ricostruzione di Ken Burns, il viet cong arriva, Loan ordina a un soldato di ucciderlo, e quando questo indugia, allontana tutti agitando la pistola, dice “ti giustizio” e lo uccide. (In The Execution of a vietcong, History Channel, 2016, min. 2.20-2.30, con spezzoni di intervista a Adams e alla moglie di Lém).

     

    Le precisazioni si aggiungono e si accavallano col passare del tempo: ha ucciso una famiglia intera, con i nonni e i bambini; no, era la famiglia di un amico di Loan; in più, ha ordinato la fucilazione di oltre trenta civili. Oriana Fallaci chiede a Loan perché non divulgò subito i crimini commessi da Lém. Lui rispose, con uno scatto di orgoglio, che non aveva bisogno di giustificazioni. Potremmo rivolgere la stessa domanda all’Amministrazione Usa, quando si accorse che la foto stava diventando uno strumento della propaganda antiamericana. Perché non dirlo subito, per fermare l’uso ostile di quella foto? Nel 1985, Ted Welch notava una contraddizione in una intervista che Adams aveva appena rilasciato a “Newsweek”. Questi, infatti, aveva affermato che “quell’uomo aveva ucciso il miglior amico di Loan e tutta la sua famiglia”. Welch trovava che questa coincidenza fosse difficile da credere, e si chiedeva perché Loan (o Adams stesso, aggiungiamo noi) non avesse divulgato questa informazione, data l’attenzione pubblica che l’esecuzione aveva richiamato” (R. Hamilton, pp. 181 s.).

     

    Lém, il vietcong, è veramente un assassino spietato? La moglie sostiene che non ha mai fatto nulla di male e che, in realtà, lo si è confuso con un'altra persona. Notizia ripresa dalla versione vietnamita di Wikipedia che mette in dubbio l’identità della vittima.

     

    g. L’impatto sociale della fonte

    Lo ripetono in molti, quasi come un mantra, nei commenti e nei libri che parlano della Saigon Execution: quella foto fu una bomba psicologica che allontanò la maggioranza della popolazione dal sostegno alla guerra e costrinse l’amministrazione americana a iniziare una procedura di sganciamento. È la foto che fece perdere la guerra.

     

    Sostiene questa tesi Peter Braestrup, fotoreporter tra i più impegnati in quella guerra (Big Story: How the American Press and Television reported the Crisis of Tet 1968: vedine la buona recensione di George Herring, 1979). Ma di parere decisamente diverso è Don Oberdorfer, anche lui un giornalista sempre presente sui campi di battaglia.

     

    Potremmo continuare con le citazioni: la discussione fra gli addetti ai lavori è inesauribile. Per trovare qualche punto fermo, dobbiamo uscire da quel dibattito e cercare tracce concrete dell’impatto popolare della foto. Se, dunque, andiamo a vedere i sondaggi, questi ci danno un risultato paradossale: da una parte aumentano coloro che pensano che la guerra verrà perduta; ma dall’altra, ed è questo che ci interessa, i sostenitori della guerra non diminuiscono affatto, anzi aumentano. Infatti, i contrari all’intervento americano, che erano il 52% nel febbraio del 1967, scesero al 42% un anno dopo, a foto già pubblicata (W. M. Hammond, The Tet Offensive and the News Media, in “ Army History”, 70, 2009, pp. 6-16, 9 ). David D. Perlmutter (2004) scrive che “non c’è nessuna prova che questa foto abbia avuto un effetto significativo sulla pubblica opinione americana”. E conclude il suo studio sulle fonti iconiche sostenendo che quello della “foto che fece perdere la guerra” è solo un mito. 

     

    Ciò che va in crisi – continuano a raccontarci le ricerche sul campo -  è la fiducia in Lindon Johnson, il Presidente americano. La gente non crede più che sia la persona adatta a guidare la nazione. Contro di lui si schierano, quindi, sia i pacifisti, che lo accusano di aver aumentato a dismisura l’impegno americano nel Vietnam, sia i "falchi frustrati", i sostenitori della guerra che lo avevano appoggiato fino a quel momento, ma che ora vogliono che venga sostituito da un nuovo condottiero. (P. Hagopian, The “Frustrated Hawks, Tet 1968, and the Transformation of American Politics, in “European Journal of American Studies, 2008, numero speciale sul ’68).

     

    Ma non si tratta di interpretazioni spontanee. Perché l’icona sviluppi le sua forza ha bisogno di persone, di apparati che ne guidino la lettura. Il potere sociale della foto non promana dall’immagine in quanto tale (N. Smith Dahmen et al., The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon).

     

    Quella foto fu usata dall’apparato propagandistico vietnamita e in tutto il mondo diventò il simbolo dell’aggressione americana. Fu autentica benzina per i movimenti contestatori pacifisti, ma – osserva Martin Kemp – “potremmo supporre che venisse usata anche per dire ai Vietcong : “ecco cosa vi può capitare …” (Christ to Coke. How image become ikon, Oxford U.P, 2012, p. 207). Forse fu proprio questa sua duttilità che non dissuase gli americani dal loro appoggio alla guerra e dal desiderio “di fargliela pagare” ai guerriglieri comunisti. D’altra parte, non ci erano riuscite le ben quarantamila immagini prodotte e fatte circolare dal movimento pacifista. Ciò che questa foto ottenne (o rinforzò) fu il giudizio negativo sul modo con il quale l’amministrazione stava conducendo quella guerra, ma non sulla guerra in sé. (D. Kunzle, Killingly Funny: US Posters of the Vietnam Era, in Vietnam lmages: War and Representation, cit., pp. 112-122).

     

    Inoltre, in quel 1968 avvennero altri fatti gravissimi che sconcertarono gli elettori americani e che influirono nell’orientarli politicamente: l’assassinio di Martin Luther King, il leader del movimento per i diritti civili dei neri (15 gennaio); l’assassinio di Bob Kennedy, il fratello di John, che privò del suo principale candidato l’ala progressista del partito Democratico (6 giugno). Il 20 agosto le truppe del patto di Varsavia invasero Praga e – evento probabilmente decisivo – il 26 agosto la Convention del partito Democraticosi spaccò fra i sostenitori della guerra – i falchi frustrati – e i pacifisti, . Questa degenerò in scontri violenti, nei quali intervenne brutalmente la polizia. Ha scritto di recente Louis Menand che da quel momento gli elettori bianchi abbandonarono il partito Democratico, come apparve chiaramente alle elezioni presidenziali del successivo 5 novembre, che consegnarono a Richard Nixon la palma del vincitore (David Culbert discute l’impatto complessivo di questi eventi sull’opinione pubblica americana in Television's Visual Impact on Decision-Making in the USA, 1968: The Tet Offensive and Chicago's  democratic National Convention in “Journal of Contemporary History”, 33, 3, 1998, pp. 419-449).

     

    La foto ebbe certamente il potere di deprimere il Presidente Johnson, al punto da spingerlo a non ripresentarsi per il secondo mandato. Ebbe un grande impatto sulle élites mediatiche, sui giornalisti, la gente di cultura, i politici, i giovani del Sessantotto. Sul resto della popolazione – la maggioranza - non sembra aver avuto lo stesso effetto. Con le parole di Perlmutter: “The Saigon Execution colpì Johnson, ma non la gente, che non si lascia convincere da una sola foto, e per la quale la vittima era comunque un nemico, uno che spara ai nostri ragazzi”. William M. Hammond è ancora più chiaro: “Quello che la maggior parte del pubblico pensava aveva poco a che vedere con quello che presumevano i critici dei media” (The Press in Vietnam as agent of defeat, in “Reviews in American History”, 17, 2,1989, pp. 313-323, 315).

     

    “Il punto cruciale, quindi, è che il contesto più importante - e spesso trascurato - della valutazione di un'immagine iconica sono i pregiudizi del pubblico; come sempre, credere è vedere. Le persone possono guardare qualsiasi immagine e creare ciò che vogliono farne. I commentatori d'élite si inoltrano su un terreno psicologico molto incerto quando affermano che qualsiasi immagine "naturalmente" provoca una certa reazione. Un'immagine può essere "divertente" per una persona e "rivoltante" per un'altra”. (N. Smith Dahmenet al., cit.).

     

    Il punto sul dibattito in classe

    Il dossier appena esaminato dovrebbe permettere alla classe di giungere a nuove conclusioni, con le quali modificare quelle che hanno aperto questa seconda fase.

    Che cosa ci dice della guerra del Vietnam questa foto, se la guardiamo al di fuori del suo contesto? Nulla di più di ciò che si deve dire, normalmente, di qualsiasi guerra. L’orrore della morte. Nelle guerre si uccide e si viene uccisi. La fonte aggiunge a questa informazione una emozione così violenta da indurre un forte senso di ripulsa. È probabile che questa sia la reazione di tutti, ieri come oggi. Ma “ripudiare la guerra in generale”, come abbiamo visto, non equivale al rigetto di quella guerra particolare.  

     

    Ciò che interessa lo storico non sono (soltanto) le reazioni emotive. Sono piuttosto i giudizi e le conseguenze che ne ricava il destinatario di quella foto. Questo laboratorio dovrebbe aver permesso di scoprire che, nel passato, ognuno vi ha ascoltato e visto cose diverse: il vietnamita, il giovane contestatore, il presidente Johnson o il suo successore, Richard Nixon, un esponente della minoranza colta o della maggioranza popolare americana. Ognuno ha visto nella foto qualcosa che confermava suoi convincimenti precedenti.

     

    Questo laboratorio, di conseguenza, ha posto il problema di cosa possiamo vederci noi. Innanzitutto, ci ha indotto a prendere qualche distanza dalla lettura spontanea di una fonte iconica. Forse è proprio questa che favorisce la mitologizzazione dell’immagine. Nell’analisi micro (la scena dell’esecuzione), abbiamo osservato, invece, che quella foto non ci racconta di protagonisti completamente cattivi, né di vittime del tutto innocenti. Per quanto riguarda il contesto generale, abbiamo intravisto una macchina poderosa, quella dei media, che agisce in una situazione politica e militare complessa, che si avvale di questa foto come di un potente strumento di combattimento. Quella foto, dunque, non ci informa sulla guerra (della quale non ci dice molto di più di quello che sappiamo da altre fonti e, oltre tutto, ce lo dice anche con qualche incertezza), ma è essa stessa un’arma di quella guerra. Se la guerra è un orrore, quella foto non va considerata da noi come uno “spiraglio per guardarlo meglio”, ma come uno degli strumenti in qualche modo coinvolto nella sua produzione.

     

    Certo, di molta parte delle testimonianze di guerra si può dire che sono talmente coinvolte nel conflitto da farne parte attiva. Lo specifico della foto iconica è proprio in quella sua potenza evocativa che fa pensare a tutti (anche a molti studiosi) che non ha bisogno di didascalie. No captions needed. Ma, senza parole, l’icona può essere piegata a molte interpretazioni e, quindi, usata da molti soggetti. "Il potere delle immagini iconiche non è una forza unica che copre tutte le eventualità. Piuttosto, un'immagine iconica può avere potenzialità diverse che possono o meno coincidere con l'interpretazione di quell'immagine o il modo in cui tale immagine viene impiegata”. (N. Smith Dahmen et al., cit., The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon).

     

    *questa è la prima parte di un articolo sulla Saigon Execution, a sua volta parte di un corposo intervento di HL sul Sessantotto, composto da due interventi su “Sessantotto. Un anno spartiacque”, scritti da me; da due sitografie sul Sessantotto e una sui movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam, scritte da Antonio Prampolini; una presentazione multimediale interattiva per svolgere il laboratorio con una LIM oppure a distanza, curata da Lucia Boschetti. 

  • The Saigon Execution. “La foto che fece perdere la guerra”. (Seconda parte)*

    Laboratorio su una foto iconica: il rapporto col presente. 
    Con un'appendice interdisciplinare di filosofia e storia dell'arte.

    di Antonio Brusa

     

    Introduzione

    Dopo aver analizzato e contestualizzato The Saigon Execution nella prima parte di questo laboratorio, ora cerchiamo di approfondire il rapporto fra noi e quel documento di cinquant’anni fa. Si tratta di lavorare in uno spazio quasi naturalmente interdisciplinare, dal momento che vi sono interessate filosofia, letteratura e le discipline della comunicazione in curricolo (visiva e no). Qui ci occuperemo solo del versante storico/storiografico, lasciando ai colleghi il compito di approfondire le tracce delle altre materie.

    01Fig. 1 E. Adams/Associated Press, General Nguyễn Ngọc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon (1968).Nguyen Hanhil regista del filmato della NBC, che come si è già visto, venne girato mentre Adams scattava la foto, confessa che quella scena è ancora oggi intollerabile (in “IndieWire”, 23 sett. 2017). Ha spiegato con efficacia Susan Sontag: “Chi guarda oggi, anche a molti anni di distanza da quando quella foto fu scattata, è come chi guardava allora… bene, uno può fissare queste facce a lungo e non raggiungere mai il fondo del mistero, e dell’indecenza, di essere una sorta di co-spettatore” (Regarding pain of the Others,  cit, pp. 47 s.).

    Più di cinquant’anni ci separano dalla nascita di quell’icona. Dentro questo mezzo secolo si sono susseguiti cambiamenti quali di rado studiamo in altri periodi storici. Con quella guerra è finito il trentennio postbellico di crescita galoppante che gli storici chiamano “l’età d’oro”. La successiva globalizzazione ha creato un nuovo scenario mondiale che, dopo la crisi del 2008 e quella attuale del Covid19, probabilmente ci riserva mutamenti ancora più radicali. In ciascuna di queste epoche, nonostante la loro diversità, l’icona di Saigon non ha cessato di scioccare chi la guardava. Ogni volta, come scrive Sontag, ha creato nello spettatore la sensazione di essere in quella strada di Saigon. Quando guardiamo la foto, quei cinquant’anni sembrano svanire: è la straordinaria capacità dell’icona di nascondere il tempo.

    Ricontestualizzare quella foto è anche capire la differenza fra il mondo nel quale venne prodotta e quello nel quale, noi, oggi, la osserviamo. È riuscire a “vedere” il tempo che si frappone come un filtro attivo fra noi e la fonte, modificandone continuamente il senso e, insieme, riuscire a collocarci nel “posto giusto” per guardare quell’evento.

    Il materiale di questa sezione può essere organizzato didatticamente in vari modi. Da quello più tradizionale, come supporto per una o due lezione, a modelli più interattivi e di discussione, sulla falsariga delle proposte precedenti. Divido il percorso ancora una volta in due fasi. Nella prima (la terza fase del percorso completo) si affronta la questione della differenza fra il nostro tempo e gli anni ’60 dal punto di vista della circolazione e della fruizione delle immagini. Successivamente, a partire dall’analisi del documentario di Ken Burns e Lynn Nowick War in Vietnam (visibile in Italia su Netflix), si porrà la questione fondamentale del rapporto fra la storia scientifica e l’uso pubblico del passato.

    Per la terza fase suggerisco di fornire agli allievi una tabella per fissare le idee durante la lettura del dossier, composto, possibilmente, da tutti i brani che qui sono riportati. La tecnica è quella già sperimentata. Il dossier si legge individualmente (anche a casa) o nel piccolo gruppo e si compila contestualmente la tabella. Poi si discutono le conclusioni in plenaria: interesserà scoprire se gli allievi comprenderanno fino in fondo la necessità di una solida educazione all’uso dei media e alla lettura delle immagini nella nostra società della comunicazione. I testi di questa sezione sono più lunghi e concettualmente più densi della sezione precedente. Quindi la durata di questa fase dipenderà dalla competenza della classe.

     

     

    Anni ‘60

    Oggi

    Osservazioni/conclusioni personali

    Numero immagini e strumenti per produrle

         

    Deperibilità immagini

         

    Soggetti produttori delle immagini

         

    Agenzie di produzione/regolazione della circolazione delle immagini

         

    Cultura/etica dei produttori di immagini

         

    Cultura/etica dei fruitori di immagini

         

     

    1. Terza fase: dalle icone ai selfie

    Numeri e differenze di mondi

     

    "Quest'anno scatteremo mille e duecento miliardi di foto", ha scritto nel 2017 Caroline Cakebread. Se l’incremento è quello descritto dal grafico – più o meno cento miliardi l’anno - le foto scattate in questo 2020 dovranno aggirarsi intorno ai millecinquecento miliardi. Al tempo della guerra del Vietnam il numero delle foto era sui 3 miliardi ogni anno. Una quantità imponente rispetto al passato, che già allora marcò la differenza fra quella guerra e tutte le precedenti. La medesima quantità diventa irrisoria se confrontata con quella dei tempi attuali, quando un miliardo di foto si consuma in quarantott’ore, e basta una settimana per produrre tutte le foto che si facevano allora in un anno. È una disparità che ci avvisa dell’enorme distanza (che non è solo tecnologica) fra il nostro mondo e quello di The Saigon Execution.

    02Fig. 2 Gli smartphone producono il boom fotografico 

    Infatti, se la rivoluzione della tecnologia è scandita dal passaggio della macchina analogica a quella digitale e, in questo scorcio di secolo, agli smartphone, ad essa si accompagna un rivolgimento culturale complessivo, dovuto al fatto che la rete trasforma il pubblico che guarda la foto nell’attore principale della sua diffusione. (Questa “rivoluzione fotografica” è parte della più vasta rivoluzione digitale, sulla quale si veda il dossier per le scuole curato da A. Cavalli, su “Mundus. Rivista di didattica della storia”, 3-4, 2009, pp. 62-90). 

    Saigon Execution venne stampata in piena “Golden Age” della fotografia. Era il periodo nel quale il sistema professionisti/agenzie/media dominava la circolazione delle immagini. Queste, come abbiamo già visto nella seconda fase di questo lavoro, erano realizzate da fotografi professionisti, spesso dipendenti da grandi agenzie; venivano selezionate dalle direzioni dei giornali e dei network e da queste distribuite in tutto il mondo. Questo sistema, che aveva gestito l’informazione su guerre, matrimoni regali, assassini di presidenti, morti di principesse, viene travolto quasi di colpo dallo “tzunami delle immagini”.

    Di colpo, i produttori di foto si sono moltiplicati all’infinito, e ciascuno di essi è diventato il possibile punto di partenza di una distribuzione mondiale.

     

    Una foto emblematica del presente

    03Fig. 3 J. Krums, The Hudson Miracle (2009) https://twitter.com/jkrums/status/1121915133?lang=e.The Hudson Miracle (2009)la foto dell'aereo fortunosamente ammarato nell'Hudson, fu scattata col suo cellulare da Janis Krumsun giovane emigrato lettone che si trovava per caso su un aliscafo di linea che, visto l’incidente, aveva sollecitamente virato per andare a salvare i passeggeri. L’aveva twittata ai suoi 170 followers, commentandola come si fa con gli amici: “C’è un aereo sull’Hudson. Sono sul ferry per recuperare le persone. Pazzesco”.  La foto divenne virale. In un battibaleno entrò nelle redazioni e nelle case della gente comune di tutto il mondo. I fotogiornalisti dell’AP arrivarono sul posto troppo tardi, beffati da uno sconosciuto. "E' la cronaca istantanea fatta dai cittadini",  commentò quel giorno la stampa Citizen photo of Hudson River plane crash shows Web's reporting power, in "Los Angeles Times", 15 gennaio 2009).

    Dentro quel commento vi era l’aspettativa dell’annullamento di due distanze: quella tra il fatto e la cronaca (dal momento che questa diventava istantanea) e quella fra il cittadino e il giornalista (dal momento che le due figure si identificavano).  The Hudson Miracle sembrava far emergere il lato positivo – democratico - di quell’11 settembre di otto anni prima, quando l’umanità intera vide compiersi sotto i suoi occhi l’attentato alle Torri gemelle.

     

    Icone perenni e icone a tempo

    Giudicato dall’osservatorio del XXI secolo, il mondo dello smartphone è quello della disintermediazione, opposto a quello di una camera oscura dove qualche Eddie Adams decide che cosa gli altri debbano vedere della guerra e come lo debbano vedere. Citizen-journalist contro Citizen Kane, potremmo dire con una facile battuta. Quel mondo, infatti, ci appare elitario, se lo confrontiamo al nostro, della produzione e del consumo di massa delle immagini. “C’era una golden age delle immagini iconiche, caratterizzata dal controllo top-down delle élites mediatiche. Ora, quest’era è finita, o sta finendo”. Ma in luogo di cedere il passo alla nuova età della democrazia informativa, il tempo nuovo sembra caratterizzato da “anarchia e da caos” (N. Smith Dahmen et al., cit.).

    Il caos si vede nelle immagini che si accavallano, si diffondono alla velocità della luce e scompaiono quasi con altrettanta rapidità. Anche quelle che diventano famose, e sono condivise da tutti nei social media, spariscono nel giro di pochi giorni. Sono le “hypericons” del XXI secolo. Questo neologismo designa icone a scadenza rapida, che durano a volte pochi giorni e svaniscono, trascinando spesso con sé le emozioni che hanno suscitato. 

    Un caso esemplare è quello della foto di Alan KurdiSi tratta di un’istantanea molto simile a quella di Adams, dal momento che venne scattata da una fotografa professionista per un’agenzia di foto (Turkish Dogan New Agency, 2015) e diventò rapidamente un’icona potente, capace di smuovere governi. A cinque anni di distanza, ha conservato una certa carica emotiva (non si può restare impassibili guardando quel bambino), ma la sua forza politica e sociale, diluitasi nelle centinaia di morti in mare e cambiato il clima politico generale, è ormai incapace di incidere, come pure fece per breve tempo, sulle misure restrittive anti-migrazione (Dahmen ed al., cit., pp. 295 ss.). .). Il pubblico, sommerso da questo “tzunami nel salotto”, è quasi anestetizzato dalle tragedie che commuovono e scorrono veloci sui vari display domestici. Ne sono disorientati anche i professionisti dell’immagine. James Estrin intervista giornalisti e addetti ai media che si interrogano sulla difficoltà di produrre immagini che vincano l'immenso rumore di fondo della rete, che restino nel tempo e, addirittura, se ci sarà ancora spazio per qualcuno che faccia il loro mestiere. (Fact and Fiction in Modern Photography, 2015).

     

    Krums e Adams. Due mondi a confronto

    Il caos e l’anarchia caratterizzano anche il soggetto centrale di questa nuova società della comunicazione, il cittadino produttore/consumatore di immagini. È, come annunciava il “Los Angeles Times”, il prototipo del nuovo cittadino democratico? Anche in questo caso, l’Hudson Miracle è emblematico.

    Il commento via twitter che Janis Krums invia agli amici è una sorta di didascalia che ci aiuta a trovare qualche risposta. “Pazzesco”, digita Krums. “Pazzesco!” esclamano quelli che riprendono incidenti stradali, tzunami e terremoti, animali domestici, un arresto, una scazzottata, e riversano tutto nella rete.  “Pazzesco, esagerato, forte, allucinante” non sono solo espressioni tipiche del gergo fra pari, ma sono anche il criterio e la ragione per la quale l’immagine viene prodotta e messa in circolazione. A differenza di Adams, Krums non ha il dovere di mostrare ai concittadini eventi che giudica notevoli. Ha, piuttosto, il piacere di condividere con gli amici qualcosa di divertente, eccitante, strano.

    In altri casi, è l’indignazione o il desiderio di giustizia a muovere il cittadino, come fu per Ramsey Orta, che nel 2014 filmò il poliziotto che strozzava il suo amico nero, Eric Garner, che morì lamentandosi di non riuscire a respirare: "I can't breathe". Una frase che è diventata il nome della foto virale, una canzone di Bea Miller, una tshirt dell’NBA, il grido di protesta delle comunità nere e che ha certamente contribuito (ma cinque anni dopo!) a punire il poliziotto assassino. Rapidamente dimenticata, com’è tipico delle hypericons, pochi l’hanno ricordata quando è tornata tragicamente alla ribalta per il fatto analogo avvenuto a Minneapolis (25 maggio 2020), messo in rete da una passante, Darnella Frazer che il giorno dopo è tornata sul luogo facendosi riprendere in un lungo video, a sua volta prontamente fatto girare online.  “I can’t breathe, quel grido di dolore che doveva cambiare il mondo (ma nulla è cambiato), titola Enzo Boldi su “Giornalettismo” (27/5/2020), uno dei pochi che accomunò da subito le due violenze. Per triste ironia, in questo flusso di immagini, l’unico cambiamento duraturo è stata la prigione, inflitta a Ramsey Orta con i pretesti più disparati, per i quali è ancora detenuto nel 2020. 04Fig. 4 I due I can’t breathe di Eric Gardner, New York 2014, e George Floyd, Minneapolis 2020 accostati da “Giornalettismo”. https://www.giornalettismo.com/george-floyd-i-cant-breathe/

     

    I selfie: condividere conoscenze o emozioni?

    Nella didascalia di Krums troviamo altri motivi di emblematicità. Il giovane, infatti, dopo aver dato la notizia (“c’è un aereo nell’Hudson”), comunica ai suoi followers che lui è proprio là dove si svolge la vicenda. Esserci. C’è un qualcosa di decisivo, del quale tutti parlano o parleranno, qualcosa di storico? Ci sono anch’io. È il mondo del selfie – del narcisismo digitale - che si celebra in quella foto. Krums, inoltre, si trova per caso in quel luogo: e anche questo è emblematico. Chi avrebbe mai detto che un giovane lettone, di passaggio a New York, avrebbe immortalato l’impresa di Chesley Sullenberger - Sully - il pilota che Clint Eastwood trasformò nell’eroe dell’omonimo film (2016)? Bene: quella foto, fortunosa quanto l’ammaraggio, ha regalato al suo autore una celebrità, che, per quanto effimera, gli ha procurato attraenti opportunità lavorative. Non è poco per un ragazzo di ventiquattro anni, con la testa piena di sogni ma senza un lavoro stabile. E’ il caso, dunque, che ti può far diventare l’autore di un’icona mondiale, come ti può far comprare il biglietto giusto del Gratta e Vinci (Christina Zdanovitcz, "Miracle on the Hudson" Twitpic changed his life CNN, 15 gennaio 2014 e S. Maistrello, Giornalismo e nuovi media. L’informazione al tempo delCitizen Journalist, Apogeo, Milano 2010, passim e cap. IV).

    Come le loro icone, Krums e Adams sono metonimie di due mondi, entrambi caratterizzati dalla pervasività delle immagini, ma opposti da molti punti di vista. Mentre il mondo di Adams è governato da soggetti razionali, che designano un’icona per scopi comunicativi o politici (qui non discutiamo se siano condivisibili o no), quello di Krums appare dominato dal ribollire di una varietà incommensurabile di intenzionalità individuali. Da una parte, troviamo professionalità spinte fino al rischio della vita; dall’altra, la voglia di eternare e condividere un brivido, non cambia molto se di complicità, di stupore, di orrore o di indignazione. Non è lontano dal vero (perché in rete ne abbondano esempi rivoltanti) che, se accadesse oggi, l’esecuzione di Saigon avverrebbe all’interno di un capannello di soldati e gente comune, armati tutti di cellulare. E questa, forse, sarebbe una nuova icona del XXI secolo.

    05Fig. 5 “La gente vittima degli attacchi terroristici usa i cellulari per registrare la propria esperienza” (AP, Londra, 7 luglio 2005)

    All’indomani degli attentati di Londra del 2005, Yoki Noguchi raccontava, dalle pagine della “Washington Post”, di una società futura dove innumerevoli Abraham Zapruder (il fotografo amatoriale dell’assassinio di J.F. Kennedy), grazie ai loro cellulari avrebbero assicurato ai loro concittadini un’informazione diretta e immediata. Sono in molti, dunque, a convenire con questo punto di vista e alcuni eventi, come il G8 (Genova, 2001), hanno dato anche agli italiani un assaggio di questa informazione democratica. Sfortunatamente, la connessione fra democrazia e rivoluzione digitale non pare una caratteristica stabile del XXI secolo. John Bridge e Helle Siøvag, analizzando quasi in diretta la copertura mediatica dell’assassinio di Benazir Bhutto (2007), esprimono un loro timore: “Non vorremmo concludere che questa marea crescente di riprese amatoriali, che scaturisce dagli eventi di un mondo in cambiamento, sia priva anche di un briciolo di quelle promesse rivoluzionarie contenute nella rivoluzione digitale” (Amateur images in the professional new, 2007).

     

    Icone sconsacrate

    06Fig. 6 “Con Blingee possiamo attenuare lo choc dei capitoli più oscuri della Storia” assicura Ultimate Outsider nel suo blog: http://blog.ultimateoutsider.com/2009/10/pimp-my-history.html

    “Icona”, di per sé, è un termine religioso che designa un oggetto sacro e immutabile. La foto iconica non è scalfita dal tempo, né gli uomini osano modificarla. È un’immagine “santificata”. È quasi naturale, dunque, che un’icona venga monumentalizzata, come è il caso – visto sopra - della Saigon Execution nel museo della guerra di Ho Chi Minh City; o trasformata letteralmente in un monumento, com’è accaduto all’alzabandiera di Jwo Jima nel cimitero di Arlington. L’icona del XXI secolo, all’opposto, non solo è caduca, ma è destinata a essere modificata da mille mouse, nel gioco inesauribile di meme, che ne “degradano progressivamente la portata simbolica”. E, in luogo di contribuire a diffondere un’immagine “santificata”, ne producono una “trivializzata” (S. Boudana et al., Reviving icons to death: when historic photographs become digital memes, in “Media, Culture & Society”, 2017, 39(8), pp. 1210– 1230, 1216).

    07Fig. 7 The Saigon Execution nella versione di Dolan & Bogs (comics a loro volta deformazioni dei personaggi classici di Walt Disney e dei Looney Tunes): https://knowyourmeme.com/photos/324948-dolan#trending-bar

    08Fig. 8 Hydra Online, Nam Flashback, 2016. La didascalia recita: "back in vietnam, they use hair dryers on us." https://steamcommunity.com/sharedfiles/filedetails/?id=827997981

    09Fig. 9 “Belle immagini possono essere utilizzate come sfondo del desktop, wallpaper o sfondo per il tuo cellulare”, recita la pubblicità di 4ever (http://immagini.4ever.eu/tag/26183/lego?pg=6), a sua volta una trivializzazione del lavoro di Mike Stimpson (https://www.urbancontest.com/photography/mike-stimpson-lego-starwars)

    Semiologi e studiosi di storia dell’arte prendono seriamente in esame questi meme. Ne leggono le potenzialità decostruttive, dissacranti, a volte il cinismo. Ma, quali che siano i valori che riescono scorgervi, questi sembrano esterni alla gamma dei significati che abbiamo visto accompagnare la storia della Saigon Execution. Sembra che il mondo attuale (o una parte di questo mondo) accetti di malavoglia di essere quel co-spettatore, del quale ci ha parlato Susan Sontag, quasi che ne rifiuti l’orrore insondabile, o non riesca a percepirlo. Questi giochi visivi sembrano voler chiudere con il passato e affermare un presente talmente distante da permettere di scherzare con raffigurazioni che per decenni sono state considerate sacre. Forse ci dicono che è finito il potere delle icone di comunicare valori, quei valori.

    Chiudo questa breve rassegna non con un meme, ma con il fotogramma di un film porno, che adopera la Saigon Execution come sfondo di una scena di sesso: autentico emblema del processo di sconsacrazione/trivializzazione delle icone (Sylvia Shin Huey Chong, The Oriental Obscene, Duke UP., Duran e London 2012, p. 92)

    10Fig. 10 “La violenza e l’oscenità sessuale si incontrano: la foto di Adam fa da sfondo a una scena erotica” (Sylvia Shin Huey Chong).

    Credo che questi materiali e questi ragionamenti ci autorizzino a usare anche per Saigon Execution le parole che Frédéric Rousseau ha riservato al Bambino di Varsavia, l’icona forse per antonomasia della Shoah: “L’immagine del Ghetto di Varsavia non è più un documento: ha smesso di essere uno strumento pedagogico; sfocata, travestita, abusata, stravolta, sequestrata, ha perduto la sua capacità di messa in guardia: non informa più; è erosa dagli usi distorti” (Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia, Laterza, Bari 2009, p. 152. I. Rossini ne scrive una recensione esaustiva nell’Officina della storia).

     

    Il mito della stampa indipendente

    Per chiudere il confronto fra passato e presente abbiamo bisogno di abbattere l’ultimo mito mediatico del Vietnam: che fu una guerra, forse la sola, nella quale la copertura dell’informazione fu completa e indipendente. Quindi, non fu unicamente questione di questa o quella foto: fu l’insieme dei media che, in luogo di sostenere l’amministrazione, come aveva fatto durante la Seconda Guerra mondiale, assunse un atteggiamento ostile che si rivelò fatale (questa tesi, oltre che da Nixon, fu sostenuta da Samuel Huntington alla Conferenza della Trilateral nel 1975: in D. Hattin, The "Uncensored War", Oxford U.P., N.Y., 1986, pp. 4 s ). Questo mito ha generato un’autentica malattia, la “sindrome del Vietnam”, che l’amministrazione Usa ha impiegato molti anni per curare e sostituire con l’Embed System, “il sistema di controllo e di repressione politica del pensiero, in nome della libertà, di maggior successo dai tempi dell’egemonia dell’impero romano” (Greg McLaughlin, The War Correspondent, Pluto Press, London 2016, p. 158).

     

    Diversi studiosi si sono adoperati per demolire la credenza di una stampa di guerra complessivamente avversa alla politica americana in Vietnam. Nonostante ciò, questa continua ad avere un largo credito ed è ampiamente riportata anche dai manuali. In essa c’è, indubbiamente, una parte di verità: quella che riguarda il gran numero di fotogiornalisti e cameramen che si aggiravano nel Vietnam del Sud; il fatto che gli Usa, non avendo mai dichiarato ufficialmente guerra al Vietnam del Nord, non emanarono quelle direttive che solitamente limitano l’attività della stampa durante un conflitto (per quanto abbiano cercato in molti modi di condizionarla); e, ovviamente, il confronto con il ferreo controllo dell’informazione (Embed System) che l’amministrazione americana attuò a partire dall’invasione di Granada (1983).

    Questo, però, non volle dire che i media – nel loro complesso - produssero una narrazione della guerra vietnamita critica, se non ostile, nei confronti dell’amministrazione americana, e nemmeno che, come scrive il corrispondente di guerra Robert Elegant, “quella guerra fu combattuta più sulle pagine dei giornali che sui campi di battaglia” (How to Lose A War: The Press and Viet Nam, 1981). Al contrario, una profusione di dati alla mano, William M. Hammond dimostra che la maggior parte dei servizi giornalistici sostenne l’amministrazione, anche dopo l’Offensiva del Tet, mentre al movimento pacifista venne riservato un trattamento in genere sfavorevole (W. M. Hammond, Reporting Vietnam: Media et Military at War,Lawrence, U.P. of Kansas, 1998: vedine la recensione).

     

    Etica, conoscenza e cittadinanza

    Come nacque, allora, questa falsa conoscenza? Fu opera principalmente di tre soggetti. In primo luogo dell’apparato militare, che aveva tutto l’interesse a trovare un capro espiatorio della disfatta (M. Griffin, Media Images of War, in “Media, War & Conflict”, 3,1, 2010, pp. 7– 41, 20 ); poi, della destra conservatrice, che sosteneva la tesi che la stampa aveva indebolito in modo irrimediabile il fronte interno; e infine, paradossalmente, della stampa progressista, che si difendeva rivendicando il ruolo di “cane da guardia” dei cittadini contro le menzogne della politica. Scrive Daniel Hattin che queste due ultime posizioni, per quanto politicamente inconciliabili, collaborarono di fatto nel creare la convinzione che i media furono contrari all’amministrazione. (The "Uncensored War", cit.)

    Al di là della documentazione imponente che questi storici mettono in campo (e senza entrare nei dettagli della discussione storiografica), qui ci interessa richiamare l’argomento culturale fondamentale che regge il loro discorso e che, in genere, è condiviso dagli studiosi della comunicazione. Il fatto cioè che il sistema informativo americano, che nasce e si consolida come “quarto ramo dello stato”, non poteva strutturalmente essere, e non lo fu in quell’occasione, “antiamericano”. Il dovere di informare correttamente, che in quel sistema è non solo un dato professionale ma anche una norma etico/politica, va collocato nel quadro di una lealtà verso lo stato mai messa in discussione, soprattutto, come nel caso del Vietnam, ai tempi della Guerra fredda. C’è una vocazione pedagogica di fondo in quell’idea di giornalismo, costruita sull’esigenza di soddisfare il “diritto” dei cittadini americani di tenere “sotto i propri occhi” ogni angolo del pianeta. Era un nesso politico forte, in America, quello fra realtà, media e cittadinanza.

    Quest’ultima considerazione ci permette di chiudere il confronto fra i due mondi dell’informazione – quello degli anni ’60 e l’odierno – completandolo col punto di vista etico. Nel mondo della “Golden Age”, il professionista dell’informazione, agente portante della “quarta colonna dello stato”, sente il peso del suo compito. Pensiamo ai tormenti sull’opportunità della Saigon Execution che afflissero Adams.  Nel mondo attuale, il soggetto esulta per il numero di like che la sua foto ha ottenuto. In quello passato, chi guarda la foto, ne ricava un’idea e l’utilizza per svolgere un ruolo nel gioco politico nazionale (votare, discutere di politica con gli amici, farsi un’opinione della guerra, prendere posizione ecc). In questo, chi guarda la foto e gli piace, può limitarsi a rimetterla in circolo senza altri intendimenti che quello di spartire un sentimento con i followers e di incrementare il loro numero. A quel mondo informativo, dunque, è connesso un profilo di cittadino e un intento di formazione alla cittadinanza che nel secondo sono assenti, o sono affidati unicamente alla sensibilità individuale. Questa mancanza di formazione ai media (nel produrli e nell’usufruirne) mostra tutta la sua criticità proprio oggi, al tempo dello “tzunami delle immagini”. (Sul tema dell’analfabetismo iconico si veda il mio Una grammatica delle immagini: la cultura iconografica tra manuali e didattica della storia, in “Visual History”, 3, 2017).

     

    2. Quarta fase. The American Tragedy, fra storia e archeologia dei sentimenti

    Dalla camera oscura all'aula: la foto in classe.

     

    In questa fase entra in gioco la storiografia e il suo rapporto con l’uso pubblico della storia. Anche in questo caso immagino due alternative. Quella tradizionale, con una lezione possibilmente animata dalla proiezione dei video indicati; e quella partecipata, con lettura, discussione in gruppi, e plenaria conclusiva. Ho introdotto, ancora, alcuni elementi di didattica. Sono naturali, da una parte, perché si inizia con una clip didattica americana; ma credo che siano utili alla fine del percorso formativo degli allievi per discutere con loro del senso della formazione storica (e in pratica, lavorare nel campo delle metaconoscenze).

     

    Guida alla lettura della clip

    The Vietnam War è un’imponente serie televisiva, girata da Ken Burns e Lynn Nowick per la PBS (2017), che in dieci puntate racconta la guerra del Vietnam, servendosi di spezzoni di filmati e di telegiornali, di foto d’epoca e di ben 79 testimonianze di sopravvissuti, rappresentanti di tutte le forze in campo. Attualmente fa parte del pacchetto di Netflix. Abbiamo già citato, al principio di questo articolo, la sesta puntata Tutto cade a pezzi,dedicata all’Offensiva del Têt, con l’episodio dell’esecuzione di Lèm. Qui dobbiamo richiamarla, perché è corredata da una unità di lavoro specifica per le scuole. (Tutta la serie offre un’ampia sezione dedicata alla scuola: Ken Burns in the classroom. Peraltro il sito Pbs learning media è gratuito, ricchissimo di unità di lavoro di storia contemporanea, interamente basate su materiali multimediali, che, rivisti criticamente, sono utilizzabili anche in Italia, grazie a Google traduttore e alla sottotitolatura delle clip).

    L’unità di lavoro dura due ore scolastiche di 50’. Comprende quattro clip della durata di 3/5 minuti ciascuna. Quella dell’uccisione di Lèm è la più breve, di 1.58’’. È corredata da istruzioni per i prof e dalla sequenza operativa (A media analysis activity), costituita da nove domande aperte e da una prova sintetica finale: “Scrivi un editoriale sull’Offensiva del Tet”.

    La clip Execution of a Viet Cong Soldier è centrata sul video della NBC, incastonato fra spezzoni di guerra e interviste. Si apre con un Lyndon Johnson che annuncia in tv che il tentativo comunista di ottenere una vittoria militare e psicologica è fallito. Seguono cadaveri e scene di combattimento, mentre la voce fuori campo spiega che queste immagini inondavano di violenza le case delle famiglie americane. Ora il filmato si blocca sulla foto di Adams. Un testimone oculare (non si specifica che è un marine americano) racconta che era vicinissimo ai due protagonisti. Ricorda che il fotografo scattò la foto nel momento preciso in cui il generale premeva il grilletto e che vide il proiettile uscire dalla testa di Lém. Il vietnamita morì sotto i suoi occhi. Aggiunge un commento sullo choc che quella foto provocò in America, e afferma che quella foto indusse gli americani a chiedersi se non stessero aiutando “quelli sbagliati”. Subito dopo, un altro testimone, un addetto stampa dell’esercito, conferma che quella foto, vista a pranzo o a colazione, riempì di orrore gli americani, al punto che si chiesero quando tutto questo sarebbe finito. E, per ultimo, un militare sud vietnamita conclude che quella foto mise in pessima luce l’esercito del suo paese, che (lo dice mentre scorrono le immagini del generale Loan che fuma sorridente) da quel momento venne considerato dagli americani un alleato sbagliato. Quella foto, sentenzia nelle ultime battute della clip, fu il turning point della guerra.

    11 12Fig. 11 Il presidente Lyndon B. Johnson e il giornalista Garnett D. “Jack” Horner https://prde.upress.virginia.edu/conversations/4005941

    La tesi interpretativa di Burns e Nowick emerge con chiarezza in un’altra clip di questo dossier: Press Coverage of the War. Questa si apre ancora una volta con Johnson che si lamenta del trattamento bugiardo che la stampa sta riservando alla guerra (si tace sul fatto che questa telefonata a un giornalista amico, Jack Horner della “Washington Star”, ha lo scopo di attaccare la stampa avversaria: qui la trascrizione completa della telefonata).

    Johnson protesta che non è possibile presentare come una disfatta una battaglia nella quale “il Buon Dio ci ha permesso di uccidere 20 mila nemici e noi abbiamo avuto solo 400 morti”. La voce fuori campo prosegue spiegando che i media si concentrarono solo su Saigon, mentre nel resto del paese i Vietcong venivano respinti dai sud vietnamiti e dagli americani. Fra il crepitio dei mitra e i soldati che corrono da tutte le parti, un giornalista informa i telespettatori che forse è stato ferito a una gamba (sic!). Si chiude con la frase infelicissima che un maggiore dell’esercito avrebbe detto a un reporter dopo la battaglia di Ben Tre, una città sita nel delta del Mekong: It became necessary to destroy the town to save it (“E’ stato necessario distruggere la città per salvarla”).

    Si può prevedere che cosa un allievo americano avrà risposto a domande quali: “secondo te la copertura mediatica fu corretta?” e che cosa avrà scritto nel compito finale, che gli raccomanda di spiegare, in forma convincente e in buona scrittura, “perché il pubblico americano si fece dell’Offensiva del Tet un’idea diversa da quella del Governo degli Stati Uniti”. Né sarà sbagliato pensare che questa unità di lavoro radicherà negli studenti la convinzione che la Saigon Execution fu una delle cause della sconfitta.

    Milioni di spettatori fanno di Ken Burns il public historian più ascoltato negli Usa. Qui ci interessa notare che, per la serie sulla guerra del Vietnam, Burns ha volutamente fatto a meno della presenza degli storici accademici. Ha dichiarato che sono noiosi e allontanano il pubblico con le loro sottigliezze e le loro continue discussioni. Invece - ecco la sua convinzione - occorre che la gente ascolti una narrazione condivisa da tutti e curi le ferite causate da questa tragedia. Per questo, la sua è una “storia dal basso”, che racconta una comune sofferenza: di vietnamiti comunisti e no, di americani militari e civili, pacifisti e guerrafondai. In conclusione la sua tesi sembra essere questa: poiché nel discorso pubblico la storia accademica è controproducente, meglio lasciar parlare le fonti: film, giornali, testimoni, canzoni e foto. (Andrew Gawtorpe, Ken Burns, The Vietnam War and the Purpose of History, in “Journal of Strategic Studies”, 43, 1, 2020, pp. 154-169,).

    Questa presa di distanza dalla storia professionale è l’occasione giusta per mettere in luce il contributo della disciplina nel compito di rapportarsi a un passato doloroso. Cerco di farlo sviluppando due ordini di ragionamento e tenendo conto – in particolar modo – delle questioni didattiche connesse: in primo luogo, l’ordine della narrazione complessiva, quello in pratica della storia generale (in realtà un problema poco sentito nella didattica anglosassone); in secondo luogo, le questioni di epistemologia e metodologia collegate con l’uso dei documenti.

    Il primo punto riguarda le grandi narrazioni all’interno delle quali collochiamo la guerra del Vietnam e il caso specifico della nostra foto. Oltre che dal punto di vista storiografico, queste sono fondamentali da quello formativo, perché “danno un senso” all’evento che a volte resta nella memoria degli allievi più a lungo del ricordo del fatto specifico. Sono, inoltre, indispensabili per collocare il singolo episodio entro una programmazione di lungo respiro sia per quanto riguarda il racconto storico complessivo (dell’annualità o del ciclo intero), sia per quanto riguarda lo sviluppo delle capacità di ragionamento storico.

    Il secondo mette in luce ancora meglio come un uso approssimativo (o spontaneo), comunque non professionale della metodologia storica, porta a conseguenze non del tutto accettabili. La “storia dal basso”, contro la “storia delle élite” richiama insistentemente slogan che siamo abituati a classificare come populisti.

     

    Testo a. Cosa potrebbe insegnare la storia generale: il "senso" della guerra. (da consegnare agli allievi)

    Craig Lockard, già una trentina d’anni fa, spiegava le possibilità conoscitive offerte della world history. Questa insegna che possiamo inserire quella guerra in tre diversi contesti spazio-temporali. Ciascuno di questi scenari cambia il “senso” della guerra e, in particolare, della scena che stiamo analizzando.

    Lo scenario regionale – del Vietnam -  ce la fa vedere come un episodio della lunga teoria di ribellioni, secondo alcuni studiosi millenaria, che ha punteggiato la resistenza del Vietnam, prima contro la pressione cinese, poi contro quella francese e americana e, da ultimo, di nuovo contro quella cinese. È la storia di un indomabile nazionalismo, che accomuna e al tempo stesso divide il vietcong e il generale, mentre Adams sembra un osservatore esterno. Se allarghiamo lo sguardo includendo nel nostro scenario gli Usa, entriamo in un secondo ambito spazio-temporale, quello della guerra fredda e della politica americana di controllo del mondo. In questo scenario troviamo da una parte il comunista Lèm e dall’altra i sostenitori del blocco occidentale, americani e sudvietnamiti.

    Per ultimo, ecco l’orizzonte mondiale – il più ampio – che non può che parlarci del processo di colonizzazione-decolonizzazione, che dalla metà del XIX secolo fino al secondo dopoguerra inoltrato, ha sconvolto molte parti del pianeta, e del quale la guerra del Vietnam è stato l’ultimo grande teatro, e che divide i nostri protagonisti ancora in modo diverso: da una parte i colonizzati indocinesi, dall’altra l’americano Adams e la sua corte di giornalisti, tormentati dai dubbi.  (C. Lockard, Meeting yesterday head-on.The Vietnam War in Vietnamese, American and World History, in “Journal of World History”, 5, 2, 1994), pp. 227-270;  George W. Hopkins, Historians and the Vietnam War: Conflicts over Interpretations continue, in  “Studies in Popular Culture”, 23, 2, 2000, pp. 99-108; N. F. Bradley e M B. Young (a cura di) Making Sense of the Vietnam Wars: Local, National, and Transnational, Oxford U.P., 2008)

    13Fig.12 Mel Gibson e il generale Hal More, la cui impresa viene raccontata in We Were Soldiers https://www.hollywoodreporter.com/news/lt-gen-hal-moore-depicted-we-were-soldiers-dies-at-94-975234La questione si fa più intricata se ci addentriamo nel dibattito storiografico americano. In estrema sintesi, questo può essere diviso in due campi (una rassegna informata, purtroppo non recentissima, è O. Bergamini, La guerra del Vietnam nella storiografia americana degli anni Novanta). Nel primo ci sono i “revisionisti neo-conservatori”. Le loro tesi si organizzano intorno a due capisaldi. Da una parte, la considerazione che quella del Vietnam fu una noble war. Questa espressione, che Ronald Reagan rese celebre, significa guardare a quel conflitto come uno scontro fra combattenti che hanno diritto, entrambi, all’onore della memoria (teoria spettacolarizzata nel film We Were Soldiers, di Randall Wallace, con Mel Gibson, 2002).

    Fu un tentativo sfortunato, “un atto di idealismo imprudente”, scrisse Norman Podhoretz, uno dei più influenti autori di questa corrente, dovuto all’urgenza di proteggere il mondo dalla tirannia comunista (Why We Were in Vietnam, Simon and Schuster, Michigan University, 1982, p. 210). Dall’altra, questa storiografia fa un largo uso della storia controfattuale, alla ricerca dei motivi che hanno portato alla sconfitta: “si sarebbe perso se …?” Dentro questi interrogativi, insieme con la burocrazia, gli errori militari e le incapacità politiche, ritroviamo la nostra foto: si sarebbe perso se la stampa non le avesse dato quel risalto? e se non avesse “accoltellato alla schiena” i combattenti, come scrisse Westmoreland nelle sue memorie?

    Sul versante opposto ecco la vasta famiglia degli “ortodossi”, con le numerose varianti interne. Il punto di partenza di questi storici (in realtà sono la maggior parte degli storici accademici, dal momento che alla scuola neoconservatrice appartengono, con pochissime eccezioni, giornalisti, politici e reduci) è che quella guerra non si poteva vincere, e che, perciò, all’analista tocca il compito di scoprire le cause, le evoluzioni militari, sociali e politiche che hanno influito sul corso degli eventi. A questa famiglia occorre aggiungere il recentissimo gruppo di storici che Andrew Preston chiama “i veri revisionisti”: sono studiosi vietnamiti, cinesi e americani che conoscono le lingue orientali, e perciò sono in grado di accedere alla documentazione originale e fornire una descrizione di prima mano della “Guerra Americana” (come viene chiamata in Vietnam).

    Non c’è accordo fra il mondo revisionista e quello ortodosso, e, all’interno di questo, fra storici di impostazione radicale, moderata o neo-vietnamita. Burns ha ragione. Il Vietnam, ancora dopo mezzo secolo, è un argomento divisivo. Tuttavia, ciò che il regista non comprende è che un conto è il conflitto delle memorie all’interno di una società, un conto è la controversia accademica. Questa è connaturata al ragionamento storiografico; è uno degli strumenti fondamentali attraverso il quale gli storici incrementano la conoscenza del passato. Privando il pubblico (e la scuola) di quel dibattito, Burns sottrae loro uno strumento di conoscenza e di formazione, indispensabile in un tempo di lacerazione delle memorie. Per giunta, priva il suo lavoro di formidabili elementi di controllo, che gli avrebbero impedito, per esempio, di raccontare che quella foto è il turning point della guerra, fatto – come abbiamo visto - ampiamente smentito dalla ricerca.

    Questa, peraltro, ha insistito sull’impossibilità di un qualsiasi turning point in una vicenda estremamente complessa, nella quale si sono fuse diverse guerre, un po’ come nella Resistenza italiana secondo la lezione magistrale di Claudio Pavone: la guerra di liberazione nazionalista e anticoloniale, la guerra ideologica (pro e contro il comunismo) e quella geopolitica mondiale, la guerra civile fra Nord e Sud e quella sociale ed economica fra città e campagna, fra mondo rurale e modernizzazione urbana, come la Cambogia avrebbe sperimentato di lì a poco. (J. Dumbrell, Rethinking the Vietnam War, Palgrave Macmillan, Basingstoke and New York, 2012. Vedine la discussione in A. Preston, Rethinking the Vietnam War. Ortodoxy and Revisionism, in “International Politics Reviews”, 1, 2012, pp. 37–48.). E, per tornare alla nostra foto, questa complessità si riflette interamente in quella scena e sui protagonisti, aumentando le nostre domande e i punti di vista a partire dai quali la possiamo osservare.

    14Fig. 13 La scena della roulette russa in The Deer Hunter https://www.youtube.com/watch?v=4wv2K3J__X0

    Spogliata della complessità, resta il sangue della battaglia e dei suoi martiri, vietnamiti o americani che siano. Come nel brano di Julio Lezama, che abbiamo letto sopra, tutti sono vittime. È una tragedia vietnamita, ma anche americana. Burns scava nel fatto storico per riportare alla luce un orrore che la nostra società fa fatica a percepire. Tom White definisce la sua ricerca "archeologia emotiva" (The Accidental Historian: Ken Burns Mines America's Past, 2003). Sono i sentimenti, dice Burns, che trasformano la storia nel farmaco che ci guarisce.  Così facendo, lo storico-regista si incanala lungo una linea interpretativa ben divulgata da Hollywood e aperta da Il Cacciatore di Michael Cimino (The Deer Hunter, 1978), nel quale le vere vittime sono quelle americane, impoverite in patria da una deindustrializzazione feroce che la Great Society (il piano di sviluppo economico promosso da Johnson) non era riuscita a fermare, e sottomesse, nell’inferno vietnamita, al gesto della pistola puntata alla tempia, iconicizzato da Adams e leit motiv del film (Andrea Miconi racconta bene il collegamento fra questa foto e la filmografia hollywoodiana: Saigon Execution, 1968: “The Photo that lost the War”, in “Problemi dell’informazione”, 63, 1, pp. 63-86).

    Allontanandosi dalla storia, Ken Burns sembra entrare nel grande circuito mondiale delle emozioni, al quale da un potente contributo proprio quello “tzunami delle immagini” che caratterizza la comunicazione iconica odierna. Procede nella direzione esattamente contraria della storiografia, che, stando alle parole di Andrew Preston, pur con tutte le sue divisioni, sta riuscendo “a far a meno delle battaglie emotive” per costruire una conoscenza più controllata e multiprospettica di quella guerra infelice (Preston, cit. p. 39). E noi sappiamo, dagli studi sui processi di riconciliazione, che, per lenire le ferite della memoria, non c’è nulla che possa sostituire l’accurata ricostruzione dei fatti unita al mutuo ri-conoscimento dei propri torti.

     

    Testo b. I rischi di una metodologia storica adattata: storia dal basso e fonti (da consegnare agli allievi)

    Torniamo alla clip didattica della Saigon Execution. Le fonti che vengono adoperate sono il filmato della NBC, la foto di Adams e tre testimoni, due americani e un sudvietnamita. Tutti militari. Non viene citato (nemmeno nel documentario per il pubblico) nessuno degli studiosi che abbiamo conosciuto in questo articolo, nessun giornalista famoso, nessun decisore politico. È una buona visualizzazione di quello che Ken Burns chiama “storia dal basso”.

    L’effetto primo che questa narrazione ottiene è quello dell’empatia. C’era della gente, lì. Guardava con i propri occhi, esattamente come oggi può accadere allo spettatore di un incidente automobilistico, che riprende e mette online il filmato. È gente come noi. Il regista riesce a comunicarci la sensazione di essere presenti, inorriditi come i co-spettatori di Susan Sontag. È un risultato da non sottovalutare, nella nostra società di “icone sconsacrate”.

    L’effetto secondo è quello della verità. Il marine racconta quello che ha visto, i particolari, il colpo, il sangue. Le parole confermano esattamente le immagini. Due fonti diverse coincidono alla lettera. Il regista ci convince che non è possibile che le cose siano andate diversamente: un sudvietnamita, alleato degli americani, spara a bruciapelo un “soldato” Vietcong (dice proprio così, non “guerrigliero”, forse in omaggio alla teoria della noble war). Anche questo è un risultato da non sottovalutare, nella società del complotto e delle fake news.

    C’è un terzo effetto, questa volta preoccupante, che potremmo chiamare del “trasferimento di fiducia”. Il marine/testimone ci fornisce due ordini di notizie: il primo riguarda la scena che ha visto; il secondo riferisce dell’eco che questa scena ebbe in America. Queste due informazioni hanno uno statuto epistemologico molto diverso. Il primo è quello dell’autopsia. È uno statuto molto solido, come abbiamo appena notato: ma non ha nulla a che spartire con il secondo, molto più incerto, che riguarda ciò che pensarono decine di milioni di americani (e che il testimone non può “aver visto”). Ed ecco che il regista riesce a far slittare il grado di fiducia/verità, che lo spettatore attribuisce alla prima informazione, anche alla seconda, quella che riguarda l’opinione pubblica americana. Ascoltate senza soluzione di continuità, entrambe le conoscenza acquistano, per il pubblico (e per l’allievo), la stessa marca di “verità”.

    Il quarto effetto è quello della conferma. Lo stesso processo di “trasferimento di fiducia” viene ripetuto per le testimonianze dell’addetto militare americano e del graduato sudvietnamita. Il regista conduce il pubblico a convincersi che le cose non poterono andare diversamente da come la clip ce le fa “vedere/ascoltare”. 

    È chiaro che il testimone appropriato del “terzo effetto” non potrebbe che essere uno studioso che ha censito migliaia di articoli di giornale, ha elaborato i sondaggi di milioni di cittadini americani e seguito l’evoluzione del pensiero sulla guerra dei costruttori di opinioni. Privandosi di questa testimonianza, inevitabilmente una “testimonianza dall’alto”, Burns si è fatto portavoce (credo inconsapevole) della vulgata della destra conservatrice. Un’atroce ironia per un sostenitore acceso, e pubblico finanziatore, dei democratici.

    Sembra che Burns e Nowick sbandierino la prospettiva della “storia dal basso” in una sorta di polemica contro la “storia ufficiale”. Forse rimarrebbero sorpresi nel sapere che non si tratta di una scelta controcorrente, quanto di una possibilità ampiamente prevista dalla storiografia. Ma utilizzare concettualizzazioni di provenienza scientifica, senza le adeguate “istruzioni per l’uso”, conduce a risultati che destano preoccupazione. Vediamo nel dettaglio.

    La prospettiva della “guerra raccontata dal basso” fu formalizzata da Antoine Prost e Jay Winter, quando misero ordine nella marea di studi (oltre cinquantamila) sulla prima guerra mondiale. La guerra, scrissero, può essere raccontata in tre “configurazioni”. Quella dall’alto (militare e politica), quella sociale, come scontro di gruppi e di economie, e quella culturale: la storia dal basso. Con le parole di Prost: “Questa concezione costruisce una guerra tragica, i cui principali attori non agiscono, ma subiscono. Sono vittime. Sono gente anonima che viene schiacciata da una situazione straordinaria, di fronte alla quale sono impotenti. Questa concezione della storia non è del tutto nuova. È nel periodo fra le due guerre che è stata promossa dai reduci. Emerge in certi racconti dei sopravvissuti delle trincee. Ma bisogna attendere gli ultimi due decenni perché acquisti la sua importanza con le storie della brutalizzazione, del dolore, della sofferenza, della violenza e della speranza”. (A. Prost, J. Winter, Penser la Grande Guerre. Un essai d’historiographie, Paris, Seuil, 2004; il virgolettato da una conferenza di Prost del 2015).

    Ognuna di queste concezioni ha la sua utilità, perché mette in risalto aspetti della guerra che non si scorgono da altre angolazioni. Ma, al tempo stesso, ognuna ha dei difetti. Nel caso della “storia dal basso”, questa fa perdere di vista le responsabilità individuali della guerra. Se tutti sono vittime, chi è il carnefice? Non si arriva, così, alla banalizzazione della guerra si chiede Gaines M. Foster? (With Defeat: Post-Vietnam America and the Post-Civil War South, “VQR. A national journal of Literature and discussion”, 1990).

    La prospettiva “dal basso” diventa dominante nella nostra società, anche perché viene favorita da due processi di rilevanza mondiale. Il primo è quello della “sacralizzazione della vittima”, frutto della costruzione della memoria di Auschwitz. Il secondo è quello dell’egemonia del culturalismo di matrice americana. Il punto di vista di Burns e Nowick sembra nascere da questa doppia spinta più che dalla consapevolezza storiografica. Ma come sappiamo da numerosissimi casi di storia pubblica, la vittimizzazione dei protagonisti produce spesso la loro equiparazione e, soprattutto, spinge molti a identificarsi empaticamente con loro.

    È ciò che queste fonti visive ci dicono essere accaduto in America. Ce lo spiega Sylvia Shin Huey Chong comparando la foto di Adams col film di Michael Cimino, e raccontandoci il paradosso dell’identificazione fra il guerrigliero Lèm e Nick (Christofer Warren), il prigioniero americano costretto alla roulette russa dal malvagio vietcong, nella scena madre del Cacciatore. Un rovesciamento delle parti reso imbarazzante dal fatto che erano proprio gli americani a costringere i vietnamiti a questo gioco prima di ucciderli, come appurò il processo per la strage di My Lai (Restgagging the War: The Deer Hunter and the Primal Scene of Violence, in “Cinema Journal”, 44, 2, 2005). Il rovesciamento si completa e diventa un fatto sociale quando il generale Loan venne segnalato in America come un individuo da far oggetto di riprovazione pubblica: il profugo vietnamita che negli Usa fa successo col suo ristorante, mentre i reduci sono costretti a una vita di stenti (Sylvia Shin Huey Chong, The Oriental Obscene: Violence and Racial Fantasies in the Vietnam Era, Duke UP, Durham and London, 2012, pp. 170 ss.).

    Shin Huey Chong, nello stesso libro, ci spiega un ulteriore passaggio, che riguarda le tre icone della guerra del Vietnam alle quale fu assegnato il ruolo di “foto che cambiarono la guerra”: quella di Adams, la foto della bambina ustionata dal napalm e quella dei sudvietnamiti che tentano disperatamente di imbarcarsi sull’elicottero americano (vedile nella prima parte di questo articolo). Fa osservare che in queste foto c’è una netta separazione fra i protagonisti delle violenze, tutti vietnamiti (del nord e del sud fa lo stesso: sono tutti “orientali”), e chi riprende la scena, che è un americano (da notare che il fotografo di Accidental Napalm, per quanto vietnamita, fu naturalizzato statunitense). La violenza, sembrano dire queste immagini, è solo dei vietnamiti, tutta al di là dei confini degli Usa.  È la razzializzazione del male. Questo si identifica con “l’oscenità orientale”, della quale i bianchi americani non sono responsabili, ma solo osservatori, magari inorriditi dalla cattiveria bestiale che li circonda.

    Staccata dalla ricostruzione storica, questa ricostruzione pubblica del passato, della quale la foto e i film esaminati sono delle autentiche “immagini iconiche”, assolve il presente: figlio di una “tragedia americana” degli anni ’60, della quale sono svaniti i responsabili storici, e vittima, nel corso del tempo, degli assalti e della denigrazione della stampa, delle élite intellettuali e di tutti coloro che, nel mondo, hanno contribuito a diffondere la sua immagine negativa.

     

    Riconciliarsi senza la storia?

    “L’ironia – dichiara Edward F. Palm, maggiore dei marines – è che, dopo tutto, sembra che abbiamo vinto” (30 aprile 2020: 45 years after Vietnam War ended, here's how we should remember it). Se quella guerra fu condotta per difendere il sistema consumistico-capitalista, ha indubbiamente ragione. Nel Vietnam attuale (in qualche modo sulla falsariga del suo attuale nemico principale, la Cina) convivono i resti del vecchio regime politico comunista, ma con assetti economici, culturali e sociali postbellici, certamente più simili a quelli americani che a quelli del frugalissimo Vietnam del Nord. Potremmo dire che dove ha perso William Westmoreland, Bill Gates ha vinto. Un trionfo per il softpower statunitense.

    A Saigon, nel 2019, si incontrarono Kim Jong Un e Donald Trump in un tentativo di riavvicinare Usa e Corea del Nord. Fu naturale, allora, paragonare i rispettivi dopoguerra. Mentre la Corea del Nord continua nel suo stato di belligeranza, il Vietnam ha intrapreso, ormai da un quarto di secolo, una fruttuosa politica di distensione con gli Usa. La sua società sembra essere passata, quasi senza soluzione di continuità, “dai bombardamenti al Big Mac”. Gli anziani ricordano le atrocità passate, ma i giovani ne conservano a stento qualche notizia. Denis D. Gray e Hau Dinh, corrispondenti dell’AP, raccolgono delle testimonianze. Dinh Thanh Huyen, una studentessa di 19 anni, dichiara: “Sono nata dopo la guerra e ne so qualcosa solo dai film americani e dai libri”. È in coda per entrare in un affollato McDonald’s ad Hanoi. Spiega che è felice che gli antichi nemici siano cambiati e si concede una bella massima: “La storia ci serve per imparare, non per conservare rancore” (“AP News”, 23 febbraio, 2019, From Bombers to Big Mac). Non sembra essere la sola: le inchieste ci informano che oltre il 70% dei vietnamiti vede positivamente gli Usa (Xuan Loc Doan, in “Asia Times”, 30 ag. 2018,).

    Questa strategia di riappacificazione ha coinvolto numerosi aspetti del rapporto fra i due stati: commerciali ed economici, geopolitici (il contenimento della Cina), la questione dei diritti umani e della libertà religiosa, i risarcimenti e la liberazione dei prigionieri di guerra, gli scambi di studenti, il turismo. Sembra che venga evitato accuratamente il tema della storia, o meglio (seguendo la classificazione di Prost e Winter), della “storia dall’alto”, quella che indaga sulle cause della guerra e sulle sue responsabilità (Frederick Z. Brown, Rapprochement Between Vietnam and United States, “Contemporary Southeast Asia”, 32, 3, 2010, pp. 317-42).

    Mentre Donald Trump e Kim Yong Un si incontravano a Saigon, sul delta del Mekong si svolgeva un altro incontro, senza dubbio più toccante. John Kerry, ex segretario di stato americano e candidato democratico alla presidenza, stringeva la mano a Vo Van Tam, un abitante della regione. Esattamente cinquant’anni prima, e proprio in quel luogo, i due si erano trovati faccia a faccia e avevano tentato di uccidersi. Edward Miller, storico e consigliere di Ken Burns, mette in rilievo la straordinaria efficacia simbolica di quel gesto. Ma si chiede: “Quale può essere il suo senso in una nazione, come gli Usa, lacerata fra ortodossi e revisionisti; e come il Vietnam, spaccato fra vietnamiti del nord e quelli del sud?”. Per questo, conclude, quello fra Usa e Vietnam è un “conflitto non conciliato” (Vietnam War perspective: the unreeconciled conflict, in “Usa Today”, 15 dicembree, 2019,).

    In effetti, la riconciliazione si dovrebbe attivare su tre fronti: uno esterno, fra i due stati, e gli altri due al loro interno. Ma ogni volta il suo presupposto dovrebbe essere quello dell’accertamento dei fatti e del riconoscimento vicendevole delle responsabilità. In questo compito il ruolo della storia è insostituibile. Ora, se dal punto di vista della ricerca questo percorso prosegue e si fa sempre più completo, in particolare con l’apporto della nuova storiografia vietnamita, dal punto di vista della storia diffusa c’è il prevalere di una vittimizzazione che non favorisce per nulla una rielaborazione corretta del proprio passato: perché dove c’è una vittima, c’è sempre un altro che svolge il ruolo del carnefice. E questo, normalmente, è proprio il soggetto con il quale ci si dovrebbe riappacificare.

    Il processo di riappacificazione non sembra marciare nemmeno dal punto di vista della storia insegnata. L’analisi dei manuali non è affatto incoraggiante. Nel Vietnam, nonostante i cambiamenti che abbiamo segnalato sopra, la manualistica sembra aver cristallizzato la narrazione degli anni ’70, con i buoni che combattono contro i cattivi e l’esercito del sud Vietnam imbelle e al servizio del nemico. Negli Usa la situazione non è migliore (si deve tener conto che lì i manuali non sono obbligatori e che gli insegnanti dispongono di numerosi strumenti alternativi, forniti direttamente da Università e centri di ricerca didattica). I manuali americani evitano con cura di parlare delle atrocità commesse dai loro soldati. Parlano delle sofferenze della guerra, ma solo di quelle americane. Conservano l’impostazione tradizionale nazionalista ed esaltatrice del “ruolo pacificatore” che gli Usa svolgono nel mondo. James W. Lowen, autore di Lies my teacher told me (un vendutissimo libro di debunking delle falsità contenute nei libri di testo: Atria Books 1995) studia anche le foto, che – meritoriamente – considera uno strumento fondamentale della comunicazione storica. Ci informa che abbondano quelle di marines che saltano dagli elicotteri e si fanno largo nella giungla, ma che scarseggiano proprio quelle iconiche. Si trova qualche volta la Accidental Napalm, mai la Saigon Execution. Questi manuali, adeguandosi al comportamento più diffuso dei docenti, evitano ciò che può essere, in classe o con le famiglie, fonte di controversia. La guerra del Vietnam, conclude, ha aperto una profonda ferita nella società americana: ma evitare di parlarne è il modo peggiore per curarla.  (Historical Reconciliation and United States History Texbooks about Vietnam, in “The Journal of Northeast Asian History”, 7, 2, 2010, pp. 37-59).

    Loan e Lèm sono l’uno accanto all’altro. Chi ha la pistola uccide l’altro. La scena sarebbe stata identica anche a parti inverse, perché i due protagonisti sono nemici totali. Oggi quei protagonisti dovrebbero interrogarsi sulle ragioni di quell’odio e discutere se queste hanno ancora motivo di sussistere. Il terzo protagonista è l’americano. Anche lui dovrebbe riflettere sui motivi che lo hanno spinto lì. Doveva difendere dei principi sacrosanti? Salvaguardare un ordine internazionale o dei propri interessi? Tentare di bloccare una guerra civile sanguinosa?

    Christian G. Appy propone questo esperimento mentale. Scrive: partiamo dal presupposto dell’intromissione in una guerra locale – che sia per un nobile motivo o per un tragico errore in questo momento non ci interessa - e immaginiamo di applicarla alla guerra di Secessione americana. Questa volta, la potenza straniera è l’Impero Britannico che appoggia il sud. Come chiameremmo noi, ora, quella guerra? “Probabilmente la seconda guerra di Indipendenza – risponde - e, per i neri, la prima guerra di Liberazione”.

    Preoccuperebbero anche noi italiani le conclusioni del suo ragionamento: “Se continuiamo a scusare la condotta americana in Vietnam come un intervento ben intenzionato, seppure tragico, piuttosto che un'affermazione intenzionale del potere imperiale, abbiamo meno probabilità di sfidare gli attuali gestori della guerra che ci hanno di nuovo impantanato in guerre che sembrano non finire mai, basate su false prove o pretesti profondamente fuorvianti” (What was the Vietnam War about?, in “The N.Y. Times”, 26 marzo 2018,).

     

    Nota didattica finale.

    Questo percorso è composto da quattro fasi, suddivise in due sezioni distinte, che su HL pubblichiamo separatamente per ragioni editoriali, ma che vanno lette insieme. Nella prima si propongono testi brevi centrati su elementi specifici ben riconoscibili: i personaggi, la foto, gli utilizzatori della foto. Nella seconda, invece, i testi sono più lunghi e soprattutto riguardano temi di riflessione storiografica: il ruolo delle immagini nella società, la differenza e il rapporto fra passato e presente, il rapporto fra immagini e formazione della cittadinanza, il rapporto fra storia professionale e storia pubblica e fra “ragione e sentimento”, la questione della riconciliazione e della rielaborazione collettiva dei passati dolorosi. Il percorso, dunque, è scandito dal semplice/concreto al complesso/astratto, nel modo consueto di qualsiasi buona didattica.

    Sottolineo due particolarità non del tutto tradizionali. Della prima si è già accennato all’inizio dell’articolo. Le informazioni non vengono date nella forma sistematica del saggio (tesi storiografiche, dibattito, elementi di novità proposti, racconto sequenziale degli eventi ecc.), ma in modo progressivo, per favorire un meccanismo “sintesi-scoperta-messa in discussione della sintesi-nuova scoperta” che cerca di partecipare agli allievi il piacere del “viaggio intellettuale alla scoperta di …”. Ho cercato di simulare il procedimento tipico dello storico (e in generale dello scienziato) di procedere per scoperte e aggiustamenti successivi. Avevo in mente, scrivendo questo articolo, l’esordio di un antico saggio di Edoardo Grendi sul “senso comune storico”, nel quale si paragona lo storico a un alpinista che, man mano che sale, ammira paesaggi sempre diversi (“Quaderni Storici”, XIV, 41, agosto 1979).

    La seconda particolarità è, probabilmente, più polemica nei confronti del “senso comune didattico”. Secondo questo, infatti, un percorso dovrebbe partire dagli elementi fattuali e solo alla fine giungere ai problemi, ricompensa finale di un itinerario che, invece, non può che essere di “duro lavoro”. A mio modo di vedere, questa impostazione è sbagliata: dal punto di vista pedagogico, perché i ragazzi si appassionano ai problemi e non alla mera acquisizione dei fatti ed è bene sfruttare questa propensione tutte le volte che è possibile. È anche incongruente dal punto di vista scientifico, se si tiene per ferma la tesi che Lucien Febvre amava ripetere, che dove non ci sono problemi non c’è storia.

    Di conseguenza, il materiale è organizzato in modo da porre problemi in ognuna delle quattro fasi in cui è suddiviso il percorso. Ovvio, dunque, che questi problemi non verranno mai “chiusi”, ma transiteranno nella fase successiva, arricchendosi di nuove domande. E, in ogni caso, spetterà al docente il compito della messa a punto finale, cioè di una “chiusura dei problemi” che, a sua volta, non potrà che essere – come ogni scoperta scientifica - provvisoria.

    Ferma restando la possibilità di usare questo materiale secondo un’impostazione del tutto frontale, qui si suggerisce una formula mista, nella quale diversi tipi di lezione (introduttiva, partecipativa, di riorganizzazione concettuale, indispensabile quest’ultima in un lavoro di aggiustamenti progressivi) si intrecciano con momenti operativi (lettura individuale, lettura e lavoro in piccoli gruppi, discussione in plenaria), mentre i materiali proposti sono scritti, iconografici (le diverse foto) e mediali (le clip didattiche o eventuali spezzoni di film o di documentari citati). La medesima impostazione “mista”, permette di utilizzare – se intervengono ragioni di tempo o di convenienza didattica - solo una parte di questo itinerario. In questo caso, nell’introduzione o nella conclusione, l’insegnante si incaricherà di riassumere in una lezione frontale le conoscenze che riterrà opportune per “incorniciare” il segmento operativo che ha selezionato. Come vedranno i più fedeli di HL, ci sarà una terza possibilità, con un uso ben strutturato dalle tecnologie, che è stata preparata da Lucia Boschetti.

    Non ho allegato nessuna tabella di valutazione: un po’ perché è l’aspetto che conosco meno del vasto campo della didattica della storia; un altro po’ perché sono affezionato a quel tipo di valutazione che puoi formulare osservando gli allievi al lavoro. Ma se qualche volenteroso la vorrà progettare, sarà il benvenuto.

    Mentre scrivevo questo articolo ho notato che, quasi ad ogni piè sospinto, spuntavano particolari che sembravano degni di approfondimento. Credo che sia il rischio principale per l’insegnante che vorrà sperimentare questo percorso. Occorre molta disciplina per stare dentro tempi contenuti: massimo due ore per la prima sezione e, forse, tre per la terza. D’altra parte, si sarà presumibilmente nella seconda parte dell’anno di terminale, e gli esami che incombono detteranno regole ferree di risparmio temporale.

    A parte le eventuali sperimentazioni, questo articolo vuole proporre un modello di utilizzazione didattica della foto iconica, che potrebbe essere applicato in linea di principio anche ad altri documenti simili. L’icona è una fonte particolare. Ha un forte appeal emotivo, si propone come una sintesi istantanea di un periodo o di un fatto complesso, ha una struttura estetica rimarchevole e, infine, è consacrata come icona da un’utilizzazione vastissima e duratura. Questa sua ricchezza aumenta esponenzialmente il potere di attrazione dell’immagine e tende a trasformarla in una trappola comunicativa quasi irresistibile. Si guarda la Saigon Execution e si pensa di aver capito tutto della guerra del Vietnam. Ma, non appena si scrosti l’aura di sacralità che avvolge l’icona, si scopre che questa è un veicolo di emozioni, idee e giudizi, elaborati nel corso del tempo da soggetti ben individuabili. Queste caratteristiche della fonte iconica autorizzano strategie didattiche che giocano nella terra di mezzo tra sentimenti, immaginazione, valori da una parte, e ragionamenti, deduzioni, prove dall’altra. Fra storia pubblica e storia scientifica. Autorizzano, ancora, operazioni didattiche che, nella stessa analisi della foto, permettono di individuare problemi di amplissima rilevanza spazio-temporale.

    Per questi motivi, ben trattata didatticamente, la fonte iconica si presta a diventare un momento forte di un’alfabetizzazione alla lettura delle immagini, e, al tempo stesso, l’ancoraggio mentale di conoscenze storiche che sono solitamente destinate al rapido oblio che segue la fine degli studi (per gli approfondimenti tecnici, rimando ancora al mio Una grammatica delle immagini: la cultura iconografica tra manuali e didattica della storia, in “Visual History”, 3, 2017,).

    *questa è la seconda parte di un articolo sulla Saigon Execution, a sua volta parte di un corposo intervento di HL sul Sessantotto, composto da altri due miei interventi su “Sessantotto. Un anno spartiacque”; da due sitografie sul Sessantotto e una sui movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam, scritte da Antonio Prampolini; seguirà ancora un articolo sulle tecnologie, scritto da Lucia Boschetti.

     

    Appendice

    Aperture interdisciplinari

     

    1. Filosofia

    di Valerio Bernardi

     

    Una foto, tre possibili letture filosofiche

     

    La foto realista

    Saigon Executionè una foto che fa parte della grande età della fotografia “realista”, quella che in Italia non ha rappresentato la guerra quanto “il dopo-guerra”: pensiamo qui soprattutto alle foto di Franco Pinna che accompagnarono le spedizioni di Ernesto De Martino negli anni 1950 e che pensavano di dare conto della realtà. In effetti una tale interpretazione del dato fotografico derivava da un’idea ben precisa che era scaturita anche nell’analisi della società di massa dei francofortesi. La famosa opera di Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica (cfr. la nuova edizione: Einaudi, Torino, 2017) scritta negli anni Trenta già dava conto di questa idea, anche se non dimenticava che colui che si trovava dietro la fotocamera (o telecamera) stesse interpretando il dato con i suoi occhi.

     

    La realtà manipolata

    L’idea che una foto rappresenti una “realtà manipolata” è entrata prepotentemente nel mondo del post-moderno e della società di photoshop (o programmi similari) e degli smartphone che permettono a chiunque (e non solo ai grandi fotografi che continuano comunque una certa tradizione di rappresentazione) di rappresentare la “propria” realtà.

    Di fronte a questa valanga di immagini risulta sempre più difficile leggere la foto come documento (lo vediamo nella composita proposta didattica qui fatta), ma anche come documento di vita. Le possibili letture filosofiche di una foto che possono essere fatte oggi in questa situazione (e che possono avere anche una loro applicazione didattica) sono, a nostro parere, tre e tengono tutte conto della situazione di shitstorm che può scatenarsi anche per le immagini oggi.  Chiameremo per comodità queste tre possibili interpretazioni, post-strutturalista, post-heideggeriana e analitica, sapendo di fare una forzatura storiografica, ma non dal punto di vista teoretico.

     

    La foto codice. Roland Barthes

    Nel primo caso, potremo dire che la lezione che viene ripresa è quella degli studi di Roland Barthes (La camera chiara, Einaudi, Torino, 2010) che dimostra che la foto è di per sé “codice” e che, pertanto, non riuscirà mai ad incontrare la verità oggettiva, in quanto è un’illusione tecnica che ritrae l’entrata degli esseri umani nello scatto in un determinato momento senza volerne definire l’autenticità. La foto, quindi, è un’ombra della Verità, simile alle ombre della caverna platonica. Essa, pertanto, esprime il “mio” punto di vista senza occuparsi della realtà. Anche le foto della Guerra del Vietnam avrebbero queste caratteristiche e quindi non servirebbero a narrare una storia, ma la storia del fotografo che le ha fatte.

     

    La foto punctum.Byung Chul-Han

    La seconda lettura, invece, deriva da quello che scrive Byung Chul-Han, docente di estetica in Germania ed uno dei più interessanti filosofi contemporanei. Per Chul-Han se è vero che la foto ha un suo codice, una delle sue caratteristiche è il punctum,ovvero il fissare un momento che può per noi suscitare essenzialmente sensazioni (gradevoli o sgradevoli che siano). Il problema è che questo, benché possa essere vero per le grandi foto del passato (quelle di tutto il XX secolo) lo è molto meno oggi. L’invasione del mezzo fotografico non ci dà più la possibilità di analizzare con calma una foto, perché noi siamo abituati a continue sequenze e a non provare di fatto sensazioni. Per salvare il bello (parafrasando il titolo del suo testo La salvezza del bello, Nottetempo, 2019), bisogna fare uno sforzo per superare la nostra società trasparente, dove non si riesce a vedere in profondità per tornare a provare quei sentimenti e quelle sensazioni che possono farci immedesimare e leggere l’immagine. Una domanda che ci dovremo porre per questo autore è: quante immagini come Saigon Execution, così vicine tecnicamente alla odierna pornografia, oggi riescono a narrarci qualcosa? Quanto il nostro “occhio” riuscirà a dare una giusta lettura di un’immagine che somiglia molto a quelle che noi tendiamo a scattare quanto vogliamo rappresentare la “cruda” realtà?

     

    La foto analitica. Nicholas Wolterstorff

    Un’ultima lettura, poi, proviene dal mondo anglosassone. I filosofi analitici negli ultimi anni hanno cercato di superare il concetto di bello che deriva dalla cosiddetta tradizione standard (quella che appunto risale a Platone e Aristotele) e si sono chiesti a cosa possano servire le espressioni artistiche in genere (e la fotografia in modo particolare). In questo caso gioca un ruolo fondamentale la memoria e la rievocazione. Per Nicholas Wolterstorff, infatti, un’opera d’arte (come lo sono diventate anche le fotografie che documentano ciò che è accaduto in Vietnam) non serve solo per la sua gradevolezza, ma soprattutto perché su di essa possiamo piangere, ridere, ricordare, meditare. La funzione dell’oggetto fotografico qui viene ad essere quello di una riflessione che prescinde anch’essa dal dato oggettivo, ma che recupera altri aspetti dell’opera d’arte (per comprendere meglio il concetto si veda: N. Wolterstorff, Why Philosophy of Art Cannot Handel Kissing, Touching, and Crying, in “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 61,1, pp. 17 - 27 ) come quello di suscitare emozioni a prescindere dal bello. Una foto come Saigon Execution ben depone a questo tipo di interpretazione.

     

    Tutte e tre le letture del dato fotografico (abbiamo esaminato quelle più puramente “filosofiche”) potrebbero essere di ulteriore approfondimento rispetto alla lettura storica e potrebbero introdurre alcune delle nozioni di estetica che oggi sono discusse e che possono anche essere oggetto di riflessione da parte degli studenti, in un percorso che sia di tipo interdisciplinare.

     

    2. Storia dell'arte

    di Giulia Perrino

     

    Un laboratorio di storia dell'arte sulla fonte iconica

     “Questo articolo vuole proporre un modello di utilizzazione didattica della foto iconica. Questa è una fonte particolare. Ha un forte appeal emotivo, si propone come una sintesi istantanea di un periodoo di un fatto complesso, ha una struttura estetica rimarchevole e, infine, è consacrata come icona da un’utilizzazione vastissima e duratura (…). Per questi motivi, ben trattata didatticamente, la fonte iconica si presta a diventare un momento forte di un’alfabetizzazione alla lettura delle immagini (…)”.

    Parto di qui per agganciare al laboratorio di Storia un mini-laboratorio di due ore nella disciplina che per eccellenza analizza le immagini nel corso del suo sviluppo storico, la Storia dell’Arte. L’occasione è ghiotta infatti per lavorare con gli studenti sul rapporto tra l’Immagine e il suo tempo (il tempo istantaneo della produzione, il tempo breve della fruizione, il tempo lungo – se c’è – della rifunzionalizzazione) e su quali siano le caratteristiche che rendono un’immagine iconica.

     

    I metodi di studio più adottati

    Uno degli approcci di lettura più impiegati (soprattutto nella manualistica corrente anche recente) per la lettura delle immagini resta quello estetico: si tratta di una caratteristica intrinseca alla disciplina che ne ha salvaguardato lo statuto in anni difficili (si veda Cesare De Seta, Perché studiare storia dell’arte, Donzelli 2008,  in particolare le pp. 41-44) per quanto mostri segni tangibili di invecchiamento. A questo approccio, hanno fatto da contraltare a partire dagli anni Ottanta del Novecento inserti metodologici di tipo storico-sociale, senza apprezzabili integrazioni con il metodo iconologico-iconografico.Solo in anni molto più recenti si è fatta strada una lettura sperimentale delle immagini e dei beni culturali in genere legata al concetto di patrimonio e al suo rapporto con il territorio.

    Per lo statuto scolastico della disciplina, sono impostazioni decisamente migliori rispetto anche solo a venti anni fa, ma che restano fondamentalmente slegate dal valore e dal senso trasversale e dalla potenzialità multidisciplinare che può offrire una lettura dell’immagine che le attraversi tutte, le discipline.

    In altre parole (e arrivando al dunque): ho una fotografia intitolata Saigon Execution e il collega di Storia ci sta costruendo su un laboratorio didattico. Che ci faccio? Come intervengo? Cosa aggiungo (e cosa se necessario tolgo)?

     

    Estetica ed emotività

    Può sembrare piuttosto retrò, ma io mi sento portata a tornare al senso originario, al valore intrinseco di ciò che noi chiamiamo arte, cioè al valore estetico. E ci torno però per un motivo: per usare specialmente il suo appeal emotivo. Un’immagine ha sempre dalla sua parte la fondamentale componente estetica che coinvolge la vista, lo sguardo, e procede secondo un canale di comunicazione che usa un linguaggio altro da quello testuale: si tratta di un canale che di solito smuove meccanismi profondi – ma non immediati - di comprensione, legati di solito alle emozioni (positive o negative). Questo lo sappiamo tutti. Ma cosa me ne faccio di queste consapevolezze per analizzare e interpretare l’immagine? Per capirne il senso e il significato anche sganciandola dal suo contesto (se mai poi per riconnetterla successivamente)? Come faccio a distinguere, per esempio, i suoi codici forti dai codici deboli (al proposito si consulti: Pina Belli D’Elia, Per una educazione al vedere, in Media Significati Metodi nella Formazione, a cura di V. A. Baldassarre [Quaderni della cattedra di Pedagogia Sperimentale, Università di Bari, 1], Modugno 1993, pp. 161-175)?

    Il Laboratorio inizia con la visione e dall’analisi di tutta la sequenza delle immagini del fotografo Adams (vedi la fig. 3 della prima parte di questo articolo). Entrando in medias res, senza particolari spiegazioni introduttive ma con una consegna chiara e in un tempo limitato (10 minuti) si chiede agli studenti, divisi in due gruppi, di indicare quale tra le 12 immagini proposte è quella ritenuta più forte e rappresentativa. In questa fase gli studenti non è necessario conoscano la storia legata alle immagini. Devono limitarsi a motivare la scelta compilando la griglia sottostante. In pratica, questa prima parte potrebbe coincidere, grosso modo, con quella prevista nel laboratorio di Storia e si potrebbe pensare di condurla insieme al collega di Storia, in compresenza.

    IMMAGINE

    Descrizione analitica (cosa vedo)

    Significato (cosa capisco, cosa mi sembra che stia succedendo)

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    2

       

    3

     

     

     

    Dopo aver terminato il Laboratorio di Storia, avendo anche maturato tutti gli elementi di discussione relativi alle informazioni fondamentali e di corredo che sono state restituite sul contesto storico del luogo e del tempo e sui protagonisti dell’episodio fotografico (il carnefice, la vittima, il fotografo), gli studenti riprendono il Laboratorio di Storia dell’Arte, per concentrare l’attenzione sull’analisi della sola immagine divenuta iconica, con l’obiettivo di valutare quali elementi hanno reso tale l’immagine.

     

    Icona fotografica e icone pittoriche

    La seconda parte del laboratorio sarà agganciata alla seconda parte del Laboratorio di Storia, laddove si discute del concetto di icona. Il lavoro questa volta parte da una breve definizione teorica dei concetti di immagine e di icona. Non è necessario però ripercorrere lineamenti classici di storia dell’arte bizantina. Si può lavorare invece discutendo in primis le definizioni (cosa è un’immagine, cosa è una icona) e proseguire presentando immagini simili sul piano iconografico a quella di partenza, evocando l’appeal emotivo cui si faceva riferimento all’inizio del lavoro.

    Facile è il paragone tra la vittima della Saigon Execution e il Cristo flagellato di Caravaggio. Meno scontato, ma forse altrettanto efficace è quello tra il personaggio a sinistra, colto di sorpresa in un ghigno sgradevole, e i ceffi che identificano – facendo leva sul senso estetico del brutto – i “cattivi” (nel senso originario di “prigionieri del male”) della Salita al Calvario di Bosh. Ci si può sbizzarrire usando anche confronti più coerenti sul piano temporale, per esempio mostrando i dipinti del tedesco Georg Grosz, che attacca il sistema della guerra in modo molto evidente nei suoi lavori espressionisti.

    Altri aspetti su cui si può lavorare, sempre nella direzione della ricostruzione del sistema di “segni” che compongono la scena, sono il rapporto tra superficie e sfondo; il ruolo delle comparse o delle figure di contorno; il rapporto tra bianco/nero e colore. In questo caso si può decidere di giocare la partita esclusivamente in ambito di Storia della Fotografia, proponendo confronti in ambiti di settore. Impossibile non ricordare gli scatti dei reportage di guerra di Robert Capa, di cui si propongono qui due scatti, tra cui quello notissimo del soldato ucciso durante la Guerra di Spagna (http://www.grandi-fotografi.com/robert-capa). Ma è soprattutto sui cataloghi on line della Magnum Photo (https://www.magnumphotos.com) o del Premio Internazionale World Press Photo (https://www.worldpressphoto.org/collection/photocontest/winners/2020) che si offrono innumerevoli spunti: e non da ultimo vanno considerati i lavori di fotografi socialmente impegnati come Sebastiao Salgado (ottima occasione per mostrare eventualmente in classe il film a lui dedicato da Wim Wenders, Il sale della terra).

    In tutti i paragoni proposti la lettura corretta dell’immagine passa comunque dal riconoscimento, dopo lettura e interpretazione dei segni, del soggetto iconografico e dunque dalla consapevolezza che lo studente – guidato dal docente – deve possedere dei fatti che stanno alla base della costruzione dell’immagine stessa: questo perché i fatti, cioè la narrazione degli episodi che vengono stigmatizzati nelle immagini, hanno un’incidenza precisa (che va ricostruita a posteriori) sia nel caso della costruzione dell’immagine fotografica (che appunto è costruita dal fotografo – mai improvvisatore – e questa è un’ottima occasione per smitizzare l’idea del fotografo che preme il dito sul grilletto guidato da un istinto magico o da pura fortuna, come si dice sia accaduto a Robert Capa per lo scatto del miliziano ferito a morte) sia dell’immagine dipinta dal pittore, che segue sempre, come noto, precisi canoni estetici che sono il prodotto del suo tempo, del tempo del pittore. E’ per questo che studiamo le immagini: per ricostruire attraverso i canoni estetici i valori e i costumi sociali del tempo, non il contrario.

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    La riflessione sull'icona

    A questo punto, dopo aver guidato la lettura delle immagini iconiche scelte (la fotografia e il dipinto) secondo parametri noti nella letteratura di settore (analisi della scena, disposizione dei personaggi, gestualità, espressività eccetera), si tornerà al lavoro iniziale: si compareranno dunque i risultati emersi nella prima griglia compilata, in cui si chiedeva ai due gruppi di studenti di indicare l’immagine più “forte” (e ora potremo sostituire l’aggettivo con forte con “iconica”) tra le dodici della sequenza e valutare, con discussione guidata, se la conoscenza dei fatti e il dibattito storico emerso nel Laboratorio di Storia intorno alla Saigon Execution possa ora cambiare la percezione degli studenti sul valore e sul senso dell’immagine iconica. In sostanza l’obiettivo finale che deve porsi il docente è quello di far riflettere gli studenti su una domanda e sulle sue risposte: cosa rende la foto in oggetto un’immagine così forte da diventare – tra le atre – iconica?

    Il docente avrà cura in questa fase di condurre la riflessione degli studenti sul doppio canale del campo estetico-visivo (lavorando sui segni ritenuti validi per indicare l’immagine o le immagini forti) e sul campo dei contenuti e del racconto intorno alle immagini (ovvero sulla storia, sui fatti e dunque sul significato dell’immagine nella lunga durata, nel tempo), cercando di far emergere il peso specifico di entrambe le componenti nella costruzione, nella fruizione e nella persistenza o durata nel tempo di una immagine iconica.

    Se resta tempo, può risultare molto stimolante chiedere agli studenti di riflettere insieme sul perché alcune immagini (come per esempio la Flagellazione di Caravaggio) perdurino nel loro valore di iconenel tempo e aprire un dibattito sull’opinione che gli studenti hanno maturato sul possibile valore di immagine iconica nel futuro della Saigon Execution.

  • Un laboratorio storico wiki sul muro di Berlino

    Autore: Laura Paviotti

     

    Questo laboratorio e il gemello sull’emigrazione (di Silvia Furlanetto) provengono dal Tfa di Udine/Trieste, coordinato, per quanto riguarda la storia, da Andrea Zannini. Come vedrete, sono proposte di lavoro che vanno provate e riprovate. Credo che dobbiamo capire quasi tutto della didattica digitale. Interazione immediata fra allievi e docenti, grandi quantità di materiali, materiali di genere diverso, e il mezzo – infine – che invita gli allievi a scrivere, dialogare e collaborare. Queste sono le premesse. Ma non dobbiamo fermarci a queste, altrimenti, finito l’effetto novità, anche questa se ne andrà nella soffitta delle illusioni perdute. (HL)

     

    Indice

    • Lo schema del Lab
    • Punti di partenza : alcuni termini per orientarsi
    • Le fonti : preselezione da parte del docente
    • Le fonti : i video
    • Le fonti : i siti
    • Le fonti : gli articoli di giornale
    • Le fonti : le testimonianze
    • I gruppi
    • L’elaborato finale e il ruolo del docente

     

    Lo schema del laboratorio

     

    Destinatari: classe quinta di scuola secondaria superiore.

    Momento didattico in cui inserire il laboratorio: secondo quadrimestre.

    Tipologia di fonti: articoli di giornale da archivio, testimonianze scritte, video e siti con materiali interattivi, contributi storiografici.

    Tempi: 2 ore nell’aula di informatica per la presentazione dell’ambiente di apprendimento virtuale, l’esposizione del progetto con le relative attività e la suddivisione in gruppi di lavoro. Il resto del percorso può essere svolto in orario extrascolastico, gestendo accuratamente le scadenze di consegna: 3 giorni per il completamento dei link iniziali, 10 giorni per visionare i materiali ed eventualmente aggiungerne di nuovi, 1 settimana per la stesura dell’elaborato finale da parte di ogni gruppo. Al termine del percorso, si possono dedicare 2/3 ore all’esposizione delle relazioni finali.

    Obiettivi. Per la prima fase: stimolare l’interazione di gruppo in un compito di problem solving creativo (sviluppare un’ipotesi; discuterne i punti di forza e di debolezza; inventare la soluzione di un problema che non presuppone una risposta esatta). Per la seconda fase: elaborare un testo narrativo sulla base di documenti storici, assumendo una focalizzazione interna contestualizzata all’epoca e all’ambiente considerati. Per la terza fase: verbalizzare la relazione di un’esperienza, analizzando il processo che ha condotto alle diverse scelte e mettendo in evidenza i punti di forza e di debolezza e le modalità d’interazione e cooperazione. Si attiverà dunque una riflessione metacognitiva sul percorso. L’insegnante dovrà attribuire il ruolo di relatore a un componente di ogni gruppo.

     

    Pagina di partenza: alcuni termini per orientarsi.

     

    Nella home-page l’insegnante dispone parole e immagini per orientare un brainstorming sul periodo interessato: “cortina di ferro”, “guerra fredda”, “perestroika”, “Patto di Varsavia”, “Patto atlantico”, “DDR”, “RFT”, “Vopos”, “Stasi”. Cliccando su di esse, si apre un link che manda alla pagina dove ogni ragazzo può contribuire e condividere le informazioni sull’argomento.

     

     


    Le fonti: preselezione da parte del docente-guida e selezione autonoma.

     

    Dopo aver selezionato i materiali, l’insegnante li suddivide in quattro pagine, sulla base della tipologia delle fonti:

    • video
    • articoli di giornale
    • testimonianze
    • siti

    Ogni link a una fonte è corredato da domande guida, che servono per far nascere la discussione e orientarla. Questa si svolge nella pagina stessa, attraverso la discussion (thread mode) allo scopo di creare una sorta di piazza virtuale, dove ci si confronta, si argomentano le proprie idee e si mettono alla prova le proprie capacità critiche.

    Allo steso tempo, ogni gruppo dispone di una propria pagina, nella quale ciascun partecipante annota le informazioni che considera rilevanti per il compito specifico. Anche la discussione fra i membri del gruppo sulla correttezza e la pertinenza delle annotazioni avviene nella pagina attraverso la discussion: l’idea è quella di sollecitare un modus operandi tipico dei gruppi di ricerca.

    Per facilitare il lavoro dei ragazzi è auspicabile non pubblicare il materiale in un’unica soluzione, perché ci sarebbe il rischio di scoraggiare gli allievi o di farli disperdere in un mare di informazioni.

    Gli studenti, pertanto, dovranno muoversi tra la documentazione per individuare le notizie utili rispetto al loro percorso di ricerca (vedi sotto). Qualsiasi nuova fonte proposta dagli alunni dovrà essere corredata da una scheda di presentazione in cui si discuta la sua attendibilità (vedi schedatura.pdf).

     

    Le fonti: i video

     

    1. Henry Schipper, The Berlin Wall, 2003, da “History Channel”1


    Parte 1
    Domanda guida: “La costruzione del Muro suscita delle reazioni molto diverse: perché?”

    Parte 2
    Domanda guida: “Perché l’”Occidente” non si muove? Quale scopo e quale necessità fanno nascere la retorica del Muro come “barriera protettiva antifascista”?o anticomunista?

    Parte 3
    Domanda guida: “Che significato ha la frase di Kennedy “Ich bin ein Berliner”? Perché la sua visita mette in rilievo le difficoltà di una risoluzione del problema?”

    Parte 4
    Domanda guida: “L’intervento di Schabowski dà origine a un equivoco che contribuisce a portare alla caduta del muro; tuttavia successivamente sarà uno dei pochi a scontare la pena per reati contro i fuggiaschi. Perché questa contraddizione? Che cosa è  realmente successo?”

     

    RIFLESSIONE FINALE : “Il controllo totale non è la soluzione di tutti i problemi. Che ne pensi?”

     


    2. Martin Vaughan Cook, Escape from GDR, 2007 da “Discovery Channel2”2

     

    Parte 1 (in inglese)

    Parte 2

    Parte 3

    Parte 4

    Parte 5

    Parte 6

    Domanda finale: “molti materiali di questi video sono gli stessi del reportage di History Channel, ma ti sembra che siano usati in modo analogo? Il taglio documentaristico è lo stesso? Se no, quale diversa luce getta sugli eventi?”

     

    Le fonti: i siti

     

    Si consiglia di fornirli in un’unica soluzione dopo la visione dei video. Sono di consultazione per ogni gruppo che potrà trovare informazioni-quadro sugli argomenti trattati e una presentazione globale della città. Inoltre, le carte e le ricostruzioni interattive propongono un approccio ludico senza peraltro discostarsi dal rigore storico.

    Il muro di Berlino3
    Mauer Museum4
    Berlin.de: Numeri e fatti5 (interessanti carte interattive)
    La storia del muro dalla costruzione fino al crollo6 

     

    Le fonti: gli articoli di giornale

     

    Consiglierei di fornirli a gruppi di tre, secondo una progressione cronologica che potrebbe aiutare a focalizzare il mutamento (psicologico e di giudizio) dell’opinione pubblica nei riguardi del Muro. Gli ultimi tre articoli sono inoltre corredati da domande che stimolano una riflessione anche sul vissuto personale dell’allievo e sull’attualità

     

    L’opinione pubblica nel 1984

    1. Lucio Caracciolo, I figli del muro, “La Repubblica”, 6 maggio 1984, p. 22

    Domanda guida: “Che ruolo hanno secondo te la voglia di viaggiare (almeno attraverso la letteratura) e l’esotismo nella psicologia dei berlinesi dell’est?”

     

    2. Enrico Filippini, I Muri di Berlino, “La Repubblica”, 10 ottobre 1984, p. 24
    Domanda guida: “Perché Berlino viene definita una città “sperimentale”?”

     

    3. Andrea Tarquini, Oltre il Muro per sfuggire la noia, “La Repubblica, 24 ottobre 1984, p. 14
    Domanda guida: “La tentazione di andarsene non è ancora morta, tra la gente di questo paese, cui pure in fondo non manca gran che; certo molto meno che ai polacchi o ai romeni”: come giustifichi questa affermazione dell’inviato italiano Andrea Tarquini?”

     

    L’opinione pubblica nel 1985

    1. Andrea Tarquini, Speranze dietro il Muro, “La Repubblica”, 13 aprile 1985, p. 13

    Quale immagine delle differenze tra est e ovest ricavi da questo articolo? Ti sembra che cambino rispetto all’inizio della divisione?

     

    2. Silvia Giacomoni, Quel Muro? Un gioiello, “La Repubblica”, 21 marzo 1987, p. 18 (di Silvia Giacomoni)

    Quale immagine delle differenze tra est e ovest ricavi da questo articolo? Ti sembra che cambino rispetto all’inizio della divisione? (Domanda in comune con l’articolo precedente).

     

    3. Bernardo Valli, L’orgoglio di sentirsi tedeschi, “La Repubblica”, 7 febbraio 1986, p. 7 (di Bernardo Valli)

    Che cosa significa secondo te l’affermazione dell’architetto Branzi “si tratta di una cultura vissuta sempre come alla soglia di un avvenimento che non si attua mai”?

     

    L’opinione pubblica nel 1987/1989

    1. Vanna Vannuccini, Ma qual è la vera Berlino, “La Repubblica”, 15 luglio 1987, p. 13

    “La grande maggioranza dei profughi, o degli aspiranti tali, sono gente tra i venti e i quarant' anni, figli dunque del nuovo Stato e della sua cultura, quasi tutti con un livello di educazione superiore, una generazione di tecnici e di intellettuali a cui ogni Stato usa affidare le sue speranze, il suo futuro e la sua sopravvivenza”: come vedi, la “fuga dei cervelli” non è un fenomeno moderno. Che conseguenza ha, anche nel mondo d’oggi?

     

    2. Alberto Cavallari, Ma Gorby avanza a tempo di rock, “La Repubblica”, 25 giugno 1988, p. 1

    La musica come strumento di denuncia in senso lato: esistono esempi ancora oggi?

     

    3. Piero Benetazzo, Cinquecento tedeschi dell’est fuggono dal confine, “La Repubblica”, 20 agosto 1989, p. 12

    In che modo questo articolo del 1989 preannuncia quella che sarà poi la caduta del Muro?

     

    Le fonti: le testimonianze

     

    Possono essere fornite in un unico momento attraverso 3 link che rimandano ai tre sottoraggruppamenti (sull’evento della caduta del Muro, sulla vita a est e a ovest, sui tentativi di fuga oltre il Muro) in modo che siano consultate già in base all’indirizzo della ricerca.

     

    1. Sull’evento della caduta del muro:

    La caduta del muro di Berlino: io c'ero!7 (di  Matteo Quero )

    Giordano Bruno Guerri, per Il Giornale, 2009, mauerspechte.pdf

    Alviani Alessandro, per La Stampa, 2009, testimonianza di Padre Fuhrer sulla manifestazione non violenta che porterà alla caduta del Muro. caduta.pdf

    Maier Charles S., Il crollo. La crisi del comunismo e la fine della Germania est, Il Mulino, Bologna 1999; pp. 345-360: il contesto politico dell’unificazione.

    Darnton Robert, Diario berlinese 1989-1990, Einaudi, Torino, 1992; pp.49-60: dopo il crollo, il Muro visto da est e da ovest; le ragioni dell'evento.

     

    2. Sulla vita nei settori orientale e occidentale di Berlino

    Thomaneck J.K.A, Niven Bill, La Germania dalla divisione all'unificazione, il Mulino, Bologna 2005, pp.57-62 : la retorica politica e i simboli costruiti in modo speculare tra est ed ovest.

    Crescere al confine tra le due Germanie - Intervista a Gunther Schaefer8: Emilio Esbardo intervista Gunther Schaefer per « Il Nuovo Berlinese »

    Rava Enzo, Vita quotidiana drammatica e balorda dietro il Muro di Berlino, Manifestolibri, Roma 2004, pp. 7-13


    3. Sui tentativi di fuga oltre il Muro:

    Il Tunnel della Libertà ideato da Luigi e Mimmo, due studenti italiani a Berlino - Emilio Esbardo intervista Ellen Sesta per « Il Nuovo Berlinese »

    Gelb Norman, Il Muro. Quando a Berlino si giocarono i destini del mondo, Mondadori, Milano 1987; pp.272-4 e pp.326-332

     

    I gruppi

     

    In base ai percorsi di ricerca più adatti a un laboratorio didattico di questo tipo e al numero medio di alunni in una classe, si formano 4 gruppi. La formazione dei gruppi dev’esserepredisposta dall’insegnante, in base alle caratteristiche degli alunni: è bene, infatti, che ci siano competenze e motivazioni diverse, e che la preparazione sia eterogenea all’interno di ogni gruppo.

     

    Gruppo a) Vivere vicini, vivere in due mondi diversi.

    Sottogruppo 1 - Berlinesi orientali

    Sottogruppo 2 - Berlinesi occidentali

     

    Gruppo b) Il Muro: separati d’improvviso.  

    Sottogruppo 1 - Chi progetta il Muro

    Sottogruppo 2 - Chi progetta la fuga oltre il Muro

     

    Il Gruppo (a) cercherà di ricostruire attraverso le fonti  le diverse condizioni di vita nell’est e nell’ovest di Berlino, immedesimandosi in un cittadino dell’epoca.

    Il Gruppo (b) farà uno studio più tecnico del progetto del Muro, dei suoi dispositivi per impedire la fuga e delle modalità utilizzate invece per attraversare quel confine.

     

    L’elaborato finale e il ruolo del  docente

     

    La produzione scritta finale prevede il racconto dell’esperienza (scappare, costruire, vivere), immedesimandosi in un ipotetico cittadino berlinese della seconda metà del ‘900. Per la sua stesura si sfrutterà la possibilità fornita da wiki di scrittura collaborativa: ognuno può aggiungere la sua parte integrandola in un testo unico. I parametri di valutazione terranno conto della correttezza nell’uso della lingua e delle strutture narrative, ma anche nell’uso delle informazioni storiche acquisite durante il percorso.

    La valutazione finale, a livello individuale, terrà conto del monitoraggio dell’interazione sul wiki (sarà necessario giudicare la qualità dei post e può essere uno strumento utile, anche se solo per un rilevamento quantitativo, l’assessment). Per una valutazione di gruppo, invece, si prenderà in esame il prodotto finale di scrittura collaborativa e la relazione davanti alla classe. Quest’ultima dovrà ripercorrere le tappe e le motivazioni che hanno condotto alle scelte fino all’elaborazione del risultato finale, guidando così una riflessione metacognitiva sull’esperienza.

     

    Note

    1. History Channel, ora noto come “History”, è un canale televisivo di divulgazione storica di origine statunitense. Il documentario proposto è stato supervisionato per History dal Dr. Patrick Major, Professor della University of Reading il cui settore d’interesse specifico è la storia della Germania durante la Guerra Fredda.
    2. Discovery Channel è un’emittente televisiva internazionale. Per questo documentario si è fatto riferimento ai principali centri di studio e archivi di Berlino: Berliner Mauer Archiv; The Berlin Hohenschonhausen Memorial; Dokumentationszentrum Bernauer Strasse; Museum of the Wall Haus am Checkpoint Charlie; Normannenstrasse Reserach and Memorial Centre.
    3. Questo sito è editato e gestito da Wolfgang Pruscha originario di Düsseldorf  e laureato all'università di Düsseldorf in letteratura e lingua tedesca e in storia. Ora vive a Villa Vicentina e insegna lingua e letteratura tedesca.
    4. Questo è il sito ufficiale del Museum am Checkpoint Charlie di Berlino.
    5. “Berlin.de” è il sito ufficiale della capitale.
    6. “Il Nuovo Berlinese” è una rivista online di approfondimento culturale su Berlino, fondata nel 2011 da Emilio Esbardo e rivolta a lettori di lingua italiana.
    7. Vd. nota 3
    8. Vd. nota 6

     

  • Un museo virtuale di storia contemporanea utilizzabile in classe. LeMo - Lebendiges Museum Online.

    di Antonio Prampolini

    Indice

    1. Struttura e risorse del sito

    2. Esempi didattici

    3. Ricerche

    Il LeMo è un museo senza muri e sale di esposizione, senza orari di accesso e percorsi obbligati per i visitatori; è un museo virtuale dove la storia può essere “vissuta” (di qui il nome Lebendiges Museum) attraverso gli oggetti digitalizzati che costituiscono il patrimonio museale e i numerosi testi di contestualizzazione/interpretazione, i documenti originali, le testimonianze delle persone.

    Il progetto, che risale al 1997, è il risultato della collaborazione fra tre importanti istituzioni culturali tedesche: il Deutsches Historisches Museum, la Stiftung Haus der Geschichte der Bundesrepublik Deutschland e il Bundesarchiv. É presente in rete dal 1998 con un proprio sito, che nel 2014 è stato ammodernato nel design e nelle funzionalità. Si è affermato nel corso degli anni duemila come il principale portale (per numero di accessi) in lingua tedesca sulla storia contemporanea della Germania.

    Può essere usato anche dal docente italiano, dal momento che il progetto contiene delle pagine che presentano una versione in lingua italiana; in ogni caso, con l’aiuto di un traduttore automatico (Google Translate funziona abbastanza bene) si possono sempre leggere i testi allegati ai documenti iconografici.

     

    1. Struttura e risorse del sito

    Il sito http://www.dhm.de/lemo si articola in sei sezioni: Linea del tempo (Zeitstrahl), Tematiche (Themen), Testimonianze (Zeitzeugen), Patrimonio museale (Bestand), Didattica (Lernen), Progetto LeMo (Projekt).

    La Linea del tempo (Zeitstrahl), che inizia dall’anno 1815 per arrivare ai giorni nostri, è suddivisa in undici periodi, accompagnati ciascuno da una scheda introduttiva (Kapitelüberblick):

     

    1. Dal Congresso di Vienna alla Rivoluzione del 1848: Vormärz und Revolution 1815-1849

    2. Dalla reazione alla formazione dello stato nazionale: Reaktionszeit und Nationalstaatsbildung 1850-1870

    3. L’Impero: Kaiserreich 1871-1914

    4. La Prima guerra mondiale: Der Erste Weltkrieg 1914-1918

    5. La Repubblica di Weimar: Die Weimarer Republik 1918-1932

    6. Il regime nazista: Das NS-Regime 1933-1945

    7. La Seconda guerra mondiale: Der Zweite Weltkrieg 1939-1945

    8. Il Dopoguerra: Nachkriegsjahre 1945-1949

    9. La Germania divisa: Geteiltes Deutschland 1949-1989/90

    10. La riunificazione tedesca: Deutsche Einheit 1990

    11. La globalizzazione: Globalisierung 2001-

     

    La sezione Tematiche (Themen) affronta l’argomento Democrazia e dittatura (Demokratie und Diktatur) confrontando i due regimi politici e i diversi stili di vita nella Germania divisa in due stati. A tal fine vengono presi in esame alcuni documenti ed oggetti di vita quotidiana.

    Nella sezione Zeitzeugen le testimonianze sono raggruppate per periodi storici di riferimento (gli stessi della Linea del tempo) e consistono in pagine di diari, lettere, memorie, racconti. La sezione è aperta al contributo di tutti coloro che hanno vissuto esperienze significative o che detengono documenti di interesse storico (la pubblicazione delle testimonianze non è automatica ma è sottoposta all’approvazione da parte della redazione del sito).

    Il “cuore” del sito è la sezione Patrimonio museale (Bestand) che contiene un inventario suddiviso per categorie: Oggetti (Objekte), Biografie (Biografien), Cronologie (Chroniken), Video (Video), Testimonianze (Zeitzeugen), Documenti (Dokumente), Fotografie (Fotografien), Sguardi retrospettivi (Rückblicke), Statistiche (Statistiken), Didattica (Lernen).

    La sezione Didattica (Lernen) si rivolge al mondo della scuola offrendo materiali per l’insegnamento/apprendimento della storia contemporanea della Germania messi a disposizione dal Deutsches Historisches Museum e dalla fondazione Haus der Geschichte der Bundesrepublik Deutschland.

    Il museo propone, in particolare:

    - una mappa interattiva (luoghi, persone, conflitti) sulla storia franco-tedesca lungo il fiume Reno (Der Rhein von Basel bis Koblenz. Deutsch-französische Geschichte am Rhein);

    - un corso di orientamento su Nazionalsocialismo e Storia del dopoguerra (Nationalsozialismus und Nachkriegszeit);

    - guide online sul tema Democrazia e dittatura riguardanti:

    - Design, tecnologia, dominio (Design – Technik – Herrschaft),

    - Arte e censura (Kunst und Zensur),

    - Le donne e la lotta per l'uguaglianza (Frauen und der Kampf um Gleichberechtigung),

    - Democrazia e potere (Demokratie und Gewalt).

     

    2. Esempi didattici

    La fondazione Haus der Geschichte der Bundesrepublik Deutschland permette di accedere alla totalità dei propri materiali didattici (suggerimenti per lezioni in classe e visite a mostre permanenti); tra questi segnaliamo:

     

    01Fig.1: La caricatura del Piano Marshall Karikatur Marshall-Plan Il 5 giugno 1947, il Segretario di Stato americano George C. Marshall aveva proposto ai paesi europei usciti distrutti dalla guerra un piano di aiuti economici. Anche i paesi dell’Europa dell’Est ne avrebbero potuto beneficiare, ma l’URSS si oppose. La caricatura del Piano Marshall fornisce una buona introduzione alla "Guerra fredda" e offre l'opportunità di affrontare i temi della ricostruzione economica e l'inizio del confronto politico-economico-militare tra Oriente e Occidente (per maggiori informazioni: Piano Marshall/riforma valutaria).
    Gli studenti potranno esaminare la caricatura realizzata nella Germania Occidentale nel 1947. Analizzando le persone (le loro posizioni, espressioni facciali, gesti) e gli oggetti raffigurati saranno in grado di individuare gli obiettivi del caricaturista.

    Lo “zio Sam”, personificazione degli Stati Uniti, distribuisce generosamente monete a un gruppo di bambini che rappresentano i paesi dell'Europa occidentale (nella caricatura è possibile riconoscere la Gran Bretagna: John Bull, la Francia: la Marianne, l’Italia: il gondoliere con la t-shirt a strisce). Il dittatore sovietico Josef Stalin, invece, si rivolge, con un atteggiamento minaccioso, ad un altro gruppo di bambini che rappresentano i paesi dell'Europa orientale (l'Ungheria, la Polonia, la Cecoslovacchia e la Bulgaria) mettendoli in guardia dall’accettare il piano di aiuti americano. Da notare che nella caricatura le nazioni sia dell’Europa Occidentale che Orientale sono raffigurate come bambini e non come persone adulte, a sottolineare la loro comune condizione di inferiorità, sia pure in differenti contesti, verso le due grandi potenze uscite vincitrici dalla Seconda guerra mondiale.

    02Fig.2: Macchina fotografica segreta. La rivolta popolare del 17 giugno 1953 nella DDR Geheimkamera Solo quattro anni dopo la fondazione della DDR (Deutsche Demokratische Republik), centinaia di migliaia di persone manifestarono contro la dittatura comunista il 17 giugno 1953. La giornata è passata alla storia come una rivolta popolare. Quel giorno, il fotografo Richard Perlia aveva scattato di nascosto delle foto che poi era riuscito ad inviare in Occidente.

    Le cause della rivolta popolare nella DDR risalgono al progetto per la "costruzione pianificata del socialismo" approvato nel luglio 1952 dal Secondo Congresso della SED (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands), il partito comunista con a capo Walter Ulbricht. La sua attuazione portò a una grave crisi alimentare, ad un peggioramento del tenore di vita della popolazione e a una diminuzione della produzione industriale. Molte persone fuggirono a Ovest. La morte di Stalin nel marzo 1953 suscitò speranze di miglioramenti, ma la leadership della SED proseguì nella sua politica aumentando i ritmi di lavoro nelle fabbriche senza adeguare i salari.
    Il 15 e 16 giugno 1953 scoppiarono proteste a Berlino Est e nell'intera DDR che si intensificarono il giorno successivo. Le persone scesero nelle piazze chiedendo non solo una diversa politica economica ma anche libere elezioni, la sostituzione di Ulbricht e la liberazione di tutti i prigionieri politici. Per reprimere la rivolta popolare, l'Unione Sovietica intervenne direttamente con una massiccia azione militare che causò decine di morti e portò a molte migliaia di arresti.

    Il tema della "rivolta popolare del 17 giugno 1953" può essere elaborato dagli studenti prendendo spunto dalla Macchina fotografica segreta (componenti, dimensione, funzionalità, uso), per poi progettare e scrivere una relazione sulla soppressione delle libertà di stampa e di espressione nella DDR, utilizzando i testi collegati all’evento; in particolare: 17 Giugno 1953 – Insurrezione popolare (17 Juni 1953 – Volksaufstand).

    03Fig.3: Veicolo per il trasporto di prigionieri della polizia segreta nella DDR MfS-Gefangenentransportwagen

    Nella DDR, il Ministero per la Sicurezza di Stato (MfS), la polizia segreta, gestiva i propri centri di detenzione preventiva dove venivano incarcerati i sospetti prima del processo. Se un prigioniero doveva essere spostato in un altro luogo, veniva trasportato con un veicolo apposito. La funzione di questi mezzi di trasporto richiedeva di essere mascherata. Erano camuffati da furgoni civili per non suscitare scalpore.

    Il Ministero per la Sicurezza dello Stato (MfS), popolarmente noto come "Stasi", era il più importante strumento politico di repressione del Partito Socialista Unitario Tedesco (SED). Era organizzato e operava sul modello della polizia segreta dell'URSS (il KGB). I compiti e le responsabilità del MfS non furono mai chiaramente definiti, non era soggetto ad alcuna restrizione legale. Il numero dei dipendenti del MfS aumentò costantemente nel corso degli anni: se nel 1950 erano 1.100 le persone impiegate, il numero salì a 10.000 nel 1953 e a 20.000 nel 1961. Oltre che sul lavoro dei dipendenti a tempo pieno, l’attività del Ministero per la Sicurezza dello Stato si basava sulle informazioni dei cosiddetti “dipendenti segreti”.

    Per scongiurare “azioni ostili” contro il regime, negli anni '70 e '80 fece sempre più affidamento sulla “disintegrazione” dei gruppi interni di opposizione (ad esempio, dei gruppi per la pace, l'ambiente e i diritti umani). Gli agenti del MfS diffondevano in modo sistematico voci e informazioni false sui membri di tali gruppi, si servivano di prostitute per ricattare gli uomini, distruggevano le relazioni familiari e causavano fallimenti professionali. Il Ministero per la Sicurezza dello Stato pianificava consapevolmente i danni fisici e mentali delle vittime. La forza bruta veniva usata, in particolare, contro coloro che tentavano di fuggire dalla DDR.

    Il veicolo per il trasporto dei prigionieri esemplifica il modo di operare del MfS e può essere utilizzato in classe per introdurre l'argomento “lavoro e metodi della Polizia segreta nella DDR”. Per approfondimenti la scheda rinvia agli articoli: Struttura del MfS e Sorveglianza

    04Fig.4: La costruzione del muro Objektgruppe zum Mauerbau Domenica 13 agosto 1961, agenti di polizia e soldati della DDR “sigillano” il confine con Berlino Ovest e l'anello esterno della città. Vengono demolite case, erette barriere anticarro e di filo spinato. Nei giorni seguenti, squadre di operai sotto sorveglianza militare iniziano a sostituire il filo spinato con un muro alto circa due metri, che taglierà in due Berlino. La popolazione in entrambe le parti della Germania è indignata e scioccata.
    Con il permesso dell’URSS, il Comitato centrale del Partito Socialista Unitario Tedesco (SED) aveva deliberato in totale segretezza la costruzione del muro. Le truppe sovietiche di stanza nella Repubblica Democratica Tedesca (DDR) contribuirono a “mettere in sicurezza” l'erezione del "muro di protezione antifascista". La leadership della Germania orientale voleva in questo modo porre fine all'esodo di massa dei propri cittadini attraverso Berlino Ovest.
    Nei giorni della costruzione del muro si susseguirono scene strazianti lungo il confine tra le due Germanie. Il muro interruppe l’attività (e il sostentamento economico) a oltre 50.000 berlinesi dell'Est che lavoravano all'Ovest. Il regime ridusse a sette il numero dei valichi di frontiera tra le due parti della città. La rete dei trasporti di Berlino venne interrotta sulla linea di confine. Le finestre e le porte delle case in prossimità del muro vennero murate. Le guardie di frontiera avevano l'ordine di sparare su chi cercava di fuggire a Berlino Ovest. Almeno 140 persone furono uccise dopo il 1961.

    Gli studenti, partendo dai materiali impiegati nella costruzione del muro, possono iniziare un percorso di approfondimento delle ragioni della sua edificazione e della divisione della Germania in due stati contrapposti utilizzando i testi di contestualizzazione e di approfondimento che il museo offre ai visitatori.

    05Fig.5: Cabine di controllo alla frontiera del Palazzo delle Lacrime Grenz-Kontrollkabine Tränenpalast  Dopo la costruzione del muro solo poche persone possono lasciare la DDR e sono previste anche regole rigide per l'ingresso nel paese. Il regime controlla attentamente alle frontiere le persone, sia in uscita che in entrata, come in queste cabine del Palazzo delle lacrime (Tränenpalast) al valico di Friedrichstrasse.

    Il Palazzo delle lacrime, inaugurato nell'estate del 1962, era l’edificio in cui i tedeschi dell'Est di solito dovevano dire addio ai loro parenti e amici occidentali e dove l'amministrazione doganale, che lavorava a stretto contatto con gli organi di sicurezza della DDR, vigilava sul rispetto dei severi divieti di esportazione riguardanti in particolare generi alimentari, dispositivi tecnici, opere d’arte. Nelle cabine di controllo passaporti, scomodamente strette, gli agenti doganali della Germania dell’Est verificavano minuziosamente l'identità delle persone prima di timbrare il visto di uscita, sottoponendole ad una procedura che creava un’atmosfera di forte tensione e stress psicologico.

    La Cabina alla frontiera del Palazzo delle Lacrime è un esempio dei meccanismi di controllo poliziesco introdotti dal regime comunista sul transito delle persone tra le due Berlino dopo la costruzione del muro.

    Sulla base dell'osservazione dell'oggetto (materiali, dimensioni, luogo di utilizzo e funzione), gli studenti potranno ricostruire e rivivere le procedure di controllo doganale della DDR e il loro impatto sulla vita dei berlinesi.

    06Fig.6: Il Discorso di Kennedy a Berlino Kennedy-Rede in Berlin Il 26 giugno 1963, quasi due anni dopo la costruzione del Muro, il presidente americano John F. Kennedy visita la Repubblica Federale di Germania e Berlino Ovest. Parla ai berlinesi davanti al municipio di Schöneberg. Il discorso di Kennedy nella registrazione originale offre l'opportunità di approfondire la storia della “Guerra fredda” e della divisione della Germania in due stati.

    Per oltre quarant'anni, tra il 1949 e il 1989/90, la Germania, a causa della sconfitta nella Seconda guerra mondiale, è stata divisa in due stati: la Repubblica Federale di Germania (BRD ) a Ovest, e la Repubblica Democratica Tedesca (DDR) a Est. I due stati hanno appartenuto a blocchi contrapposti, capeggiati rispettivamente dagli Stati Uniti d’America e dall’Unione Sovietica, che si sono fronteggiati nella così detta “Guerra fredda”: un conflitto globale permanente che non si è mai tradotto in uno scontro militare diretto grazie alla forza dissuasiva dell’arma atomica.
    I tedeschi dell'Ovest e quelli dell'Est hanno perciò vissuto per quasi mezzo secolo in due sistemi politicamente, socialmente ed economicamente diversi. Il rapporto tra i due stati è stato caratterizzato da una dura competizione e, solo dopo l’avvento alla cancelleria di Willy Brandt (1969), da tentativi di riavvicinamento (l’Ostpolitik).

    Gli studenti, dopo avere ascoltato il discorso di Kennedy, potranno creare una mappa mentale sui rapporti tra Est e Ovest utilizzando le numerose schede di approfondimento sulla storia della Germania nella seconda metà del Novecento pubblicate sul sito del museo.

    3. Ricerche

    La sezione Patrimonio museale (Bestand) permette di effettuare ricerche nelle diverse categorie in cui si articolano le collezioni: Oggetti, Biografie, Cronologie, Video, Testimonianze, Documenti, Fotografie, Statistiche, Didattica.
    Per ogni categoria il sito visualizza un elenco dei contenuti con le relative immagini. Cliccando sulle immagini si accede ad una scheda sintetica con i link alle risorse del sito. La ricerca può essere circoscritta ai diversi periodi storici in cui è suddivisa la linea del tempo (Zeitstrahl).

    Ad esempio, volendo effettuare una ricerca sulle fotografie della Prima guerra mondiale, dopo avere scelto la relativa categoria (Fotografien), si seleziona, nella colonna di sinistra della videata, il periodo storico Erster Weltkrieg. Sullo schermo appariranno tutte le immagini fotografiche della collezione LeMO inerenti a quell’evento. Interessati ad una particolare immagine, si clicca sulla medesima per accedere alla scheda descrittiva. Ad esempio, la fotografia che ritrae nell’aprile del 1917 i piloti degli aerei da caccia sotto il comando di Manfred von Richthofen, noto come il "Barone Rosso" (Die Jagdstaffel von Richthofen) è associata ad una scheda che rinvia ad una pagina di approfondimento sulla guerra aerea (Der Luftkrieg) con i link alle biografie di alcuni piloti.

    È possibile accedere alle risorse del museo virtuale anche attraverso i “capitoli” in cui è suddivisa la linea del tempo (Kapitelüberblick), che la homepage del sito https://www.dhm.de/lemo visualizza con grandi immagini iconiche, ricorrendo ad un approccio non più focalizzato sugli “oggetti” del patrimonio museale ma sui “testi” (un approccio che potremmo definire “enciclopedico”).

    Se interessati alla Prima guerra mondiale, il relativo capitolo Der Erste Weltkrieg offre un quadro riassuntivo dell’evento e rinvia ad altri testi di approfondimento (ad esempio: guerra di posizione, Stellungskrieg; guerra dei materiali, Materialschlachten; gas tossici Giftgas). Il capitolo contiene, inoltre, registrazioni audio e audiovisive, fotografie, mappe e una cronologia degli anni di guerra (1914, 1915, 1916, 1917, 1918) con i link a numerose biografie di personaggi illustri. 

    Il LeMo, museo virtuale online di storia, per l’importanza delle collezioni, per i materiali didattici che offre, per le funzionalità del sito, e, non ultima, per la centralità della Germania nella storia dell’Europa, rappresenta senza alcun dubbio una risorsa che è opportuno utilizzare nell’insegnamento e nella divulgazione della storia contemporanea non solo nei paesi di lingua e cultura tedesca, ma pure in altre realtà nazionali, e tra questa rientra anche l’Italia.

  • Un re schiavista del Benin e la controversa memoria storica della Colonizzazione.

    di Daniele Boschi

    La battaglia per eliminare o ricontestualizzare monumenti e simboli del passato coloniale e schiavista dell’Occidente1, largamente presenti negli spazi pubblici delle principali città europee e americane, può produrre a volte risultati paradossali: lo dimostra il caso della esposizione nella cattedrale di Saint Paul a Londra di una installazione in memoria del re del Benin Ovonramwen, opera dell’artista nigeriano Victor Ehikhamenor.

    1. OvonramwenFig.1: Ovonramwen Nogbaisi, re del Benin dal 1888 al 1897 FontePer comprendere appieno il significato di questo episodio, seguiamo la ricostruzione che ne hanno fatto lo storico Robert Tombs in un articolo pubblicato sullo “Spectator” (08/03/2022) e la giornalista Connie Evans sullo “Evening Standard” (17/02/2022). Occorre anzitutto tenere presente che la Chiesa d’Inghilterra si è impegnata da diversi anni a passare al vaglio tutti gli edifici ecclesiastici e le loro pertinenze allo scopo di rimuovere o ricontestualizzare statue, monumenti e iscrizioni dedicati ai proprietari e trafficanti di schiavi. Nel corso di questa campagna la cattedrale di Bristol ha rimosso da una finestra una dedica allo schiavista Edward Colston; la chiesa di Saint Peter a Dorchester ha coperto una iscrizione che commemorava la repressione di una rivolta di schiavi; e l’arcivescovo di Canterbury ha sollecitato l’eliminazione dalla cappella del Jesus College di Cambridge del memoriale di Tobias Rustat, un benefattore del XVII secolo coinvolto nelle attività della Royal African Company.

    Una diversa strategia è stata invece seguita nella cattedrale di Saint Paul a Londra. Nella cripta dell’imponente edificio londinese si trova una iscrizione scolpita su una lastra di ottone in memoria dell’ammiraglio Harry Holdsworth Rawson (1843-1910), che nel febbraio del 1897 guidò la spedizione militare con la quale la Gran Bretagna pose fine all’indipendenza del regno del Benin. La capitale del regno fu distrutta e il Benin fu incorporato nei possedimenti coloniali britannici dell’area nigeriana. Il re del Benin Ovonramwen fu catturato e mandato in esilio.

     

    Still standing

    Per fornire spunti di riflessione ai visitatori, il decano e il capitolo della cattedrale di Saint Paul hanno deciso di affiancare all’iscrizione in memoria di Rawson una installazione temporanea che offrisse un diverso sguardo sulla figura dell’ammiraglio inglese. Si sono rivolti a tal fine all’Università di York e questa ha interpellato a sua volta il Pitt Rivers Museum di Oxford, che ha incaricato l’artista nigeriano Victor Ehikhamenor di creare un’opera originale che rappresentasse la sua reazione all’iscrizione. Ehikhamenor ha realizzato una installazione alta più di tre metri nella quale spicca un’immagine di color rosso brillante, che raffigura uno oba, ovvero un re del Benin. L’installazione è stata denominata Still standing e l’artista ha dichiarato di essersi ispirato proprio alla figura di oba Ovonramwen. L’opera è stata esposta per tre mesi – tra febbraio e maggio del 2022 - nella cripta della cattedrale di Saint Paul, per poi essere trasferita al Pitt Rivers Museum2.

     

    2. Still standingFig.2: "Still standing", l’opera di Victor Ehikhamenor esposta nella cattedrale di Saint Paul a Londra FonteUn doppio standard morale?

    Il paradosso nasce dal fatto che il regno del Benin è stato a lungo coinvolto nel traffico degli schiavi e lo stesso Ovonramwen non solo possedeva schiavi, ma praticò sacrifici umani accompagnati da orribili torture. Secondo Robert Tombs vi sono solo due possibili spiegazioni dell’accaduto. La prima è che il decano e il capitolo della cattedrale si siano affidati completamente all’Università di York e al Pitt Rivers Museum, senza darsi la pena di controllare il loro operato, oppure abbiano avuto paura di sollevare obiezioni: in questo caso avrebbero dovuto rimuovere immediatamente l’installazione di Ehikhamenor e chiedere scusa. La seconda spiegazione è che essi approvino un’opera che, in modo più o meno consapevole, implica l’adozione di un doppio standard morale: la complicità con la schiavitù è un peccato imperdonabile per i bianchi, ma non per i neri. Tombs concludeva ironicamente il suo articolo con queste parole: “San Paolo ha scritto: ‘Non ci sono più ebrei, né greci, non ci sono più schiavi, né liberi … perché siete tutti una sola persona in Gesù Cristo’. Ma non è così nella cattedrale di Saint Paul”3.

     

    “History Reclaimed”

    A questo punto è opportuno dire che Robert Tombs è il fondatore del sito “History Reclaimed”, nato per contrastare le recenti campagne volte a riscrivere la storia delle grandi democrazie occidentali alla luce delle rivendicazioni dei popoli e delle minoranze che ritengono di essere stati in vario modo oppressi dalle nazioni dell’Occidente. Secondo Tombs e i suoi colleghi, gli attivisti e i seguaci di questi movimenti sostengono non di rado una visione ideologica e unilaterale della storia, tutta incentrata sulle colpe e sui crimini, veri o presunti, dell’Occidente.

    “Noi non riteniamo – scrivono gli editori di “History Reclaimed” – che la nostra storia sia tutta quanta degna di lode perché questo sarebbe assurdo. Ma rifiutiamo come ugualmente assurda l’affermazione che essa sia fondamentalmente carica di vergogna. Concordiamo sul fatto che la storiografia consista di molte opinioni e di molte voci. Ma questo non vuol dire che tutte le opinioni siano valide, e certamente nessuna dovrebbe essere imposta alla stregua di una nuova ortodossia. Intendiamo confutare le distorsioni dei fatti storici e fornire contestualizzazioni, spiegazioni e un approccio equilibrato all’interno di un dibattito nel quale il dogmatismo è troppo spesso preferito all’analisi e la condanna alla comprensione”.

    A capo della redazione di “History Reclaimed” vi sono lo stesso Robert Tombs e il medievista David Abulafia, ben noto anche in Italia.

     

    Come si è giunti a celebrare un re schiavista del Benin?

    Per quanto riguarda in particolare la vicenda della installazione dedicata al re Ovonramwen, Robert Tombs ha ricostruito nei dettagli (in un secondo articolo apparso su “History Reclaimed” il 3 agosto 2022) tutta la trafila che ha portato all’acquisizione dell’opera dell’artista nigeriano. Ha ricordato che la cattedrale di Saint Paul porta avanti da alcuni anni, insieme all’Università di York, il progetto Pantheons: Sculpture at St Paul’s Cathedral, che ha lo scopo di studiare, valorizzare e ricontestualizzare le oltre trecento opere d’arte presenti nella cattedrale risalenti al periodo storico compreso tra il 1796 e il 1914. Una importante sezione del progetto Pantheons è denominata 50 voices in 50 monumentse mira a raccogliere cinquanta “reazioni” (responses) di artisti, scrittori, musicisti, teologi e accademici ad altrettanti monumenti conservati nella cattedrale. È appunto in questa sezione che si voleva inserire una “reazione” all’iscrizione dedicata all’ammiraglio Harry Rawson.

    Su sollecitazione della cattedrale londinese, l’Università di York ha contattato a sua volta Dan Hicks, docente di Archeologia contemporanea e sovrintendente del Pitt Rivers Museum di Oxford, che ha commissionato il lavoro a Victor Ehikhamenor, acquistando poi la sua opera per la non piccola somma di 50.000 sterline grazie ad un finanziamento ottenuto dallo Art Fund, un ente di beneficenza britannico.

    3. EhikhamenorFig.3: L’artista nigeriano Victor Ehikhamenor FontePossibile, si chiede Tombs, che nessuno degli enti e delle persone coinvolti più direttamente in questa operazione abbia avuto qualche perplessità circa l’idea di celebrare un re “schiavista”? L’Università di York ha informato Tombs di aver lasciato il soggetto del lavoro di Ehikhamenor alla libera scelta dell’artista. La direttrice del Pitt Rivers Museum, la professoressa Laura van Broekhoven, ha affermato di aver trovato il lavoro di Ehikhamenor molto coinvolgente e di ritenere che esso sarebbe stato un acquisto straordinario per il museo. Lo Art Fund si è limitato a dichiarare che Ehikhamenor è uno dei principali artisti contemporanei dell’Africa occidentale e che, con l’acquisto della sua opera, egli sarà per la prima volta rappresentato in una collezione pubblica del Regno Unito.

     

    Un silenzio sorprendente ma non inspiegabile

    Non soltanto le istituzioni coinvolte nell’acquisizione del lavoro di Ehikhamenor, ma anche la maggior parte degli autori dei non pochi articoli e commenti apparsi online sulla vicenda sembrano avere completamente ignorato il fatto che Ovonramwen e il regno del Benin praticavano schiavitù e sacrifici umani. L’unica eccezione sembra essere l’articolopubblicato da Michael Mosbacher sul “Telegraph” il 18/02/2022.

    Il fatto che la questione sia stata sollevata soltanto da Tombs e da Mosbacher da un lato è abbastanza sorprendente, ma dall’altro non è del tutto inspiegabile.

    È sorprendente perché la pratica del traffico degli schiavi, della schiavitù e dei sacrifici umani nel regno del Benin è da lungo tempo ben nota agli studiosi ed è stata accuratamente documentata anche dallo storico nigeriano Philip A. Igbafe (vedi in particolare il suo studio su Slavery and Emancipation in Benin, 1897-1945, pubblicato sul “Journal of African History” nel 1975).

    Non è inspiegabile perché da diversi anni il senso di colpa dell’intellighenzia dei paesi europei e americani per i misfatti, veri o presunti, commessi dall’Occidente, nonché i dettami del politically correct, portano spesso ad accettare in modo acritico qualsiasi rivendicazione o iniziativa venga proposta dai rappresentanti dei popoli e delle minoranze che sono stati oppressi dal colonialismo e dall’imperialismo dell’Occidente, anche se questo significa ricostruire gli eventi storici in modo arbitrario.

    Peraltro, la vicenda dell’installazione dell’opera di Victor Ehikhamenor nella cripta della cattedrale di Saint Paul ha sollevato e solleva anche altre questioni, che non possiamo trattare dettagliatamente in questo articolo, ma alle quali vogliamo almeno accennare.

     

    Violenza coloniale e restituzione culturale

    La prima questione è quella della restituzione ai loro paesi d’origine delle opere d’arte e dei manufatti sottratti o raccolti dagli occidentali all’epoca del colonialismo. Si tratta di una richiesta avanzata da lungo tempo dai rappresentanti e dai governi di quei paesi e sulla quale concordano oggi non pochi studiosi europei e americani. Parecchi musei e altre istituzioni culturali hanno già avviato o stanno avviando quest’opera di “restituzione culturale”.

    4. Bronzi del BeninFig.4: uno dei famosi bronzi del Benin FonteQuesta questione è stata spesso trattata nei commenti dedicati all’inaugurazione della installazione di Ehikhamenor, anche perché tra le opere d’arte che dovrebbero essere restituite vi sono anche i famosi bronzi del Benin, portati via dagli inglesi dopo la conquista e la distruzione della capitale del regno africano nel 1897. Lo stesso Ehikhamenor ha insistito con forza su questa richiesta in particolare in una lunga intervista rilasciata al magazine “The Republic” in data 08/12/2022. Sul fronte opposto Robert Tombs e altri opinionisti di “History Reclaimed”4 hanno avanzato forti perplessità su questa politica di restituzione culturale, con varie argomentazioni, tra le quali quella secondo cui i paesi dell’Africa e del Medio Oriente non sarebbero in grado di custodire in modo adeguato i manufatti di cui reclamano il rimpatrio, che rischierebbero così di andare perduti con grave danno per la memoria e le conoscenze delle future generazioni.

     

    La spedizione britannica del 1897 secondo Dan Hicks

    Un’altra questione strettamente legata alla vicenda della installazione che raffigura il re Ovonramwen è quella della esatta ricostruzione della spedizione britannica del 1897. Secondo “History Reclaimed”, sia Victor Ehikhamenor che Dan Hicks si sono basati su una visione molto distorta e parziale di quell’evento. Tombs ha ricordato che Dan Hicks è l’autore di un volume intitolato The Brutish museums. The Benin bronzes, colonial violence and cultural restitution, che era già stato oggetto di severe critiche su “History Reclaimed” da parte di Nigel Biggar in un articolo pubblicato il 12/08/2021.

    Bisogna ricordare che la spedizione britannica del febbraio 1897 fu presentata all’epoca come una rappresaglia per il massacro perpetrato un mese prima dagli Edo (la principale etnia della regione) ai danni di un convoglio guidato dal console ad interim inglese James Phillips, che si stava avvicinando a Benin City per avviare una trattativa col re Ovonramwen.

    Secondo Higgs questo massacro fu semplicemente un pretesto per realizzare l’annessione del Benin già prevista e pianificata dalle autorità britanniche da diversi anni. Il vero movente all’origine dell’aggressione e della successiva annessione del Benin era di carattere economico, mentre l’obiettivo di porre fine alla schiavitù e ai sacrifici umani aveva una funzione meramente ideologica. L’attacco a Benin City fu portato avanti brutalmente con armi enormemente più potenti rispetto a quelle degli africani; i villaggi furono bombardati; la città fu saccheggiata, data alle fiamme e rasa al suolo; ci furono decine di migliaia di morti e durante il saccheggio della città furono trafugati anche i famosi bronzi del Benin.

     

    Le critiche di Nigel Biggar

    Questa ricostruzione dei fatti è stata contestata su “History Reclaimed” da Nigel Biggar, che ha accusato Higgs di avere usato in modo scorretto le sue fonti e di avere quindi travisato gli eventi del 1897. Secondo Biggar, se da un lato non vi sono dubbi che gli inglesi fossero infastiditi dal fatto che il Benin intralciava i loro traffici nella regione e rifiutava di applicare gli accordi commerciali sottoscritti nel 1892, dall’altro lato la promozione di libere e regolari attività commerciali aveva anche lo scopo di porre fine al traffico degli schiavi. Quest’ultimo era un obiettivo secondario, ma comunque reale, come dimostra il fatto che effettivamente dopo l’occupazione del Benin le autorità britanniche posero fine alla schiavitù nella regione. Ad ogni modo lo scopo principale della spedizione del febbraio 1897 era quello di reagire al massacro dei diplomatici britannici avvenuto qualche settimana prima: la Gran Bretagna doveva rispondere a quell’attacco per preservare la sua autorità in quell’area e scoraggiare ulteriori aggressioni. Sempre secondo Biggar, Hicks avrebbe insistito in modo esagerato sulle violenze commesse dai britannici: infatti non vi sono dati precisi sul numero delle vittime; Benin City non fu data deliberatamente alle fiamme, in quanto l’incendio che la distrusse scoppiò per cause accidentali; e non fu saccheggiata nel senso vero e proprio della parola, perché i bronzi e altri oggetti furono sequestrati dalle autorità britanniche come bottino di guerra.

    5. RawsonFig.5: L’ammiraglio Harry Holdsworth Rawson (1843-1910) FonteInfine, secondo Biggar, Hicks adotta chiaramente un doppio standard morale: da un lato sorvola sulla pratica della schiavitù e dei sacrifici umani da parte degli africani; dall’altro lato non riconosce alcun merito o attenuante agli inglesi:

    “Mentre agli Edo è concesso il balsamo dell’indulgenza, un acido cinismo è versato continuamente sopra i britannici. L’abolizione del commercio degli schiavi e della schiavitù nell’Impero britannico non sono minimamente apprezzati. Anzi sono screditati perché avrebbero fornito in nome dei ‘diritti umani’ una giustificazione per un mutamento arbitrario di regime politico. La possibilità che lo sradicamento della schiavitù possa aver richiesto e giustificato il dominio britannico non è mai considerata”.

     

    L’Impero britannico è stato un bene o un male?

    Non è difficile, infine, vedere come la diversa ricostruzione che Hicks e Biggar hanno fornito della spedizione punitiva del 1897 abbia come presupposto due opposte visioni della storia imperiale britannica. Qualche anno fa lo scrittore di origine indiana Kenan Malik osservòche mentre il sole è tramontato da tempo sull’Impero britannico, il dibattito sui meriti o demeriti dell’Impero sembra non tramontare mai. Il nuovo clima politico prodotto dalla Brexit ha creato un terreno propizio per la ripresa di antiche discussioni e polemiche. E il dibattito pubblico sembra essersi polarizzato, appunto, intorno a due opposte visioni: quella dei critici, o dei detrattori, e quella degli apologeti dell’Impero.

     

    Il punto di vista dei detrattori dell’Impero

    Da una parte vi sono studiosi e intellettuali, non di rado originari dei paesi che subirono il dominio coloniale, come lo stesso Malik, i quali pongono l’accento prevalentemente sui misfatti commessi dagli occidentali a scapito delle popolazioni via via assoggettate. Nella loro ottica lo sfruttamento delle risorse delle colonie, la schiavitù e il razzismo hanno, o dovrebbero avere, un ruolo centrale nella ricostruzione della storia dell’Impero britannico. Alla Gran Bretagna non viene riconosciuto quasi nessun merito, neanche quello di avere promosso nel XIX secolo l’abolizione della tratta degli schiavi e della schiavitù. Malik sottolinea infatti che non fu l’Impero britannico ad avviare la lotta contro la schiavitù, ma furono gli stessi schiavi ad iniziarla, insieme a una piccola minoranza di radicali britannici. In ogni caso – aggiunge Malik - l’abolizione della schiavitù, avvenuta nel 1833, non migliorò di molto le condizioni di vita e di lavoro dei popoli coloniali; e mentre gli ex-proprietari di schiavi ricevettero una lauta ricompensa per il danno subìto, i loro ex-schiavi furono obbligati a fornire prestazioni lavorative non pagate per un periodo variabile da quattro a sei anni dopo l’emancipazione.

    6. MalikFig.6: Lo scrittore di origine indiana Kenan Malik FonteUn approccio molto simile a quello di Malik si trova anche in diversi altri articoli e libri pubblicati negli ultimi anni. Ad esempio nel lungo intervento di Maya Jasanoff sul “New Yorker” (02/11/2020), intitolato Misremembering the British Empire, nel quale si sottolinea che la Gran Bretagna non ha ancora veramente fatto i conti con il proprio passato coloniale e imperiale e si stigmatizza il fatto che un terzo dei cittadini britannici ritengono tuttora che il loro impero abbia fatto più bene che male e più di un quarto vorrebbero riportare in vita l’Impero (secondo un sondaggio del marzo 2020).

    La principale obiezione, che si può fare all’approccio di Malik, Jasanoff e altri studiosi che sono sulla loro stessa posizione, è che, sebbene sia corretto assumere anche il punto di vista delle vittime dell’imperialismo europeo, guardare gli eventi passati soltanto attraverso quella lente può essere altrettanto fuorviante quanto lo è stato osservarle unicamente dal punto di vista dei dominatori. Inoltre si trascura il fatto che la schiavitù, le guerre di conquista, i pregiudizi razziali e religiosi non sono certo stati una prerogativa esclusiva dell’Occidente, essendo fenomeni presenti purtroppo a tutte le latitudini e longitudini fin dai tempi più antichi. Per quanto riguarda in modo più specifico la schiavitù, questo approccio unilaterale alimenta i due tabù che Antonio Brusa ha molto bene illustrato proprio qui su “Historia ludens”: il primo tabù è che non si può parlare di tratte di schiavi diverse da quella atlantica; occorre quindi tacere sulla tratta africana e su quella musulmana; il secondo tabù è che non si può dire alcun bene dell’Europa e dell’Occidente e quindi anche il fatto che gli Stati europei e occidentali furono i primi ad abolire la schiavitù va sottaciuto o comunque svalutato.

     

    Il punto di vista degli apologeti

    Sul fronte opposto a quello dei detrattori, vi sono storici e altri studiosi di orientamento conservatore, i quali pur senza negare le violenze commesse dai colonizzatori, tendono a mettere in evidenza anche e soprattutto i benefici arrecati dall’Impero britannico ai propri sudditi non europei. Non è un approccio del tutto nuovo perché era stato già proposto vent’anni fa da Niall Ferguson nel bestseller Empire: How Britain Made the Modern World5. Sulla sua stessa lunghezza d’onda si trova oggi Robert Tombs, che abbiamo già citato più volte. In un interessante dibattito con lo storico Alan Lester (pubblicato in data 01/02/2022 sia quisul sito dell’Università del Sussex, sia qui su “History Reclaimed”), Tombs ha sostenuto infatti quanto segue:

    “L’Impero conferiva alcuni benefici, inclusa la protezione dalle aggressioni straniere, l’accesso al commercio internazionale, un sistema amministrativo moderno, la tecnologia, l’investimento di capitali e il mantenimento dell’ordine. Lo faceva a costi abbastanza contenuti: la tassazione era più bassa che negli Stati indipendenti. C’era chi ci guadagnava e chi ci perdeva, e il fatto che i sudditi lo considerassero in maniera positiva o negativa variava a seconda dei diversi soggetti, dei periodi e dei luoghi. Le voci degli schiavi liberati, delle donne alle quali fu risparmiato un matrimonio forzato, o delle persone salvate da sacrifici rituali sono andate in gran parte perdute, a differenza di quelle delle tanto celebrate élites anti-coloniali. L’indipendenza diede enormi vantaggi a queste ultime, che presero il potere nelle ex-colonie, ma questa non fu una liberazione per tutti i loro popoli, molti dei quali furono governati in modo peggiore dopo l’indipendenza. La fine dell’Impero nel corso degli anni ’40, ’50 e ’60 del ‘900 fu sotto molti aspetti una liberazione per la Gran Bretagna, la cui economia, le cui finanze e la cui sicurezza erano state alterate dal possesso di un impero”.

    Una tesi ancora più estrema era stata proposta nel settembre del 2017 da Bruce Gilley, docente di Scienze Politiche alla Portland State University, in un articolo pubblicato sul “Third World Quarterly” intitolato The case for colonialism. Partendo da una ricostruzione storica simile a quella di Tombs, Gilley si era spinto fino a prospettare una sorta di ritorno al colonialismo, auspicando un maggiore coinvolgimento dei governi occidentali negli affari interni dei paesi meno sviluppati e immaginando persino la fondazione di nuove colonie in territori disabitati dell’Africa e del Medio Oriente sulla base di accordi con i governi locali. Quindici dei trentaquattro membri del comitato editoriale della rivista si dimisero per protesta e una petizione che chiedeva il ritiro dell’articolo raccolse più di diecimila firme. Alla fine l’articolo fu ritirato dopo che l’editore della rivista era stato minacciato fisicamente.

     

    7. LImpero britannicoFig.7: L’Impero britannico negli anni Venti del Novecento FonteUna vivace discussione sull’eredità dell’Impero britannico e sulla libertà di opinione

    Questi eventi suscitarono nelle settimane seguenti una vivace discussione sulle pagine del “Times”.

    Nigel Biggar, che abbiamo già incontrato, e lo storico Lawrence James si schierarono con Gilley. “Non sentitevi colpevoli per la nostra storia coloniale. Chiedere scusa per l’Impero è ora obbligatorio, ma la vergogna può impedirci di affrontare i problemi del mondo di oggi”: così titolava il “Times” del 30/11/2017 introducendo il pezzo di Nigel Biggar. “Gli imperi hanno fatto anche cose buone e dobbiamo sentirci liberi di dirlo” ribadiva, sempre nel titolo, l’articolo di Lawrence James, uscito cinque giorni dopo.

    Allo stesso tempo un folto gruppo di accademici espresse solidarietà al “Third World Quarterly” e al suo editore affermando che, a prescindere dalle diverse opinioni sul saggio di Gilley, il ritiro del suo articolo, provocato dalle forti pressioni del pubblico, rappresentava un pericoloso precedente per la libertà dell’accademia.

    Ma qualche giorno dopo un gruppo ancora più numeroso di ricercatori e docenti universitari criticò l’intervento di Biggar sostenendo che le razionalizzazioni ideologiche del dominio imperiale sono state completamente screditate dagli studiosi; e fornì la seguente giustificazione della soppressione dell’articolo di Gilley:

    “Se è vero che gli autori hanno il diritto di proporre argomentazioni fallaci, gli editori di riviste accademiche hanno la responsabilità di mantenere gli standard dell’accademia stessa e un dovere etico di respingere i lavori che difendono la violazione dei diritti umani, di cui il colonialismo è un esempio eclatante. Promuovere l’assoggettamento di interi popoli e la violazione di libertà fondamentali è qualcosa che non dovrebbe avere alcun posto negli studi universitari”.

    Il “Times” pubblicò anche alcune lettere di privati cittadini, i quali per lo più difesero le tesi in favore dell’Impero. Ad esempio un certo Dominic Kirkham di Manchester scrisse quanto segue:

    “Parecchi membri della mia famiglia hanno servito l’Impero. Un mio nonno fu capo ingegnere della East India Railway e prospettò alla famiglia Tata la possibilità di sviluppare la lavorazione dell’acciaio. Un mio zio fu rettore di un college a Ceylon che aprì nuove prospettive di carriera per innumerevoli sudditi dello Sri Lanka. Nessuno dei due concepì il suo lavoro se non come un aiuto alle persone che serviva.”

    Anche una lettrice di nome Kusoom Vadgama, probabilmente di origine indiana6, rifiutò di condannare in modo assoluto l’Impero:

    “L’Impero britannico deve chiedere scusa per molte cose, avendo commesso gravi crimini come la rivolta del 18577 e il massacro di Jallianwala Bagh nel 19198 in India, che non saranno mai dimenticati o perdonati, ma questo non dovrebbe far dimenticare i molti aspetti positivi del governo inglese in India e nel resto dell’Impero. Senza i britannici, l’India non sarebbe il paese unito e potente che è diventato e senza l’afflusso di ingenti risorse finanziarie e il contributo dei soldati provenienti dall’India e dall’Impero nelle due guerre mondiali, la Gran Bretagna non sarebbe la potenza globale che è diventata. Come ha detto lo storico Elie Kedourie ‘una grande potenza non sta sempre e necessariamente dalla parte del torto’ ”.

     

    Conclusione

    Come abbiamo già riscontrato a proposito di altre controversie relative al passato colonialista e schiavista dell’Occidente9, anche il dibattito sulla figura del re del Benin Ovonramwen, sulle politiche di restituzione culturale e sulla memoria storica dell’Impero britannico non avviene nelle torri d’avorio dell’accademia, ma si sviluppa in un contesto pubblico surriscaldato dalle lotte politiche e dalle contrapposizioni ideologiche del nostro agitato mondo contemporaneo.

    Il nostro auspicio, come sempre, è che gli storici possano contribuire ad elaborare una visione equilibrata e non ideologica degli eventi passati, compresi quelli ai quali l’opinione pubblica appare più sensibile, che devono essere ricostruiti per quanto possibile in modo obiettivo, e non deformati a seconda degli interessi e delle convenienze dei partiti e dei movimenti che si scontrano nella pubblica arena. Ma non è affatto un’impresa facile, in particolare per una vicenda epocale e tragica quale quella della colonizzazione, come dimostrano le vicende e le controversie che abbiamo illustrato in questo articolo.

     


     

    Note

    1 Su questo tema HL è già intervenuta con diversi articoli il 09/07/2020, il 07/10/2020, il 04/11/2020 e il 29/01/2021.

    2 Vedi la figura 2. Una immagine migliore di Still standing, coperta da copyright, si può vedere all’inizio di questo articolo.

    3 La traduzione dall’inglese è mia (lo stesso vale per gli altri brani riportati tra virgolette nel seguito di questo articolo).

    4 Vedi gli articoli di Robert Tombs, Mike Wells e di Elizabeth Weiss, pubblicati su “History Reclaimed” in data 17/08/2022 e citati in modo completo nella sitografia in fondo a questo articolo.

    5 Tradotto in italiano col titolo Impero. Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno (Milano, A. Mondadori, 2007).

    6 Questa lettrice è forse da identificare con la scrittrice di origine indiana autrice del libro India and Britain: Over four centuries of shared heritage, pubblicato nel 2019.

    7 Si allude evidentemente alla repressione della rivolta dei Sepoy scoppiata in quell’anno e denominata anche “the Sepoy Mutiny”.

    8 Si tratta dell’evento noto anche come il massacro di Amritsar.

    9 Vedi gli articoli, in parte già citati sopra, pubblicati su “Historia ludens” il 07/10/2020, il 04/11/2020 e il 06/08/2021.

     

    BIBLIOGRAFIA / SITOGRAFIA

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    Biggar, Nigel, The Ethics of Colonial History, McDonald Centre for Theology, Ethics & Public Life (University of Oxford), 02/12/2017.

    Biggar, Nigel, Dan Hicks, The Brutish Museums: The Benin Bronzes, Cultural Violence and Cultural Restitution, “History Reclaimed”, 12/08/2021.

    Dike, Onyema, The Empire roars back as Victor Ehikhamenor’s ‘Still Standing’ confronts colonial history, “The Guardian”, 19/02/2022.

    Evans, Connie, Bold new artwork installed at St Paul’s Cathedral, “Evening Standard”, 17/02/2022.

    Ferguson, Niall, Empire: How Britain Made the Modern World, London, Allen Lane, 2003 (traduzione in italiano col titolo Impero. Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno, Milano, A. Mondadori, 2007).

    Gilley, Bruce, The case for colonialism, “Third World Quarterly”, 08/09/2017.

    Igbafe, Philip A., Slavery and Emancipation in Benin, 1897-1945, “The Journal of African History”, Vol. 16, No. 3 (1975), pp. 409-429.

    James, Lawrence, Empires have done good and we must feel free to say so, “The Times”, 05/12/2017.

    Jasanoff , Maya, Misremembering the British Empire, “The New Yorker”, 02/11/2020.

    Jhala, Kabir, Nigerian installation in London’s St Paul’s Cathedral provokes debate around restitution and colonial monuments, “The Art Newspaper”, 17/02/2022.

    Lawal, Wale – Onafuye, Peace, ‘Creativity on the Continent Has Always Been a Continuum’. Victor Ehikhamenor on the Resilience of Benin Artistry, “The Republic”, 08/12/2002.

    Lester, Alan, The British Empire and Race: A Debate with Robert Tombs, University of Sussex/Sussex blogs, 01/02/2022.

    Malik, Kenan, The Great British Empire Debate, “The New York Review”, 26/01/2018.

    Mosbacher, Michael, When will the woke crowd address the history of slavery in Africa?, “The Telegraph”, 18/02/2022.

    Nihinlola Ifeoluwa – Abba Immaculata, Nigerian artist’s work in St. Paul’s does not challenge British history, “African Arguments”, 16/03/2022.

    Our colonial history and guilt over empire, “The Times”, 02/12/2017.

    Recker, Jane, New Artwork in St. Paul’s Cathedral Reckons With the British Attack on Benin 125 Years Ago, “Smithsonian Magazine”, 21/03/2022.

    Scholars and the debate about colonial rule, “The Times”, 08/12/2017.

    Tombs, Robert – Lester, Alan, Debating the British Empire, “History Reclaimed”, 01/02/2022.

    Tombs, Robert, St Paul’s Cathedral celebrates a slaver, “History Reclaimed”, 21/02/2022.

    Tombs, Robert, Why is St Paul’s Cathedral commemorating a Benin slave trader?, “The Spectator”, 08/03/2022.

    Tombs, Robert, Honouring a slave trader: the history of a decision, “History Reclaimed”, 03/08/2022.

    Tombs, Robert, Why is Britain making reparations to the heirs of slave owners?, “History Reclaimed”, 17/08/2022.

    Vadgama, Kusoom, India and Britain: Over four centuries of shared heritage, Austin Macauley Publishers, 2019.

    Victor Ehikhamenor’s Installation Work ‘Still Standing’ at St Paul’s Cathedral in London, “Artdependence Magazine” 18/02/2022.

    Weiss, Elizabeth, Repatriation of Artefacts: A Recipe for Disaster, “History Reclaimed”, 17/08/2022.

    Wells, Mike, Where are Nigeria’s Benin Bronzes?, “History Reclaimed”, 17/08/2022.

    Wood, Molara, The Nigerian artwork challenging British history in St Paul's, “BBC News”, 20/02/2022.

     

  • Un’enciclopedia sulla violenza di massa nella storia. Il sito web Mass Violence & Resistance

    di Antonio Prampolini

    Indice

    1. Il progetto di una Enciclopedia sulla violenza di massa

    2. Il sito web Mass Violence & Resistance

    3. Una selezione di articoli

    3.1 Studi di caso

    3.1.1 Il genocidio degli armeni e la pulizia etnica in Turchia

    3.1.2 Le violenze di massa del nazismo in Germania e nei territori occupati

    3.1.3 Le violenze di massa nella Russia di Stalin

    3.1.4 I civili vittime dei bombardamenti aerei nelle guerre del '900

    3.2 Contributi teorici: genocidio e pulizia etnica

     

    1. Il progetto di una Enciclopedia sulla violenza di massa

    Nel 2004, lo storico e politologo francese Jacques Semelin si era fatto promotore, presso il centro di ricerca e studi internazionali Sciences Po, con sede a Parigi, di un progetto per una Encyclopédie des violences de masse con l’obiettivo di indagare, in un’ottica globale, comparativa e multidisciplinare (storica, antropologica, psicologica), i massacri e i genocidi perpetrati nel corso del Novecento, spesso oggetto di negazionismi di varia natura.1
    Dopo un lungo lavoro preparatorio, nel 2008 il progetto si concretizzò in un sito web bilingue, francese e inglese, aperto ai contributi della ricerca internazionale e accessibile da tutti gli utenti della rete (Online Encyclopedia of Mass Violence - OEMV).2
    Da allora ad oggi, il sito ha visto crescere i propri contenuti, allargando sia il periodo storico di riferimento, non più limitato al secolo XX, che il campo d’indagine, esteso anche ai fenomeni di resistenza. Ha assunto, pertanto, la nuova denominazione di Mass Violence and Resistance - Research Network.3

     

    SCIENCES PO Mass Violence Resistance Immagine 1Fig.1: home page del sito MV&R Fonte

     

    2. Il sito web Mass Violence & Resistence (MV&R)

    Il sito MV&R si avvale di una rete accademica interdisciplinare con sede presso il Centre de Recherches Internationales (CERI) e il Centre d'histoire de Sciences Po (CHSP).4 Pubblica contributi, sottoposti a revisione paritaria, che coniugano ricerca empirica e riflessione concettuale. Tuttavia si rivolge, in modalità open access, non solo agli studiosi, ma al vasto pubblico di coloro che sono interessati ad approfondire la conoscenza dei fenomeni di violenza di massa nel mondo.

    Il sito si presenta con una home page (abbiamo qui scelto la versione in lingua inglese) dove vengono visualizzate in una mappa interattiva (Map of Online Contributions) le aree geografiche, gli stati o le località del mondo in cui si sono verificati gli eventi analizzati, ed è strutturato in quattro sezioni principali: Articles, Biographies, Glossary, Locations.

    La sezione Articles comprende tre sottosezioni: Studi di caso, Contributi teorici, Recensioni.Negli Indici cronologici gli articoli sono ordinati per data di pubblicazione, a partire da quella più recente.

    Nella sezione Biographies troviamo un indice alfabetico delle persone a cui il sito dedica delle schede informative sulle loro vite.

    La sezione Glossary contiene anch’essa un indice alfabetico per segnalare i principali termini/concetti utilizzati nei contributi pubblicati sul sito e per consultare le relative schede di approfondimento (si tratta di testi autoriali scritti da specialisti).

    La sezione Locations elenca gli stati e i territori in cui sono avvenute le violenze di massa e, per ogni stato/territorio, i contributi che lo riguardano.

     

    3. Una selezione di articoli

    3.1. Studi di caso

    SCIENCES PO Mass Violence Resistance Immagine 2Fig.2: Civili armeni in marcia forzata verso il campo di prigionia di Mezireh, aprile 1915. Fonte3.1.1 Il genocidio degli armeni e la pulizia etnica in Turchia

    Diyarbekir (1915-1916): le uccisioni di massa degli armeni a livello provinciale
    di Ungor Ugur Umit, 25 marzo 2009.

    Il genocidio degli armeni ottomani fu la conseguenza dell'interazione dinamica di tre distinti eventi/processi storici: la profonda crisi politica che colpì l'Impero ottomano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la rivoluzione dei “Giovani Turchi” e la Prima guerra mondiale.
    Questo studio di caso esplora il genocidio così come si sviluppò nella provincia ottomana sud-orientale di Diyarbekir (Altopiano del Kurdistan), fornendo una panoramica del contesto e concentrandosi sulla memoria di quella tragedia.

     

    L'espulsione di gruppi etnici e religiosi non turchi dalla Turchia alla Siria negli anni '20 e all'inizio degli anni '30
    di Tachjian Vahe, 5 marzo 2009.

    Conclusasi la Prima guerra mondiale con il crollo dell’Impero ottomano e la sua frammentazione, il movimento guidato da Mustafa Kemal Pasha (Atatürk) si era posto come obiettivo principale la riconquista di tutte le regioni dell'Anatolia che erano ancora sotto la giurisdizione delle potenze vincitrici e l’espulsione delle minoranze non turche che vivevano nella regione di confine tra la Turchia e la Siria.
    Espulsione che, a partire dagli anni Venti, fu eseguita non per un ordine diretto del governo turco ma con metodi nel complesso più sottili. Molteplici vessazioni e pressioni furono esercitate contro le comunità prese di mira spingendo le popolazioni di etnia non turca a lasciare l’Anatolia e a trovare rifugio nella vicina Siria.
    Lo studio di caso affronta l’argomento in sei capitoli (Contesto, Decisori, Organizzatori e Attori, Vittime, Testimoni, Memoria, Interpretazioni generali), e gli dedica un’ampia Bibliografia.

     

    SCIENCES PO Mass Violence Resistance Immagine 3Fig.3: Manifesto della propaganda nazista a favore dell’eutanasia dei disabili e malati di mente Fonte3.1.2 Le violenze di massa del nazismo in Germania e nei territori occupati

    Lo sterminio dei malati di mente e dei disabili sotto il dominio nazionalsocialista
    di Gerrit Hohendorf, 6 maggio 2016.

    Tra il 1939 e il 1945, circa 300.000 malati mentali e handicappati (donne, uomini e bambini) furono assassinati dal regime nazista con il pretesto di praticare la "eutanasia". Morirono nelle camere a gas di centri di sterminio appositamente allestiti o, con la partecipazione di medici e personale infermieristico, in sanatori e case di cura attraverso privazioni alimentari e overdose di farmaci. Nei territori occupati della Polonia e dell'Unione Sovietica, furono fucilati, gasati o brutalmente uccisi dalle forze speciali delle SS. Anche se l'organizzazione e la responsabilità degli omicidi differivano, l'intenzione era comune: la distruzione più o meno pianificata della "vita indegna di essere vissuta" con il pretesto di alleviare le sofferenze dei presunti malati incurabili. In questa prospettiva, l’eliminazione di massa dei malati mentali e degli handicappati nel Reich tedesco e nelle zone occupate durante la Seconda guerra mondiale non può essere compresa senza tener conto del dibattito sulla "eutanasia" che si andava delineando in Europa dalla fine del XIX secolo.
    Sette sono i capitoli in cui si articola lo studio di caso: Contesto e storia: i dibattiti sulla "eutanasia" in Germania dal 1895; Il crimine: lo sterminio di massa; Gli autori del crimine; Le vittime; Le reazioni dei parenti, della società e della resistenza; La storia del dopoguerra: le reazioni della magistratura; Il ricordo delle vittime.

     

    Le marce della morte naziste, 1944-1945
    di Daniel Blatman, 28 agosto 2015.

    Oltre a costituire il capitolo conclusivo della storia dei campi di concentramento, le “marce della morte” rappresentano anche il capitolo conclusivo del genocidio nazista degli ebrei. Nelle “marce della morte” le vittime non erano più esclusivamente ebrei e, in molti casi, non erano nemmeno principalmente ebrei. Questo spiega perché è così difficile collocare questo capitolo nel contesto più ampio della “soluzione finale” della questione ebraica.
    Durante gli ultimi mesi del regime nazista, lo sterminio degli ebrei divenne un processo completamente decentralizzato, con l’intervento di una molteplicità di decisori. Mai prima di allora era stato messo nelle mani di così tanti individui il potere di decidere, a loro discrezione, della vita e della morte dei prigionieri.
    Lo studio di caso affronta l’argomento utilizzando una vasta documentazione costituita da studi, testimonianze e deposizioni.

     

    La violenza delle guardie nei campi di concentramento nazisti (1939-1945): riflessioni su dinamiche e logiche del potere
    di Elisa Milano, 5 febbraio 2015.

    Per i sopravvissuti, ed anche per molti ricercatori, il campo di concentramento era un’istituzione in cui il terrore veniva organizzato dai nazisti in modo sistematico, nel rispetto di regole precise. I carcerieri non avevano, ufficialmente, il diritto di usare arbitrariamente la violenza sui prigionieri. Al contrario, dovevano seguire un rigido codice di punizioni. Ma, nonostante questi regolamenti, svolgevano i loro compiti quotidiani in modo brutale e sanguinario. C'era un notevole divario tra le regole e la prassi.
    Utilizzando un approccio microanalitico, questo studio di caso esplora la violenza fisica come esperienza quotidiana nel campo di concentramento e sterminio di Majdanek (località nei pressi di Lublino in Polonia), dove 28 donne delle SS hanno lavorato tra l'autunno del 1942 e la primavera del 1944.

     

    SCIENCES PO Mass Violence Resistance Immagine 4Fig.4: Ucraina: popolazione in cerca di cibo, 1932-1933 Fonte3.1.3 Le violenze di massa nella Russia di Stalin

    Dekulakizzazione come violenza di massa
    Werth Nicolas, 23 settembre 2011.

    La “dekulakizzazione” avviata da Stalin nel gennaio 1930 aveva in realtà un duplice obiettivo: “estrarre” (termine utilizzato nelle direttive della polizia segreta) elementi intenzionati a resistere alla politica di collettivizzazione delle campagne e “colonizzare” i vasti e inospitali territori della Siberia, degli Urali e del Kazakistan. Il primo obiettivo corrispondeva all'opinione, chiaramente espressa dai bolscevichi quando presero il potere, che la società contadina contenesse “elementi sfruttatori” irrimediabilmente ostili al regime comunista, e che, prima o poi, avrebbero dovuto essere liquidati come classe. La politica ufficiale di eliminazione dei kulaki, adottata da Stalin alla fine del 1929, non implicava, tuttavia, la liquidazione fisica di tutti i kulaki. La grande maggioranza di loro doveva essere espropriata e deportata, realizzando così il secondo obiettivo della “dekulakizzazione”: fornire manodopera a basso costo per la colonizzazione e lo sviluppo economico delle zone disabitate del paese, ricche di risorse naturali. In tre anni (1930-1932), più di 5 milioni di kulaki furono espropriati o ridotti in miseria dopo essere stati costretti a svendere le loro proprietà (le autorità chiamarono questo processo “autodekulakizzazione”); 2,3 milioni di uomini, donne e bambini furono deportati in condizioni terribili; oltre 300.000 le persone arrestate e internate; tra 20.000 e 30.000 i condannati a morte.
    Lo studio di caso ricostruisce il contesto storico e analizza i processi decisionali delle campagne staliniste di “dekulakizzazione” interrogandosi sulla natura genocidiaria di tale politica (un genocidio di classe?).

     

    La grande carestia ucraina del 1932-33
    di Werth Nicolas, 18 aprile 2008.

    Oltre quattro milioni di persone morirono di fame tra l'autunno del 1932 e l'estate del 1933 in Ucraina e nel Kuban (regione del Caucaso settentrionale popolata in gran parte da ucraini). Fino alla perestrojka di Gorbaciov di questa tragedia non si era mai parlato in URSS. La carestia del 1932-33 fu ufficialmente riconosciuta in Ucraina solo nel dicembre 1987 durante un discorso tenuto da Shcherbytskyi, il primo segretario del Partito comunista ucraino, nel 70° anniversario della fondazione della Repubblica ucraina. Da allora, l'apertura di archivi un tempo inaccessibili ha portato alla luce una serie di documenti che hanno permesso di analizzare e comprendere meglio i meccanismi politici dietro la genesi e l'aggravarsi della carestia in Ucraina e nel Kuban.
    Lo studio di caso, dopo avere esaminato le diverse fasi della carestia e le responsabilità del regime stalinista, si chiede se essa possa essere considerata una forma di genocidio.

     

    Kurapaty (1937-1941): uccisioni di massa dell'NKVD nella Bielorussia sovietica
    di Goujon Alexandra, 27 marzo 2008

    Kurapaty è il nome di una località alla periferia di Minsk (capitale della Bielorussia) dove ufficiali sovietici appartenenti al NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni) uccisero, tra il 1937 e il 1941, non meno di 30.000 civili bielorussi. Uccisioni che fanno parte della repressione su vasta scala del regime stalinista durante gli anni '30 in Bielorussia e negli altri territori dell’URSS.
    Il termine “genocidio” per qualificare i crimini stalinisti è apparso pubblicamente per la prima volta in Bielorussia durante la manifestazione promossa da organizzazioni giovanili non ufficiali il 1° novembre 1987. Un termine che nel linguaggio politico sovietico era stato usato esclusivamente per condannare i crimini commessi dai nazisti contro gli “eroici” popoli dell’URSS durante la Seconda guerra mondiale.
    Lo studio di caso si articola in sei capitoli (Contesto, Istigatori e autori dei massacri, Vittime, Testimoni, Memorie, Interpretazioni generali e giuridiche dei fatti) e segnala nella Bibliografia numerosi fonti sull’argomento.

     

    SCIENCES PO Mass Violence Resistance Immagine 5Fig.5: Conseguenze di un massiccio bombardamento alleato sulla città di Amburgo nel corso della Seconda guerra mondiale Fonte3.1.4 I civili vittime dei bombardamenti aerei nelle guerre del ‘900

    Difendere i civili contro i bombardamenti aerei: una storia comparativa/transnazionale dei fronti interni giapponese, tedesco e britannico, 1918-1945
    di Sheldon Garon, 10 dicembre 2016.

    Negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale era diventato "normale" distruggere intere città. Il modo in cui ciò era avvenuto rientra in una storia transnazionale, che coinvolge la circolazione globale dell’idea di "bombardamento strategico". Altrettanto transnazionale era stato il processo attraverso il quale molte nazioni avevano riconosciuto la necessità di proteggere città, fabbriche e case dai bombardamenti aerei. Riflettendo sugli insegnamenti della Prima guerra mondiale, gli strateghi di tutto il mondo avevano insistito sul fatto che la prossima guerra sarebbe stata vinta o persa non solo sul campo di battaglia, ma anche sul fronte interno. I civili dovevano continuare a produrre nelle fabbriche e nelle campagne; avevano la necessità di essere nutriti con l’adozione di opportune politiche annonarie; il loro morale non doveva crollare.
    Questo studio di caso vuole evidenziare l’importanza di un approccio transnazionale nell’indagare la mobilitazione del fronte interno per la difesa aerea in Giappone, Germania e Gran Bretagna durante la Seconda guerra mondiale. Sorprendentemente, le operazioni di protezione civile nel Giappone imperiale, nella Germania nazista e nella Gran Bretagna democratica si assomigliavano pur con differenze che derivavano dalla diversa natura dei regimi politici.

     

    Bombe che esplodono in aria: risposte dello Stato e dei cittadini al bombardamento statunitense e al bombardamento atomico del Giappone
    di Marco Seden, 1 ottobre 2014.

    La Seconda guerra mondiale è stata una pietra miliare nello sviluppo e nel dispiegamento di tecnologie di distruzione di massa associate alle forze aeree, in particolare: il bombardiere B-29, il napalm, i bombardamenti incendiari e la bomba atomica. In Giappone, la guerra aerea statunitense raggiunse il suo culmine con il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945.
    Questo studio di caso valuta e confronta l'impatto e il significato storico dei bombardamenti incendiari e del bombardamento atomico delle città giapponesi nel corso della Seconda guerra mondiale. Particolare attenzione viene rivolta alla presenza di tali eventi distruttivi nella memoria storica sia giapponese che americana.

     

    Napalm nella dottrina e nella pratica dei bombardamenti statunitensi, 1942-1975
    di Marino Guillaume, 10 dicembre 2016.

    Se negli studi di storia militare la dottrina del “bombardamento strategico” è stata oggetto di molta attenzione, non altrettanto è avvenuto per i mezzi impiegati nei bombardamenti. Tuttavia, questi mezzi sono cruciali per comprendere tre aspetti decisivi della dottrina e della pratica del “bombardamento strategico”: come sono stati approntati; come sono stati utilizzati dai militari, percepiti dall’opinione pubblica e dalle istituzioni internazionali; come sono cambiati nel tempo.
    Questo studio di caso analizza le problematiche collegate all'impiego del napalm da parte delle forze armate statunitensi, evidenziando come l'uso massiccio di quest'arma, dalla sua creazione nel 1942 alla guerra del Vietnam, sia al centro di un cambiamento nella dottrina e nella pratica del “bombardamento strategico” americano.

     

    SCIENCES PO Mass Violence Resistance Immagine 6Fig.6: Monumento alla memoria delle vittime dell’Olocausto a Berlino Fonte3.2 Contributi teorici: genocidio e pulizia etnica

    Una teoria del genocidio: alla ricerca del significato
    di Huttenbach Henry R., 4 novembre 2007.

    Dopo una iniziale esitazione ad esplorare l'Olocausto nell’immediato dopoguerra, e’ durante gli anni '60 e '70 che gli studi sul genocidio degli ebrei presero slancio, lasciando però nell’ombra gli altri genocidi. l'Olocausto divenne automaticamente il paradigma di tutti i genocidi nell’errata convinzione che bastasse sondare quel fenomeno per comprendere le altre violenze di massa del Novecento. Dopo il doppio shock della disintegrazione della Jugoslavia e dello spargimento di sangue in Ruanda negli anni '90, gli studi sul genocidio sono usciti dall'ombra inibente dell'Olocausto.
    L’autore offre in questo articolo un importante contributo alla conoscenza del fenomeno genocidiario nel secolo scorso e nel tempo presente.

     

    Guerra e genocidio: un approccio sociologico
    di Shaw Martin, 4 novembre 2007.

    Strette sono le connessioni tra genocidio e guerra. Prendendo in esame il nazismo, è evidente come questo movimento genocidiario sia stato influenzato dall'ideologia militarista e dall'esperienza della guerra. Se è vero che le politiche genocidiarie erano iniziate già negli anni '30, quando il regime nazista aveva consolidato il proprio controllo sulla società tedesca, il passaggio agli omicidi di massa si ebbe solo con l’avvio del conflitto mondiale. Durante la Prima guerra mondiale, nell'Impero ottomano, il regime dei “Giovani Turchi” aveva preso di mira gli armeni, massacrandoli o costringendoli a lunghe “marce della morte” verso il deserto siriano, in quanto considerati potenziali alleati del nemico russo ed anche un ostacolo alla creazione di una nazione turca etnicamente omogenea. I ceceni e i tedeschi del Volga erano stati deportati in massa dal regime sovietico durante la Seconda guerra mondiale, nella convinzione che avrebbero potuto allearsi con il nemico nazista.
    Il genocidio può quindi essere considerato una variante della guerra, diretta contro determinati gruppi sociali o etnici piuttosto che contro i nemici armati. Per cui, a parere dell’autore dell’articolo, le sole politiche potenzialmente efficaci per prevenire il genocidio necessitano di essere collegate alle più generali politiche per evitare le guerre nella società globale.

     

    Pulizia etnica
    di Naimarca Normanno, 4 novembre 2007.

    Lo scopo della pulizia etnica è l'allontanamento forzato di una popolazione da un determinato territorio. Sebbene le campagne di pulizia etnica si traducono spesso in un genocidio, esse costituiscono un tipo fondamentalmente diverso di azione criminale. Il genocidio e la pulizia etnica occupano posizioni adiacenti in uno spettro di attacchi contro nazioni o gruppi religiosi ed etnici. Ad un estremo, la pulizia etnica è più vicina alla deportazione forzata e a quello che è stato chiamato “trasferimento di popolazione”. All'estremo opposto, la pulizia etnica e il genocidio sono distinguibili solo dall'intento ultimo. In questo caso, la pulizia etnica sfocia nel genocidio, poiché vengono commessi omicidi di massa per liberare un territorio da una popolazione che non vuole lasciare le proprie case e i luoghi delle proprie tradizioni, della propria identità. A complicare ulteriormente la distinzione tra pulizia etnica e genocidio è il fatto che la deportazione forzata spesso avviene nel contesto violento di una guerra (civile o di aggressione).
    Chiarita sul piano teorico la distinzione tra pulizia etnica e genocidio, l’autore prende in esame alcuni recenti casi di pulizia etnica e i tentativi di pacificazione della comunità internazionale, constatando come sia molto difficile separare pacificamente popolazioni contrapposte quando hanno sperimentato le devastazioni della pulizia etnica, e che uno degli errori fondamentali di coloro che giustificano la pulizia etnica è la convinzione che la pace viene promossa creando con la forza stati-nazione etnicamente omogenei.

     


    Note

    1 Su Jacques Semelin:fr.wikipedia.org/wiki/Jacques_Semelin.

    2 Sul progetto dell’enciclopedia:sciencespo.fr/ceri/en/ouvrage/oemv.

    3 Sulla nuova versione del sito:sciencespo.fr/mass-violence-war-massacre-resistance/fr/content/propos.html.

    4 Sull’organizzazione e sulle attività del Centre de Recherches Internationales (CERI):sciencespo.fr/ceri; sul Centre d'histoire de Sciences Po (CHSP):sciencespo.fr/histoire.

  • Un’insegnante che ha fatto la storia

    di Antonio Brusa

    Immagine1 Teresa Vergalli ha novantacinque anni. Da giovane fu una partigiana combattente col nome di battaglia Anuska. Terminati gli studi dopo la fine della guerra, scelse di diventare una maestra elementare. Voleva contribuire alla formazione di cittadini dotati di coscienza sociale e capaci di praticare i valori della solidarietà.

    Una finalità che tutti condividiamo, e una vita che ci ricorda che la libertà e la democrazia devono essere perennemente difese.

    Il 4 giugno alle 10:30 - nella sala conferenze del Museo della Scuola e dell’Educazione “Mauro Laeng” del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre - sarà presentato il suo libro Una vita partigiana (Mondadori edizioni, 2023).

  • Una guerra buona per tutti gli usi

    Appunti dall’intervista di Ettore Paris a Quinto Antonelli*


    Quinto Antonelli è uno storico, nato a Rovereto. Lavora presso il Museo storico del Trentino. Ha lavorato soprattutto sulle memorie popolari delle guerre del Novecento.  Ettore Paris lo intervista  su "Questo Trentino" e dal dialogo fra i due si ricostruisce una memoria della guerra, che è anche una memoria del Novecento. Ne riassumo i punti fondamentali, quelli che maggiormente possono interessare il docente "non trentino". La combinazione tra il fatto (la guerra) e la sua memoria, ci permette di ripercorrere rapidamente, e da un punto di vista molto interessante, l´intera vicenda del Novecento, fino ai giorni nostri.

    Il primo dopoguerra
    Interpretazione risorgimentale. La Quarta Guerra di indipendenza. Un’ “ubriacatura nazionalista”, denuncia il deputato socialista Silvio Flor, che prosegue: “Sono più i giorni in cui si sventola il tricolore di quelli in cui non sventola: le feste si susseguono alle feste, ed i genitori si domandano se gli scolari siano destinati ai cortei o alla scuola.


    Il fascismo
    La monumentalizzazione della memoria. Scrive Mario Isnenghi: “una marea montante di pietra”. Fra i monumenti e i cimiteri monumentali, spicca il mausoleo a Cesare Battisti, inaugurato a Trento da Vittorio Emanuele nel 1935, nonostante la ferma opposizione della vedova, Ernesta Bittanti.

     

    Trento, monumento a Cesare Battisti


    Il fascismo e il conflitto delle memorie
    In concomitanza, avviene l’occultamento della memoria degli “italiani”, che combatterono sotto le bandiere dell’Impero. Scrive “La Libertà” nel 1922: “I conostri concittadini morti nella divisa del soldato austriaco non sono né vogliono essere oggetto della nostra gratitudine e non potrebbero essere in nessun modo proposti alla venerazione delle generazioni future … Essi meritano compianto e commiserazione”.  In contrasto, si forma una “vulgata austriacante”, secondo la quale i trentini erano sfegatati sostenitori di Francesco Giuseppe, e mai e poi mai, se li avessero lasciati decidere, avrebbero scelto di venire con l’Italia.

    Fronte italiano. Un soldato italiano osserva l´ammasso dei cadaveri austriaci

     

    A queste osservazioni di Quinto Antonelli, aggiungerei un analogo conflitto, che ho riscontrato nella manualistica, e che, quindi, interessa tutta l’Italia. Nei manuali fascisti, infatti, la prima guerra è celebrata come l’utero che gestì la formazione del fascismo. Quindi non cessa mai l’esaltazione degli eroi italiani e, in contrapposizione, la costruzione del nemico austriaco. Tuttavia l’alleanza sempre più forte con la Germania, crea qualche problema, che esplode negli anni Trenta e dopo l’Anchluess, quando anche l’Austria “diventa” Germania. I nemici acerrimi si trasformano negli alleati ferrei, dopo appena venti anni. Ho trovato un manuale, il Malgara, pubblicato proprio durante la seconda guerra mondiale, nel quale la metamorfosi viene spiegata come uno stratagemma della Provvidenza, che ha forgiato due caratteri di acciaio, nella guerra vicendevole, e poi li ha messi insieme.

     

    Badoglio e alti ufficiali dell´esercito in visita al monumento ai caduti italiani in Francia

     

    Il secondo dopoguerra
    Gli anni ’50 e ’60 vedono la Democrazia Cristiana, allora al potere, riprendere pari pari il mito risorgimentale, con le grandi celebrazioni del 1965. Ma al tempo stesso vedono le vecchie memorie dei combattenti alpini e carsici cedere alle nuove (dei loro figli) che raccontano le sofferenze sul fronte russo (e qui penso alla fortuna scolastica delle Centomila gavette di ghiaccio).


    Il 1968
    Da una parte il pacifismo dei movimenti giovani, ma dall’altra anche la nuova storiografia (da Rochat a Isnenghi) comincia a imporre il paradigma del “combattente sofferente”, sia esso italiano che tedesco. Si riscoprono i diari dei soldati, attraverso i quali si conosce “la crisi delle antiche fedeltà, lo scioglimento dei valori tradizionali e la scoperta di nuovi mondi, fino ad allora sconosciuti”. Al monumento di pietra si comincia a sostituire un “monumento memoriale”, costituito da una letteratura e da mostre che sono frequentate da tantissima gente.


    La nuova retorica nazionalista
    Il discorso dell’autonomia porta alla glorificazione dei Kaiserjaeger, i Cacciatori dell’Imperatore, alle discussioni su Battisti traditore. Alla retorica pro-italiana si sostituisce quella pro Tirolo e pro Austria. Non è cosa nuova. Il nuovo è “l’aggressività degli interventi, l’autoreferenzialità che esclude decenni di ricerca storica (senza altri aggettivi), l’isolamento culturale, e nel merito al riproposizione di termini come “patria”, “Eroi”, “orgoglio identitario”. Direi che, fatte le opportune differenze, è la stessa cosa che riguarda la recente letteratura pulp sul brigantaggio e la ripresa dei miti neoborbonici.


    La memoria, oggi
    Nelle celebrazioni odierne, fatte di esposizioni accurate di armi, modi di vita, trincee perfettamente ricostruite e paesaggi che – dopo tanto tempo – hanno perso il carattere tragico del “paesaggio di guerra”, per tornare ridenti e riposanti, c’è il rischio della “banalizzazione della guerra” (George Mosse). La guerra perde il suo aspetto orribile, viene digerita nella modernità del consumo turistico. Bisognerebbe, conclude Antonelli citando Ceronetti, raccontarne il suo essere “un ritorno al Caos, dove tutto è sporcizia, escrementi e cadaveri scoperti”.

     

    *“Questo Trentino”, Febbraio 2014, 2, pp. 30-33”
    Il lavoro principale di Quinto Antonelli é  I dimenticati della Grande Guerra. La memoria dei combattenti trentini, Il Margine, 2008

  • Uranica. Quattro lezioni e un gioco sulla guerra oggi.

    di Laboratorio Lapsus*

     

    Mappa dei conflitti e delle situazioni critiche globali dal punto di vista USA 2022 fonte www.cfr.orgglobal conflict trackerFig.1: Dida: Mappa dei conflitti e delle situazioni critiche globali, dal punto di vista USA Fonte

     

     Lezione n.1: Cos'è la guerra oggi?

    Conflitto siriano Aleppo 2016 Conflitto siriano voragine bombardamento Aleppo 2016 I concetti di guerra e di pace si compenetrano e sfumano l’uno nell’altro. Basti pensare all’ ambiguo concetto di “missione di pace” o "peacekeeping", applicato a missioni come quella in Somalia o in Kosovo. Con le classi si possono osservare alcune immagini del conflitto siriano, per evidenziare come i limiti del campo di battaglia nell’epoca contemporanea sconfinano decisamente nello spazio civile, quando, attraverso operazioni di bombardamento sistematico, questo viene invaso dalla dimensione militare.

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    Il campo di battaglia diventa diffuso. Un esempio di campi di battaglia della guerra asimmetrica cyberspazio finanza informazione e spazio fisico in questo caso urbanoFig.4: Il campo di battaglia diventa diffuso. Nell’immagine un esempio di “campi di battaglia” della guerra asimmetrica: cyberspazio, finanza, informazione e spazio fisico, in questo caso urbano. La mappa degli attacchi informatici è disponibile qui

      A partire da queste prime osservazioni si sollecitano le domande che fanno da guida al percorso laboratoriale: quando hanno avuto origine questi slittamenti di significato? Quando “guerra” e “pace” hanno iniziato a compenetrarsi? E come? Quando si è attenuata la linea di demarcazione tra spazio bellico e spazio civile? E ancora, chi combatte le guerre contemporanee? Come interpretare le azioni terroristiche che dominano i notiziari? La prima lezione si chiude con queste domande: le risposte si cercheranno nelle lezioni successive.

     

    Lezione n.2: Le trasformazioni della Prima guerra mondiale.
    Cronologia essenziale dalla Prima guerra mondiale alla fine della Seconda guerra mondiale fonte presentazione Prezi di Lapsus per il laboratorio Come cambia la guerraFig.5: Cronologia essenziale dalla Prima guerra mondiale alla fine della Seconda guerra mondiale - fonte presentazione Prezi di Lapsus per il laboratorio Come cambia la guerra.

    La Prima guerra mondiale è il conflitto spartiacque della nostra epoca: dalle trasformazioni tecnologiche e strategiche introdotte da questo conflitto non si tornerà più indietro. La leva di massa e la mole dei mobilitati, insieme alle esorbitanti spese militari sostenute dai belligeranti, hanno determinato una mobilitazione totale, di dimensioni inedite: dalla produzione industriale stimolata dalle commesse statali al razionamento dei generi alimentari, dalla programmazione della produzione agricola alla censura sulla stampa, fino all’identificazione del territorio patrio come ‘fronte interno’.

    Questo processo di mobilitazione ha favorito l’inasprimento del controllo repressivo statale. Questo ha assunto forme e contenuti particolarmente rilevanti attraverso la propaganda, il completo controllo sui meccanismi produttivi e l’arresto dei dissidenti o dei pacifisti.

    Sul terreno della strategia militare, la Grande guerra ha rappresentato una svolta epocale, in primo luogo, per la diffusione delle armi automatiche, che hanno reso estremamente dispendioso in termini di vite umane il tradizionale attacco di fanteria o di cavalleria alle postazioni nemiche. Di qui l’evoluzione dalla guerra di movimento in guerra di posizione o di logoramento. Luogo privilegiato dell’aspetto militare del conflitto fu dunque la trincea. Questa, introdotta nella guerra anglo-boera di fine Ottocento, fu perfezionata durante la guerra mondiale.

    Sul piano delle innovazioni tecnologiche, si osserva la nascita di uno dei protagonisti dei futuri conflitti, il carro armato, adottato dai Britannici nel 1916. E, ancora, i gas asfissianti (che hanno imposto l’obbligo della maschera antigas), l’aeroplano, usato prevalentemente a scopo ricognitivo, sebbene armato di mitragliatrice, il sottomarino.

    L’esigenza di coordinare e muovere enormi contingenti su un fronte molto ampio ha contribuito allo sviluppo delle telecomunicazioni e al massiccio impiego dei mezzi motorizzati.

     

     Lezione n.3: La Seconda guerra mondiale cambia il mondo.
    Schema degli elementi relativi alla Seconda guerra mondiale che servono per comprendere la trasformazione dei conflitti nel secondo dopoguerraFig.6: Schema riassuntivo degli elementi relativi alla Seconda guerra mondiale che servono per comprendere la trasformazione dei conflitti nel secondo dopoguerra - fonte presentazione Prezi di Lapsus per il laboratorio Come cambia la guerra.

    La prima evidenza è certamente l’arma atomica, che cambierà gli equilibri tra le potenze reduci dallo sforzo bellico. La prima, esplosa il 16 luglio del 1945 nel deserto di Alamogordo, è stata seguita da una produzione spaventosa. Gli allievi non ne sono consapevoli. Spesso, alla domanda: “secondo voi, quante bombe oggi esistono”, la risposta è di poche unità. Restano, dunque, sorpresi dalla quantità effettiva di armi nucleari attualmente presenti (13.400, dato aggiornato al 2022).

    La seconda evidenza di questa guerra è costituita dall’uso intensivo della propaganda e dall’esteso utilizzo delle forze di intelligence, che non verranno sciolte al termine del conflitto.

    In terzo luogo, vanno considerate le innovazioni negli equipaggiamenti delle truppe e infine – quarta evidenza - l’uso strategico della guerra di bombardamento sui civili come strumento di pressione sul fronte interno dei paesi di entrambi gli schieramenti. Con la Seconda guerra mondiale tendono a dissolversi i confini tra ciò che può essere identificato come campo di battaglia e quello che dovrebbe essere inteso come ambito civile.

    Ma vi è una conseguenza di storia globale che va considerata centrale, per la storia successiva, e in particolare, per la nostra vita: la fine dell’Eurocentrismo. Due gli elementi che determinano la “provincializzazione” della “vecchia” Europa. Il primo è costituito dal suicidio europeo, determinato dal fatto che le due guerre mondiali hanno come teatro principale questo sub-continente; il secondo è determinato dal fatto che – dalla seconda metà del Novecento, i centri/guida del pianeta sono entrambi extraeuropei: Usa e Urss.

     

    Lezione n.4: Le tante guerre della guerra fredda.
    cronologia delle diverse fasi della Guerra fredda fonte presentazione Prezi di Lapsus per il laboratorio Come cambia la guerraFig.7: Cronologia delle diverse fasi della Guerra fredda - fonte presentazione Prezi di Lapsus per il laboratorio Come cambia la guerra.

    La Guerra fredda introduce molti elementi destinati a condizionare il nostro presente: la deterrenza atomica, che impedisce alle superpotenze di entrare in un conflitto diretto; l’ordinamento bipolare del mondo, che costruisce le dipendenze economiche, militari e culturali dei paesi satellite (ma anche di altri che si vorrebbero neutrali). Si teorizzano e si applicano, durante questo periodo, nuove modalità di fare la guerra: la guerra per procura, la controinsorgenza e infine - guerra dalle mille sfaccettature - quella definita asimmetrica.

    Il tema della guerra asimmetrica è sorprendentemente familiare ai ragazzi, complici le molte sessioni di Call of Duty o di altri videogiochi a tema bellico. Non si tratta, quindi, di argomenti del tutto nuovi per loro. La novità è poterne parlare apertamente a scuola, facendo collegamenti con la loro esperienza di giovani videogiocatori e videogiocatrici e avendo finalmente occasione di tirare fuori le domande che fino ad allora non hanno saputo a chi rivolgere.

    La storia recente fornisce molti esempi di questo genere di guerra: la guerra del Golfo, che permette di riflettere sul ruolo dell’informazione nei conflitti contemporanei; la guerra del Kosovo, per tornare sul confine tra guerra e pace attraverso il concetto di guerra umanitaria; e infine la war on terror statunitense contro le formazioni terroristiche di al-Qā‛ida, per problematizzare il tema del terrorismo e delle contromisure messe in campo dagli USA.

    Per l’ultimo incontro del laboratorio, notando grande interesse suscitato nelle classi ma essendo a corto di mezzi che ci sembrassero efficaci per valutare se quello che stavamo insegnando loro fosse stato realmente assimilato, ci siamo domandati quale strumento usare per far sedimentare tutte quelle informazioni e valutarne l’apprendimento reale. Così è nato Uranica, un gioco di simulazione didattica sulla guerra asimmetrica.

     

    5. Uranica, un gioco didattico sulla guerra asimmetrica

    Materiali_di_gioco_di_Uranica_in_particolare_a_sinistra_le_carte_descrizione_Stati_a_destra_le_carte_azione.jpg Dato uno scenario di apertura fantapolitico, la classe viene divisa in cinque gruppi, ad ognuno dei quali è assegnata una scheda Paese - due superpotenze, un paese strategico, una federazione economica e uno stato insorto di recente indipendenza -, degli obiettivi strategici e delle carte-azione. Lo scopo del gioco è raggiungere i propri obiettivi, giocando una strategia di carte-azione coerente con le caratteristiche del proprio Paese. Ovviamente, trattandosi di un gioco sulla guerra asimmetrica, non tutti hanno lo stesso “peso” e di conseguenza non tutte le carte-azione possono essere giocate da tutti i contendenti.

     

    “Ti faccio un embargo come gli USA con Cuba!”

    “Noi non ci facciamo intimorire, non abbiamo bisogno delle vostre merci!”

     

    Appunti di gioco di alcuni studenti durante una sessione di Uranica  La meccanica di gioco avviene per turni, durante i quali possono essere giocate massimo tre carte-azione. Prima di usare le sue carte, ogni giocatore spiega al master il senso della combinazione di azioni usate e ne descrive i possibili esiti. Il master, al termine di ogni round, valuta l'efficacia delle azioni giocate assegnando dei “+” o “-” ai giocatori.

    Le carte azione sono:

    - la guerra convenzionale, un’eventualità sempre possibile ma fortemente sconsigliata a causa della deterrenza atomica;
    - la guerra economica, che si suddivide in Embargo e Guerra finanziaria, utilizzabile solo dalle superpotenze e dalla federazione economica;
    - la guerra energetica, che può essere usata solo da chi possiede risorse energetiche; la guerra coperta, che si suddivide in Spionaggio e Sabotaggio, che può essere usata solo da chi possiede forze di intelligence;
    - la guerra informativa, nelle sue due branche di Propaganda politica e Manipolazione dell’informazione, azioni che hanno pesi diversi a seconda di chi le utilizza.

    “Prof. ma in questo gioco non c’è l’Onu? E come facciamo se vogliamo fare la pace?”

     

    6. Il debriefing

    Una terza media mentre gioca a Uranica Sulla LIM la mappa del gioco Questo spazio offre l’occasione alle classi di riflettere sull’esperienza vissuta insieme, commentando il percorso svolto con i formatori e dando un feedback complessivo sul laboratorio appena concluso.

    Le nostre osservazioni, in merito ai percorsi svolti tra il 2016 e il 2018, hanno messo in luce come questa impostazione didattica favorisca un apprendimento significativo. Il numero di domande degli studenti e delle studentesse e la loro curiosità ci hanno fatto intendere che l’argomento fosse di grande interesse, soprattutto nei collegamenti con l’attualità. In tutte le classi frequentate la risposta è stata fortemente positiva in termini di coinvolgimento e di stimoli. I ragazzi e le ragazze hanno seguito il percorso con concentrazione e interesse, anche nei passaggi più complessi, intervenendo con pertinenza e curiosità, a volte anticipando questioni che avremmo trattato più avanti.

    Da sottolineare è la volontà dei ragazzi di tentare comunque di dare una propria risposta autonoma e una propria interpretazione di temi, concetti, fenomeni descritti nel corso del laboratorio.

    Il debriefing è anche l’occasione in cui riflettere collettivamente su come è andata la partita di Uranica, invitando la classe a segnalare punti di forza e criticità. Questo è il momento nel quale il master svela il contesto reale dal quale ha tratto ispirazione il gioco: si tratta di uno scenario d’apertura ispirato all’Ucraina (nella fase tra il 2014 e il 2016), il cui anagramma dà anche il nome al gioco.

     

     7. Dal gioco didattico al gioco da tavolo

    Uranica in fase di revisione e adattamento come gioco da tavolo Uranica oggi gioco da tavolo

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    Uranica, in questa versione didattica per le scuole, è un sottile equilibrio tra il gioco con finalità istruttive e il gioco di ruolo, dove l’efficacia delle azioni giocate è rinforzata dalla capacità narrativa dei giocatori e delle giocatrici. La forza di questo gioco didattico risiede anche nel ruolo del master che restituisce, di volta in volta, uno scenario complesso entro cui agire, interpretando le mosse dei giocatori e delle giocatrici.

    Tuttavia per rendere Uranica un Gioco di Ruolo (GDR) avremmo dovuto pensare ad un manuale per il master davvero molto corposo, dando informazioni non solo sul funzionamento e bilanciamento delle azioni di gioco, ma anche sulle cause e sugli effetti delle azioni di guerra asimmetrica in contesti reali, così da fornire una solida base di conoscenze sull’argomento.
    Questo avrebbe sicuramente conservato l’aderenza ai contenuti e alle dinamiche della guerra asimmetrica - quindi salvato l’aspetto didattico - ma ridotto il bacino possibile di fruitori del gioco ai soli già appassionati dell’argomento o dei giochi di ruolo, rendendolo un gioco piuttosto di nicchia.

    In alternativa, un boardgame semplifica molto i contenuti, perché introduce una variabile di casualità maggiore che deve essere bilanciata con un sistema di punteggi, e ha il vantaggio della maggiore attrattività anche per un pubblico di non giocatori, estendendo quindi il possibile bacino di fruitori.

    Playtest di Uranica settembre 2022 Playtest di Uranica settembre 2022 2 Abbiamo, dunque, avviato un cantiere di progettazione, per bilanciare i punteggi e gli obiettivi, ripensare la grafica delle carte e realizzare nuovi “pezzi” di gioco, come le carte diplomazia - memori di suggestioni degli studenti - e le carte scenario, che servono a complicare un po’ la faccenda alla fine di ogni turno di gioco.

    Il cantiere di progettazione è iniziato a marzo 2022, in vista della presentazione ufficiale di Uranica il 18 settembre 2022 per il primo beta test durante la festa per i 15 anni di Laboratorio Lapsus, ed è tuttora in corso.

    Consapevoli che la strada intrapresa sia ancora lunga e caratterizzata da accelerazioni e battute d’arresto, siamo felici che Uranica abbia conservato quello spirito didattico che lo ha caratterizzato fin dal principio, unito ad una dinamica ludica più inclusiva e orientata ad un pubblico vasto, a riprova del fatto che è davvero possibile imparare la storia giocando e divertendosi.

     

    8. Lapsus*

    Lapsus - Laboratorio di analisi storica del mondo contemporaneo è un’associazione di promozione sociale con sede a Milano, che opera nel campo della didattica e della divulgazione della storia contemporanea.

    Nasce nel 2007 come gruppo informale di studio e approfondimento all’Università degli Studi di Milano. Nel corso degli anni ha ampliato il suo campo d’azione anche all’ambito educativo e della Public History. Il suo obiettivo è coniugare la ricerca storica e la sua divulgazione, traducendo in parole semplici concetti e fenomeni complessi per favorire il pensiero storico al di fuori dei tradizionali canali accademici, in un processo di produzione di conoscenza che parta “dal basso”.

    Lapsus si occupa di laboratori didattici nelle scuole medie e superiori, seminari e workshop in università, iniziative culturali, mostre, documentari e tutto quello che può servire allo scopo di promuovere un pensiero critico sull'attualità, vista con la lente della Storia. Il suo approccio ai contenuti è interdisciplinare, analitico e comparativo. Nei suoi laboratori didattici si utilizzano metodologie problem-based, collaborative e partecipative.

    Nel 2016, Laboratorio Lapsus collaborava attivamente con una serie di scuole medie di Milano e provincia. Proprio da una di queste scuole, l’Istituto comprensivo “Garibaldi” di Cinisello Balsamo, era giunta la richiesta – fatta propria poi da altri tre istituti - di avviare un percorso laboratoriale finalizzato ad indagare le trasformazioni che aveva subito il concetto di “guerra” nel corso del Novecento e le sue implicazioni sui contesti coinvolti da fenomeni di tipo bellico nell’attualità.

    Il 2016 in effetti è stato un anno piuttosto complesso: il conflitto in Siria giunto ad una nuova recrudescenza con il tentativo di espansione dell’autoproclamato califfato dell’IS, la resistenza curda e l’ingresso della Russia tra i belligeranti; la situazione in Ucraina, che dal 2014 non stava trovando una soluzione per le province del Donbass russofono; una lunga sequenza di attentati terroristici - da Istanbul a Dacca, da Israele al Burkina Faso - nonché le vivide immagini che ci giungevano dagli attentati di Bruxelles e Nizza, imponevano un ripensamento di tante categorie interpretative della contemporaneità. Così è nato il laboratorio “Che cos’è la guerra oggi”, che qui abbiamo presentato.

    Contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. | www.laboratoriolapsus.com

     

  • Wikiradio e i podcast di storia: l’Italia e il mondo

    di Antonio Prampolini

    Il 12 luglio dell’anno scorso Historia Ludens ha pubblicato una sitografia sui podcast di storia della Rai. Oggi la completiamo indicizzando le numerose trasmissioni dedicate alla storia dal programma Wikiradio di Rai Radio 3.

    Wikiradio è un appuntamento quotidiano che dal 2011 racconta personaggi, luoghi ed eventi che appartengono alla nostra contemporaneità e alla sua storia. Gli eventi narrati sono di solito quelli accaduti nel passato, recente o lontano, proprio nei giorni in cui va in onda il programma. Le ricorrenze diventano così un’occasione per fare storia alla radio. Il nome ricorda volutamente Wikipedia, infatti il programma si prefigge di creare una sorta di “enciclopedia universale online”, consultabile liberamente e gratuitamente, di “voci narranti” grazie al contributo di esperti e studiosi di storia, economia, scienze, letteratura, arte, musica.

    Di seguito vi proponiamo una sitografia in cui abbiamo indicizzato, sia per argomenti che per autori, una selezione dei podcast dedicati alla storia d’Italia, e non solo, dall’Ottocento ai giorni nostri, presenti sul sito raiplaysound.it alla data del 31/12/2022. Ogni podcast è recitato da uno storico. Li presentiamo ordinati per argomenti. Alla fine, poi li abbiamo ordinati per autore.

     

    1. Storia d'Italia dal Risorgimento ai nostri giorni

    WIKIRADIO PODCAST DI STORIA IMMAGINE 1Fig.1: Copertina dell'edizione del 1860 de Il Canto degli Italiani Fonte1.1 Il Risorgimento

    1.1.1 Gli eventi

    • La spedizione di Sapri: il tentativo di Carlo Pisacane e di un gruppo ristretto di mazziniani di liberare nel giugno del 1857 i detenuti politici dalla prigione borbonica di Ponza e di provocare una rivolta in terraferma, conclusosi con la morte del Pisacane. Racconto di Mario Isnenghi (25/06/2015).
    • La spedizione dei mille: l’impresa militare compiuta tra il maggio e l'ottobre del 1860 da volontari al comando di Giuseppe Garibaldi, che, con il crollo del Regno delle Due Sicilie, diede la spinta decisiva alla formazione dell’unità d’Italia. Racconto di Mario Isnenghi (11/05/2016).
    • Il massacro di Bronte: la fucilazione da parte dei garibaldini comandati da Nino Bixio, nell’omonima località in provincia di Catania, dei contadini siciliani insorti nell’agosto del 1860 contro i nobili e la borghesia. Racconto di Mario Isnenghi (10/08/2016).
    • L’incontro di Teano: l’incontro tra Garibaldi e il re Vittorio Emanuale II, avvenuto nei pressi dell’omonima località il 26 ottobre del 1860, che conclude la spedizione dei Mille nel Regno delle Due Sicilie. Racconto di Mario Isnenghi (20/06/2017).
    • L’assedio di Gaeta: l’assedio, con conseguente resa, della fortezza borbonica di Gaeta da parte dell’esercito piemontese comandato dal generale Enrico Cialdini nel novembre del 1860. Racconto di Carmine Pinto (13/11/2018).
    • Le prime elezioni dell'Italia Unita: nel 1861 (gennaio-febbraio) si svolsero le prime elezioni politiche per la Camera dei Deputati del neonato Regno D’Italia; elezioni che furono vinte dalla Destra storica. Racconto di Giuseppe Parlato (27/01/2015).

    1.1.2 Le biografie

    • I fratelli Bandiera: Attilio, 1810-1844, ed Emilio, 1819-1844, raccontati da Emilio Franzina (25/07/2019).
    • Silvio Pellico, 1789-1854, raccontato da Mario Isnenghi (25/03/2015).
    • Giuseppe Mazzini, 1805-1872, raccontato da Giuseppe Parlato (10/03/2020).
    • Felice Orsini, 1819-1858, raccontato da Mario Isnenghi (14/01/2015).
    • Aurelio Saffi, 1819-1890, raccontato da Roberto Balzani (10/04/2019).
    • Anita Garibaldi, 1821-1849, raccontata da Silvia Cavicchioli (30/08/2018).
    • Ippolito Nievo, 1831-1861, raccontato da Mario Isnenghi (04/03/2016).
    • Cesare Battisti, 1875-1916, raccontato da Stefano Biguzzi (12/07/2019).

     

    WIKIRADIO PODCAST DI STORIA IMMAGINE 2Fig.2: Alpini italiani nella Grande Guerra Fonte1.2 La Prima Guerra Mondiale

     

    WIKIRADIO PODCAST DI STORIA IMMAGINE 3Fig.3: Soldati italiani in azione sul fronte greco-albanese nell'inverno 1940-41 Fonte1.3 La Seconda Guerra Mondiale

    • L'ingresso dell'Italia nella Seconda guerra mondiale, 10 giugno 1940. Racconto di Marcello Flores (10/06/2020).
    • Il Patto d'acciaio: l’accordo tra i governi dell’Italia fascista e della Germania nazista firmato a Berlino il 22 maggio 1939. Racconto di Emilio Gentile (22/05/2019).
    • Il “Giorno del No” in Grecia, 28 ottobre 1940: il rifiuto del governo greco, allora guidato da Ioannis Metaxas, di sottostare all’ultimatum dell’Italia di consentire l’ingresso del proprio esercito in Grecia per “garantirne la neutralità”. Rifiuto a cui seguirà la dichiarazione di guerra italiana. Racconto di Simona Colarizi (28/10/2015).
    • Lo sbarco in Sicilia, 10 luglio 1943. Racconto di Marcello Flores (10/07/2017).
    • L'armistizio di Cassibile, 3 settembre 1943: la resa incondizionata dell'Italia agli eserciti alleati, che nel mese di luglio erano sbarcati in Sicilia, firmata a Cassibile. Racconto di Emilio Gentile (03/09/2013).
    • L'8 settembre 1943: l'annuncio da parte del capo del governo italiano, maresciallo Pietro Badoglio, dell'entrata in vigore dell'armistizio di Cassibile. Racconto di Marcello Flores (08/09/2014).
    • L’Eccidio di Cefalonia, 23-28 settembre 1943: crimine di guerra compiuto da reparti dell'esercito tedesco a danno dei soldati italiani presenti sull’isola di Cefalonia alla data dell'8 settembre 1943. Racconto di Marcello Flores (15/09/2017).
    • Le Quattro Giornate di Napoli, 27–30 settembre 1943: l’insurrezione della popolazione di Napoli contro le forze occupanti tedesche. Racconto di Gabriella Gribaudi (27/09/2012).
    • L'eccidio di Pietransieri: l'eccidio compiuto dall'occupante nazista in Italia il 21 novembre 1943 a Pietransieri, frazione del comune di Roccaraso (Aquila). Racconto di Michela Ponzani (21/11/2012).
    • La vera storia del carteggio Churchill-Mussolini. Racconto di Mimmo Franzinelli (04/05/2018).

     

    WIKIRADIO PODCAST DI STORIA IMMAGINE 4Fig.4: Le truppe alleate entrano a Bologna il 21 aprile 1945 Fonte1.4 L'Italia liberata

     

    WIKIRADIO PODCAST DI STORIA IMMAGINE 5Fig.5: Caso Mattei: i resti del bimotore sul quale viaggiava il presidente dell’ENI precipitato a Bascapè (PV) il 27 ottobre 1962 Fonte1.5 Storia d'Italia dal dopoguerra ad oggi

    • La nascita della Repubblica Italiana raccontata da Patrizia Dogliani (02/06/2014).
    • Le donne della Repubblica raccontate da Simonetta Soldani (02/06/2016).
    • L'Unione Donne Italiane raccontata da Alessandra Gissi (23/10/2019).
    • Le Feste della Repubblica raccontate da Maurizio Ridolfi (02/06/2017).
    • L'amnistia Togliatti, 22 giugno 1946, raccontata da Mimmo Franzinelli (22/06/2015).
    • La strage di Portella della Ginestra: l’eccidio commesso in località Portella della Ginestra, in provincia di Palermo, il 1º maggio 1947 da parte della banda criminale di Salvatore Giuliano che sparò contro la folla riunita per celebrare la festa del lavoro provocando undici morti e numerosi feriti. Racconto di Emilio Gentile (01/05/2013).
    • Le elezioni politiche italiane del 1948 raccontate da Edoardo Novelli (18/04/2013).
    • L'eccidio di Melissa: l’episodio verificatosi il 29 ottobre 1949 nell’omonima località in provincia di Crotone in cui morirono tre giovani contadini per mano della polizia intervenuta per “liberare” le terre incolte dei latifondi occupate dai braccianti. Racconto di Danilo Chirico (29/10/2015).
    • La strage delle Fonderie Riunite di Modena: l’uccisione di sei operai e il ferimento di circa duecento persone in seguito all’intervento della polizia durante lo sciopero del 9 gennaio 1950 indetto dalla CGIL per protestare contro i licenziamenti degli operai metalmeccanici delle fonderie. Racconto di Lorenzo Bertucelli (09/01/2015).
    • Il ritorno di Trieste all'Italia, in applicazione degli accordi sottoscritti il 5 ottobre 1954 dai governi d'Italia, del Regno Unito, degli Stati Uniti d'America e della Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia con il Memorandum di Londra. Racconto di Giuseppe Parlato (26/10/2012).
    • I morti di Reggio Emilia: fatto di sangue avvenuto nella città emiliana il 7 luglio 1960 in seguito all’intervento delle forze dell’ordine nel corso di una manifestazione sindacale. Racconto di Mimmo Franzinelli (07/07/2014).
    • La Fiat 600 raccontata da Giuseppe Berta (09/03/2016).
    • L'Autostrada del Sole, 1956-1964, raccontata da Tullia Iori (19/05/2017).
    • Italsider, il principale gruppo siderurgico italiano per la produzione dell’acciaio raccontato da Alessandro Leogrande (09/07/2015).
    • Adriano Olivetti, 1901 -1960, raccontato da Giuseppe Berta (27/02/2015).
    • Il caso Mattei, 1906-1962: la morte di Enrico Mattei, presidente e fondatore dell’ENI, avvenuta il 17 ottobre del 1962, in seguito all’esplosione dell’aereo su cui viaggiava di ritorno dalla Sicilia. Racconto di Mimmo Franzinelli (27/10/2016).
    • L'occupazione dell'Università di Trento del 1966 raccontata da Concetto Vecchio (24/01/2013).
    • La nascita della Montedison, 7 luglio 1966, raccontata da Giuseppe Berta (07/07/2017).
    • L'alluvione di Firenze, 4 novembre 1966, raccontata da Marco Gisotti (04/11/2014).
    • Il Processo Braibanti: il processo che vede imputato per plagio l’intellettuale di sinistra Aldo Braibanti (1922-2014), il quale verrà condannato a nove anni di carcere il 15 luglio 1968. Racconto di Roberto Raja (13/07/2018).
    • Lo Statuto dei lavoratori, legge n.300 del 20 maggio 1970, raccontato da Walter Passerini (25/05/2015).
    • La morte di Feltrinelli, 14 marzo 1972, raccontata da Mimmo Franzinelli (14/03/2017).
    • Il rapimento di Mario Sossi, 18 aprile 1974, raccontato da Giovanni Bianconi (18 Apr 2018).
    • Il referendum abrogativo sul divorzio, 12-13 maggio 1974, raccontato da Fiamma Lussana (12/05/2017).
    • La strage di piazza della Loggia: attentato terroristico fascista compiuto il 28 maggio 1974 a Brescia, nella centrale piazza della Loggia. Racconto di Mimmo Franzinelli (28/05/2013).
    • La strage dell'Italicus: attentato terroristico dinamitardo di matrice neofascista compiuto nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 sul treno Italicus. Racconto di Massimiliano Griner (04/08/2015).
    • Il terremoto del Friuli, 6 maggio 1976, raccontato da Massimiliano Griner (06/05/2016).
    • L’assassinio di Giorgio Ambrosoli, 11 luglio 1979, raccontato da Mimmo Franzinelli (11/07/2017).
    • Terremoto dell'Irpinia, 23 novembre 1980, raccontato da Isaia Sales (23/11/2016).
    • Carlo Alberto Dalla Chiesa, 1920-1982, generale dei carabinieri e prefetto ucciso dalla mafia a Palermo il 3 settembre 1982. Racconto di Lirio Abbate (03/092014).
    • Il referendum sul nucleare in Italia: l'8 novembre 1987 gli italiani si esprimono con un referendum contro l'uso dell'energia nucleare in Italia. Racconto di Marco Gisotti (08/11/2013).
    • La strage di Via D’Amelio: l’uccisione per mano della mafia a Palermo il 19 luglio 1992 del giudice Borsellino e della sua scorta. Racconto di Giovanni Bianconi (19/07/2019).
    • La strage di via dei Georgofili: attentato terroristico compiuto dalla mafia a Firenze nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993. Racconto di Lirio Abbate (27/05/2019).
    • I processi per la strage di Piazza Fontana, 1972-2005, raccontati da Benedetta Tobagi (12/12/ 2019).

     

    2. Il mondo in guerra

    WIKIRADIO PODCAST DI STORIA IMMAGINE 6Fig.6: I delegati degli eserciti alleati dopo la firma dell’Armistizio di Compiègne in Piccardia l’11 novembre 1918 Fonte2.1 La Prima guerra mondiale

     

     

     

     

      

    WIKIRADIO PODCAST DI STORIA IMMAGINE 7Fig.7: Hiroshima dopo il bombardamento atomico del 6 agosto 1945 Fonte2.2 La Seconda guerra mondiale

    • Il Comitato “America First”: il principale gruppo isolazionista americano ad opporsi all'ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale. Fu fondato nel settembre 1940 e venne sciolto nel dicembre 1941 dopo l'attacco del Giappone a Pearl Harbor. Racconto di Daniele Fiorentino (04/09/2017).
    • La battaglia d'Inghilterra, 10 luglio-31 ottobre 1940. Racconto di Antonio Martelli (09/10/2014).
    • La nascita del regime di Vichy, 10 luglio 1940. Racconto di David Bidussa (10/07/2014).
    • La battaglia di Stalingrado, 17 luglio 1942–2 febbraio 1943. Racconto di Marcello Flores (19/09/2014).
    • Il D-Day, 6 giugno 1944: lo sbarco alleato in Normandia. Racconto di Emilio Gentile (06/06/2013).
    • Il protocollo di Londra del 1944, 12 settembre: accordo tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica sulle zone d’occupazione della Germania e sull’amministrazione congiunta della sua capitale Berlino. Racconto di Marcello Flores (12/09/2019).
    • Il bombardamento di Dresda, 13–15 febbraio 1945. Racconto di Marcello Flores (13/02/2015).
    • La Conferenza di Potsdam, 17 luglio – 2 agosto 1945: la conferenza internazionale dopo la fine della Seconda guerra mondiale a cui parteciparono i rappresentanti delle tre grandi potenze vincitrici, Churchill, Stalin e Truman, con i rispettivi ministri degli esteri. Racconto di Simona Colarizi (17/07/2015).
    • La bomba su Hiroshima, 6 agosto 1945. Racconto di Marcello Flores (06/08/2013).
    • Winston Churchill, 1874-1965, raccontato da Emilio Gentile (24/01/2017).

     

    3. Rivoluzioni e genocidi del '900

    WIKIRADIO PODCAST DI STORIA IMMAGINE 8Fig.8: L'assalto al Palazzo d'Inverno a Pietrogrado da parte dei bolscevichi nella ricostruzione del film “Ottobre” di Ejzenštejn Fonte3.1 La Rivoluzione russa

     

    WIKIRADIO PODCAST DI STORIA IMMAGINE 9Fig.9: Il monumento a memoria dell’Olocausto a Berlino Fonte3.2 Memorie della Shoah

    • Speciale Memorie della Shoah in diretta dalla Fondazione Museo della Shoah a Roma. Con Mario Venezia, Isabella Insolvibile, Alessandra Mauro, Bruno Maida, Daniele Susini (27/01/2022).
    • Il Manifesto della razza, 5 agosto 1938: testo firmato da dieci scienziati italiani che divenne la base ideologica e pseudo-scientifica della politica razzista dell'Italia fascista. Racconto di Anna Foa (05/08/2015).
    • Le leggi razziali: il 18 settembre 1938 in un discorso tenuto a Trieste Benito Mussolini annuncia agli italiani la politica razziale del regime fascista. Racconto di Alessandra Tarquini (18/09/2018).
    • La notte dei cristalli: nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938 i nazisti delle SS distruggono migliaia di luoghi pubblici e privati della comunità ebraica in Germania. Racconto di Anna Foa (09/11/2017).
    • La Stella di Davide: il 6 settembre 1941 i nazisti impongono agli ebrei dei territori occupati di portare la stella di Davide. Racconto di Elena Loewenthal (06/09/2013).
    • Anna Frank: l'8 luglio 1942 Anna Frank riprende a scrivere il suo diario dopo l'ingresso nell'alloggio segreto ad Amsterdam dove lei e la sua famiglia si nascondevano dai nazisti. Racconto di Elena Loewenthal (08/07/2013).
    • Il rastrellamento del Velodromo d'inverno: il 16 luglio 1942, a Parigi, per ordine del governo collaborazionista francese di Vichy, più di 13 mila ebrei vengono rastrellati e rinchiusi nel Velodromo d'inverno. Racconto di Anna Foa (16/07/2018).
    • La rivolta del ghetto di Varsavia: il 19 aprile 1943 gli ebrei del ghetto di Varsavia si rivoltano contro i nazisti. Racconto di Marcello Pezzetti (19/04/2016).
    • La fuga da Sobibor, 14 ottobre 1943: fuga dei prigionieri ebrei dal campo di sterminio nazista di Sobibor in Polonia. Racconto di Marcello Pezzetti (14/10/2016).
    • La razzia degli ebrei romani: il 16 ottobre 1943 i nazisti arrestano a Roma oltre 1259 persone, di cui 363 uomini, 689 donne e 207 bambini appartenenti alla comunità ebraica. Racconto di Liliana Picciotto (16/10/2013).
    • Il primo trasporto da Fossoli ad Auschwitz: il 22 febbraio 1944 dal campo di prigionia di Fossoli parte il primo convoglio diretto ad Auschwitz. Racconto di Bruno Maida (22/02/2021).
    • La risiera di San Sabba: il 4 aprile 1944, a Trieste, entra in funzione il crematorio nel lager della risiera di San Sabba. Racconto di Tristano Matta (04/04/2017).
    • Gli artisti del ghetto di Terezin: il 16 ottobre 1944 tutti gli artisti rinchiusi nel ghetto di Terezin vengo deportati ad Auschwitz dove il giorno dopo verranno sterminati nelle camere a gas. Racconto di Guido Barbieri (16/10/2015).
    • Odoardo Focherini, 1907-1944: il 27 dicembre 1944 muore nel campo di concentramento di Hersbruck, in Germania, Odoardo Focherini. Racconto di Brunetto Salvarani (27/12/2021).
    • La liberazione del campo di Auschwitz: il 27 gennaio 1945 le truppe dell'armata rossa entrano nel campo di sterminio di Auschwitz. Racconto di Marcello Pezzetti (27/01/2014).
    • I bambini della colonia di Sciesopoli: il 20 settembre 1945, 40 bambini ebrei orfani arrivano nella colonia di Sciesopoli a Selvino, in provincia di Bergamo. Racconto di Bruno Maida (20/09/2018).
    • Il viaggio della Exodus: l'11 luglio 1947 la nave Exodus, con a bordo più di quattromila ebrei, salpa dal porto francese di Sète in direzione della Palestina, poco prima della fine del mandato britannico e della fondazione dello Stato di Israele. Racconto di Elena Lowenthal (11/07/2014).
    • Il processo a Adolf Eichmann: il 9 dicembre 1961 Adolf Eichmann viene riconosciuto colpevole di crimini di guerra nel processo davanti alla corte distrettuale di Gerusalemme che si conclude con la condanna a morte per impiccagione. Racconto di Anna Foa (09/12/2011).
    • Oskar Schindler, 1908-1974: il 9 ottobre 1974 muore a Hildesheim, in Germania, Oskar Schindler, imprenditore tedesco, famoso per aver salvato durante la Seconda guerra mondiale circa 1.100 ebrei dallo sterminio. Racconto di Claudio Vercelli (09/10/2012).
    • Josef Mengele, 1911-1979: il 7 febbraio 1979 il medico nazista Josef Mengele muore di infarto a Bertioga, in Brasile. Racconto di Marcello Pezzetti (07/02/2014).
    • Demjanjuk, il boia di Sobìbor e Treblìnka: il 27 luglio 1987, di fronte alla corte distrettuale di Gerusalemme, inizia l'interrogatorio di Ivan John Demjanjuk, accusato di crimini contro il popolo ebraico e contro l'umanità. Racconto di Marcello Flores (27/07/2021).
    • Giorgio Perlasca, 1910-1992: il 15 agosto 1992 muore a Padova Giorgio Perlasca, riconosciuto "Giusto" fra le Nazioni per aver salvato la vita a più di 5.000 ebrei. Racconto di Anna Foa (15/08/2019).
    • L'epidemia del “morbo K”: il 2 marzo 2005 Giovanni Borromeo viene riconosciuto "Giusto" fra le Nazioni per aver inventato, insieme ad Adriano Ossicini, l'epidemia del morbo K, allo scopo di salvare gli ebrei romani dalle persecuzioni nazifasciste. Racconto di Anna Foa (02/03/2021).
    • Elie Wiesel, 1928-2016: il 30 settembre 1928 nasce a Sighetu Marmației, in Romania, Elie Wiesel, scrittore, saggista, attivista dei diritti umani, insignito del Premio Nobel per la pace nel 1986. Racconto di Elena Loewenthal (30/09/2020).
    • Le pietre d'inciampo: il 27 gennaio di ogni anno si celebra il Giorno della memoria, istituito con una risoluzione dell'ONU il primo novembre 2005. Racconto di Anna Foa (27/01/2020).

     

    4. Intellettuali e movimenti di contestazione

    WIKIRADIO PODCAST DI STORIA IMMAGINE 10Fig.10: Uno degli slogan più celebri del Sessantotto francese (Parigi, Sciences Po, maggio 1968) Fonte4.1 Il Sessantotto 

     

    WIKIRADIO PODCAST DI STORIA IMMAGINE 11Fig.11: La bandiera dell'Europa Fonte5. L'Europa unita

    • Gli accordi di Schengen, 1985-1997: complesso di accordi volti a favorire la libera circolazione dei cittadini e la lotta alla criminalità organizzata all’interno dell'Unione Europea (UE) mediante l’abbattimento delle frontiere interne tra gli Stati partecipanti e la creazione di un sistema comune di controllo alle frontiere esterne dell’UE. Racconto di Stefano Cingolani (27/11/2012).
    • Le prime elezioni europee, 10 giugno 1979, raccontate da Patrizia Dogliani (10/06/2014).
    • La Banca Centrale Europea raccontata da Andrea Terzi (01/06/2016).
    • Il trattato istitutivo della Ceca: la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio costituita con il Trattato di Parigi del 18 aprile 1951. Racconto di Paolo Soldini (18/04/2017).
    • Altiero Spinelli, 1907-1986, raccontato da Marcello Flores (23/05/2019).

     

    WIKIRADIO PODCAST DI STORIA IMMAGINE 12Fig.12: L'America latina Fonte6. L'America Latina: rivoluzioni e dittature

     

    WIKIRADIO PODCAST DI STORIA IMMAGINE 13Fig.13: Bandiera della Repubblica Popolare Cinese Fonte7. La Cina: da Mao Tse-tung alla protesta di Piazza Tienanmen 

    • La Lunga Marcia di Mao, 16 ottobre 1934 – 20 ottobre 1935, raccontata da Guido Samarani (16/10/2014).
    • La rivoluzione culturale cinese, 1966–1976, raccontata da Federico Rampini (16/12/2011).
    • La protesta di Piazza Tienanmen, dimostrazioni di massa di studenti, intellettuali e operai per una democratizzazione del regime comunista cinese che ebbero luogo a Pechino dal 15 aprile al 4 giugno 1989. Racconto di Marco Del Corona (05/06/2012).

     

    WIKIRADIO PODCAST DI STORIA IMMAGINE 14Fig.14: Alexander Fleming, lo scopritore della penicillina nel 1928, in un'immagine dei primi anni Quaranta Fonte8. Le epidemie e le scoperte della scienza

     

     

     

    WIKIRADIO PODCAST DI STORIA IMMAGINE 15Fig.15: Don Lorenzo Milani e gli alunni della Scuola di Barbiana Fonte9. La scuola italiana: protagonisti, istituzioni ed esperienze educative

     


     

    Indice dei podcast per autori

    A B C D F G I L M N P R S T V

     

    A
    Abbate Lirio, Carlo Alberto Dalla Chiesa, 03/092014.
    " "                    La strage di via dei Georgofili, 27/05/2019.

    Affinati Eraldo, Don Milani, 26/06/2017.
    Agosti Aldo, La Liberazione di Torino, 28/04/2015.
    Anselmo Marcello, Il colera a Napoli, 28/08/2020.

    B
    Balzani Roberto, Aurelio Saffi, 10/04/2019.
    Barbieri Guido, Gli artisti del ghetto di Terezin, 16/10/2015.
    Berta Giuseppe, Adriano Olivetti, 27/02/2015.
    " "                          La Fiat 600, 09/03/2016.
    " "                          La nascita della Montedison, 07/07/2017.
    Bertucelli Lorenzo, La strage delle Fonderie Riunite di Modena, 09/01/2015.
    Bianchi Bruna, La tregua di Natale del 1914, 25/12/2012.
    Bianconi Giovanni, Il rapimento di Mario Sossi, 18 Apr 2018.
    " "                              La strage di Via D’Amelio, 19/07/2019.
    Bidussa David, La nascita del regime di Vichy, 10/07/2014.
    Biguzzi Stefano, Cesare Battisti, 12/07/2019.

    C
    Calandri Michele, La Liberazione di Cuneo, 24/04/2015.
    Carotenuto Gennaro, Simón Bolívar, 07/08/2015.
    " "                                   La rivoluzione sandinista, 19/07/2016.
    " "                                   Il Canale di Panama, 07/09/2016.
    " "                                  Fidel Castro, 16/02/2017.
    " "                                  Emiliano Zapata, 08/08/2017.
    " "                                  La Rivoluzione messicana, 20/11/2017.
    " "                                  L'elezione di Salvador Allende, 04/09/2018.
    " "                                  La dittatura in Brasile, 13/12/2018.
    " "                                  Fulgencio Batista, 06/08/2019.
    Cavicchioli Silvia et al., Anita Garibaldi, 30/08/2018.
    Chirico Danilo, L'eccidio di Melissa, 29/10/2015.
    Cingolani Stefano, Gli accordi di Schengen, 27/11/2012.
    Colarizi Simona, La Conferenza di Potsdam, 17/07/2015.
    " "                          Il “Giorno del No” in Grecia, 28/10/2015.
    Corbellini Gilberto, Il vaiolo, 09/12/2013.
    Corbellini Gilberto et al., Il bacillo di Koch, 24/03/2021.
    Crainz Guido, L'occupazione del Politecnico di Varsavia, 21/03/2018.

    D
    Del Bene Marco, Il movimento studentesco in Giappone, 05/07/2018.
    Del Corona, La protesta di Piazza Tienanmen, 05/06/2012.
    Della Valle Valeria et al., La battaglia di Caporetto, 22/10/2021.
    Dogliani Patrizia, La nascita della Repubblica Italiana, 02/06/2014.
    " "                           Le prime elezioni europee, 10/06/2014.
    " "                           La fine della Prima guerra mondiale, 11/11/2015.
    Dondi Mirco, La battaglia di Monticello, 15/04/2015.
    D’Orazio Costantino et al., La battaglia di Caporetto, 22/10/2021.

    F
    Fiorentino Daniele, Il Comitato “America First”, 04/09/2017.
    Flores Marcello, La bomba su Hiroshima, 06/08/2013.
    " "                         L'8 settembre 1943, 08/09/2014.
    " "                         La battaglia di Stalingrado, 19/09/2014.
    " "                         Il bombardamento di Dresda, 13/02/2015.
    " "                         Lo sbarco in Sicilia, 10/07/2017.
    " "                         L’Eccidio di Cefalonia, 15/09/2017.
    " "                         L’assalto al Palazzo d’Inverno, 07/11/2017.
    " "                         La Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia, 15/11/2017.
    " "                         L’Assemblea Costituente in Russia, 24/11/2017.
    " "                         Il governo sovietico, 30/11/2017.
    " "                         Altiero Spinelli, 23/05/2019.
    " "                         Il protocollo di Londra del 1944, 12/09/2019.
    " "                         L'ingresso dell'Italia nella Seconda guerra mondiale, 10/06/2020.
    " "                         Demjanjuk, il boia di Sobìbor e Treblìnka, 27/07/2021.
    Foa Anna, Il processo a Adolf Eichmann, 09/12/2011.
    " "               Il Manifesto della razza, 05/08/2015.
    " "               La notte dei cristalli, 09/11/2017.
    " "               Il rastrellamento del Velodromo d'inverno, 16/07/2018.
    " "               Giorgio Perlasca, 15/08/2019.
    " "               Le pietre d'inciampo, 27/01/2020.
    " "               L'epidemia del “morbo K”, 02/03/2021.
    Franzina Emilio, La strage di piazza della Loggia, 28/05/2013.
    " "                         La prima battaglia dell'Isonzo, 23/06/2015.
    " "                         Il Milite Ignoto, 04/11/2015.
    " "                         Gli emigrati italo americani nella Grande Guerra, 30/05/2016.
    " "                         I fratelli Bandiera, 25/07/2019.
    Franzinelli Mimmo, I morti di Reggio Emilia, 07/07/2014.
    " "                               L'amnistia Togliatti, 22/06/2015.
    " "                               Il caso Mattei, 27/10/2016.
    " "                               La morte di Feltrinelli, 14/03/2017.
    " "                               L’assassinio di Giorgio Ambrosoli, 11/07/2017.
    " "                               La vera storia del carteggio Churchill-Mussolini, 04/05/2018.

    G
    Gentile Emilio, La strage di Portella della Ginestra, 01/05/2013.
    " "                       Il D-Day, 06/06/2013.
    " "                       L'armistizio di Cassibile, 03/09/2013.
    " "                       L'Armistizio di Compiègne, 11/11/2014.
    " "                       Winston Churchill, 24/01/2017.
    " "                       Mussolini e la rivoluzione russa, 25/05/2017.
    " "                       Il Patto d'acciaio, 22/05/2019.
    Gisotti Marco, Il referendum sul nucleare in Italia, 08/11/2013.
    " "                      L'alluvione di Firenze, 04/11/2014.
    Gissi Alessandra, L'Unione Donne Italiane, 23/10/2019.
    Gribaudi Gabriella, Le Quattro Giornate di Napoli, 27/09/2012.
    Griner Massimiliano, La strage dell'Italicus, 04/08/2015.
    " "                                  Il terremoto del Friuli, 06/05/2016.
    " "                                  La Scuola Normale Superiore di Pisa, 18/10/2016.

    I
    Insolvibile Isabella, Speciale Memorie della Shoah, 27/01/2022.
    Iori Tullia, L'Autostrada del Sole, 19/05/2017.
    Isnenghi Mario, Felice Orsini, 14/01/2015.
    " "                        Silvio Pellico, 25/03/2015.
    " "                        La Liberazione di Venezia, 29/04/2015.
    " "                        La spedizione di Sapri, 25/06/2015.
    " "                        Ippolito Nievo, 04/03/2016.
    " "                        La spedizione dei mille, 11/05/2016.
    " "                        Il massacro di Bronte, 10/08/2016.
    " "                        L’incontro di Teano, 20/06/2017.
    " "                        Il bombardamento di Venezia, 26/02/2018.

    L
    Laudani Raffaele, Herbert Marcuse, 19/07/2018.
    Leogrande Alessandro, Italsider, 09/07/2015.
    Loewenthal Elena, Anna Frank, 08/07/2013.
    " "                             La Stella di Davide, 06/09/2013.
    " "                             Il viaggio della Exodus, 11/07/2014.
    " "                             Elie Wiesel, 30/09/2020.
    Lussana Fiamma, Il referendum abrogativo sul divorzio, 12/05/2017.

    M
    Maida Bruno, Il maestro Manzi, 03/11/2014.
    " "                     Maria Montessori, 06/01/2015.
    " "                     I bambini della colonia di Sciesopoli, 20/09/2018.
    " "                     Speciale Memorie della Shoah, 27/01/2022.
    " "                     Il primo trasporto da Fossoli ad Auschwitz, 22/02/2021.
    Marcheschi Daniela et al., La battaglia di Caporetto, 22/10/2021.
    Martelli Antonio, La battaglia d'Inghilterra, 09/10/2014.
    Matta Tristano, La risiera di San Sabba, 04/04/2017.
    Mauro Alessandra, Speciale Memorie della Shoah, 27/01/2022.
    Mazzoni Matteo, La liberazione di Firenze, 11/08/2017.

    N
    Novelli Edoardo, Le elezioni politiche italiane del 1948, 18/04/2013.

    P
    Parlato Giuseppe, Il ritorno di Trieste all'Italia, 26/10/2012.
    " "                             Le prime elezioni dell'Italia Unita, 27/01/2015.
    " "                             Giuseppe Mazzini, 10/03/2020.
    Passerini Luisa, Il maggio francese, 13/05/2016.
    Passerini Walter, Lo Statuto dei lavoratori, 25/05/2015.
    Pezzetti Marcello, La liberazione del campo di Auschwitz, 27/01/2014.
    " "                            Josef Mengele, 07/02/2014.
    " "                           La rivolta del ghetto di Varsavia, 19/04/2016.
    " "                           La fuga da Sobibor, 14/10/2016.
    Picciotto Liliana, La razzia degli ebrei romani, 16/10/2013.
    Pinto Carmine, L’assedio di Gaeta, 13/11/2018.
    Pinto Carmine et al., La battaglia di Caporetto, 22/10/2021.
    Ponzani Michela, L'eccidio di Pietransieri, 21/11/2012.
    Preti Alberto, La liberazione di Bologna, 21/04/2015.
    Pupo Raoul, La Liberazione di Trieste, 30/04/2015.

    R
    Raffaeli Massimo, Francesco De Sanctis, 20/09/2017.
    Raja Roberto, Il Processo Braibanti, 13/07/2018.
    Rampini Federico, La rivoluzione culturale cinese, 16/12/2011.
    Ridolfi Maurizio, Le Feste della Repubblica, 02/06/2017.
    Roghi Vanessa, Lettera a una professoressa, 23/05/2017.
    Rossi Tommaso, La liberazione di Perugia, 20/06/2017.
    Rossi Doria Marco, La nascita della scuola media, 01/10/2014.

    S
    Sales Isaia, Terremoto dell'Irpinia, 23/11/2016.
    Salvarani Brunetto, Odoardo Focherini, 27/12/2021.
    Samarani Guido, La Lunga Marcia di Mao, 16/10/2014.
    Sangiovanni Andrea, Gli scioperi pre-insurrezionali, 17/04/2015.
    Scaglione Daniele, “I Nove di Catonsville”, 17/05/ 2018.
    Soldani Simonetta, Le donne della Repubblica, 02/06/2016.
    Soldani Simonetta et al., La battaglia di Caporetto, 22/10/2021.
    Soldini Paolo, I prigionieri di guerra dell'Asinara, 16/12/2015.
    " "                     Il trattato istitutivo della Ceca, 18/04/2017.
    " "                    Rudi Dutschke, 11/04/2018.
    " "                    Il Manifesto delle duemila parole, 27/06/2018.
    Susini Daniele, Speciale Memorie della Shoah, 27/01/2022.

    T
    Tagliagambe Silvano, La scoperta del bacillo della peste, 20/06/2014.
    " "                                  La scoperta della penicillina, 11/03/2015.
    " "                                  L’influenza spagnola, 15/03/2016.
    " "                                  La febbre gialla, 08/12/2016.
    Tarquini Alessandra, Le leggi razziali, 18/09/2018.
    Terzi Andrea, La Banca Centrale Europea, 01/06/2016.
    Tobagi Benedetta, I processi per la strage di Piazza Fontana, 12/12/ 2019.
    Tonizzi Maria Elisabetta, La Liberazione di Genova, 23/04/2015.

    V
    Vecchio Concetto, L'occupazione dell'Università di Trento del 1966, 24/01/2013.
    Venezia Mario, Speciale Memorie della Shoah, 27/01/2022.
    Vercelli Claudio, Oskar Schindler, 09/10/2012.

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