storia contemporanea

  • La normalità dello sterminio. I nazisti, gli ebrei e gli altri

    Autore: Luigi Cajani

     

    Introduzione

    E’ ben noto il proverbio arabo, fatto proprio da Marc Bloch nell’ Apologia della storia, secondo il quale siamo figli più dei nostri tempi che dei nostri padri. E’ un detto che, quando si affronta il tema doloroso e difficile della comprensione della Shoah, suggerisce riflessioni dirimenti per uno storico. In molte ricostruzioni, infatti, si tende a privilegiare “l’asse dei padri”, cioè il lungo periodo dell’antisemitismo, invocato come la spiegazione predominante dello sterminio. Questo asse, tuttavia, va incrociato con l’asse della contemporaneità, e, quindi, con la specificità del Nazismo. Non è una differenza da poco. Nel primo caso, la Shoah è il culmine tragico di un antisemitismo secolare. Nel secondo, è l’applicazione agli ebrei della logica dello sterminio nazista.  E’ una differenza importante dal punto di vista dello storico, attento alla natura dei fenomeni che analizza. Lo è dal punto di vista della conoscenza diffusa e dell’uso sociale della storia, perché la specificità del fenomeno nazista è il baluardo più forte contro la banalizzazione della Shoah  e contro le continue analogie con situazioni tragiche del nostro mondo. Lo è, infine, dal punto di vista dell’insegnante di storia, perché riconduce all’interno di un territorio metodologicamente determinato un tema che, nelle scuole, è diventato un contenitore estremamente variegato. In questa prospettiva, hl pensa utile ripubblicare questo articolo di Luigi Cajani, uscito nella rivista “Giano”, nel 1996, la cui analisi resta valida nonostante gli anni trascorsi e le ricerche successive. (A.B.) *

     

    Le strategie naziste di occupazione

    Durante la Seconda guerra mondiale, la Germania perseguì due diverse strategie di occupazione, distinte a seconda degli ambiti territoriali  e razziali a cui si applicavano. Per l’Europa occidentale era prevista un’occupazione che, pur sfruttando le risorse locali, lasciasse però sostanzialmente immutata la struttura demografica e sociale e garantisse alla popolazione un discreto livello di vita. Per l’Europa orientale, abitata da slavi, che erano considerati razzialmente inferiori non solo ai tedeschi, ma anche agli altri europei occidentali di stirpe latina, era invece prevista un’occupazione di tipo coloniale, con l’insediamento di popolazione tedesca e con uno sfruttamento senza scrupoli delle risorse. Il popolo tedesco, secondo la propaganda nazista, mancava di Lebensraum (spazio vitale), e se lo sarebbe conquistato con la guerra in Europa orientale, dove sarebbe diventato lo Herrenvolk (popolo dei signori).

     

    Fig. 1. Il nuovo Atlante Scolastico del 1942 insegna ai bambini tedeschi “lo spazio vitale” del loro popolo 

     

    I progetti  di espansione vennero formulati nel cosiddetto Generalplan Ost (piano generale per l’est), il quale prevedeva che la zona comprendente la Polonia, la Bielorussia e l’Ucraina occidentale fosse svuotata della maggior parte dei suoi abitanti: su circa 45 milioni, 31 milioni sarebbero stati deportati al di là degli Urali, mentre gli altri sarebbero rimasti a disposizione dei coloni tedeschi che vi si sarebbero insediati1 .


    L’asservimento della Russia

    Si trattava dunque di modificare radicalmente la struttura demografica e sociale dei paesi occupati ad oriente, in funzione dell’asservimento ai tedeschi. Le conseguenze che questo sconvolgimento avrebbe avuto sulle popolazioni locali non preoccupavano affatto la dirigenza nazista, se non, appunto, nell’ottica dell’interesse del Terzo Reich. L’assoluto disinteresse per la sorte degli Untermenschen, gli uomini inferiori, emerge da più parti. Un esempio significativo è rappresentato da un progetto per lo sfruttamento delle risorse alimentari della Russia, redatto circa un mese prima dell’inizio delle ostilità. Dal punto di vista della produzione di generi alimentari la Russia presentava due zone: una eccedentaria, cioè la parte meridionale (la Russia nera) e quella caucasica, e una deficitaria, cioè la parte settentrionale, o delle foreste, e i bacini industriali di Mosca e Leningrado. Le eccedenze della prima zona sarebbero state totalmente assorbite dalla Germania, che avrebbe lasciato alla popolazione locale solo di che sopravvivere. Ciò significava che la zona deficitaria sarebbe rimasta totalmente priva dei suoi consueti rifornimenti, e pertanto i suoi abitanti, soprattutto quelli delle città, sarebbero stati ridotti alla fame.

    Di fronte a questa prospettiva - scriveva l’estensore del progetto - “l’amministrazione tedesca può certo cercare di mitigare le conseguenze della carestia... e accelerare il processo di ritorno ad un’economia di natura. Ci si può sforzare di sviluppare queste regioni nel senso di estendere la coltivazione delle patate e delle altre piante più importanti per il consumo alimentare. Ma comunque la carestia non può essere evitata. In queste regioni molte decine di milioni di uomini diverranno superflui e moriranno oppure dovranno emigrare in Siberia. Tentativi di salvare questa popolazione dalla morte per fame importando il surplus dalla Russia nera possono essere realizzati solo a spese dell’Europa. Ma così si mina la capacità di tenuta della Germania in guerra, la capacità della Germania e dell’Europa di resistere al blocco continentale.  Ciò deve essere assolutamente chiaro”2.

     

    Fig.2. Hitler e Mussolini studiano la carta geografica europea con il Feldmaresciallo Wilhelm Keitel e il generale Jodl.

     

    Lo sterminio dei prigionieri di guerra sovietici

    Lo stesso disprezzo per la vita umana ispirò il trattamento dei prigionieri sovietici: considerati solo bocche inutili da sfamare, essi vennero lasciati morire in massa di fame, di maltrattamenti e di malattie (soprattutto tifo petecchiale), quando non venivano direttamente fucilati al momento della cattura. Dei 3.350.000 prigionieri sovietici catturati dall’inizio dell’attacco all’Unione sovietica, al 1 febbraio 1942 circa il 60% aveva perso la vita3.

    Il tasso di mortalità cominciò ad abbassarsi solo quando la dirigenza nazista si rese conto che in tal modo stava dilapidando un utile capitale di forza lavoro: pertanto i prigionieri di guerra sovietici cominciarono ad essere trattati un po’ meglio, per essere impiegati nell’industria pesante e soprattutto in miniera. Nonostante questo cambiamento di politica, la loro sorte rimase comunque molto dura, la più dura fra i prigionieri in mano tedesca: si calcola che alla fine del conflitto su un totale di circa 5.700.000 prigionieri di guerra sovietici i morti siano stati circa 3.300.0004.

     

    Gli ebrei: deportazione e sterminio

    Deportazione e sterminio erano dunque due misure complementari e contigue nella politica nazista nei confronti degli slavi. Lo sterminio non era in questo caso un obiettivo diretto e autonomo, ma semplicemente la conseguenza di misure come la deportazione in Siberia o la requisizione delle risorse alimentari. Si può parlare di uno sterminio indiretto, come elemento di passaggio dalla deportazione allo sterminio diretto.

    Deportazione e sterminio fecero parte della politica nazista nei confronti degli ebrei, che prima dello sterminio aveva preso in considerazione alcune ipotesi di deportazione. Dapprima, dopo la vittoria  sulla Polonia, si era pensato di concentrare gli ebrei polacchi in una “riserva” vicino a Lublino. La deportazione in quella regione implicava consapevolmente uno sterminio: infatti, come notava Arthur Seyss-Inquart, si trattava “di una regione molto paludosa... il che avrebbe portato ad una grande decimazione degli ebrei”5.

    Questa prima idea di deportazione si rivelò inadeguata e venne sostituita, dopo la vittoria sulla Francia, dal progetto di deportazione degli ebrei in Madagascar, che venne però abbandonato nel settembre del 1940, a causa della mancata vittoria sulla Gran Bretagna, che era necessaria alla realizzazione del nuovo progetto. Il passaggio dalla deportazione allo sterminio si realizzò con la guerra contro l’Unione sovietica, iniziata il 22 giugno 1941.

     

    Lo sterminio degli ebrei

    Il rapporto fra questa guerra e lo sterminio degli ebrei è molto complesso. Un elemento di cui tener conto è che si trattava non soltanto di una guerra di espansione territoriale, ma anche di una guerra ideologica, che aveva lo scopo di annientare il comunismo, che i nazisti consideravano il loro nemico mortale, insieme all’ebraismo. Dunque all’interno di questa guerra, oltre ai piani di deportazione o eliminazione della popolazione slava, c’era un piano di sterminio mirato, una vera e propria caccia all’uomo, degli elementi politicamente pericolosi. A questo scopo vennero impartiti ordini per l’eliminazione della dirigenza comunista sovietica: la Wehrmacht, prima dell’inizio delle ostilità, emanò il cosiddetto Kommissarbefehl, che prevedeva l’eliminazione di tutti i commissari politici dell’Armata Rossa;  e subito dopo vennero organizzate quattro Einsatzgruppen, reparti  speciali incaricati della “pacificazione” delle retrovie attraverso l’eliminazione di tutti i funzionari di partito, di tutti gli elementi pericolosi (come sabotatori e agitatori) e di tutti gli ebrei nel partito e nell’amministrazione statale.

    Gli ebrei rientravano dunque, in quanto politicamente pericolosi, in questo primo piano di sterminio. Ma ben presto l’annientamento degli ebrei venne esteso oltre questo ambito politico, e investì l’intera popolazione ebraica in quanto tale. Infatti le Einsatzgruppen già dalla metà di agosto del 1941 iniziarono a fucilare in massa gli ebrei, senza distinzione di sesso o di età6, e intensificarono la loro attività nei mesi successivi: a metà aprile del 1942 il numero degli ebrei uccisi era arrivato a circa mezzo milione7.

    Gli ebrei sovietici diventavano così oggetto di sterminio totale. E la loro sorte divenne quella di tutti gli ebrei europei. Infatti proprio in quei mesi venne decisa e messa a punto la “soluzione finale del problema ebraico”. Nel dicembre del 1941 entrò in funzione il primo campo sterminio, Bełzec, seguito ben presto da Chełmno, Sobibór e Treblinka, e il processo di sterminio fece un salto tecnologico, passando dalle fucilazioni delle Einsatzgruppen ai camion a gas e alle camere a gas. Infine il 20 gennaio 1942 si tenne infatti la conferenza di Wannsee, che definì le modalità della deportazione degli ebrei europei. Le Einsatzgruppen continuavano intanto i loro massacri, utilizzando anch’esse i camion a gas, oltre alle fucilazioni: nella primavera del 1943 - secondo alcune stime - avevano ucciso complessivamente 1.250.000 ebrei, oltre ad altre centinaia di migliaia di cittadini sovietici non ebrei8.

     

    Fig. 3. In questa cartina interattiva, realizzata dall’Istituto Maiorana di Bergamo, le notizie sintetiche sui principali campi di concentramento tedeschi

     

    Problemi aperti: la tesi di Browning

    Se è indubbio che la “soluzione finale” venne decisa durante la prima fase della guerra contro l’Unione sovietica, nell’estate o nell’autunno del 1941, ci sono ancora questioni irrisolte riguardo alla cronologia e alle motivazioni di questa decisione, e al ruolo avuto non solo da Hitler, ma anche dai vari esponenti della dirigenza nazista. Non sono infatti stati rintracciati ordini scritti, ed è anche possibile che non siano mai esistiti, dato il segreto di cui si voleva circondare la materia. Gli storici si dividono sostanzialmente intorno a due ipotesi. Christopher Browning, ad esempio, sostiene che Hitler decise di sterminare gli ebrei intorno alla metà di luglio del 1941, quando la vittoria definitiva sull’Unione sovietica sembrava facile e imminente. Sarebbe stata dunque l’euforia del successo a spingerlo a compiere il salto di qualità nella persecuzione degli ebrei, facendogli abbandonare ogni esitazione rispetto alle misure estreme9. In questo contesto va inserito un documento, recante una data imprecisata del  luglio 1941, nel quale Göring conferiva a Heydrich i pieni poteri per la “soluzione globale” (Gesamtlösung) della questione ebraica in Europa10, e  la prima gasazione sperimentale con lo Zyklon B, fatta ad Auschwitz il 3 settembre su un gruppo di prigionieri di guerra sovietici.

     

    Problemi aperti: la tesi di Mayer

    Opposta è invece l’ipotesi di Arno Mayer, secondo il quale Hitler avrebbe deciso di sterminare gli ebrei non durante la prima fase dell’attacco all’Unione sovietica, ma  durante l’autunno, di fronte alle prime serie difficoltà, che facevano fallire il sogno di un nuovo Blitzkrieg. Secondo Mayer, dopo l’euforia delle prime due settimane di guerra già a fine luglio la dirigenza nazista doveva ammettere che l’avanzata rallentava e si faceva sempre più costosa, contrariamente a quanto previsto. I primi insuccessi militari avrebbero spinto dunque Hitler a eliminare intanto coloro che considerava i principali responsabili di tutti i mali della Germania: gli ebrei.

    Mayer sostiene che i primi massacri di ebrei sovietici, nel luglio, furono opera non tanto delle Einsatzgruppen, ma degli antisemiti locali, che scatenavano dei pogrom appena arrivavano le truppe tedesche. I reparti tedeschi - egli scrive - iniziarono i grandi massacri di ebrei solo “dopo l’autunno del 1941, quando l’Armata Rossa aveva rallentato l’avanzata tedesca imponendo i più tremendi e sanguinosi combattimenti.... Da quel momento, i comandanti della Wehrmacht e delle Einsatzgruppen denunciarono specificatamente gli ebrei come mandanti, membri e fiancheggiatori delle attività partigiane dietro le linee tedesche e si servirono di queste accuse per giustificare il fatto di averli scelti come capri espiatori dell’ostinata resistenza sovietica....”.  

    Secondo Mayer,  per Hitler e la dirigenza nazista lo sterminio degli ebrei fu un’opzione che venne adottata solo a causa del fallimento dei piani legati alla guerra contro l’Unione sovietica. Egli scrive infatti: “Non si può... affermare che lo sterminio degli ebrei sovietici sia stato parte integrante del grande disegno di Hitler di creare un Reich millenario. Dopo una breve e vittoriosa campagna; i nazisti si proponevano di trasferire gli ebrei d’Europa, compresi quelli russi, in una riserva come quella di Lublino, al di là del Volga o degli Urali. E’ soltanto dopo aver preso coscienza dell’enorme difficoltà di vincere la guerra e di ”liberare” Mosca... che i fanatici nazisti concentrarono la loro attenzione sugli ebrei, la più accessibile e vulnerabile incarnazione del “giudebolscevismo”...” 11.

    Secondo Mayer sarebbero dunque state l’”angoscia” e la “paura” di fronte al fallimento dei suoi sogni di potere a spingere Hitler a decidere lo sterminio degli ebrei.

     

    Le obiezioni di Vidal-Naquet

    Questa tesi non ha mancato di suscitare perplessità: in particolare Pierre Vidal-Naquet, nella prefazione all’edizione francese del libro di Mayer, ha messo in discussione proprio la cronologia della consapevolezza del fallimento da parte della dirigenza nazista, rimproverando a Mayer di non essere stato chiaro in proposito: “Quando è cominciata la sconfitta? - scrive Vidal-Naquet - Negli ultimi giorni di luglio? In agosto? Il 19 settembre, giorno in cui fu conquistata a caro prezzo Kiev? Il 1° dicembre, con le dimissioni di von Rundstedt? Oppure l’8 dicembre, quando venne sospesa l’offensiva? Lo storico può certo stabilire qual è stato il momento della sconfitta,  e Arno Mayer ha tutto il diritto di ritenere che  sia stato l’autunno del 1941, e non l’autunno-inverno del 1942 (Stalingrado e sbarco il Africa settentrionale), a segnare il punto di svolta nella guerra. Ma dovrebbe anche provare... che già a settembre, o al più tardi in ottobre, Hitler e i suoi crociati erano consapevoli di essere ormai sconfitti”12.

     

    La normalità dello sterminio

    Al di là di queste due ipotesi, se la decisione di sterminare gli ebrei sia stata in frutto di un delirio di onnipotenza o di un senso di frustrazione, dell’euforia o della rabbia, ipotesi che rimangono aperte e che non necessariamente si escludono totalmente l’un l’altra, mi sembra che ci sia comunque un punto fermo: e cioè che la dimensione dello sterminio, già insita nella cultura nazista, divenne proprio nel contesto della guerra contro l’Unione sovietica un’opzione tranquillamente accettata e praticata. Si sterminarono gli slavi e si sterminarono gli ebrei, perché inutili o pericolosi. Ma prima di allora erano stati sterminati oltre 70.000 malati mentali, tedeschi, questa volta, e non appartenenti a razze inferiori, ma comunque “lebensunwerte Leben”, vite senza valore13. E poi sarebbe venuto il momento degli Zingari.

     


    Fig. 4. “Il trasporto del ricordo”, è il titolo del monumento eretto a Pirna, una delle località tedesche dove, fra il 1940 e il 1941, si compì l’Aktion T4, con l’uccisione sistematica di oltre 70mila malati psichici

     

    Questi stermini, pur tanto diversi fra loro nelle motivazioni e nelle modalità di esecuzione, hanno in comune il fatto di essere  “normali”. Se fra una deportazione e uno sterminio diretto esiste un salto di qualità, esiste però anche, ed è forse più importante, un elemento di continuità, se osserviamo queste due strategie dal punto di vista nazista, per i quali l’obiettivo era quello di una pulizia etnica del Reich e dell’Europa occidentale, eliminandone la presenza ebraica, e di una pulizia ancora più radicale, un vero e proprio svuotamento etnico, nei territori dell’est. La scelta delle due opzioni, deportazione o sterminio, non rappresentava tanto un salto culturale, la brusca radicalizzazione di una strategia, ma dipendeva piuttosto dalla loro efficacia e dalla loro praticabilità. In questo senso la guerra contro l’Unione sovietica, che faceva aumentare considerevolmente il numero degli ebrei nella zona di influenza tedesca, ma rendeva impraticabile, almeno a breve, l’opzione di una deportazione al di là degli Urali, fece diventare l’opzione dello sterminio come l’unica praticabile.

     

    Tra le letture più recenti, si consigliano

    Enzo Traverso, Simon Levi Sullam, Marcello Flores, Marina Cattaruzza (a cura di), Storia della Shoah, Torino, UTET, 2005-2006
    Christopher Browning, Le origini della soluzione finale: l'evoluzione della politica antiebraica del nazismo: settembre 1939-marzo 1942, Milano, Il Saggiatore, 2008

     

    Note

    1. Cfr. DIETRICH EICHHOLTZ, Geschichte der deutschen Kriegswirtschaft 1939-1945, II, Berlin, Akademie Verlag, 1985, pp. 434-435.

    2.  Bericht des Wirtschaftsstabes Ost, Gruppe Landwirtschaft vom 23. Mai 1941: Richtlinien für die Wirtschaftspolitik zur Ausnutzung russischer Quellen für die Ernährung der deutschen Wehrmacht und zum Teil für die deutsche Zivilbevölkerung (doc. 126 EC), in Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher vor dem Internationalen Militärgerichtshof. Nürnberg 14. November 1945 - 1. Oktober 1946, Nürnberg, 1949, XXXVI, pp. 135-157, qui pp. 144-145.

    3.  CHRISTIAN STREIT, Keine Kamaraden. Die Wehrmacht und die sowjetischen Kriegsgefangenen 1941-1945, Bonn, Verlag J.H.W. Dietz Nachf., 1991, p. 136.
    4.  Ibidem, p. 244.

    5.  Bericht über eine Inspektionsreise Seyss-Inquarts in Polen vom 17. bis 22. November 1939  (doc.  2278-PS), in Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher..., cit.,  XXX, pp. 84-101, qui p. 95.
    6.  Cfr. PHILIPPE BURRIN, Hitler and the Jews. The Genesis of the Holocaust, London, Melbourne,Auckland, Edward Arnold, 1994, p. 110 (ed. orig. Hitler et les juifs. Genèse d’un génocide, Paris, Seuil, 1989).
    7.  Cfr. GERT ROBEL, Sowjetunion, in Dimension des Völkermords. Die Zahl der jüdischen Opfer des Nationalsozialismus, a cura di Wolfgang Benz, München, Oldenbourg, 1991, p. 543.
    8.  Cfr. Einsaztgruppen, in Enzyklopädie des Holocaust, München - Zürich, Piper, I, 1995, p. 399. L’edizione originale di questa enciclopedia è stata pubblicata contemporaneamente in ebraico in Israele, col titolo  Entsiklopedja shel ha-shoa, e in inglese negli USA, col titolo Encyclopedia of the Holocaust.
    9.  CHRISTOPHER BROWNING, L’origine de la solution finale: du contexte militaire et politique à la prise de décision (1939-1941), in La politique nazie d’extermination (a cura di François Bédarida), Paris, Albin Michel, 1989, pp. 156-176.
    10.   Auftrag Görings an Heydrich vom Juli 1943 zur Vorbereitung einer Gesamtlösung der Judenfrage im deutschen Einflussgebiet in Europa (doc. 710-PS), in Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher..., cit.,  XXVI, pp. 266-267.
    11.  ARNO MAYER, Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea, Milano, Arnoldo Mondadori, 1990, pp. 242-243 (ed. orig. Why Did the Heavens not Darken? The “Final Solution” in History, New York, Pantheon Books, 1988).
    12.  ARNO MAYER, La “solution finale” dans l’histoire, Paris, Éditions La Découverte, 1990,  p. VI.
    13.   Cfr. MICHAEL BURLEIGH, WOLFGANG LIPPERMANN, Lo stato razziale, Germaia 1933-1945, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 127-151.

  • La shoah spiegata ai ragazzi

     Autore: Antonio Brusa

     

     

     

    Ricavo dal libro di Francesca Romana Recchia Luciani quelle che mi sembrano “le conoscenze storiche essenziali per la giornata della memoria”, un momento che molti (della scuola come dell’Università) vorrebbero smettesse i panni della celebrazione e della commemorazione per acquistare quelli dello studio.

    Per realizzare questo obbiettivo occorre costruire la profondità temporale della Shoah. Questa si articola su tre livelli. I tempi lunghissimi dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo, che accompagnano l’intera storia del cristianesimo e delle società che a questa religione si rifanno. I tempi intermedi della scientifizzazione del concetto di razza (e quindi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento). Il tempo breve, infine, quello dei dodici anni dell’esperienza nazista.

    Zoomando su quest’ultimo periodo, si osserva il percorso che conduce alla “Soluzione finale”, e quindi a Auschwitz. Anche questo è un percorso niente affatto lineare. Le sue prime mosse sono quelle della violenza diffusa che culmina con le rapine, le botte e le uccisioni della Notte dei Cristalli. Poi si cambia registro. Basta violenza nelle città, i nazisti provano a utilizzare le strutture dello stato: leggi e burocrazia. Gli ebrei vengono censiti, segregati, spogliati progressivamente, messi ai margini della società, costretti a emigrare. L’entrata in guerra – infine -  mette i nazisti di fronte agli ebrei dell’Europa orientale. Fino ad allora se l’erano vista con gli appena 500 mila ebrei interni, ora devono vedersela con i milioni di ebrei slavi, ungheresi,  baltici.

    Ci si avvia alla fase finale. Anche questa segue un percorso tortuoso. Fermo dal punto di vista ideologico, si avvale di soluzioni empiriche, messe a punto qua e là: la logistica, sperimentata da Eichmann in Austria; le uccisioni di malati e di portatori di handicap; gli omicidi di massa degli ebrei, ai quali si danno sia gli Einsatzgruppen, sia le popolazioni civili; l’uso dei gas di scarico dei camion; il complesso dei campi di concentramento che, fin da subito, il regime ha cominciato a costruire.

    Sulle sponde del Wannsee, nel gennaio del 1942, si tirano le somme di queste pratiche dell’orrore. Tutte insieme concedono ai nazisti il potere di sterminare un popolo. In questa impresa, essi profondono ricchezze, uomini, strutture, industrie, capacità organizzative collettive e individuali. Costruiscono una macchina così possente e funzionale che continua a produrre morte anche quando le loro armate si ritirano sconfitte. Un’impresa ciclopica che li mette in grado di “dimostrare -  sono parole di Goebbels  - che tutto è possibile”.

    Messa a punto la contestualizzazione,  si entra nell’universo concentrazionario, un termine - ormai passato nell’uso storiografico - con il quale si sottolinea il fatto che esso era costituito da una rete fitta di campi, che innervava sia la Germania, sia molti dei territori conquistati, dall’Italia fino alla Polonia. Campi di diverso genere, da quelli destinati alla raccolta e al transito, alla detenzione, al lavoro, fino a quelli specializzati nello sterminio, con un gradiente di violenze – tuttavia - che faceva sì che l’omicidio e la morte per fame o per stenti fossero di casa ovunque.

    Questo universo ha uno scopo che persegue con determinazione. Non si tratta, soltanto, di uccidere. Occorre produrre un essere meritevole di essere ucciso. Occorre “dimostrare” che l’ebreo è un subumano. Questo universo, dunque, lo “produce”.  Lo fa creando un clima di sofferenze, di privazioni, di perdita di identità, di routine della violenza che conducono l’individuo a perdere tutto ciò che lo rende umano. Facendogli percorrere l’ultimo tratto della sua vita in una terra che ricrea l’inferno, con la sua logica capovolta: premiare i cattivi, punire i buoni. Il “mussulmano”, parola che Primo Levi ci ha fatto conoscere, è l’abitante di questo inferno.

    Attraversarlo per intero  in classe è impossibile. Bisogna scegliere e focalizzare la propria attenzione. Francesca Romana indica tre luoghi -  Teresienstadt, Varsavia, Auschwitz – quali esempi di “studi di caso” capaci di illustrare la varietà delle situazioni storiche;  e due personaggi, Primo Levi e Hanna Arendt, perché non solo ci parlano dell’orrore, ma pongono le basi per tematizzare il nostro rapporto con quei fatti. Quello che ci conduce alla giornata del 27 gennaio, momento nel quale si affronta la questione, vitale per la formazione storica dei cittadini, dell’educazione della memoria.

     

    Francesca R. Recchia Luciani, La Shoah spiegata ai ragazzi,il melangolo, Genova 2014

  • La storia alla radio: i podcast di storia della Rai. Da Napoleone al Muro di Berlino

    di Antonio Prampolini

    La storia non solo possiamo “leggerla” sui libri, le riviste e i giornali (in formato cartaceo o digitale), “guardarla” al cinema, alla televisione o sui video, che circolano numerosi in Internet, ma possiamo anche “ascoltarla” nelle registrazioni audio.

    Nei podcast, come ha osservato acutamente Enrica Salvatori, sottolineandone le potenzialità, «la narrazione storica viene “recitata”, riportata alla dimensione uditiva, che in quanto tale ha stili, effetti speciali, pause e ritmi suoi propri» funzionali ad una comunicazione più partecipata e coinvolgente dei contenuti.

  • La storia contemporanea nel Web. L’esempio della Germania: il Centro per la storia contemporanea di Potsdam.

    di Antonio Prampolini

    Prampolini Zeitgeschichte Digital immagine 1Fig.1: logo del Leibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung Potsdam (ZZF) Fonte1. L’istituto di ricerca

         IlLeibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung Potsdam (ZZF) è un istituto di ricerca interdisciplinare creato nel 1996 con sede in Germania a Potsdam (capoluogo del Brandeburgo). Studia la storia contemporanea tedesca ed europea del XX secolo e i suoi effetti fino ai giorni nostri. L’attività scientifica dell’istituto è organizzata in dipartimenti (attualmente quattro) che si dedicano ciascuno ad una specifica area tematica: Comunismo e società,Storia dell'economia, Storia della società, Storia dei media e della società dell'informazione.

    Le ricerche e le pubblicazioni dell’istituto riguardano in particolare: 

    - la “Guerra fredda”

    - le crisi e il crollo dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est

    - la storia della Repubblica Democratica Tedesca (DDR).

     

     

     

     

     

     

     

    Prampolini Zeitgeschichte Digital immagine 2Fig.2: homepage del portale Zeitgeschichte Digital Fonte2. Il portale

       L’istituto è presente in rete con un’ampia e articolata offerta open access di informazioni e riflessioni sulla storia contemporanea. Attraverso il portale Zeitgeschichte Digital (Storia Contemporanea Digitale) è possibile accedere ai siti dello ZZF:

    -      Docupedia-Zeitgeschichte

    -     Zeithistorische Forschungen

    -     Zeitgeschichte online

    -     ZZF e-Dok-Server

                                                                                 -     Visual History

    Il portale mette a disposizione degli utenti un catalogo di tutti gli articoli online pubblicati dall‘istituto nei diversi siti. Gli articoli possono essere ricercati con differenti modalità (per Autori/autrici, Argomenti, Anni/periodi storici, Stati/territori, Siti di pubblicazione), attivabili sia separatamente che collegate fra di loro. Ad esempio, scegliendo l‘argomento antisemitisno, si può circoscrivere la ricerca (tra le varie opzioni) agli Anni Venti o agli Anni Trenta del Novecento, all‘Europa Occidentale o a quella Orientale.

    Gli articoli vengono visualizzati a mosaico (segundo l‘ordine cronologico inverso di pubblicazione) in una schermata-indice che riporta per ciascuno un‘immagine-icona accompagnata dalle tradizionali informazioni bibliografiche (autori, titolo, sito e data di pubblicazione). Selezionando un articolo si accede ad una scheda con le prime righe del testo, la didascalia e la fonte dell‘immagine-icona, la segnalazione degli articoli correlati consultabili online sui siti ZZF, le classificazioni tematiche, geografiche e cronologiche (oltre alle informazioni già contenute nella schermata-indice e agli estremi per la citazione dell‘articolo).

    Dalla scheda si accede al testo completo dell‘articolo.

    Gli articoli sono pubblicati prevalentemente in lingua tedesca (gli utenti possono sempre attivare il traduttore online di Google, che in questo caso fornisce una versione in lingua italiana dei testi nel complesso accettabile).

     

     

    Prampolini Zeitgeschichte Digital immagine 3Fig.3: logo di Docupedia-Zeitgeschichte Fonte3. Un’enciclopedia storica rivolta a tutti

        Docupedia-Zeitgeschichte (Docupedia – Storia Contemporanea) è il sito ZZF che si rivolge ad un pubblico più vasto di quello degli specialisti del settore per trasmettere le conoscenze di base relative alla storia contemporanea e per documentare i dibattiti sui fondamenti metodologici e teorici della ricerca storica. Contiene articoli autoriali suddivisi in sette categorie: Fondamenti(Grundlagen), Concetti (Begriffe), Metodi (Methoden), Campi di ricerca (Forschungsfelder), Dibattiti (Debatten), Paesi (Länder), Storici (Klassiker).

     

    Appartengono alla prima categoria Fondamenti (Grundlagen), insieme ad altri, gli articoli:

    -     Modelli teorici della storia contemporanea (Theoriemodelle der Zeitgeschichte) di Stefan Haas. L’autore, dopo avere riconosciuto l’importanza della teoria nel definire la logica progettuale e funzionale della ricerca storica, spiega i diversi modelli teoriciutilizzabili dagli storici dell’età contemporanea.

    -      Narrazione e narratologia. Teorie narrative nella storiografia(Narration und Narratologie. Erzähltheorien in der Geschichtswissenschaft) di Achim Saupe e Felix Wiedemann. Gli autori affrontano le teorie narrative e le loro applicazioni negli studi storici.

    -      Storia contemporanea e Digital Humanities (Zeitgeschichte und Digital Humanities) di Peter Haber. L’autore traccia lo sviluppo delle Digital Humanities e si chiede se la digitalizzazione ha cambiato solo la qualità e la quantità delle fonti o anche l'intero processo di lavoro degli storici contemporanei.

    -      Didattica della storia (Didaktik der Geschichte) di Lars Deile. Per l’autore la didattica della storia riguarda la visibilità del passato nel presente.  Del passato rimangono solo dei frammenti. Attraverso le domande del presente questi frammenti possono diventare una fonte di conoscenza.

     

    Alla seconda categoria, Concetti (Begriffe), appartengono, insieme ad altri, gli articoli:

    -      Tempo e concezioni del tempo nella storia contemporanea(Zeit und Zeitkonzeptionen in der Zeitgeschichte) di Rüdiger Graf. L’autore, dopo avere introdotto il concetto del tempo alla luce delle teorie più recenti, afferma che la storiografia dovrebbe occuparsi maggiormente delle connessioni tra passato, presente e visioni del futuro.

    -      Cittadino, Borghesia, Attitudini borghesi (Bürger, Bürgertum, Bürgerlichkeit) di Manfred Hettling. Nel suo contributo l’autoreapprofondisce il concetto di "cittadino", la formazione sociale della "borghesia", il suo modello culturale, e presenta gli approcci e i metodi della ricerca storica sull’argomento.

    -      Burocrazia (Bürokratie) di Peter Becker. L’autore ricostruisce i cambiamenti di significato del temine “burocrazia” nel corso dei secoli XIX e XX e analizza i nuovi indirizzi storiografici che la riguardano.

    -      Antisemitismo e ricerca sull’antisemitismo (Antisemitismus und Antisemitismusforschung) di Wolfgang Benz. Nell’articolo viene descritta la storia dell'antisemitismo dal primo Medioevo al XXI secolo. L’autore fornisce una panoramica dei vari metodi e modelli esplicativi utilizzati nella ricerca interdisciplinare sull'antisemitismo.

    -      Fordismo (Fordismus) di Rüdiger Hachtmann. L’autore descriveil pensiero el’ideologia di Henry Ford e ladiffusione del termine “fordismo”,approfondendone i livelli di significato più importanti.

    -      Fascismo – Concetto e teorie (Faschismus – Begriff und Theorien) di Fernando Esposito. L’autoreprende in esame ilsignificato del termine fascismo alla luce dell’attuale uso/abuso da parte dei media e della politica e discute gli approcci delle più recenti ricerche sul fascismo.

    -      Antifascismo. Concetto, storia e campo di ricercanell'Europa occidentale (Antifaschismus. Begriff, Geschichte und Forschungsfeld in westeuropäischer Perspektive) di Jens Späth. L'articolo fornisce, con un’ottica comparativa transnazionale, una panoramica della storiadell’antifascismonell’Europa occidentale.

    -      Anticomunismo (Antikommunismus) di Bernd Faulenbach. L’autore analizza l’anticomunismo dal 1917 al 1989-91 considerandolo una irrinunciabile categoria interpretativa della storia del Novecento.

     

    Alla terza categoria, Metodi(Methoden), appartengono, insieme ad altri, gli articoli:

    -      Storia Globale (Global History) di Dominic Sachsenmaier. L’articolo spiega come la “Global History” si identifica con una vasta gamma di approcci di ricerca che vanno dalla storia economica alla storia culturale e dalla storia di genere alla storia ambientale, caratterizzati da un crescente interesse per concezioni alternativeal nazionalismo metodologico e all'eurocentrismo.

    -      Storia Visiva (Visual History) di Gerhard Paul. Per l’autore, che è uno dei fondatori della “Visual History” nell’ambito della storia moderna e contemporanea, le immagininon sono solo “fonti”ma anche “oggetti indipendenti”dellastoriografia.

    -      Storia Culturale – (Kulturgeschichte) di Achim Landwehr. L’articolo offre una breve panoramica della Storia Culturalesottolineando come essa abbia risposto alle nuove sfide politiche e sociali dagli anni '90.

    -      Storia dei Media (Mediengeschicte) di Frank Bösch e Annette Vowinckel. Nell’articolo viene analizzato il ruolo che i media giocano nella ricerca interdisciplinare sulla storia contemporanea.

    -      Storia sociale e Scienze sociali storiche (Sozialgeschichte und Historische Sozialwissenschaft) di Klaus Nathaus. L’autore prende in esame le macroaree in cui la storia socialetrova oggi applicazione offrendo un utile orientamento in un campo di ricerca assai vasto.

     

    Alla quarta categoria, Campi di ricerca (Forschungsfelder), appartengono, insieme ad altri, gli articoli:

    -     Storia dei lavoratori (Arbeitergeschichte) di Peter Hübner. L’articolo spiega in una prospettiva interdisciplinare i vari aspetti della “Storia dei lavoratori”, che coinvolge la storia del lavoro, della classe operaia e del movimento operaio.

    -      Storia afroamericana (Afroamerikanische Geschichte) di Christine Knauer. L’autricetraccia la genesi della storiografia afroamericana e fa riferimento alla stretta connessione tra storiografia, lotta per la libertà e movimento per i diritti civili nel XIX e soprattutto nel XX secolo.

    -      Ricerca biografica storica (Historische Biografieforschung) di Levke Harders. In questo contributo l’autrice, dopo avere offerto una panoramica dello sviluppo delle biografie nelle scienze storiche di lingua tedesca e inglese, prende in esame le attuali ricerche biografiche.

    -      “Guerra fredda” (Kalter Krieg und “Cold War Studies”) di Bernd Greiner. L‘autore,analizzandogli studi sulla “Guerra fredda” emersi negli ultimi dieci anni,evidenzia come il campo di ricerca si stiaemancipando dalla prospettiva storicalimitata alla politica delle due superpotenze (USA e URSS) per interrogarsi sul ruolo dei piccoli attori della scena internazionale.

     

    Fanno parte della quinta categoria Dibattiti (Debatten), insieme ad altri, gli articoli:

    -      Potere carismatico e nazionalsocialismo (Charismatische Herrschaft” und der Nationalsozialismus) di Rüdiger Hachtmann. L’articolo prende in esame il modello idealtipico del sociologo tedesco Max Weberper applicarloal regime nazista, mostrandone i limiti e riconoscendone, allo stesso tempo, i meriti.

    -      La “disputa degli storici” (Der Historikerstreit) di Klaus Große Kracht.Per l’autore la “Historikerstreit” (il dibattito pubblico oltre che scientifico che ha avuto inizio nell'estate del 1986 a seguito di un articolo del filosofo sociale Jürgen Habermas sul settimanale di Amburgo "Die Zeit") rappresenta un importante punto focale all'interno della cultura politica della Repubblica federale di Germania negli anni '80.

    -      Storia vivente (Living History) di Juliane Tomann. L’autrice passa in rassegna le varie definizioni, forme ed espressioni della “Living History” sia negli Stati Uniti che in Europa.

     

    Della sesta categoria, Territori (Länder), fanno parte, insieme ad altri, gli articoli:

    -      Francia: Histoire du Temps présent tra problemi nazionali e apertura internazionale(Frankreich - Histoire du Temps présent zwischen nationalen Problemstellungen und internationaler Öffnung) di Rainer Hudemann.L’autore, in qualità di osservatore esterno, individua alcune aree problematiche importanti per lo sviluppo della Histoire du temps présent e ne presenta la forza innovativa e la diversificata produzione tematica.

    -      Gran Bretagna: "Storia contemporanea" oltre il consenso e il declino (Großbritannien - "Contemporary History" jenseits von Konsens und Niedergang) di Detlev Mares. L’articolo offre una panoramica dei problemi centrali della periodizzazione della ricerca storica contemporanea in Gran Bretagna.

    -     Spagna: Tra memoria e storia contemporanea  (Spanien – Zwischen Erinnerung und Zeitgeschichte) di Walther L. Bernecker e Sören Brinkmann.Gli autori esaminano la gestione della storia contemporanea in Spagna alla luce l'elaborazione dei due grandi eventi del Novecento: la guerra civile eil passaggio alla democrazia.

     

    Della settima e ultima categoria, Storici (Klassiker), fanno parte, insieme ad altri,  gli articoli:

    -      Max Weber e la storia contemporanea (Max Weber und die Zeitgeschichte) di Gangolf Hübinger. L’articolosi interroga sull’importanza e sull’attualitàdi Max Webernello studio della storia contemporanea.

    -      Raul Hilberg. “Fantasia della Buocrazia”. Studio pionieristico sullo sterminio degli ebrei europei (Raul Hilberg. “Phantasie der Bürokratie”. Pionierstudie zur Vernichtung der europäischen Juden) di Nicolas Berg. L’autore racconta la vita e gli studi di Raul Hilberg, storico statunitense di origini austriache, autore della monografia The Destruction of the European Jews, pubblicata per la prima volta nel 1961.

    -      Francis Fukuyama e la “Fine della storia” (Francis Fukuyama und das "Ende der Geschichte” di Stefan Jordan. In questo contributo l’autore discute la tesi di Fukuyama così come i dibattiti sul suo libroThe End of History and the Last Man (1992).

     

    Oltre a questa suddivisione, Docupedia-Zeitgeschichte raggruppa gli articoli in tre macroaree (Cluster): Ricerca sul Comunismo (Kommunismusforschung), Ricerca sul Nazionalsocialismo (Nationalsozialismus-Forschung), Storia Pubblica – Storia Applicata (Public History - Applied History).

     

    Nel sito DZ è sempre possibile (come pure nel portale Zeitgeschichte Digital) effettuare ricerche per Autori/autrici e per Argomenti, oltre a ricerche testuali libere.

    Docupedia-Zeitgeschichte non segue un piano editoriale predefinito, è un progetto dinamico, aperto alle proposte e ai contributi degli storici. In continua crescita, dai 20 articoli del febbraio 2010 - quando il sito è stato messo online - agli attuali 169  (15/12/2020). Gli autori che hanno contribuito al progetto con i loro articoli dal 2010 ad oggi sono 155.

    Il riferimento a Wikipedia è implicito, oltre che nel nome, nell’utilizzo dello stesso software open source MediaWiki(che permette di supportare processi editoriali snelli e in continuo aggiornamento), nella possibilità di partecipazione dei lettori, a cui viene offerto uno spazio per i commenti agli articoli pubblicati (Kommentar) e per le discussioni sui temi trattati (Debatten), nella modifica degli articoli dopo la loro pubblicazione, nell’accesso libero e gratuito ai testi e nel loro utilizzo. Ma allo stesso tempo ci sono grandi differenze tra le due “enciclopedie”: gli articoli (come pure i commenti e gli interventi nelle discussioni) in Docupedia non sono anonimi (o individuati da pseudonimi) come in Wikipedia e sono sottoposti, prima della loro pubblicazione, a unprocesso di valutazione(peer review) o all’autorizzazione redazionale.

     

    Docupedia(che è un’opera di reference specialistica) propone contributi concisi e panoramiche sulla storia/storiografia contemporanea, in grado di fornire un corretto orientamentoin un contesto scientifico e di stimolare ulteriori approfondimenti. Ciò che, invece, è l’eccezione e non la regola nelle voci di Wikipedia dedicate alla storia.

     

     

    Prampolini Zeitgeschichte Digital immagine 4Fig.4: copertina della rivista Zeithistorische Forschungen, n. 1/2019 Fonte4. “Zeithistorische Forschungen”: la rivista

         Zeithistorische Forschungen / Studies in Contemporary History” - ZF / SCH (Ricerche di Storia Contemporanea) è una rivista bilingue (tedesco/inglese) pubblicata in formato cartaceo con cadenza quadrimestrale e accessibile liberamente in rete dal 2004. La rivista propone articoli sulla storia contemporanea tedesca, europea e globale. La “Guerra fredda” e i media audiovisivi del XX e XXI secolo (origine, natura, ricezione, effetti) costituiscono i focus privilegiati della rivista. Tra i temi affrontati rientraanche l’attualità, esaminata però in una prospettiva storica.

    Il sito web consente ricerche sui numeri quadrimestrali della rivista dal 2004 ad oggi (Archiv), sugli autori (Autorenregister), sulle rubriche/categorie (Rubrikenregister), sulle parole chiave/tag (Sclagwortregister).

    Tra gli articoli pubblicati sugli ultimi numeri della rivista disponibili online (2019-2020/2) segnaliamo:

     

    Sulla storia sanitaria:

    -     La salute come investimento. La doppia storia dell’economia sanitaria(Gesundheit als Investment. Die doppelte Geschichte der Gesundheitsökonomie) di Martin Lengwiler. Indice: 1. All'ombra delNew Deal: la genesi dell'economia sanitaria; 2. Dall'efficienza dei costi al nuovo universalismo: approcci economici nell'OMS; 3. Distanza dall’economia neoclassica: l’economia sanitaria in Occidente.

    -      Sul mercato. L'ospedale tedesco - Schizzi per una storia del tempo presente (Auf dem Markt. Das bundesdeutsche Krankenhaus – Skizzen zu einer Gegenwartsgeschichte)di Richard Kühl e Henning Tümmers. Indice: 1. L'ospedale malato; 2. Più mercato; 3. Concorrenza come ordine e principio di ottimizzazione; 4. Outlook.

     

    Sulla diversità:

    -    Diversità. Prospettive storiche su un termine chiave del presente (Diversität. Historische Perspektiven auf einen Schlüsselbegriff der Gegenwart) di Georg Toepfer. Indice: 1. La lunga storia della diversità; 2. Diversità nel XX secolo; 3. I quattro paradigmi della diversità.

     

    Sulle fonti digitali:

    -     Studi sulle fonti digitali. Compiti futuri delle scienze storiche di base (Digitale Quellenkunde. Zukunftsaufgaben der Historischen Grundwissenschaften) di Nicola Wurthmann e Christoph Schmidt. Indice: 1. Una nuova scienza delle fonti digitali; 2. Implicazioni del continuo cambiamento dellefonti digitali; 3. Garanzia di fonti digitali affidabili einalterate; 4. Prospettive: valutare con competenza le fonti digitali autentiche.

     

    Sul processo di Norimberga:

    -     Voci nella testa. Ascolto e partecipazione ai processi di Norimberga, 1945-1949(Stimmen im Kopf. Mithören und Mitmachen in den Nürnberger Prozessen, 1945–1949)di Kim Christian Priemel. Indice: 1. Il suono nell’immagine; 2. Traduzioni; 3. Ilpaesaggio sonoro di Norimberga; 4. L’uso delle cuffie; 5. Ascoltare correttamente.

     

    Sul Gioco e sulla Guerra Fredda:

    -     Giocare alla “Guerra fredda”. Giochi da tavolo e per computer nel confronto tra sistemi (Den Kalten Krieg spielen. Brett- und Computerspiele in der Systemkonfrontation) diFlorian Greiner e Maren Röger. Indice: 1. Il gioco come fattore economico e tecnica culturale in tempi di confronto tra i blocchi;2. Giochi competitivi? La guerra fredda come competizione; 3. I giochi come mezzo di identificazione - confronto tra i blocchi e cultura nazionale; 4. Giochi di resistenza - Critica sociale nella "Seconda Guerra Fredda"; 5. Ansia per la limitazione del gioco: i giochi come pericolo; 6. Conclusione.

     

    Prampolini Zeitgeschichte Digital immagine 5Fig.5: screenshot della piattaforma digitale Zeitgeschichte online Fonte5. Zeitgeschichte online: la piattaforma digitale

       Zeitgeschichte online (Storia Contemporanea online)fornisce informazioni sulle nuove tendenze della ricerca e sui dibattiti in corso in materia di storia contemporanea, con l’obiettivo principale di farli conoscere al di fuori della comunità degli storici. I contributi e i dossier pubblicati sulla piattaforma analizzano le questioni politiche, culturali e sociali del presente, contestualizzandole storicamente, e riflettono in particolare su come vengono affrontate dai media.

    Il sito si presenta con una homepage colorata, dove i contributi e i dossier sono identificati, in ordine cronologico inverso, da riquadri con immagini e/o titoli, con i nomi degli autori e le date di pubblicazione. Cliccando sui riquadri è possibile accedere ai testi con le relative classificazioni (e liste dei tag) tematiche, geografiche e cronologiche.

     

    Tra i i contributi e i dossier più recenti, segnaliamo:

    -      Storicizzazione di una Icona. Willi Brandt in ginocchio a Varsavia 50 anni fa (Historisierung einer Ikone. Willy Brandts Kniefall in Warschau vor 50 Jahren) di Kristina Meyer;

    -      Ora sappiamo tutto. Un dossier sulla situazione attuale in Bielorussia(Jetzt kennen uns alle*. Ein Dossier zur gegenwärtigen Situation in Belarus) diMelanie Arndt e Annette Schuhmann;

    -      Ricerca sull'antisemitismo come progetto politico (Fragen über Fragen. Antisemitismusforschung als politisches Projekt) diChristian Mentel;

    -     Gli USA nella storia contemporanea. Una raccolta di materiale sulle elezioni presidenziali statunitensi del 3 novembre 2020(Die USA in der Zeitgeschichte. Eine Materialsammlung zur US-Präsidentschaftswahl am 3. November 2020) di Alina Müller;

    -      La memoria dell'Olocausto ai tempi del COVID-19. Un inventario (Die Erinnerung an den Holocaust in Zeiten von COVID-19. Eine Bestandsaufnahme) di Tobias Ebbrecht-Hartmann;

    - Immagini della liberazione. Rappresentazioni dell'8 maggio e 75 anni di cultura della memoria(Bilder der Befreiung. Perspektiven auf den 8. Mai und 75 Jahre Erinnerungskultur), dossier a cura di Sophie Genske e Rebecca Wegman.

     

    6. ZZF e-Dok-Server: l’archivio

       Il Leibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung (ZZF) offre l'opportunità di pubblicare (previa autorizzazione) documenti attinenti la storia contemporanea su un proprio server dedicato. I documenti possono essere: libri o parti di libri, articoli di  riviste, pubblicazioni digitali.

    E' possibile impostare le ricerche con diverse modalità: Ricerca Avanzata (Advanced Search: Author(s), Title, Additional Person(s), Referee(s), Abstract, Fulltext, Year(s)); Tutti i Documenti (All documents); Ultimi Documenti (Latest documents).

    La navigazione può essere circoscritta ai differenti tipi di documenti archiviati (Browse documents by type) e agli anni di pubblicazione (Browse documents by year).

     

    Prampolini Zeitgeschichte Digital immagine 6Fig.6: fotografia di Klaus Bergmann pubblicata su Visual History (articolo di Christine Bartlitz, 10/02/2020) Fonte7. Visual History: la storia per immagini

      L'indagine sulle immagini del passato è una parte importante dello studio della storia. Lo testimonia la nascita della Visual History come nuovo campo di ricerca.

    Per gran parte del Novecento gli studi storici sono stati principalmente studi testuali; solo negli ultimi decenni le immagini sono state sempre più incluse come fonti e, allo stesso tempo, come oggetto di indagine.

    Nel corso del 2013 lo ZZF di Potsdam ha messo in rete una piattaforma digitale dedicata specificatamente alla Visual History per fornire informazioni sulle attività degli storici e degli altri specialisti in tale ambito, per accogliere e diffondere i risultati dei loro studi, per approfondire i fondamenti teorici e metodologici della ricerca storica delle immagini.

    La piattaforma consente di effettuare ricerche per Rubriche (Rubriken): Archivi e collezioni (Archive und Sammlungen), Fonti (Quellenbestände), Progetti di ricerca (Forschungsprojekte), Dossier tematici (Themendossiers), Concetti e metodi (Konzepte und Methoden), Dibattiti (Debatten), Recensioni (Rezensionen); per Temi/tag(Themen); per Archivi (Archiv).

    I documenti/articoli vengono visualizzati in ordine cronologico inverso.

     

    Tra i Dossier tematici segnaliamo:

    -      Etica dell’immagine. Per gestire le immagini in Internet (Bildethik. Zum Umgang mit Bildern im Internet) a curadi Christine Barlitz, Sara Dellmann e Annette Vowinkel;

    -      Immagini antisemite – Produzione, Uso, Effetti (Antisemitische Bilder – Herstellung, Gebrauch, Effekte) a cura di Isabel Enzenbach.

     

    Tra gli Articoli nella rubrica/sezione Concetti e metodi:

    -      Immagini storiche nell’arte contemporanea. Strategie artistiche per mettere in discussione le immagini della storia dagli anni '90   (Geschichtsbilder in der Gegenwartskunst) di Melanie Franke;

     

    Tra i Progetti di ricerca:

    • L’immagine digitale (Das Digitale Bild). Il progetto (attivo dalla fine del 2019 sotto la guida congiunta di Hubertus Kohlen, e Hubert Locher) vuole contribuire a una migliore comprensione del ruolo delle immagini nello spazio digitale;
    • Storia visiva dell’Olocausto nell’era digitale(Visuelle Geschichte des Holocaust im digitalen Zeitalter). Il progetto (condotto dall'Istituto Ludwig Boltzmann per la storia digitale di Vienna) è focalizzato sulle possibilità e sui limiti delle tecnologie digitali nella conservazione, indicizzazione e comunicazione dei documenti dell’Olocausto;
    • Il colonialismo italiano nella cultura visuale e nella memoria familiare(Italian Colonialism in Visual Culture and Family Memory). Ricerca di dottorato di Markus Wurzer che, in primo luogo,esplora le pratiche fotografiche private, i loro legami con la cultura visiva coloniale e fascista e la loro partecipazione alla costruzione e diffusione della conoscenza della storia del colonialismo italiano. In secondo luogo, esamina il posto delle fotografie coloniali nella memoria familiare del dopoguerra.

    8. Dalla carta al Web

       Nell’offerta digitaledelLeibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung Potsdam(ZZF) sono rappresentate le diverse modalità organizzative e comunicative del sapere storico, da quelle tradizionali nate nel “mondo della carta” (l’enciclopedia, la rivista, l’archivio), alle nuove forme che appartengono al Web: il portale, la piattaforma digitale, il blog.

    Ciò che le accomuna è l’obiettivo di mettere in contatto la produzione del mondo accademico con un più vasto pubblico formato non solo da ricercatori, ma, anche e soprattutto, da insegnanti, studenti, divulgatori e appassionati di storia.

    Una produzione che, pur rimanendo fedele ai propri statuti disciplinari, deve essere consapevole della necessità di adeguarsi alle nuove esigenze comunicative e partecipative dell’era digitale di cui il Web si è fatto portatore.

  • La storia contemporanea nella Biblioteca digitale della Fondazione Feltrinelli

    di Antonio Prampolini

    Una biblioteca per tutti

    Biblioteca della Fondazione Feltrinelli1. Biblioteca della Fondazione Feltrinelli (Fonte)

    La digitalizzazione del patrimonio archivistico e bibliografico è un processo in forte crescita, che da anni coinvolge anche in Italia sia istituzioni pubbliche che private, la cui indubbia utilità al fine di una più agevole fruizione è stata evidenziata dalle recenti misure di lock down.

    La Fondazione Giangiacomo Feltrinelli è in prima fila in questo processo di digitalizzazione, e sul proprio sito, <https://fondazionefeltrinelli.it/>, offre agli utenti della rete, e in particolare agli insegnanti e agli studenti delle scuole italiane, una ricca documentazione sulla storia contemporanea, di grande interesse sia dal punto di vista divulgativo che didattico.

    Con la Biblioteca digitale la Fondazione permette di accedere a porzioni crescenti del proprio vasto patrimonio, proponendo percorsi di lettura collegati a specifici progetti di ricerca; ad oggi:

    Il Risorgimento e la costruzione dell’Italia

    La storia del Risorgimento italiano viene affrontata attraverso cinque percorsi di lettura:

    Camillo Benso di Cavour2. Camillo Benso di Cavour (1810-1861) – ritratto di Francesco Hayez (Fonte) Carlo Cattaneo3. Carlo Cattaneo (1801-1869) - xilografia (Fonte)

    Al centro del primo percorso, Diventare nazione (I linguaggi dell’identità nazionale), la nascita e la definizione dell’identità nazionale tra fine Settecento e gli anni Settanta dell’Ottocento nei diversi scenari politici e sociali del Risorgimento italiano, per evidenziare la specificità dei loro linguaggi: la comunicazione pubblica, la cultura popolare, la Chiesa cattolica e i sostenitori del suo primato, l’esperienza dell’esilio, la cultura politica di Cavour e quella di Felice Cavallotti. Il percorso propone in formato pdf la scansione di 85 documenti a stampa, tra cui: Silvio Pellico, Dei doveri degli uomini,1834; Vincenzo Gioberti, Il gesuita moderno, 1846-1847; Massimo D’Azeglio, Proposta d’un programma per l’opinione nazionale italiana, 1847; Giuseppe Mazzini, La rivoluzione italiana, 1851 e La questione italiana e i repubblicani, 1861; Cavour, Discorsi alla Camera dei deputati e al Senato del regno, 1860-1861; Felice Cavallotti, Opere,1881-1885.

    Tema del secondo percorso, Costruire la nazione (Gli economisti nell’Italia Risorgimentale), è il “modello di sviluppo” indagato attraverso testi in cui il dibattito sul progetto politico e la discussione sulle questioni economiche s’intrecciano in un’unica riflessione. Tra i 55 testi digitalizzati, segnaliamo: Antonio Scialoja, I principi dell’economia sociale, 1840 e Carestia e governo, 1853; Nicolò Tommaseo, Delle nuove speranze d’Italia: presentimenti,1848; Stefano Jacini, Gli interessi cremonesi e lombardi nella questione delle strade ferrate, 1856; Cavour, Ouvrages politiques-economiques, 1858; Francesco Ferrara, La tassa sul macinato: dev’ella abolirsi, mantenersi o riformarsi? Considerazioni, 1871; Quintino Sella, Sulla discussione del progetto di legge per modificazioni della legge sulla tassa del macinato, 1878; Carlo Cattaneo, Proemi e considerazioni, in Scritti politici ed epistolario, 1892 – 1901.

    Stefano Jacini4. Stefano Jacini (1826-1891) - ritratto (Fonte) Luigi Luzzatti5. Luigi Luzzatti (1841-1927) - foto (Fonte)

    Nei documenti (187) del terzo percorso, Essere italiani (Conoscenza e sviluppo economico), ritorna la riflessione sull’organizzazione dell’economia, sulla conoscenza del territorio, sulla costruzione del mercato nazionale. Tra questi segnaliamo: Melchiorre Gioia, Nuovo prospetto delle scienze economiche, 1815-17; Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi, Histoire des républiques italiennes du Moyen-âge, 1818; Cosimo Ridolfi, D'alcune osservazioni economico agrarie relative all'Italia superiore, 1829 e Considerazioni sull'industria e specialmente sull'agricoltura, 1834; Gino Capponi, Sui vantaggi e svantaggi sì morali che economici del sistema di mezzeria, 1833; Carlo Cattaneo, Sismondo de' Sismondi, 1842; Marco Minghetti, Della proprietà rurale e dei patti fra il padrone ed il lavoratore, 1842-44; Carlo Berti Pichat, Della inopportunità di un codice agrario, 1847-48; Angelo Marescotti, Sugli economisti italiani del nostro secolo, 1853; Stefano Jacini, La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia : studj economici, 1856 e Sulle opere pubbliche d'Italia nel loro rapporto collo stato, 1869.

    Anna Maria Mozzoni6. Anna Maria Mozzoni (1837-1920) - foto (Fonte)

    Il quarto percorso, Fare gli italiani (Politica e società da Garibaldi al mutualismo), è dedicato ai nodi strutturali della società civile in Italia: i processi di auto-organizzazione, di tutela e di mutualismo, che riguardano il mondo del lavoro, l’emergere della questione meridionale. I documenti sono 113; tra questi: Ottavio Gigli, Scuole per il povero fondate e mantenute dalla famiglia Borghese: relazione, 1845; Leone Carpi, Del credito agrario e fondiario e delle casse di risparmio, lavoro e sussidi, 1854; Ignazio Cantù, Uno per tutti e tutti per uno: mutualità e cooperazione: libro pel popolo, 1871; Gustavo Strafforello, La quistione sociale ovvero capitale e lavoro: ammaestramenti e consigli agli operai, 1872; Giustino Fortunato, Le società cooperative di credito, 1877; Luigi Luzzatti, Previdenza libera e previdenza legale: studi, 1882; Francesco De Luca, I fasci e la questione siciliana, 1894; Sebastiano Cammareri Scurti, Il problema agrario Siciliano e la nazionalizzazione della terra. Volume 1, La lotta di classe in Sicilia, 1896.

    Nel quinto percorso, Gli “altri italiani” (Anarchici, socialisti, cattolici e cultura popolare), sono inclusi cinque documenti: Anna Maria Mozzoni, La questione della emancipazione della donna, 1871 e Del voto politico delle donne, 1877; Associazione internazionale dei lavoratori: Federazione italiana, Programma e regolamento della Federazione italiana della Associazione internazionale dei lavoratori, 1872; Tito Zanardelli, Discorso pronunziato al Secondo Congresso regionale italiano dell'Associazione internazionale dei lavoratori, 1873; Francesco Ivrea, Il Comune e la sua funzione sociale, 1902.

    La Grande Guerra

    Sulla storia della Grande Guerra (La Grande Trasformazione 1914-1918) il sito propone otto percorsi di lettura per indagare, con l’accesso diretto alle fonti, le premesse e le conseguenze politiche, economiche e sociali, ideologiche e culturali di quel tragico evento epocale che segna l’avvio del “secolo breve”:

    Cesare Battisti7. Cesare Battisti (1875-1916) - foto (Fonte) Woodrow Wilson8. Woodrow Wilson (1856-1924) - foto (Fonte)

    Il primo percorso, Patria (Identità, confini, nazioni), vuole indagare l’intreccio tra patriottismo e nazionalismo attraverso opere di scrittori e artisti, economisti e giuristi, geografi, giornalisti, politici e militari all’inizio e nel corso della Prima guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi. Le opere sono 89, e tra queste segnaliamo: Alfredo Rocco, Che cosa è il nazionalismo e cosa vogliono i nazionalisti, 1914; Filippo Carli, Le basi economiche della guerra, 1914; Cesare Battisti, Al parlamento austriaco e al popolo italiano, 1915; Luigi Einaudi, Preparazione morale e preparazione finanziaria, 1915; Maffeo Pantaleoni, Tra le incognite. Problemi suggeriti dalla guerra, 1917; Gabriele D’Annunzio, La riscossa, 1918 e Lettera ai Dalmati, 1919; Scipio Slataper, Il mio Carso, 1920; Benito Mussolini, Il mio diario di guerra (1915-1917), 1923; Filippo Tommaso Marinetti, Futurismo e fascismo, 1924.

    Tema del secondo percorso, Cittadini del mondo (Tra le nazioni e l’Europa), è il Vecchio Continente come sistema politico, come spazio intellettuale, come luogo del diritto, al centro delle grandi trasformazioni della modernità. Tra i 62 documenti che formano il percorso: Norman Angell, La grande illusione. Studio sulla potenza militare in rapporto alla prosperità delle nazioni, 1913 e La guerra e la natura umana, 1916; Arcangelo Ghisleri, La guerra e il diritto delle genti secondo la tradizione italiana, 1913; Romain Rolland, Al di sopra della mischia, 1916; Guglielmo Ferrero, La vecchia Europa e la nuova, 1918; Woodrow Wilson, La nuova libertà. Invito di liberazione alle generose forze di un popolo, 1919; Curzio Malaparte, L’Europa vivente, 1923.

    Antonio Salandra9. Antonio Salandra (1853-1931) - foto (Fonte) Cantieri navali Orlando10. Cantieri navali Orlando (Livorno), 1917 - foto (Fonte)

    I testi (72) del terzo percorso, Mobilitazione (Tutti in guerra, nessuno escluso), aiutano a ricomporre, nei suoi molteplici aspetti, il complesso quadro della mobilitazione totale. Tra questi: Benito Mussolini, La guerra per la libertà e per la fine della guerra. Lettera ai socialisti d'Italia, 1914; Antonio Salandra, "La nostra guerra è santa", 1915; Ugo Ojetti, L'Italia e la civiltà tedesca, 1915; Gaetano Salvemini, Guerra o neutralità?, 1915; Sidney Sonnino, Discorsi per la guerra, 1922; Luigi Einaudi, La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, 1933.

    Il quarto percorso, Industria (Produrre per la Grande Guerra), approfondisce gli aspetti economico-finanziari della guerra e, in particolare, il ruolo determinante dell’industria come “fabbrica della modernità”. I documenti che ne fanno parte sono 58; tra questi: Federico Chessa, Costo economico e costo finanziario della guerra, 1920; Felice Vinci, Come migliorare l'organizzazione del lavoro nelle nostre industrie, 1920; Umberto Ricci, Il fallimento della politica annonaria, 1925; Vincenzo Nitti, Saggio di scienza della produzione industriale, 1926.

    Le delegazioni degli stati belligeranti riunite a Versailles11. L’Asino, 1915 – copertina del periodico (Fonte) L’Asino, 1915 – copertina del periodico12. Le delegazioni degli stati belligeranti riunite a Versailles per la firma dei Trattati di Pace (28/06/1919) (Fonte)

    Nel quinto percorso, Periodici (La guerra di carta), vengono proposti alcuni seriali italiani ed europei, a cavallo tra la Grande guerra e il primo dopoguerra, che hanno influito sulla formazione dell’opinione pubblica. Tra questi, segnaliamo: L’Asino, 1912-1916; La Voce, 1914-1916; Il Secolo XX, 1915-1918; Guerra alla guerra, 1913-1918; Critica sociale, 1911-1926; Der Kampf, 1909-1918; Die Gesellschaft, 1924-1933; Europe, 1923-1936.

    Il sesto percorso, Movimenti politici (I partiti nella Grande Guerra), e il settimo, Musica (Le note della Grande Guerra), rinviano rispettivamente ai documenti messi a disposizione sui loro siti dalla Fondazione Gramsci e dalla Accademia Nazionale di Santa Cecilia.

    L’ottavo percorso, Guerra senza fine (Le ferite del primo dopoguerra), è dedicato alle grandi trasformazioni prodotte o accelerate dalla guerra e dalla pace di Versailles. Tra i 67 documenti del percorso segnaliamo: Augusto Graziani, La guerra e le leggi economiche, 1916; Luciano De Feo, La lotta economica del dopoguerra, 1917; Antonio De Viti De Marco, Problemi del dopo guerra, 1919; Umberto Zanotti-Bianco e Andrea Caffi, La pace di Versailles: note e documenti, 1919; Luigi Einaudi, Il problema della finanza post-bellica, 1919; John Maynard Keynes, Le conseguenze economiche della pace, 1920.

    La Rivoluzione d’Ottobre

    In occasione del centenario della Rivoluzione d’Ottobre (1917-2017), la Fondazione Feltrinelli ha pubblicato sul proprio sito una selezione della sua nutrita collezione di documenti (monografie e manifesti) sulla storia della Russia sovietica, Oltre il confine (La Rivoluzione d’Ottobre). Tre sono i percorsi tematici proposti:

    Vladimir Ilʹič Lenin13. Vladimir Ilʹič Lenin, ottobre 2018 - foto (Fonte) Costruzione della centrale idroelettrica14. Costruzione della centrale idroelettrica Dnieper nel 1931 - foto (Fonte)

    Nel primo percorso, Idee (L’innesco della Rivoluzione), figurano testi che ruotano attorno alle idee alla base dell’evento rivoluzionario e manifesti che raffigurano il popolo insorto contro l’oppressione zarista e le strutture sociali tradizionali.

    Tra le monografie del percorso segnaliamo: Romain Rolland, Al di sopra della mischia, 1916; Vladimir Ilʹič Lenin, Documenti storici della rivoluzione, 1918 e L'opera di ricostruzione dei Soviet, 1919; Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, 1922; John Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo, 1930; Aleksandr Kerenskij, La rivoluzione russa, 1932.

    Il secondo percorso tematico (Economia (Modernizzazione dall’alto)) è dedicato al processo di edificazione di un nuovo sistema economico: una industrializzazione forzata dagli alti costi sociali. I testi del percorso documentano la profonda trasformazione della società sovietica; tra questi: L'opera economica, politica e sociale dei Soviet di Russia, 1919; Ettore Lo Gatto, URSS 1931: vita quotidiana, piano quinquennale, 1932; Rita Montagnana, Che cosa è il Kolcos?, 1945; Ja. Lugantsev, La pianificazione dell'Unione Sovietica, 1962.

    Manifesto di propaganda15. Manifesto di propaganda di Denisovskij N. (Fonte)

    Tema del terzo percorso (Propaganda (Educare la collettività) è l’utilizzo della propaganda come strumento per promuovere l’ideologia comunista e “moralizzare” le masse. Tra le monografie: Gustave Le Bon, Psicologia delle folle, 1927; Lenin and Stalin on propaganda, 1942; Angelo Tasca, Politica russa e propaganda comunista, 1957.

    Le opere qui segnalate sono solo una parte delle numerose risorse offerte dalla Biblioteca digitale della Fondazione Feltrinelli sui temi del Risorgimento, della Prima guerra mondiale e della Rivoluzione russa del 1917. Scopo della presente sitografia è quello di informare gli utenti della rete, e in particolare gli insegnanti e gli studenti, dell’esistenza di tali risorse, invitandoli ad accedere direttamente al sito della fondazione.

  • La storia in tribunale

    di Daniele Boschi

    EngelkingBarbara Engelking e Jan Grabowski, i due storici della Shoah condannati per diffamazione da un tribunale di Varsavia il 9 febbraio 2021 Immagine1 Immagine2Finora erano stati soprattutto alcuni studiosi accusati di negazionismo a finire in tribunale e ad essere condannati per quanto avevano scritto in merito all’Olocausto (tra i casi più noti vi sono quelli di Robert Faurisson, di Roger Garaudy e di David Irving). Ma ora le parti sembrano essersi invertite. Martedì 9 febbraio un tribunale di Varsavia ha giudicato colpevoli di diffamazione due importanti studiosi della Shoah, per alcune affermazioni fatte in un libro in cui raccontano le persecuzioni subìte dagli ebrei in Polonia durante la Seconda guerra mondiale. 

    Ma procediamo con ordine. Barbara Engelking (direttrice del Polish Center for Holocaust Research) e Jan Grabowski (dell’Università di Ottawa) hanno curato la pubblicazione di un libro di circa 1600 pagine, diviso in due volumi, dal titolo Notte senza fine. Il destino degli ebrei in alcune contee della Polonia occupata (ho tradotto il titolo dall’inglese, il libro è uscito nel 2018 in lingua polacca). È il risultato di una ricerca vastissima, che ha messo in evidenza, da un lato, la determinazione e il coraggio con cui gli ebrei lottarono per sfuggire allo sterminio, e dall’altro lato la complicità di alcuni segmenti della società polacca con i nazisti.

    Tra le tante vicende ricostruite nei due ponderosi volumi c’è quella di Edward Malinowski, sindaco del villaggio di Malinowo, nella Polonia nordorientale, negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. Stando a quel che si legge nel libro, Malinoswski avrebbe dapprima aiutato una donna ebrea, Estera Siemiatycka, a sfuggire ai nazisti rifugiandosi in Germania, ma successivamente avrebbe consegnato ai tedeschi decine di ebrei che si erano nascosti nei boschi nelle vicinanze del villaggio.

    Nel libro questa storia ha un ruolo assolutamente marginale. Ma la nipote del sindaco Malinowski (oramai defunto), Filomena Leszczyńska, ha intentato una causa per diffamazione nei confronti di Engelking e Grabowski, accusandoli di avere ignorato il fatto che nel 1949-50 suo zio fu processato e assolto dall’accusa di complicità con i nazisti. Barbara Engelking ha replicato a questa accusa affermando che l’esito di quel processo fu falsato dalle intimidazioni subìte da alcuni testimoni, e che un’altra testimone – la donna ebrea che il sindaco di Malinowo aveva aiutato a scappare - dichiarò espressamente, molti anni dopo (nel 1996), di aver mentito per salvare Malinowski. Ciononostante, il tribunale distrettuale di Varsavia ha condannato Engelking e Grabowski a scusarsi con la Leszczyńska, sia in privato che in pubblico, e a correggere il loro libro in eventuali future edizioni. I giudici hanno però respinto la richiesta della ricorrente di far pagare una multa di 22mila euro ai due storici. Questi ultimi hanno comunque rifiutato di dar seguito alla sentenza, annunciando che ricorreranno in appello.

     

    Ghetto di VarsaviaIl bambino di Varsavia, scattata da un soldato tedesco ignoto durante l'evacuazione del ghetto: immagine simbolo della persecuzione degli ebrei in Polonia durante la Seconda guerra mondiale Fonte

     

    Riporto qui di seguito il breve testo incriminato (la traduzione dall’inglese è mia):

    “Dopo aver perso la sua famiglia, Estera Drogicka (cognome di nascita Siemiatycka), avendo comprato dei documenti da una donna bielorussa, decise di andare a lavorare in Prussia. Edward Malinowski, sindaco di Malinowo, la aiutò (derubandola allo stesso tempo) e nel dicembre del 1942 lei si recò a Rastenburg (Kętrzyn), dove lavorò come domestica presso una famiglia tedesca di nome Fittkau. Non soltanto incontrò lì il suo secondo marito (un polacco che era anche lui un lavoratore), ma avviò anche un piccolo commercio, inviando a Malinowski dei pacchi con vari oggetti da vendere. Inoltre si recava a visitarlo quando tornava ‘a casa’ in licenza. Si rese conto che lui era stato complice nell’uccisione di diverse dozzine di ebrei, che si erano nascosti nei boschi ed erano stati consegnati ai tedeschi, tuttavia testimoniò falsamente in sua difesa nel processo a suo carico dopo la fine della guerra.”

    Una nota a piè di pagina riporta le esatte parole pronunciate dalla Siemiatycka nella deposizione resa durante il processo del 1949-50; e aggiunge che Malinowski fu assolto. La nota non fa riferimento però alla decisiva testimonianza resa dalla Siemiatycka alla Shoah Foundation della University of Southern California nel 1996. A quanto sembra, la storica polacca ha indicato quest’ultima fonte soltanto nella lunga memoria difensiva, che abbiamo più volte citato, scritta quando il processo era già in corso.

    Non è facile dare un giudizio su questa controversia senza aver consultato gli atti del processo. La messa in discussione di una sentenza assolutoria passata in giudicato (com’è quella del 1950) pone delicati problemi di ordine giuridico, in quanto il diritto all’onore e alla reputazione personale entra in conflitto col diritto di critica del giornalista o dello storico1.

    In questo caso, tuttavia, molti commentatori hanno visto nel processo contro i due studiosi un grave attacco alla libertà della ricerca storica. Hanno preso posizione in tal senso numerose istituzioni e centri di ricerca che si dedicano alla memoria della Shoah, dallo Yad Vashem alla International Holocaust Remembrance Alliance, dalla World Jewish Restitution Organization alla Fondation pour la Mémoire de la Shoah. A queste voci si sono aggiunte anche quelle della Associazione degli storici e delle storiche della Germania e della Società storica polacca. In Italia l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri ha espresso profonda preoccupazione per la condanna e ha dichiarato che “in uno Stato democratico il tribunale non può essere il luogo per risolvere controversie relative ai risultati della ricerca, nonché ai metodi di selezione delle fonti e all'interpretazione della documentazione storica”.

    A nessun osservatore indipendente è sfuggito il particolare contesto politico in cui si colloca il processo contro i due storici polacchi. Il partito al governo in Polonia, Diritto e giustizia, espressione della destra nazionalista, non ha fatto mistero di non gradire che si parli di complicità polacche nell’Olocausto. Nel 2018 è stata approvata una legge che vieta di attribuire falsamente alla nazione polacca una parte di responsabilità nello sterminio degli ebrei. Inizialmente erano previsti fino a tre anni di carcere per i trasgressori, ma in seguito un emendamento ha abolito questa pena.

    A quanto sembra, nel processo contro Engelking e Grabowski non si è fatto ricorso alla legge del 2018. Tuttavia la causa della Leszczynska contro i due storici è stata sostenuta da una organizzazione denominata “Lega polacca contro la diffamazione”, che ha come scopo la difesa del “buon nome” della Polonia e ha ricevuto finanziamenti dal governo. Inoltre, il processo è stato accompagnato da una violenta campagna mediatica tesa a screditare i due studiosi, come ha sottolineato Wojciech Czuchnowski sulle pagine della “Gazeta Wyborcza” (22/01/2021).

    Infine, a giudizio di molti, non è soltanto la libertà della ricerca storica ad essere minacciata in Polonia, ma la stessa libertà di espressione, oltre che l’indipendenza del potere giudiziario. Mercoledì 10 febbraio i media liberi polacchi hanno scioperato contro il governo. “In Polonia la democrazia sta diventando una facciata, una finzione”, ha detto in un’intervista a “Repubblica” (11/02/2021) Adam Michnik, storico leader dell’opposizione contro il regime comunista polacco e fondatore del quotidiano “Gazeta Wyborcza”.
    Nella Polonia post-comunista la libertà della ricerca e la libertà di pensiero e di parola appaiono dunque strettamente legate, come del resto la storia del mondo occidentale ci ha già tante volte mostrato.

     

    1 In Italia il diritto alla critica storica può ‘scriminare’ la diffamazione (cioè può rendere legittimo un discorso critico che altrimenti si configurerebbe come un atto di diffamazione), ma solo a determinante condizioni, come si evince, ad esempio, da questa sentenza della Corte di Cassazione, nella quale, richiamando una precedente sentenza della stessa Corte, si afferma che “secondo la giurisprudenza di legittimità, al fine di ritenere scriminata una condotta astrattamente diffamatoria ‘l’esercizio del diritto di critica storica postula l’uso del metodo scientifico che implica l’esaustiva ricerca del materiale utilizzabile, lo studio delle fonti di provenienza e il ricorso ad un linguaggio corretto e scevro da polemiche personali. Ne deriva che il giudice al fine di stabilire il carattere storico dell’opera, oggetto di contestazione, deve accertare l’esistenza - quanto meno sotto forma di indizi certi, precisi e concordanti - delle fonti indicate ed utilizzate dall’autore per esprimere i propri giudizi…’ (Cass., Sez. V, n. 34821 dell’11/05/2005, Lehner, Rv 232562)”.

     

    Bibliografia/Sitografia

    - Altares, Guillermo, Polonia, processo alla Storia e alla memoria della Shoah, “La Repubblica”, 14/02/2021.

    - Comunicato sulla condanna di Barbara Engelking e Jan Grabowski, “Istituto Nazionale Ferruccio Parri”, 11/02/2021.

    - Czuchnowski, Wojciech, The plan to destroy Holocaust scholars. Polish Anti-Defamation League goes after the authors of the book "Night Without End", “Gazeta Wyborcza”, 23/01/2021.

    - Davies, Christian, Poland makes partial U-turn on Holocaust law after Israel row, “The Guardian. International edition”, 27/06/2018.

    - Déclaration à propos des poursuites judiciaires contre des historiens polonaise, “Fondation pour la Mémoire de la Shoah”, 01/02/2021.

    - Engelking, Barbara, On Estera Siemiatycka, sołtys Edward Malinowski, and lawsuits, “Polish Center for Holocaust Research”, 26/01/2021.

    - Fears rise that Polish libel trial could threaten future Holocaust research, “The Guardian. International edition”, 03/02/2021.

    - Goldkorn, Wlodek, Processo alla Storia: in Polonia va alla sbarra la memoria della Shoah, “La Repubblica”, 05/02/2021.

    - Henley, Jon, Poland provokes Israeli anger with Holocaust speech law, “The Guardian. International edition”, 01/02/2018.

    - Henley, Jon, Fears for Polish Holocaust research as historians ordered to apologise, “The Guardian. International edition”, 09/02/2021.

    - Higgins, Andrew, Polish Court Orders Scholars to Apologize Over Holocaust Study, “The New York Times”, 09/02/2021.

    - IHRA Chair's Statement on the suing of Holocaust historians in Poland, “International Holocaust Remembrance Alliance”, 01/02/2021.

    - La critica storica può scriminare la diffamazione, “Altalex”, 15/11/2016.

    - NIGHT without an END. Fate of Jews in selected counties of occupied Poland, pagina del sito web “Polish Center for Holocaust Research” (consultata l’ultima volta il 19/02/2021).

    - Polish court tells two Holocaust historians to apologise, “BBC News”, 09/02/2021.

    - Stanowisko Prezydium Zarządu Głównego PTH z dnia 5 lutego 2021 roku, “Polskie Towarzystwo Historyczne”, 08/02/2021.

    - Statement by prof. Barbara Engelking and prof. Jan Grabowski, “Polish Center for Holocaust Research”, 10/02/2021.

    - Tarquini, Andrea, Michnik: “Il governo polacco odia la stampa libera. Ecco perché scioperiamo”, “La Repubblica”, 11/02/2021, p. 15.

    - Waszak, Stanislaw, Holocaust historians face verdict in Poland defamation trial, “The Times of Israel”, 07/02/2021.

    - VHD verurteilt das Gerichtsverfahren gegen Barbara Engelking und Jan Grabowski, “Verband der Historiker und Historikerinnen Deutschlands”, 08/02/2021.

    - WJRO and the Claims Conference respond to verdict in defamation trial of internationally known scholars in Poland, “World Jewish Restitution Organization”, 09/02/2021.

    - Yad Vashem Expresses Concern Over the Legal Procedures Against Polish Scholars of the Holocaust, “Yad Vashem. The World Holocaust Remembrance Center”, 31/01/2021.

  • La storia molto contemporanea. Come realizzare, rapidamente, l’ultima parte del programma.

    Autore: Antonio Brusa
    Appunti da Dan Smith

    In questa cartina, tratta dall’atlante di Dan Smith, le nazioni in viola scuro (paesi arabi, Guyana e Brunei) hanno oltre il 30% di immigrati.Seguono Usa, Canada, Arabia, Australia, Libia e paesi europei centro settentrionali con una percentuali di migrazione fra il 20 e il 30%. L’Italia è fra i paesi con meno del 10%.

     

    Perché studiare gli ultimi decenni

    L’atlante di Dan Smith,The State of the World (New Internationalist, Oxford 2014), è un magnifico aiuto per il docente in difficoltà  alla fine del percorso formativo. L’intoppo nel quale si trova solitamente è ben conosciuto: da una parte si vorrebbe finire il programma arrivando ai giorni nostri; dall’altra, fra prima e seconda guerra mondiale, fascismi, comunismi e giornate della memoria, aggiungiamoci gli esami da preparare, il tempo è risicatissimo. La sintesi di Dan Smith permette di tracciare in poche battute le linee dell’ultima parte di questo programma. E’ una sintesi aperta che consente, al docente che voglia (come spero) dedicare a questo periodo un tempo non residuale, di inserire in questo quadro approfondimenti e studi di caso coinvolgenti. 

    Partiamo con le motivazioni (e quindi con gli obiettivi) per studiare questo periodo. Da qualsiasi parte ci voltiamo, dice Smith, troviamo cose che cambiano. Si annunciano ad ogni piè sospinto cose nuove, che, immediatamente dopo, svaniscono. Professori e allievi ne ricavano un senso di incertezza frustrante. Abbiamo bisogno di qualche appiglio; ma soprattutto, abbiamo il dovere di verificare la sensazione, che attanaglia tutti, di avvicinarsi all’orlo di un baratro.

    Come tutti i punti di vista sul periodo che stiamo vivendo, anche questo è oggetto di discussione. Ma non è un difetto. Il tempo presente impone la capacità di problematizzare, proprio con questi suoi aspetti controversi. Esso  richiede il coinvolgimento nella discussione, dal momento che gli allievi sono attori della storia che si studia, al pari dei loro professori e degli autori dei testi che compulsano.

    Una volta aperta la discussione, Dan Smith dispiega i suoi strumenti: una rapida cronologia e l’individuazione di cinque temi che considera fondamentali. Per la conoscenza puntuale di questo dispositivo, rinvio naturalmente all’originale. Qui ne presento una sintesi, con i rimandi sitografici che consentiranno, anche a chi non può consultare l’Atlante, di approfondire questo o quello dei temi che vi sono descritti.

     

    La cronologia

    La mappa sintetica della contemporaneità si articola intorno a tre momenti chiave.


    a.    Il tornante degli anni ’89-91: con il crollo del mondo comunista, finisce anche l’età della guerra fredda, del mondo diviso in blocchi. Dal punto di vista degli Usa (ma certamente non solo) inizia una sorta di età dell’oro, nella quale si afferma la loro centralità. La prima Guerra del golfo li vede nelle vesti di guida di una coalizione di stati, che si mobilita per ripristinare l’ordine internazionale


    b.    Il 2001: gli attentati delle Torri gemelle, ma più ancora il modo aggressivo con il quale gli Usa vi rispondono, segna la fine di questa età effimera. Inizia un periodo più instabile, che tuttavia non ostacola il forte sviluppo economico, durante il quale decollano nuovi centri economici del mondo, come la Cina e l’India, altri segnano il passo. Ma tutti, anche i più poveri, godono di qualche briciola di questo banchetto.


    c.    Il 2008. La crisi finanziaria innesta una nuova spaccatura nel mondo: c’è chi la supera e ricomincia a crescere, c’è chi invece precipita nella stagnazione, se non nella recessione (su questo potranno essere di aiuto i lavori sulle crisi qui su Historia Ludens, e su Novecento.org). 


    E’ una ricostruzione della quale va sottolineato il pregio della facilità (al di là delle discussioni di cui sopra). Si basa su avvenimenti forti, anche facili da raccontare, ben circoscritti. Si può calcolare un tempo abbastanza rapido per spiegarli e studiarli.

    Dentro questa cornice cronologica Dan Smith disegna la struttura del mondo nel quale viviamo: la popolazione, giunta a 7 miliardi di persone, la cui vita è organizzata in Stati (l’ultimo è il Sud Sudan, nel 2010); diverse per istruzione, speranza di vita, religione e etnia. Indica la forma di insediamento principale di questa massa immensa, le città e le megacittà, ma, al tempo stesso avverte che questa popolazione è caratterizzata dalla forte mobilità delle migrazioni.

     

    I temi di studio

    Dan Smith, inoltre, propone cinque temi di studio. Li descrivo brevemente, mettendo in evidenza alcuni aspetti che li rendono problematici. Ciascuno di essi, infatti, presenta aspetti positivi e negativi. E’ fondamentale aiutare gli allievi a passare da una percezione uniforme ad una variegata, che eviti il rischio di essere “o apocalittici o integrati”.  Ad ogni tema ho fatto seguire alcuni sottotemi esemplari, che segnalo anche per il loro carattere fortemente interdisciplinare, a partire naturalmente dalla Geografia e dall’Educazione civile. E’ evidente che, nell’economia di una programmazione, questo sarà il campo dei lavori opzionali, magari assegnati per gruppi.

     

    Benessere e povertà 

    La sperequazione fra le diverse aree geografiche è drammatica. La ricchezza, con il benessere conseguente, è concentrata in alcune regioni del mondo. Tuttavia, l’ultimo ventennio ha visto la rivoluzione delle gerarchie mondiali di questa ricchezza. La Cina balza al primo posto, gli Usa retrocedono al secondo (per la prima volta da un secolo a questa parte), l’India è la terza potenza. L’Europa, come spazio geografico, è ancora il primo mercato mondiale. Le sue divisioni politiche, tuttavia, le impediscono mettere a frutto questo vantaggio. Per quanto riguarda i paesi più poveri, va notato con forza che la quota di umanità che vive con meno di un dollaro al giorno sta diminuendo.

    Sottotemi: crescita e povertà; qualità della vita; ineguaglianza; il debito; obiettivi mondiali dello sviluppo

     

    In questa infografica, che riproduco come esempio, si mostra come i Miliardari, colpiti dalla crisi del 2008, “rimbalzino”, per aumentare nel periodo successivo sia per numero sia per ricchezza complessiva


    Guerra e pace

    Tutti abbiamo negli occhi immagini atroci di guerra. Proprio per questo, occorre rimarcare il fatto che “il periodo che viviamo è il più pacifico dai tempi della Prima guerra mondiale e, come alcuni sostengono, di tutti i tempi” (p.11). Se, poi, ci limitiamo agli ultimi trent’anni, si deve ricordare che si è passati dai 50 conflitti degli anni ’80, ai 37 del decennio successivo, fino ad arrivare ai 30 nei primi dieci anni di questo secolo (pp. 58-59). Certamente le spese militari restano altissime e la guerra rimane la prima causa di morte. Si deve sottolineare (si veda su HL il testo di Yves Michaud), il cambiamento radicale e terribile, imposto dalle nuove guerre, e il fatto che i civili ne sono le vittime principali. Va ancora evidenziato l’incremento dei conflitti religiosi e etnici.

    Sottotemi: i signori della guerra; la corsa agli armamenti; i nuovi fronti di guerra (cibernetica, media); rifugiati; le operazioni di peacekeeping, conflitti religiosi.

     

    Diritti e rispetto

    Nel brevissimo periodo fra il 2008 e il 2012 i paesi stabilmente democratici sono passati dal 43% al 48%. Un dato positivo che va subito immesso in un contesto nel quale le democrazie non sono mai un bene garantito per sempre; che spesso l’esercizio delle libertà viene confiscato da “falsi amici della democrazia” e che le fasi di transizione verso la democrazia (laddove si attivino) sono difficoltose e irte di pericoli.

    Sottotemi: diritti religiosi; conflitti religiosi; diritti umani; diritti dei bambini; diritti delle donne; diritti dei gay


    Salute degli uomini

    Se guardiamo la curva dell’Aids (pp. 13 e 98-99) si vede che le infezioni hanno cominciato a decrescere a partire dalla metà degli anni ’90, e le morti dal 2005. Nel ventennio che fa dal 1990 al 2010, la popolazione mondiale sottonutrita è passata dal 20% al 15%. Ci sono progressi evidenti anche nella cura del cancro. Per converso, si deve tenere conto del fatto che il successo nella lotta contro le malattie varia sensibilmente da regione a regione; così come le regioni più ricche sono esposte a patologie che un tempo non erano epidemiche, come l’obesità.

    Sottotemi: il fumo; obesità e fame; aids e cancro; handicap e società.

     

    Salute del pianeta  

    La scala dei temi, sulla base della quale valutare la salute del pianeta eccede i pochi decenni della contemporaneità immediata. Gli analisti ci danno alcune certezze. La prima è che la natura del problema “Terra”, richiede che la cura sia approntata dall’umanità nel suo complesso. L’aspetto positivo, paradossalmente, è proprio nella gravità della situazione, la cui soluzione impone solidarietà sempre più profonde fra gli umani. Si può fare molto, conclude, Smith: ma ogni giorno che passa aumenta la scala delle difficoltà da superare.

    Sottotemi: i segnali di allarme; l’acqua; i rifiuti; la biodiversità; l’energia, le variazioni climatiche.

     

    Sitografia

    Dall’atlante di Smith, estraggo alcuni siti, dai quali si può partire per un lavoro scolastico. Non elenco i più citati, come quello della Cia o della Banca Mondiale, perché possono essere consultati per la maggior parte delle voci che seguono.

     

    Acqua: www.fao.org
    Alfabetizzazione:  www.uis.unesco.org
    Aspettativa di vita: www.who.int
    Biodiversità: www.iucnreditlist.org
    Crisi alimentari: www.iiss.org
    Debito: www.imf.org
    Diritti dei bambini: www.childinfo.org
    Diritti delle donne: www.ipu.org
    Diritti religiosi: www.religiousfreedom.com
    Disastri naturali: www.ifrc.org
    Ecologia planetaria: www.ecologyandsociety.org
    Guerre: www.pcr.uu.se
    Ineguaglianza economica: www.forbes.com
    Minoranze, diritti: www.minorityrights.org
    Minoranze, lingue del mondo: www.Ethnologue.com
    Pace mondiale: www.visionofhuanity.org
    Religioni, distribuzione: www.cia.gov
    Rifiuti: www.unep.org
    Rifugiati: www.unhcr.org
    Sviluppo, obiettivi: www.un.org
    Urbanizzazione: www.unhabitat.org

  • La storia nelle immagini. Laurent Gervereau, uno studioso fra public history e didattica della storia. Sitografia.

    di Antonio Prampolini

     

    Indice

    1. Laurent Gervereau e la Histoire du visuel
    2. Gli articoli online
    2.1 Guerra civile spagnola, Maggio ’68, propaganda politica fra le due guerre mondiali
    2.2 Metodologia e didattica
    3. Interpretare le immagini: il sito decryptimages.net
    3.1 Metodologia e didattica
    3.2 Educazione e immagini
    3.3 Guerra, Missione Apollo, crisi umanitarie, attentato dell’11 settembre, eventi importanti del XX secolo

     

    GERVEREAU LAURENT ARTICOLO HL immagine 1Fig.1: pubblicazioni di Larent Gervereau Fonte1. Laurent Gervereau e la Histoire du visuel

    Laurent Gervereau è uno dei principali promotori della Histoire du visuel (Visual History)1 in Francia e non solo, ma è praticamente sconosciuto in Italia dove, a tutt’oggi, non è stata tradotta nessuna delle sue numerose pubblicazioni. Intellettuale poliedrico ed eclettico, ha esteso i suoi interessi anche alla museologia e all’ecologia; ha fondato e/o diretto istituzioni, associazioni culturali, riviste e siti web; ha organizzato mostre e prodotto film.2

    Al centro del suo pensiero e della sua azione sta la convinzione che, in una società come la nostra dominata da Internet e dalla multimedialità digitale, «l’educazione alle immagini e con le immagini rappresenta una necessità civica fondamentale tanto quanto insegnare e imparare a leggere».

    A lui si deve, in particolare, l’elaborazione di una “griglia di analisi delle immagini” che comprende tre fasi: descrizione (avvicinarsi all’immagine nella sua materialità: caratteristiche tecniche, stile, tema della rappresentazione); contestualizzazione (a monte della produzione: la storia individuale, la psicologia e il ruolo dell'autore o più in generale i collegamenti tra l'immagine, il suo committente e la società; a valle: la distribuzione dell’immagine, la sua ricezione e impatto sociale); interpretazione (sintesi di tutti gli elementi dell'indagine svolta nelle due fasi precedenti in cui l’analista esprime la propria soggettività sotto forma di una valutazione generale).3

    Per Gerverau è oggi fondamentale lavorare su una «storia globale della produzione visiva» che prenda in considerazione non solo gli aspetti creativi (le arti), ma tutti gli usi e la moltiplicazione industriale delle immagini sui media; così come, nell’era di Internet, in cui tutte le immagini si accumulano in modo indifferenziato sullo stesso schermo, è indispensabile, per una loro corretta interpretazione e valutazione, disporre di precisi punti di riferimento: cronologici (quando e in quale contesto?), geografici (dove e all’interno di quale civiltà?) e tecnici (quale tipo di creazione e quale mezzo?).

    Tra le pubblicazioni di Laurent Gervereau sull’iconografia e la Histoire du visuel è doveroso ricordare:4

    Voir, comprendre, analyser les images, Paris, La Découverte, 1994;
    Les Images qui mentent. Histoire du visuel au XXe siècle, Paris, Seuil, 2000;
    Le monde des images. Comprendre les images pour ne pas se faire manipuler, Paris, Robert Laffont, 2004;
    Dictionnaire mondial des images, (dir. L.G.), Paris, Nouveau Monde, 2006;5
    La Guerre mondiale médiatique, Paris, Nouveau Monde éditions, 2007;
    Images, une histoire mondiale, Paris, Nouveau monde/CNDP, 2008;
    Une histoire générale de l'écologie en images, Paris, Plurofuturo, 2011.

    In questa sitografia, segnaleremo dapprima alcuni articoli gratuitamente accessibili in rete. In una seconda parte, prenderemo in esame la struttura e i contenuti del sito da lui diretto decryptimages.net (Ricordiamo che online è sempre a disposizione il traduttore di Google). Laddove non indicato, gli articoli si intendono di Gervereau.

     

    2. Gli articoli online

    GERVEREAU LAURENT ARTICOLO HL immagine 2Fig.2: manifesto repubblicano della Guerra civile spagnola (Bauset, 1936) Fonte2.1 Guerra civile spagnola, Maggio '68, propaganda politica fra le due guerre mondiali.

    I manifesti di propaganda durante la guerra civile spagnola
    L'affiche de propagande pendant la guerre d'Espagne, in «Matériaux pour l'histoire de notre temps», Année 1986, 7-8, pp. 22-24.

    «In generale, il manifesto repubblicano spagnolo è violento. E ciò è più che normale poiché in una situazione di crisi non possono che nascere rappresentazioni destinate a “scuotere” e mobilitare. I pochi manifesti franchisti che conosciamo (sono molto meno numerosi) non differiscono del resto da quelli repubblicani - così come l'insieme della produzione è simile, dal punto di vista dell'ideazione e della grafica, alla propaganda nazionalsocialista. Troviamo ovunque l’uso della virilità, di grandi ritagli umani, di oggetti eretti come totem urbani, un modo di impressionare attraverso l'ingrandimento dei simboli del potere o dell'orrore, così da provocare adesione o repulsione».

     

     

    GERVEREAU LAURENT ARTICOLO HL immagine 3Fig.3: manifesto francese del “maggio 68” FonteI manifesti del maggio ‘68
    Les affiches de "mai 68"
    , in «Matériaux pour l'histoire de notre temps», Année 1988, 11-13, pp. 160-171.

    «Pubblicazioni sui manifesti del maggio ‘68 non mancano anche se i documenti sono spesso distribuiti in modo vago, come se le cose fossero evidenti. Per molto tempo la passione, il primato dell'impegno hanno oscurato l'argomento, compiacendosi maliziosamente di trasmettere leggenda, indeterminatezza, dicerie. In una sorta di eroica "aura" di clandestinità, ogni indagine appariva sospetta e soprattutto superflua. Oggi, però, vent’anni dopo – il tempo di una generazione – in un diverso contesto politico (come spesso accade nella storia in cui le tendenze si alternano), gli attori si prestano calorosamente ai tentativi di ricostruzione, accettando le spinose necessità di precisione».

     

     

    GERVEREAU LAURENT ARTICOLO HL immagine 4Fig.4: manifesto di propaganda per il programma "Revolution Nationale" del regime di Vichy FonteI manifesti politici francesi e tedeschi dal 1919 al 1944: riflessioni sulla nozione di futuro
    Réflexions sur la notion d'avenir dans les affiches politiques françaises et allemandes de 1919 à 1944, in «Matériaux pour l'histoire de notre temps», Année 1990, 21-22, pp. 51-55.

    «All’indomani della Prima Guerra Mondiale, in Francia, nei manifesti politici, il futuro si adorna di colori molto diversi. Un futuro "vuoto", caratterizzato dalla repulsione per l'altro diventa un futuro di cancellazione della guerra. Si verifica innanzitutto uno spostamento semantico: si passa dalla mobilitazione dell'odio contro i tedeschi al più virulento antibolscevismo.
    Anche in Germania, dove la messa in scena dell’odio verso il nemico (francese) non è mai stata così straripante come in Francia (durante la guerra l’accento veniva posto sulla coesione della nazione attorno al Kaiser e al suo esercito, presentati come valorosi cavalieri nel medioevo), l’antibolscevismo si scatena nei manifesti a partire dal 1918».

     

    GERVEREAU LAURENT ARTICOLO HL immagine 5Fig.5: copertina del volume Quelle est la place des images en histoire? di Christian Delporte, Laurent Gervereau, Denis Maréchal Fonte2.2 Metodologia e didattica

    Immagini e storia
    Images et histoire, in «Matériaux pour l'histoire de notre temps», Année 1995, 37-38, pp. 13-14.

    «Lo storico cerca spesso immagini che possano ravvivare e illuminare il suo discorso, selezionandole secondo il suo gusto, secondo quella che giudica la loro rilevanza e idoneità. I libri scolastici sono stati prodotti in questo modo per molto tempo, passando da illustratori in senso letterale, che producevano tavole particolari su ordinazione, ad un'iconografia selezionata da pubblicazioni contemporanee al momento storico in questione. Resta legittimo voler “animare” un discorso con poche icone opportune, ma l’immagine può però avere un’altra funzione: quella di vera e propria fonte».

     

    Il senso dello sguardo
    Le sens du regard
    , in «Bulletin des bibliothèques de France (BBF)», 2001, n°5, pp. 22-25.

    «Le immagini danno luogo a percezioni [visive] immediate che non stimolano il desiderio a interpretarle. L’analisi delle immagini è invece un’importante fonte di conoscenza che ha un ruolo civico irrinunciabile nell’attuale società di massa, dove le immagini veicolate dalla pubblicità e dalla propaganda non sono mai state così potenti nell’influenzare l’opinione pubblica globale».

     

    La guerra non è fatta per le immagini
    La guerre n'est pas faite pour les images
    , in «Vingtième Siècle. Revue d'histoire» 2003/4 (n°80), pp. 83-88.

    «I mass media, la moltiplicazione industriale delle immagini, l’accumulazione di tutti i media, hanno spostato il territorio della guerra. In passato i movimenti delle truppe, la fortuna o la sfortuna delle armi pesavano su un territorio limitato, con un'onda d'urto ritardata. Al giorno d'oggi, alcuni conflitti non sono più globali in termini di estensione nello spazio, ma, prima ancora che abbiano luogo, partecipano ad una guerra planetaria dell'informazione».

     

    GERVEREAU LAURENT ARTICOLO HL immagine 6Fig.6: locandina della mostra Les images mentent? Manipuler les images ou manipuler le public curata da Laurent Gervereau, Parigi, 2011. FonteLe immagini mentono? Manipolare le immagini o manipolare il pubblico
    Les images mentent? Manipuler les images ou manipuler le public,
    Parigi, 2011.

    È una mostra che ripercorre la storia delle immagini per riflettere e considerare diversamente il nostro universo visivo, scoprendo i messaggi che ci vengono inviati e di cui non sempre siamo consapevoli. Un universo visivo caratterizzato da un «fenomeno unico nella storia: la circolazione esponenziale di immagini e il loro accumulo, che mescola tutte le epoche, tutti i tipi di immagini e tutte le civiltà».

     

     

     

     

     

     

     

     

    GERVEREAU LAURENT ARTICOLO HL immagine 7Fig.7: copertina del volume Dictionnaire Mondial des images a cura di Laurent Gervereau (edizione 2006). FontePostfazione alla ristampa del “Dizionario mondiale delle immagini”
    Postface à la réédition du “Dictionnaire mondial des images”
    , Parigi, 2021 (la ristampa non ha poi avuto luogo a causa degli aumentati costi editoriali).

    «Spesso, le immagini sono oggetto di interpretazioni spontanee; i produttori stessi provocano e anticipano queste interpretazioni (pubblicità piena di allusioni e metafore). Ma, in assenza di una vera e propria cultura visiva (conoscenza della storia mondiale del visivo), la propensione ad avere interpretazioni riflesse e ad essere soggetti a influenze (spesso commerciali o politiche) rimane il caso più comune. Stiamo entrando in un periodo [che è possibile definire] come una “guerra mondiale mediatica" in cui è più importante vincere le guerre di opinione che le guerre materiali di territorio».

     

     

     

    GERVEREAU LAURENT ARTICOLO HL immagine 8Fig.8: vignetta pubblicata sul sito personale di Laurent Gervereau FonteVivere con tutte le immagini del mondo
    Vivre avec toutes les images du monde
    , intervista a Laurent Gerverau in «Hémisphères» N°22 – Vol XXII, 16/12/2021.

    «Il potere delle immagini è molto antico. Da quella che viene chiamata Preistoria, la loro circolazione è intensa. E questo perché gli esseri umani estetizzano l'utile nei loro strumenti e nei loro habitat. Creano immagini e queste creano significati nella loro concezione del mondo. Viviamo da sempre in “immagini materiali”, che produciamo, e in “immagini mentali”. La rottura avviene a metà del XIX secolo con la moltiplicazione industriale delle immagini, a cominciare dalla stampa, dai francobolli, dalle cartoline, dagli imballaggi, dai manifesti commerciali... Poi arriva l'era del cinema e poi della televisione, senza la scomparsa della carta. Oggi è il momento del cumulo delle immagini con Internet. Gli individui, trasmettitori-ricevitori, sono coinvolti in una produzione esponenziale e in una incessante ubiquità, dove la visione indiretta – ciò che viene percepito a distanza – conta più della visione diretta della realtà che li circonda».

     

    GERVEREAU LAURENT ARTICOLO HL immagine 9Fig.9: logo del sito decryptimages.net Fonte3. Interpretare le immagini: il sito decryptimages.net

    Il sito decryptimages.net è il risultato di una lunga collaborazione tra la Ligue de l'Enseignement e l'Institut des Images.6 È presente in rete dal 2008 ed è diretto da Laurent Gervereau. È un sito ad accesso libero e gratuito, aperto alla collaborazione volontaria di tutti i cultori di storia e analisi delle immagini, che si articola in sei sezioni:

    • Notizie (Actu: Images, Editos);

    • Pedagogia (Pédagogie);

    • Analisi (Analyses: Crossmédia, Télévision, Photographie, Dessins de presse, Peinture – estampes);

    • Esposizioni gratuite (Expos gratuites);

    • Editoriali e audiovisivi di Laurent Gervereau (Decryptcult);

    • Eventi (Événements: Les médiatiques, Repérage).

     

    3.1 Metodologia e didattica

    La storia delle immagini: definizione
    Histoire du visuel, définition
    (articolo redazionale)

    «Nel mondo, la definizione della parola "immagini" è spesso vaga e talvolta si riferisce solo a "seconde immagini", cioè a riproduzioni, a riflessi (la figurazione di un dipinto e non l’oggetto in sé). La parola "visivo" corrisponde all'insieme della produzione umana di immagini ed è quindi più ampia, comprendendo tutti gli aspetti creativi (le "arti"), come tutti gli usi e la moltiplicazione industriale delle immagini su tutti i media, "immagini fisse" o "immagini in movimento". Oggetto di questa scienza è quindi lo studio di tutte le produzioni visive umane fin dalla preistoria».

     

    Servono nuove piste per la scienza storica
    Nouvelles pistes nécessaires pour la science historique

    «È giunto il momento di affermare la necessità di una storia generale della produzione visiva umana. Questa esigenza è innanzitutto pedagogica. Nell’era di Internet e dei videogiochi non è più possibile dare ai bambini/giovani indicazioni solo sull’arte o sulle arti. Stiamo vivendo un cambiamento di civiltà e di generazioni e servono punti di riferimento generali in una fase caratterizzata dalla produzione, circolazione e accumulazione esponenziale delle immagini».

     

    Rimettere in marcia il pensiero della storia
    Remettre en marche la pensee de l’histoire

    «La produzione visiva umana è considerevole [nella storia dell’umanità]. Prima della scrittura, è una testimonianza essenziale, un “residuo” prezioso. Successivamente accompagna la scrittura o i suoni, e, durante le tre epoche delle immagini industriali dalla metà del XIX secolo fino ad oggi (l'era della carta, quella della proiezione e quella dello schermo), cresce in modo esponenziale. Come pensare che le immagini non siano oggetto di interrogazioni e di conoscenza? In termini pedagogici, imparare a vedere è meno importante che imparare a leggere? In termini di ricerca, possiamo attenerci alla sola “storia dell’arte” separandola dalla questione dei media?».

     

    3.2 Educazione e immagini

    Education et Images.

    «L’uso didattico delle immagini, fisse o mobili che siano, non deve limitarsi al loro semplice ruolo illustrativo. Ecco perché diventa fondamentale comprendere come nascono le immagini. Bisogna cominciare da Internet per comprendere che la rete accumula molte immagini provenienti da molti media. E questo comporta la necessità di studiare supporti diversi come: giornali, stampe, dipinti ad olio, sculture e oggetti, film, fotografie, video... La conoscenza tecnica non è necessariamente destinata a portare alla pratica. Permette di differenziare le immagini dalla produzione alla loro fruizione».

     

    Analizzare l’immagine pubblicitaria
    Analyser l’image publicitaire di Emmanuelle Fantin.

    «Spesso svalutata e percepita come l'emblema del potere della società dei consumi, la pubblicità aggrega convinzioni la cui irruenza sembra senza precedenti. Una mitologia attorno alla natura surrettizia e alle facoltà manipolative della pubblicità è persistita sin dalla sua creazione, alimentata dal discorso antipubblicitario contemporaneo, ma anche da tradizioni teoriche focalizzate sulla natura insidiosa delle logiche commerciali e sulla depravazione culturale che ne deriverebbe. D'altra parte, talvolta è percepito come testimone privilegiato della società e delle sue evoluzioni, o addirittura sede di una creatività traboccante, ai margini dell'arte. Ma la pubblicità è soprattutto un discorso banale e ubiquo: i cartelloni pubblicitari nelle strade o sui mezzi pubblici, le interruzioni televisive e radiofoniche, i banner promozionali sulle pagine web scandiscono continuamente la nostra vita quotidiana. È quindi una profonda familiarità quella che ci lega alla pubblicità, e che spesso ci porta a non interrogarci su queste immagini che ci circondano».

     

    3.3 Guerra, Missione Apollo, crisi umanitarie, attentato dell'11 settembre, eventi importanti del XX secolo.

    Non esiste più un tempo di guerra e un tempo di pace nella guerra mondiale mediatica
    Il n’est plus de temps de guerre et de temps de paix dans la guerre mondiale médiatique

    «L'improvviso risveglio delle coscienze a causa dell'invasione russa in Ucraina è sorprendente, poiché tanto gli Stati quanto le potenze commerciali hanno capito da tempo l'importanza delle guerre d'influenza attraverso lo schermo interposto. Questo si è moltiplicato con i social network e la confusione totale dei generi: immagini di guerra e massacri occupano Tik Tok inondato di musica rock, come un video musicale».

     

    10 immagini che hanno cambiato il mondo
    10 images qui ont changé le monde.

    «Che oggi esista un “mondo delle immagini”, una circolazione planetaria istantanea, un accumulo esponenziale, nessuno ne dubita. Che siamo, per la prima volta nella storia, a contatto con rappresentazioni di tutti i tempi, di tutte le provenienze geografiche e su tutti i media, lo possono vedere tutti. Ma ne traiamo tutte le conseguenze? Molti continuano a difendere le piazze nazionali o le tecniche (pittura a olio o fotografia, cinema o architettura...). Non ha davvero senso quando gli spettatori leggono i giornali, vedono i manifesti, guardano i dipinti in rete e quando i creatori si esercitano nel disegno, scultura, video, fotografia e digitale online contemporaneamente. L'unica soluzione è fornire indicatori cronologici generali che abbraccino l'intero pianeta e tutti i media dell'immagine: una storia mondiale della produzione visiva umana».

     

    GERVEREAU LAURENT ARTICOLO HL immagine 10Fig.10: i primi passi dell’uomo sulla luna (20 luglio 1969) FonteL’allunaggio della missione Apollo 11: le immagini mentono?
    Alunissons....

    «L'aspetto di fantasia collettiva legato a questa operazione fece sì che molti spettatori esprimessero spontaneamente dubbi fin dalla prima trasmissione delle immagini dell’allunaggio da parte della NASA (20 luglio 1969). Queste foto furono accusate di essere state fabbricate in uno studio. Successivamente, un documentario ha giocato su questo sentimento di dubbio attribuendole a Stanley Kubrick (regista di 2001, Odissea nello spazio, uscito un anno prima nel 1968). Il sospetto è quindi consustanziale a queste immagini».

     

     

     

    GERVEREAU LAURENT ARTICOLO HL immagine 11Fig.11: le torri Nord e Sud del World Trade Center in fiamme dopo essere state colpite da due aerei di linea dirottati FonteGli attentati dell'11 settembre 2001 al World Trade Center di New York
    World Trade, la quête du sens.

    «La caratteristica di questo evento consiste nella sua stratificazione nel tempo, che ha creato una catena di immagini in movimento/fisse. Lo stupore per l’accaduto è il prodotto di diversi fattori: l'incredulità in un paese che non ha mai conosciuto la guerra sul suo territorio (a parte la guerra civile), e i cui media sono polarizzati al suo interno senza una reale apertura verso il mondo; l'incredulità anche degli spettatori internazionali per i quali New York è un'ambientazione cinematografica familiare. Soprattutto non deriva dalle immagini stesse (povere, "grezze", tipico del registro delle dirette televisive), ma dalla successione delle sequenze, cioè dalla sceneggiatura dell’evento. Ciò contrasta completamente con le vecchie rappresentazioni degli attentati in cui erano visibili solo le conseguenze dei danni».

     

     

    GERVEREAU LAURENT ARTICOLO HL immagine 12Fig.12: la carestia in Etiopia (1983-1985) FonteLo spettacolo delle crisi umanitarie: usi e sfide delle immagini di vittime lontane
    Le spectacle des crises humanitaires: usages et enjeux des images de victimes lointaines,
    di François Robinet.

    «Dal 1968, le immagini di vittime lontane trasmesse in televisione sono state efficaci strumenti di informazione delle tragedie umanitarie nel mondo. Attraverso la messa in scena del disagio dei più fragili, queste immagini ci hanno fatto vedere parte della realtà degli eventi in Biafra, Etiopia, Ruanda e Darfur. Relativamente stabili, queste messe in scena si basano su "immagini simboliche" incarnate da alcune grandi rappresentazioni archetipiche che mirano, oggi come ieri, a produrre emozione e drammaticità negli spazi pubblici in cui vengono trasmesse, a evidenziare l’azione degli operatori umanitari e suscitare la generosità dei telespettatori-donatori. È quindi necessario, per lo storico come per il cittadino, cogliere queste immagini con sufficiente distanza e diffidenza per distinguere la parte di realtà che ci fanno vedere, misurando al contempo il grado di strumentalizzazione politica della sofferenza che talvolta possono anche contenere».

     


    Note

    1 Sulla Histoire du visuel (Visual History): Antonio Prampolini, La Visual History. Che cos’è e quali storie ci fa conoscere e Visual history. L'uso didattico delle fonti iconografiche, con una prefazione di Antonio Brusa, in «Historia Ludens», 10/02/2021 e 10/03/2021. Vedi anche gli articoli di didattica, di chi scrive e di Antonio Brusa, pubblicati nella rivista “Visual history”. 

    2 Per maggiori informazioni sulla vita e sugli studi di Laurent Gervereau: l’autobiografia gervereau.com/parcours.php.

    3 Per un approfondimento, l’articolo: Grille d’analyse des images di Laurent Gervereau, in decryptimages.net.

    4 Per una più ampia bibliografia: fr.wikipedia.org/wiki/Laurent_Gervereau#Bibliographie.

    5 Sul Dizionario mondiale delle immagini: la recensione di Jacques Le Golff Une éblouissante anthologie de l'image, sous toutes ses formes et toutes les latitudes, «Le Monde», 14/12/2006.

    6 Sulla Ligue de l'Enseignement, confederazione di associazioni che in Francia operano nei settori dell’educazione e dell’insegnamento popolare, si veda la voce relativa dell’edizione francese di Wikipedia. L'Institut des Images, creato nel 1992 e presieduto da Laurent Gervereau, ha avuto un ruolo pionieristico nell'educazione all'immagine. Ha organizzato diversi convegni sulla Histoire du visuel (Dove va la storia dell'arte contemporanea?; Possiamo imparare a vedere?; Qual è il posto delle immagini nella storia?).

     

  • La Visual History. Che cos’è e quali storie ci fa conoscere

    di Antonio Prampolini

    PARTE PRIMA: SITOGRAFIA DELLE FONTI E DEI TEMI DI INDAGINE*

    1. Che cos’è la Visual History

    Innanzitutto, che cosa è la Visual History ? Navigando in Internet, una prima risposta la possiamo trovare nelle enciclopedie online.

    Docupedia-Zeitgeschichte (Docupedia – Storia Contemporanea), l’enciclopedia open access del Centro per la Ricerca di Storia Contemporanea di Potsdam (Leibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung Potsdam ZZF) contiene una voce autoriale, a firma Gerhard Paul, dedicata specificatamente alla Visual History.

    Paul, che è uno dei più noti specialisti della Visual History nell’ambito della storia contemporanea, sottolinea come nel corso del primo ventennio del nostro secolo si sia verificato un cambio di paradigma negli studi storici, favorito dalle nuove possibilità offerte dalla rivoluzione digitale e dal Web. Questo cambio ha portato al pieno riconoscimento dell’importanza delle fonti visive. Ha incentivato, soprattutto tra gli storici più giovani, lo studio delle immagini intese non solo come una delle possibili fonti della storia (insieme alle fonti scritte e a quelle orali), ma come oggetti che meritano un’indagine storiografica autonoma poiché condizionano i modi di vedere, percepire, rappresentare e comunicare la realtà.

    In questo nuovo quadro si afferma la Visual History: l’indagine sul ruolo delle immagini nella storia, attraverso un approccio multi e transdisciplinare, che utilizza i criteri e i metodi della storia dell’arte, dell’antropologia, della psicologia e della sociologia.

    Secondo Paul, la Visual History dovrebbe porre al centro delle proprie ricerche la «forza generativa delle immagini» (Bilder als generative Kräfte) poiché esse non solo riflettono la storia, ma anche la influenzano e la determinano.

    «Le immagini, [egli osserva] sono più che fonti che si riferiscono a un fatto o evento al di fuori della propria esistenza; sono più che media che usano il loro potenziale estetico per trasmettere interpretazioni [della realtà]. Le immagini hanno anche la capacità di creare prima di tutto realtà, sono dotate di una potenza energetica e generativa».

    La storia visiva del XX e dell'inizio del XXI secolo dovrebbe, pertanto, a suo parere, dedicare maggiore attenzione a questo potere energetico/generativo delle immagini.

    «I movimenti totalitari hanno ripetutamente e intenzionalmente fatto uso del potere energetico/generativo delle immagini nella storia del Novecento. Le immagini del nemico, dell'ebreo nella propaganda antisemita della "soluzione finale" dei nazisti, la messa in scena di manifestazioni di massa (così come oggi quelle dello straniero o dell'islamista) hanno sempre rappresentato [e rappresentano] un invito all'azione».

    La voce Visual Historydi Docupedia, disponibile oltre che in lingua tedesca (versione 3.0, 13/03/2014) anche in lingua inglese (versione 1.0, 07/11/2011), è un testo consistente e ben articolato che comprende diversi capitoli:

    • La storia nel Visual Turn (Die Geschichtswissenschaft im Visual Turn);
    • Immagini come fonti (Bilder als Quellen);
    • Immagini come media (Bilder als Medien);
    • Immagini come forze generative (Bilder als generative Kräfte);
    • Visual History come campo di ricerca transdisciplinare (Visual History als transdisziplinäres Forschungsfeld);
    • Critica e prospettive (Zustimmung, Kritik, Perspektiven);
    • Bibliografia(Empfohlene Literatur zum Thema).

    In Wikipedia troviamo la voce Visual History non nell’edizione in lingua inglese (come ci si aspetterebbe) ma nell’edizione in lingua tedesca.

    In questa edizione linguistica, la Visual History viene definita come la disciplina che «considera le immagini sia come fonti che come oggetti indipendenti della ricerca storica»; immagini che possono essere sia statiche che dinamiche, analogiche che digitali. Una disciplina che combina i metodi analitici della storia dell’arte, della filosofia, dell’antropologia, dell’etnologia e della sociologia dei media.

    La voce enciclopedica (che, a giudicare dall’argomento e dalla qualità della sua trattazione, è stata scritta da specialisti della materia, anche se in anonimato) analizza il contributo degli storici tedeschi alla Visual History, soffermandosi in particolare sugli studi e le ricerche di Gerhard Paul (l’autore della voce in Docupedia) e Heike Talkenberger, e sull’influenza del modello d’indagine storico-artistica sviluppato da Erwin Panofsky.

    Di Paul vengono presi in esame i tre livelli fondamentali della Visual History; vale a dire la ricerca storica sulle immagini intese come:

    • fonti,
    • media,
    • “forze generative” autonome.

    Di Talkenbergervengono descritti gli approcci all'analisi delle immagini (che dovrebbero essere combinati in modo flessibile):

    • l’approccio di storia della cultura materiale;
    • l’approccio semiotico, focalizzato sul simbolismo dell'immagine e sulla sua funzione comunicativa;
    • l’approccio della ricezione estetica,per indagare il significato attribuito alle immagini dai destinatari dei messaggi visivi.

    Del modello di indagine storico artistica di Erwin Panofsky vengono richiamati i tre “passi iconologici(ikonologischen Dreischritts):

    • la descrizione preiconografica: l’esame della struttura dell’immagine e del suo contenuto;
    • l’analisi iconografica: la decodifica del sistema di riferimenti e dei significati interni all’opera pittorica;
    • l'interpretazione iconologica: la ricerca del significato socio-culturale dell'immagine.

    La voce, molto consistente (la versione stampabile alla data del 22/01/2021 è di 17 pagine in formato A/4), è suddivisa nei seguenti capitoli:

    L’edizione in lingua francese di Wikipedia riporta la voce Histoire du visuel.

    Questa voce definisce la “nuova” disciplina storiografica come quella che ha per oggetto «lo studio di tutte le produzioni visive umane dalla preistoria [ai giorni nostri] e che comprende tutti gli aspetti creativi, come pure tutti gli usi e la moltiplicazione industriale delle immagini [fisse o in movimento] su tutti i media».

    L’Histoire du visuel studia pertanto la totalità delle produzioni visive anche quelle che tradizionalmente non appartengono al mondo dell’arte ma a quello ludico. All'epoca di Internet, tra i miliardi di immagini elettroniche che circolano in rete, quelle che si possono definire creazioni artistiche sono infatti un’esigua minoranza.

    «Oggi è necessario considerare tutte le produzioni visive perché le emanazioni di tutte le epoche, di tutte le civiltà, di tutti i media sono riunite sullo stesso schermo [di un dispositivo elettronico collegato a Internet]».

    La voce descrive le origini e lo sviluppo degli studi iconologici in Francia e la nascita della “nuova” disciplina a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, dedicando un capitolo centrale alla rivoluzione prodotta da Internet nel mondo delle immagini (À l'ère d'Internet, une science en développement nécessaire).

    L’edizione in lingua inglese di Wikipedia non contiene una voce specifica sulla Visual History,ma alcune voci correlate: Visual culture, Iconology, Iconography, con le relative definizioni sintetiche e informazioni bibliografiche.

    • La Visual Culture viene definita come «la cultura espressa nelle immagini» che è oggetto di studio da parte di diverse discipline: dalla filosofia alla storia dell’arte, dalla antropologia alla sociologia.
    • La Iconology è un «metodo di interpretazione della storia culturale e della storia delle arti visive, utilizzato da Aby Warburg, Erwin Panofsky e dai loro seguaci, che vuole scoprire il background culturale, sociale e storico di temi e soggetti nelle arti visive».
    • La Iconography è «una branca della storia dell'arte che studia l'identificazione, la descrizione e l'interpretazione del contenuto delle immagini».

    Alla Visual culture la <encyclopedia.com> (sito in lingua inglese che aggrega informazioni tratte da fonti enciclopediche, dizionari e da altre opere di reference) dedica una voce autoriale assai consistente e ben articolata scritta da Jonathan Beller e pubblicata originariamente nel «New Dictionary of the History of Ideas».

    Beller afferma che la Visual culture, intesa come «una componente specifica della cultura in generale, un insieme di pratiche visive o una disciplina accademica» è il prodotto di una nuova considerazione del ruolo delle immagini alla fine del XX secolo in quella che viene definita “società postindustriale”, dove le tecnologie visive dominano nei media dell’informazione. La voce è strutturata nei seguenti capitoli:

    • The Visual Turn;
    • Visuality;
    • Historical Emergence of the Field of Vision as a Site of Power and Social Control;
    • Historicity of the Senses;
    • Race and Photo-Graphics;
    • Gender, Sexuality and the Image;
    • Alternative Media;
    • Advertising, Attention and Society of the Spectacle;
    • Visuality, Mediation, Simulation and Cybernetics;
    • The Future of Visual Culture and Visual Studies.

    Anche nell’edizione in lingua italiana di Wikipedia non troviamo una voce dedicata specificatamente alla Visual History, ma solamente due voci correlate: Iconologia e Iconografia, che riservano poche righe ai rispettivi argomenti.

    Il portale della Treccani <treccani.it> indirizza il visitatore verso i Visual Studiescon una voce redazionale nel «Lessico del XXI Secolo» (2013) e una voce autoriale nella «Enciclopedia Italiana – IX Appendice» (2015) a firma Roberto Terrosi.

    Terrosi definisce i Visual Studies il «campo di studi accademici che hanno come oggetto il visibile e le pratiche dello sguardo in forme culturalmente organizzate».

    La voce è strutturata in capitoli:

    • Storia dei Visual studies,
    • Temi e protagonisti dei Visual studies,
    • La ‘svolta visuale’,
    • Crisi dei Visual studies?,
    • La politicizzazione dei Visual studies,
    • I Visual studies e l’Europa,
    • Gli studi di ‘cultura della rappresentazione’ in Giappone,
    • Conclusioni.

    2. Che cosa ci fa conoscere?

    Immagini relative a: guerra, nazifascismo, stalinismo, antisemitismo, migrazioni

    La piattaforma digitale bilingue (tedesco – inglese) Visual History del Leibniz-Zentrum für Zeithistorische Forschung Potsdam (ZZF) propone un indice, Themen, che offre un’interessante panoramica delle diverse aree tematiche, nell’ambito della storia contemporanea, in cui trova applicazione la nuova disciplina storiografica (l’indice non comprende articoli sui media audiovisivi). Una panoramica che, pur facendo prevalentemente riferimento ai contributi degli storici tedeschi, può, tuttavia, considerarsi egualmente rappresentativa dei più generali orientamenti a livello internazionale degli studi e delle ricerche della Visual History dal 2013 (anno di attivazione della piattaforma) ad oggi.

    Di seguito, l’elenco delle principali aree tematiche:

    (Cliccare sulle immagini per ingrandirle)

    A. Le fotografie di guerra nel primo e nel secondo conflitto mondiale

    In questa area tematica segnaliamo in particolare:

    Walter Kleinfeldt: fotografie dal fronte 1915–191801. Walter Kleinfeldt: fotografie dal fronte 1915–1918. (Fonte)

    ► 01. Agosto 1916: “Distruzione totale”

    Una raccolta di fotografie, lettere, ritagli del diario di un giovane soldato tedesco (Walter Kleinfeldt) sul fronte occidentale. La recensione sottolinea come nel volume vengono presentate due categorie di fotografie del fronte di guerra scattate da Kleinfeldt: da un lato, quelle che lasciano deliberatamente fuori dal campo visivo i militari morti o feriti e mostrano invece paesaggi distrutti, fucili abbandonati, alberi bruciati; dall'altro, ci sono le fotografie che rendono immediatamente comprensibile la violenza della guerra sugli uomini, come le immagini di caduti e feriti.

    August 1916: “Alles zusammengeschossen” di Lisa-Sophie Meyer, 19/10/2015, recensione del volume Walter Kleinfeldt. Fotos von der Front 1915-1918 di Ulrich Hägele e Irene Ziehe, Waxmann Verlag, Münster/New York, 2014.

    Il sorriso del boia viennese fotografato dopo l'esecuzione del patriota italiano Cesare Battisti a Trento nel 1916.02. Il sorriso del boia viennese fotografato dopo l'esecuzione del patriota italiano Cesare Battisti a Trento nel 1916. (Fonte)

    ► 02. Sul sorriso del boia nella Prima guerra mondiale

    Il sorriso è quello del boia viennese fotografato dopo l'esecuzione del patriota italiano Cesare Battisti nel 1916. Il boia e i suoi assistenti posano come se fossero all'osteria. Solo a una seconda occhiata la vista cattura l'impiccato in mezzo a loro, tenuto come un trofeo dal fiero boia che mostra con le mani il possesso del corpo della vittima.

    Anton Holzer ha usato questa foto per la copertina del suo libro che documenta con una lunga serie di immagini le violenze dell’esercito austroungarico contro la popolazione civile sul fronte orientale. Immagini che dovrebbero entrare a far parte della storia e della memoria del Primo conflitto mondiale accanto a quelle della guerra di trincea sul fronte occidentale, al fine di confutare il mito della presunta guerra "pulita" che non avrebbe coinvolto i civili come vittime dirette delle azioni militari.

    Vom Lächeln der Henker im Ersten WeltKrieg di Christine Bartlitz, 12/08/2014, recensione del volume Das Lächeln der Henker.Der unbekannte Krieg gegen die Zivilbevölkerung 1914-1918 di Anton Holzer, Primus Verlag, 2014.

    Sepoltura di un soldato tedesco sul fronte russo (1941)03. Sepoltura di un soldato tedesco sul fronte russo (1941) (Fonte)

    ► 03. Le fotografie private dei soldati

    L’attacco all’Unione Sovietica del 1941 documentato negli album fotografici privati dei soldati tedeschi.

    Si tratta di album messi insieme nel corso della guerra, che riducono al minimo la finestra temporale tra ciò che viene vissuto e ciò che viene documentato, e che pertanto non subiscono la distorsione retrospettiva, consapevole o inconsapevole, tipica dei racconti fotografici dei soldati tedeschi che, nel dopoguerra, tendono ad esaltare il loro ruolo nella Wehrmacht.

    Die Fotografie der Landser di Armin Kille, 30/11/2020.

    Immagini di propaganda: l’avanzata italiana su Adua (1935).04. Immagini di propaganda: l’avanzata italiana su Adua (1935). (Fonte)

    ► 04. Immagini disciplinate del Fascismo e del Nazismo

    Markus Wurzer analizza, confrontandoli, i reportage fotografici di guerra nella Germania nazista e nell’Italia fascista.

    Nella Germania nazista le immagini di guerra non solo erano state censurate (come già durante il Primo conflitto mondiale) ma anche organizzate/disciplinate da uno specifico apparato di propaganda. E così pure era avvenuto nell’Italia fascista dove i reportage fotografici di guerra erano stati sottoposti ad uno stretto controllo da parte del regime già prima del giugno 1940, in occasione dell’aggressione contro l'Impero Abissino.

    Disziplinierte Bilder di Markus Wurzer, 06/04/2020.

    Cartolina commemorativa dell’incendio di Oradour-sur-Glane e del massacro dei suoi abitanti da parte delle SS in ritirata.05. Cartolina commemorativa dell’incendio di Oradour-sur-Glane e del massacro dei suoi abitanti da parte delle SS in ritirata. (Fonte)

    ► 05. Ricordando il 10 giugno. La cura della memoria a Lidice e Oradour

    L’occupazione nazista dell’Europa è stata accompagnata da distruzioni di città e villaggi.

    Il 10 giugno 1942, Lidice, distante pochi chilometri da Praga, era stata incendiata e rasa al suolo dalle SS tedesche come rappresaglia all’uccisione di un loro alto ufficiale da parte della resistenza. I suoi abitanti erano stati fucilati o inviati nei campi di concentramento.

    Il 10 giugno 1944 a Oradour, un piccolo villaggio nel dipartimento della Haute-Vienne nella Francia centro-occidentale, le SS incendiarono le case e massacrarono tutti gli abitanti.

    Zeina Elcheikh documenta nel suo articolo, con diverse immagini (fotografie, cartoline postali, francobolli, manifesti), sia la distruzione dei due villaggi che la cura della memoria, dal dopoguerra ad oggi, di quegli eventi tragici.

    Remembering 10 June. Curating Memory in Lidice and Oradour di Zeina Elcheikh, 09/06/2020.

     

    B. I movimenti e i regimi politici nell’Europa del Novecento: socialismo, fascismo, nazismo e stalinismo

    In questa area tematica segnaliamo in particolare:

    Sbandieratore, immagine del ’calendario dei lavoratori’ 1923-1929.06. Sbandieratore, immagine del ’calendario dei lavoratori’ 1923-1929. (Fonte)

    ► 06. La Rivoluzione sui muri

    Il volume dello storico dell'arte e della fotografia Wolfgang Hesse (pubblicato open access in Internet <https://core.ac.uk/download/pdf/268020278.pdf>) tratta dei "calendari rossi a strappo" del KPD (Die Kommunistische Partei Deutschlands) nella Repubblica di Weimar.

    La tradizione dei calendari a strappo risale all'ultimo terzo del XIX secolo. Diversamente dai “calendari del popolo”, i “calendari rossi” non contenevano “storie eroiche” ma dati e immagini della storia generale del mondo, dei movimenti democratici e dei lavoratori tedeschi.

    La recensione di Mario Keßler propone, contestualizzandole, diverse immagini estratte dal volume di Wolfgang Hesse.

    Die Revolution als Wandschmuck di Mario Keßler, 16/03/2020, recensione del volume Der rote Abreißkalender. Revolutionsgeschichte als Wandschmuck di Wolfgang Hesse, Eigenverlag, Lübeck 2019.

    ’Idea Vincit’, linoleografia di Otto Heinrich Strohmeyer del 1926.07.’Idea Vincit’, linoleografia di Otto Heinrich Strohmeyer del 1926. (Fonte)

    ► 07. I francobolli a favore e contro la guerra e il fascismo

    I francobolli emessi dallo Stato sono “veicoli illustrati” nella “epoca della riproducibilità tecnica delle immagini” (Walter Benjamin) con i quali lo Stato ha diffuso soprattutto nel passato (e diffonde ancora oggi) i simboli del proprio potere, della propria ideologia, della propria storia ben oltre i confini nazionali.

    Nell’articolo citato, Esposito analizza in particolare il simbolismo racchiuso nei francobolli che riproducono immagini dell’aviazione (i “veicoli alati”) sia con riferimento alle riflessioni dello storico dell’arte Aby Warburg che alla produzione filatelica dell’Italia fascista.

    Beflügelte Bilderfahrzeuge für und wider Krieg und Faschismus di Fernando Esposito, 18/05/2020.

    Gli abitanti di Sülfeld ritratti davanti al monumento a ricordo della vittoria dei nazionalsozialisti alle elezioni del Reichstag del 5 marzo 1933.08. Gli abitanti di Sülfeld ritratti davanti al monumento a ricordo della vittoria dei nazionalsozialisti alle elezioni del Reichstag del 5 marzo 1933. (Fonte)

    ► 08. Mobilitazione rurale a favore del nazismo

    La presa del potere da parte dei nazisti è stata accompagnata da una diffusa mobilitazione delle zone rurali della Germania a favore del nuovo regime. Anche Sülfeld, un piccolo villaggio dello Schleswig-Holstein, fu investito dall'ondata di euforia nazionale innescata dalla vittoria del NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei – Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori) alle elezioni del Reichstag del 5 marzo 1933.

    Kraus e Ullmann ricostruiscono tale mobilitazione con l’aiuto delle fotografie scattate nel villaggio di Sülfeld negli anni trenta.

    Sülfeld schafft dem 5. März 1933 ein Denkmal di Alexander Kraus e Maik Ullmann, 24/09/2018.

    Lavori forzati in un “campo correttivo” dell’Unione Sovietica.09. Lavori forzati in un “campo correttivo” dell’Unione Sovietica. (Fonte)

    09. Le immagini delle carceri e dei “campi correttivi” nell’URSS

    Le immagini fisse e in movimento scattate nelle carceri e nei “campi correttivi” dell’Unione Sovietica tra gli anni '30 e '70 del Novecento.

    Le istituzioni statali penali e giudiziarie dell'Unione Sovietica facevano spesso appello a cineasti e fotografi per una rappresentazione ufficale, in chiave pedagogica e propagandistica, del sistema penitenziario.

    L'articolo di Irina Tcherneva esamina in primo luogo le diverse concezioni visive della reclusione, il modo in cui le immagini plasmano lo sguardo delle istituzioni penali che hanno commissionato le immagini. In secondo luogo, l’articolo affronta le finalità e gli usi dei documenti visivi da parte delle istituzioni e dei detenuti.

    For an Exploration of Visual Resources of the History of Imprisonment Photo and Film in Penal Spaces in the USSR (1940–1970) di Irina Tcherneva, in «The Journal of Power Institutions in Post-Soviet Societies», n. 19/2018.

    (L’articolo non è presente nell’indice tematico della piattaforma digitale Visual History)

    Stalin il grande timoniere dell’URSS.10. Stalin il grande timoniere dell’URSS. (Fonte)

    ► 10. Il culto della personalità di Stalin nei manifesti di propaganda sovietici

    Dall'inizio del regime sovietico, i manifesti sono stati considerati come un mezzo di vitale importanza per comunicare ed educare la vasta popolazione dei territori dell'URSS. Nonostante lo sviluppo e la diffusione del cinema, il poster rimase, durante gli anni della leadership di Stalin, una forma primaria di propaganda, prodotta sotto uno stretto controllo centralizzato che rifletteva le priorità del regime.

    Anita Pisch analizza i manifesti di propaganda di Stalin sia da una prospettiva iconografica che iconologica, impiegando la metodologia utilizzata per la prima volta da Erwin Panofsky.

    The personality cult of Stalin in Soviet posters, 1929–1953 di Anita Pisch, 2016.

    (l’articolo non è presente nell’indice tematico della piattaforma digitale Visual History)

     

    C. L’antisemitismo, la persecuzione degli ebrei e la Shoah

    In questa area tematica segnaliamo in particolare:

    Caricatura antisemita su un documento fiscale inglese del 1233.11. Caricatura antisemita su un documento fiscale inglese del 1233. (Fonte)

    ► 11. La prima caricatura antisemita?

    La più antica caricatura antisemita conosciuta è un disegno su un documento fiscale inglese del 1233. La caricatura mostra tre ebrei dall’aspetto strano in compagnia di demoni ed evidenzia la somiglianza dei loro nasi a becco.

    Questa caricatura è diventata un’immagine iconica tra gli storici. È pubblicata sul sito web educativo degli Archivi nazionali del Regno Unito.

    Sara Lipton ne propone una lettura critica per esaminare ogni aspetto dell’immagine al fine di comprendere il suo significato politico e il ruolo che gli ebrei hanno in essa.

    Die erste antisemitische Karikatur? di Sara Lipton, 30/03/2020.

    Partenza del transatlantico St. Louis dal porto di Amburgo il 13 maggio 1939.12. Partenza del transatlantico St. Louis dal porto di Amburgo il 13 maggio 1939.(Fonte)

    ► 12. L’odissea del St. Louis

    Il 13 maggio 1939 il transatlantico tedesco “St. Louis”, con a bordo 937 ebrei (uomini, donne e bambini) in fuga dalla Germania nazista, iniziava dal porto di Amburgo la traversata oceanica con destinazione Cuba. Due settimane dopo raggiungeva il porto dell'Avana. Ma lo sbarco veniva rifiutato dalle autorità cubane.

    Iniziava così una vera e propria odissea con il ritorno in Europa dei passeggeri e la ricerca di porti di altri paesi in cui poter sbarcare e mettere in salvo gli ebrei.

    Sono state conservate numerose fotografie del viaggio e delle condizioni di vita sulla St. Louis. L’articolo qui citato mostra alcune foto commentate da estratti di due testimonianze contemporanee: il diario di Erich Dublon e il reportage di viaggio di Fritz Buff.

    Die Irrfahrt der St. Louis di Eva Schöck-Quinteros, 17/06/2019.

    ’Juden unter sich’ (Ebrei tra di loro), «Berliner Illustrierte Zeitung», 24  luglio 1941.13. “Juden unter sich” (Ebrei tra di loro), «Berliner Illustrierte Zeitung», 24 luglio 1941. (Fonte)

    ► 13. Gli ebrei nel ghetto

    I Propagandakompanien (PK) della Wehrmacht e i ghetti ebraici nella Polonia occupata.

    Una delle più influenti azioni di propaganda antisemita prodotte nel "Terzo Reich" era basata negli anni 1939-1941 su immagini e rapporti provenienti da vari ghetti nella Polonia occupata. Gran parte del materiale era stato raccolto dalle Propagandakompanien (PK) della Wehrmacht.

    Per Daniel Uziel, l’analisi del contributo delle Propagandakompanien alla politica antisemita dei nazisti richiede di prendere in esame non solo i materiali visivi, ma anche i contesti storici in cui sono stati prodotti. Ciò include gli aspetti organizzativi, le strategie di propaganda del regime, la situazione di guerra generale e locale.

    “Juden unter sich” di Daniel Uziel, 20/04/2020.

    I sopravvissuti Alfred Stüber (a destra) e Ludwig Stikel in una foto scattata dopo il 20 aprile 1945 nel campo di concentramento di Buchenwald.14. I sopravvissuti Alfred Stüber (a destra) e Ludwig Stikel in una foto scattata dopo il 20 aprile 1945 nel campo di concentramento di Buchenwald. (Fonte)

    ► 14. L'auto-rappresentazione dei sopravvissuti ai campi di concentramento

    Quasi tutte le fotografie di prima della liberazione dei campi di concentramento sono state scattate dalle SS con l'intenzione di presentarli come un sistema gerarchico altamente efficiente e una organizzazione funzionale senza violenze arbitrarie.

    I prigionieri vi appaiono come una folla docile e silenziosa.

    Dopo la liberazione dei campi nel 1945, gli internati sopravvissuti vengono raffigurati nelle foto scattate dai militari degli eserciti alleati come vittime anonime di un’immane tragedia.

    Sandra Starke vuole, invece, indagare la produzione di immagini “proprie e autodeterminate” degli ex-internati, utilizzando alcuni esempi riferiti al campo di concentramento di Buchenwald.

    Zur visuellen Selbstrepräsentation von KZ-Überlebenden di Sandra Starke, 26/10/2020.

    Erich Muhsfeldt sul profilo Facebook del Museo statale di Auschwitz-Birkenau del 2 gennaio 2011.15. Erich Muhsfeldt sul profilo Facebook del Museo statale di Auschwitz-Birkenau del 2 gennaio 2011. (Fonte)

    ► 15. Erich il malvagio

    Il primo gennaio 1945, Erich Muhsfeldt, capo del commando dei forni crematori di Auschwitz, sparò e uccise 200 prigionieri polacchi nel campo di Auschwitz II.

    Il primo gennaio 2011 il Museo di Stato di Auschwitz Birkenau ha pubblicato sul suo profilo Facebook una foto di Muhsfeldt. La fotografia ha innescato una marea di commenti.

    Nell’articolo citato, Ina Lorenz analizza la nuova modalità di trasmissione visiva della storia nello spazio virtuale.

    He even looks evil … di Ina Lorenz, 12/10/2015.

    Poster della conferenza internazionale “An End to Antisemitism” (Vienna, 2018).16. Poster della conferenza internazionale “An End to Antisemitism” (Vienna, 2018). (Fonte)

    ► 16. Le immagini contro l'antisemitismo

    L’articolo prende in esame le immagini utilizzate nella lotta contro l'antisemitismo e focalizza la sua attenzione sul poster della conferenza internazionale "An End to Antisemitism", che si è svolta a Vienna nel febbraio del 2018.

    Per Axster il poster della conferenza suggerisce una mancanza di sensibilità alle implicazioni razziste dell’antisemitismo e testimonia la necessità di mettere in relazione la lotta contro l'antisemitismo con quella contro il razzismo.

    Fallstricke im (visuellen) Kampf gegen Antisemitismus di Felix Axster, 10/06/2019.

     

    D. Le migrazioni e le immagini dello straniero

    In questa area tematica segnaliamo in particolare:

    Copertina del catalogo di una mostra sui flussi migratori: “Fuga, Espulsione, Integrazione, Patria” (2005).17. Copertina del catalogo di una mostra sui flussi migratori: “Fuga, Espulsione, Integrazione, Patria” (2005). (Fonte)

    ► 17. Immagini che colpiscono

    Un’analisi del “potere discorsivo” delle immagini nelle mostre a tema sull’emigrazione.

    Gli eventi storici o i diversi aspetti/fenomeni della vita sociale sono spesso rappresentati da poche immagini consolidate che sono passate attraverso un processo di selezione e canonizzazione che è alla base della loro efficacia mediatica.

    Ed è proprio questo processo che l’autore dell’articolo citato vuole approfondire svolgendo una ricerca sulle immagini dell’emigrazione nelle mostre a tema che sono state organizzate in Germania tra il 1974 e il 2013.

    Bilder mit Impact di Tim Wolfgarten, 29/06/2020.

    Richiedenti asilo davanti all'Ufficio immigrazione in Puttkamer Strasse.(18 agosto 1978, Berlino Ovest).18. Richiedenti asilo davanti all'Ufficio immigrazione in Puttkamer Strasse.(18 agosto 1978, Berlino Ovest). (Fonte)

    ► 18. I rifugiati nelle immagini della stampa tedesca

    Le fotografie giocano un ruolo centrale nella comunicazione dei mass media. I fenomeni migratori vengono differenziati attraverso le fotografie pubblicate sui giornali e sulle riviste. Esse comunicano punti di vista etici e legittimano il bisogno di azione.

    Questo progetto di ricerca raccoglie le fotografie per la stampa pubblicate in cinque quotidiani e settimanali nazionali nella Repubblica Federale di Germania («Frankfurter Allgemeine Zeitung», «Stern», «Spiegel», «Süddeutsche Zeitung», «Die Welt» - e in alcuni casi «Zeit» e «Tageszeitung») e utilizzate nei dibattiti sull’emigrazione dagli anni Cinquanta alla metà degli anni Novanta.

    Zur visuellen Produktion von “Flucht” und “Asil” in Pressefotografien der Bundesrepublik di Lisa-Katharina Weimar, progetto di ricerca, 26/09/2017.

    Immigrati italiani nella “Klein Neapel” (Piccola Napoli) a Wolfsburg (ottobre 1962).19. Immigrati italiani nella “Klein Neapel” (Piccola Napoli) a Wolfsburg (ottobre 1962). (Fonte)

    19. Gli italiani, “lavoratori ospiti” nella stampa degli anni ‘60

    Violetta Rudolf ha svolto un interessante ricerca sulle immagini e sulle relative didascalie delle foto di lavoratori immigrati italiani pubblicate dalla stampa locale di Wolfsburg (la citta della Bassa Sassonia sede dell'industria automobilistica Volkswagen) all’inizio degli anni Sessanta del Novecento.

    La ricerca vuole fare emergere dalle immagini tutto quello che non è possibile ottenere dalle fonti scritte e orali, evidenziando l’importante funzione comunicativa delle fotografie sui giornali nell’orientare l’opinione pubblica.

    Auf fotografischen Spuren italienischer „Gastarbeiter“ in der Wolfsburger Tagespresse 1962 di Violetta Rudolf, 23/01/2019.

     

    * Tutte le fonti e gli articoli segnalati nella sitografia erano consultabili in rete alla data del 08/02/2021.

    Parte Seconda: Visual history. L'uso didattico delle fonti iconografiche

  • Le foibe: i fatti, la costruzione della memoria, la ricerca storica.

    Autore: Antonio Brusa

     

    Le foibe: i fatti, la costruzione della memoria, la ricerca storica.
    Strumenti per la didattica1

     

    Sommario

    a. Introduzione
    b. I fatti, cronologia e carte
    c. Una storia tra politica e scuola
    d. La didattica. Qualche avvertenza

     

    A. Introduzione

    Digito “foibe” sul motore di ricerca. Un milione e duecentosettantamila pagine (al 10 febbraio 2013). Si aprono con l’immancabile Wikipedia, poi è un susseguirsi di voci contrastanti: ora un giornale di destra, ora il sito Anpi, ora il circolo anarchico e poi quello neofascista. Dopo un centinaio di titoli, finalmente, compare qualche storico: è la manchette del libro di Raoul Pupo e Roberto Spazzali.

    Un testo di riferimento, preceduto però da un cupo avvertimento. Attenti: secondo la sinistra va a finire che gli italiani si sono meritati di finire ammazzati. Mi accorgo, da storico non specialista del problema, che mi oriento con grande difficoltà in questo frastuono di documenti, foto, invettive, svelamenti di silenzi e disvelamenti di svelamenti. Mi chiedo: cosa farà uno studente, al quale l’improvvido prof abbia dato la consegna di onorare la Giornata del Ricordo con una bella e esaustiva ricerca su internet? E, al contrario, il docente prudente si dovrà limitare ai manuali? Farà ricorso dalla documentazione prodotta dal ministero? Oppure si darà alle fotocopie da libri e da ricerche? O, ancora, visto che gli editori aprono siti, in cui travasano paginate di materiali, darà ordine di scaricarle, magari sui tablet nuovi di zecca, in omaggio alla modernizzazione impartita dal Miur?


    Naturalmente HL non pretende di risolvere questo problema. Sa bene che questa sarà solo l’ultramilionesima pagina. Vuole però offrire uno strumento rapido di consultazione, nel quale ci siano le conoscenze essenziali che aiutino il prof a costruire un percorso didattico e gli forniscano gli strumenti critici fondamentali.  Luigi Cajani, che insegna storia moderna e didattica della storia alla Sapienza di Roma,  ha condotto un’accurata ricerca su come i manuali hanno trattato questo tema che, parzialmente pubblicata in Germania, verrà finalmente edita a breve in Italia.  Dal suo lavoro abbiamo ricavato questo strumento.

     

    In una recente intervista, il cantante  Simone Cristicchi mette insieme, in un unico calderone, Auschwitz, la risiera di san Sabba e le foibe e ritiene che, ancora oggi, la sinistra tenti di occultare quei tragici fatti. Dice, ancora, che non ha mai studiato questo argomento storico, e che tali convinzioni sono solo il frutto delle sue considerazioni personali. E’ la prova, credo, della diffusione ormai endemica di luoghi comuni e di stereotipi, sedimentati nella nostra società nei sessant’anni che ci separano ormai da quegli avvenimenti. E, se ce ne fosse bisogno, un incentivo in più per trattarli correttamente in classe.

     


    B. I fatti

     

    Da un dossier, ormai storico, pubblicato dalla rivista “I Viaggi di Erodoto” nel 1998, a cura di Franco Cecotti e Raoul Pupo2, ricavo le notizie essenziali e la cartina, relative alla storia delle foibe. Si deve partire dal quadro del popolamento della regione (dalla Venezia Giulia fino a comprendere tutta l’Istria). Si tratta di un territorio abitato da genti che parlano lingue diverse e di diversa composizione etnica. Difficile dare numeri certi, dal momento che i censimenti (ci spiegano gli studiosi) non erano sempre affidabili, perché erano, spesso “guidati” dai censitori, interessati a modificare le proporzioni etniche a proprio vantaggio. Le città erano prevalentemente abitate da italiani. Ma non mancavano gli slavi, che, ad esempio a Trieste raggiunsero le 50 mila unità. Allo stesso modo, la predominanza slava nelle campagne non era assoluta. Sia perché vi erano contadini e imprenditori italiani; sia perché abbondavano rumeni, ungheresi, ebrei; sia perché la stessa componente slava era a sua volta frazionata in popolazioni spesso in contrasto fra di loro. Nel corso del XIX secolo, si era sviluppato un doppio irredentismo. Quello degli italiani, che reclamavano l’unificazione con il neonato Regno, e quello slavo, tutto teso a costruire un’identità nazionale, spesso marcata fortemente dalla religione. Al tempo stesso, la regione era attraversata dai conflitti che interessavano tutta l’Europa: fra città e campagna; fra possidenti e agricoltori; fra ceti operai e contadini; fra borghesie (italiana e slava) in competizione fra di loro.

     

    In questo quadro di lungo periodo, i momenti fondamentali, fissati dalla cartina, sono i seguenti:

     

    Primo periodo: dal Trattato di Rapallo (1920), poi modificato dal Trattato di Roma del 1924, fino al 1941. Durante questo periodo, il confine del 1918 viene spostato fino a comprendere gran parte dell’Istria.

     

    Secondo Periodo: Dal 1941 fino al 1943. A seguito dell’invasione della Jugoslavia, il confine italiano viene spostato fino a comprendere buona parte della Slovenia, con la capitale Lubiana, che diventa una provincia italiana.

     

    Terzo Periodo: Dal 1943 al 1945. Dopo l’8 settembre, la Germania assume il controllo diretto dell’intera regione Venezia Giulia-Istria-Slovenia, che, con il nome di Adriatisches Küstenland viene governata dalle truppe tedesche, con l’aiuto di collaborazionisti locali. La tragedia delle foibe si articola in due fasi, al principio e alla fine di questo periodo.


    L’intera regione “Adriatisches Küstenland”, o “Regione del Litorale Adriatico”, con i confini successivi dopo la prima guerra mondiale, dopo l’impresa di Fiume e dopo l’invasione jugoslava

     

    Cronologia essenziale

     

    1941


    6 aprile: inizia l’invasione della Jugoslavia. Debole resistenza locale

     

    17 aprile: spartizione della Jugoslavia fra Germania, Bulgaria, Italia e Ungheria. All’Italia tocca il Montenegro, una parte del Kosovo e della Macedonia, parte della Dalmazia e la Slovenia. La Croazia da vita al regime guidato da Ante Pavelić, che viene diviso a sua volta in due zone di influenza, italiana e tedesca.

     

    3 maggio. Il nuovo commissario italiano, Grazioli, promuove una politica di fascistizzazione e di italianizzazione della regione.

     

    http://casarrubea.files.wordpress.com/2010/02/campi-di-concentramento-transit0001.jpg (con interventi che “antologizzano” bene il dibattito pubblico in Italia)


    Estate: scoppia la rivolta in Montenegro. Movimenti di resistenza in Slovenia. Feroce repressione italiana.

     

    1942/1943

     

    Il Fronte di Liberazione slavo unisce comunisti, cristiano-sociali e liberali. L’Italia promuove lo stato di “guerra totale”. Il generale Mario Roatta, al comando della II armata, assume il controllo politico della regione. Centinaia di processi sommari, con decine di condanne a morte e migliaia di condannati all’ergastolo o a pene di 30 anni. E’ molto difficile un censimento preciso. Tone Ferenc, storico sloveno, ha registrato 1569 esecuzioni capitali; 1376 decessi nei campi di concentramento italiani, dove furono deportate 25 mila persone, pari grosso modo all’8% della popolazione slovena (336 mila abitanti), ma a questo dato minimo va aggiunto un gran numero, nell’ordine delle molte migliaia, di vittime della guerra antipartigiana3.

    Il campo di concentramento di Gonars.

     

    Carta dei campi di concentramento.

     

    1943.

     

    8 settembre. L’esercito italiano è allo sbando. La Slovenia vive un periodo di interregno, durante il quale si scatenano sommosse prima a carattere contadino (jacqueries), poi a carattere nazionalistico anti-italiano. Processi sommari, a seguito dei quali 5-700 italiani vengono uccisi e gettati nelle foibe.

     

    1944

     

    Entra in azione l’Ozra, la polizia politica partigiana. Il suo compito, al principio, è quello di scovare i fascisti. Rapidamente diventa quello di annientare i “reazionari”, categoria nella quale si comprendono italiani, avversari del regime comunista e vittime di vendette occasionali.

     

    1945

     

    Maggio-inizi giugno. E’ la seconda fase delle foibe, diretta, questa volta, politicamente “dall’alto”. Impossibile il conto preciso delle vittime, peraltro non tutte gettate nelle foibe, ma in gran parte fucilate nei campi di concentramento: le stime oscillano fra i 5 e i 10 mila morti.

    Mappa delle principali foibe

     

    1945-1956

     

    L’esodo. Circa 300 mila italiani abbandonano la regione. La maggior parte di loro si insedia nel territorio nazionale.

     


    C. Una storia tra politica e scuola

     

    Il lungo silenzio del dopoguerra

    La vicenda del confine orientale ha visto alternativamente italiani e jugoslavi (in particolare sloveni e croati) nel ruolo di oppressori e oppressi, di vittime e carnefici. Per lungo tempo ha ricevuto scarsa attenzione da parte della dalla storiografia italiana e di conseguenza nessuna dalla scuola, come scrivevano i curatori del dossier della rivista “I Viaggi di Erodoto”. Le cause di questo lungo silenzio erano molte. In generale, per quanto riguarda l’insieme di queste vicende, va rilevato che le fonti d’archivio italiane e jugoslave rimasero in massima parte inaccessibili per decenni, sia per i normali tempi di segretezza che per l’imbarazzo che queste vicende suscitavano, per motivi diversi, in entrambi i governi. Per quanto riguarda il ruolo degli italiani come oppressori e carnefici, erano mancati quei processi, che consentono di raccogliere informazioni e danno loro risonanza presso l’opinione pubblica. La Jugoslavia aveva compilato una lista di militari italiani accusati di aver commesso crimini di guerra, in primo luogo  generali che avevano comandato le forze d’occupazione, ma non ne aveva ottenuto l’estradizione.

     

    La Banda Guidi-Colotti agiva sull’altopiano del Carso triestino, con il compito di reprimere il movimento insurrezionale sloveno. Dall’intervista a Alessandra Kersevan, nella quale se ne descrivono le gesta

     

    I governi italiani infatti poterono rifiutarsi di concederla, grazie all’appoggio degli Alleati, nel complesso gioco diplomatico che aveva come sfondo l’incipiente guerra fredda4. Per quanto riguarda invece gli italiani come vittime di massacri e del massiccio esodo nel dopoguerra, i maggiori partiti politici mostrarono un chiaro interesse a non sollevare la questione.


    I partiti italiani e la questione delle foibe

    La Democrazia Cristiana, il partito costantemente al governo dal dopoguerra, perseguì, nel contesto internazionale della guerra fredda, una politica di accomodamento con la Jugoslavia, che sfociò nel trattato di Osimo del 1975, con cui venne fissato in maniera definitiva il confine fra i due Stati. Il Partito Comunista Italiano, la seconda maggiore forza politica, costantemente all’opposizione, aveva pure esso steso volentieri un velo di silenzio, perché corresponsabile di quanto avevano subito gli italiani, dal momento che fra il 1943 e il 1945 aveva appoggiato in vario modo la politica annessionistica jugoslava. Un esponente di quel partito, Gianni Cervetti, ha così ricostruito autocriticamente, nel 2007, quella scelta:

     

    Fu un errore gravissimo, ma preferimmo rimuovere. … Il tema delle foibe diventò una parte della questione dei rapporti al confine orientale, cioè dei rapporti con la Jugoslavia». Il «Partito» ne discusse, negli anni Cinquanta e Sessanta, ma ne discusse … «soprattutto a Trieste e in modo molto acceso. Ma poi si fece un gran lavoro per stabilire rapporti di buon vicinato sul confine» con lo stato titino. E così ideologia e diplomazia si fusero e «queste due cause portarono a un errore gravissimo che fu quello di rimuovere il dramma delle foibe, di stendere non un velo ma una vera e propria coperta, per nascondere quello che non si voleva vedere. E non se ne parlò più5.

     

    Solo il Movimento Sociale Italiano, partito erede del fascismo e della Repubblica Sociale Italiana e che era ai margini della vita politica italiana, faceva sua la causa degli esuli giuliani e dalmati. Nell’opinione pubblica, dunque, memoria e rimozione delle sofferenze degli italiani erano politicamente divise.

     

    La rimozione sociale

    Per quanto riguarda le violenze commesse dagli italiani, regnava una diffusa inconsapevolezza, che va vista nel più generale contesto di una rimozione di lunga durata di tutti i crimini di guerra italiani, compiuti sia durante la Seconda guerra mondiale che, in precedenza, il Etiopia e in Libia. Un’inconsapevolezza alimentata dalle memorie autoassolutorie pubblicate immediatamente dopo la fine della guerra dal generale Mario Roatta6, comandante della II Armata in Slovenia dal gennaio 1942 e dal suo ufficiale di Stato Maggiore Giacomo Zanussi7, nonché dalla prima ricostruzione fatta nel 1978 da Salvatore Loi8 per conto della Stato Maggiore dell’Esercito Italiano.

     

    Le prime ricerche storiche

    Un primo quadro della durezza dell’occupazione italiana in Slovenia emerse da un breve saggio di Teodoro Sala del 19669, che si basava sugli studi di storici jugoslavi, in particolare Ivo Juvančič e Tone Ferenc, e citava alcuni importanti documenti italiani conservati nell’archivio dell’Institut za zgodovino delavskega gibanja di Lubiana, fra cui i bandi emanati nel 1941 dall’Alto commissario Emilio Grazioli e da Mussolini, la Circolare n. 3 C emanata nel 1942 dal generale Mario Roatta, comandante della II Armata dal gennaio 1942, dove si davano dure indicazioni sulla lotta antipartigiana, e il fonogramma del generale Mario Robotti che conteneva una frase divenuta famosa: “si ammazza troppo poco!”.

    Teodoro Sala, a lungo presidente della Commissione didattica dell’Insmli, la rete degli Istituti per lo studio dei movimenti di Liberazione, si è prodigato per sensibilizzare storici e insegnanti sulla vicenda delle foibe e del confine orientale.

     


    Sala accennava però appena al fenomeno della deportazione degli sloveni nei campi di concentramento. Più in generale sulla Jugoslavia, uscirono negli anni ’70 le memorie del cappellano militare Pietro Brignoli10 e le ricerche dello scrittore Giacomo Scotti11. Si trattava complessivamente di pochissimi scritti, talora di nicchia, e di scarsissimo impatto sull’opinione pubblica. Maggiore era stata l’attenzione sull’Africa, soprattutto grazie allo storico Angelo Del Boca, che aveva scritto sull’Etiopia12 e sulla Libia13, e su quest’ultima era uscito nel 1977 anche un libro del giornalista Eric Salerno14.

     

    Il ruolo dei media

    L’Etiopia salì comunque alla ribalta soprattutto con il documentario televisivo L’Impero, un’avventura africana, scritto e diretto dal regista Massimo Sani con la consulenza di Del Boca, trasmesso in seconda serata dalla prima rete della RAI il 3 ottobre 1985, in occasione del cinquantenario dello scoppio della guerra15. In particolare, vennero presentate molte prove dell’uso dei gas asfissianti.

     

    Durante questo seminario, organizzato dall’istituto Storico della Resistenza friulano vennero proiettati il film di Ken Kirby, Fascist Legacy, di Lordan Zafranović, La caduta dell’Italia (1981) e Occupazione in 26 immagini (1978), oltre ai documentari di Massimo Sani, Quell’Italia del ’43 (1993) e di Alessandra Kersevan e Stefano Raspa, The Gonars Memorial 1941-1943: il simbolo della memoria italiana perduta (2005).


    Pochi anni dopo il documentario di Sani un altro documentario televisivo, questa volta non italiano, venne ad affrontare l’intera questione dei crimini di guerra italiani, non solo in Etiopia ma anche in Libia e nei Balcani. Si trattò di Fascist Legacy, messo in onda il 1 e l’8 novembre 1989 dalla BBC con la regia di Ken Kirby e con la consulenza del giornalista americano Michael Palumbo, il quale per primo aveva lavorato sui fondi della United Nations War Crimes Commission. Per quanto riguarda la Libia, il documentario dava conto della durissima repressione fra gli anni ’20 e ’30, e per l’Etiopia parlava non solo dell’uso di gas asfissianti, ma anche del bombardamento di ospedali della Croce rossa durante la guerra e, successivamente, della sanguinosa rappresaglia seguita al fallito attentato contro il governatore Rodolfo Graziani. Per quanto riguarda la Jugoslavia, il documentario trattava in particolare del campo di concentramento nell’isola di Arbe (Rab in croato), dove si ebbe un alto tasso di mortalità, e si spiegavano le ragioni della mancata consegna dei criminali di guerra italiani alla Jugoslavia. Il documentario suscitò reazioni negative da parte italiana, forse proprio per le questioni legate alla Seconda guerra mondiale. L’ambasciata italiana a Londra protestò immediatamente con la BBC, denunciando una denigrazione dell l’Italia. La RAI acquistò il documentario nel 1991, ma non lo trasmise mai. Pertanto esso circolò soltanto in circoli antifascisti italiani, e solo nel 2004 venne diffuso dall’emittente privata La7.


    Le nuove ricerche storiche

    Intanto, nel corso degli anni ’80, le ricerche storiche sui rapporti italo-jugoslavi presero un nuovo e deciso impulso, soprattutto a causa  del mutare della situazione politica della Jugoslavia, dove dopo la morte di Tito nel 1980 si aprì una crisi politica che portò nel 1991 alla sua dissoluzione. La fine del regime comunista portò con sé una revisione critica della sua storia e mise in moto nuove ricerche e l’accesso a nuove fonti d’archivio16, fra cui il libro Fašisti brez krinke: Dokumenti 1941-1942, di Tone Ferenc, del 1987, tradotto nel 1994 in italiano17. Anche in Italia vennero avviate nuove ricerche d’archivio: l’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito affidò a Marco Cuzzi una ricerca sull’occupazione della Slovenia, pubblicata nel 199818, dalla quale emersero molti dettagli sulle violenze a danno dei civili esercitate dagli italiani nelle azioni di repressione e rappresaglia. E’ così iniziato un filone di ricerche sulla guerra italiana nei Balcani, che non si è ancora esaurito19.

     

    Soldati italiani guardano vittime slovene


    Un importante segno di questo cambiamento dei tempi fu la mozione approvata all’unanimità dal consiglio comunale di Trieste nel 1990 in cui si auspicava la costituzione di una commissione storica italo-jugoslava che prendesse in esame la storia del rapporto fra i due Stati. Subito dopo la Jugoslavia si dissolse, e la proposta venne concretizzata nel 1993, per iniziativa dei rispettivi ministeri degli Esteri, con la costituzione di due commissioni, una italo-croata e l’altra italo-slovena.

     

    La commissione italo-slovena

    La prima commissione si arenò quasi subito20, mentre la seconda21 riuscì a produrre nel 2000 un rapporto22 che ricostruiva in maniera sostanzialmente equilibrata la storia comune fra il 1880 e il 1956. Dopo aver ricordato la politica di “distruzione integrale dell'identità nazionale slovena e croata” portata avanti dall’Italia nel periodo fra le due guerre, e le violenze a danno degli sloveni durante la Seconda guerra mondiale, dall’internamento in campi di concentramento, all’incendio di villaggi, alla fucilazione di ostaggi, gli autori passano a parlare delle violenze subite dagli italiani ad opera degli jugoslavi subito dopo l’armistizio del 1943 e dopo la fine della guerra, nel 1945, chiarendo il duplice significato di queste violenze, come conseguenza dell’occupazione italiana ma anche come strumento di un piano politico volto all’annessione di quelle zone alla Jugoslavia:

     

    Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo23.

     

    Esumazione di salme da una foiba. Immagine di apertura Rai 1, del 10 febbraio 2012

     

    Nelle scuole italiane si comincia a studiare meglio il Novecento

    Altri elementi sopraggiunsero in quegli anni ad animare il dibattito sulla storia recente dell’Italia. In primo luogo la decisione del ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer, che nel 1996 stabilì che il programma di storia dell’ultimo anno della scuola medie e della scuola secondaria superiore venisse dedicato al solo Novecento, mentre fino ad allora si studiava anche l’Ottocento24. Questo notevole ampliamento dello studio della storia contemporanea riaccese l’annosa polemica sull’opportunità di insegnare la storia contemporanea, una polemica tutta italiana, che aveva avuto origine nell’immediato dopoguerra, quando, nel corso della defascistizzazione della scuola, condotta dalla Sotto-commissione per l’educazione della Commissione Alleata di Controllo, venne sospeso l’insegnamento della storia successiva alla fine della Prima guerra mondiale, che nei manuali era la parte più intrisa di ideologia fascista25. Questa decisione doveva essere una misura d’emergenza in attesa di nuovi manuali ispirati a principi democratici, ma venne mantenuta fino al 1960, creando una situazione del tutto inedita, e paradossale, nella scuola italiana. Il fatto era che il fascismo e la Resistenza erano temi scottanti, su cui la Democrazia Cristiana, dopo aver estromesso i socialisti e i comunisti dal governo dal 1947, preferiva stendere un velo di silenzio, in un’ottica moderata. La sinistra, che stava all’opposizione, ne reclamava invece lo studio, anche per combattere nostalgie fasciste. Solo con il mutare del clima politico e la prima apertura a sinistra lo studio degli anni più recenti venne reintrodotto nei programmi, ma la divisione fra destra e sinistra sull’opportunità di insegnare la storia contemporanea non svanì mai, e appunto riemerse vivacemente in occasione in occasione del decreto di Berlinguer. Fra i fautori, a sinistra, Vittorio Foa affermava l’importanza di uno studio attento del Novecento nella formazione dei giovani: “Gli studenti devono studiare questo secolo per capire il rapporto fra il ricordo del passato e il futuro della loro vita”26. Fra gli oppositori, a destra, Indro Montanelli scriveva invece: “Esistono dei testi scolastici di Storia contemporanea dei quali ci si possa fidare come equilibrio e imparzialità? Non ne conosco27”.

    La polemica divenne particolarmente rovente a causa della profonda crisi politica che l’Italia stava attraversando in quegli anni, con la fine o la profonda trasformazione di partiti storici come la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano e il Partito Comunista Italiano, e la nascita di nuovi partiti come la Lega Nord e Forza Italia. Il Movimento Sociale Italiano si trasformò in Alleanza Nazionale e grazie all’alleanza con Forza Italia arrivò per la prima volta della sua storia al governo. In questa nuova fase politica, questo partito cercò naturalmente anche una legittimazione del proprio passato, attraverso l’attacco al paradigma antifascista28, che permeava l’insegnamento della storia, indipendentemente dall’orientamento marxista, liberale o cattolico degli autori dei manuali. In particolare vennero denunciati, anche con libri di grande diffusione come quelli del giornalista Giampaolo Pansa29, i crimini commessi dai partigiani, in particolare subito dopo la fine del conflitto, e si rivendicò dignità anche per i combattenti della Repubblica Sociale Italiana, nella quale qualcuno dei membri più anziani di Alleanza Nazionale aveva militato, con l’argomento che anche loro si erano battuti per la Patria. In tal modo si voleva eliminare uno storico conflitto, da cui era nata la Repubblica, e promuovere una pacificazione nazionale.

     

    La battaglia sui libri di testo

    Uno dei momenti più aspri della polemica, che investì direttamente l’insegnamento della storia, fu l’autunno del 2000, quando, il 9 novembre, il Consiglio della regione Lazio, di cui era presidente Francesco Storace, di Alleanza Nazionale, approvò una mozione in cui accusava i manuali di storia per la scuola superiore di mistificare la storia italiana, con una faziosità mirante a alimentare “uno scontro generazionale” e a impedire “la ricostruzione di un'identità nazionale comune a tutti i cittadini italiani e l'affermarsi di un sentimento di autentica pacificazione nazionale”. La mozione lamentava poi la mancanza in Italia di un’autorità di controllo sui libri di testo, e per ovviare almeno parzialmente a questa carenza impegnava il presidente a istituire una commissione di esperti che svolgesse un'analisi attenta dei testi scolastici evidenziandone carenze o ricostruzioni arbitrarie, nonché a promuovere la scrittura di nuovi libri di testo da diffondere nelle scuole della regione.

    Nella mozione si faceva riferimento ad un opuscolo di poche pagine30 diffuso poco tempo prima dai militanti di Azione Studentesca, un’organizzazione di Alleanza Nazionale, nel quale, con argomentazioni molto elementari si denunciavano alcuni fra i più diffusi manuali di storia per le scuole secondarie superiori come inquinati dall’ideologia di sinistra, che portava la maggior parte di loro a tacere dei massacri delle foibe e, nei rari casi in cui ne parlavano, a negare a questi massacri il carattere di pulizia etnica antitaliana. In particolare quest’accusa veniva rivolta al Camera-Fabietti31, insieme a quella di rifiutare esplicitamente di mettere sullo stesso piano etico-politico partigiani e repubblichini. Oltre che a queste vicende, gli autori davano ancor maggiore attenzione agli eventi più recenti della storia italiana, dagli anni del terrorismo al governo Berlusconi, accusando molti manuali di fare solo propaganda elettorale.

    Immediatamente altri consigli regionali governati dalla destra votarono iniziative analoghe, scatenando un’immediata valanga di furibonde reazioni negative non solo da parte di esponenti politici di sinistra, ma anche più in generale fra gli storici e nel mondo della scuola. In effetti, non era solo l’attacco al paradigma antifascista a suscitare indignazione, ma anche l’idea di un controllo sui libri di testo, che era stato abolito dopo la fine del fascismo. In proposito il Presidente del Consiglio Giuliano Amato affermò con chiarezza, nel corso del dibattito alla Camera dei Deputati, che si tenne il 15 novembre, che nessun organismo pubblico deve interferire in materia di testi scolastici, e che la commissione prevista nella mozione rappresentava “una forma di censura dissuasiva invece che proibitiva” che può avere “un effetto omologante pericolosissimo su quella che deve rimanere una dialettica tra libertà, tra autori, tra insegnanti e autori e tra insegnanti e studenti”32. Di fronte a questa levata di scudi, Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, al momento all’opposizione, che pur aveva salutato la mozione della regione Lazio rallegrandosi del fatto che “i nostri figli non dovranno … più studiare su testi di storia con deviazioni marxiste”, preferì fare marcia indietro, affermando che bisognava stare attenti a non passare dalla parte del torto “offrendo pretesti di critica” agli avversari33, preoccupato evidentemente di un riflesso negativo di queste proteste sulla prossima campagna elettorale. E tutta l’iniziativa finì nel dimenticatoio.

     

    Un caso esemplare: Il manuale di Camera e Fabietti

    Ormai, sotto la spinta di nuove ricerche storiche e polemiche politiche e culturali, anche il mondo della scuola cominciava ad occuparsi delle vicende del confine orientale. Il confronto fra i manuali per le scuole secondarie superiori fino alla metà degli anni ’90 e quelli successivi è eloquente. Ad esempio, il Camera-Fabietti, nella terza edizione del 1987, presentava solo una cartina con una breve didascalia che sottolineava come dopo la Seconda guerra mondiale l’Italia avesse perso quasi tutte le acquisizioni fatte dopo la Prima guerra mondiale, con l’eccezione di Trieste, Gorizia e Monfalcone34. Nella successiva edizione di questo manuale, del 1999, si trova una nuova scheda (firmata da Camera) dal titolo Foibe e Risiera di San Sabba, lunga ben 5 pagine35, a riprova della nuova attenzione a quegli eventi, ma senza la completezza e l’equilibro dell’informazione, che caratterizzava invece il dossier della rivista I viaggi di Erodoto. Camera si sofferma in primo luogo sulla politica di italianizzazione forzata delle popolazioni slave nei territori annessi dopo la Prima guerra. Passando però alla Seconda guerra mondiale, egli presenta le violenze italiane in maniera del tutto minimizzatrice e fuorviante, addirittura eufemistica:

     

    al presidio delle terre balcaniche occupate e alla lotta contro i partigiani slavi parteciparono più di trenta divisioni italiane, che nell’adempimento di questa sciagurata funzione certo non ci attirarono le simpatie dei popoli assoggettati36.

     

    A questa carente informazione ne segue una più precisa sulla Risiera di San Sabba, un campo di concentramento ed eliminazione presso Trieste, dove furono sterminati a migliaia non solo ebrei, ma anche e soprattutto oppositori politici, resistenti e partigiani sloveni e croati,  che fu installato dai tedeschi quando, dopo l’armistizio italiano, assunsero il controllo della regione, ma di cui anche le autorità repubblichine furono corresponsabili. Con queste due informazioni, di peso molto ineguale, Camera spiega il risentimento degli sloveni nei confronti degli italiani. E passa poi a descrivere le violenze subite da questi ultimi, distinguendo due fasi: la prima immediatamente successiva all’armistizio dell’8 settembre 1943, nei pochi giorni di vuoto di potere prima che i tedeschi prendessero il controllo della zona, e durante i quali furono uccise fra le 500 e le 700 persone. L’autore spiega questi eventi come una conseguenza di uno “sfogo dell’ira popolare sloveno-croata contro gli italo-fascisti”, senza quel disegno politico preordinato che invece caratterizzò la violenze della seconda fase, nel maggio-giugno del 1945. Camera analizza qui con inusuale dovizia di documenti le intenzioni di Tito di annettere alla Jugoslavia tutta la Venezia Giulia, e quindi la decisione di combattere non solo contro gli italiani fascisti e responsabili di crimini di guerra, ma anche contro gli italiani antifascisti, come i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) di Trieste, che volevano che quelle zone rimanessero all’Italia, e che in quanto tali erano automaticamente nemici dell’armata liberatrice jugoslava. Chiara e documentata è anche la denuncia delle responsabilità del Comitato cittadino del partito comunista di Trieste, il quale nel 1944 uscì dal CLN per appoggiare la politica di Tito. Si noti, a margine, quanto sia grossolana e infondata l’accusa mossa all’autore dall’opuscolo di Azione studentesca di negare la dimensione etnica delle violenze antitaliane. Sul numero delle vittime di questa seconda fase l’autore non si pronuncia, rilevando l’incertezza dei dati, e denunciando la strumentalizzazione politica fattane dalla destra italiana, ma anche la negazione della gravità di quegli eventi da parte di chi, nella sinistra italiana, diceva che in quelle terre si era solo fatta giustizia. Insomma, una posizione che prendeva nettamente le distanze da entrambe le parti.


    I manuali italiani degli ultimi venti anni

    I manuali italiani, dunque, cominciano a parlare di foibe nel corso degli anni ’90 (per quanto prima della querelle sui libri di testo che abbiamo appena ricordato). Difficile darne conto completamente, dato il loro altissimo numero e, soprattutto, considerando il fatto che gli editori ne presentano versioni nuove a ripetizione. Esaminandone alcuni, si scopre che, in realtà, la vera storia occultata non è quella delle foibe, quanto piuttosto quella del comportamento degli italiani in Slovenia. A volte, si cita solo “la brutale dominazione nazifascista”, senza ulteriori dettagli. Si parla di «programma di distruzione delle identità», e di “eliminazione delle istituzioni nazionali  slovene e croate”. Si spiega che il solo sentimento di vendetta non basta a spiegare questa tragedia e si fa riferimento a un non meglio precisato intreccio complesso di fattori. Si ricorda il sentimento anti-italiano, diffuso nel mondo slavo ben prima della seconda guerra mondiale. Si denuncia l’opera di “fascistizzazione anche violenta”. Ma le descrizioni più dettagliate sono riservate al comportamento slavo:  

     

    I partigiani comunisti jugoslavi … facevano ben poche distinzioni fra fascisti e italiani; … essi consideravano l’intera popolazione italiana come nemica e procedettero a massacri contro i civili, che gettavano, già uccisi o ancora vivi, con mani e piedi legati, nelle foibe, le profonde cavità carsiche del terreno. Il loro intento era non solo di ripulire il territorio dai  fascisti, ma di costringere l’intera popolazione di lingua italiana all’esodo. Anni dopo la fine della guerra si procedette al parziale recupero dei resti degli “infoibati”, sicuramente diverse migliaia. Gli esuli dalla Venezia Giulia furono 300.00037

     

    Fra i rari esempi di trattazione equilibrata, citerei il recente manuale di Alberto Mario Banti. Questi, infatti, oltre a parlare delle foibe, descrive, anche se sommariamente e senza citare singoli episodi, la politica repressiva italiana sia in Grecia che in Jugoslavia, fatta di rastrellamenti, esecuzioni di civili sospetti di appoggiare i partigiani, distruzione di villaggi e deportazioni, e cita anche in generale Roatta38. Banti inserisce la repressione italiana nel più generale contesto della “guerra contro i civili”, che caratterizzò in vario modo il comportamento delle truppe tedesche e italiane, e delle cui vittime egli dà un sommario bilancio nei vari teatri di guerra, soffermandosi peraltro sugli episodi di cui furono responsabili i tedeschi.

     

    Lettera censurata di un internato croato nel campo di Gonars.

     

    La Giornata del Ricordo

    Il quadro distorto e manchevole, che la manualistica mette in evidenza, rischia di essere aggravato dall’intervento della politica sulla storia e sul suo insegnamento. Infatti il Parlamento italiano ha istituito nel 2004 la celebrazione di una “Giornata del Ricordo” per commemorare le foibe e l’esodo degli Italiani dall’Istria e dalla Dalmazia39, e fra queste celebrazioni la legge prevede “iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado”. Il dibattito parlamentare su questa legge, che è stata votata non solo dalla maggioranza di centro-destra al governo, che l’ha proposta, ma anche da buon parte dell’opposizione di sinistra, con l’eccezione dei partiti della Rifondazione Comunista e dei Comunisti Italiani, si è concentrato sulle violenze subite dagli italiani, e solo pochi sono stati i riferimenti al contesto generale e alle violenze subite in precedenza dagli jugoslavi, riferimenti peraltro viziati da quella imprecisione e genericità già lamentata a proposito di vari manuali di storia. Nel corso del dibattito alla Camera dei Deputati, tenuto il 10 febbraio 2004, Pietro Fassino, segretario dei Democratici di Sinistra, si limitò a parlare di “misfatti” e “angherie” commessi durante l’occupazione italiana, precisando che comunque a suo avviso non potevano giustificare le successive violenze commesse contro gli italiani40. Il giorno scelto per questa celebrazione è stato il 10 febbraio, anniversario della firma del Trattato di Parigi che nel 1947 assegnò l’Istria alla Jugoslavia.

    Questa scelta della politica italiana è in continuità con la decisione presa dal ministero degli Esteri di non pubblicare il rapporto della commissione italo-slovena41, nonostante la raccomandazione dei due copresidenti, raccomandazione che venne invece accolta dall’omologo ministero sloveno. Con la legge sulla “giornata del ricordo” la politica italiana ha così vanificato il senso del lavoro degli storici: superare le memorie contrapposte con un discorso storico comune. E così facendo ha smentito proprio le sue buone intenzioni iniziali. La Slovenia, peraltro, ha finito per seguire la stessa strada dell’Italia, cadendo nella provocazione e decidendo di contrapporle una sua celebrazione.

     

    La comunità slava triestina era corposa, oltre 50 mila abitanti. Aveva teatri, centri culturali, bar e scuole. Qui è il Narodni Dom, incendiato dai fascisti nel 1920

     

    Si proposero dapprima date che ricordavano le violenze italiane, come l’anniversario dell’incendio del Narodni Dom di Trieste, la Casa del Popolo slava, compiuto nel 1920 da nazionalisti italiani, o la fucilazione di cinque sloveni condannati nel 1930 dal Tribunale Speciale42, ma alla fine si scelse una data che commemorava una vittoria slovena, il 15 settembre del 1947, quando entrò in vigore quello stesso Trattato di Parigi che assegnava alla Jugoslavia il Primorska, cioè il litorale adriatico43. Così, lo stesso trattato viene celebrato in Italia e in Slovenia, ma in date diverse e con segno opposto.

     

    La scuola e la Giornata del Ricordo

    Importante, a questo punto, è vedere come reagisce la scuola italiana all’imposizione di celebrare il 10 febbraio. Si è visto come i manuali di storia tendano per lo più ad una rappresentazione squilibrata dell’intera vicenda, e questa tendenza può essere facilmente aggravata dalla legge del 2004. Un volume pubblicato nel 2010 dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca44, che presenta un quadro di iniziative prese nelle scuole, conferma che nei vari interventi didattici ci si è concentrati solo sulle violenze subite dagli italiani. E simile impostazione ha il materiale didattico prodotto dall’Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea45. In senso opposto va peraltro l’iniziativa congiunta presa nel 2007 dalla giunta provinciale di Roma (allora di centro-sinistra) e dal Liceo scientifico statale “P. Paleocapa” di Rovigo, con due convegni, i cui atti sono stati poi pubblicati in un unico volume46. L‘iniziativa è stata posta esplicitamente in continuità con i lavori della commissione italo-slovena, ed ha riunito storici italiani, sloveni e croati, che hanno composto un quadro a più voci su tutti gli aspetti principali di quelle vicende a partire dalla metà dell’Ottocento.

    Il problema di un insegnamento equilibrato delle vicende del confine orientale dell’Italia è dunque ancora lontano dalla soluzione, e va notato che anche la manualistica slovena mostra uno squilibrio, di segno opposto a quello della manualistica italiana,  portando l’attenzione sull’occupazione italiana e ignorando le violenze antitaliane, come si rileva ad esempio in uno dei manuali più diffusi, quello di Božo Repe47. La ricerca storica congiunta ha compiuto passi molto importanti, ma la politica, dopo iniziali aperture, è tornata a contrapposizioni strumentali, che probabilmente hanno una maggiore efficacia là dove, come in Slovenia, i manuali scolastici sono sottoposti al controllo delle autorità ministeriali.

     

    D. La didattica. Qualche avvertenza

     

    Per avviare un buon approfondimento sul tema  è opportuno, al principio, sincerarsi che gli allievi padroneggino alcuni concetti, utili sempre per la correttezza del ragionamento storico, ma indispensabili in temi caldi, come questo48. Ad esempio: i ragazzi (come molti adulti) tendono a ragionare in termini di “colpevoli”. Gli storici, invece, parlano di cause, individuano responsabilità a diversi gradi. E’ opportuna la distinzione, dal momento che occorre aiutare gli allievi a separare il piano giuridico (e politico) da quello storico. Inoltre, questo argomento richiama con insistenza parole/concetti quali “identità”, “memoria collettiva”, “memoria condivisa”, “etnia”, “confini” e così via. Si faccia attenzione, in questi casi, al fatto che questi termini designano dei processi di costruzione politica: non indicano dati “naturali” o “essenziali” di una popolazione, come spesso si crede. La vicenda delle foibe, in particolare, è anche un momento di costruzione identitaria, sia pure con tempi e modalità diversi, da entrambi i fronti; ed è stata un argomento per tracciare e rendere definitivi dei confini. Questo vuol dire che una buona trattazione di questo tema implica una programmazione accurata precedente, dal momento che è impossibile avviare l’apprendimento di questo complesso di termini in una sola unità didattica. In mancanza di questi prerequisiti, il docente deve mettere nel conto il fatto che gli allievi tenderanno a usare questi concetti nella forma stereotipata, consueta nella società, e rafforzata purtroppo dal dibattito pubblico.

     

    Recupero di resti umani dalla foiba di Vines, località Faraguni, presso Albonad’Istria negli ultimi mesi del 1943, Dahttp://www.dismappa.it/giorno-del-ricordo-2013/, che riporta le iniziative ufficiali del comune di Verona in occasione della giornata della memoria del 2013. Vi si riporta una ricca documentazione, che si sforza di essere equilibrata fra le tesi della Kersevan, definita “negazionista” e la testimonianza, molto contestata da parte storica, di Graziano Udovisi, testimone “infoibato”.

     

     Per comprendere storicamente il fatto “foibe”, occorre contestualizzarlo. I processi cognitivi sono fondamentalmente due. Il primo “verticale”, inserisce la strage in una retta cronologica. Questa attività serve a ricostruire una catena, sicuramente non lineare ma complessa, di relazioni, che aiuta a mettere in prospettiva questa tragedia. Un primo strumento (oltre alle conoscenze eventualmente riportate nel manuale) possono essere la cronologia riportata sopra e i dati sul popolamento e sulla complessità della storia regionale. Il secondo modo per contestualizzare un fatto è “orizzontale”. Occorre disporre “le foibe” sul tavolo dei fenomeni simili. In questo caso,  quelli che caratterizzano l’immediato dopo-guerra, con le vendette, le espulsioni e gli eccidi di massa, a danno sia dei fascisti e dei nazisti, ma soprattutto delle popolazioni civili. A seguito di questo processo drammatico, oltre dieci milioni di civili furono cacciati dalle loro terre. Tedeschi dalla Polonia e dalla Cechia, ungheresi e rumeni dalla Jugoslavia, italiani dall’Istria. Si contarono oltre due milioni di vittime. La contestualizzazione è fondamentale sia per capire il fatto delle foibe, sia per discuterne in classe, evitando gli equivoci del dibattito pubblico, che tende a inserire nella stessa categoria di “massacro”, eccidi storicamente diversi, quali quelli perpetrati dal nazismo durante la guerra e quelli a danno delle popolazioni sconfitte, dopo la guerra. Alcuni storici, di recente, dilatano i tempi, includendo in questi processi di migrazione forzata una cronologia che risale a metà ottocento49.

     

    L’istituto Storico della Resistenza di Trieste pubblica fra l’altro un dvd con una ricca documentazione, ben equilibrata, sulle violenze italiane e slave

     

    Tuttavia, il “fatto” foibe è ormai inseparabile dal processo di rimozione/rimemorizazione, attraverso il quale è giunto fino a noi. Il complesso delle notizie (film, documentari, denunce, memoriali e diari, interviste, biografie, articoli di giornale e, infine, l’intero circuito mediatico-digitale) è lo strumento fondamentale attraverso il quale questo processo si è attivato. Questa consapevolezza è vitale, per il docente che voglia avviare gli allievi alla sua comprensione. Infatti, le cosiddette “fonti”, alle quali gli studenti rischiano di abbeverarsi sono le stesse protagoniste del processo di rielaborazione dell’evento. Queste attivano un complicato gioco di rimandi all’interno del quale ci si perde facilmente. Un gioco che non si basa più sugli eventi del passato, così come riusciamo a ricostruirli, ma sulla reinterpretazione di quei fatti. O meglio, su dei “fatti interpretati”. Su dei “fattoidi”, come qualche volta si dice, quando si parla di media. Quindi, l’eccidio diventa – di volta in volta: “pulizia etnica”, “massacro comunista” e così via. Pensiamo di analizzare una tragedia della seconda guerra mondiale, e ci troviamo, senza saperlo, a discutere – invece – dell’opinione di questo giornalista o di quell’uomo politico.

     

    Tenere, dunque, le strade separate quanto più possibile (per quanto esse si intreccino inevitabilmente, come abbiamo visto nella ricostruzione di Luigi Cajani). Da una parte la strada della rielaborazione politico/sociale; dall’altra quella della ricostruzione storica. Sono diverse fra di loro non per la passione politica che le attraversa. Anche gli storici hanno le loro appartenenze. Sono diverse per tanti motivi. Quello che qui sottolineo è dato dagli scopi: lo storico vuole ricostruire un fatto. Può fare questo lavoro bene o male. Ma il suo obiettivo, quale che sia la sua appartenenza, è conoscitivo. Il politico o l’operatore dei media vogliono altro: convincere, interessare, stupire, scandalizzare, rassicurare. Obiettivi legittimi, che qui non contesto. Sottolineo solo che sono altri, rispetto all’obiettivo fondamentale e assoluto della conoscenza.

     

    Due mestieri diversi. E conseguentemente, opere diverse e procedimenti diversi per costruirle.

     

    Come fare a tenerli separati? Certamente, pretendere di riuscirvi con una sola unità didattica, e per giunta su un tema scottante come questo, è chiedere troppo. Si tratta di obiettivi di lungo periodo, che vanno accuratamente preparati nel corso del curricolo, soprattutto attraverso qualche attività di laboratorio, che insegni agli allievi (concretamente) che cosa vuol dire lavorare con dei documenti, cimentarsi nell’attività di ricostruzione di un fatto.

     

    Tuttavia, nella prassi didattica internazionale, si è trovato che un buon sistema per affrontare questi temi caldi è quello della didattica controversiale: insegnare a discutere, o meglio insegnare le regole della discussione storica. Una o più tesi da sostenere50. Degli argomenti e dei documenti come prove da citare nelle proprie argomentazioni. Il prof svolge il ruolo di regolatore della controversia. Al termine del lavoro non è importante osservare chi vince e chi perde, quanto ritornare sulla discussione stessa per valutarne la regolarità e per osservare la differenza fra questa e il talk show, nel quale gli argomenti si sovrappongono e i giudizi si confondono con i fatti.

     

    A differenza del talk show, infine, nel quale non vale nessun principio di auctoritas, se non la capacità di realizzare una performance (in fin dei conti si tratta di uno spettacolo), il dibattito storico ruota intorno al riconoscimento scientifico dello storico. Alle sue capacità e alla considerazione che le sue tesi riscuotono presso i colleghi. Per questo, gli storici (che troverete citati in abbondanza nel testo di Cajani) sono i punti di riferimento di chiunque voglia accedere al processo di ricostruzione del passato. Quindi, la conclusione più idonea di una unità controversiale è la lettura diretta di un brano storiografico appropriato. Lo si apprezzerà più a fondo, dopo aver sperimentato il fuoco di un dibattito.

     

    Per quanto riguarda questa “cassetta di strumenti”, penso che la chiusura migliore siano le parole con le quali Filippo Focardi finisce il suo libro sul “cattivo tedesco e il bravo italiano”:

     

    “Nel luglio 2010 ha avuto grande significato politico e simbolico l’incontro a Trieste fra il presidente Giorgio Napolitano, il presidente sloveno Danilo Türk e quello croato Ivo Josipović in occasione del concerto diretto dal maestro Riccardo Muti eseguito in piazza unità d’Italia da un’orchestra di musicisti dei tre paesi. Prima del concerto, come atto di reciproca riconciliazione i tre presidenti hanno deposto una corona di fronte alla lapide che ricorda l’incendio del Narodni Dom la Casa del Popolo slovena data alle fiamme nel 1920 dai nazionalisti italiani (poco dopo confluiti nel fascismo), recandosi poi insieme a rendere omaggio al monumento che ricorda l’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia (…) Nell’occasione, i due presidenti (italiano e croato) hanno ricordato sia “la tragedia delle vittime del fascismo italiano” sia le vittime “della folle vendetta delle autorità postbelliche dell’ex-Jugoslavia” (…)

     

    Un internato nel campo di Arbe.

     

    Ma insieme ai gesti simbolici, e prima ancora di essi, servirebbe una ben maggiore diffusione della conoscenza della nostra storia, a partire dalle scuole. E’ doveroso che gli studenti conoscano Sant’Anna di Stazzema e Monte Sole, come Auschwitz e le foibe, ma dovrebbero sapere anche che cosa hanno rappresentato Domenikon (in Grecia) e Raab (Arbe), per non dire di Debrà Libanos in Etiopia. Allo stesso modo può avere un valore formativo che venga loro additato l’esempio di un Giorgio Perlasca, ma non dovrebbero essere taciute le colpe di un Rodolfo Graziani o di un Mario Roatta. Anche così si costruisce una memoria europea fondata sull’etica della responsabilità e aperta alla dimensione globale e multietnica delle società in cui viviamo, al di là di una memoria nazionale finora centrata su se stessa, vittimistica e autocelebrativa”51



     

    Il sacrario di Basovizza Il memoriale di Gonar

     

    Note

    1. Il testo è ricavato in gran parte da un contributo di Luigi Cajani, che io ho ridotto e organizzato: Luigi Cajani, Die Ostgrenze Italiens im 20. Jahrhundert. Eine Geschichte zwischen Politik und Schule, in Patrick Ostermann, Claudia Müller, Karl-Siegbert Rehberg (Hg.), Der Grenzraum als Erinnerungsort. Über den Wandel zu einer postnationalen Erinnerungskultur in Europa, Bielefeld, transcript Verlag, 2012, pp. 153-170. Le immagini sono ricavate da internet e si intendono controllate al 10 febbraio 2013.
    2. Franco Cecotti, Raoul Pupo, Il confine orientale. Una Storia rimossa, in “I viaggi di Erodoto”, 12, 34, 1998, pp. 88-150 (con la riproduzione del contributo fondamentale di Carlo Schiffrer, Sguardo storico sui rapporti fra italiani e slavi nella Venezia Giulia, pp. 127-150).
    3. Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, Bari 2013, p. 132.
    4. Cfr. Filippo Focardi, La questione della punizione dei criminali di guerra in Italia dopo la fine del secondo conflitto mondiale, in “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, 80 (2000), pp. 543-624.
    5. Gianna Fregonara, Cervetti: così noi del Pci arrivammo al negazionismo, in “Corriere della Sera”, 12.2.2007.
    6. Mario Roatta, Otto milioni di baionette, L'esercito italiano in guerra dal 1940 al 1944,  Milano, A. Mondadori, 1946.
    7. Giacomo Zanussi, Guerra e catastrofe d’Italia. 1: giugno 1940-giugno 1943, Roma, Corso [1945].
    8. Salvatore Loi, Le operazioni delle unità italiane in Jugoslavia (1941-1943), Roma, Ufficio storico SME 1978
    9. Teodoro Sala, Occupazione militare e amministrazione civile nella «provincia» di Lubiana (1941-1943), in Enzo Collotti, Teodoro Sala, Giorgio Vaccarino, L’Italia nell’Europa danubiana durante la seconda guerra mondiale, Milano, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, 1967, pp. 73-93.
    10. Pietro Brignoli, Santa Messa per i miei fucilati, Milano, Longanesi, 1973.
    11. Giacomo Scotti, “Bono taliano” Gli italiani in Jugoslavia (1941-43), Milano, La Pietra, 1977.
    12. In particolare i quattro volumi dell’opera Gli italiani in Africa orientale, pubblicati dall’editore Latera fra il 1976 e il 1987.
    13. Gli Italiani in Libia, due volumi pubblicati da Mondadori nel 1997.
    14. Eric Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell'avventura coloniale (1911-1931), Milano, SugarCo, 1979.
    15. Giuseppe Mayda, Cinquant’anni fa, in Abissinia, in “La Stampa”, 13.7. 1985; Ugo Buzzolan, Com’era buio quel posto al sole, in “La Stampa”, 3.10.1985; Arminio Savioli, Guerra d’Etiopia Vietnam italiano, in “l’Unità”, 3.10.1985; Beniamino Placido, 19 salve di cannone. E Craxi ringraziò: Africa, ciao, in “la Repubblica” 6/7.10.1985.
    16. Cfr. Nevenka Troha, La questione delle “foibe” negli archivi sloveni e Italiani, in Jože Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Torino, Giulio Einaudi editore, 2009, pp. 245-294, qui pp. 245 s.
    17. Tone Ferenc, La provincia “italiana” di Lubiana. Documenti 1941-1942, Udine, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, 1994.
    18. Marco Cuzzi, L’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943), Roma, Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio storico, 1998.
    19. Si vedano: L’Italia fascista potenza occupante: lo scacchiere balcanico, dossier monografico a cura di Brunello Mantelli in “Quale storia”, XXX, n. 1, giugno 2002; Davide Rodogno, Il Nuovo Ordine Mediterraneo. Le politiche di occupazione dell'Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino, Bollati Boringhieri, 2003; Costantino di Sante (a cura di), Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Verona, ombre corte, 2005; Davide Conti, L'occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della "brava gente" (1940-1943), Roma, Odradek, 2008; Elena Aga Rossi, Maria Teresa Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani, Bologna, Società editrice il Mulino, 2011; Amedeo Osti Guerrazzi, L’Esercito italiano in Slovenia 1941-1943. Strategie di repressione antipartigiana, Roma, Viella, 2011.
    20. Va peraltro segnalato il successo di una contemporanea iniziativa congiunta della Società di Studi Fiumani di Roma e dello Hrvatski Institut za Povijest di Zagabria, sulle vittime italiane a Fiume, che rivestiva anche un carattere di ufficialità politica, avendo avuto l’alto patronato del Presidente della Repubblica italiana Oscar Luigi Scalfaro e l’approvazione del Presidente della Repubblica di Croazia Franjo Tudman. Ne è scaturito un volume bilingue: Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski (a cura di), Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-47) - Žrtve talijanske nacionalnosti u Rijeci i okolici (1939-1947), Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per gli Archivi, 2002.
    21. All’inizio la Commissione comprendeva per la parte italiana Sergio Bartole (copresidente), Fulvio Tomizza, Lucio Toth, Fulvio Salimbeni, Elio Apih, Paola Pagnini e Angelo Ara. Per diversi motivi si sono avute le dimissioni del copresidente, sostituito da Giorgio Conetti, e di Fulvio Tomizza e Elio Apih, sostituiti con Marina Cataruzza e Raoul Pupo. Per la parte slovena furono nominati Milica Kacin Wohinz (copresidente), France Dolinar, Boris Gombac, Branko Marušic, Boris Mlakar, Nevenka Troha e Andrej Vovko. Boris Mlakar si dimise dapprima e fu sostituito da Aleksander Vuga, ma rientrò successivamente in seguito alle dimissioni di Boris Gombac.
    22. Relazione della Commissione italo-slovena sui rapporti fra i due Paesi fra il 1880 e il 1956, in “Storia contemporanea in Friuli”, XXX (2000), n. 31, pp. 9 – 35, qui p. 28. Il testo sloveno in Slovensko-italijanski odnosi 1880-1956. Porocilo slovensko - italijanske zgodovinsko - kulturne komisije (Koper - Capodistria, 25. julij 2000), Ljubljana, Nova revija, 2001.
    23. Relazione della Commissione italo-slovena …, cit., p. 28
    24. Ministero della Pubblica Istruzione, Decreto n 682 del 4.11.1996: Modifiche delle disposizioni relative alla suddivisione annuale del programma di Storia.
    25. Cfr. Sotto-commissione dell’Educazione della Commissione Alleata in Italia, La politica e la legislazione scolastica in Italia dal 1922 al 1943, con cenni introduttivi sui periodi precedenti e una parte conclusiva sul periodo post-fascista…, Garzanti, 1947, p. 389.
    26. M. Ajello, Cari ragazzi, finalmente scoprirete un secolo. Il vostro, in “Il Messaggero”, 1 ottobre 1996.
    27. Il progetto Berlinguer? Che brividi! (La stanza di Montanelli), in “Corriere della Sera”, 5 ottobre 1996.
    28. Per una ricostruzione generale si veda Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Torino, Giulio Einaudi editore, 2004.
    29. Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, Milano, Sperling & Kupfer, 2003.
    30. Quando la storia diventa una favola... sinistra!, s.n.t.
    31. L’edizione qui presa in esame è Augusto Camera, Renato Fabietti, Elementi di storia. XX secolo, quarta edizione, Bologna, Zanichelli, 1999.
    32. Camera dei Deputati- XIII Legislatura, Resoconto stenografico dell'Assemblea, Seduta n. 811 del 15.11.2000.
    33. Wanda Valli, Berlusconi sulla scuola “No ai testi marxisti” ,in “la Repubblica”, 13.11.2000.
    34. Augusto Camera, Renato Fabietti, L’età contemporanea, Bologna, Zanichelli, 1987, p. 1373.
    35. Augusto Camera, Renato Fabietti, Elementi di storia. XX secolo, Bologna, Zanichelli, 1999, pp. 1564-1568.
    36. Ivi, p. 1565.
    37. Questo brano, da considerarsi solo esemplare, è tratto da Adriano Prosperi, Paolo Viola, Corso di storia. Il secolo XX, Milano, Einaudi scuola, 2000, pp. 224 e 231. Gli altri manuali presi in considerazione sono: Alberto De Bernardi, Scipione Guarracino, La conoscenza storica. Manuale. 3. Il Novecento, Milano, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 2000; A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Storia, documenti. storiografia. Il mondo contemporaneo, Roma – Bari, Editori Laterza, 19941, p. 951; Luca Baldissara,  Stefano Battilossi, Corso di storia e percorsi di approfondimento, nuove edizione, con temi di educazione civica e lezioni di metodo. Volume 3, il Novecento, Firenze, Sansoni per la Scuola, 2003; Massimo Cattaneo, Claudio Canonici, Albertina Vittoria, Manuale di storia. Il Novecento e il nuovo millennio, Bologna, Zanichelli, 2009, pp. 375 s; Pietro Cataldi, Ennio Abate, Sara Luperini, Lidia Marchiani, Cinzia Spingola, Di fronte alla storia. Eventi, persone, luoghi fra passato e presente. 3. Il Novecento e oltre (dal 1914 a oggi), Palermo, G. B. Palumbo editore, 2009, p. 238
    38. Alberto Mario Banti, Il senso del tempo. Manuale di storia. 1870-oggi, Roma-Bari, Editori Laterza, 2008, pp. 455 s.
    39. Legge 30 marzo 2004, n. 92: Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati, in “Gazzetta Ufficiale” n. 86, 13.4.2004.
    40. Camera dei Deputati, Atti parlamentari, XIV Legislatura — Discussioni — Seduta dell’11 febbraio 2004 — N. 422, p. 28.
    41. Peraltro neppure un governo di centrosinistra ha ritenuto di intervenire in tal senso. Ad una interrogazione in proposito presentata l’8 febbraio 2007, dalla deputata Anna Maria Cardano, di Rifondazione comunista, il Ministero degli Esteri rispose infatti che “tenuto quindi conto anche del lungo tempo trascorso, non appare opportuna una nuova pubblicazione ufficiale della relazione, mentre potrebbe essere utile una sua diffusione nel mondo della cultura e della scuola” (Atto Camera, Risposta scritta pubblicata mercoledì 30 maggio 2007 nell'allegato B della seduta n. 161 all'interrogazione 4-02510 presentata da Cardano).
    42. Bojan Brezigar, Globlji pomen “dneva kasneje”, in “Primorski dnevnik”, 1.9.2005.
    43. Zakon o praznikih in dela prostih dnevih v Republiki Sloveniji uradno precišceno besedilo, in  “Uradni list Republike Slovenije”, n. 112 / 15 dicembre  2005, pp. 12019 s.
    44. Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e per l’Autonomia Scolastica (a cura della), Le vicende del confine orientale ed il mondo della scuola, in “Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istruzione”, 133/2010.
    45. Giovanni Codovini,  Dino Renato Nardelli, Le Foibe. Una storia dai confini mobili. Archivio simulato per la scuola secondaria di secondo grado, Perugia, Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea, 2005.
    46. Pierluigi Pallante (a cura di), Il giorno del ricordo. La tragedia delle foibe, presentazione di Oscar Luigi Scalfaro, Introduzione di Nicola Zingaretti, Editori Riuniti, Roma 2010.
    47. Božo Repe, Sobodna zgodovina. Zgodovina za 4. Letnik gimnazij, Ljubjiana, Modrijan, 2008, pp. 188ss, 213 ss.
    48. Franco Ceccotti – professore e storico di frontiera -  ha scritto una pagina molto sentita sulla difficoltà di insegnare questo tema, e al tempo stesso sulla passione di insegnarlo. Insegnare in una regione di frontiera, in http://www.irsml.eu/didattica/materiali-scuola/156-f-cecotti-insegnare-in-una-regione-di-frontiera
    49. Antonio Ferrara, Niccolò Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa: 1953, Il mulino, Bologna 2012
    50. Mary Wolley, T.E.A.C.H. Teaching Emotive And Controversial History: vedine la recensione in “Mundus, 1, 2006, pp. 222 s.
    51. Filippo Focardi, Il cattivo tedesco, cit., pp. 191-193

     

  • Le guerre del Novecento nelle foto. L’uso didattico di Wikimedia Commons

    di Antonio Prampolini

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  • Le quattro foto “vere/false” di Auschwitz. Georges Didi-Huberman e il dibattito sulla rappresentazione della Shoah

    di Antonio Prampolini

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 2Fig.2: foto di Gabriele Croppi in “Shoah and Postmemory”, Edizioni Sonda, 2012. FonteIndice

    1. La rappresentabilità per immagini della Shoah

    1.1 L’importanza delle fotografie nel racconto del genocidio degli ebrei
    1.2 Le fotografie necessitano di una contestualizzazione storica
    1.3 Immagini reiterate all’infinito
    1.4 La personalizzazione della Shoah attraverso gli album di famiglia
    1.5 Il progetto fotografico “Shoah and Postmemory” di Gabriele Croppi

    2. “Immagini malgrado tutto” di Georges Didi-Huberman

    3. Le quattro foto del Sonderkommando di Auschwitz

    4. Le fotografie della Shoah in rete: sitografia

     

    1. La rappresentabilità per immagini della Shoah

    1.1 L'importanza delle fotografie nel racconto del genocidio degli ebrei

    Dalla fine della Seconda guerra mondiale, la storia della Shoah è giunta a noi anche grazie a numerose testimonianze fotografiche prodotte da diversi soggetti: dai nazisti, dagli eserciti alleati al momento della liberazione dei lager e, eccezionalmente, dalle stesse vittime. Si stima che il patrimonio visivo della Shoah ammonti ad oltre due milioni di fotografie che, oggi, grazie alla digitalizzazione e a Intenet-Web, sono facilmente accessibili non solo dagli specialisti ma anche dal vasto pubblico degli utenti della rete.

    Alcune di queste immagini sono diventate nel tempo delle icone che si sono radicate con forza nell’immaginario collettivo. Si pensi alla scritta Arbeit macht frei posta all’ingresso del campo di Auschwitz, al filo spinato elettrificato che circondava i lager, alle torrette di avvistamento, ai binari di Auschwitz II–Birkenau, e, soprattutto, ai corpi senza vita ammassati nelle fosse comuni o in attesa di essere inceneriti, e a quelli denutriti e scheletriti dei sopravvissuti.

    Diversamente dalla tesi iconoclasta espressa in modo radicale da Marc Chevrie, per il quale «non ci può essere alcuna altra immagine possibile del genocidio se non l’assenza di immagini»1, Marianne Hirsch e Clément Chéroux ne hanno sottolineato, all’opposto, il ruolo fondamentale nella documentazione della Shoah.

    Le fotografie, spiega Marianne Hirsch in “Immagini che sopravvivono: le fotografie dell’Olocausto e la post-memoria”, permettono di accedere al passato e di connetterlo al presente, resuscitandolo attraverso lo sguardo dello spettatore:

    «Le fotografie dell’Olocausto collegano passato e presente attraverso l’“esserci stato” dell’immagine fotografica; sono messaggere di un tempo di orrore che non è ancora abbastanza lontano»2.

    E Clément Chéroux, in occasione di una mostra da lui curata sulle immagini della Shoah, allestita in diverse città europee negli anni 2001-2002:

    «la fotografia è un vero e proprio passaggio di testimone, [interviene] come un prolungamento dello sguardo diretto, un sostituto con il compito di esportare le visioni dell’orrore al di là del perimetro dei campi»3.

     

    1.2 Le fotografie necessitano di una contestualizzazione storica

    Per una corretta interpretazione delle immagini del genocidio degli ebrei è necessario porsi alcune domande preliminari sui motivi per cui sono state prodotte, come ha osservato giustamente Laura Fontana4.

    Con riferimento ai carnefici:
    • Come auto-glorificazione e souvenir della guerra e dello sterminio?
    • Come prova o dono da inviare ai propri superiori gerarchici per mostrare loro un “lavoro” ben fatto, una organizzazione efficiente?
    • Come testimonianza storica, da lasciarsi alle generazioni future?
    • Come necessità burocratica?

    Con riferimento alle vittime:
    • Come atto di resistenza per denunciare i crimini perpetrati dai nazisti?
    • Come dimostrazione della propria esistenza quali esseri umani?
    • Come testamento morale per i propri famigliari?
    • Come atto di speranza e fiducia nella liberazione?

    Domande, queste, che non sempre sono state prese in considerazione dagli studiosi della Shoah, tra i quali è prevalso un uso delle immagini fotografiche condizionato più dalla loro portata simbolica che dalla loro valenza documentale.
    Le immagini sono state spesso scelte per scioccare il pubblico, non per informarlo attraverso una corretta contestualizzazione, e, come ha scritto Clément Chéroux, «per produrre l’impatto desiderato non era necessario che all’immagine fosse associata una didascalia: la foto di per sé era già sufficiente».
    E la conseguenza di ciò viene evidenziata dalla catena di imprecisioni e di errori storiografici che a lungo hanno condizionato l’utilizzo delle fotografie della Shoah.

     

    1.3 Immagini reiterate all'infinito

    Sui media, ma anche nei manuali scolastici e nei testi divulgativi (soprattutto in rete) vengono pubblicate sempre le stesse immagini della Shoah, generalmente prive di adeguate didascalie e soprattutto di schede interpretative. Questa “reiterazione all’infinito” di fotografie con montagne di cadaveri e ritratti di corpi scheletriti dei sopravvissuti alla “soluzione finale” dei nazisti, invece di rafforzare il collegamento con quel drammatico evento della storia del Novecento e invocare il dovere della memoria, alimenta uno sguardo sempre più superficiale e apatico delle nuove generazioni verso la tragedia della Shoah.
    I media contemporanei riempono gli schermi (TV e Internet) di quantità crescenti di “atrocità”, di reportage di guerra che «mettono in scacco la capacità dell’uomo contemporaneo di sentire e di immaginare»5 e, soprattutto, di confrontarsi con la storia. In questo contesto le fotografie della Shoah corrono il rischio di trasformarsi in un «catalogo di un’infamia moderna senza confini, dove tutto si scontorna nell’inflazione delle immagini»6.

     

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 1Fig.1: Foto della famiglia ebrea polacca Grossman - Ghetto di Łódź. Fonte1.4 La personalizzazione della Shoah attraverso gli album di famiglia

    Le fotografie degli “album di famiglia” delle vittime della Shoah offrono, attraverso “storie di vita”, un percorso alternativo di avvicinamento al genocidio degli ebrei (valido anche in ambito didattico), di comprensione di quell’evento tragico, capace di evitare la diffusa desensibilizzazione, assuefazione generata dalla reiterazione di immagini macabre della morte di massa nei campi di sterminio.

    Come ha giustamente osservato Clément Chéroux:

    «al contrario delle rappresentazioni spersonalizzate delle fosse comuni, le immagini tratte dagli album di famiglia re-individualizzano il nostro rapporto con la Shoah, instaurando un tenue legame con esistenze un tempo simili alle nostre. [...] Queste fotografie costituiscono certamente un cordone ombelicale, ma sono, ancor di più, il legame estremo, l’ultima traccia di coloro che scomparvero durante la “soluzione finale”»7.

    Gli album fotografici delle famiglie ebraiche sono fonti importanti perché permettono di attivare quel processo di rimpicciolimento della storia descritto da Marianne Hirsh; il solo capace, per la studiosa americana, di suscitare sentimenti di empatia verso le vittime della Shoah, poiché è «la smisuratezza di quella tragedia uno degli elementi che pongono in scacco l’immaginazione dell’uomo»8.

     

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 2Fig.2: foto di Gabriele Croppi in “Shoah and Postmemory”, Edizioni Sonda, 2012. Fonte1.5 Il progetto fotografico "Shoah and Postmemory" di Gabriele Croppi

    Shoah and Postmemory è un progetto di rivisitazione della Shoah del fotografo Gabriele Croppi; un progetto espositivo che ha messo insieme una selezione di fotografie scattate in vari campi di concentramento, quartieri e cimiteri ebraici, durante un suo viaggio in Austria, Germania e Polonia, tra il 2008 e il 2011 (il catalogo della mostra è visionabile online in modalità open access).

    È un tentativo di analizzare le ragioni estetiche, psicologiche e sociologiche che sono alla base della memoria della tragedia della Shoah delle generazioni successive a quella delle vittime e dei testimoni (la “postmemoria” analizzata da Marianne Hirsch9): le generazioni che sono venute a conoscenza del genocidio degli ebrei non più tramite un collegamento diretto con l’evento storico, ma attraverso rappresentazioni simboliche e iconiche diffuse dai mass media.

    Gabriele Croppi «pesca dal repertorio dell’immaginario sedimentato in ognuno di noi scegliendo icone minime dalla portata massima»: binari di treni, pile di scarpe, sequenze di numeri cuciti su divise sudice, una doccia arrugginita, le geometrie del filo spinato che avvolge i lager nazisti. Il suo intento è duplice: «da una parte mostrarci la fisionomia delle sensazioni da lui provate, dall’altra prendere dichiaratamente le distanze dalla diffusa tendenza ad una “museificazione” dei luoghi della Shoah»10.

    Non ci sono cadaveri nelle foto di Croppi. I luoghi da lui ritratti «parlano, oggi, una lingua della commozione». Le sue foto «assolvono a un ruolo non più documentale, ma propriamente emozionale, di evocazione ed invocazione»11.

     

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 3Fig.3: copertina del libro “Immagini malgrado tutto” di Georges Didi-Huberman, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005. Fonte2. "Immagini malgrado tutto" di Georges Didi-Huberman

    Nell’estate del 1944 alcuni membri del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau (il “comando speciale” composto da prigionieri costretti a “ripulire” le camere a gas trasportando i corpi delle vittime nei forni crematori o gettandoli nelle fosse di incinerazione all’aperto) riuscirono a scattare quattro fotografie di quella terribile realtà. I negativi, nascosti in un tubetto di dentifricio, furono poi fatti pervenire clandestinamente alla Resistenza polacca. Le foto ritraggono scene drammatiche in prossimità del crematorio V di Auschwitz-Birkenau: l’incenerimento all’aria aperta dei corpi dei detenuti gasati e l’ingresso di donne nude nella camera a gas.

    Queste quattro foto sono diventate l’oggetto di una attenta riflessione da parte del filoso-storico dell’arte Georges Didi-Huberman nel suo libro Immagini malgrado tutto (pubblicato in Francia nel 2003 e in Italia nel 2005), col quale egli si inserisce autorevolmente all’interno del dibattito francese (e non solo) sulla rappresentabilità della Shoah12. Come ci ricorda lo stesso Didi-Huberman, quelle foto «erano da tempo note agli storici, ma non erano mai state guardate davvero». Esigevano un’approfondita indagine filologica perché, a suo giudizio, molti erano gli elementi concreti che confutavano «quell’estetica negativa, da molti condivisa, che appunto vorrebbe [il genocidio degli ebrei] irrappresentabile, indicibile, inimmaginabile». Inimmaginabile come avrebbe dovuto esserlo nelle intenzioni stesse dei nazisti che avevano programmato «la scomparsa dei corpi, delle anime, della lingua, delle immagini, dei testimoni, dei documenti, persino degli strumenti della scomparsa stessa»13.

    La tesi di Didi-Huberman è che quelle quattro foto, malgrado la loro lacunosità e incompletezza, hanno il potere di sottrarre la memoria di Auschwitz dall’oblio del trascorrere del tempo, accompagnato dall’inevitabile scomparsa dei testimoni. Immagini certamente parziali ma rappresentative di una tragica verità. E per cogliere questa verità occorre tenere presente il loro doppio regime: sono vere e oscure allo stesso tempo; e per questo non dobbiamo chiedere loro troppo, oppure troppo poco, poiché «intrattengono con la verità di cui rendono testimonianza un rapporto frammentario e lacunoso, ma sono in fondo tutto ciò di cui noi disponiamo»14.

    In Immagini malgrado tutto, Didi-Huberman critica, in particolare, le manipolazioni a cui sono state sottoposte nel corso degli anni le fotografie scattate in condizioni terribili dai membri del Sonderkommando di Auschwitz. Interventi finalizzati a raddrizzare il quadro, ingrandire le figure, eliminare le zone d’ombra. «In queste manipolazioni ciò che viene eliminato è in primo luogo il racconto delle circostanze in cui sono state scattate, la clandestinità, le difficoltà e la paura dietro questo gesto, quello di fotografare e testimoniare, così desiderato. Dunque, dissolvendo la loro oscurità, è la loro verità che viene eliminata»15.

    La posizione assunta da Didi-Huberman sul ruolo delle immagini nella memoria della Shoah ha suscitato diverse e aspre critiche, in particolare da parte di Gérard Wajcman e Elisabeth Pagnoux. La seconda parte del libro Immagini malgrado tutto è interamente dedicata alle risposte dell’autore alle loro critiche; risposte che mettono in luce temi di particolare interesse. Tra questi, innanzitutto, la non assolutezza dell’immagine (l’immagine-lacuna) che costituzionalmente non può dirci tutto, ma che ugualmente deve essere inclusa, senza alcun rischio di delegittimazione, nell’indagine storica.

    «L’immagine non è “nè tutto né niente”. Se l’immagine fosse tutta [la realtà], bisognerebbe senz’altro concludere che non ci sono immagini della Shoah. Ma proprio perché “l’immagine non è tutta [la realtà]”, che è legittimo constatare quanto segue: ci sono immagini della Shoah che, pur non dicendo tutto – e tantomeno “il tutto” – della Shoah, sono comunque degne di essere guardate e interrogate come fatti precisi e come testimonianze di questa tragica storia»16.

     

    3. Le quattro foto del Sonderkommando di Auschwitz

    Nei lager nazisti vigeva il divieto più assoluto di scattare fotografie delle camere a gas, dei forni crematori e delle fosse di incinerazione. Proprio per questo le quattro fotografie del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau costituiscono una testimonianza fondamentale delle pratiche di stermino degli ebrei e, nello stesso tempo, ci raccontano del grande coraggio di coloro che, nonostante il divieto, resero possibili quelle fotografie17. Destinati come gli altri detenuti ad essere eliminati, volevano con quelle immagini comunicare all’esterno la terribile realtà dei lager, che per nazisti doveva rimanere segreta, e trasmetterne la memoria alle future generazioni.

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 6Fig.4: Fonte: Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 5Fig.5: Fonte: Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 6Fig.6: Fonte: Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 7Fig.7: Fonte: Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    Nella prima foto vediamo i componenti del Sonderkommando impegnati nel loro “lavoro quotidiano”, che consiste nel trascinare i corpi appena estratti dalla camera a gas nelle fosse di incinerazione, mentre un fumo denso li avvolge. Sullo sfondo un boschetto di betulle. Il fotografo (un componente del Sonderkommando), per non essere scoperto dalle SS che sovrintendono alle operazioni del crematorio, ha dovuto nascondersi nell’ingresso della camera a gas appena svuotata, dove l’oscurità lo protegge e scattare la foto da un’apertura che incornicia l’immagine.

    Nella seconda foto, l’inquadratura del Sondercommando al lavoro appare più frontale e leggermente più ravvicinata. E’ come se il fotografo avesse preso coraggio per strappare un’immagine da quell’inferno dantesco in cui egli stesso è prigioniero e condannato a morte.

    La terza foto è stata scattata dall’improvvisato fotografo all’esterno della camera a gas, probabilmente correndo e con la macchina nascosta tra le mani, impossibilitato a puntarla con precisione. L’inquadratura è storta e in un angolo si intravedono le donne già svestite e spinte dalle SS verso la camera a gas in cui credono di doversi fare una doccia.

    La quarta foto è un’immagine astratta, rovinata dalla luce abbagliante del sole che filtra dai rami delle betulle. Un’inquadratura dal basso verso l’alto in cui si intravedono solamente le cime degli alberi e che, a prima vista, potrebbe sembrare inutile, ma che invece ci ricorda le condizioni drammatiche in cui sono state scattate le foto del Sonderkommando di Auschwitz- Birkenau in quella tragica estate del 1944.

     

    FOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 8Fig.8: Fonte: Museo di Stato di Auschwitz-BirkenauFOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 9Fig.9: Fonte: Museo di Stato di Auschwitz-BirkenauFOTOGRAFIE DELLA SHOAH IMMAGINE 10Fig.10: Fonte: Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    Le quattro foto, oggi conservate presso il Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, vennero diffuse per iniziativa della Resistenza polacca con alcune modifiche. Per fare risaltare l’attività del Sonderkommando nelle fosse di incinerazione, furono rimosse nelle prime due foto le cornici nere e, per rendere più nitide le figure umane, venne ritagliata e ingrandita la terza foto dove appaiono, in un angolo, le donne che si incamminano verso la camera a gas.
    Modifiche, queste, che però offrono una visione distorta degli eventi (come sottolineato da Didi-Huberman) dando l’impressione che l’eroico fotografo del Sonderkommando avesse potuto fotografare liberamente, senza alcun pericolo, quelle terribili scene di morte nel crematorio di Auschwitz.

     

    4. Le fotografie della Shoah in rete: sitografia

    Nell’elenco che segue segnaliamo alcune risorse della rete, ad accesso libero e gratuito, che propongono collezioni fotografiche dedicate alla Shoah/Olocausto, utilizzabili anche in ambito didattico.
    Un’avvertenza: le fotografie digitali che circolano numerose sul web devono sempre essere sottoposte ad una critica delle fonti, con una particolare attenzione sia all’organizzazione che alle finalità dei siti che le pubblicano.

    - In Wikimedia Commons (l’archivio digitale open access di immagini, suoni e video, di pubblico dominio o con licenza libera, creato nel 2004 dalla Wikimedia Foundation, e che funge da repository di file multimediali per i vari progetti della fondazione, tra cui Wikipedia) è possibile accedere a due categorie (aggregati di file) dedicate all’Olocausto:

    Category: Holocaust historical photographs, suddivisa in sei sottocategorie:

    Historical photographs of Holocaust deportation‎,

    Historical photographs of Nazi concentration camps‎,

    Historical photographs of Nazi ghettos‎,

    Holocaust historical photographs by country‎,

    Holocaust murders in progress‎,

    Exhibition The persecution of the Jews in photographs‎;

     

    Category: Sonderkommando photographs.

    Sui fotografi dell’Olocausto, la Category: Holocaust photographers.

    - In Wikipedia, edizione in lingua italiana, troviamo alcune voci interessanti dedicate alle fotografie e ai fotografi del genocidio degli ebrei: Fotografie dell'Olocausto, Foto del Sonderkommando, Auschwitz Album, L'ultimo ebreo di Vinnitsa.

     

    - La Britannica propone una articolata raccolta di immagini e video sull’argomento: Holocaust: Media.

    - Sul sito dello Yad Vashem (l'Ente nazionale per la Memoria dell’Olocausto con sede a Gerusalemme) è possibile accedere ad una vasta collezione di immagini, Photo Collections, organizzata per Soggetti, Tipo di materiale, Fotografi, Diritti d’autore. Il sito pubblica, in particolare, le foto dell’Album di Auschwitz. Le foto furono scattate dai fotografi dell'Erkennungsdienst, il servizio di identificazione del campo di sterminio di Auschwitz II-Birkenau. Le foto mostrano l'arrivo degli ebrei ungheresi stipati nei carri bestiame, le operazioni di selezione con la separazione degli abili al lavoro dagli inabili (vecchi, donne e bambini) destinati alle camere a gas.

    - L’United States Holocaust Memorial Museum – USHMM, una delle principali istituzioni, con sede a Washington, che a livello mondiale si dedicano alla conservazione della memoria del genocidio degli ebrei, mette a disposizioni degli utenti della rete una collezione di fotografie (trenta immagini dell’orrore) scattate dall’esercito americano durante la liberazione dei lager nazisti: World War II Liberation Photography. Il sito del museo-memoriale USHMM pubblica anche un interessante album di una famiglia ebraica (the Grossman family) prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Le fotografie del tempo di guerra documentano la vita quotidiana nel ghetto di Łódź (Polonia), comprese scene di strada e deportazioni. Per visualizzare in ordine alfabetico tutte le immagini storiche del Museo-Memoriale che illustrano persone, luoghi ed eventi prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale e l’Olocausto, consultare la Lista Immagini.

    - Il Mémorial de la Shoah, con sede a Parigi, è il principale centro europeo per la preservazione, la ricerca e la diffusione della memoria del genocidio degli ebrei. Possiede una collezione composta da più di 300.000 fotografie, un terzo delle quali è disponibile online, riguardanti in particolare la storia degli ebrei nella Francia occupata dalla Germania nazista e nel territorio controllato dal Governo di Vichy tra il 1940 e il 1944. Nella sezione La photothèque del sito del memoriale possibile impostare ricerche sulla documentazione scegliendo: i campi di concentramento-sterminio, la tipologia di documento, le date di riferimento.

     


    Note

    1 Citato in La postmemoria: arte e testimonianza della Shoah nell’età digitale di Claudio Vercelli, 7 Marzo 2021. Tra i sostenitori della tesi iconoclasta in Francia, ricordiamo, oltre all’interprete dell’iconofobia tipica dell'ebraismo Claude Lanzmann, anche gli autori delle violente critiche rivolte a Georges Didi-Huberman (Images malgré tout): Gérard Wajcman e di Elizabeth Pagnoux.

    2 Marianne Hirsch, Immagini che sopravvivono: le fotografie dell’Olocausto e la post-memoria, in «Storia della Shoah» (a cura di Cattaruzza M., Flores M., Levis Sullam S., Traverso E.), vol. III, Riflessioni, luoghi e politiche della memoria, Torino, UTET, 2006, pp.385-421.

    Sempre citato in La postmemoria: arte e testimonianza della Shoah nell’età digitale di Claudio Vercelli. Il catalogo della mostra, Memoria dei campi. Fotografie dei campi di concentramento e di sterminio nazisti, 1933-1999 è stato pubblicato dalla casa editrice Contrasto nel 2001.

    4 Laura Fontana, Usi e abusi dell’iconografia della Shoah: insegnare Auschwitz attraverso le fonti visive, Assemblea Legislativa Emilia Romagna, s.d..

    5 Maurizio Guerri, Ancora immagini della Shoah? Günther Anders e la fiction “Holocaust”, Novecento.org, n. 15, febbraio 2021.

    6 Claudio Vercelli, La postmemoria: arte e testimonianza della Shoah nell’età digitale, 7 Marzo 2021.

    7 Si veda il catalogo della mostra curata da Clément Chéroux Memoria dei campi. Fotografie dei campi di concentramento e di sterminio nazisti, 1933-1999. Il catalogo è stato pubblicato dalla casa editrice Contrasto nel 2001.

    8 Maurizio Guerri, Ancora immagini della Shoah? Günther Anders e la fiction “Holocaust”, Novecento.org, n. 15, febbraio 2021.

    9 Marianne Hirsch, The Generation of Postmemory: Writing and Visual Culture After the Holocaust, Columbia University Press, 2012.

    10 Shoah e postmemoria, articolo redazionale pubblicato il 21/01/2012 su photographers.it.

    11 Helga Marsala, Il volto dell’Olocausto, dalla rappresentazione del male alla postmemoria. Le immagini di Gabriele Croppi, 27/01/2015.

    12 Per informazioni bio-bibliografiche su Georges Didi-Huberman, si veda la voce di Wikipedia in lingua francese a lui dedicata. Si veda anche la voce Images malgré tout.

    13 Con Didi-Huberman nel tempo delle immagini di Andrea Pinotti, «Il Manifesto», 07/09/2007.

    14 Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Cortina, Milano 2005, p. 52.

    15  Daniela Angelucci, «Immaginario malgrado tutto». Note su Didi-Huberman, in Fotografia e culture visuali del XXI secolo a cura di Enrico Menduni e Lorenzo Marmo, Roma Tre-Press, 2018, pp.69-75.

    16 Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Cortina, Milano 2005, p. 89. 

    17 Dalla testimonianza di un sopravvissuto del Sonderkommando: «Nel giorno in cui sono state scattate le foto alcuni di noi dovevano seguire la persona con la macchina fotografica. Dovevano cioè vigilare attentamente sull'avvicinarsi di chiunque non conoscesse il segreto e soprattutto sulla presenza nella zona di eventuali SS. Alla fine arrivò il momento. Ci riunimmo tutti presso l'ingresso occidentale che conduce dall'esterno alla camera a gas del crematorio V: non vedemmo nessuna SS nella torre di guardia che sovrastava la porta dal filo spinato, né vicino al luogo dove dovevano essere scattate le foto. Alex, l'ebreo greco, ha tirato fuori velocemente la sua macchina fotografica, l'ha puntata verso un mucchio di corpi in fiamme e ha premuto l'otturatore. Ecco perché la fotografia mostra i prigionieri del Sonderkommando che lavorano ammassati. Accanto a loro c'era una delle SS, ma dava le spalle all'edificio del crematorio. Un'altra foto è stata scattata dall'altro lato dell'edificio, dove donne e uomini si spogliavano tra gli alberi. Provenivano da un trasporto che doveva essere assassinato nella camera a gas del crematorio V» (Janina Struk, Photographing the Holocaust: Interpretations of the Evidence, I. B. Tauris, London, 2004, p. 114).

     

  • Le rose di Elagabalo. Un percorso fra arte e storia, e fra passato e presente

    Autore: Antonio Brusa

    Lawrence Alma-Tadema, Le rose di Elagabalo, 1888 (collezione Juan Antonio Pérez Simòn)

     


    La storia nascosta nel quadro

    Il Velarium, in alto, si è appena staccato con uno schiocco. Una pioggia di petali rosa cade sui commensali dell’imperatore. Sdraiato sul triclinio, vestito di una tunica dorata, Elagabalo osserva quasi impassibile, appena un lieve sorriso, come si conviene al signore del mondo. Accanto a lui i privilegiati: la nonna, la madre, la moglie, le donne di corte e un generale fedele, quello con il viso rubizzo e il bicchiere alzato. Sulla destra, in basso, con la tunica verde, il biondo amante dell’imperatore lo guarda intensamente. In primo piano una ragazza fissa lo spettatore. Il suo volto è serio. Forse triste. Ha in mano un melograno. Al tempo di Roma era un frutto di morte, mangiato da Proserpina prima di andare agli inferi.

    E’ una piccola nota dissonante, in questa atmosfera di svenevolezze. Le fa da contrappunto la suonatrice di flauto, cinta da una pelle di leopardo, come sacerdotessa di Bacco, il dio raffigurato in alto, col suo piccolo amante Ampelos, a dominare la scena.  Sembrava tutto chiaro e comprensibile e invece no. Stiamo osservando la stravagante festicciola di un imperatore della decadenza,  o un ludus dal carattere sacro?

    Cercheremmo invano una risposta nei colori, negli atteggiamenti, nei marmi e nei tessuti riprodotti con maestria inarrivabile. Per ottenerla, dobbiamo uscire dal quadro e ricorrere alla storia. A una frase della Historia Augusta, dalla quale Alma-Tadema trasse l’ispirazione di questo dipinto. Eccola:

    Elagabalo sommerse i suoi ospiti, sdraiati sul triclinio mobile, con  viole e fiori, così che alcuni, non riuscendo a liberarsi, morirono soffocati

    Oppressit in tricliniis versatilibus parasitos suos violis et floribus, sic ut animam aliqui efflaverint, cum erepere ad summum non possent.
    Historia Augusta, cap. 21, libro LXXIX

    Adesso il dipinto racconta un’altra storia. Alma-Tadema la raffigura un istante prima che abbia inizio; un attimo sospeso, come usavano i grandi artisti della classicità. Forse i privilegiati ne sono a conoscenza e l’attendono con curiosità o piacere, forse sono colti all'improvviso, oppure ostentano indifferenza. Gli ospiti cominciano a essere inondati dai fiori. Si vede uno, sulla sinistra, che tenta di liberarsi. Gli altri no. Come si fa a temere un discesa di petali morbida e profumata? Fra pochi minuti qualcuno ne morirà.

    L’autore

    Alma-Tadema  nel suo studio 1884. Fotografia di  F. G. Stephens, Artists at Home, New York, 1884, 31.

     

    Lawrence Alma-Tadema (1836-1912) era celebre e ricco. I suoi dipinti, spesso di argomento classico e medievale, andavano a ruba nell'Inghilterra vittoriana. Questo, però, non fu realizzato su commissione. Lo creò per sé,  spendendo una barca di sterline (per quattro mesi di fila si fece mandare petali di rosa dalla Provenza). Non ci rimise. Glielo comprò subito John Aird, l’ingegnere che aveva costruito la diga di Assuan. Poi, Le Rose di Elagabalo passarono di mano in mano, fino a giungere all’attuale proprietario, il magnate messicano Juan Antonio Pérez Simòn.
    Nel frattempo, i gusti cambiavano. I “pompieri”, come vennero chiamati spregiativamente i pittori ottocenteschi dell’antichità, entrarono nel dimenticatoio, simbolo di un’arte perfetta tecnicamente, ma fredda e di maniera. Fu Hollywood a riproporli, con i “peplum”, da Cecil B. De Mille fino al Gladiatore di Ridley Scott.

    “La stella di Alma-Tadema oggi è in ascesa", commenta Richard Ormond. "Uno dei più derisi pittori dell’età vittoriana oggi piace per il suo stile straordinario e per le storie seducenti che racconta”  

    Ma, quale che sia il vostro gusto, Le Rose di Elagabalosono un quadro sentito, sofferto e contraddittorio, ricco di significati. Mi ha attratto, esposto in una sala nera ottogonale, alla mostra romana presso il Chiostro del Bramante. Un eccellente contenitore di storie, ho pensato e come avete già intuito. Proviamo a tirarne fuori qualcuna.  

     

    I personaggi

    La scena si svolge intorno al 220 d.C, all’esordio di uno dei periodi più difficili della storia dell’Impero. Settimio Severo era morto (211), lasciando come eredi i due figli, Caracalla e Geta, con la raccomandazione di governare insieme. Caracalla non se ne dette per inteso, e fece uccidere suo fratello, nel 212, suscitando l’avversione delle legioni, che lo adoravano. Così, Caracalla venne ammazzato pure lui (217). Prese il potere Marco Opillio Macrino, che ebbe la sfortuna di non piacere a Giulia Domna, una delle donne che, in questo viavai di imperatori, assicurarono la reale continuità del potere. Era stata la moglie di Settimio Severo ed era la figlia del gran sacerdote del dio Sole di Emesa, la sua città. Donna di ferro, amata dalle legioni orientali, fu insignita del titolo di Mater Castrorum (Signora degli accampamenti). Macrino la esiliò. Lei si uccise. Subito dopo, sua sorella - Giulia Mesa - si vendicò, facendolo assassinare e nominando imperatore Elagabalo (218).
    Il banchetto imperiale si svolge in una sala ottagonale ruotante (tricliniis versatilibus?), come quella che meravigliava gli ospiti della Domus Aurea di Nerone (nello studio preparatorio la sala ottagonale si vede bene).  Vi partecipano un gruppo di ospiti (parasiti) e la cerchia stretta del dominus. Vediamoli singolarmente, con l’aiuto del bel catalogo: Alma-Tadema e i pittori dell’800 inglesi, Silvana editoriale, Milano 2014).

     


     
    La nonna. Giulia Mesa (Enciclopedia-dell'-Arte-Antica) . Quando prese il posto della sorella, diventò la signora della corte imperiale. Aveva due figlie, Soemiade e Mamea. Dopo la morte di Macrino, impose Elagabalo, il figlio di Soemiade.  Ma nemmeno questo andava bene. Per salvaguardare il potere della famiglia, Giulia non esitò a farlo uccidere insieme alla madre, e a sostituirlo con l’altro nipote, Gessio Alessiano, figlio di Mamea. Questi fu eletto col nome di Alessandro Severo. Giulia morì a sessant’anni, un’età avanzata in quei tempi (226). Venne divinizzata.

    Denario di argento di Iulia Maesa. Sul verso: la Pietas velata (le monete di Elagabalo, con una bella biografia, si trovano qui)

     

    La madre. Soemiade (Enciclopedia-dell'-Arte-Antica) . Figlia maggiore di Giulia Mesa e madre di Elagabalo.  Il suo potere durò i quattro anni di governo del figlio. Vennero uccisi insieme.

    Denario di Iulia Soemia (Soemiade). Sul verso, la dea Venere seduta in trono, con un bambino e la scritta “Venere Celeste”.

     

    La moglie. Annia Faustina. Fu la terza delle cinque mogli dell’imperatore. Era di famiglia nobilissima, probabilmente imparentata con gli imperatori antonini. Elagabalo la sposò, dopo aver ucciso suo marito, il senatore Pomponio Basso. La ripudiò dopo appena un anno. Non sembra perciò nutrire particolari motivi per divertirsi agli spettacoli di suo marito.

    Denario di Annia Faustina. Sul verso Elagabalo e Annia si danno la mano. La scritta dice “Concordia di Elagabalo”


    L’amante. Hierocle, probabilmente. Era un fusto biondo, che Elagabalo aveva notato al circo e del quale si proclamava la moglie. In realtà, l’imperatore ebbe due amanti. Quindi Alma-Tadema potrebbe aver rappresentato l’altro, Zotico, celebre per la possanza del suo membro (immortalata anche questa dalle fonti), che, quando rivolse all’imperatore il saluto di rito: “Ave, mio signore”, ne ebbe di rimando la risposta piccata “Non mi chiamare Signore, perché io sono una Signora” (Hist. Aug. LXXIX.15-16).

    Il generale. Publio Valerio Comazone Eutichiano. Comandava la legione gallica, di stanza a Tiro, che – sedotta dalle promesse di denaro di Giulia Mesa - acclamò Elagabalo imperatore. Visse alla sua corte, ma riuscì a farsi accettare dal successore, Alessandro Severo. Le fonti ne parlano come di una persona volgare, dalle origini dubbie (aveva fatto l’attore in gioventù).

    Bacco e Ampelo. Bacco, divinità dai caratteri ambigui, maschili e femminili insieme, si innamora di Ampelo, il piccolo satiro, che muore tragicamente, ucciso da un toro. Ampelo, poi, viene trasformato nel grappolo d’uva. Non è affatto, come vuole il luogo comune, il dio della gioia e della spensieratezza (E. Pistolesi, Real Museo Borbonico, Roma 1839 ).

    Bacco e Ampelo, Uffizi, Firenze

     

    Elagabalo (218-222).  Il suo nome imperiale fu Marco Aurelio Antonino. Quello che conosciamo viene dal nome del Dio Sole, del quale era sacerdote, chiamato a Emesa “Il Dio del Monte”, ‘Ilāhâ Gabal (Heliogabalo, come spesso si trova, è una grecizzazione incorretta).  Fu eletto a 14 anni e ucciso a 18. Il tempo di distinguersi per una serie lunghissima di eccessi, puntualmente annotati dai suoi tre principali biografi: Dione Cassio Cocceiano, Herodiano e la Historia Augusta. Viene ricordato, anche, per aver introdotto a Roma il culto del Dio Sole (Sol Invictus), il cui tempio si trova sui colli palatini (i ruderi sono visibili nelle cosiddette Vigne Barberini), e aver preteso per sé una divinizzazione sul modello orientale. La sua sfortuna fu di avere una nonna terribile, che, quando si accorse che il suo pupillo non funzionava, lo eliminò insieme con la madre, sostituendolo con il cugino. Venne ucciso e gettato in una fogna. Subì la damnatio memoriae (In De imperatoribus romanis, leggete la precisa biografia di Michael l. Meckler, dell’Università dell’Ohio ).

    Busto di Elagabalo, conservato ai musei capitolini; aureo del 219: sul recto l’imperatore laureato; sul verso una quadriga che procede al passo, portando la Pietra nera di Emesa e l’aquila imperiale. La stella è simbolo della divinità. Conservator Augustus, la scritta, vuol dire “protettore dell’impero”.


     

    Ruderi del tempio del Dio Sole, ai Fori Imperiali. Qui Elagabalo fece esporre il Betilo, una meteorite sacra, trasportata a Roma nel corso di una cerimonia fastosissima, durante la quale si esibì in una danza sacra


    Vittoriani con la toga

    Certamente, ogni età vede qualcosa di particolare nella storia passata, specialmente se si tratta dell’impero romano. “A seconda del tipo di governo in vigore nel proprio paese, il Rinascimento italiano avrebbe sottolineato le virtù di entrambi, di Cesare o dei suoi assassini, della Roma imperiale o di quella repubblicana. L’America e la Francia rivoluzionarie avrebbero usato la tradizione della Repubblica Romana per giustificare se stesse, e gli imperatori - da Carlo Magno a Napoleone, da Hitler a Mussolini – avrebbero evocato in egual modo quella particolare idea di un passato romano che piaceva a loro”. Così sintetizza una lunga storia George P. Landow, prima di affrontare la questione dei “Romani Vittorianizzati”.

    I sudditi della regina Vittoria non facevano eccezione in Europa. Nutrivano, perciò, un rapporto profondo, quanto contraddittorio con la storia romana. Catherine Edwards ne elenca gli aspetti principali:

    - la transitorietà della grandezza umana
    - la superiorità e la durata delle realizzazioni romane antiche
    - il modello per l’imperialismo britannico
    - l’avvertimento a guardarsi dai disastri dell’autoritarismo e della depravazione
    - il fondamento della tradizionali virtù civili dell’educazione britannica
    - il trionfo del cristianesimo, fondamentale in una nazione che immaginava di avere la missione di diffondere nel mondo la civiltà cristiana
    - i mali del cattolicesimo romano, ai quali i britannici erano particolarmente sensibili, a seguito dell’affermazione dell’infallibilità pontificia, da parte di Pio X

    Da una parte, dunque, i britannici trovavano nell’impero romano l’antesignano e il modello del loro impero. Dall’altra, il fatto che Roma fosse precipitata in una spirale di decadenza, costituiva per loro una sorta di ammonimento, quasi apotropaico. Era come se i sudditi di sua Maestà si sentissero i romani dell’età moderna. E così li rappresentò Alma-Tadema. “Vittoriani con la toga” li ha definiti Louise Lippincott, presentandone un’esposizione al Getty Museum, nel 1991, nella quale sosteneva che l’artista comprendeva la “civilizzazione imperiale – un misto delle cose migliori dell’antica Roma e della Britannia vittoriana – in una visione ottimistica che si accordava bene con la convinzione tardo vittoriana degli effetti benefici del dominio globale britannico (Alma-Tadema. Spring, Malibu, Getty Museum).

    Roma antica è la città moderna

    Fatti loro, potremmo commentare, noi italiani del XXI secolo. Ma Elizabeth Prettejohn interpreta l’estetica di Alma-Tadema in un modo diverso, che spiega sia il successo immenso che ebbe fino alla fine dell’Ottocento, sia il suo revival, e il nostro interesse, al principio del nostro secolo.

    Ci spiega, in primo luogo, che noi sbagliamo, quando contrapponiamo l’arte dei “pompieri” a quella degli impressionisti, come se i primi fossero i cantori delle età passate e i secondi gli agitati sostenitori della modernità. In realtà, entrambi erano immersi nel loro tempo e se ne facevano interpreti, a volte entusiasti.
    Puntavano allo stesso scopo, ma con linguaggi diversi. Per Alma-Tadema, il recupero della città antica era il mezzo per mettere in scena la complessità della sua società. Una complessità fino ad allora inimmaginabile, che, perciò, lo obbligava a cercare nella straordinaria vicenda romana le immagini, i modelli, le folle,  gli scenari, le feste e i loro eccessi, gli amori e le crudeltà. Quindi, l’artista non vuole rappresentare qualcosa di specificatamente britannico. Ha in mente, invece, una novità eccezionale, che valica i confini della sua nazione: la nascita della città moderna.

    Walter Benjamin ha dimostrato quanto potente sia l’analogia fra a Roma e la città moderna. “I quadri di di Alma-Tadema, prosegue Prettejohn, suggeriscono che l'analogia può funzionare anche in senso inverso: la nozione che il tardo diciannovesimo secolo aveva della modernità della città, offre una prospettiva nuova sul fascino perenne di Roma come paradigma ultimo dell'urbano. In un'intervista pubblicata alla fine della sua vita, l'artista ha usato una frase vivida per descrivere l'introiezione del moderno nel mondo antico dei suoi quadri: "mi sforzo di gettare in ogni cosa qualche aspetto di quella vita che conosco meglio; qualcosa della vita, sempre palpitante, della grande città che ci circonda. Quando entriamo in Roma, lasciamo la provincia e entriamo nella Città”.

    L’eccezionalità della città moderna, così come già veniva percepita alla fine dell’Ottocento, ha un unico punto adeguato di riferimento, Roma. Per questo, Alma-Tadema ne recupera religiosamente ogni aspetto, tenta di ridare vita a uomini e donne, ai colori, ai marmi e ai tessuti ormai scomparsi. Egli rompe l’uso tradizionale della storia e dell’archeologia, quello di intervenire sul presente con l’ammonimento pedagogico (positivo o negativo). E lo rinnova: il passato, per lui, serve per descrivere il presente.

    Elagabalo storico

    Di quel passato Alma-Tadema sapeva quello che raccontavano gli storici del tempo. Oggi, ci dobbiamo chiedere, ne conserviamo la medesima immagine? Rivolgeremmo a Elagabalo le stesse reprimende che, a suo tempo, lanciò Edward Gibbon?

    I tre biografi che abbiamo citato sopra, non ci lascerebbero altra possibilità, tante sono le malefatte e le stranezze che riportano. Noi, però, abbiamo maturato decenni di critica storica, che ci obbligano a prenderle con le pinze. Dione Cassio era un senatore. Un vero civil servant, che operò agli ordini di Settimio Severo e di Alessandro Severo. Anziano, si ritirò dalla vita politica e scrisse una imponente storia di Roma. Greco per parte di madre, romano per quella paterna, non amava gli orientalismi, religiosi e politici. Fece di tutto, quindi, per presentare in cattiva luce Elagabalo. Herodiano apparteneva al ceto equestre, lo stesso di Macrino, che (anzi) fu il primo rappresentante di quel ceto a diventare imperatore. Simbolo, dicono gli studiosi, di quella nuova mobilità sociale inaugurata da Settimio Severo. Non poteva nutrire sentimenti positivi verso chi lo uccise. E, infine, la Historia Augusta raccolse, al termine del IV secolo ogni pettegolezzo e ogni malevolenza che la fantasia romana aveva nel frattempo partorito.
    Dunque, le fonti in nostro possesso sono partigiane. Non abbiamo testimonianze che provenivano da Emesa, o da quel circolo straordinario di intellettuali che Giulia riuniva a corte; né da quel “senatucolo”, come dicono con disprezzo le fonti, attivato dalle Dominae dell’impero, che riuniva le donne di Roma, a discutere di politica (e non soltanto di moda, come le nostre fonti maligne sostengono).

    Certamente i fatti di sesso e di sangue non mancavano a corte. Ma questo è un dato costante della vita imperiale, per quanto non ci sia alcun dubbio che al tempo di Elagabalo se ne conoscesse un notevole incremento. Ma questo è tutto ciò che connota il brevissimo regno del ragazzo di Emesa?

    Una studiosa italiana, Lelia Cracco Ruggini, ci suggerisce un’idea diversa. Parte dal dato di fatto che l’autore della vita di Elabagalo, raccolta nella Storia Augusta, è un pagano che vive in un mondo che si sta rapidamente, e violentemente, cristianizzando. Anche lui utilizza il passato per parlare del suo presente e, per far ciò, sceglie accuratamente – fra i mille accadimenti – quelli che si prestano al suo scopo. L’opposizione da tenere sott’occhio per capire l’intenzione dell’autore, dice la studiosa, è quella fra Elagabalo e il suo successore, Alessandro. Il primo sostiene un monoteismo inaudito al suo tempo; il secondo, promuove una convivenza pacifica fra le cento religioni dell’impero. Il primo abolisce le processioni e le feste degli dei tradizionali e costruisce un nuovo tempio a un dio orientale; il secondo inaugura un santuario nel quale tutti gli dei vengono ospitati, compreso Cristo. Il parallelo che l’autore stabilisce (questo sì inaudito e non raccontabile apertamente alla fine del IV secolo) è quello tra Elagabalo e Costantino. Quello è il precursore malvagio di un imperatore cristiano, del quale l’autore non può dire male. E l’opposizione vera, che l’autore vuol far intendere fra le righe, è quella fra il nuovo cristianesimo integralista e un paganesimo libero e tollerante (L. Cracco Ruggini, Elagabalo, Costantino e il Culti siriaci, in Historiae Augustae Colloquium, Macerata 1991).

    Al di là dell’ardita connessione della Storia Augusta, gli studiosi contemporanei concordano sul fatto che Elagabalo tentò di introdurre a Roma un modo di intendere la politica e la religione del tutto nuovo. Non sappiamo quanto fosse farina del suo sacco, e quanto dipendesse invece dal poderoso circolo di intellettuali del quale si circondò quella dinastia femminile. Il suo tentativo fallì, ma solo per il momento. Il Sol Invictus, infatti, diventò, al tempo di Aureliano, il Dio principale romano e, alla fine del III secolo, il processo di divinizzazione dell’imperatore si poté dire ormai compiuto. Costantino è alle porte e, pur rovistando nella spazzatura, la Storia Augusta ha intuito il corso lungo della storia.


    La sintassi dei tempi

    L’espressione non è mia, ma di Canfora. La coniò in occasione di un corso di aggiornamento parecchio tempo fa (La storia oggi. Ideologie, metodi critici, didattica, Taranto 1984). Penso di aver mostrato come le Rose di Elagabalo siano al centro di un intreccio sintattico-cronologico particolarmente complesso.
    Alma-Tadema usa eventi di 1600 anni prima per parlare del suo tempo. Quegli eventi furono raccontati da contemporanei (Herodiano e Cassio Dione) e da scrittori posteriori di quasi due secoli (Historia Augusta), ciascuno dei quali, in realtà, voleva parlare del suo tempo. Gli storici nostri contemporanei, a loro volta, reinterpretano le fonti (e gli studiosi successivi) per fornire una immagine più accurata di Elagabalo e del suo tempo, e lo raccontano a noi, che andiamo alle mostre, leggiamo, e viviamo in quella società “palpitante di vita”, che immaginarono tanti alla fine dell’Ottocento e al tempo di Roma.
    Sostenne Canfora che il traguardo di una formazione storica non è solo la conoscenza di un fatto, quanto la comprensione della sua sintassi cronologica. Vale anche per le nostre Rose. Se non ne percepiamo la sintassi, il quadro di Alma-Tadema ci sembrerà unicamente una dimostrazione di abilità tecnica. Piacerà a chi ama il rosa. Perderemo la sua potenza. Quella di essere un concentrato di tempi, che racconta storie di passati straordinariamente diversi tra di loro (quello romano e quello vittoriano), e ardisce addirittura di leggere la nostra società, e noi stessi, che stupiti dalla sua bellezza, lo osserviamo.

  • Lo sguardo degli assassini. Le fotografie dell’"Album di Auschwitz"

    di Antonio Prampolini

    Indice

    1. Rileggere l’Album di Auschwitz
    2. L’Album e il suo contesto
    2.1 La fonte
    2.2 Il luogo
    2.3 Il contesto storico
    3. Le fotografie: realtà e messe in scena
    3.1 I ritratti e le storie di vita
    3.2 La rapina degli oggetti personali
    3.3 La selezione dei deportati
    3.4 Gli internati
    3.5 Le camere a gas
    3.6 La violenza nascosta
    4. Sitografia

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 1Fig.1: Rilegatura originale dell’Album di Auschwitz Fonte1. Rileggere l'Album di Auschwitz

    L'Album di Auschwitz, o Album di Lilly Jacob, dal nome della sopravvissuta che lo ha scoperto, è, ad oggi, l'unica prova visiva del processo di selezione degli ebrei, destinati in gran parte alle camere a gas, in quel lager. Le fotografie che contiene, quasi duecento, scattate da membri delle SS, vengono utilizzate frequentemente per mostrare Auschwitz e la “Soluzione Finale” della questione ebraica messa in atto dai nazisti nel corso della Seconda guerra mondiale1.

    Queste immagini, però, sono state spesso utilizzate nei musei, nei documentari e nelle pubblicazioni senza essere sottoposte ad un’attenta analisi e ad una interpretazione critica della collezione, e alcune fotografie dell’album sono diventate iconiche nonostante non mostrino la realtà di come venivano gestiti i trasporti degli ebrei quando arrivavano ad Auschwitz.

    In una recente pubblicazione, gli storici della Shoah, Tal Bruttmann, Christoph Kreutzmüller e Stefan Hördler, ne hanno fatto oggetto di uno studio approfondito partendo dal presupposto che l’album non è un documento oggettivo e neutrale ma è, innanzitutto, il frutto di un progetto di propaganda interna della dirigenza nazista per dimostrare le capacità operative delle SS durante la deportazione degli ebrei dall'Ungheria nella primavera–estate del 19442. Qui lo utilizzeremo come guida per un approccio critico alla fonte.

    Come ha giustamente osservato Paul Salmons, curatore di una recente mostra fotografica sulle vittime di Auschwitz, nelle immagini dell’album «non c’è nulla di clandestino. Quello che viene mostrato è lo sguardo dell’assassino. Quando vediamo la gente arrivare o essere selezionata, vediamo quello che ci vogliono far vedere: un processo efficiente, qualcosa di cui vanno fieri»3.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 2Fig.2: Una pagina dell’"Album di Auschwitz" Fonte2. L’Album e il suo contesto

    2.1 La fonte

    L’Album di Auschwitz è una documentazione fotografica delle operazioni di selezione degli ebrei ungheresi deportati a Birkenau – Auschwitz II nei mesi di maggio e di giugno del 1944. Era intitolato Reinsediamento degli ebrei dall'Ungheria (Umsiedlung der Juden aus Ungarn). Fu scoperto nel campo di concentramento di Dora-Mittelbau, in Germania, da una deportata, Lilly Jacob: un ritrovamento del tutto casuale, dal momento che in nazisti lo avevano abbandonato fuggendo all’arrivo dell’esercito americano nell’aprile del 19454.

    L’album è una collezione di 193 fotografie suddivise in capitoli che corrispondono alle diverse attività svolte dalle SS all’arrivo degli ebrei nello scalo ferroviario del lager (Judenrampe)5.

    In realtà, conteneva più fotografie. Tuttavia, prima di essere donato nel 1980 allo Yad Vashem (il museo dell'Olocausto in Israele), alcune di esse furono cedute ai sopravvissuti che vi riconoscevano parenti e amici. Le immagini furono scattate dai fotografi del servizio di identificazione dei deportati (Erkennungsdienst). Non si conoscono con certezza gli autori delle fotografie. Si pensa che fossero Bernhard Walter e Ernst Hoffmann, due SS che erano rispettivamente direttore e vicedirettore dell'Erkennungsdienst. Ma è possibile che anche il direttore del campo, Rudolf Höss, abbia scattato personalmente alcune delle fotografie dell’album. Non si conosce, inoltre, chi ha composto l’album, scegliendo le immagini e organizzandole in capitoli, e a chi era destinato.

    Quando parliamo dell'Album di Auschwitz, lo facciamo al singolare. Tuttavia, anche se ne possediamo una sola copia, ci sono testimonianze che indicano che ne furono realizzate diverse. Innanzitutto, Bernhard Walter non poteva decidere autonomamente di scattare le fotografie, poiché era solo un sottufficiale, e, in quanto tale, gli era proibito fotografare qualsiasi cosa avesse a che fare con la Soluzione Finale. Questa restrizione poteva essere revocata solo dal comandante del lager, Rudolf Höss, o da autorità superiori.

    Le immagini fornite dall’album e l’impegno che aveva richiesto la sua realizzazione rivelano ancora la sua importanza al fine di documentare il successo della deportazione e dello sterminio di decine di migliaia di ebrei ungheresi. L'album doveva essere davvero qualcosa di straordinario. Per questo è molto probabile che non sia stato realizzato in un unico esemplare.

    L’album si concentra esclusivamente sulle attività (Operation Höss) che hanno consentito ad Auschwitz-Birkenau la gestione di un afflusso senza precedenti di ebrei e dei loro beni personali. Ciò è dimostrato sia dai soggetti delle fotografie, che dal modo in cui è stato organizzato l'album, teso a evidenziare le capacità delle SS di controllare l’arrivo di grandi masse di ebrei, ridotte a merce da scaricare dai treni e smistare, e di regolare il trasporto di ingenti quantità di materiali da immagazzinare nei capienti depositi del lager. L’album non ritrae le camere a gas e i forni crematori; le persone a cui era destinato, i vertici del regime nazista, sapevano già tutto del loro funzionamento e non avevano bisogno di immagini.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 3Fig.3: Planimetria del campo di Auschwitz II (Birkenau) Fonte2.2 Il luogo

    Auschwitz è stato il più grande dei lager in cui gli ebrei furono deportati e sterminati. Situato all’estremità occidentale della città polacca di Oświęcim (Auschwitz in lingua tedesca), nella parte della Polonia annessa alla Germania nazista (“Terzo Reich”), il complesso comprendeva diversi campi. Tra questi, i principali erano: il campo di concentramento di Auschwitz I, il campo di sterminio e di concentramento di Birkenau - Auschwitz II, il campo di concentramento di Monowitz – Auschwitz III6. Il campo di Birkenau - Auschwitz II fu completato nell'ottobre del 1941 e fu attivo dal marzo 1942 fino al novembre 1944. Era costituito da oltre una dozzina di settori, separati da recinti di filo spinato elettrificato e, come ad Auschwitz I, pattugliati dalle SS.

    All’inizio dell’estate 1944, funzionavano cinque centri crematori. Ognuno di questi era costituito da tre parti: uno spogliatoio, una grande camera a gas e un'area che conteneva i forni crematori. La maggior parte dei deportati erano ebrei destinati ad essere eliminati. Solo una piccola percentuale fu selezionata per il lavoro nel campo stesso, per la produzione di munizioni nei campi satellite, o per gli “esperimenti medici” del dottor Josef Mengele e del suo staff. Nella primavera e nell’estate del 1944, il tasso di sterminio aumentò notevolmente con la deportazione nel campo degli ebrei ungheresi e del ghetto di Lodz in Polonia.

    Le fotografie che compongono l’Album di Auschwitz sono state scattate quasi esclusivamente in quello che era il “centro di sterminio” del campo di Birkenau - Auschwitz II. Questo comprendeva diverse strutture, e tra queste: lo scalo ferroviario (Judenrampe - Rampa degli ebrei) dove venivano “scaricati” i deportati dai vagoni; i depositi dei beni sottratti ai deportati; le strade di accesso alle camere a gas con i forni crematori e al campo di prigionia. Su questa rampa, tra il maggio e il giugno del 1944, arrivarono oltre 400 mila ebrei ungheresi, in gran parte subito sterminati nelle camere a gas.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 4Fig.4: ebrei ungheresi arrestati a Budapest dalla polizia nel 1944. Fonte2.3 Il contesto storico

    Nel corso degli anni Trenta, dopo la salita al potere di Hitler (30 gennaio 1933), l’Ungheria, governata da un regime autoritario per molti aspetti simile a quello nazista, si era avvicinata sempre di più alla Germania nella speranza di poter recuperare i territori che aveva perso in seguito alla sconfitta nella Prima guerra mondiale. Speranza che si concretizzò negli anni dal 1938 al 1941. Con i nuovi territori la popolazione ebraica che viveva nella “Grande Ungheria” raggiunse i 725.000 abitanti, esclusi i circa 100.000 ebrei che si erano convertiti al cristianesimo ma che erano ancora considerati dal punto di vista razziale “ebrei”. Circa la metà della popolazione ebraica ungherese viveva a Budapest e faceva parte di una classe media che comprendeva molti professionisti7.

    Nel marzo 1938 l’Ungheria iniziò ad emanare leggi razziali antiebraiche sempre più dure e restrittive che limitavano la partecipazione degli ebrei alle attività economiche-professionali, e che imponevano agli uomini in età di servizio militare lo svolgimento di pesanti lavori che ne minavano gravemente la salute. La condizione degli ebrei peggiorò ulteriormente quando l’Ungheria, che era alleata della Germania nella guerra contro l’Unione Sovietica, cercò di sganciarsi progressivamente dall’alleanza dopo la sconfitta dell’esercito tedesco a Stalingrado (31 gennaio 1943 - resa del feldmaresciallo Paulus). La risposta di Hitler fu un controllo sempre più coercitivo sul governo ungherese fino ad arrivare all’occupazione militare dell’Ungheria nel marzo del 1944.

    Le forze di occupazione tedesche erano accompagnate da unità speciali a cui era stato affidato il compito di attuare anche in Ungheria la "Soluzione Finale". Ulteriori decreti antiebraici furono approvati in grande fretta. Agli ebrei fu imposto di indossare la “stella gialla” e di vivere reclusi nei ghetti. Tra il 15 maggio e il 9 luglio, con la collaborazione attiva della polizia ungherese, i tedeschi caricarono sui treni circa 430.000 ebrei con destinazione principale Auschwitz8.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 10Fig.5: composizione di foto tratte dall’Album di Auschwitz Fonte3. Le fotografie: realtà e messe in scena

    3.1 I ritratti e le storie di vita

    L’Album di Auschwitz contiene foto che ritraggono, al momento del loro arrivo, gli ebrei ungheresi ancora nei loro abiti civili e insieme alle loro famiglie: prima delle selezioni e dell’eventuale internamento, quando i deportati indosseranno le divise del lager e le loro teste verranno rasate. Si tratta di immagini che, se osservate attentamente, permettono di individuare (o ipotizzare) le classi sociali di appartenenza dei deportati: alta o media borghesia, popolo minuto. Molti provenivano da Budapest dove viveva una numerosa comunità ebraica ricca e colta, formata da professionisti, come medici, avvocati e ingegneri. Il sito The Jewish Community of Budapest offre l'opportunità di andare oltre alla serialità e all’anonimato delle fotografie prodotte dai nazisti (dove gli ebrei non erano persone ma merci da gestire), permettendo di associare idealmente i ritratti dei deportati alle loro storie di vita e di scoprire la loro umanità9.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 5Fig.6: donne al lavoro per immagazzinare i beni sottratti ai deportati Fonte3.2 La rapina degli oggetti personali

    All’arrivo, i deportati erano subito privati dei loro oggetti personali. Questi venivano trasportati mediante camion in appositi magazzini che i detenuti chiamavano “Canada” (la terra dell’abbondanza). Erano beni così ingenti, che il “Canada II” di Birkenau richiese 1.000 detenuti aggiuntivi per occuparsi dei bagagli sottratti ai deportati. Per la maggior parte vi lavoravano donne ebree, che registravano, smistavano ed esaminavano gli oggetti di valore. Oro e metalli preziosi venivano inviati alla Reichsbank; gli indumenti e le scarpe erano destinati principalmente alla popolazione tedesca. Gli uomini delle SS del campo tenevano per sé le merci deperibili.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 6Fig.7: foto dell’Album di Auschwitz: inizio delle operazioni di selezione Fonte3.3 La selezione dei deportati

    Le operazioni di selezione dei deportati, che decidevano il loro destino (camere a gas o internamento) venivano svolte in una area lunga 800 metri e larga 40, separata dal campo di prigionia, il cui centro era lo scalo ferroviario (Judenrampe); ed è qui che hanno lavorato i fotografi dell’album, seguendo i gruppi di persone che venivano inviate alla registrazione per l’internamento o alle camere a gas. Le fasi della selezione costituiscono pertanto il nucleo dell'album e fanno riferimento non ad uno ma a più trasporti di ebrei dall’Ungheria.

    Le selezioni avvenivano subito dopo l'arrivo. Gli ebrei erano divisi in due gruppi: “adatti al lavoro” e “inabili al lavoro”. Dapprima le SS e gli internati assegnati alla Judenrampe disponevano i deportati in due file: in una fila gli uomini e i ragazzi più grandi, nell’altra le donne e i bambini. I membri della stessa famiglia venivano separati con la forza gli uni dagli altri. La selezione veniva effettuata dai medici o da altro personale delle SS i quali giudicavano “idonee al lavoro” le persone non anziane e che all’apparenza erano sane e forti. Queste persone, in parte, erano poi assegnate alle diverse sezioni del campo come nuovi internati.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 7Fig.8: gli ebrei ungheresi internati nel lager Fonte3.4 Gli internati

    Quelli che erano considerati “idonei al lavoro” dovevano sottoporsi a una serie di procedure umilianti. Per prima cosa la “disinfezione”: uomini e donne insieme, denudati e rasati, venivano “sanificati” in una area denominata “Nuova Sauna” (Neue Sauna). Poi venivano tatuati sull’avambraccio sinistro con il numero di serie del campo, che serviva come registrazione, e vestiti con le divise degli internati. Tutti gli internati erano alloggiati in baracche non riscaldate, non avevano quasi accesso all’acqua pulita e quindi soffrivano costantemente di scarsa igiene e della mancanza di indumenti puliti e caldi. Le razioni alimentari erano spesso limitate ad una tazza di zuppa e ad una magra razione di pane al giorno. In queste condizioni le malattie si diffondevano molto rapidamente. E così migliaia di prigionieri morirono per i lavori forzati, le malattie e la fame.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 8Fig.9: donne, vecchi e bambini in attesa di entrare nelle camere a gas Fonte3.5 Le camere a gas

    Gli “inabili al lavoro” venivano portati direttamente dalla Judenrampe ai crematori, dove erano obbligati a spogliarsi e a entrare nelle camere a gas. Per evitare il panico, veniva detto loro che dovevano farsi una doccia all’interno di quelle camere stagne. Erano necessari fino a 15 minuti prima che morissero, soffocati in modo atroce. Poi i detenuti del commando speciale (Sonderkommando) rimuovevano i cadaveri e li incenerivano. All'inizio dell'estate del 1944, ad Auschwitz-Birkenau erano in funzione cinque centri crematori. Ognuno era costituito da tre parti: uno spogliatoio, una grande camera a gas e un'area che conteneva i forni crematori. In questi, in un solo giorno potevano essere uccise e incenerite complessivamente fino a 8.000 persone.

    Le fotografie dell'Album di Auschwitz (che non inquadrano le camere a gas) mostrano uomini, donne e bambini in un boschetto vicino all'ingresso del Crematorio IV. Stanno aspettando davanti all'edificio dove verranno uccisi. Sono in attesa, ignari della loro sorte.

     

    ALBUM AUSCHWITZ IMMAGINE 9Fig.10: composizione di foto tratte dall’Album di Auschwitz Fonte3.6 La violenza nascosta

    In queste fotografie non appaiono guardie armate con cani lupo in atteggiamento aggressivo, e i deportati si comportano in apparenza come masse docili pronte ad eseguire gli ordini delle SS. Ma questa era una messa in scena. Lo capiamo dal fatto che la grande maggioranza dei trasporti arrivava di notte e non di giorno, mentre gli arrivi ritratti nell’album avvengono di giorno. La realtà era molto diversa. I deportati, sfiniti dalle molte ore di viaggio, spesso senza cibo e acqua, scendevano terrorizzati dai vagoni merci alla luce delle fotoelettriche del lager. Le guardie intervenivano con brutalità per dividere i gruppi famigliari, formando colonne distinte di uomini, donne e bambini da avviare alle operazioni di selezione.

    Nonostante questo camuffamento della realtà, a ben guardare, nell’album ci sono fotografie che ritraggono involontariamente, ai margini della scena, guardie munite di bastoni per colpire i deportati e altre che esprimono l’odio religioso e razziale verso gli ebrei, mostrando rabbini costretti a togliersi il copricapo, persone malate e altre abbruttite dalla fatica e dalla fame. I crematori, che non vengono inquadrati, sono però presenti nelle fotografie con il loro fumo acre e maleodorante che incombe sulla Judenrampe (in alcune foto si vedono i deportati che si tappano il naso e la bocca).

    L’album testimonia anche un’altra forma di violenza, quella dei fotografi che con freddezza e cinismo ritraggono gli ultimi istanti di vita degli ebrei. Vengono infatti scattate foto di donne, vecchi e bambini, inconsapevoli del loro destino, seduti nell’erba di un prato, come se facessero un picnic, prima di entrare nelle camere a gas.

     

    4. Sitografia

    - The Auschwitz Album, Yad Vashem.

    - What is the Photograph's Context? The Auschwitz Album di Sheryl Silver Ochayon, Yad Vashem.

    - Auschwitz – Album (Auschwitz-Birkenau, 1944), Deutsches Historisches Museum.

    - Album Auschwitz. Sulla fotografia criminale nazista di Pino Bertelli.

    - The “Auschwitz Album”: Between object and historical document articolo di Tal Bruttmann, Christoph Kreutzmüller, Stefan Hördler.

    - Chambre noire. Une revisite historienne de l'album d'Auschwitz di Nicolas Mariot, 2019.

    - Das Auschwitz-Album der SS di Christoph Kreutzmüller, Spiegel Geschichte, 26/01/2020.

    - L’album d’Auschwitz, entre objet et source d’histoire, recensione di Jean-Michel Crosnier, Mémorial de la Shoah, 25/03/2021.

    - Auschwitz en images: apprendre à lire les traces laissées par les nazis di Chloé Leprince, 27/01/2023.

    - Un album d’Auschwitz. Comment les nazis ont photographié leurs crimes, un livre de Tal Bruttmann, Stefan Hördler, Christoph Kretzmüller.

    - Un album d’Auschwitz – Comment les nazis ont photographié leurs crimes.

    - How I found my Bubby in ‘The Auschwitz Album’ di Matt Lebovic, «The Times of Israel», 13/09/2019.

    - "Un album d'Auschwitz" dans les médias.

    - Auschwitz-Birkenau State Museum – History.

    - Auschwitz, Enciclopedia dell’Olocausto, USHMM.

    - Auschwitz-Birkenau, Yad Vashem.

    - Hungary in World War II, voce dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia.

    - The Holocaust in Hungary, voce dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia.

    - Le parole calde della giornata della memoria. Strumenti per studiare la storia e non per commemorarla di Antonio Brusa, «Historia Ludens».

    - La storia di Ovadia Baruch. Una testimonianza filmica della Shoah. Laboratorio didattico di Mariangela Binetti, «Historia Ludens», 31/10/2013.

    - La shoah spiegata ai ragazzidi Antonio Brusa, «Historia Ludens», 25/01/2015.

    - La normalità dello sterminio. I nazisti, gli ebrei e gli altri di Luigi Cajani, «Historia Ludens», 08/03/2015.

    - Gli immaginari del genocidio ebraico. Nella società e nella scuola di Raffaele Pellegrino, «Historia Ludens», 26/01/2016.

     


    Note

    1 Oltre all’Album di Lilly Jacob, esiste un altro album fotografico su Auschwitz realizzato dai nazisti che ritrae il “tempo libero”, le “attività sociali” delle guardie del campo e le cerimonie ufficiali in occasione delle visite delle autorità civili e militari del regime nazista (Karl Höcker Album). Sulla costruzione del lager, si veda l’articolo, con un’ampia documentazione fotografica e planimetrica,L’architettura di Auschwitz di Guido Morpurgo, in «Engramma», giugno 2023.

    2 Tal Bruttmann, Christoph Kreutzmüller, Stefan Hördler, Un album d'Auschwitz: Comment les nazis ont photographié leurs crimes, Seuil, 2023 (edito anche in inglese An Auschwitz album. How the Nazis photographed their crimes e in tedesco Die fotografische Inszenierung des Verbrechens. Ein Album aus Auschwitz).

    3 Paul Salmons ha curato una mostra dal titolo Seeing Auschwitz inaugurata contemporaneamente presso la sede delle Nazioni Unite a New York e la sede dell'UNESCO a Parigi, nel gennaio 2020. La citazione è tratta da una intervista rilasciata a «The Guardian».

    4 The Auschwitz Album, Yad Vashem.

    5 Le fotografie dell’Album di Auschwitz sono tutte visualizzabili con accesso libero e gratuito sul sito dello Yad Vashem (il museo dell'Olocausto in Israele). Accompagnate da didascalie, sono suddivise in sei capitoli che corrispondono alle diverse fasi della deportazione degli ebrei ungheresi a Birkenau – Auschwitz II: Arrivo (Arrival), Selezione (Selection), I selezionati per i lavori forzati (Selected for Slave Labor), L’assegnazione ai lavori forzati (Assignment to Slave Labor), I beni personali dei deportati e il loro trasporto nei depositi del lager (“Kanada”), Gli ultimi momenti prima delle camere a gas (Last Moments before the Gas Chambers).

    6 Auschwitz, Enciclopedia dell’Olocausto, USHMM.

    7 Hungary in World War II, voce dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia.

    8 The Holocaust in Hungary, voce dell’edizione in lingua inglese di Wikipedia.

    9 Il sito The Jewish Community of Budapestcontiene interessanti profili biografici dei membri della comunità ebraica di Budapest.

  • Luoghi di memoria baresi

    Autore: Sergio Chiaffarata

    Due studi di caso su ebrei e seconda guerra mondiale


    Indice
    1.    Via Garruba, 63, o la memoria transitoria
    2.    Torre Tresca e i distruttori di storia

     

     

     1. Via Garruba, 63, o la memoria transitoria.

    Il luogo: Palazzo De Risi

    Chi cammina nel quartiere murattiano di Bari, e incrocia l’angolo di via Quintino Sella con Via Garruba, spesso non presta attenzione a questo edificio di fine ottocento - inizi novecento, in stile neoclassico (tardo rinascimento).
    Si fermano solo i passanti che attendono al semaforo, si spostano fra gli uffici o fanno acquisti nelle attività commerciali della zona. Raramente si tratta di un osservatore curioso ed attento, perché quest’angolo è un luogo di traffico e di rapido passaggio, per chi vuole lasciare il “centro” di Bari.

    Sia che siate frettolosi passanti, sia che siate osservatori curiosi, se vi è successo di passare da quelle parti, soffermatevi sull’imponenza di questo palazzo.
    Essa è dovuta al bugnato del piano terra e, levato lo sguardo verso l’alto, dalla trabeazione aggettante del terzo piano. Ma uno sguardo più attento rivela dettagli, come le paraste che affiancano le porta-finestre con capitelli corinzi, e poi, le decorazioni a rilievo, come le maschere di leone dalla cui bocca scendono festoni con foglie e fiori.
    Infine, se lo sguardo è quello dell’architetto o dello storico dell’arte, ci rivela anche la particolarità del prospetto del lato di via Garruba, che non è a tre o cinque luci, come nella norma, ma a quattro luci.

    Prospetto del palazzo, disegnato da Caterina Jannelli

     

    L’edificio si chiama Palazzo De Risi.
    Oggi, è composto da due immobili diversi, uno con accesso esterno da via Garruba, n.63 e l’altro da via Quintino Sella n. 181, forse precedentemente comunicanti all’interno.
    Un palazzo tutto sommato anonimo? Oggi lo è, indubbiamente. Qui non vedrete nessuna lapide. Ma domani, il passante che leggerà le note che seguono, cambierà idea. Palazzo De Risi, infatti, è un luogo di memoria. Lo sappiamo dai documenti, relativi al periodo bellico della seconda guerra mondiale e quello successivo del dopoguerra, che ci restituiscono la storia di un luogo legato alle vicende della città e alla storia della Shoah.
     

    Via M. Garruba angolo via De Rossi

     

    Testata del Corriere della Sera, Milano, 11 novembre 1938


    Il soggetto: la famiglia Levi.
    Nel 1938, vennero promulgate le leggi razziali fasciste in Italia, un insieme di norme e provvedimenti legislativi contro gli ebrei. «Il censimento degli ebrei - spiega Vito Antonio Leuzzi - conta, nel 1938, a Bari e provincia, 35 famiglie per un totale di 95 persone: 64 italiani e 31 stranieri».
    Dopo la loro adozione, quasi tutti i residenti ebrei di Bari, per lo più individui o ristretti nuclei familiari, lasciarono la città. Molti ritornarono nelle loro città di origine, del Centro e del Nord Italia.
    L’unica famiglia che restò a Bari, fu quella dei Levi, composta dal padre Alberto, dalla madre e da due figlie (Anna Maria e Vera).
    Alberto Levi era troppo importante per il lavoro della ditta presso la quale era assunto, ed anche quando venne espulso dal Sindacato fascista di categoria, non fu licenziato. Nonostante le leggi razziali e la situazione critica, la famiglia Levi cercò di condurre una vita normale.

    Quando Alberto fece domanda di iscrizione alla scuola elementare per la figlia Anna Maria, ricevette una lettera di risposta dal Provveditorato agli studi di Bari in data 18 ottobre 1938, firmata dal provveditore reggente, nella quale si diceva: «non posso autorizzare a vostra figliuola Anna Maria, appartenente a razza ebraica, ad iscriversi perché ciò è vietato dalla legge».
    Nel 1939, Alberto venne arrestato e rinchiuso in carcere. Liberato, continuò a vivere con la famiglia in un paese della periferia per tutto il periodo della guerra. L’anno dopo alla famiglia Levi furono sequestrate anche la radio e la macchina da cucire.
    Una storia tragica, come tante altre in Italia, ma forse meno. Infatti, nell’autunno del 1943, mentre nel resto d’Italia, la guerra, le violenze e le deportazioni proseguirono fino al ‘45, per la famiglia Levi il non aver lasciato la città di Bari, liberata, grazie all’intervento dei soldati italiani agli ordini del generale Bellomo, e, poi, occupata dalle truppe inglesi, rappresentò una piccola fortuna.

     

    Il palazzo De Risi, dopo l’8 settembre 1943.
    Durante il ventennio fascista, palazzo De Risi era stato la sede di un gruppo fascista. Nell’autunno del 1943, i locali del piano terra, in seguito anche quelli del primo piano, furono destinati ad accogliere i profughi ebrei in fuga dal Nord Italia e da altre nazioni, ma anche dai campi di internamento liberati dall’avanzata alleata.

    All’inizio del 1944, Il Consiglio ebraico, composto da Angelo Sullam della comunità di Venezia,
    presidente della Comunità di Bari; Isidoro Mandler della Comunità di Trieste,  segretario; Ermanno Rocca della Comunità di Ancona, Aldo Ascarelli della Comunità di Bologna, Davide Ascarelli della Comunità di Roma; e Alberto Levi, l’unico ebreo già abitante con la famiglia in città, decise di fare dell’edificio di via Garruba 63, la sede della neocostituita Comunità ebraica di Bari.
    Tra gli iscritti alla Comunità, ci sono diversi nomi importanti dell'ebraismo italiano: Aldo Ascoli, Giovanni Terracina, Guido Luzzatti, Mario Fano, Alfonso Russi, Pietro Foà di Firenze, con suo fratello Arnoldo, giovane attore, che animò i programmi di Radio Bari con il ruolo di speaker nella trasmissione Italia combatte.
    Nel 1944, secondo i dati riportati da Mario Toscano e da Klaus Voigt, la Comunità ebraica ospitò 70 italiani, 795 iugoslavi, 104 austriaci, 158 Polacchi, 80 cecoslovacchi, 38 Tedeschi, 4 romeni, 35 apolidi, 2 Francesi, 6 bulgari, 5 Ungheresi, 1 Greco, 11 Russi, 4 lettoni, 3 Inglesi, 2 Estoni.  Circa 1500 persone.

    Questa immagine, tratta da un lavoro di Marco Brando, mostra a sinistra l'Italia, ed in particolare Bari, da cui partono gli immigrati ebrei, per recarsi in Palestina.

     

    La sede di via Garruba 63 comprendeva una sinagoga, una caffetteria, una mensa, una clinica, una scuola e il Ministero del Welfare.
    Il 28 agosto del 1945, la prima imbarcazione di profughi salpò da Bari. Era il peschereccio Sirius, ribattezzato Dàlin, diretto in Palestina.

    I rifugiati più abbienti vivevano in città. La maggior parte dei profughi, non solo ebrei, trovavano posto nell’ex-Campo di Prigionia di Torre Tresca, poi, diventato Campo di Transito. Ma erano ricoverati, anche, in altri campi profughi:  S. Chiara, di Positano (ex-convento di S. Francesco alla Scarpa), le Baracche di via Napoli (detto anche Campo Badoglio, sito nei pressi del cimitero comunale, fino al 1947 destinato ai prigionieri tedeschi); il campo di Fesca (nei locali della ex-colonia marina Ferruccio Barletta).
    Gli ultimi campi “furono finalmente dismessi nel 1956 - ha scritto Giulio Esposito - i profughi ivi ricoverati furono fatti affluire al Villaggio Trieste, in periferia, tra via G. Verdi e via Mascagni”.  
    Fra il 1943 e il 1950, numerosi furono i profughi ebrei in transito dai porti della Puglia per imbacarsi verso la Palestina, altri per il America latina.  
    La Comunità ebraica radunò 650 profughi nella zona di Bari. Nel 1949 ne rimasero 99 nel ’49; poi la comunità si dissolse. Della presenza ebraica nel dopoguerra, rimase solamente un area assegnata ai defunti ebrei nel cimitero comunale (descritta nella rivista “Israel” del 4 maggio del 1950), che fu affidata al signor Alberto Levi.

     Palazzo De Risi

     

    2.Torre Tresca e i distruttori di storia

    Torre Tresca: com’era

    Campo P.G. n. 075 di Torre Tresca. Numero posta militare P.M. 3450.
    Alle dipendenze del Regio Esercito. IX Corpo d'Armata.
    Tipo di campo: campo per prigionieri di guerra da maggio 1941.
    Tipologia di internati: P.G. per ufficiali, P.G. per sottufficiali e truppa, P.G. inglesi, P.G. australiani, P.G. inglesi/domini, P.G. sudafricani, P.G. neozelandesi, canadesi e altri britannici, P.G. americani, P.G. ciprioti, P.G. mediorientali, P.G. ex jugoslavi, P.G. greci e Civili greci
    Descrizione: Campo contumaciale e di smistamento (in parte attendato e in parte baraccato).
    Capacità 500 ufficiali e 3626 sottufficiali e truppa, ampliato fino al giugno 1942.

    Cronologia
    1938 - Promulgazione delle leggi razziali fasciste.
    1940 giugno 10 - L'Italia dichiara guerra alla Francia e alla Gran Bretagna.
    1940 settembre  27 - Firma del Patto Tripartito.
    1941 maggio - Il campo di prigionia di Torre Tresca a Bari è operativo.
    1941 novembre 30 - Fuga dal campo di prigionia di Torre Tresca.
    1943 luglio 10 - Operazione Husky : sbarco in Sicilia.
    1943 luglio 28 - Strage di Via Niccolò dell’Arca.
    1943 settembre 8 - L'armistizio viene reso noto alla popolazione.
    1943 dicembre 2 - Bombardamento del porto di Bari da parte dei tedeschi.
    1944 - Il campo di prigionia viene trasformato in campo di transito dall’AMGOT.
    1944 gennaio 26 -  A Bari si apre il congresso del Comitato di liberazione.
    1945 - Fine della guerra
    1945 settembre 11 - Fucilazione del Gen. Bellomo.
    1945 ottobre  18 -  Inizio il Processo di Norimberga

     

    Le carte dal 2006 al 1949
    In queste carte è possibile seguire lo sviluppo dell’area del campo di Torre Tresca. Seguirò, si parva licet, il metodo regressivo di Bloch, andando da quella più recente, del 2006, alla più antica del 1949.

                 La Città di Bari, oggi: il campo si trova nell'attuale periferia


                              

    2006: nell’ingrandimento, in rosso è segnata la zona del campo, una sorta di triangolo attualmente compreso fra la tangenziale a nord, l’asse Nord/Sud a est e il canalone (canale deviatore) a sud

     

    IGM, 1970: il triangolo rosso indica la zona del campo, facendo attenzione al centro si vede un puntino nero, che rappresenta il campo

     

     

    Carta del comune di Bari, 1963. L'immagine mostra con chiarezza la presenza di costruzioni (in neretto). File di caseggiati. Si nota anche la chiesa. 

     

    IGM, 1949. Si vedono le case, ma sono molte di meno di quelle del 1963. Evidentemente il campo è cresciuto nel dopoguerra.

    Inoltre, non si vede la chiesa

     

    Il protagonista: il Generale Nicola Bellomo
    (Bari, 2 febbraio 1881 – Nisida, 11 settembre 1945)
    Ufficiale di carriera proveniente dall'Accademia Militare, aveva combattuto durante la Prima guerra mondiale. Nel 1936 lasciò il servizio attivo di Comandante del Distretto Militare di Benevento. Ma rientrò in servizio nel 1941.
    Il 9 settembre 1943, dopo l'armistizio, il Generale Bellomo,  comandante del Presidio di Bari del IX corpo d’armata, venne a conoscenza che il comando tedesco aveva inviato truppe di guastatori per distruggere le principali infrastrutture portuali della città. Raccolse sotto il suo comando alcuni soldati italiani, affiancate da civili, ed attaccarono i guastatori tedeschi che avevano già preso posizione nei punti nevralgici della grande struttura.

    Venne il generale Bellomo e disse:
    - Ragazzi difendete le vostre case, difendete il vostro porto!
    - E con che cosa lo dobbiamo difendere?
    -Tenete una cassa di bombe a mano!
    Allora presi una bomba e la gettai contro un’autoblinda.
    (Testimonianza orale di Michele Romito, eroico “scugnizzo” della città vecchia).

    I tedeschi furono costretti alla resa e obbligati ad abbandonare la città. Anche Bellomo fu ferito.

    Tuttavia, nonostante avesse salvato il porto, difeso la città contro i soldati tedeschi e agevolato l’occupazione alleata di Bari del 14 settembre, venne accusato di crimini di guerra, non chiese la grazia e fu fucilato dagli inglesi.
    Nel 1951 venne decorato dalla Repubblica Italiana con la Medaglia d'argento al Valor militare.

     

    Il Generale Bellomo


    I fatti del campo di Prigionia di Torre Tresca
    L’episodio all’origine della condanna del Generale Bellomo avvenne nel campo di Torre Trescas. Due ufficiali inglesi, il capitano George Payne e il tenente Roy Roston Cooke, nella notte del 30 novembre 1941, avevano tentato la fuga. Catturati e ricondotti al campo, vennero interrogati da
    Bellomo sulle modalità dell’evasione. Il generale volle essere condotto dai due ufficiali inglesi sul luogo esatto da cui erano fuggiti.

    Di fronte ai giudici inglesi, il Generale Bellomo ricostruì gli avvenimenti, assumendosi per intero la responsabilità del fatto: “Io ordinai alla scorta di fare fuoco soltanto quando mi accorsi che i due prigionieri si erano fermati per scattare in avanti. Il capitano Plyne avanzò per primo, seguito a breve distanza dal tenente Cooke. Allora ebbi la certezza che volessero tentare la fuga. Io non sparai: non perché non avessi la volontà di farlo, ma perché avevo dimenticato di abbassare la sicura e la pistola non funzionò. Comunque lo ripeto ancora una volta: se ci fossero responsabilità, queste sarebbero solo mie perché io ero generale, tutti gli altri erano miei subordinati, ubbidivano soltanto ai miei ordini”.

     

    Torre Tresca anni ‘50

    Foto del Campo, 1947

     

     Foto del campo, 1950

     

    Da campo di prigionia divenne rifugio per centinaia di famiglie di profughi.
    Nelle settimane successive all’ armistizio, i responsabili dell’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territories - Amministrazione Militare Alleata dei Territori Occupati) decisero di trasferire gli ex internati e i profughi di diverse nazionalità nel dismesso campo di prigionia di Torre Tresca a Bari.  
    Il campo divenne il Villaggio dei Profughi di Torre Tresca, abitato per tutti gli anni ’50 e i primi anni ’60, fino alla realizzazione del Quartiere San Paolo, dove vennero trasferiti gli ultimi residenti.
    Infine, con i lavori per la tangenziale tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 si provvide a dismettere gli ultimi fabbricati.

     

    Torre tresca, com’è oggi

    Panorama, Chiesa di Torre Tresca


    Nel 2007, l’area acquistata dal Corpo Forestale dello Stato, è stata posta sotto sequestro dalla Guardia di Finanza, dopo la realizzazione di una recinzione in muratura che ha contribuito a stravolgere un contesto superficiale, come vedremo, estremamente degradato.

    Prospetto frontale

     

    Prospetto laterale della chiesa


    Del campo di prigionia, del campo di transito e del villaggio dei profughi non resta che la chiesetta su di uno sfondo di palazzi, capannoni e opere pubbliche mai portate a termine. Intorno una distesa di rifiuti e di materiali edili, fra cespugli e vegetazione spontanea, racchiuso tra la tangenziale, il nuovo asse nord-sud (via Tatarella), un breve tratto di strada Torre Tresca o delle Canestrelle, ed il canale deviatore (il Canalone), scavato in epoca fascista, con le sue casematte realizzate durante la seconda guerra mondiale.
    Non distante dalla chiesetta, fino al 2006, era possibile ancora scorgere alcuni vani con volte a botte, realizzati sotto il piano di campagna, forse delle cisterne o dei depositi, frequenti in questa zona di ipogei ed insediamenti rupestri.
    E’ tutto ciò che è sfuggito ai distruttori di storia, insieme con un rudere, modesto ma di grande significato nella nostra ricostruzione storica, che scorgiamo a circa 200 metri dalla chiesetta. Qui, fra gli ulivi, si eleva ancora un muro isolato, costituito da grossi blocchi squadrati di tufo (calcarenite di Gravina), probabilmente estratti in zona. Si potrebbe trattare del resto del caseggiato che si vede nella carta del 1963, in basso a destra, nell’angolo fra il Canalone e la stradina che da questo porta al corpo principale del Campo. E’ ciò che resta della sua storia. 

    Muro esterno, lato est
     

    Particolare

    Visuale, lato sud

    Muro interno, lato ovest


    Annotazione finale sulla chiesetta di Torre Tresca
    A conclusione di questo secondo studio di caso, mentre scrivevo e osservavo le due foto in bianco e nero del campo di transito, entrambe scattate con la stessa angolazione, ho notato che il campanile della chiesetta è visibile nella foto del 1950, ma è assente in quella del 1947.
    Le testimonianze orali che avevo raccolto dalle persone anziane della zona, ma avevano lasciato intendere che la costruzione della chiesa fosse avvenuta ad opera dei prigionieri alleati, in una data compresa fra il 1941 e il 1943. Ma le fotografie smentirebbero questa congettura. La presenza del campanile nella foto degli anni ‘50, sarebbe una buona prova peri datare la costruzione della chiesa in un periodo compreso tra il 1948 e il 1950, opera dei profughi, oramai residenti del villaggio di Torre Tresca.


    E quello che penso io, dei “Distruttori di storia”
    Che posto straordinario, per mostrare la potenza della storia. - scrive Antonio Brusa - Non gli daresti due centesimi, tanto appare desolato e privo di interesse. La storia te ne rivela la ricchezza nascosta. Prima non vedevi, e dopo vedi”. Continua nel suo Diario di Bordo del 11 gennaio 2013: “Non vediamo solo i segni di chi la storia l'ha costruita. Qui c'è una matassa di gomma bruciata, resto della fusione di fili di rame, rubati chissà dove; lì un motorino, ugualmente rubato; un po' più avanti dei copertoni; in giro spazzatura e plastica a volontà; un insediamento, forse industriale, lasciato a metà, con i tondini di ferro sporgenti; strade e canali che interrompono i complessi ipogei. Sono i segni di chi la storia l'ha distrutta. Senza distinzioni di cultura, censo, professione, italiani e rom, ricchi e poveri, uomini dell'amministrazione e industriali, e i tanto famosi cittadini comuni, questa è la vasta e eterogenea comunità dei distruttori di storia".

    Siamo partiti proprio da questa ultima considerazione, quando abbiamo organizzato una visita per il corso “Conoscere, pensare, insegnare la shoah”, coordinato dalla Professoressa Francesca R. Recchia Luciani, che si è tenuto nel Palazzo dell’Ateneo di Bari, il 18/19 ottobre 2013.
    Partiti da Via Mitolo, abbiamo percorso i sentieri lungo i fianchi di lama Picone, dove, oggi, nell’uliveto sorge un campo Rom, di fronte alla chiesa rupestre di Santa Candida (IX-XI secolo), poi, abbiamo visto il complesso ipogeo della Caravella, utilizzato per lo smaltimento illecito di rifiuti, connesso al furto del rame.
    Dopo aver superato via Camillo Rosalba, siamo scesi nella cava che ha distrutto quasi interamente l’ipogeo di Torre Tresca, da li, passando sotto i ponti dell’asse nord-sud, abbiamo incrociato l’ipogeo Riccardo Mola.
    Al di là di un canneto, un sentiero ci ha portato ad un campo ulivi che nasconde parzialmente il muro superstite del campo di Torre Tresca. Ribattezzato da alcuni, scherzosamente ma non troppo, il muro del pianto, dove infilare i bigliettini con le nostre preghiere nella speranza che non si finisca di distruggere definitivamente la storia.
    All’ombra della linea ferroviaria sopraelevata, mai portata a termine, il gruppo  di insegnanti e studenti ha percorso la strada, parallela al Canalone, che collega lama Picone con lama Lamasinata. Giunti al muro di recinzione, costruito nel 2007, nel punto più vicino alla chiesa di Torre Tresca, situata all’interno dell’area, oggi, posta sotto sequestro, abbiamo concluso la nostra visita, prima di ritornare sui nostri passi.

    Visita del 19 ottobre 2013


    Certo è che i distruttori di storia sono ancora la parte maggioritaria. Ma per riscattare le minoranze, questa visita potrebbe essere il primo passo, come scrive Antonio Brusa, per  inventare un laboratorio assai speciale che sia capace di trasformare queste minoranze in maggioranze,di costruttori di memoria.


    Bibliografia
    Leuzzi Vito Antonio, Esposito Giulio, L'8 settembre 1943 in Puglia e Basilicata. Documenti e testimonianze. Edizione dal Sud, Modugno, Bari, 2003.
    Leuzzi Vito Antonio, Esposito Giulio, (a cura di) Terra di frontiera. Profughi ed ex internati in Puglia. Progedit, Bari, 2000.
    Leuzzi Vito Antonio, Esposito Giulio, In cammino per la libertà. Luoghi della memoria in Puglia. 1943-1952. Edizioni dal Sud, Modugno, 2008
    Leuzzi Vito Antonio, De Rose Maria, (a cura di) Problemi di storia del novecento tre ricerca e didattica. La Puglia terra di frontiera 1943-1948. Quaderno n. 35, IRRSAE, Bari, 1998.
    Leuzzi Vito Antonio, De Rose Maria, (a cura di) Problemi di storia del novecento tre ricerca e didattica. Bari e la Puglia negli anni della guerra 1940-1945.Quaderno n .24, IRRSAE, Bari, 1995.
    Gobetti Eric, (a cura di) 1943-1945 La lunga liberazione. Franco Angeli, Milano, 2007.

    Sitografia
    www.campifascisti.it/scheda_campo.php?id_campo=362 (ultima consultazione del sito 17/09/2013)
    www.mondimedievali.net/microstorie/shoah.htm (ultima consultazione del sito 17/09/2013)
    www.anpi.it/donne-e-uomini/nicola-bellomo/ (ultima consultazione del sito 17/09/2013)
    digilander.libero.it/mandler/index.htm (ultima consultazione del sito 17/09/2013)

  • Oltre il muro, la storia del tempo presente

    di Lia Giachero

    Il libro Oltre il muro, frutto del lavoro di aggiornamento di Isral (l’Istituto storico della resistenza di Alessandria), mi ha permesso di viaggiare in territori storici solitamente non frequentati nelle scuole. Con il saggio di Luigi Bonanate e con quello di De Bernardi ho ripercorso un pezzo di storia del XX secolo che in parte avevo visto accadere, e solo in parte avevo avuto la possibilità di studiare: la guerra fredda, la corsa agli armamenti di U.S.A. e U.R.S.S., l'invasione sovietica dell'Afghanistan, le presidenze di Reagan e di Gorbačëv, la guerra nei Balcani, il 4 giugno 1989 (Piazza Tien'anmen) e l'11 settembre 2001 (il crollo delle Torri Gemelle), la nascita dell'Isis, le primavere arabe, ma anche le due guerre mondiali, il '68, i cambiamenti della Cina, la globalizzazione.

    Ho riflettuto su cosa significhi dopoguerra (la “fase nella quale i vincitori ridefiniscono l'ordine mondiale dal punto di vista geopolitico, economico, ma anche ideale”), su quanto la guerra fredda sia stata davvero una guerra dal punto di vista del potenziamento degli arsenali militari (miliardi e miliardi di dollari – per fortuna - sprecati), sul reale ruolo svolto dalla presidenza Gorbačëv, sul perché sia scoppiata la guerra nei Balcani.

    Oltre il muroOltre il muro (a cura di Luciana Ziruolo), Falsopiano-Isral, Alessandria, 2020, 15 euro. Fa uno stranissimo effetto vedere gli eventi a cui si è assistito di persona sulla pagina sotto forma di argomenti di studio e di riflessione. Ci si sente nello stesso tempo protagonisti (mia era la mano che metteva la croce su un certo simbolo politico sulle schede elettorali, mia era la gola che gridava certi slogan durante le manifestazioni, miei erano gli interventi a volte pacati più spesso rabbiosi nelle discussioni in casa, a scuola in assemblea, con gli amici) e messi in disparte (anche se avessi preso un aereo per Berlino nel 1989 e avessi visto i Tedeschi dell'Est sciamare all'Ovest, come il protagonista di Cani neri di MacEwan in compagnia del proprio suocero, e magari preso a picconate il muro, questo non avrebbe significato che stavo facendo la Storia perché non avevo in mano tutti gli elementi per comprendere non tanto cosa stava avvenendo, quanto perché avveniva).

    Il saggio che ho trovato più significativo per comprendere la realtà odierna e potermi cominciare a calare almeno un pochino nella realtà da cui una ormai buona parte dei miei alunni proviene è quello di Antonio Brusa sull'insegnamento della storia in Europa dell'Est. Quanto poco riflettiamo su quanto la maggior parte dell'Europa sia ormai slava! E di conseguenza difficilmente ci soffermiamo a pensare su quale storia questi cittadini europei si siano formati dopo che sono state abbandonate la storiografia e la didattica marxiste. In realtà, se lo facessimo, ci renderemmo conto quanto il crollo del comunismo abbia aperto le strade a nazionalismi fortemente divisivi. I programmi di storia dei paesi dell'Europa orientale si rifanno ai programmi ottocenteschi, mettendo in risalto le passate grandezze perché ogni stato vanta “un passato, quasi sempre più largamente esteso di quello racchiuso nei ristretti confini attuali.” Il che dà origine a una grande produzione mitopoietica che fa retrocedere il processo di scientificizzazione dell'insegnamento della storia e che tra l'altro “mette a fuoco solo i torti subiti” minimizzando o tacendo quelli perpetrati.

    Se è indubbia quindi la valenza culturale della lettura di Oltre il Muro, altrettanto lo è la sua vocazione didattica. Carla Marcellini, analizzando i manuali di storia più adottati nelle scuole italiane, nota come manchino, nella narrazione, le conseguenze della caduta del Muro sulla costruzione dell'Europa. Antonella Ferraris propone infatti due laboratori per la scuola primaria e per la secondaria di primo grado e Dario Siess la realizzazione di un sito didattico. Sono proposte estremamente interessanti, anche in vista della preparazione agli esami di Stato.

    Nel 2009 una di esse, l'ormai defunto “tema di ordine generale”1 era dedicato proprio al Muro:

    “A vent'anni dalla caduta del muro di Berlino, il candidato rifletta sul valore simbolico di quell'evento ed esprima la propria opinione sul significato di 'libertà' e 'democrazia'.”

    Nel 2013 invece l'analisi del testo era un ampio stralcio della Prefazione, che Magris ha scritto a L'infinito viaggiare, uscito nel 2005 per i tipi di Mondadori, in cui c'è la riflessione sulla frontiera, citata da Luciana Ziruolo nella sua introduzione:

    “Quando ero un ragazzino la frontiera, vicinissima, non era una frontiera qualsiasi, bensì una frontiera che dividere in due il mondo – la Cortina di ferro. Io vedevo quella frontiera sul Carso, quando andavo a passeggiare e a giocare. Dietro quella frontiera c'era un mondo sconosciuto, immenso, minaccioso, il mondo dell'Est.”

    Penso a questi ragazzini nativi digitali, ma così inconsapevoli del mondo che li circonda e del passato anche molto prossimo, quando riflettono su “libertà”, “democrazia”, “confini”. Vengono da famiglie in cui non si officia più il rito serale dell'ascolto del telegiornale durante la cena, in cui non si litiga più con un babbo democristiano o missino che non vuole lasciarti andare a Milano in manifestazione l'8 marzo, in cui il giornale forse non si legge nemmeno on-line. E non è che chi ha i genitori rumeni, bielorussi, albanesi o moldavi li senta a tavola dissertare sulle differenze tra il regime comunista, in cui sono nati e cresciuti, e l'Italia, in cui il destino li ha portati a vivere, valutando i pro e i contro.

    Credo, perciò, che sia importante non perdere mai di vista il dialogo passato/presente e l'alternarsi di forze centripete e centrifughe che hanno segnato la storia d'Europa, tracciando linee di conflitto sempre pronte a riattivarsi. Perché quelle “origini meravigliose della propria storia nazionale”, ricordate da Hobsbawm e Ranger (L’invenzione della tradizione, Einaudi, 1983) esaltano sì eroi e tradizione popolari, ma spesso lo fanno in funzione divisiva.

     

    Indice

    - Senza il Muro, appunti da Jacques Rupnik. Introduzione, di Luciana Ziruolo.
    - Il sistema internazionale a trent'anni dalla caduta del Muro di Berlino, di Luigi Bonanate.
    - Trent'anni di storia che si possono insegnare. L'epoca della globalizzazione, di Alberto De Bernardi.
    - L'insegnamento della storia nell'Europa orientale dopo il 1989. Quando la storia e la memoria diventano un ostacolo per la riconciliazione, di Antonio Brusa.
    - Il triennio 1989-1991 nella manualistica per la secondaria di secondo grado, di Carla Marcellini.
    - Una proposta di lavoro per la scuola. Il Muro di Berlino, di Antonella Ferraris.
    - Oltre il Muro (Beyond the Wall). Progetto didattico, di Dario Siess.

     

    La crescita di consapevolezza dei nostri alunni nei confronti di passato e presente non può prescindere, soprattutto oggi, dall'efficacia con cui noi insegnanti li sappiamo stimolare. Il che a sua volta non può prescindere da quanto noi siamo ricettivi nei confronti di tutte le utili proposte che istituzioni come l'Isral ci sanno per fortuna ancora offrire. Oltre il Muro è indubitabilmente una di esse.

     

    1 A partire dall'anno scolastico 2018-2019 le prove sono: analisi del testo, testo argomentativo, riflessione critica di carattere argomentativo-espositivo.

     

  • Passarono dalla Casa Rossa

    Autore: Francesco Terzulli

    Storie di internati fra il 1940 e il 1947


    Su HL si trovano già altri interventi sulla Casa Rossa, che possono fornire l’introduzione a questo “archivio di biografie”, che dobbiamo alla passione di Francesco Terzulli. Come usarlo in classe? In attesa di proposte degli insegnanti, suggerisco questo facile stratagemma. Stampate le biografie, avendo cura di stamparle su pagine separate. Preparate, in questo modo, un piccolo archivio, con il quale “giocare” in classe. Mescolatele e poi proponete agli allievi di classificarle. Qui ho lasciato la classificazione di Terzulli, in modo che vi serva per controllo. Fate scoprire loro di quanti tipi fossero gli internati, da quali regioni provenissero, per quali motivi venissero internati e in quanti periodi si può suddividere la storia della Casa Rossa. Poi, potrete suggerire agli allievi di “preparare un mostra di quelli che passarono dalla Casa Rossa”, cercando di illustrarla con foto e didascalie appropriate, che mettano in collegamento queste biografie con le vicende della “grande storia”. (HL)

     

    Indice

    PRIMA STAGIONE

    Internati inglesi (luglio-agosto 1940)
    Internati ebrei  (1940-1943)
    Internati slavi e italiani non ebrei  (1940-1943)

    SECONDA STAGIONE

    Ex fascisti in colonia di confino (1945-1946)

    TERZA STAGIONE

    Le donne senza nome (1947) nelle cronache del Messaggero

    CRONOLOGIA ESSENZIALE DI CASA ROSSA/MASSERIA GIGANTE

    BIBLIOGRAFIA


                            

    Dietro quel muro comincia un altro mondo- Accidenti che razza di muro, e che ci sono le belve feroci?- No, serve soltanto per i cristiani, anzi per tutti i cristiani. I fascisti ci mettevano gli antifascisti, gli antifascisti ci hanno messo i fascisti; i tedeschi gli italiani, gli italiani i tedeschi, a seconda come girava la ruota...la ruota della storia, la guerra, la pace, la politica. Ora è la volta delle donne...è capace che un giorno tocchi pure a noi.
    (dalla sceneggiatura di Donne senza nome, 1949)


    PRIMA STAGIONE

    INTERNATI INGLESI  (luglio-agosto 1940)

    Arthur

    Arthur, famoso commediografo anglo-napoletano e biografo della famiglia artistica dei De Filippo, arriva il 29.6.1940 da Napoli, parte il 28.8.1940 per il campo di concentramento di Salsomaggiore. Questa la sua biografia: «Arthur Spurle, figlio di padre inglese e di madre napoletana, è nato a Napoli il 1907. L’amore per il teatro Arthur Spurle l’ha ereditato dalla madre e dal nonno materno. La madre, giovinetta, appassionata di canto e di teatro – il cui “salotto”, al tempo delle romantiche “periodiche”, era frequentato dal tenore Fernando De Lucia, dal maestro Bertolini, allievo di Giuseppe Verdi, da Salvatore Gambardella, il celebre autore di ‘O marenariello -, era assidua frequentatrice all’epoca d’oro del teatro a Napoli, del “Nuovo”, del “Sannazaro”, del “Mercadante”, del “Fiorentini” e del “San Carlo”. Passata a nozze, più che raccontare al suo prediletto primogenito le favole di Cenerentola e di Cappuccetto Rosso, narrava le divertenti storie di Scarpetta, di Pantalena, di Pulcinella De Martino e della bell’Adelina Magnetti; mentre il nonno materno, figliuolo di un ufficiale borbonico, portava il ragazzetto dai lunghi capelli rosseggianti nelle sale dei teatri di prosa e varietà. Nel ragazzo anglo-napoletano si andò a mano a mano sviluppando quella passione cui doveva dedicare tutta la vita. Non è facile descrivere quello che Arthur ha raccolto nell’arco di tempo di quasi un cinquantennio. Diciamo subito, a suo onore, che egli è riuscito a salvare dalla dispersione e dalla distruzione il glorioso patrimonio di quasi due secoli di vita del teatro napoletano. Una preziosa miniera, un patrimonio di inestimabile valore artistico e fonte inesauribile di studio: una gran massa di libri sul teatro, sedicimila volumi, e cinquemila copioni manoscritti di tutti quanti i generi napoletani, ed anche tutto quanto il teatro italiano e straniero dell’Ottocento e Novecento. Un archivio di migliaia di rari ritratti di attori, attrici, cantanti, autori; autografi, programmi e locandine, documenti, diari, cimeli. Canzoni e fascicoli piedigrotteschi di tutte le Case Editrici Musicali, dall’800 in poi. All’inizio del secondo conflitto mondiale, Spurle venne internato in Campi di concentramento ad Alberobello (Bari), nel Castello di Scipione e nel Castello di Montechiarugolo (Parma), indi trasferito quale internato civile di guerra a Monteromano, a Grotte di Castro (Viterbo) e Pergola (Pesaro), riuscendo infine a mettersi in salvo, dopo l’armistizio, varcando le linee di combattimento sul versante Adriatico, dove era attestata la 8^ Armata inglese. Riprese il suo posto al Consolato Generale di Gran Bretagna di Napoli, dove ha svolto il suo lavoro per un trentennio presso l’Ufficio Stampa. Ha dato alle scene brillanti lavori: Aprimi il Paradiso, Non scherzate con la dinamite, I papà preferiscono…il bambino, Una famiglia moderna, Il bar della fortuna, Accadde così, rappresentati con vivo successo. Ha terminato di scrivere un classico umoristico: Il salotto di donna Leonora, ricostruzione del teatro comico di metà Ottocento con la maschera di Pulcinella, e con motivi musicali dell’epoca. Nel 1964, la Rai, sul programma nazionale, gli dedicò una puntata di “Gente del nostro tempo”, una trasmissione che si proponeva di presentare ai radioascoltatori le persone “benemerite” nei diversi campi dell’arte, della cultura, delle scienze. Nel 1972, al Teatro di corte di Palazzo Reale di Napoli, ricevette il “Premio speciale Ernesto Murolo” riservato a cultori d’arte particolarmente distintisi per la loro attività nell’interesse del Paese».

     

    Ghangimal

    Ghangimal, nato a Hiderabad (India), 46 anni, hindu, inglese di nazionalità indiana, arriva il 29.6.1940 da Napoli, parte il 28.8.1940 per il campo di concentramento di Salsomaggiore. La moglie di Ghangimal conserva la cittadinanza italiana con l’iscrizione al P.N.F. Fascio Femminile di Napoli mentre i suoi due figli sono iscritti alla G.I.L. Ghangimal è un nazionalista indiano, che indossa con orgoglio l’abito Ghandista ogni volta che si reca in India, la sua terra oppressa dagli inglesi: «egli è seguace di Gandhi e con fervido entusiasmo plaudì, anche per questa ragione, sempre al Duce che la causa dell’oppressa India e di tutte le Nazioni oppresse ha sostenuto e sostiene nella costante Sua alta opera di Governo liberatore di ogni oppressione. All’atto della dichiarazione di guerra dell’Inghilterra, per un provvedimento d’indole cautelativa di ordine generale, in relazione alla qualità di suddito di una Nazione straniera benché oppressa dall’Inghilterra egli fu inviato in campo di concentramento.(…) L’infelice ha conservato più alta che mai la fede nel Fascismo e nella liberazione dai popoli oppressi dall’Inghilterra ed è pronto a aderire al movimento degli “Amici dell’India”, cooperando con tutte le proprie forze al raggiungimento della liberazione della propria Nazione». Egli si definisce «Indiano di origine, ma Italiano di elezione e di anima», e aspira a tornare alla vita libera, all’azione irredentista dei nazionalisti indiani: è stato costretto a non assumere la cittadinanza italiana per tema di rappresaglie nella propria patria soggetta agli inglesi, in occasione dei viaggi per abbracciarvi la mamma. Ha due figli di tenera età, nati in Italia, «ma non denunziati al Consolato Inglese perché già votati prima della nascita, dalla mia volontà alla cara Italia, mia patria d’elezione».

    Ihamatrul

    Ihamatrul, nato a Hiderabad (India) , 19 anni, hindu, inglese di nazionalità indiana, arriva il 29.6.1940 da Napoli, parte il 28.8.1940 per il campo di concentramento di Salsomaggiore. Sarà anche a Corropoli dove sarà arrestato per aver tentato di evadere: «al Segretario Politico del luogo, che gli domandava come fosse uscito dal Campo, rispondeva nei seguenti termini: “I soldi sono merda ed io ne ho tanti e li spendo per ottenere quello che voglio” – ed all’interdizione di tacere, così si esprimeva: “Finirà presto e poi si vedrà”». Insieme ad altri due indiani, in un’osteria, «pronunciava frasi ironiche al cartello pubblicitario esposto al pubblico con la scritta “Silenzio! Il nemico è in ascolto”». Il Pretore di Nereto lo condanna alla prigione per dieci giorni ma, in aggiunta a questo periodo, è trattenuto in carcere altri trentadue giorni, suscitando le vive proteste della Legazione Svizzera in Italia, che cura gli interessi degli inglesi in Italia, per la palese violazione da parte italiana delle disposizioni del Codice dei prigionieri di guerrain materia di pene giudiziarie e disciplinari e che chiede un rimborso per questo periodo supplementare, nel quale l’internato indiano ha dovuto completare a proprie spese l’insufficiente vitto ricevuto. A tale richiesta si oppone il Prefetto di Teramo, che lo fa diffidare, non riuscendo a trasferirlo su un’isola.

     

    John

    John, nato a Napoli, 22 anni, cattolico, inglese, studente, arriva il 29.6.1940 da Napoli, parte il 28.8.1940 per il campo di concentramento di Salsomaggiore. Testimonianza:

    «Alcuni giorni dopo la dichiarazione di guerra, mio fratello Charles ed io fummo invitati in Questura (Pozzuoli, Napoli) per comunicazioni, non facemmo più ritorno a casa se non alla fine della guerra. La famiglia in serata fu avvisata che eravamo stati trasferiti a Poggioreale (il carcere di Napoli) e che potevano visitarci e portare indumenti. Dalla questura di Pozzuoli fummo trasferiti alla Questura di Napoli dove trovammo altri inglesi, conoscenti e non. Dalla questura di Napoli fummo trasferiti al carcere di Poggioreale e rinchiusi in celle. Dopo alcuni giorni fummo avvisati dagli agenti di custodia che ci avrebbero trasferiti. Infatti il gruppo dei diciassette fummo trasferiti in manette alla stazione centrale di Napoli partenza per Bari. Da Bari ci trasferirono, questa volta senza manette, all’Istituto agrario di Alberobello.

    Logicamente l’Istituto non era attrezzato per ospitare notte e giorno internati, mancava anche la cucina ed i gabinetti erano pochi ed insufficienti. Con buona volontà di tutti, compresi i tre carabinieri addetti alla nostra sorveglianza, - persone molto gentili e comprensivi - , riuscimmo a sistemarci abbastanza bene. Le autorità crearono la mensa che ognuno di noi pagava dal soldo che il Governo Italiano passava ad ogni internato (lire cinque al giorno). A coloro che erano considerati benestanti non veniva dato il sussidio quindi dovevano provvedere a proprie spese al mantenimento. Logicamente si fece reclamo, essendo i nostri beni sequestrati e dati in consegna al Banco di Napoli di cui non ci rimetteva nulla. In fine ci venne riconosciuto il sussidio anche agli altri ritenuti benestanti che eravamo la maggior parte. I tre Indiani trovarono difficoltà per il mangiare e si cucinavano direttamente. Il tempo lo passavamo a passeggiare, scrivere studiare perché alcuni non parlavano inglese.

    I carabinieri molto gentili con facilità ci davano il permesso di andare in paese a fare spese e loro non hanno mai avuto di che lagnarsi di noi internati. Si visitavano i Trulli, si parlava con i paesani, in altri termini buona accoglienza. Dopo alcune settimane venne internato nel nostro campo un ferroviere italiano che purtroppo dopo alcuni giorni  dopo il nostro trasferimento a Salsomaggiore, morì di tifo (in realtà il suo decesso fu dovuto a peritonite, n.d.r.). Dopo un mese di permanenza in diciassette, diventammo quasi cinquanta inquantochè furono trasferiti nel nostro campo alcuni ebrei. Gente calma, mai attriti fra di noi, alcuni con problemi per il mangiare, molti non in buona salute a cui veniva dato il permesso per recarsi in Paese dal medico addetto al campo. Il signor  Enrico, professore di pianoforte e di altri strumenti, delle volte ci allietava con la chitarra. In tutti i modi non davamo fastidi alle autorità e non avevamo fastidi.

    Dopo due mesi fummo trasferiti al Castello di Salsomaggiore assolutamente non adatto ad ospitare molte persone quasi un centinaio, internati provenienti da tutta Italia. A nostra richiesta tramite il Governo Svizzero il Ministero degli Interni italiano inviò un ispettore accompagnato da un funzionario svizzero. Vista l’impossibilità del castello di ospitare tante persone, un gruppo fu trasferito al Castello di Montechiarugolo, alcuni furono inviati in paesini come internati liberi uniti alle famiglie che, a loro volta, erano stati internati liberi in paesini a loro scelta. Nel Castello di Montechiarugolo trovammo altri internati in maggioranza jugoslavi (marittimi). A Montechiarugolo avemmo dei fastidi con il Commissario che intendeva il Campo di concentramento prigione, non avevamo il permesso di mettere sulla tavola da pranzo le tovaglie, un bicchiere per tre persone, mangiare acquiccio, una volta alla settimana carne. Immediatamente si fece reclamo. Il ministero mandò immediatamente un prefetto accompagnato questa volta dal Console Svizzero. Ottenemmo immediatamente tutto anche il permesso di recarci a Reggio Emilia dal dentista o cure mediche. Dalla Svizzera ricevevamo tutto il necessario per vivere bene, pacchi con vestiario, cappotti, cioccolata, sigarette, scatolame e sussidi inglesi. Logicamente avevamo tanta di quella roba che distribuivamo a quelli d’altre nazionalità che non ricevevano aiuti dai loro governi, agli agenti e carabinieri pacchi completi.

    Nel Castello di Montechiarugolo, facevamo teatro, concerti, alla domenica messa cantata con coro diretto da Direttore d’orchestra nostro internato. Molti, dopo quasi un anno, hanno avuto il permesso di raggiungere le famiglie da internati liberi. Io e mio fratello raggiungemmo mamma e papà a Canino, provincia di Viterbo. Bene accolti dai paesani, completamente liberi di andare al cinema e per il paese. Da Canino fummo trasferiti come internati liberi a Loro Ciuffenna, provincia di Arezzo. Sempre ben voluti dalle autorità e dalla popolazione. A Loro Ciuffenna ci raggiunse l’armistizio. Divenimmo liberi cittadini però non fu possibile ritornare a casa per mancanza di mezzi di trasporti. Sempre a Loro Ciuffenna ci incolse la ritirata dei tedeschi e dovemmo darci alla macchia sui monti e con altri paesani davamo aiuto ai vari soldati Inglesi fuggiti dai campi di concentramento militari. All’arrivo delle truppe inglesi fummo completamente liberati».

     

    INTERNATI EBREI  (1940-1943)

    Amsterdam Arthur di Joseph

    Nato a Offenbach am Main il 27.3.1922, 18 anni, negoziante di pelletterie, tedesco, arriva da Milano il 28.7.1940, parte per il comune di Fermignano il 20.12.1941, straniero genericamente sospetto.  Arrestato a Urbino (PS) il 12.8.1944 da tedeschi, detenuto nel carcere di Forlì; morto in Italia, in eccidio, per mano tedesca: Forlì, campo d’aviazione, 5 settembre 1944.

    Aurelio

    Nato a Zelina, 32 anni, ex jugoslavo, arriva dal carcere di Padova il 15.12.1942, parte il 6.9.1943 per il campo di concentramento di Farfa Sabina, internato dalla Questura di Lubiana (insieme al padre Giulio) il 27.12.1942; «i soprascritti stranieri risulterebbero appartenenti alla razza ebraica e sarebbero di nazionalità croata. I predetti profughi da Zagabria, per sottrarsi alle note persecuzioni degli ustascia, entrarono clandestinamente nel Regno nel giugno dello scorso anno e risedettero temporaneamente in questa città fino al novembre o dicembre successivo, epoca in cui ottenuto indebitamente il lasciapassare per il Regno partirono alla volta di Padova.(…) Stante la circostanza della razza e per di più trattandosi di profughi dai territori ex jugoslavi emigrati in Italia clandestinamente, tenuto conto di quanto riferito dall’Ispettore Generale, questo Ufficio propone che vengano fermati ed internati in un campo di concentramento del Regno. L’ispettore generale di Polizia , in data 10 ottobre 1942, ha mandato la seguente nota alle questure di Lubiana e di Padova: da alcuni mesi alloggiano nell’albergo “Italia” di Molcesino (Verona) due sloveni provenienti da Lubiana. Dovrebbe trattarsi di padre e figlio. Sere or sono ebbi occasione di essere presentato ed intrattenermi con essi, in conversazione ed ho potuto farmi la precisa netta convinzione di trovarmi di fronte a due “belle figure di patrioti jugoslavi”. Ricordo che, ritenendo che essi fossero due simpatizzanti dell’Italia inizia la conversazione col chiedere se mancassero da molto da Lubiana e se questa fosse ora tranquilla. A tale domanda, i due reagirono vivacemente con le seguenti frasi:” Come può essere tranquilla…non sarà mai tranquilla se non le verrà data la sua indipendenza”. Ad altre mie domande, risposero con frasi del genere: “Gli sloveni non possono avere fiducia nell’Italia, perché dagli sloveni dell’Istria hanno saputo come si sta sotto l’Italia. Noi sotto la Jugoslavia si stava bene, avevamo i nostri rappresentanti al Governo Nazionale, eravamo considerati e ben trattati. Erano i croati che non andavano d’accordo con i serbi non noi. Anche noi non andavamo d’accordo con i croati. Voi pretendete che noi parliamo l’italiano e che la lingua ufficiale sia l’italiano, mentre ciò non era affatto preteso dalla Jugoslavia».

    Bermann Moritz

     di Wilhelm, nato a  Leinberg in Germania il 28.5.1882, 58 anni, fotografo, tedesco, arriva da Milano il 28.7.1940, parte per la provincia di Chieti il 20.12.1941, straniero genericamente sospetto.  Arrestato in provincia di Firenze nel dicembre 1943 da italiani. Detenuto a Bagno a Ripoli campo, Firenze, Milano carcere. Deportato da Milano il 30.1.1944 a Auschwitz. Ucciso all’arrivo a Auschwitz il 6.2.1944.

    Davide

    Ex jugoslavo (serbo), arriva il 19.9.1942 dal carcere di Treviso, internato dalla Prefettura di Treviso il 21 agosto 1942: «provenienti dalla Dalmazia furono internati nel dicembre u.s. nel comune di Cavaso del Tomba gli ebrei in oggetto, i quali da qualche tempo conducono tenore di vita non conforme al loro stato d’internamento. Irrequieti e ribelli a qualsiasi disciplina non ottemperano alle prescrizioni loro imposte e si allontanano dalla loro sede senza autorizzazione per recarsi persino a Venezia, in compagnia di alcune distinte signorine del luogo forse in buona fede ed ignare delle conseguenze a cui si esponevano a causa della diversità della razza, hanno accettato le loro insistenti manifestazioni di affetto e di simpatia permettendo anche di farsi fotografare o che essi apponessero affettuose dediche sulle fotografie. Questo stato di cose ha prodotto sfavorevolissime impressioni nel piccolo paese di Cavaso del Tomba ed ha provocato anche qualche scandalo tra alcune famiglie per cui hanno dovuto intervenire le autorità locali. Rendendosi necessario l’immediato allontanamento dei predetti ho disposto che venissero fermati e rinchiusi nelle locali carceri a disposizione della Questura, in attesa delle determinazioni di codesto Ministero, cui propongo che vengano inviati in un campo di concentramento».

    Feintuch Mayer di Henia

    Nato a Kalisz (Polonia) il 10.12.1897, 43 anni, fabbricante, tedesco, arriva da Milano il 28.7.1940, parte per il c.c. di Ferramonti il 27.7.1941, straniero genericamente sospetto. Arrestato a Castelnuovo Garfagnana (LU) il 30.11.1943 da italiani. Detenuto a Bagni di Lucca campo, Lucca carcere, Firenze carcere, Milano carcere. Deportato da Milano il 30.1.1944 ad Auschwitz. Deceduto in luogo e data ignoti.

    Giacomo

    Nato a Roma, 32 anni, commerciante,  italiano, arriva il 16.9.1942 dal carcere di Roma, parte il 19.12.1942 per l’internamento in provincia di Pesaro, internato dalla Questura di Roma il 12.8.1942; «precettato (il 23 giugno 1942) e adibito quale manovale ai lavori di svasamento delle golene del Tevere, è stato segnalato dal Commissariato di P.S. di S.Paolo per avere, l’11 luglio u.s., rifiutato l’acconto spettantegli affermando non essere quello il denaro dovutogli. Poiché il capo-cantiere cercava di fargli comprendere che, essendo stato classificato con rendimento del 25% rispetto agli ariani, aveva diritto al salario di £.0,90 all’ora, Giacomo, alzando la voce, inveiva contro il capo-squadra, minacciando persino di passare a vie di fatto, ed asserendo, fra l’altro, che voleva spaccare la testa a tutti. Tale incidente, se rimanesse impunito, sarebbe indubbiamente di cattivo esempio per tutti gli ebrei precettati (…) perché il provvedimento serva di esempio agli altri che si trovano nelle sue stesse condizioni, Giacomo è stato associato nelle locali carceri giudiziarie».

    Ladislao

    Nato a Budapest, 33 anni, medico,  apolide ex ungherese, arriva il 25.7.1942 dal c.c. di Civitella del Tronto, parte il 21.11.1942 per il c.c. di Ferramonti; nota della Questura di Bari del 28.8.1942: «per quanto nessun rapporto informativo sia pervenuto sul conto del predetto, è necessario esercitare nei suoi confronti oculata vigilanza, essendo stato segnalato dalla Prefettura di Teramo come elemento altezzoso, prepotente e litigioso». Ladislao si trova ad Alberobello per punizione perché, nel precedente luogo d’internamento, «è riuscito a contrarre relazione amorosa con una signorina del luogo ed a prestare nascostamente la sua opera di medico in una delle case coloniche non molto distanti dal campo stesso». Ladislao chiede ben presto di essere trasferito da Alberobello, «anche sotto forma di un internamento in un istituto di cura (tubercolosario, manicomio, ospedaletto di provincia) ove potrebbe rendersi utile, se non come medico, come infermiere o tecnico addetto alla sala operatoria, alla sterilizzazione, radiologia, laboratorio d’analisi etc .» Ladislao vuole continuare le ricerche relative a due studi scientifici: il primo riguarda un filo di sutura radiopaco che permette di controllare, con semplice radiografia, lo stato delle suture interne (utile nelle diagnosi di complicazioni postoperatorie negli operati di stomaco e d’intestino), mentre l'altro si riferisce ad un cranio trasparente e permette una comparazione in tutte le proiezioni tipiche ed atipiche della craniologia Röntgen. I due studi volutamente pratici «per causa delle leggi razziali, che impedivano la pubblicazione di studi scientifici, sono di mia assoluta proprietà intellettuale, dall'idea all'esecuzione quasi completa.  I vari studi tecnici e tutto il lavoro fu eseguito da me solo, senza alcun aiuto o facilitazione, senza l'ausilio dell'attrezzatura di un istituto scientifico o industriale quando nella fase conclusiva nel settembre del 1940 fui arrestato a Milano dove mi trovai per studiare gli aspetti industriali della questione.  Coll'arresto ed il conseguente internamento, persi buona parte del mio materiale di studio, che non potei più recuperare e fui impedito di offrire, come era mia intenzione, al Governo Italiano i risultati del mio lavoro». La richiesta di Ladislao, tesa anche ad avere qualche strumento per proseguire le ricerche, è accompagnata dalla seguente nota del direttore del campo d’Alberobello: essendo di razza ebraica non si acconsente di esercitare la sua professione di medico.

     Marco

    Nato a Roma, 23 anni, manovale, italiano, internato dalla Questura di Roma il 4.11.1942, arriva il 15.12.1942 dal carcere di Roma, parte l’11.8.1943 perché liberato con disposizione telegrafica del 6 agosto 1943: «occupato quale mobilitato civile fin dal 19 agosto u.s. nei lavori stradali presso l’impresa C. sulla via Cassia Vecchia, dal 5 all’8 settembre u.s. abbandonò il lavoro senza giustificato motivo. Diffidato, in data 9 detto, a riprendere senza indugio lavoro, il giorno successivo riprese lavoro, ma lo abbandonò nuovamente il 15 detto, senza più ripresentarsi alla ditta alla quale era stato assegnato. Avendo, pertanto, il M. dato prova di cattiva volontà di adempiere agli obblighi impostigli si propone che il medesimo venga internato in un campo di concentramento».

    «Sono andato via da Alberobello nei primissimi giorni di agosto del 1943, dopo la caduta di Mussolini. I carabinieri mi avevano avvisato: “Stai attento ché ti arriverà il fonogramma e partirai subito!”. Infatti una bella mattina uno di loro mi disse:”Ueh, romano, svelto che te mannano a casa!” E io:”ma me stai a prendere in giro!” “No, no, guarda, ecco il fonogramma!”. Fui prosciolto e in treno ritornai a Roma. Qui dopo l’8 settembre mi sono trovato nella bufera delle persecuzioni. Devo ringraziare un sacerdote, don Molvino  e tutta la sua diocesi: ci ha tenuto lì e ci ha salvato non solo a me ma anche a molti altri. Ci nascondeva nelle catacombe di quella chiesa di via Donna Olimpia, a Monteverde, dove abitavo con la mia famiglia. Eravamo sempre una ventina. Siamo rimasti nascosti lì dalla persecuzione dei tedeschi fino alla liberazione di Roma. Durante le persecuzioni, poi, è stato preso mio fratello che è morto in Germania ma non ricordo dove. Io vorrei che si sappia che non tutti gli italiani sono stati cattivi. Vorrei ringraziare tutto il paese di Alberobello perché sono stati veramente bravi e buoni. La prima volta che ho avuto contatto concreto con loro, o meglio urto, perché per me che uscivo dal carcere era un urto, ebbi un’impressione perfetta, un aiuto sostanzioso, quel pane che mi serviva per vivere».

    cartolina diretta a un internato ebreo di Casa Rossa (1943)

     

    Mario

    Nato a Mantova, 31 anni, rappresentante di commercio, italiano, arriva il 12.8.1942 da Mantova, parte il 6.9.1943 per il campo di lavoro di Castelguido; ha una sorella internata nel c.c. di Solofra (AV), internato dalla Prefettura di Mantova il 30.6.1942, «la sua appartenenza alla razza ebraica non gli ha, finora, procurato nocumento alcuno, anzi, per la sua mentalità, forse il vantaggio di non farlo richiamare alle armi. Egli ostenta il suo comodo tenore di vita, è arrogante nel suo modo di fare e nel suo contegno in pubblico, ed anche di recente, il 13 di questo mese, ad una persona che, riferendosi al provvedimento legislativo della precettazione per l’avviamento al lavoro degli ebrei, gli diceva che ormai sarebbe andato a lavorare, ebbe a rispondere che a lavorare ci sarebbero andati gli altri, e che egli, intanto, se ne andava a Pegli a fare i bagni, facendo seguire alle parole un gesto volgarissimo con il braccio, all’indirizzo del suo interlocutore. Mario, per fingere di vivere onestamente, suole prelevare, da qualche negozio, dei tagli d’abito che poi rivende, ma tali miseri introiti non gli possono consentire il tenore di vita dispendioso che egli in effetti conduce, sempre elegante ed azzimato, sempre con donne, sempre sfaccendato nei caffè e nei locali pubblici». Soltanto il 25 agosto del 1943, a seguito di riesame della sua pratica, il Capo della Polizia gli concede la revoca dell’internamento ma il provvedimento giunge ad Alberobello troppo tardi: il 6 settembre è trasferito a Castel di Guido, insieme ad altri 57 internati. Come tutti gli altri si dà alla macchia e soltanto il 14 settembre si presenta alla Questura di Roma dove è formalmente liberato e rimpatriato a Mantova con foglio di via obbligatorio. Molti mesi dopo la chiusura del Campo, la sorella di Mario mostrerà di averne perso le tracce e di soffrire le nuove apprensioni per le persecuzioni razziali scattate dopo l’Armistizio: «Sono ancora tra i vivi per miracolo. Il mio pensiero è per te e per tutti i famigliari. Puoi immaginare il mio tormento non sapere nulla del mio Sandrino, della mamma, papà e tutti. Ho spedito da Solofra un messaggio, spero che arrivi così almeno la mamma non sta in pena per me. Vorrei che tu fossi ancora costà (nel campo di Alberobello, n.d.r.) perché se tu fossi a Mantova ti sarebbe capitata una sorte peggiore. Penso quanto soffriranno i miei cari».

    Secondo

    Nato a Ferrara, 34 anni, industriale, italiano, arriva il 24.4.1942 dal c.c. di Manfredonia, parte il 30.7.1942 in licenza per Bologna, internato dalla Prefettura di Ferrara il 4.6.1940; «l’israelita Secondo è uno dei pochi ebrei di Ferrara che, allorché vennero emanati i noti provvedimenti razziali, assunsero subito un palese atteggiamento di resistenza alla legge e di ostilità al Regime, tanto da provocare frequenti reazioni nell’elemento fascista. Il predetto è figlio di un vecchio e convinto assertore delle ideologie socialiste il quale, dopo ripetute diffide, è stato recentemente sottoposto ai vincoli dell’ammonizione per i suoi continui apprezzamenti sfavorevoli al Regime e per le frasi astiose con cui critica l’attuale politica dell’Italia. Cresciuto alla scuola paterna, il medesimo non ha mostrato mai di simpatizzare per il Fascismo ed all’atto dell’applicazione delle leggi razziali, vedendosi leso nei propri interessi economici, manifestò subito il proprio odio verso il Governo Nazionale, criticandone le direttive politiche con parole che spesso assumevano forma di propaganda deprimente e sobillatica. Il suo contegno fece allora sospettare che egli avesse rapporti con l’Internazionale Ebraica e da varie fonti fu segnalato come individuo pericoloso. In una nota del 14.12.1939 trasmessa da codesto Ministero a questo Ufficio veniva descritto come disfattista. Le indagini eseguite per accertare la di lui attività non consentirono la raccolta di elementi sufficienti per la sua sottoposizione a provvedimenti di polizia; si poté però constatare come egli, accompagnandosi agli ebrei più sospetti, parlasse con loro di politica e traesse frequentemente dai commenti ai fatti del giorno occasione per pronosticare una guerra che, a suo dire, avrebbe consentito, con la rovina del fascismo e del nazionalsocialismo, la vendetta degli israeliti perseguita dagli Stati totalitari. Ora che la guerra pare imminente, Secondo, che per l’ammonizione del padre ed il disprezzo a cui è fatto segno dai fascisti del luogo, nutre un’avversione più intensa verso il fascismo e l’arianismo, torna a manifestare con maggiore frequenza e con maggiore inopportuna loquacità, le teorie sovversive di cui è imbevuto prospettando con malcelata letizia i rischi di una guerra. È, quindi, probabile, che i suoi principi antinazionali possano stringerlo in un prossimo futuro a compiere qualunque azione illecita ai danni del Regime. Con la sua sorda propaganda disfattista, egli potrebbe inoltre destare allarme, deprimere lo spirito pubblico e compromettere la resistenza della nazione di fronte al nemico».  

    Umberto

    Nato a Roma, 37 anni, impiegato, italiano, internato dalla Questura di Roma il 10.6.1940: arriva l’11.8.1941 dal c.c. di Isola Gran Sasso, parte il 13.1.1942 per il c.c. di Urbisaglia; il 24 aprile 1942 è internato nel comune di Camerino ma, poiché in quel comune e a Castelraimondo sono successi incidenti provocati da suo fratello  Vittorio, è trasferito nel comune di Capestrano (AQ) «tenuto conto che il predetto venne segnalato quale critico aspro della politica razziale e simpatizzante del partito comunista». Umberto  è iscritto al Partito Nazionale Fascista dal 1919, ha fatto parte della squadra di azione nazionalista dal 1920 ed è stato tesserato all’associazione antibolscevica. Durante una licenza a Roma, l’ebreo  Umberto, che aveva un negozio in Piazza Capranica, è segnalato da uno zelante avvocato italiano perché è visto «circolare liberamente per Roma» e sulla lettera è annotato a penna «è un elemento pericoloso!». Ad agosto del 1943 la madre di Umberto chiede ancora la liberazione del figlio, «valendo a ricomporre almeno in parte la dispersa famiglia della scrivente che ha un figlio in America, un internato e l’altro condannato a 20 anni di reclusione per reati politici».

    Urbach Leo di Hermann

    Nato a Vienna il 23.6.1914, 26 anni, orologiaio, tedesco, arriva da Milano il 28.7.1940, parte il 2.12.1941 per il c.c. di Bagni di Lucca,straniero genericamente sospetto. Arrestato a Bagni di Lucca (LU) il 30.11.1943 da italiani. Detenuto a Bagni di Lucca campo, Lucca carcere, Firenze carcere, Milano carcere. Deportato da Milano il 30.1.1944 a Auschwitz. Liberato.


    Zaitscheck Hans di Leopold

    Nato a Vienna il 14.11.1909, 31 anni, tedesco, arriva il 28.7.1940 da Milano, parte il 3.11.1940 per un comune della provincia di Foggia (Castelnuovo della Daunia?), straniero genericamente sospetto. Detenuto a Fossoli campo. Deportato da Fossoli il 5.4.1944 ad Auschwitz. Deceduto in data e luogo ignoti.

    Zeller Arthur di Beniamino

    Nato a Vienna il 23.12.1910, 30 anni, pellicciaio, tedesco, arriva il 28.7.1940 da Milano, parte il 14.7.1941 per il c.c. di Ferramonti, straniero genericamente sospetto. Arrestato da italiani, detenuto a Fossoli campo. Deportato da Verona il 2.8.1944 ad Auschwitz. Deceduto in luogo e data ignoti.

    china dipinta da un ebreo internato a Casa Rossa (1942)


    INTERNATI SLAVI E ITALIANI NON EBREI (1941-1943)

    Alfredo

    Nato a Genzano di Roma, 44 anni, italiano, fabbro, arriva il 13.7.1943 dalla colonia di confino di Pisticci, parte il 1°.9.1943 per Roma perché liberato, già confinato dalla Questura di Roma il 16.11.1936; «anarchico schedato, svolge propaganda contro il Regime e il Duce, si è legato al noto repubblicano  Dante, uno dei dirigenti del gruppo “Giustizia e Libertà”».

    Anteheo

    Nato a Mohronog (Lubiana), 28 anni, ex jugoslavo, impiegato, arriva il 4.8.1942 dal carcere di Ferrara, parte il 6.11.1942 per Ferrara, internato dalla Prefettura di Ferrara il 19.6.1942; «Anteheo ricevette per via postale una lettera scritta in provincia di Lubiana ed imbucata a Padova da un soldato giunto colà in licenza, con la quale una sua amica gli comunicava che diversi suoi parenti erano stati fucilati dalle truppe d’occupazione e lo rimproverava per avere abbandonato la sua “Patria” al fine di risiedere tranquillamente nello stato nemico del suo popolo. Anteheo, in preda al dolore causatogli dalla notizia della fine dei suoi congiunti, dopo avere abbondantemente bevuto, chiuse con gesto violento, alla presenza degli altri appigionanti, la radio della pensione che trasmetteva i “commenti ai fatti del giorno”, dicendo che era ora di finirla con questa guerra. Quindi, dopo avere compiuto un gesto di sprezzo verso lo scudetto littorio che uno degli astanti portava all’occhiello, si ritirò in camera sua e a degli studenti che, impietositi per il suo stato, cercavano di confortarlo, narrò che tutti i suoi congiunti erano stati uccisi da camicie nere della M.V.S.N. e che lui intendeva rientrare a Lubiana per raggiungere i ribelli nel bosco e vendicarsi contro gli italiani». Esalta l’attività dei ribelli jugoslavi, fa apologia del delitto politico e manifesta odio per il Fascismo. Afferma che la responsabilità della guerriglia è del Comando Italiano il quale dopo aver promesso l’impunità a coloro che avessero deposto le armi per tornare alle loro case, ha adottato gravi provvedimenti nei loro confronti. «Ad una domanda rivoltagli sui motivi per cui nutre contro la Milizia un odio maggiore di quello che manifesta per l’esercito, lo stesso spiegò che le ragioni sono palesi ove si pensi che la Milizia è una forza armata che simboleggia il Regime Fascista. Fece osservare che in Italia coloro che non condividono la politica del Regime agiscono sempre con tanta imprudenza da farsi subito identificare dalla Polizia e spiegò come, al suo paese, si operi con più decisione, tanto da procedere alla soppressione violenta delle figure politiche invise, armando la mano di un sicario che, nell’atto in cui compie l’attentato, viene subito ucciso dal mandante il quale elimina così le prove dell’organizzazione del delitto ed ha la possibilità di far credere di aver ucciso l’attentatore o in preda all’ira generata in lui per l’uccisione di una eminente personalità o al fine di impedire il gesto insano».

    Cristofaro

    Nato a Konjevrate, 56 anni, ex jugoslavo, contadino, arriva il 16.9.1942 dal carcere di Sebenico, parte il 5.4.1943 per Zara per revoca dell’internamento, internato dalla Prefettura di Zara il 25.7.1942; «Ha un figlio a Zagabria allievo ufficiale degli ustascia, risulta individuo di sentimenti notoriamente a noi contrari. Insieme ad un certo frate del luogo, ora esponente degli ustascia della zona ed anche dopo la nostra occupazione non ha tralasciato, sebbene più copertamente, di svolgere la sua attività politica, in modo a noi ostile, facendo attivissima propaganda irredentista croata. Come è noto il governo di Zagabria ha arbitrariamente effettuato dei richiami nelle sue FF.AA. di cittadini nativi e residenti nel territorio annesso. In tale occasione il Cristofaro. avrebbe nel suo esercizio di osteria invitato i presenti ad ubbidire agli ordini dei Croati per contribuire a assediare gli italiani della Dalmazia. Insieme al suddetto frate, Cristofaro pare mantenga stretti contatti con le autorità croate; è stato accertato comunque che i due – sprovvisti di ogni autorizzazione – si recano sovente nello stato croato. Tra la popolazione locale costui cerca di ingenerare l’odio contro l’Italia e l’attaccamento alla Croazia con ogni sorta di mezzi. (…) Nel suo esercizio – frequentatissimo da tutte le persone più sospette in linea politica – è esposto al posto d’onore un grande quadro di Ante Pavelic. Solo dietro invito dell’Arma, il M. si è poi deciso ad incollare in un angolo dell’osteria due piccoli ritratti del Re Imperatore e del Duce, ricavati da due ritagli di giornali. È questo un particolare alquanto significativo». Del croato Crsta, ex capo degli ustascia di Konievrate e collaboratore del sacerdote Bernardo, anch’egli ustascia croato, il Governo Italiano dovrà occuparsi per un caso diplomatico sollevato dalla Legazione di Croazia, secondo la quale l’internato deve essere rimpatriato in Croazia perché «era buon croato e noto per le sue simpatie verso l’Italia fascista. Come tale è noto a molte personalità politiche croate». Per non inimicarsi l’alleato Pavelić, il Duce concede a Crsta la grazia e lo libera, dopo aver avuto dal prefetto di Zara una liberatoria, motivata dalla dichiarazione dell’interessato di volersi trasferire definitivamente nel territorio della Croazia.

    Francesco

    Nato a Mattuglie, 42 anni, italiano, meccanico, arriva il 24.9.1942 dal carcere di Fiume, parte il 29.12.1942 per il Sanatorio Antitubercolare di Bassano del Grappa, internato dalla Prefettura di Fiume il 2.8.1942; «da tempo svolgeva propaganda disfattista fra i militari ed esercitava la ricettazione di indumenti militari. Ammise che, unitamente al Vladimiro, aveva spinto i militari a rubare indumenti dell’Esercito per venderli a loro che, a loro volta, avrebbero provveduto a venderli a Fiume presso ricettatori. Ammise anche che il Vladimiro aveva svolto propaganda disfattista asserendo che l’Asse non avrebbe mai potuto vincere la guerra perché la Russia era superiore per uomini e per mezzi bellici; che l’Italia aveva fatto male ad allearsi con la Germania perché fra poco i tedeschi avrebbero comandato in Italia e che infine in questi territori si stava molto meglio prima, quando c’era il dominio jugoslavo o austriaco, che adesso che c’è il Fascismo. Negò però una partecipazione diretta a tale propaganda disfattista».

    Giovanni

    Nato a Lissa, 27 anni, ex jugoslavo, contadino, arriva il 9.8.1942 dalla colonia di confino di Pisticci, parte il 6.9.1943 per il campo di lavoro di Castelguido, internato dalla Prefettura di Spalato il 29.7.1941; «comunista indiziato di propaganda antifascista ed antiitaliana, dichiara che tra non molto vincerà lo stato bolscevico e che il Duce e il Fuhrer saranno deportati in Siberia per essere fatti morire di fame insieme ai traditori della Russia e che a si sarà a Lissa vendetta contro iscritti e simpatizzanti del P.N.F. e che la lira precipita verso la svalutazione».

    Ivan

    Nato a Civitavecchia, 36 anni, italiano, cattolico, marmista, arriva il 7.8.1942 dal Campo di Ariano Irpino, parte il 13.10.1942 per revoca internamento, anarchico schedato, più volte arrestato, carcerato e confinato; il 2.9.1928 è assegnato alla Colonia di confino di Lipari per 5 anni; il 21.9.1932 è tradotto a Ponza; il 2.12.1932 per atto di clemenza del Duce, in occasione del Decennale della Rivoluzione Fascista, è prosciolto dal rimanente periodo di confino; il 30.7.1940 è tradotto a Ventotene come elemento pericoloso all’ordine pubblico “nelle attuali contingenze”; il 3.10.1941 arriva al campo di concentramento di Fabriano; il 16.1.1942 è internato nel comune di Lauro, in provincia di Avellino; il 15.4.1942 è proposto per l’allontanamento dal comune di Lauro: «ha serbato atteggiamento equivoco, preferendo la compagnia di altri internati per motivi politici, coi quali chiacchiera continuamente, criticando l’attività dell’amministrazione comunale e degli organi del Partito e non mancando, sempre che se ne offra la possibilità, di fare propaganda di idee sovversive».

    Nicola

    Nato a Poglizza, 40 anni, ortodosso, ex jugoslavo, contadino, arriva il 16.9.1942 dal carcere di Zara, parte il 29.12.1942 per la colonia di confino di Pisticci, internato dalla Prefettura di Zara il 27.7.1942; «è tipo parolaio, di carattere prepotente. In linea politica risulta che sotto l’ex governo jugoslavo faceva parte del partito comunista. Dopo l’annessione ha continuato a nutrire gli stessi sentimenti divenendo, quando l’occasione glielo permetteva, propagandista antiitaliano, cercando a tal scopo di avvicinare i contadini del luogo per convincerli all’idea comunista.(…) durante l’inverno scorso avrebbe portato oltre il fiume Zrmania  acquavite e vino destinato ai ribelli della Zika e che non molto tempo fa è andato profetizzando tra quelli che poteva avvicinare l’imminente vittoria russa sulle potenze dell’Asse, minacciando coloro che si astenevano dal parteggiare per i ribelli con la prospettiva che un giorno sarebbero stati chiamati a rendere conto di quello che avevano fatto, mentre i loro fratelli combattevano contro le truppe italiane. Inoltre è andato dicendo che non sono rispondenti a verità le vittorie che i giornali italiani comunicano come riportate sui nostri nemici perché è invece la Russia che sta vincendo».

    Pietro

    Nato a Ponte di Veglia, 31 anni, ex jugoslavo, carpentiere, arriva il 14.9.1942 dal carcere di Capodistria, parte l’11.2.1943 per il Sanatorio Antitubercolare di Teramo, internato dalla Prefettura di Fiume; «Pietro che è contabile della cooperativa contadini di Ponte, composta di individui tutti con tendenze comuniste, è ritenuto uno dei capi dell’organizzazione comunista di Ponte che teneva in soggezione tutta la popolazione del luogo con la minaccia di rappresaglie per il giorno in cui in seguito alla vittoria della Russia, i comunisti avranno assunto il dominio politico dell’isola. Secondo voci confidenziali la stessa organizzazione comunista è in relazione con comunisti di Sussa ed avrebbe dovuto agire, al primo cenno, eseguendo azioni di terrore, specialmente contro gli ex nazionalisti jugoslavi e tutti coloro che avevano avvicinato gli italiani, per gettarsi poi alla macchia dell’isola; Pietro che si recava a Sussa e spesso anche a Veglia, presso il farmacista Giovanni, noto comunista fermato il 24 corrente, è ritenuto l’individuo che manteneva i collegamenti fra gli elementi comunisti e ne trasmetteva gli ordini».

    Spiridione

    Nato a Zara, 41 anni, italiano, commerciante di generi alimentari, arriva il 15.8.1942 dal campo di concentramento di Ariano Irpino (AV) (era già stato internato nel comune di Savignano di Puglia (AV) da cui fu trasferito per indisciplina su richiesta del locale podestà: «nel campo dell’alimentazione dà prova di sentimenti antitaliani che nel pubblico sono appresi con senso di disgusto (sei pasti al giorno)», parte il 6.9.1943 per il campo di lavoro di Castelguido, internato dalla Prefettura di Zara il 30 settembre 1941; «pericoloso in linea morale e politica; condannato da diversi tribunali del Regno per precedenti penali, noto pregiudicato per reati contro la proprietà, ammonito e vigilato speciale. Specula in materia annonaria: vende generi razionati a persone non munite di tessera annonaria e a prezzi superiori a quelli stabiliti, rifiuta di vendere albicocche in scatole “Cirio” ad ufficiali del Regio Esercito, più volte chiuso il negozio. Di sentimenti croati, capace di svolgere azione contraria agli interessi nazionali e disfattista e se, al riguardo non si sono potute avere prove concrete, si ha peraltro, la convinzione che egli per la non comune scaltrezza ha saputo occultamente svolgere tale attività malgrado l’assidua vigilanza cui è stato sempre sottoposto».

    Tullio

    Nato a Savelli (Catanzaro), 40 anni, italiano,  manovale, arriva il 18.8.1942 da Catanzaro, parte il 18.10.1942 per la colonia di confino delle Tremiti, internato dalla Prefettura di Catanzaro; «anarchico; allusioni sull’ingiusto comportamento delle Autorità sullo sfruttamento della massa operaia impiegata nelle segherie locali, sull’esoso trattamento da parte dei datori di lavoro, sull’esiguità dei salari… Licenziato dalle segherie per indisciplina, scarso rendimento, disubbidienza, ingiurie e minacce ai dirigenti, ha trascorso cinque anni al confino di polizia per atti terroristici commessi all’estero; fa subdola e incessante opera di propaganda e sobillazione fra gli operai del suo comune. Atteggiamento oltraggioso e minatorio verso Autorità e gerarchie fasciste».

        
     biglietto della Croce Rossa Internazionale diretto a un internato di Casa Rossa (1942)


    SECONDA STAGIONE

    EX FASCISTI condannati dalla Commissione provinciale per il confino di polizia di Bari (1945-46).

     

    Antonio

    Nato a Brindisi, condannato a 1 anno di confino: «è ex squadrista, ferito per la causa fascista, marcia su Roma e sciarpa littorio. È stato un fervente fascista e propagandista. Ha ricoperto cariche di capo nucleo, capo settore e componente il direttorio del fascio di Brindisi. Di carattere violento e manesco, ha partecipato a spedizioni punitive a carico di elementi ritenuti di sentimenti antifascisti. Nel 1942 venne espulso dal PNF per assenteismo e per incomprensione dei doveri fascisti». Il 7 ottobre 1943, dalle carceri di Brindisi dove è rinchiuso, avanza un’istanza di grazia al Re: «da 24 giorni mi trovo rinchiuso in carcere senza aver commesso alcun delitto; l’unica colpa che mi si addebita è quella di essere un ex squadrista. In quel lontano 1921, appena ventenne, trasportato dall’entusiasmo e dall’ardore della mia giovane età, non avendo potuto dare il mio contributo alla Patria durante la guerra vittoriosa, credetti compiere opera onesta e patriottica dare il mio umile e modesto contributo di cittadino e di italiano, nell’arretrare quell’ondata di bolscevismo che minacciava di abbattersi nella nostra cara Italia».

    Consalvo

    Nato ad Andria. È segretario del fascio di Andria nel 1921, è componente la prima federazione fascista di Terra di Bari nel 1921-22, è comandante del secondo battaglione delle squadre di azione fasciste nello stesso periodo di tempo; è deputato al Parlamento della 27^ legislatura. Secondo il Delegato Marzano le cariche rivestite da Consalvo dimostrano che «tutto questo a me sembra sia in punto di fatto prova più che sufficiente di avere tenuto una condotta ispirata ai metodi ed al malcostume del fascismo perché quale segretario del fascio di Andria fu il promotore e l’organizzatore delle squadre fasciste di azione, quale componente della prima Federazione fascista di Terra di Bari fu uno dei promotori del movimento fascista in questa Provincia; quale deputato della 27^ legislatura fu uno che concorse al colpo di stato del 3 gennaio 1925, votando le leggi che soppressero completamente la libertà in Italia»  È prosciolto dalla Commissione Provinciale per il Confino nell’ottobre 1945. Nel 1923 Consalvo è prosciolto per il reato d’incendio doloso del circolo “Matteo Renato Imbriani” di Andria, avvenuto il 30 ottobre 1922; nel 1944 è prosciolto per non aver commesso il fatto, operato da fascisti per rappresaglia contro elementi del partito nazionalista a causa di un conflitto interno.

    Francesco

    Condannato a 2 anni di confino. Nei primi di agosto del 1941 nella piazza antistante il Fascio di Bitonto si trasmetteva il giornale radio delle ore 20:  Vito che vendeva in piazza oggetti di bicicletta fu avvicinato da due persone che gli chiesero perché non si era tolto il cappello; alla risposta che “era stato distratto da alcuni acquirenti”, fu fatto salire nella Casa del Fascio. Qui il Segretario Politico lo rimproverò dicendogli che se avesse avuto dell’olio di ricino glielo avrebbe dato e lo fece uscire da una porta di sinistra. Fuori Vito trovò altri che lo aggredirono colpendolo con schiaffi e con pugni:  Francesco lo colpì violentemente al viso. Vito uscì in lacrime ma non andò dal medico né sporse denunzia allora, per paura di rappresaglie ma aspettò il 22 novembre 1944 per la querela. Per il Pretore di Bitonto le percosse e le minacce sono punibili con pena detentiva non superiore ai 3 anni ma, poiché i reati sono stati commessi per motivi fascisti anteriormente al 17 ottobre 1942 (data dell’amnistia di cui al Regio Decreto n.1156) li dichiara estinti.

    Francesco

    Squadrista e sciarpa littorio, già comandante dei Vigili Urbani di Barletta. «Il 12 settembre 1943 le truppe tedesche, occupando Barletta, mitragliarono 11 vigili urbani, che tutti decedettero ad eccezione del vigile Francesco Paolo, che rimase soltanto ferito. Con esposto del 12 febbraio 1944, le vedove dei Vigili Urbani trucidati accusavano Francesco, squadrista e sciarpa littorio, comandante del Corpo dei Vigili Urbani di Barletta di essersi salvato dall’eccidio facendo valere quelle sue qualifiche e abbandonando i vigili alla mercé delle truppe tedesche. Dalla istruzione compiuta nessun elemento di responsabilità è risultato a carico del Francesco» il quale, secondo la dichiarazione del vigile «avrebbe avuto il torto di non aver accolto l’esortazione dei vigili ad essere lasciati liberi e a chiudere l’ufficio di Polizia Urbana, prima dell’arrivo dei tedeschi» Per il magistrato il fatto addebitato al Francesco non è delitto comune e non integra alcuna ipotesi incriminata ai sensi del Decreto n.159 del 27.7.1944; il 13 dicembre 1944 il Giudice Istruttore di Trani dichiara l’impromovibilità dell’azione penale. Nell’ottobre del 1943 è internato in un campo di concentramento per 2 anni dalla Commissione del IX Corpo d’Armata Territoriale di Bari.

    Giuseppe

    Condannato a 2 anni di confino nella seduta del 28.6.1945. La moglie avanza un’istanza di liberazione a Badoglio ad ottobre del 1943: «il 2 corrente in Bitonto fu fermato dai Reali carabinieri e tradotto a Trani mio marito Giuseppe, per ragioni politiche. Non voglio nascondervi che egli, malauguratamente, 21 anni or sono si trovò coinvolto nell’esecrabile Fascismo unicamente per difesa personale, perché, quale figlio di commerciante, suo padre, nel corso del dopoguerra subì danni alla persona ed agli averi ad opera di persone turbolente che in quell’epoca infestavano il Paese. Passata la furia dei primi tempi egli tornò alla vita normale privata senza esercitare più alcuna attività politica».

    Lorenzo

    Condannato a 1 anno di confino. Imputato per avere, in concorso con altri armati di pistola, costretto con violenza Riccardo, contro il quale puntavano pistole, ad omettere di fare propaganda per i comunisti spagnoli ad Andria il 23 aprile 1936: nel 1945 è prosciolto per estinzione del delitto di minaccia aggravata: così derubricato il capo d’imputazione perché non sussiste il delitto di violenza.

    Luigi

    Nato a Barletta, 36 anni, sarto, “arrestato il 21 giugno 1945 perché accusato di essere stato al nord fervente mussoliniano e propagandista, collaboratore e spia dei nazifascisti. Assegnato al confino per anni due dalla CP di Bari con ordinanza del 19 novembre 1945”. Secondo la denunzia circostanziata di un combattente delle formazioni “Giustizia e Libertà” di Castagnole d’Asti, Luigi, volontario dopo l’8 settembre 1943 nella Guardia Nazionale Repubblicana di Asti, fu iscritto al Partito Fascista Repubblicano di Torino ed operò con componenti delle Brigate Nere di Asti e con un maresciallo delle SS italiano: avrebbe denunziato più volte l’azionista in questione perché “aveva rifiutato l’adesione alla R.S.I. e perché face parte di formazioni armate di partigiani”. Chiede con ricorso l’annullamento del provvedimento per erronea valutazione dei fatti addebitati ma la Commissione d’Appello per gli assegnati al Confino con ordinanza del 22 marzo 1946 respinge il ricorso, confermandogli gli addebiti, anche perché il ricorrente «si accompagnava spesso con elementi dell’esercito repubblicano». Il Prefetto di Bari propone al Capo della Polizia di trasferirlo in località più lontana e d’altra provincia per evitare che in futuro possa allontanarsi nuovamente da Alberobello: la contravvenzione agli obblighi del confino varrà a Luigi il rifiuto della sua nuova domanda di proscioglimento o di commutazione dell’ulteriore periodo di confino in ammonizione.

    Luigi

    Ex segretario politico del P.N.F. di Molfetta, condannato a 2 anni di confino. Insieme al Federale di Bari era stato già giudicato e condannato a sei mesi di reclusione dal Tribunale Penale di Trani per violenza privata ai danni del professor Carlo, docente del Liceo classico di Molfetta, che aveva manifestato ad una scolaresca sentimenti “anglofili”: nel novembre del 1935 schiaffeggiò il professore e lo costrinse a bere 40 grammi di olio di ricino, anche se sostenne di averlo fatto per ordine del Federale, il quale, invece, fu assolto per insufficienza di prove.

    Simone

    Nato a Conversano, già sottoposto all’ammonizione, già proposto per la dispensa dal servizio dalla Commissione Provinciale di Epurazione per il personale dipendente dagli Enti Locali, condannato a 3 anni di confino nel novembre 1945. La Commissione Centrale d’Appello esamina il suo ricorso avverso il confino in data 17 giugno 1946. Il comunista Vito denunzia che l’ex ispettore federale di Conversano all’8 settembre «era ancora il duce del paese. Era ancora la persona che continuava ad avere influenza sulle autorità costituite, tanto da mandare a casa mia il maresciallo dell’Arma per arrestarmi quale disertore; ma al quale io rispondevo che disertori e traditori della patria erano tutti quegli ufficiali fascisti che avevano disarmati i soldati obbligandoli, poi, a fuggire; e che invece di pensare a me, pensasse a prendere seri provvedimenti a carico di questi fascisti, che son vissuti per venti anni succhiando il sangue della povera gente e che ora si preparano a far scoppiare una guerra civile». Un ricordo: « un mio zio socialista il primo maggio portava fiori sulla tomba di Di Vagno e un custode del cimitero squadrista lo segnalò al Fascio di Conversano a Simone».


    TERZA STAGIONE

    STRANIERI INDESIDERABILI (1947-1949)
    (Le cronache di Corrado Calvo sulle signorine di Alberobello riportate su Il Messaggero nel gennaio del 1947)                                   

     

    Le “indesiderabili”. Cento donne ad Alberobello

    «In un pomeriggio del 14 gennaio giunse su una delle colline che attorniano Alberobello una comitiva di cento donne. Vestivano nelle fogge più strane, alcune con pellicce siberiane, altre con pantaloni da montagna; una sparuta minoranza sfoggiava abiti elegantissimi, ma consunti dal tempo. Parecchie avevano vestiti usuali adattati frettolosamente. Apriva il corteo una piccola tedesca di ventitré anni, che recava in braccio un bambino di ventidue mesi, mezzo sepolto fra maglie e scialli; lo chiudeva una donna anziana jugoslava e occhialuta, che si sosteneva al braccio della giovane figlia. Fra la tedesca e la jugoslava c’era la rappresentanza dell’Europa centro meridionale: polacche, romene, ungheresi, greche e francesi. Ad eccezione della matura donna jugoslava, tutte erano giovani e generalmente di aspetto piacevole e prosperoso. Venivano da Fossoli con i loro fagotti senza valore e nel lasciare un campo di concentramento per un altro, non sembravano troppo emozionate. Erano ad accoglierle a quattro chilometri da Alberobello la rossa costruzione della Scuola di Agraria, un commissario di P.S. grosso e paziente ed uno sparuto nucleo di carabinieri con giberne e moschetti. La vecchia scuola di agricoltura, con la sua aria di rustico maniero, da tempo ha dimenticato la scienza della terra, da quando, cioè, i cancelli di ferro solido si incastrarono fra le aiole per accogliere alcuni manipoli di ex gerarchi in attesa di giudizio. Ora i cancelli rimangono aperti e si chiudono soltanto la notte quando le cento donne e il bambino si sono addormentati. Campo di concentramento vero e proprio non può dirsi questo di Alberobello, ultima tappa di smistamento e di avvio. Non esistono fili spinati, non esistono fucili mitragliatori ai punti di varco: non c’è aria di prigionia, perché le donne che qui soggiornano sono buone, remissive; obbedienti a quel punto estremo di stanchezza, che non dà la forza di reagire, con un carico di pensieri e di dolori, che forse un’intera esistenza non riuscirà a smaltire.

    internata slava a Casa Rossa (1947)       

     

    Amori di guerra

    Al campo di Fossoli giunsero alla spicciolata, una per una da diverse vie e per ognuna di esse i giornali narrarono un fatto sotto il titolo di “straniere indesiderabili”. Venivano dai più lontani paesi d’Europa, risucchiate dalla guerra, che le agganciò per quello che la donna ha di più naturale: l’amore. E dietro questa scia irresistibile, queste donne abbandonarono le loro case in cima ai monti, nel fondo delle valli, nel cuore delle città e, accecate da un’avventura arcana, marciarono senza guardare le strade, sconfinando senza avvedersene, cadendo senza sentirlo, legate a uomini che andavano dietro alla guerra e di tutto quello di provvisorio che la guerra comporta: i sentimenti compresi. Un giorno queste donne, riaprendo gli occhi, si trovarono sole: il compagno della guerra le aveva tradite o veleggiava per lidi inaccessibili. Sorprese dal dopoguerra, del dopoguerra esse seguirono le torbide leggi e nel tentativo disperato di trovare nuove vie e nuove speranze, esse si invischiarono al punto da diventare “straniere indesiderabili”.    

    Le naufraghe

    Il Governo Italiano ne ha seguito per anni l’attività, ne ha identificato la condotta e si è deciso, come era suo diritto, ad intervenire, dando alla sua azione di forza un senso di umanità, che trascende l’arido dispositivo del regolamento di polizia. La preoccupazione di difendersi da una attività illegale svolta nel proprio territorio e il desiderio di normalizzare la situazione penosa di centinaia e centinaia di fanciulle, anima l’attuale provvedimento. Dopo le peregrinazioni da un campo all’altro, le ragazze straniere giungono ad Alberobello, all’ultima tappa. Durante la loro permanenza su queste colline la polizia studia i loro incartamenti e interessa le autorità diplomatiche per il rimpatrio di coloro che in patria hanno ancora speranze ed affetti o per avviare verso paesi disposti a riceverle coloro che o non vogliono rientrare o preferiscono tentare l’ultima carta del giuoco. Nel frattempo, tutte aspettano e più d’una fra le più giovani si abbandona a lontani progetti. Innanzi a queste naufraghe il commissario fin dal primo giorno ha deposto la burbanza professionale; ha messo a loro disposizione i locali e allargando le braccia ha detto: Sistematevi alla meglio, col minor fastidio possibile per voi e per me”, i vasti cameroni si sono riempiti di brande, vesti, tramezzi e cenci di mille colori. I primi giorni tutte alla rinfusa; poi è avvenuta la selezione:le tedesche con le tedesche nello stanzone più grande, al comando di una donnona giovane, che quando parla alza il mento come un oberleutnant; le slave con le slave, attorno ad una russa che parla poco e scrive spesso a pezzi grossi. Le minoranze hanno fatto lega e vanno lietamente d’accordo. La  donna jugoslava trascorre le giornate sotto le coperte con la figlia e il piccolo Mandrich, passa di stanza in stanza a fare da tramite fra le varie nazionalità. Wilma, la madre, è la tedesca piccolina, che ama appartarsi per cantare, è di sangue francese e sul suo capo biondo è passata una storia avventurosa che vi racconterò a parte.

    Strani tipi

    Assai per tempo, la mattina, comincia il passeggio sullo spiazzale erboso davanti alla palazzina. Il regolamento lo vieterebbe fino all’arrivo del filo spinato, ma il direttore ha fatto uno strappo e ne è felice. A star ferme tutto il giorno, le camerate sentirebbero di prigione. All’aria libera è assai diverso. La maggior parte preferisce sdraiarsi al sole; le altre, in piedi, conversano. La tedesca di un sobborgo di Berlino, inizia la sua maratona in venti metri di spazio. Raggiunto un lato del campo, ella si volge di scatto e cammina con passo spedito come chi tema di far tardi ad un convegno. Così per ore e ore, in venti metri ha percorso abbondantemente la distanza che la separa da Berlino. È la più taciturna. Dicono che sia stata tre giorni sotto le macerie di una casa e che abbia assistito alla morte del suo fidanzato, un esile americano, in un incidente d’auto. Una romena, abile danzatrice, prova di tanto in tanto, sotto gli occhi di un carabiniere, qualche passo di danza e una grossa ungherese si congestiona per accompagnarla col canto. Il giorno passa così, monotono e grigio e mai nessuna di quelle tragedie personali esplode in pianto o isterismi. Ogni rimpianto è contenuto, ogni dolore dissimulato. Solo verso sera, quando il tramonto dà ai trulli l’aspetto di templi indiani o di antichi sepolcri, il movimento della casa rossa si fa più lento. Le giovani si raccolgono in gruppi nelle camerate o sotto gli alberi senza parlare, insensibili al freddo. Persino la tedesca di Berlino rallenta il passo come se fosse giunta e si ferma, gli occhi perduti nella vallata che si riempie di nebbia. Ciascuna di quelle donne naufraga per proprio conto nella sua sventura senza speranza. La piccola Wilma, seduta all’ingresso del campo, si tiene un ginocchio fra le mani e si dondola piano cantando: “Es geht meine Seele – wo deine Stimme ruft…” Va la mia anima dove la tua voce mi chiama…Il piccolo Mandrich ai suoi piedi scalpita e sorride innocente alzando il capo al carabiniere di guardia. È il solo a quell’ora a sorridere in mezzo a tanti oscuri pensieri».

    Le donne di Alberobello. Un dramma uguale per tutte

    «Le cento ragazze di Alberobello non parlano mai di politica. Quest’ultima presuppone un ottimismo e una fiducia negli uomini che nessuna di queste sbandate possiede, avendo ricevuto dalla politica e dagli uomini tanto quanto basta per inclinare al pessimismo. Le slave fanno qualche volta eccezione alla regola, al corrente come sono di certe situazioni internazionali che le toccano da vicino, ma preferiscono non parlarne. Le tedesche, ad ogni domanda, sorridono diffidenti ed hanno l’aria di chi cade dalle nuvole. Le polacche dicono di non capirci nulla e, forse, sono le sole a dir la verità.

    pausa di lavorazione ad Alberobello del film "Donne senza nome"(1949)

     

    Il compositore impiccato

    Quassù non c’è radio, non giungono giornali e nessuna sente la necessità di queste cose. Le più accanite fumatrici hanno smesso di colpo il vizio non potendo rifornirsi di sigarette.  Chi ancora dispone di un mozzicone di rossetto lo adopera con parsimonia e lo passa generosamente a qualche compagna di stanza. Alcune, fra le più disilluse, rimpiangono Fossoli con le sue abbondanti minestre. Qui le razioni sono più scarse e il freddo fa sentire la differenza. In compenso, la cucina è affidata ad una ragazza di Lubiana, florida e sorridente, che fa del suo meglio per dare alle pietanze un gusto accettabile. Anna M. la bella cuciniera di Alberobello sposò un soldato italiano al tempo della nostra occupazione in Jugoslavia e col marito si trasferì a Modena. Poi il soldato morì e la ragazza fu messa in un campo di concentramento perché straniera. Ora un bambino di tre anni vive con i genitori di lui e che regolarmente scrivono alla donna assicurandola del loro interessamento preso le autorità italiane. I racconti che fanno queste donne in uno scadente italiano sono sempre confusi e frammentari. Nascondono qualche cosa di assai vicino alla loro sofferenza, soffermandosi all’antefatto. Il resto è chiuso nel segreto delle loro anime e nei fascicoli personali delle polizie. La polacca Litza era una studentessa di agraria, innamorata cotta di un sergente tedesco, pianista e compositore. Una mattina, i tedeschi sgombrarono il villaggio all’avvicinarsi dei russi e il sergente musicista non ebbe nemmeno il tempo di salutare la giovanissima Litza.  La giovane non si sgomentò, fece un fagotto, lasciò la cantina dove s’era stabilita con i suoi e nottetempo s’avviò verso occidente per ricongiungersi con il compositore.  Tre settimane vagò nella foresta e fece in tempo a vedere il suo amico pendere da un albero, dove insieme con gli altri lo avevano impiccato alcuni partigiani, meno affezionati alla musica e più sensibili a certe efferatezze commesse nei dintorni. Litza volle dimenticare quello spettacolo raccapricciante e si attaccò ad un camerata del morto che, stanco di combattere, scelse la via più breve e andò a consegnarsi dopo inenarrabili peripezie alla prima pattuglia di americani.  Litza stanca del viaggio, accettò il Corned Beef, si assuefece alla razione del combattente e, qualche tempo dopo, a bordo di una jeep varcò le Alpi. Qui finisce l’antefatto. Il successivo svolgimento del dramma è del tutto simile a quello delle altre donne. È nel corso di uno di questi drammi che, ad esempio, viene al mondo il piccolo Mandrich, che ora in questo breve spiazzo sta imparando a sgambettare.

    Mandrich, leggero fardello

    Alla piccola Wilma non piace parlarne. Tutt’al più, il suo dolore si rifugia in quelle canzoni cantate a voce bassa quasi rauca, accompagnate dal movimento lento di tutto il corpo. La sua disgrazia cominciò da una buona azione. Un soldato francese ferito trovò nella sua casa di campagna assistenza e conforto e, quando fu guarito, si sentì irrimediabilmente innamorato della piccola tedesca dagli occhi verdi. In Provenza, i due vissero insieme. Wilma aveva perduto tutti in un mitragliamento a bassa quota. Il francese viveva con una sorella che gestiva un piccolo caffè. Una sera la ferita si riaprì e si aggravò. Al termine di tre giorni il giovane morì e Wilma si trovò sola con una creatura sul punto di nascere. La cognata non era cattiva, ma Wilma era tedesca e ciò bastava per guastarle il sangue, ora che il fratello era morto. La giovane decisa di finirla e, seguendo l’esempio di molte altre, stava per spiccare il salto da un ponte, quando un americano la trattenne. Il caritatevole Johnny capì la situazione e si intenerì. Niente paura. Egli avrebbe provveduto a tutto, l’avrebbe protetta e quando il baby sarebbe venuto al mondo lo avrebbero allevato insieme. Il baby nacque in Italia, ma lo stesso giorno della sua nascita l’amico protettore scomparve. Wilma inghiottì amaro, prese il leggero fardello e passo passo lo ha portato fino al recinto di Alberobello. Tutte le vite si somigliano quassù e dietro le parole usuali e le conversazioni insignificanti passano lagrime silenziose. L’ondata terrificante della guerra è passata, ma la risacca ha portato a riva dolenti rottami. Non sarà facile sciogliere quelle anime inaridite, anche perché la speranza è una pianta che non cresce fra queste mura. A giorni la vecchia scuola di Agraria accoglierà altre venti ragazze straniere colte improvvisamente dalla polizia nella loro vita equivoca. È una novità che interessa. Marisa, l’ungherese alta e lentigginosa si torce comicamente le mani. “Ma dunque – ella dice alle compagne – non sono finite ancora queste vedove di guerra?”. La battuta non fa ridere e irrita le tedesche, che in quel momento parlavano di “ritornarsene a casa”. “Tornarsene a casa” è un modo di dire come un altro, è un modo di passare il tempo e di ingannare se stesse, un’allucinazione creata dalla malinconia e dalla riflessione.

    Lettere senza risposte

    La nostra visita volge alla fine. Nel giro, il direttore ha raccolto un fascio di lettere che ciascuna donna ha consegnato con garbo, dirette a uomini e donne di altri campi di concentramento. Quasi sulla porta Liuma, una grassa romena trafelata ci raggiunge e consegna la sua lettera. È indirizzata a un albanese di Coritza. Liuma lo conobbe sulle montagne di Ciafa Mandres, quando nei tempi sereni ella trasmigrava con la sua gente per pascere le pecore attorno alle capanne di color vermiglio. Sono passati sei anni e Liuma scrive ancora, puntualmente con la testardaggine d’una montanara, anche se non ha ricevuto mai una lettera, anche se la greca, che è sua amica, la motteggia un poco e la chiama pazza. La carrareccia gira attorno alla casa, poi si precipita verso il paese. Sotto gli ulivi bassi, il piccolo Mandrich strepita, alle prese con la russa che vuole lavarlo per forza. Ai limiti del campo le altre, sedute per terra, aspettano. Dal tetto si leva un malinconico filo di fumo che il vento disperde nell’aria».

     

    CRONOLOGIA ESSENZIALE DI CASA ROSSA/MASSERIA GIGANTE

    Periodo Avvenimenti
    1887  Testamento di don Francesco Gigante per la fondazione di una Scuola Agraria
    1896-1939  Scuola Pratica d'Agricoltura (1906-1931) Scuola Tecnica Agraria (1932-1939) Scuola elementare (1916-1939) Ospizio per orfani di guerra Ospizio per alunni dell'O.N.M.I.
     
    1940- settembre1943

    PRIMA stagione Campo Internamento:

    •    civili di nazionalità inglese (tra essi indiani, maltesi, irlandesi), prevalentemente residenti a Napoli, ritenuti atti a portare le armi.

    •    Arriva, successivamente, il gruppo che rimarrà aCasa Rossapiù tempo: ebrei stranieri tedeschi o provenienti da stati caduti in potere della Germania, che, pur non essendo considerati formalmente nemici, sono internati in quanto ebrei e, quindi, ritenuti capaci di svolgere azioni contrarie agli interessi di uno stato totalitario amico come la Germania. Arrivano anche ebrei polacchi, ex cecoslovacchi e apolidi.

    . Vengono internati, poi, ebrei italiani antifascisti,ebrei politicamente sospetti,cittadini sottoposti a misure di polizia per motivi politici, anarchici e slavi della Dalmazia e della Venezia Giulia, che hanno svolto azione antifascista ed antiitaliana nelle terre occupate dalle potenze dell'Asse in Jugoslavia; molti di questi ultimi sono dirottati ad Alberobello, solo perché l'esercito italiano di occupazione non ha reperito un sufficiente numero di prove per passarli per le armi. Molti ebrei italiani sono internati ad Alberobello per disubbidienza alle disposizioni sulla precettazione civile a scopo di lavoro.

    1945-1946 SECONDA stagione. Colonia di Confino politico:ex fascisti confinati politici, altri uomini imputati per gravi fatti di sangue conseguenti a tragici episodi diepurazione dal basso,scatenati da folle inferocite per la mancata epurazione istituzionale, ex militi della Decima Mas.
    1947  TERZA stagione. Campo perindesiderabili:lesegnorinerastrellate senza documenti; sbandate al seguito dell'esercito americano nella pineta di Tombolo; ex collaborazioniste dei nazisti; semplici prostitute; donne dei paesi dell'Est che temono il nuovo regime sovietico negli anni più difficili della guerra fredda.
    1947-1949  

    TERZA stagione. Campo per famiglie didisplaced persons.tedeschi ma anche albanesi musulmani, austriaci già cittadini italiani altoatesini che avevano optato con Hitler per la nuova cittadinanza e che ora erano detestati sia dai connazionali che dai nostri, jugoslavinon titiniin fuga dal proprio paese, donne dei Sudeti tedescofoni sottoposte a brutali sevizie dai sovietici, perché già privilegiate dai nazisti, russi ortodossinon bolscevichie cittadini di stati baltici, inseguiti da emissari dell'Armata Rossa, disertori di vari eserciti, ebrei stranieri cacciati dai campi alleati di raccolta per violazione di leggi italiane soprattutto nell’ infuocata vigilia elettorale del 1948, ebrei polacchi indesiderati in patria (dove si assisteva a nuovipogromantisemiti, questa volta opera di polacchi e non di tedeschi), che speravano di emigrare in Palestina.                                                                                  

    1956-1977  Casa di Rieducazione minorile maschile con il funzionamento presso di essa di un istituto professionale agrario, con la finalità di istruire e di dotare di un diploma di qualifica in meccanica agraria gli allievi internati. L'Istituto poteva essere frequentato da minori di cui l'Autorità Giudiziaria avesse disposto l'affidamento al servizio sociale ed anche da alunni esterni, ma con la previa autorizzazione del Direttore dei Centri di rieducazione stipulante.
    2001  Il 21 febbraio 2001 Elisa Springer, famosa sopravvissuta ad Auschwitz, visitò laCasa Rossae dichiarò: «non posso ammettere che questa struttura diventi un posto di divertimento perché è stato comunque un luogo di sofferenza. Provo una certa emozione, perché campi come questo sono stati il trampolino per campi più grossi e poi per i veri e proprilager.Penso a quanta gente è stata qui e poi ha perso la vita. Mi oppongo a questi tentativi di distruggere la memoria. Dobbiamo fare di tutto perché questo campo rimanga in vita».
    2002  L'undici novembre 2002, l'Associazione ebraicaKeren Kayemeth Leisraelfece dono al Comune di Alberobello di un ulivo proveniente dalle colline di Gerusalemme, che fu messo a dimora in un'aiuola del Belvedere di Piazza Giangirolamo, nei pressi della chiesa di santa Lucia, con una targa con questa scritta in italiano e in ebraico: «Ulivo delle colline di Gerusalemme al Comune di Alberobello per l'ospitalità offerta dai suoi cittadini durante le persecuzioni razziali. Dono del Keren Kayemeth Leisrael».
    2007  Il 5 dicembre 2007 la Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Puglia ha dichiaratoCasa Rossabene di interesse storico-artistico, sottoposto alle tutele del decreto legislativo 22 gennaio 2004 n.42.
    2009  In data 5 febbraio 2009 si è costituita la Fondazione Casa Rossa Onlus, con sede sociale in Bari, con l'intento di valorizzare il notevole patrimonio storico e culturale che ha avuto nel passato la famosa struttura in Alberobello denominataCasa Rossa.


    Bibliografia

    K. VOIGT, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945,II voll., La Nuova Italia, Firenze, 1996.

    F. TERZULLI, La Scuola Francesco Gigante ad Alberobello tra il 1896 e il 1939, in «Riflessioni. Umanesimo della Pietra», Martina Franca, luglio 2003.

    C.S. CAPOGRECO, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Torino, Einaudi, 2004.

    F. TERZULLI, La Casa Rossa. Un campo di concentramento ad Alberobello, Mursia, Milano, 2003.

    F. TERZULLI, La memoria della Casa Rossa, in «Riflessioni. Umanesimo della Pietra», Martina Franca, luglio 2008.

    Film Donne senza nome- Le indesiderabili, 1949, regia di Géza von Radvànyi

  • Passato e presente negli attacchi ai monumenti sull'onda del Black Lives Matter

    di Daniele Boschi

    La statua di Albert Pike in Washington D.C. ancora in piedi sul suo piedistallo di granito, dal quale è stata rovesciata lo scorso 19 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Albert_Pike_Statue,_Washington_DC_.jpgLa statua di Albert Pike in Washington D.C. ancora in piedi sul suo piedistallo di granito, dal quale è stata rovesciata lo scorso 19 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Albert_Pike_Statue,_Washington_DC_.jpg

    Nella Judiciary Square in Washington D.C., a circa mezzo miglio dal Campidoglio, una statua di bronzo alta più di tre metri raffigurava Albert Pike, poeta, giurista, massone e ufficiale dell’esercito degli Stati Confederati durante la guerra civile americana (1861-65). Lo scorso 19 giugno un gruppo di dimostranti ha abbattuto questa statua e le ha dato fuoco, cantando “No justice, no peace, no racist police”. Negli Stati Uniti il 19 giugno, Juneteenth, è una giornata dedicata alla celebrazione dell’emancipazione dalla schiavitù e quest’anno è stata un’occasione per rinnovare le proteste contro il razzismo, divampate a seguito dell’uccisione dell’afro-americano George Floyd, avvenuta a Minneapolis lo scorso 25 maggio.   

    Quella di Albert Pike è soltanto una delle numerose statue abbattute o rimosse nelle ultime settimane sull’onda del movimento Black Lives Matter, che dagli Usa si è propagato anche al di qua dell’Atlantico. Un po’ dappertutto gli attivisti del movimento hanno preso di mira statue e monumenti che celebrano o rievocano personaggi e fatti in qualche modo collegati alla storia della schiavitù, del razzismo e del colonialismo.

    In questo articolo racconto alcuni episodi e le reazioni che hanno suscitato. In un prossimo articolo analizzerò i commenti apparsi sui quotidiani e sul web, anche alla luce delle riflessioni che da diversi anni gli storici e gli esperti di public history hanno sviluppato riguardo all’uso degli spazi pubblici per commemorare personaggi ed eventi del passato, e alle controversie che quest’uso può generare. Antonio Prampolini sta preparando una sitografia completa su questo argomento, in attesa della quale si può consultare questo elenco provvisorio.

    L’attacco alle statue dei Confederati

    Oltre alla statua di Albert Pike, molti altri monumenti che rievocano la lotta dei Confederati contro gli stati dell’Unione durante la guerra civile americana sono stati attaccati o rimossi negli USA nelle ultime settimane.

    Ad esempio, il 1° giugno una statua del generale Robert E. Lee è stata buttata giù davanti alla High School di Montgomery (Alabama) a lui intitolata. Poche ore prima, Steven Reed, primo sindaco nero della città, aveva parlato a una folla eccitata davanti alla scuola elementare dedicata a E. D. Nixon, uno dei principali organizzatori del famoso Montgomery Bus Boycott (1955-56), durante il quale gli afroamericani avevano rifiutato di usare i bus urbani. Reed aveva detto di condividere la rabbia e il desiderio di cambiamento dei propri concittadini, ma li aveva invitati alla calma. Non tutti però hanno seguito il suo consiglio e quattro persone sono state arrestate dopo l’abbattimento della statua.

    Il 10 giugno a Richmond in Virginia una folla di dimostranti ha abbattuto la statua di Jefferson Davis, presidente della Confederazione. Il giorno seguente il sindaco Levar Stoney ha commentato questo evento in un tweetcon le seguenti parole: "Jefferson Davis era un razzista e un traditore che fuggì dalla nostra città mentre le sue truppe eseguivano l’ordine di incendiarla e raderla al suolo. Non ha mai meritato di stare sopra quel piedistallo” [1].  E ha preannunciato la rimozione di altri simili monumenti.

    In molti casi sono stati, in effetti, i sindaci o altre autorità locali a ordinare lo smantellamento dei monumenti. Lo hanno fatto per manifestare la propria adesione alla protesta antirazzista, oppure per prevenire disordini o incidenti (o per entrambe le ragioni). Ad esempio, Greg Fischer, sindaco di Louisville nel Kentucky, ha fatto rimuovere la statua a cavallo di John B. Castleman, un personaggio controverso, poiché dapprima combatté nell’esercito dei Confederati, dove raggiunse il grado di maggiore, ma poi espresse ammirazione per Abramo Lincoln e si schierò contro l’esclusione degli afro-americani dai parchi cittadini. Fischer aveva tentato già l’anno scorso di arrivare alla rimozione della statua, ma senza successo; il suo operato è stato contestato da diverse associazioni locali e una controversia legale è tuttora in atto.

    L'offensiva si allarga

    Rimanendo per ora negli Stati Uniti, occorre aggiungere che l’attacco alle statue e ai monumenti si è allargato in queste ultime settimane fino a toccare anche personaggi storici di ben altro rilievo rispetto ai più o meno celebri generali e ufficiali dell’esercito confederato.

    A Portland, nell’Oregon, sono state abbattute le statue di Thomas Jefferson e di George Washington, entrambi proprietari di schiavi, come è ben noto.

    Nel Golden Gate Park di San Francisco è stata rovesciata la statua di Ulysses S. Grant, comandante dell’esercito che sconfisse i Confederati nel 1865 e poi presidente degli Stati Uniti. Grant è ritenuto colpevole di aver sposato una donna proveniente da una famiglia di proprietari di schiavi e di aver diretto personalmente il lavoro di questi schiavi in una piantagione nel Missouri. Egli stesso inoltre fu proprietario di uno schiavo, che liberò nel 1859.

    Sempre nel Golden Gate Park, insieme alla statua di Grant, è stata buttata giù anche quella di Francis Scott Key (1779-1843), l’autore dell’inno nazionale statunitense, “The Star-Spangled Banner”. L’accusa nei suoi confronti non è solo quella di aver posseduto schiavi, ma anche di aver utilizzato il suo ruolo di procuratore di distretto in Washington D.C. per ridurre al silenzio i fautori della causa abolizionista.

    Infine, il Museo di Storia Naturale di New York ha deciso di rimuovere la statua di Theodore Roosevelt, che finora troneggiava davanti all’ingresso del Museo. La statua mostra il 26° presidente degli Stati Uniti a cavallo e accanto a lui, a piedi, un nativo americano e un africano. Lo stesso pronipote del Presidente, Theodore Roosevelt IV, si è detto d’accordo con la decisione: «Il mondo non ha bisogno di statue, relitti di un’altra era, che non riflettono né le virtù della persona che intendono onorare, né i valori di uguaglianza e giustizia. Questa composizione equestre non riflette l’eredità di Theodore Roosevelt. È tempo di rimuoverla e andare avanti». Ma il presidente Donald Trump ha twittato: «Ridicolo, non fatelo!».

    "Colombo rappresenta il genocidio"

    Se l’attacco ai monumenti di personaggi più o meno illustri della storia degli USA potrebbe lasciarci abbastanza indifferenti qui in Italia, le cose stanno forse in modo un po’ diverso quando ad esser sotto tiro sono le statue dedicate al nostro Cristoforo Colombo, accusato di essere stato un colonizzatore e uno sterminatore dei nativi americani. Anche con lui se la sono presa gli attivisti del movimento Black Lives Matter nelle ultime settimane.

    Il primo episodio, riportato anche dai quotidiani italiani[2], è avvenuto a Richmond in Virginia, dove il 9 giugno, in un parco cittadino, la statua alta due metri e mezzo del navigatore genovese è stata abbattuta, bruciata e trascinata fino a un vicino laghetto, dove è stata gettata. Il piedistallo è stato imbrattato con le scritte "questa terra è dei Powhatan", il nome della popolazione nativa della Virginia, e "Colombo rappresenta il genocidio".

    Immagine 2 ColomboLa statua di Cristoforo Colombo che si ergeva presso il Minnesota State Capitol, buttata giù dai dimostranti lo scorso 10 giugno. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Christopher_Columbus_Statue_Torn_Down_at_Minnesota_State_Capitol_on_June_10,_2020.jpgStatue di Colombo sono state sfregiate, abbattute o rimosse anche a Saint Paul nel Minnesota, a Boston , a Camden nel New Jersey, a Houston nel Texas, a San Francisco e in diverse altre città. Un caso particolare è quello del Congresso della California, che ha deciso di rimuovere dalla propria sede le statue di Cristoforo Colombo e della regina Isabella di Castiglia.

    Anche se queste iniziative sono state prese sull’onda delle proteste del Black Lives Matter, in molti casi esse sono anche il risultato delle lotte portate avanti da molti anni dalle associazioni dei nativi americani. Anzi, a Saint Paul nel Minnesota è stato l’ “American Indian Movement” ad organizzare l’attacco alla statua di Colombo, dopo anni di inutili trattative con le autorità locali.

    Su un altro fronte, questi eventi hanno suscitato la reazione del “Movimento Associativo degli Italiani all’Estero” (MAIE), il cui presidente, Ricardo Merlo, è attualmente sottosegretario agli Esteri nel governo Conte. Merlo ha dichiarato che “gli attacchi alle statue di Cristoforo Colombo sono atti vili e scellerati” ed ha aggiunto che “pensare oggi di rivedere la storia è anacronistico, inutile, sbagliato”.

    Abbattimenti e rimozioni di statue in Gran Bretagna

    Come è noto, le proteste del Black Lives Matter si sono propagate dagli USA all’Europa. E anche da questa parte dell’Atlantico alcune statue, considerate come simboli del razzismo e del colonialismo, sono state abbattute o rimosse.

    Il piedistallo vuoto della statua di Edward Colston a Bristol, abbattuta lo scorso 7 giugno durante le proteste del “Black Live Matters”. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Edward_Colston_-_empty_pedestal.jpgIl piedistallo vuoto della statua di Edward Colston a Bristol, abbattuta lo scorso 7 giugno durante le proteste del “Black Live Matters”. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Edward_Colston_-_empty_pedestal.jpg

    Cominciamo dall’Inghilterra. Lo scorso 7 giugno a Bristol, nel corso di una manifestazione antirazzista, la statua di Edward Colston (1636-1721), membro della Royal African Company e mercante di schiavi, è stata abbattuta, trascinata per le strade della città e gettata nelle acque del porto. Il giorno seguente, l’evento è stato stigmatizzato dal portavoce del Primo ministro Boris Johnson, che ha dichiarato: “I cittadini possono fare campagne per la rimozione di una statua, ma quello che è accaduto ieri è un’azione criminale … Il Primo ministro comprende appieno l’intensità dei sentimenti, ma in questo paese risolviamo le controversie in modo democratico e se si vuole la rimozione della statua ci sono procedure democratiche che si possono seguire”.

    Invece il sindaco di Bristol Marvin Rees, primo sindaco nero del Regno Unito[3], ha mostrato comprensione per i dimostranti e ha dichiarato: “Penso che la situazione era arrivata a un punto critico e la gente sentiva che la statua doveva essere buttata giù … Non posso fingere e non fingerò che la statua di un mercante di schiavi nella città in cui sono nato e cresciuto non fosse un oltraggio per me e per le persone come me”.

    Le “procedure democratiche” sono state invece rispettate a Oxford, dove sulla scia del Black Lives Matter è ripresa la campagna per la rimozione della statua di Cecil Rhodes dalla facciata dell’Oriel College. Il movimento Rhodes Must Fall è nato nelle università del Sudafrica nel 2015 e da lì si è esteso alla Gran Bretagna. Nel 2016 l’Oriel College, pur accettando il dialogo con gli studenti, rifiutò di rimuovere la statua[4]. Ora sembra che le cose siano cambiate, dato che lo scorso 17 giugno l’organo direttivo del College ha votato a favore della rimozione della statua e per l’istituzione di una commissione che si occuperà del tema dell’eredità di Rhodes e del modo di migliorare la condizione degli studenti e dei dipendenti del College appartenenti alle minoranze etniche. 

    Un’altra statua presa di mira è stata quella del mercante di schiavi Robert Milligan (1746-1809) nella East London. Oltre tremila persone hanno firmato una petizione per la sua rimozione e lunedì 8 giugno la statua è stata ricoperta con cartelli recanti la scritta “Black Lives Matter”. Il giorno successivo la statua è stata rimossa per decisione delle autorità locali.

    Ancora più significativo è il fatto che il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha annunciato l’istituzione di una commissione che riesaminerà tutti i “landmarks” della capitale del Regno Unito. A questo proposito Kahn ha dichiarato che “le differenze all’interno della nostra capitale sono la nostra forza più grande, eppure le nostre statue, i nomi delle strade e gli spazi pubblici riflettono un’era passata. E’ una verità scomoda che la nostra nazione e la nostra città debbano una larga parte della loro ricchezza al ruolo che hanno avuto nel commercio degli schiavi e mentre questo è ben riflesso nella nostra sfera pubblica, il contributo di molte nostre comunità alla vita della capitale è stato volontariamente ignorato. Questo non può continuare”. 

    Tuttavia, come è accaduto negli Stati Uniti, anche in Inghilterra l’attacco alle statue non ha preso come bersaglio soltanto i simboli più ovvi del passato coloniale e razzista del paese. Come è stato riportato da tutti i principali media, il 7 giugno a Londra, in margine alle manifestazioni del Black Lives Matter, qualcuno ha imbrattato la statua di Winston Churchillin Parliament Square, scrivendoci sopra le parole “era un razzista”. La sera stessa, un giovane dal volto coperto avrebbe detto a un reporter della BBC di esser stato lui l’autore di quella scritta, motivando così il suo gesto: “Ho etichettato così la statua di Churchill perché lui era un razzista incallito. Ha combattuto i nazisti per proteggere il Commonwealth dall’invasione – non lo ha fatto per i neri, né per la gente di colore, né per alcun altro popolo. Lo ha fatto soltanto per il colonialismo. La gente si arrabbierà – ma io sono arrabbiato per il fatto che per tanti anni noi siamo stati oppressi”.

    Il caso del Belgio e del re Leopoldo II

    In Belgio, all’inizio di giugno, diverse statue del re Leopoldo II (1835-1909) sono state deturpate; ad Anversa una statua del monarca è stata prima vandalizzata e poi rimossa.

    La statua del re Leopoldo II del Belgio in Place du Trône a Bruxelles. Una petizione ne ha chiesto la rimozione. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Leopold_II_Statue_at_Place_du_Tr%C3%B4ne_-_panoramio.jpgLa statua del re Leopoldo II del Belgio in Place du Trône a Bruxelles. Una petizione ne ha chiesto la rimozione. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Leopold_II_Statue_at_Place_du_Tr%C3%B4ne_-_panoramio.jpg

    Parallelamente il movimento Reparons l’Histoire ha rivolto al comune di Bruxelles una petizione per chiedere la rimozione di tutte le statue di Leopoldo II dal territorio cittadino, a cominciare da quella sulla place du Trône.

    Come è noto, Leopoldo II ricevette nel 1885 dal Congresso di Berlino la sovranità sullo “Stato libero del Congo”, che governò e sfruttò come un suo possedimento privato fino al 1908. Nella petizione si legge questa descrizione del monarca:

    “Riconosciuto come un ‘re costruttore’ e non come un ‘re sterminatore’. Un eroe per alcuni ma anche un carnefice per un grande popolo. Nell’arco di 23 anni quest’uomo ha ucciso più di dieci milioni di congolesi, senza aver messo mai piede in Congo. Per 23 anni utilizzò il popolo congolese come un mero strumento per la produzione della gomma, un prodotto altamente richiesto a quell’epoca. Le persone che vivevano nelle regioni dove si produceva la gomma erano oppresse da un enorme carico di lavoro, a volte persino disumano”.

    La petizione, che alla data del 1° luglio era stata firmata da oltre ottantamila persone, indicava come termine ultimo per la rimozione delle statue il 30 giugno 2020, giorno in cui è caduto il sessantesimo anniversario dell’indipendenza della Repubblica Democratica del Congo. Un’altra petizione, che chiede al contrario di mantenere in piedi le statue, ha raggiunto alla stessa data oltre ventimila firme.

    Per il momento, le statue di Leopoldo II non sono state rimosse. Ma il 30 giugno, per la prima volta, il re del Belgio Filippo ha espresso il proprio rincrescimento per gli atti di violenza e le sofferenze inflitte dai belgi ai congolesi durante il periodo coloniale. Lo ha fatto con una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi, nella quale ha anche riconosciuto che il dolore per queste ferite del passato è ravvivato dalle discriminazioni ancora oggi troppo presenti nella società belga.

    "La Francia non abbatterà alcuna statua"

    Per quanto riguarda la Francia, occorre anzitutto ricordare un episodio avvenuto poco prima che si scatenasse il movimento Black Lives Matter. Il 22 maggio scorso a Fort-de-France e a Schœlcher, nel dipartimento francese d’oltremare della Martinica, alcuni manifestanti hanno abbattuto due statue di Victor Schœlcher, l’uomo che scrisse il decreto col quale il governo francese abolì la schiavitù in tutte le sue colonie il 27 aprile 1848. A quanto pare, l’accusa contro Schœlcher è di aver indennizzato lautamente gli schiavisti e di aver oscurato con la sua fama i protagonisti locali della lotta contro la schiavitù.

    Successivamente, dopo l’esplosione delle proteste antirazziste a Parigi e in altre città, il Presidente della Repubblica Emmanuel Macron, in un discorso pronunciato domenica 14 giugno, ha messo in guardia contro il rischio che la “nobile battaglia” contro il razzismo degeneri in “comunitarismo” e ha preso una posizione molto ferma contro gli attacchi ai monumenti. Ha dichiarato infatti che la Francia “non cancellerà alcuna traccia o nome della sua storia, non abbatterà nessuna statua”.

    Ma questo intervento non ha impedito che diversi monumenti venissero presi di mira nei giorni seguenti. Giovedì 18 giugno, a Parigi, alcuni militanti antirazzisti hanno posto un drappo nero sulla statua del generale Joseph-Simon Gallieni, eroe della prima guerra mondiale, ma anche ispiratore della dura repressione della resistenza della popolazione del Madagascar al dominio coloniale francese (quando fu governatore dell’isola dal 1896 al 1905).

    Qualche giorno dopo, le statue del filosofo illuminista Voltaire – che trasse profitti dal commercio degli schiavi – e del generale e amministratore coloniale Hubert Lyautey (1854-1934) sono state imbrattate con vernice rossa.

    Infine, sempre a Parigi, la statua di Jean-Baptiste Colbert, che si trova davanti all’Assemblea nazionale, è stata cosparsa di vernice rossa e sul suo piedistallo è apparsa la scritta “negrofobia di stato”. Come tutti sanno, Colbert fu ministro di Luigi XIV, ed ebbe un ruolo fondamentale nella riorganizzazione amministrativa, giudiziaria e soprattutto finanziaria dello Stato francese, realizzata negli anni del “Re Sole”; meno noto è il fatto che Colbert fu anche l’ispiratore del «Code Noir», un decreto emanato nel 1685 (due anni dopo la sua morte), che regolamentava la condizione degli schiavi nell’impero coloniale francese.

    James Cook "simbolo del colonialismo e del genocidio" degli aborigeni australiani

    All’altro capo del mondo, in Australia, è stato naturalmente il grande navigatore inglese James Cook (1728-1779) a divenire bersaglio di polemiche.

    Due statue di Cook sono state deturpate a Sidney e una petizione che chiede la rimozione della statua dell’esploratore inglese a Cairns ha raccolto oltre dodicimila firme.

    La petizione si apre con queste parole: “Dal 1972 la statua di James Cook in Sheridan Street si erge come simbolo del colonialismo e del genocidio. E’ uno schiaffo in faccia a tutti i nativi. Per noi rappresenta le spoliazioni, le migrazioni forzate, la schiavitù, il genocidio, il furto delle nostre terre, e la perdita della nostra cultura – insieme a molte altre cose”.

    Il Primo ministro australiano, Scott Morrison, ha difeso Cook e l’eredità del colonialismo, dicendo che l’Australia era un tempo un paese “alquanto brutale”, ma non c’era la schiavitù. Questa affermazione ha scatenato un coro di critiche: in molti hanno ricordato che la schiavitù, o quantomeno il lavoro forzato, furono praticati anche in Australia e nelle isole del Pacifico. E il Primo ministro si è visto costretto a fare marcia indietro:ha chiesto scusa e ha ammesso che i nativi australiani furono spesso trattati in modo crudele.

    Milano chiama Roma: dalla statua di Montanelli alla via dell'Amba Aradam

    Infine, echi del Black Lives Matter sono arrivati anche in Italia, e pure da noi non è mancato qualche episodio di contestazione relativo a statue e nomi di strade.

    A Milano i “Sentinelli”[4] hanno chiesto di cambiare l’intitolazione dei giardini dedicati a Indro Montanelli  e di rimuovere la statua del giornalista che si trova nello stesso parco. Con la seguente motivazione: ‘Montanelli ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale’. Qualche giorno dopo la statua è stata imbrattata  di vernice rossa e sul suo basamento sono comparse le scritte “razzista, stupratore”. Il gesto è stato rivendicato dal gruppo “Rete Studenti Milano” e dal “LuMe” (Laboratorio universitario Metropolitano). Vale la pena ricordare che la statua di Montanelli era già stata imbrattata l’8 marzo del 2019, quella volta con vernice rosa lavabile, per mano di attiviste del movimento femminista “Non Una Di Meno”.

    Il monumento a Indro Montanelli nei Giardini Pubblici a lui dedicati vicino Porta Venezia a Milano. Lo scorso 13 giugno la statua è stata imbrattata con vernice rossa. https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Monumento_a_Indro_Montanelli_Giardini_Pubblici_P.ta_Venezia.jpgIl monumento a Indro Montanelli nei Giardini Pubblici a lui dedicati vicino Porta Venezia a Milano. Lo scorso 13 giugno la statua è stata imbrattata con vernice rossa. https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Monumento_a_Indro_Montanelli_Giardini_Pubblici_P.ta_Venezia.jpg

    L’atto di accusa dei detrattori di Montanelli si riferisce a fatti ben noti perché raccontati più volte da lui stesso. Quando arrivò in Africa nel 1935 come comandante di compagnia del XX Battaglione Eritreo, formato da ascari, Montanelli, che aveva allora 26 anni, prese come compagna un’adolescente abissina, secondo la tradizione locale. La ragazzina si chiamava Destà. «Per tutta la guerra, come tutte le mogli dei miei ascari, riuscì ogni quindici o venti giorni a raggiungermi ovunque mi trovassi, in quella terra senza strade né carte topografiche»[5].

    Alla medesima volontà di “decolonizzare” gli spazi pubblici si ricollegano due episodi avvenuti a Roma. Nella notte tra il 18 e il 19 giugno alcuni attivisti della “Rete Restiamo umani” hanno affisso cartelli con i nomi di George Floyd e Bilal Ben Messaud[6] sulle targhe toponomastiche di via dell'Amba Aradam, nome di un massiccio montuoso a nord di Addis Abeba, dove nel 1936 le truppe del maresciallo Badoglio sconfissero l'esercito etiope in una cruenta battaglia, nella quale gli italiani fecero uso anche di gas asfissianti. La stessa notte al Pincio è stata imbrattata la statua del generale Antonio Baldissera, che fu a capo delle truppe italiane in Eritrea dal 1887 al 1889[7]. Anche questa seconda azione è stata rivendicata dalla “Rete Restiamo umani”, che ha spiegato le proprie ragioni in un lungo messaggio su Facebook, che si apre con queste parole:

    “Black Lives Matter: Dagli Stati Uniti alle sponde del Mediterraneo non si fermerà la protesta. In fermo sostegno alle e ai manifestanti che a partire da Minneapolis hanno riempito le piazze di decine di città del mondo per manifestare contro il razzismo strutturale e hanno deposto simboli di un passato coloniale sempre rimosso, iniziamo ora a smantellare i simboli del colonialismo nella Capitale”.

    Conclusione

    Gli attacchi alle statue e ai monumenti di personaggi storici assunti come simboli dello schiavismo, del razzismo e del colonialismo non sono una cosa nuova. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna gli abbattimenti e le rimozioni di queste ultime settimane appaiono spesso come l’esito di campagne avviate da molti anni. Il fatto nuovo è che, sfruttando l’onda delle grandi manifestazioni di protesta suscitate dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis, molte statue sono state effettivamente abbattute o rimosse, a volte col plauso delle autorità locali. Inoltre il movimento ha assunto in alcuni casi un’ampiezza tale da invocare – a torto o a ragione - un profondo ripensamento del modo in cui la storia della moderna società occidentale è stata scritta e raccontata finora. Anche per questo motivo gli attacchi alle statue delle ultime settimane sono stati oggetto di molte riflessioni e commenti da parte di opinionisti, editorialisti, e anche di storici, sui quali mi soffermerò in un prossimo articolo, nel quale illustrerò anche le ragioni per cui questo argomento ha un interesse didattico: da un lato, infatti, l’insegnamento della storia non può ignorare i diversi modi in cui questa viene vissuta e raccontata nel presente; dall’altro lato, le controversie intorno ai monumenti dei grandi personaggi del passato sono un’occasione per sviluppare ricerche e dibattiti e per stimolare un approccio critico da parte degli studenti.    

    [1]Le citazioni tratte da articoli in inglese o in francese sono state tradotte in italiano da me.

    [2]Vedi ad esempio
    https://www.repubblica.it/esteri/2020/06/10/news/usa_statue_colombo_abbattute_e_vandalizzate-258873826/?ref=search

    [3]Così lo definisce il "Guardian" nell'articolo citato, precisando che Rees è il primo sindaco nero del Regno Unito eletto direttamente dai suoi concittadini.

    [4]Vedi il mio articolo del 15 luglio 2019 su “Historia ludens”.

    [5]I “Sentinelli” di Milano si autodefiniscono nel loro sito web come “un movimento informale nato tra il serio e il faceto nell’autunno del 2014 che si contrappone a tutti i soprusi, discriminazioni e violenze che colpiscono la vita di molti: dagli omosessuali ai migranti, dalle vittime di stalking alle vittime di razzismo, dalle donne ai malati desiderosi di un fine vita dignitoso”.

    [6]Informazioni e citazione tratte da
    https://www.corriere.it/esteri/20_giugno_11/proteste-statue-nessuno-tolga-montanelli-suoi-giardini-f35060ec-ab4f-11ea-ab2d-35b3b77b559f.shtml.

    [7]Migrante tunisino morto a Porto Empedocle il 20 maggio scorso mentre cercava di raggiungere terra.

    [8]Baldissera fu anche governatore della colonia Eritrea per un breve periodo nel 1896. Su di lui vedi 
    http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-baldissera_(Dizionario-Biografico)/.

  • PopShoah? Immaginari e pratiche di memoria pubblica intorno al genocidio ebraico

    Autore: Claudio Monopoli

     

    Varcata la soglia del settantesimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, dieci anni dopo l’istituzione della Giornata mondiale della memoria, diventa un interrogativo imprescindibile chiedersi come insegnare la Shoah, fuori dalla retorica della celebrazione, immersi come siamo nel nuovo universo immaginario del XXI secolo. E’ l’universo dei nati dopo il 2000, pieno di immagini nuove, e in numero infinitamente superiore, di quelle che lo studente degli anni '90 poteva trovarsi ad osservare. L’origine di questo cambiamento sta nel fatto che quell’evento è divenuto oggetto di una possente industria culturale, fatta di libri, film, fiction, social media. Oggi, la Shoah è anche un insieme di immagini e concetti appartenenti alla cultura pop.

    Una ragazza si fa fotografare presso il Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa di Berlino (da un social)

     

    Come insegnare, dunque, la Shoah in questa nuova situazione? Rispondere a questo interrogativo è stato l’obiettivo della quarta edizione del Corso di Storia e Didattica della Shoah dell’Università degli Studi di Bari. “Popshoah? Immaginari e pratiche collettive intorno all’uso pubblico della memoria dello sterminio degli ebrei d’Europa” è il titolo del convegno, organizzato da Francesca Romana Recchia Luciani e Claudio Vercelli, (16 e 17 ottobre 2015), rivolto a docenti e studenti universitari.

    Il suo primo obiettivo è stato quello di delineare le modalità attraverso le quali la Shoah diventa un oggetto culturale di massa. Se prima a questo termine si associavano atmosfere di indicibilità, ora l’evento storico, proprio a causa della sua forte mediatizzazione, è diventato una metafora narrativa o, ancor di più, una semplice ambientazione per trame di libri o film. L’analisi della produzione cinematografica, proposta da Claudio Gaetani, rivela che è addirittura possibile parlare dei format “Holocaust film”, un genere le cui formule narrative sono usate anche in rappresentazioni di altro tipo, come quelle fumettistiche. Come osservato da Recchia Luciani, questa utilizzazione dell’evento storico provoca una perdita del senso del dramma stesso e crea un fertile terreno per la costruzione di ideologie revisioniste o negazioniste.

     La bambina dal cappottino rosso del film Schindler's List.

    Proiezione a cura della Comunità ebraica di Roma presso Largo 16 ottobre, 7 aprile 2013 (inizio del Yom Ha Shoah)

     

    Per un insegnamento rivolto agli studenti di oggi, cronologicamente lontani da quegli eventi, sarebbe necessaria una rappresentazione non spettacolarizzata, attraverso la quale recuperare il senso del dramma reale. Invece, la produzione filmica americana sembra orientarsi in direzione opposta. Ad esempio, l’immagine della bambina dal cappottino rosso, di Schindler’s List (ne ha parlato Damiano Garofalo), diventa un simbolo, soggetto a riprese e citazioni sul web e nelle fiction televisive, ormai privato di ogni collegamento alla tematica della Shoah. Non solo. Tale processo è stato ripetuto ed applicato anche alla figura di Anne Frank, il cui celeberrimo diario viene spesso utilizzato come testo scolastico sul tema. Oltre alla trasformazione in un “quasi-giallo” della famiglia Frank, testimoniata dalle recensioni al sito web della Casa di Anne Frank, le produzioni americane di Broadway e l’adattamento cinematografico di George Stevens, forniscono, secondo Fiorenza Loiacono, una prospettiva edulcorata della storia di Anne Frank, in cui la Shoah diviene sfondo marginale di una storia squisitamente adolescenziale, arricchita da ideologie individualistiche. Un processo di edulcorazione che si esaspera nella “carinizzazione” della figura della povera ragazza ebrea, operata dai manga giapponesi.

    "Carinizzazione" della figura di Anna Frank attraverso il manga giapponese di Megumi Sugihara e Naoko Takase

     

    Se, di fronte ad un tale panorama culturale, la costruzione negli studenti della memoria storica appare necessaria, tuttavia essa non può essere immaginata come un risultato da conseguire tramite il “rito” della celebrazione. La forma della ritualità e della consuetudine, spiega Cristiano Bellei, pone fine alle domande e moltiplica, in realtà, le banalizzazioni sul tema; così, ad esempio, per uno studente l’ “ebreo” può divenire sinonimo di “perseguitato”, al di fuori di ogni comprensione ed interrogativo circa le reali origini della persecuzione stessa.

    E’ necessario trovare e percorrere quella che Natascia Mattucci definisce la stretta strada che intercorre fra banalizzazione e sacralizzazione, per ricostruire una percezione lontana sia dai miti di indicibilità sia dalle spettacolarizzazioni. E’ un obiettivo che può essere ottenuto, se seguiamo il lavoro di Raffaella Di Castro, ascoltando le testimonianze dei parenti delle vittime della Shoah: testimoni di “secondo livello”, nati fra gli anni '60 e '80, le cui storie oscillano fra una voglia di apertura pubblica delle storie familiari e la necessità di custodirle nella dimensione privata.

    Il punto fondamentale, che occorre necessariamente tener presente per l’insegnamento della Shoah, è la “presentificazione” dell’evento storico. A partire da questo fenomeno, Claudio Vercelli invita i docenti a prendere coscienza, insieme agli studenti, sia delle costruzioni politiche operate sul concetto di Shoah, che includono anche contrapposizioni puramente dialettiche fra foibe e lager, sia dell'utilizzo decontestualizzato di immagini e concetti sul tema negli ormai diffusissimi social network. Come illustrato da Antonio Brusa, il compito del docente è quello di aiutare gli studenti a formarsi una coscienza storica. Questa è il frutto della rielaborazione delle conoscenze storiche e della memoria individuale. Non è, dunque, quello di partecipare a una celebrazione o alla custodia di una memoria pubblica. L’insegnante di storia insegna a studiare quell’oggetto, ormai lontano nel tempo, sia nella sua dimensione “verticale” di momento tragico dell’antisemitismo di lunga durata; sia in quello “orizzontale”, di contestualizzazione all’interno della politica generale di sterminio dei nazisti. Tre sono le configurazioni didattiche suggerite: l’analisi della pianificazione dall’alto del processo di sterminio; lo studio “dal basso”, dei soggetti che vi parteciparono, come vittime o oppressori o bystander; la costruzione culturale che ha accompagnato e ridefinito nel tempo questo processo.

    Osservando questo tema dal punto di vista storiografico, Guri Schwarz ritiene che, oltre alla memoria letterale, ovvero quella legata al contesto e all’unicità dell’evento, esista anche la memoria di tipo esemplare, che connette il singolo oggetto storico ad una o più idee generali. Tali memorie non solo possono coesistere, ma insieme generano anche le differenti interpretazioni storiografiche del tema, come quella che legge la Shoah come punto di arrivo dell’antisemitismo nella Storia d’Europa, o quella che considera tale evento un tassello di una più ampia storia di violenza e genocidi da collegare anche al contesto coloniale.

    Oltre ad una corretta e consapevole strutturazione dell’insegnamento in classe, occorre acquisire una piena consapevolezza dei possibili strumenti didattici. Il concetto stesso di “luogo della memoria”, ha spiegato Elena Pirazzoli, si presenta molto più ampio di come spesso viene inteso ed utilizzato. Per luogo, infatti, non si intende solo un elemento geograficamente localizzato, ma si può anche indicare una qualsiasi unità significativa, anche astratta, che rappresenta un simbolo per una comunità. Ciascun luogo di memoria può essere soggetto di “invenzione”, sia nel senso di scoperta del significato o evento storico ad esso correlato, sia nel senso di una costruzione immaginativa, quando a tale luogo vengano attribuiti significati storici, come accade a molti monumenti commemorativi. Anche i “viaggi della memoria” sono uno strumento didattico, che attraverso il tempo ha modificato usi e significati. Bruno Maida racconta le diverse fasi storiche del processo che ha reso il “viaggio della memoria”, da pratica riservata ai familiari delle vittime della Shoah, a strumento didattico. L’obiettivo di tale viaggio, suggerisce lo studioso, non deve essere la costruzione di ideologie da parte dello studente, ma l’invito ad un’acquisizione di senso di cittadinanza consapevole e partecipe.

    Foto ricordo di studenti di scuola media in occasione nel "Viaggio della memoria" del 2012

     

    L’immaginario, in conclusione, costituisce un filtro e un canale, attraverso il quale la società e gli allievi di oggi si connettono col passato tragico dello sterminio. Le conoscenze che esso veicola sono potenti e di effetto. Costituiscono da una parte un formidabile strumento di attrazione; dall’altra un altrettanto formidabile pericolo di perdere capacità di interrogarsi sugli eventi e di percepirne la drammaticità. Compito della scuola è, esattamente, tener vive le domande e costruire intelligenze capaci di farlo.

  • Qualche riflessione sulla “Questione Armena” a cento anni dal Genocidio

    Autore: Mario Spagnoletti

     

    Fatti storici e giuridici

    Con il riassetto politico-diplomatico consegnato nel Trattato di Losanna firmato tra la Turchia e le Potenze dell’Intesa nel luglio del 1923, il conseguente rafforzamento della nuova e indipendente Repubblica di Turchia e l’esaurirsi della vendetta armena contro i principali responsabili del genocidio riparati all’estero, sull’intera vicenda dello sterminio del popolo armeno calò - come è noto- una pesante coltre di silenzio destinata a protrarsi per decenni. Solo con la crescente attenzione germinata nel secondo dopoguerra nei confronti della Endlösung, pianificata dalla Germania nazista contro il popolo ebraico, il caso armeno ritornerà all’attenzione della pubblica opinione e della storiografia, qualificandosi come il primo esempio storico di “genocidio” sulla base dei parametri fattuali e giuridici stabiliti nella Risoluzione delle Nazioni Unite n. 96 del 1946 e nella successiva Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1948.

    A leggere, sia pur frettolosamente, l’articolo II di detta Convenzione, che qualifica appunto il genocidio come “crimine di diritto internazionale” e lo identifica con “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale” mediante una serie di condotte tipiche e tipizzate (uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica e mentale di membri del gruppo; sottoposizione deliberata del gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica totale o parziale; misure miranti a impedire le nascite all’interno del gruppo; trasferimento forzato di bambini da un gruppo ad un altro), è difficile negare che nel caso dei massacri generalizzati del popolo armeno non ricorrano tutte o quasi tutte le fattispecie incriminatrici sopra elencate. Il lungo silenzio, che ha avvolto una delle tragedie più orribili della storia contemporanea (il numero complessivo delle vittime resta ancora indeterminato, nonostante gli studi succedutisi, e comunque oscilla tra un minimo 800.000 e un massimo di 1.500.000) era il prodotto di una rimozione collettiva che trovava la propria ragion d’essere nella difficile gestione di una tale eredità da parte del governo kemalista impegnato a costruire l’identità della neonata Repubblica.

     

    Il corto circuito fra storia e memoria

    Tra memoria e storia si venne, pertanto, a creare - come acutamente ha sottolineato Marcello Flores - un corto circuito in cui uso pubblico della memoria e uso politico della storia si intrecciarono proprio quando più opportuno sarebbe stato separarle. In questo “tentativo collettivo di dimenticare” da parte del popolo turco, la “rimozione” assume un significato ed uno scopo densi e specifici, che Taner Akcamsi sforza così di precisare: “evitare le conseguenze, emotive o morali causate dai ricordi dei massacri armeni [...] Tuttavia questa storia è anche percepita come oltraggio e umiliazione, dovuti in larga misura alle continua sconfitte militari, perdite di territori. In altre parole il desiderio di dimenticare la storia non deriva unicamente dai sensi di colpa”. Quello degli armeni è dunque un caso altamente emblematico: un popolo ha subito il primo genocidio del XX secolo ad opera del governo dei Giovani Turchi e la Turchia, ancor oggi, continua a proclamare la propria innocenza storica, compiendo un vero e proprio “assassinio della memoria”: “la politica dello Stato turco sul genocidio armeno – argomenta Antonia Arslan - è di negazione, mentre l’atteggiamento della società è di distacco”.

    E’ appena il caso di rammentare, peraltro, che al presente ogni pubblica discussione sulle violenze contro gli armeni è considerata un reato, utilizzando l’ampia fattispecie incriminatrice prevista dal pur solo cosmeticamente novellato Codice Penale Turco (2008), il cui art: 301 recita: “Una persona che insulta pubblicamente la nazione turca, lo Stato della Repubblica di Turchia, la Grande Assemblea nazionale della Turchia, il governo della Repubblica di Turchia o i corpi giudiziari dello Stato, è punita con la reclusione a sei mesi a due anni. Una persona che insulta pubblicamente le organizzazioni militari o di sicurezza dello Stato è condannata alla pena prevista dal primo comma. Le manifestazioni di pensiero a scopo di critica non costituiscono reato.Le indagini per questo reato sono soggette all’autorizzazione del Ministero di giustizia.” Si possono comprendere, in questa prospettiva, gli ingranaggi del negazionismo turco, incernierati su di una triplice argomentazione ben schematizzata da Yves Ternon: il rovesciamento delle responsabilità, con l’accusa agli armeni di essere stati sempre infidi; il rigetto di ogni intenzionalità del progetto e della pianificazione dello sterminio; la falsificazione del numero della popolazione armena residente nell’Impero Ottomano, che risulta significativamente sottocensita.

    I negazionisti hanno lavorato e lavorano trascurando molteplici testimonianze essenziali, mettendo in dubbio le testimonianze dirette perché inficiate dal soggettivismo e costruendo addirittura false fonti. Meraviglia, perciò, che anche uno storico statunitense come Guenter Lewy si lasci fuorviare dalla vulgata ufficiale turca, negando l’autenticità della maggior parte delle fonti storiche (rendiconti diplomatici, testimonianze di politici, racconti dei superstiti, documentazione fotografica) sulla base della ingenua metodologia rankiana dello “es wie eigentlich gewesen” e giungendo a depotenziare il genocidio in una serie di non pianificati “massacri”.

     

    Una storia ancora contemporanea

    La verità è che le tre radici ideologiche alla base di quella vera e propria operazione di pulizia etnica che portò alla scomparsa del popolo armeno sono vive ancor oggi, a cento anni di distanza, intrecciandosi e potenziandosi reciprocamente, sicché a giusta ragione Levi della Torre poteva annotare nel 2003: “Il pensiero unico è un’idea falsa che non si accorda con il concetto di civiltà. [...] Il negazionismo della Turchia è un ritorno al passato tragico che in visione unica tende a riproporsi”. Di qui la necessità “eticamente forte” di una rivisitazione complessiva della cultura, dell’identità e della tragedia del popolo armeno che rappresentano un nodo forte ed inestricabile nella coscienza democratica dell’Europa contemporanea, ancora attraversata da correnti di “pensiero unico” e da intollerabili rigurgiti di etno-centrismo. D’altra parte, in quell’aureo volumetto che raccoglie le Sei lezioni sulla storia, Edward Carr ci aveva lucidamente ammonito a meditare su un fatto incontrovertibile: “Il passato è comprensibile solo alla luce del presente, e possiamo unicamente comprendere il presente alla luce del passato”.

    Risiede proprio qui la perdurante necessità di un’analisi a tutto campo della “questione armena”, delle sue drammatiche scansioni, della sua infinitamente tragica contabilità, dell’annientamento fisico di un popolo ma non della sua identità e cultura, del suo inerire profondamente all’infezione ultra-nazionalista che attraversò l’Europa nel primo Novecento, della sua paradigmaticità anche per gli anni successivi, per l’olocausto del popolo ebraico e per il nostro inquietante presente. Resta permanente valido per la questione armena e per i tanti massacri indifferenziati e le pulizie etniche dei giorni nostri, quel dolente e inquietante interrogativo proposto dal regista Atom Egoyan nel suo film Ararat: “ Ragazzo mio qual è la causa ancor oggi di tutto questo dolore? Non è aver perso delle persone care o la nostra terra... E’ la consapevolezza di poter essere odiati così tanto. Che razza di umanità è che ci odia fino a questo punto e con che coraggio insiste nel negare il suo odio, finendo così per farci ancora più male?”.

     

    Bibliografia

    Marcello FLORES. Il genocidio degli Armeni, Bologna, Il Mulino, 2007

    Taner AKCAM, Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’Impero Ottomano alla Repubblica, Milano, Guerini e Associati, 2006

    Antonia ARSLAN, Hushèr. Voci italiane di sopravvissuti armeni, Guerini e Associati, Milano, 2001

    Yves TERNON, Dunegationisme. Mémoire et tabou, Paris. Desclée de Brouwer, 1999

    Guenter LEWY, Il massacro degli Armeni. Un genocidio controverso, Torino, Einaudi, 2008

    Eduard CARR, Sei lezioni sulla storia, Torino, Einaudi, 1966

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