contemporanea

  • Il Sessantotto. Un laboratorio su un anno spartiacque (parte seconda)

    di Antonio Brusa

    Nove laboratori sulla contestualizzazione storica*

    &nbsp

    A. IL LABORATORIO DELLA CONTESTUALIZZAZIONE

    In questo gruppo di laboratori inserisco quelle attività che mirano ad analizzare il fatto storico “Sessantotto”. Sono laboratori che vorrei definire “top-down”. Vanno dall’insegnante all’allievo in un percorso abbastanza tradizionale. L’insegnante prepara i materiali (lezioni, schemi) e pone agli allievi delle questioni da risolvere.

    Il campo di indagine è quello della contestualizzazione storica. Lo organizzo in due parti. La prima si occupa della complessità. Comprende cinque attività che, a partire da un modello storiografico, cercheranno di collegare l’“evento Sessantotto” a un contesto più ampio. La seconda si occupa del tempo, con quattro proposte, attraverso le quali questo evento verrà inserito in contesti temporali diversi. Questo articolo, quindi, andrebbe inteso come una sorta di antologia dalla quale un insegnante può prelevare l’attività che pensa più utile alla sua classe. A questa antologia ne seguirà una seconda, in un prossimo intervento su HL, dedicata a un tipo di laboratorio diverso (e forse più consueto fra gli insegnanti esperti), cioè il laboratorio con i documenti. Si tratta di progetti che riguardano la secondaria superiore. Per quella inferiore andranno adattati. In ogni caso, questi progetti vanno considerati dei “semilavorati”, che il docente dovrà completare, con consegne o scalette di conversazione più dettagliate, con riferimenti al manuale, eventuali altri materiali.

    Ma torniamo ai laboratori sulla contestualizzazione dell’“evento Sessantotto”. Braudel scriveva che un evento assomiglia a un vulcano dal quale si sprigionano tutti i tempi della storia. Ciò vale, in particolare, quando l’evento è talmente pesante da “dividere i tempi”. “Un evento spartiacque”, si è detto del Sessantotto. Difatti, è esattamente a metà strada fra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine della Guerra fredda. Questa espressione, usata da James Chapman, è stata ripresa da Marcello Flores e Giovanni Gozzini nel loro 1968. Un anno spartiacque (Il Mulino 2018, d’ora in poi FG: qui è possibile leggerlo), uno studio dal quale ricavo i materiali per questi laboratori.

    Da questo punto di vista, questo lavoro vorrebbe (anche) suggerire agli insegnanti un metodo di lettura dei testi storici forse diverso dal solito. Un insegnante legge un libro di storia con la segreta speranza di poterlo raccontare in classe, magari trovare qualche spunto oppure, nell’insegnamento superiore, per inserirlo in un contesto critico. Si potrebbe, secondo me, aggiungere a queste modalità di lettura senz’altro meritorie, quelle del “libro-palestra-per-pensare”. Un buon libro di storia, per me, è esattamente come una palestra, all’interno della quale si trovano macchine per fare esercizi di tipo diverso. Quindi lo leggo non solo per trovare fatti o problemi da poter raccontare; ma anche per trovare meccanismi da smontare e rimontare, con i quali giocare e inventare esercizi: cose che, fuori di metafora, non sono altro che idee, ragionamenti e storie.

    B. IL LABORATORIO DELLA COMPLESSITÀ

    b1.Un modello complesso

    Chapman utilizzava il termine watershed/spartiacque discutendo il “libro più innovativo sul Sessantotto”: 1968. The World Transformed (a cura di Carole Fink, Philipp Gassert e Detlef Junker, N.Y., Cambridge University Press, 1998). Lo utilizzo per costruire una parte del modello per lo studio di quel periodo.

    Nella loro Introduzione (pp. 1-30), Fink, Gassert e Junker espongono gli elementi fondamentali di un modello basato sul fatto che le rivolte del Sessantotto furono mondiali. Quindi inseriscono i movimenti giovanili in un quadro contrassegnato da una doppia crisi planetaria, politica ed economica.

    Modello per lo studio del Sessantotto

    La prima – la crisi politica - si era manifestata in due eventi: l’offensiva del Tet (gennaio-marzo 1968), scatenata dalle truppe nord vietnamite e dai viet-cong contro gli Usa, nella quale questi ultimi, pur vincendo militarmente, avevano capito che avrebbero perso una guerra, per la prima volta nel corso del XX secolo. A questo smacco occidentale faceva da contraltare, nel mondo comunista, la Primavera di Praga (gennaio-agosto 1968) che, in modo analogo, opponeva alla vittoria militare dell’Urss la sua evidente sconfitta sul piano del consenso fra i cittadini del Patto di Varsavia. La seconda - la crisi economica - era iniziata dopo la Guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967), che aveva messo in dubbio la facilità con la quale, fino ad allora, l’Occidente si era approvvigionato di petrolio, e si era ingigantita a causa della crisi economica americana, che allora fu giudicata “la peggiore dalla Grande Depressione”.

    Queste due crisi indebolirono strutturalmente il blocco Est/Ovest, in particolare – per ciò che riguarda questo lavoro - dal punto di vista della capacità degli Usa e dell’Urss di esercitare il controllo sulle popolazioni, e dunque sui manifestanti. Questa debolezza si manifestò su due livelli. Quello ideologico, dell’attrattività dei sistemi capitalisti e comunisti quali modelli di vita; e quello del controllo sociale, che, di fatto, consentì una relativa tolleranza nei confronti di manifestazioni, che in tempi precedenti si sarebbero ostacolate con più efficacia. Mettendo insieme a questi elementi le questioni relative ai giovani (viste nella prima parte di questo lavoro, già pubblicata su HL), otteniamo questo modello per lo studio del Sessantotto. Si compone di due parti. Quella “soggettiva”, riguardante gli studenti (con i caratteri in blu), e quella “oggettiva”, riguardante la situazione mondiale (caratteri in nero).

    b2. Come si lavora con un modello

    a. Chiamerei la prima attività “Mettere le parole”. Uno schema (o come ormai è d’uso nelle scuole, una “mappa concettuale”) viene solitamente impiegato alla fine di un percorso di studi, come sintesi. Resta lì, quasi la foto degli apprendimenti realizzati. In realtà, se noi chiediamo agli allievi di verbalizzare lo schema, ne troveremo non pochi in difficoltà. Per prevenirla, suggerirei di far leggere loro questi brevi brani, tratti dal libro di Flores e Gozzini, per cercare in quali caselle dello schema andrebbero inseriti, e per spiegare come un certo elemento dello schema influisce sugli altri (quindi, riempiendo gli spazi con i punti interrogativi).

    I mass media sono il primo fattore del modello, il secondo è la fase nuova che gli eventi del 1968 aprono nella guerra fredda, il terzo è la “rete informale di comunicazione e collaborazione” che lega fra loro gli attivisti di ogni parte del mondo e infine la quarta è il collante ideologico che tiene insieme questi ultimi. Perché i protagonisti credevano in una causa comune. Lottarono in opposizione allo status quo interno e internazionale a Est e Ovest, a Nord e a Sud, in appoggio alla libertà, alla giustizia e alla autoderminazione (FG, p. 33).

    Il tempo della guerra fredda è un tempo “artificialmente” globalizzato dalle necessità di controllo delle due superpotenze. Questa storicamente inedita forma della politica internazionale stabilisce il quadro di riferimento unitario entro cui gli studenti si muovono. E li predispone di fatto al contagio, all’imitazione, alla risonanza, in qualsiasi continente si trovino (Ibidem).

    La simultaneità globale del Sessantotto si spiega con fattori soggettivi (accesso di massa alle università) ma anche con fattori oggettivi (il prepotente potere di Usa e Urss insieme ai segni della loro crisi in Vietnam e Cecoslovacchia) (Ibidem).

    I media rappresentano una condizione indispensabile per la trasformazione delle agitazioni locali. Senza di loro, queste non avrebbero risonanza e il loro esempio non potrebbe diffondersi. Di più: i media, trasmettendo motivi e forme delle agitazioni, contribuiscono a dare nuovi significati ai contesti e a trasformare le identità personali e collettive (FG, p. 17).

    b. Chiamerei una seconda attività “Arricchire il modello”. Questo modello non spiega tutto, come – del resto - qualsiasi modello scientifico. Il suo scopo è quello di mettere a fuoco un elemento fondamentale del Sessantotto: il fatto che fu una rivolta globale e simultanea. Bene: all’inizio della prima parte di questo articolo (qui su HL), si riportano i temi della rivolta, quali furono propagandati nei manifesti dei giovani parigini:

    • La lotta contro l’autorità
    • Per una informazione alternativa e contro la censura
    • A sostegno della classe operaia
    • Contro il conformismo

    Possiamo integrarli nel modello? Quali caselle, quali connessioni nuove dobbiamo immaginare? Il modello mette in relazione gli aspetti soggettivi della rivolta (in blu) con quelli oggettivi (in nero). Possiamo fare in modo che questo modello rappresenti e spieghi meglio gli aspetti soggettivi? Oppure il modello deve essere radicalmente cambiato, e ne dobbiamo immaginare uno nuovo?

    Per quanto riguarda gli aspetti soggettivi, non si può non ricordare che tra i portati fondamentali del Sessantotto vi sono la rivoluzione sessuale e la nascita del femminismo attuale (se ne parlerà in seguito). Flores e Gozzini ne danno ampie notizie (pp. 36-40). Quali modifiche ci suggerisce, quindi, la storia di genere?

    c. Una terza attività potrebbe essere “Mettere le date”. Un modello astrae dai fatti tendenze e problemi. Per questo, normalmente, non ha delle date. Ma possiamo introdurle. La crisi politica, per esempio, si riferisce alla guerra del Vietnam e alla Primavera di Praga (e a tanti altri eventi). Chiediamo agli allievi di cercarli sul manuale e di inserirli nello schema usando gli opportuni grafismi.

    Questa ricerca porta a interrogarci sull’insieme dei fatti che sono collegabili al nostro modello (quando scoppia la Guerra del Vietnam e per quali motivi? quando i media diventano globali? Quando e perché si forma una Boom Generation? Per quali motivi scoppia la crisi economica del 1968? C’entra in questa Bretton Wood? E così via). Alla fine, avrete bisogno di un poster abbastanza grande e complicato, nel quale potrete sintetizzare buona parte della storia dopo il ’45.

    d. Regionalizzare il modello. Il Sessantotto, per quanto globale e simultaneo, fu diverso nei singoli paesi. Questo suggerisce altre modifiche al modello, in modo da rappresentare:

    • La situazione italiana e francese nella quale avvenne una saldatura fra movimento studentesco e movimento operaio. Per quali motivi questa si verificò? E in che modo la possiamo integrare nel modello? (per questo punto e il successivo possono bastare le notizie riportate in un buon manuale).
    • La situazione dell’Europa Orientale. Qui, l’obiettivo principale dei giovani è quello della critica al modello comunista e la liberazione dal dominio dell’Urss.
    • La situazione Medio-orientale. La medesima rivolta prende quattro direzioni diverse. In Egitto è, da una parte, al Nakba (la Catastrofe): il desiderio di rivincita dopo la sconfitta nella Guerra dei Sei giorni, un movimento laico, socialisteggiante e modernizzante; dall’altra è la diffusione dei Fratelli Musulmani, uno dei primi movimenti fondamentalisti musulmani. In Palestina è Karameh (Dignità), dal nome di un paesino i cui abitanti risposero con le armi all’invasione israeliana. Da questo movimento nasce Al Fatah, il gruppo del quale Yasser Arafat divenne leader. In Israele fu un movimento di sostegno alla guerra dei Sei giorni, da parte di tanti giovani che si riconoscevano in Moshe Dayan, ministro della difesa (per informazioni più particolareggiate su questo punto: FG, pp. 91-98).

    e. Valutare l’evento. “Spartiacque” è un termine metaforico. Indica che quell’evento fa in modo che il tempo successivo sia diverso da quello precedente. Ma quanto sono profondi questi cambiamenti? Autorizzano, per esempio, a pensare che ci fu una rivoluzione? Occorre fare attenzione quando usiamo questo concetto, dal momento che è cambiato parecchio dai tempi di Robespierre e di Marx. Secondo Jack Goldstone, ci stiamo avviando verso una “quarta generazione di teorie rivoluzionarie”, nella quale gli studiosi preferiscono una definizione molto più estesa di quella ottocentesca. Possiamo discutere in classe, perciò, se il “Sessantotto” (i cui protagonisti agli occhi dei classici probabilmente non avrebbero passato l’esame del buon rivoluzionario) vi sia compreso, e cioè se sia un complesso di movimenti nel quale troviamo:

    • Delle spinte a cambiare il regime politico, basate su visioni antagonistiche di un ordine giusto.
    • Un notevole livello di mobilitazione di massa, formale o informale.
    • Delle spinte a forzare il cambiamento attraverso azioni non istituzionalizzate, come dimostrazioni di massa, proteste, scioperi o violenze.

    (FG, p. 35. Dall’originale J.A. Goldstone, Toward a Fourth Generation of Revolutionary theory, in «Annual Review of Political Science», 2001, p. 141 ss. si ricaveranno altri argomenti per una discussione epistemologico-storiografica).

    f. Raccontare l’evento. Questa non è un’attività separata, ma va considerata una conclusione, direi obbligata, di ciascuna delle attività descritte sopra (le quali, lo ricordo ancora, sono a scelta del docente). Il racconto, infatti, è lo strumento principale della memorizzazione. Serve per “racchiudere” il percorso svolto in un testo che abbia un senso e che, in un certo modo, ti puoi portare via. Occorre, quindi, trasformare la mappa dei concetti, che rappresenta in sincrono la complessità di un evento, in una sequenza nella quale i vari elementi dello schema siano disposti uno dopo l’altro. Possiamo seguire una strategia cronologica o una logica. Nel primo caso, estraiamo dallo schema i fatti, li datiamo (se il caso, approssimativamente) e poi li disponiamo su un cronogramma, che funzionerà da scaletta per il testo. Nel secondo, assegniamo un numero ad ogni elemento dello schema, partendo dal punto che giudichiamo più adatto, e costruiamo il racconto basandoci sulla sequenza numerica.

    C. IL LABORATORIO DEL TEMPO

    c1. Anche il tempo storico è complesso

    La critica che si oppone a questo genere di modelli è che non curano un aspetto particolarmente caro agli storici: il tempo. In effetti, occorrerebbe mettere in moto la complessità rappresentata, osservare come si è formata, quali erano gli antecedenti e quali gli sviluppi successivi. Anche in questo caso, Braudel aveva ragione, quando ci ha spiegato che una “società nel tempo” è, in realtà, un insieme di parti che mutano e, man mano, interagiscono fra di loro. Un intrico mobile che mette in seria difficoltà le nostre capacità di comprensione. Come sempre in didattica (ma non solo), dobbiamo semplificare. Prendiamo il modello base di analisi di un evento e applichiamolo al Sessantotto.

    Modello generale di un evento

    Ogni evento è frutto di un complesso di antecedenti che assumono una certa configurazione nel tempo x nel quale si verifica. Per rappresentare questo processo, collochiamo lungo l’asse temporale alcuni aspetti sui quali il Sessantotto incide in maniera molto evidente. Scelgo, sempre dal lavoro di Flores e Gozzini, tre aspetti:

    • la questione del terrorismo
    • la questione femminile
    • il problema dei diritti umani

    Sull’asse verticale, invece, segniamo quegli aspetti “spaziali” che riguardano lo scenario mondiale alla fine degli anni ’60: la globalizzazione, i mass media, la decolonizzazione e l’indebolimento dei blocchi, perché caratterizzano il Sessantotto come momento globale e simultaneo di rivolte giovanili. L’ideale sarebbe studiare come i fattori temporali coevolvono e, a un certo momento, reagiscono con quelli spaziali. La semplificazione didattica ci consiglia di prendere un fattore per volta, e vedere che rapporto ha con il Sessantotto. La scoperta finale sarà che, ogni volta che cambiamo i fattori, cambieranno anche tempi e periodizzazione.

    c2. Il tempo del terrorismo

    Siamo abituati ad una periodizzazione del terrorismo riferita allo spazio nazionale, accostato semmai a quello tedesco. In questo spazio ristretto, il Sessantotto diventa il punto di origine di una sequenza mortifera che ha insanguinato la nazione e che aveva come un unico precedente, non sempre ricordato, gli attentati separatisti dell’Alto Adige. Se allarghiamo lo sguardo, invece, vediamo che il terrorismo non è affatto una realtà originale italiana, ma ha una lunga storia internazionale alla quale il fenomeno italiano si collega. Ecco il cronogramma.

    Cronogramma del terrorismo

    Questa cronologia allontana il rischio di far coincidere l’immagine del Sessantotto italiano con quella del terrorismo e, per estensione, ci salvaguarda dallo stereotipo di un’altra “specificità italiana”, quegli “anni di piombo” che oscurano la più profonda stagione di riforme che la Repubblica abbia conosciuto. Ecco, dunque, i quattro cicli di terrorismo, quali li riconosciamo nell’età contemporanea, con le parole di Flores e Gozzini.

    Il primo ciclo è quello “anarchico” che, soprattutto nell’Europa dell’Ottocento e del primo Novecento prende a bersaglio uomini rappresentanti delle istituzioni e raggiunge il proprio acme nel 1914 a Sarajevo.

    Il secondo è quello “anticoloniale” che va dall’insurrezione irlandese del 1916 fino alla “battaglia di Algeri” del 1962.

    Il terzo è quello “della nuova sinistra” che negli anni Sessanta si collega alla guerriglia in Vietnam e in America Latina per diffondersi in Europa occidentale, America, Medio Oriente e Giappone.

    Il quarto è quello “religioso” che si apre con la rivoluzione iraniana del 1979, colpisce in Afghanistan, Medio Oriente, India, Algeria, Stati Uniti e Giappone negli anni Novanta per poi estendersi su scala globale negli anni Duemila (FG, p. 231)

    c3. Come si lavora con un cronogramma

    Succede che i cronogrammi patiscano la stessa sventura didattica delle mappe concettuali. Si fanno alla fine, come sintesi di ciò che si è studiato. Invece andrebbero considerati strutture mobili, che crescono e si modificano man mano che si studia. Nei cronogrammi che qui presento ci sono alcuni eventi. Nel manuale, come in altri testi, ce ne saranno altri che vi possono trovare posto. Nei rettangoli sotto la cronologia ho posto i “nomi” delle periodizzazioni. Non li farei vedere agli allievi, ma porrei il problema. Posto che il Sessantotto è un evento spartiacque, come chiamare il periodo precedente e come quello successivo? “Dare nome al tempo”, cioè “periodizzare”, è una delle operazioni più interessanti che la storia ci permette. Lanciamo la sfida. Chi trova il nome più adatto. Poi, discutiamo i nomi proposti: si vedrà che ognuno di questi implica una certa lettura del periodo.

    Confrontiamo i cronogrammi. Quello che abbiamo prodotto nel laboratorio con gli altri riportati sotto, anche se non sono stati studiati. Mettiamolo a confronto, anche, con la timeline di storia generale, eventualmente presentata dal manuale. Quali relazioni intravvediamo? Riusciamo a spiegarle?

    Infine, utilizziamo il cronogramma come base per un racconto. Mettiamo in evidenza gli eventi più importanti, quelli che andranno sottolineati. Teniamo presente che il testo deve anche far risaltare il ruolo del Sessantotto. Poi raccontiamo. Basta un testo breve, purché contenga i riferimenti precisi al cronogramma. La sintassi ci rivelerà il grado di maturazione degli allievi: chi troverà connessioni complesse e cercherà di spiegarle; chi, invece, non saprà andare oltre il “e poi”.

    c4. Il tempo delle donne

    Anche la storia contemporanea delle donne è divisa in quattro periodi. Ma qui il Sessantotto gioca un ruolo chiaramente fondamentale. Costituisce, infatti, il momento di passaggio fra la fase “evolutiva” e quella “rivoluzionaria” di questa storia. È Claudia Goldin che ha elaborato questa cronologia, nella quale la prima fase, che inizia alla fine del XIX secolo, vede giovani donne impegnate in lavori generalmente di bassa qualità, che devono però abbandonare una volta sposate. La Prima guerra mondiale genera la spinta verso la seconda fase, che inizia intorno agli anni venti, nella quale il lavoro diventa più facile per le donne. Quelle che hanno studiato possono accedere anche a posti di lavoro intellettuale, ma per tutte il momento del matrimonio coincide con il ritiro dalla vita produttiva. La Seconda guerra mondiale favorisce l’avvento di una terza fase, “di transizione”, con le donne che possono studiare, ritardare l’età del matrimonio, accedere a lavori più interessanti mentre comincia a perdere di forza il vincolo della gravidanza: molte, infatti, possono continuare a lavorare anche dopo il matrimonio.

    Cronogramma della storia delle donne

    Claudia Goldin definisce “evolutive” queste tre fasi perché – per quanto si noti un lento e continuo miglioramento - non comportano cambiamenti fondamentali nell’orizzonte di vita delle donne, nel loro senso di identità e nella capacità di controllare il proprio destino. Ma, giusto alla fine di questa terza fase, troviamo un momento che Goldin definisce di “rivoluzione rumorosa”. Esso è legato alle battaglie per i diritti civili, all’uso della pillola, alla rivoluzione sessuale. È, finalmente, il Sessantotto. Questo, in modo analogo alle guerre mondiali, introduce la fase attuale della storia delle donne, quella della “rivoluzione silenziosa”, nella quale masse di donne, pacificamente, si diffondono nella società, occupandone posti che, nei tempi precedenti, erano stati loro interdetti (FG, pp. 40-41; Claudia Goldin, The Quiet Revolution that transformed Women’s employment, Education and Family, 2006).

    c5. Il tempo dei diritti

    Quando il 10 dicembre del 1948 fu proclamata la Dichiarazione Universale dei Diritti umani, questa, “più che l’annuncio della nuova era, fu una corona funebre posta sulla tomba della guerra”. Con questa battuta pessimistica inizia L’ultima utopia, il libro che Samuel Moyn ha dedicato alla storia dei diritti umani (The Last Utopia, The Belknap Press of Harvard University Press Cambridge, Massachusetts and London, England 2010). Tuttavia, a quasi settant’anni di distanza, non possiamo negare che nel mondo è diffusa la convinzione che “agli esseri umani spetti di godere dei diritti umani” (FG 142). A dispetto dello scetticismo di Moyn, dunque, questa “utopia” ha avuto successo: in particolare dopo il 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, che inaugurò una stagione nella quale molti sperarono che, finalmente, non ci sarebbero stati più ostacoli nell’applicazione di quella Dichiarazione. Oggi i diritti umani si sono imposti come cultura universale, soprattutto nel confronto con le nuove guerre e i genocidi (FG, p. 120 s).

    Qui ci chiediamo se il Sessantotto abbia giocato un ruolo in questa vicenda e se sia stato un ruolo di “spartiacque”. E’ una questione controversa. Ma proprio questa difficoltà può dar luogo a un interessante laboratorio di discussione (l’argomento è spiegato dettagliatamente in un lungo capitolo di FG, pp. 127-145).

    Alcuni studiosi, come Moyn, sostengono che il Sessantotto non ha inciso nella storia dei diritti umani. Di parere diverso altri, come Flores e Gozzini. Al centro della contesa c’è la questione della decolonizzazione. Infatti, i nuovi stati indipendenti si erano distinti – in particolare negli anni ’60 – nella battaglia per il riconoscimento dei diritti umani. Secondo Moyn, però, fu una battaglia viziata dall’antioccidentalismo. Per quegli stati i diritti umani non erano altro che il proprio diritto di combattere contro il colonialismo.

    L’editto di Ciro il Grande, conservato al British Museum

    La Conferenza di Teheran, tenutasi nell’aprile-maggio del 1968, è significativa. Fu inaugurata dallo Shah Reza Pahlevi (non certo un campione dell’umanità) il quale iniziò il suo discorso ricordando l’editto di Ciro il Grande del 539 a.C, suo supposto antenato, considerato spesso il primo editto di tolleranza; ma poi mise ben in chiaro che lo scopo di quella riunione era di rinsaldare i legami e le attività anti-occidentali fra i paesi del Terzo mondo (con l’Urss spettatrice interessata). Quindi, conclude Moyn, il vero decennio dei diritti umani fu quello successivo, con la Conferenza di Helsinki del 1975. E, in ogni caso, fu a Vienna, nel 1993, a venticinque anni di distanza dalla convention di Teheran, che si svolse la prima conferenza delle Nazioni Unite sui Diritti umani.

    Flores e Gozzini non sono d’accordo sul giudizio di “insincerità” espresso nei confronti dell’azione dei paesi del Terzo mondo. Si basano sul lavoro di Steven Jensen, The Making of International Human Rights: The 1960s. Decolonization, and the Reconstruction of Global Values (Cambridge, Cambridge University Press, 2016. Qui Phillipp Kandler ce ne propone una recensione critica esauriente). Secondo Jensen, sono proprio i paesi decolonizzati che spingono per l’accettazione dei Diritti umani. Questi, infatti, sono figli di culture extra-europee (orientali o africane) che preferiscono al guadagno e alla sopraffazione i valori della vita comunitaria, dell’equilibrio e della pace. Ne consegue, prosegue Jensen, che il Sessantotto – nato in un ambiente universitario occidentale - non ebbe nulla a che vedere con i Diritti umani, argomento che non era nella cima dei pensieri dei giovani in rivolta.

    Ma su questo punto il disaccordo con Flores e Gozzini è totale. Ricordano che gli anni ’60 hanno visto il fiorire di manifestazioni contro il razzismo, il machismo, a favore dell’ambiente e per i diritti umani economici. Lo stesso antiautoritarismo, una delle costanti del movimento studentesco, fu un motore nella lotta a favore dei diritti umani, dal momento che i principali conculcatori di questi diritti erano proprio gli stati. E proprio il 1968 fu proclamato dalle Nazioni Unite il primo “Anno internazionale dei diritti umani” (Marcello Flores è autore di opere fondamentali su questo argomento. Qui ne possiamo ascoltare una sintesi.

    Cronogramma dei diritti umani

    c6. Costruire timeline

    Ci sono ancora cinque argomenti, nel nostro libro-palestra: l’Islam, la finanza, il lavoro, il digitale, la cultura. Di ciascuno di questi si può tracciare un cronogramma e interrogarsi sul ruolo del Sessantotto: se fu marginale o “spartiacque”. Si tratta di leggere selettivamente il testo. Sottolineare le date. Cercare quelle parti dove si parla di periodizzazione e, infine, elaborare una timeline. Qui ho usato un programma elementare (Frisechrono). Ma ce ne sono molti che permettono soluzioni più ricche e spettacolari. In ogni caso, sarebbe un buon esercizio di lettura/palestra per gli insegnanti. Se, poi, si riesce a elaborare una timeline che, in linea di principio, sia facilmente riproducibile da un allievo, allora la si proponga loro come esercitazione. Nel caso di una classe estremamente competente, poi, si assegneranno i capitoli a gruppi diversi con il compito di costruire una timeline e spiegarla ai colleghi.

    D. SUGGERIMENTI PER IL LAVORO

    d1. Il ruolo della lezione

    Nel loro insieme queste proposte disegnano un quadro abbastanza completo della vicenda storica. Prese singolarmente ne forniranno solo un pezzettino: ma questo è il destino obbligato per qualsiasi laboratorio che contempli un minimo di attività autonoma da parte degli allievi. Tutto ciò vuol dire che il compito di fornire un quadro generale e complessivo spetta al docente, attraverso la sua lezione. Questo fino a che i discenti non saranno in grado di costruire con una certa autonomia una visione generale di un determinato problema. Giunti a questo livello potrebbero intavolare con i loro professori un dialogo formativo: ma si tratterà di un momento di lavoro scolastico sofisticato, da escludere, a mio modo di vedere, nel segmento di scolarità al quale è diretto questo insieme di laboratori.

    In questo lavoro prevedo due tipi di lezione. La lezione introduttiva, molto breve (non si dovrebbe andare oltre i 15 minuti). Questa dà agli allievi qualche notizia del campo nel quale si lavorerà e cerca di motivarli. Per prepararla, il docente potrà usare come scaletta il modello di Sessantotto che qui ho presentato, mentre dalla prima parte dell’articolo ricaverà spunti narrativi e immagini.

    Il secondo tipo di lezione è quella conclusiva, al termine dell’attività laboratoriale. Più lunga, intorno ai trenta minuti, darà al docente la possibilità di fornire un quadro completo della vicenda, mostrando come i diversi elementi studiati si interrelano fra di loro, tenendo conto, al tempo stesso, dei problemi e degli interessi e delle difficoltà emerse nel corso del lavoro.

    d2. Un modello di unità di lavoro

    L’unità di lavoro, quindi, inizia con la messa a punto del quadro generale, fatta nella lezione introduttiva. A questo punto, il docente prende la prima decisione: lavorare sulla complessità o sul tempo? Sceglie il laboratorio che gli sembra più adatto. Per questo motivo ho disposto i laboratori in una scala latamente progressiva. Per esempio, l’attività sul terrorismo è più agevole di quella sui diritti umani, che richiede letture, comprensione di testi e capacità di discutere, mentre l’ultima attività libera è decisamente riservata a classi competenti.

    I lavori, tutti, prevedono sempre un ricorso ai testi. Infatti, i modelli e le cronologie sono degli strumenti per interrogare i testi, per leggerli selettivamente e cercare le notizie che di volta in volta sono necessarie. Qui ho riportato dei brani molto brevi: saranno sufficienti per un lavoro rapido. Per un lavoro più lungo e intenso, si daranno agli allievi le parti indicate del libro. Laddove possibile (come a volte ho indicato) si faccia ricorso al manuale.

    Terminata la fase della ricerca e del completamento del modello o del cronogramma, si passa alla fase della narrazione. Qui ho descritto brevemente come ricavare un racconto da uno schema (sopra, il punto f). Per il cronogramma è più facile. Basta seguire la linea del tempo, come abbiamo già visto. Per renderla più complicata (e in connessione con l’insegnamento della lingua), si proporranno delle varianti: fai una narrazione a ritroso, partendo dall’oggi; fai una narrazione ad anello, centrata sul Sessantotto. Questa parte del modulo potrà essere svolta a casa, individualmente (anche nel caso del lavoro di gruppo).

    Infatti, posto che questo lavoro si svolge in classe con le modalità di una lezione partecipata, si suggerisce anche la formula del lavoro a gruppi, soprattutto se si dispone di una classe competente. Per quanto riguarda il lavoro sulla complessità, l’insegnante mostra come si lavora su uno schema. Sviluppa questo esempio sul caso più difficile, lasciando agli allievi i casi più facili. Di seguito, assegna ad ogni gruppo uno schema. Per quanto riguarda il lavoro sul tempo, invece, dal momento che gli esempi che ho presentato sono tre, ne adopera uno per mostrare agli allievi “come si fa”, poi divide la classe in due (o quattro) gruppi, assegnando a questi i due cronogrammi rimanenti. Si è già detto che, nel caso di una classe molto competente, si assegnerà il lavoro “libero” sui capitoli del testo che qui non sono stati trattati.

    Il modulo di lavoro termina con la lezione frontale del docente, nel quale questi, tenendo conto dei lavori dei ragazzi, del livello di comprensione che questi hanno rivelato e dei problemi emersi, espone agli allievi la sua ricostruzione del periodo.

    Qui sopra il diagramma operativo. Suggerisco di progettare un modulo di due ore. Nella prima si apre con la lezione introduttiva e si lavora con lo schema (o con la cronologia). Si assegna il compito da svolgere a casa. Nella seconda, si continua a lavorare o si discute e, nell’ultima mezz’ora, si eroga la lezione conclusiva.

     


     

    * La prima parte “L’evento e la memoria” è stata già pubblicata su HL. La terza parte e la postilla conclusiva verranno pubblicate a breve.

  • Immagini e guerre contemporanee. Stereotipi, rimozioni e chance

    Il 13, 14 e 15 maggio a Milano, crociera Alta di Giurisprudenza, si parlerà di "Immagini e guerre contemporanee. Stereotipi, rimozioni e chance". Il convegno è organizzato in collaborazione dal Dipartimento di filosofia dell'Università di Milano e l'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia (INSMLI)

     

    Quila locandina del programma

  • Insegnare la storia del mondo contemporaneo

    di Daniele Boschi

    Atomiche su Hiroshima e Nagasaki1. Le nuvole a forma di fungo causate dal lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Non è raro che i programmi di storia svolti nel quinto anno del Liceo si fermino alla fine della Seconda guerra mondiale e all’immediato dopoguerra.

    Sono passati più di quattro anni dall’appello che Cesare Grazioli rivolse ai docenti di storia delle scuole secondarie superiori affinché insegnassero la storia degli ultimi cento anni. Grazioli osservava che, vent’anni dopo l’emanazione del decreto Berlinguer, non era raro imbattersi in classi che arrivavano agli esami di Stato con programmi di storia che non andavano oltre la fine della Seconda guerra mondiale. Proprio a partire dalla constatazione che gran parte degli insegnanti non riesce ad inserire nel curricolo lo studio strutturato degli ultimi decenni, è nata l’iniziativa che ha portato alla creazione del Laboratorio del tempo presente e della rete LabSto21. Il Laboratorio e la rete mirano a promuovere un nuovo e diverso modo di affrontare la storia del ‘900 e degli inizi del nostro secolo, nel contesto di un generale ripensamento della struttura del curricolo, dalle scuole elementari alle superiori. Questo articolo vuole fornire un ulteriore contributo a questo itinerario di innovazione didattica, che coinvolge scuole e università. Mi riferirò esclusivamente all’insegnamento della storia nell’ultimo anno dei Licei, sia perché ho sempre insegnato nei Licei, sia perché tra le Indicazioni nazionali per i percorsi liceali e le Linee guida per gli Istituti tecnici e professionali vi sono notevoli differenze1.

    Lo svolgimento dei programmi di storia nell’ultimo anno dei Licei

    Qual è attualmente l’articolazione dei programmi di storia effettivamente svolti nell’ultimo anno dei Licei? L’esame di un piccolo campione dei documenti che i Consigli di classe preparano per le classi quinte in vista degli esami di Stato2 suggerisce che, anche se le classi che si fermano alla Seconda guerra mondiale rappresentano probabilmente un caso limite, gran parte delle energie e dell’attenzione dei docenti e degli studenti, nell’ultimo anno dei Licei, continuano ad essere focalizzati sulla storia della prima metà del ‘900, cosicché la storia davvero “contemporanea” – quella che comincia dagli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso - viene spesso trattata in modo superficiale e affrettato nelle ultime settimane dell’anno scolastico, oppure non viene trattata affatto.

      NUMERO DELLE CLASSI
    INDIRIZZOPrima metà dell'800Seconda metà dell'800Inizi del '900TOTALE CLASSI
    Classico 5 6 11
    Scientifico 1 16 12 29
    Linguistico 3 3 2 8
    Scienze umane 2 2 2 6
    Musicale 1 0 0 1
    TOTALE 7 26 22 55
    TABELLA 1
    Punto di partenza dei programmi di storia svolti nelle classi quinte di alcuni Licei romani nell’anno scolastico 2018-19

    Vale la pena analizzare più in dettaglio i dati del campione esaminato. Anzitutto, come si vede dalla Tabella 1, in gran parte delle classi il lavoro dell’ultimo anno non prende avvio dagli inizi del ‘900, come previsto dalle Indicazioni nazionali, ma dalla seconda metà dell’800, o addirittura dalla prima metà di questo secolo. C’è quindi, in molti casi, un “ritardo” che si verifica negli anni scolastici precedenti. Per studiarne i motivi bisognerebbe naturalmente esaminare i programmi di storia svolti nel primo e nel secondo biennio dei Licei, ma questo esula dalla ricerca che ho svolto. È interessante però notare che questo ritardo è presente, sebbene in minor misura, anche nel Liceo Classico, per il quale il piano di studi ministeriale prevede tre ore di lezione a settimana, sia nel secondo biennio che nell’ultimo anno, e non due ore soltanto come in tutti gli altri Licei.

    Per quanto riguarda invece il punto d’arrivo dei programmi, la Tabella 2 mostra che nella maggior parte dei casi non si va oltre gli anni Sessanta del ‘900. Soltanto 12 classi su 55 risultano essere arrivate agli anni Ottanta e al crollo del comunismo nei paesi dell’Europa orientale e nell’Urss, e 4 soltanto si sono spinte ancora oltre.

      NUMERO DELLE CLASSI
    INDIRIZZOFine della 2a guerra mondiale-
    immediato dopoguerra3
    Anni ‘50 del ‘900Anni ’60 del ‘900Anni ’70 del ‘900Anni ’80 del ‘900-
    inizio degli anni ’904
    Anni ’90 del ‘900 e oltre5
    Classico 0 2 3 0 4 2
    Scientifico 4 5 8 4 6 2
    Linguistico 6 0 0 1 1 0
    Scienze umane 4 0 1 0 1 0
    Musicale 1 0 0 0 0 0
    TOTALE 15 7 12 5 12 4
    TABELLA 2
    Punto di arrivo dei programmi di storia svolti nelle classi quinte di alcuni Licei romani nell’anno scolastico 2018-20196

    A ciò si deve aggiungere il fatto che, a prescindere dal “punto di arrivo” dei programmi, la storia della seconda metà del ‘900 viene spesso trattata in modo frammentario, lacunoso o molto sintetico nell’ultimissima parte dell’anno scolastico, a volte addirittura dopo il 15 maggio. Per esempio, il fatto che in alcune classi si arrivi a parlare dell’ultima fase della guerra fredda e della caduta del muro di Berlino non vuol dire affatto che siano stati trattati altri argomenti relativi alla storia degli anni Settanta e Ottanta del ‘900.

    A questo proposito è un indicatore significativo, a mio avviso, il rapporto tra il numero delle unità didattiche o moduli dedicati alla seconda metà del ‘900 e il loro numero complessivo. Come risulta dalla Tabella 3, ben 20 delle 40 classi che hanno trattato argomenti della seconda metà del ‘900 hanno dedicato ad essi meno di un quinto delle unità didattiche complessive; e soltanto 9 classi hanno dedicato alla seconda metà del ‘900 almeno un terzo del programma. Nessuna classe ha riservato alla seconda metà del ‘900 la metà (o più) delle unità didattiche, fatta eccezione per una classe di Liceo Linguistico che ha seguito il piano di studi EsaBac, che prevede un programma di storia maggiormente orientato verso la contemporaneità.

      NUMERO DELLE CLASSI
    INDIRIZZONessuna unitàMeno di 1/5Tra 1/5 e 1/3Tra 1/3 e la metàLa metà o piùTOTALE CLASSI
    Classico 0 5 4 2 0 11
    Scientifico 4 13 6 6 0 29
    Linguistico 6 0 1 0 1 8
    Scienze umane 4 2 0 0 0 6
    Musicale 1 0 0 0 0 1
    TOTALE 15 20 11 8 1 55
    TABELLA 3
    Distribuzione delle classi a seconda del numero di unità didattiche o moduli dedicati alla seconda metà del '900 (rispetto al numero complessivo delle unità)

    Anche se il campione esaminato non può avere ovviamente, per la sua esiguità, alcun valore statistico rispetto alla totalità dei Licei italiani, ritengo tuttavia che esso indichi una situazione abbastanza diffusa di “ritardo” e di affanno nello svolgimento dei programmi di storia.

    Questa situazione, a mio avviso, non nasce tanto da inerzia o pigrizia intellettuale, quanto da difficoltà oggettive che dipendono da problemi connaturati alla struttura stessa del sistema su cui è imperniato l’insegnamento della storia nel triennio dei Licei.

    Tali difficoltà dipendono in primo luogo dalla sproporzione esistente tra la quantità di argomenti previsti come obbligatori nelle Indicazioni nazionali e il monte ore annuo destinato all’insegnamento della storia; in secondo luogo dalla struttura, a maglie molto strette, dei manuali in uso nei Licei; in terzo luogo, da una prassi didattica ormai consolidata, prevalentemente incardinata sull’uso di quei manuali e da essi fortemente condizionata.

    Il monte ore annuo

    mMnifestazione di operai e studenti nel 19682. Una manifestazione di operai e studenti nel 1968. Quanti studenti italiani a scuola imparano qualcosa sul ’68?

    Come è noto il monte ore annuo di storia negli ultimi tre anni dei Licei, con la sola eccezione del Liceo Classico, è di 66 ore. Prenderò per semplicità come riferimento la situazione dei Licei diversi dal Classico, sia perché hanno – nel loro insieme - un numero molto maggiore di iscritti, sia perché buona parte delle mie riflessioni potranno poi essere facilmente applicate, con piccole modifiche dei parametri quantitativi, anche ai piani di lavoro dei Licei classici. Cominciamo col dire che le 66 ore previste dal piano di studi ministeriale sono puramente teoriche. Come sanno tutti i docenti, molte delle ore ad essi spettanti in base al curricolo nazionale sono di fatto destinate ad altre attività previste dalla normativa scolastica – come le assemblee di classe o di istituto – o deliberate dagli organi collegiali: uscite didattiche, viaggi di istruzione, conferenze, interventi di esperti, ecc. Altre ore vengono sottratte da scioperi, occupazioni, autogestioni. Il monte ore annuo effettivo – nei Licei diversi dal Classico - è dunque alquanto più basso delle 66 ore previste dalle Indicazioni nazionali. In base alla mia personale esperienza ritengo che una stima ragionevole sarebbe di 56 ore.

    Le verifiche

    Occorre anche tenere presente che, di queste 56 ore, una parte consistente viene naturalmente dedicata alle verifiche. Immaginiamo una situazione standard in cui il docente di storia scelga di fare due giri di interrogazioni orali, uno nel primo quadrimestre e uno nel secondo, e due prove scritte di un’ora ciascuna, una per ciascuno dei due periodi dell’anno scolastico. Immaginiamo anche una classe standard di 24 studenti. Se stimiamo che in un’ora quel docente interrogherà in media tre studenti, occorreranno ben 16 ore per effettuare i due giri di interrogazioni orali. Considerando poi che le due prove scritte vanno anche riconsegnate e discusse con gli studenti e questo porta via in genere un’altra ora di lezione per ciascuna prova, si arriverà a un totale di 20 ore necessarie nell’arco dell’anno per effettuare tutte le verifiche. Sottraendo questa cifra al monte ore annuo effettivo di 56 ore, si ottengono 36 ore disponibili per le lezioni vere e proprie.

    Che cosa prescrivono le Indicazioni nazionali per il quinto anno dei Licei

    Immaginiamo ora, per semplicità di analisi, che i contenuti prescritti come irrinunciabili dalle Indicazioni nazionali per il terzo e il quarto anno siano stati effettivamente trattati nei tempi previsti e che quindi l’insegnamento della storia nel quinto anno del Liceo abbia inizio dal principio del ‘9007.

    Qual è l’estensione dei contenuti che devono essere svolti obbligatoriamente in queste 36 ore nel quinto anno?

    Le Indicazioni Nazionali per i Licei ci dicono che “nella costruzione dei percorsi didattici non potranno essere tralasciati i seguenti nuclei tematici”:

    1. l’inizio della società di massa in Occidente;
    2. l’età giolittiana;
    3. la prima guerra mondiale;
    4. la rivoluzione russa e l’URSS da Lenin a Stalin;
    5. la crisi del dopoguerra;
    6. il fascismo;
    7. la crisi del ‘29 e le sue conseguenze negli Stati Uniti e nel mondo;
    8. il nazismo;
    9. la shoah e gli altri genocidi del XX secolo;
    10. la seconda guerra mondiale;
    11. l’Italia dal Fascismo alla Resistenza e le tappe di costruzione della democrazia repubblicana.

    Si aggiunge poi che “il quadro storico del secondo Novecento dovrà costruirsi attorno a tre linee fondamentali”:

    1. dalla “guerra fredda” alle svolte di fine Novecento:
      1. l’ONU,
      2. la questione tedesca,
      3. i due blocchi,
      4. l’età di Kruscev e Kennedy,
      5. il crollo del sistema sovietico,
      6. il processo di formazione dell’Unione Europea,
      7. i processi di globalizzazione,
      8. la rivoluzione informatica,
      9. le nuove conflittualità del mondo globale;
    2. la decolonizzazione e la lotta per lo sviluppo in Asia, Africa e America latina:
      1. la nascita dello stato d’ Israele e la questione palestinese,
      2. il movimento dei non-allineati,
      3. la rinascita della Cina e dell’India come potenze mondiali;
    3. la storia d’Italia nel secondo dopoguerra:
      1. la ricostruzione,
      2. il boom economico,
      3. le riforme degli anni Sessanta e Settanta,
      4. il terrorismo,
      5. Tangentopoli e la crisi del sistema politico all’inizio degli anni ‘90.

    È bene precisare che queste indicazioni valgono per tutti i Licei, indipendentemente dal loro indirizzo. In sintesi, esse prescrivono come obbligatori ben 11 nuclei tematici relativi alla storia della prima metà del Novecento e altri tre percorsi relativi alla seconda metà del secolo scorso, a loro volta articolati in ben 17 argomenti, alcuni dei quali (il crollo del sistema sovietico, il processo di formazione dell’Unione Europea, la globalizzazione, la nascita di Israele e la questione palestinese, Tangentopoli e la crisi del sistema politico italiano negli anni ‘90) sono talmente ampi e complessi da rappresentare in realtà altrettanti nuclei tematici a sé stanti. Accorpando tra loro, per quanto possibile, alcuni degli argomenti relativi al secondo Novecento, se ne potrebbero ricavare non meno di 11 nuclei tematici8, da aggiungere agli undici precedenti. I nuclei tematici sarebbero perciò in totale almeno 229.

    Una evidente sproporzione

    La caduta del muro di Berlino3. La caduta del muro di Berlino (novembre 1989). Il crollo del comunismo nei paesi dell’Europa orientale e nell’Urss è un elemento indispensabile alla comprensione del mondo di oggi.

    Avendo a disposizione per trattarli circa 36 ore di lezione effettive, noi dovremmo trattare ciascuno di essi in un’ora-due ore al massimo.

    Tralascio completamente, per ora, la questione dell’educazione civica perché al momento non è chiaro in quale misura se ne dovranno occupare i docenti di storia. È evidente comunque che l’obbligo di dedicare formalmente alcune ore di storia all’educazione civica (o di cederle ai colleghi di diritto) per un verso non fa che aggravare la situazione che sto illustrando, mentre, per un altro verso, potrebbe facilitare lo studio degli sviluppi storici del mondo contemporaneo. Infatti alcune delle tematiche indicate dalla legge che istituisce “l’insegnamento trasversale dell’educazione civica”, come ad esempio la Costituzione italiana e le istituzioni dello Stato italiano e dell'Unione europea, sono anche conoscenze storiche e concorrono indubbiamente ad una migliore comprensione del mondo contemporaneo.

    I manuali scolastici

    La difficoltà di affrontare in modo adeguato una gamma così ampia di contenuti in poche ore è accentuata inoltre dalle caratteristiche dei manuali in uso nei Licei, che in genere trattano tutti gli argomenti previsti dalle Indicazioni nazionali in modo assai analitico e uniforme. Di conseguenza è assai difficile per il docente trattare un argomento – poniamo la Prima guerra mondiale o il regime fascista – senza assegnare allo studente la lettura e lo studio di un cospicuo numero di pagine10.

    La prassi didattica

    L’attacco alle Torri Gemelle4. L’attacco alle Torri Gemelle (11 settembre 2001). Un evento di fondamentale importanza<br> nella storia degli anni Duemila.

    È comunque una prassi assai diffusa e radicata nei Licei quella di trattare tutti i principali argomenti relativi alla storia della prima metà del ‘900 in modo abbastanza analitico e omogeneo secondo un canone ormai consolidato, non di rado aggiungendo alla tradizionale lezione frontale anche la lettura e l’analisi di alcuni documenti.

    È quindi a causa di questo complesso insieme di fattori che la maggior parte dei docenti dei Licei conclude i programmi del quinto anno arrivando al massimo a trattare alcuni argomenti relativi agli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900.

    Perché non si può omettere di trattare la storia contemporanea

    Questo modo di procedere, sebbene da una parte possa apparire giustificato dall’incoerenza, o dalla scarsa chiarezza (come vedremo più avanti), delle Indicazioni Nazionali, dall’altra parte è, a mio avviso, assai insoddisfacente e criticabile, per molte ragioni, tra le quali la principale è, secondo me, la seguente: se lo studio della storia, a livello scolastico (ma non solo), ha tra le sue finalità principali e non eludibili la comprensione del presente, non è assurdo che a scuola ci si soffermi (relativamente) così a lungo sulla storia antica, medioevale e moderna, e non si tratti per nulla (o quasi per nulla) la storia contemporanea? Dove per storia contemporanea si dovrebbe ormai intendere quella che va dagli anni Sessanta-Settanta fino a oggi, perché non ha alcun senso considerare come nostri contemporanei gli uomini vissuti all’epoca della prima guerra mondiale o durante il ventennio fascista; non tanto per il tempo trascorso, quanto per le enormi, profonde trasformazioni politiche, economiche, sociali e culturali sopravvenute negli ultimi cinquanta-sessant’anni.

    Lo studio della storia veramente contemporanea è poi fondamentale ai fini dell’educazione alla cittadinanza, o educazione civica, come ora dovremmo tornare a chiamarla dopo l’approvazione della legge 20 agosto 2019. Lo studio della storia contemporanea è già, in se stesso, una forma di educazione civica. Inoltre, quale disciplina, se non la storia, può aiutare a inquadrare in una adeguata prospettiva storica temi e problemi dell’educazione civica, come quelli connessi all’intelaiatura costituzionale e legislativa del nostro Stato, dell’Unione Europea e degli organismi internazionali?

    Che cosa dicono effettivamente le Indicazioni Nazionali

    Le Indicazioni Nazionali, a onore del vero, non dicono che si devono trattare in modo approfondito i nuclei tematici sopra elencati, ma solo che non si possono “tralasciare”. Questa espressione ambigua può essere variamente interpretata, ma a me sembra del tutto legittimo interpretarla anche in questo modo: gli studenti alla fine del quinto anno non possono non sapere nulla della prima guerra mondiale, della rivoluzione russa, del fascismo, ecc., mentre potrebbero non conoscere affatto eventi particolari come, ad esempio, la battaglia della Somme, la NEP o il delitto Matteotti. Gli studenti devono sapere qualcosa riguardo ai temi indicati come imprescindibili, ma sta poi alla singola scuola e/o al singolo docente stabilire quale debba essere il grado di approfondimento di ciascun tema e se, oltre ai temi indicati, sia opportuno trattarne anche altri; e, soprattutto, spetta ai docenti fornire agli studenti le griglie e gli strumenti interpretativi che, a partire dagli eventi del passato, aiutino a comprendere il presente, mostrando agli studenti in modo concreto e attraverso esempi significativi in che modo questa operazione può avvenire.

    Un pregiudizio cronologico-storicistico

    Mi pare inoltre che la prassi didattica in uso nei Licei derivi anche da un pregiudizio di origine storicistica, ovvero dalla radicata convinzione che solo dopo aver studiato a fondo una determinata epoca storica si possa comprendere quella successiva. Questa convinzione non è, ovviamente, priva di fondamento. Infatti, non c’è dubbio che uno studente che non sapesse assolutamente nulla del fascismo, della rivoluzione russa e della seconda guerra mondiale, avrebbe difficoltà a comprendere la guerra fredda. Ma può benissimo comprenderla anche se non ha studiato, o non ricorda bene, la legge Acerbo, la notte dei lunghi coltelli o la battaglia delle isole Midway. Inoltre alcune preconoscenze indispensabili allo studio di un determinato argomento possono essere fornite, o richiamate, quando si introduce quell’argomento o mentre lo si svolge.

    Come risolvere il problema: anzitutto dividere in tre periodi gli ultimi cento anni

    Shanghai5. Shanghai, città simbolo del boom economico cinese degli ultimi decenni. La rinascita della Cina e dell’India come potenze mondiali è uno degli argomenti prescritti come obbligatori nelle Indicazioni nazionali per i Licei.

    Fatte queste premesse, a me pare che sia possibile e opportuno dare maggiore spazio alla storia degli ultimi cinquanta - sessant’anni. A mio avviso si potrebbe procedere in questo modo. Occorre anzitutto dividere il monte ore annuo effettivo in modo da destinare più o meno lo stesso numero di ore ai tre principali periodi in cui larga parte della storiografia suddivide la storia del Novecento e del primo ventennio del nostro secolo11. Nelle parole di Cesare Grazioli «nella storia degli ultimi cent’anni ci sono state tre epoche distinte:

    1. il trentennio compreso tra le due guerre mondiali, che fu anche l’epoca del colonialismo, della Grande Depressione e dei totalitarismi;
    2. il trentennio post-bellico, fino ai primi anni ’70: quello della prima guerra fredda, della decolonizzazione e della “bomba demografica”, della “età dell’oro” per l’Occidente e del sistema di Bretton Woods;
    3. l’epoca attuale, cioè il mondo globalizzato, i cui tratti divennero ben visibili negli anni ’80 e alla cui formazione contribuirono fatti e processi diversi, distribuiti tra i primi anni ’70 e i primi ’90: la fine di Bretton Woods e le crisi petrolifere, le rivoluzioni tecnologiche della Silicon Valley, la deregulation, la finanziarizzazione e la delocalizzazione dell’economia, le “Quattro modernizzazioni” di Deng Xiaoping in Cina (e poi quelle indiane) e l’implosione del mondo sovietico, l’Unione europea …».12

    Considerando però che i primi due nuclei concettuali previsti dalle Indicazioni nazionali (l’inizio della società di massa in Occidente; l’età giolittiana) non rientrano nella storia degli ultimi cento anni e che essi posso essere trattati in modo abbastanza rapido all’inizio dell’anno scolastico, il monte ore annuo effettivo potrebbe essere suddiviso in questo modo:

    1. l’inizio della società di massa, l’età giolittiana: 3 ore;
    2. il periodo 1914-45: 11 ore;
    3. il periodo 1945-73: 11 ore;
    4. il periodo 1973-tempo presente: 11 ore.

    In pratica, questo equivale a dire che l’articolazione del piano di lavoro del docente nell’arco dell’anno dovrebbe essere più o meno la seguente:

    • settembre-dicembre: periodo 1900-1945;
    • gennaio-febbraio: periodo 1945-73;
    • marzo-aprile: periodo 1973-tempo presente (dando per scontato che il mese di maggio sarà dedicato prevalentemente alle verifiche di fine anno e al ripasso in vista degli esami).

    Se il piano di lavoro del docente avesse fin dall’inizio questi vincoli, e ad essi ci si attenesse in modo abbastanza rigoroso, vi sarebbero buone probabilità di poter offrire alla propria classe una soddisfacente ed equilibrata visione d’insieme della storia degli ultimi cento anni.

    Due (o tre) strategie possibili

    Naturalmente il problema è come riuscire a trattare in modo adeguato e significativo in poco tempo una mole di contenuti di per se stessi assai ampi, complessi e problematici. A mio avviso le strategie possibili, in linea teorica, sono due (o al massimo tre).

    La prima strategia

    Nulla vieta di svolgere un piano di lavoro, impostato come sopra si è detto, in modo abbastanza tradizionale, con lezioni frontali accompagnate da approfondimenti che gli studenti svolgerebbero in modo autonomo, a casa, utilizzando prevalentemente il libro di testo. Se le pagine del libro di testo sono troppe, è possibile saltarne alcune parti, o meglio ancora ricorrere per alcuni argomenti alle sintesi proposte alla fine di ogni capitolo o unità didattica, oppure a testi sintetici prodotti dal docente stesso. Se a questo lavoro aggiungessimo la lettura di qualche ulteriore testo di approfondimento, alla fine dell’anno scolastico avremmo probabilmente fornito agli studenti le conoscenze indispensabili per affrontare l’esame di Stato e per orientarsi in modo abbastanza adeguato rispetto alle problematiche e alle prospettive del mondo attuale.

    La seconda strategia

    Se però volessimo sviluppare in modo più specifico e più sostanziale le abilità e le competenze legate all’acquisizione e all’utilizzo delle conoscenze storiche, potremmo anche seguire un approccio alternativo. Potremmo infatti, da un lato, trattare in modo estremamente sintetico tutti i nuclei tematici prescritti dalle Indicazioni Nazionali, e dall’altro lato approfondire - per ciascuno dei tre periodi principali sopra indicati - due o tre argomenti al massimo. Andremmo quindi a trattare in modo approfondito da sei a nove argomenti l’anno. Gli approfondimenti potrebbero comprendere attività laboratoriali, studio di fonti e documenti storici, visione di documentari, discussioni su problemi storiografici o legati all’attualità. Nei limiti del possibile, questi moduli di approfondimento dovrebbero essere organizzati in modo da dare spazio a ricerche autonome degli studenti, da svolgere sul libro di testo o eventualmente su altri materiali indicati o predisposti dal docente.

    Lo scopo di questo tipo di attività sarebbe naturalmente quello di indurre gli studenti a fare qualcosa di diverso dalla pura e semplice memorizzazione ed esposizione orale o scritta dei contenuti proposti dal libro di testo o dal docente. Gli studenti dovrebbero essere sollecitati a ragionare in modo autonomo sulle cose che leggono, creando collegamenti tra i fatti del passato e i problemi o i dibattiti attuali. Dovrebbero insomma essere educati a “pensare storicamente”.

    Ogni docente potrebbe scegliere e impostare i propri approfondimenti in totale autonomia, oppure in collaborazione col proprio Consiglio di classe, o con altri colleghi della stessa materia.

    Una strategia intermedia

    Nulla vieta naturalmente di seguire una strada intermedia tra le due che ho proposto come alternative, ad esempio inserendo una sola attività di approfondimento in ciascuno dei tre moduli di undici ore. Qualunque altra combinazione potrebbe andar bene se pensata dal docente all’interno di un piano di lavoro dotato di organicità e coerenza.

    Conclusione

    Il modello che propongo è estremamente aperto e flessibile. L’unico suo punto fermo è la divisione in tre porzioni uguali della parte del monte ore annuo dedicata agli ultimi cento anni, in modo tale che sia trattata adeguatamente anche la storia dell’ultima parte del Novecento e degli inizi del nostro secolo.

    Il principale ostacolo alla realizzazione di questo approccio sta nella difficoltà di progettare in anticipo un piano di lavoro alternativo a quello tradizionale e nella necessità di reperire o produrre materiali didattici diversi da quelli proposti dal libro di testo (specialmente se si adotta la seconda strategia o quella intermedia). Oltre alla collaborazione tra docenti, le suggestioni, i materiali, i percorsi didattici offerti dalle moltissime pubblicazioni, riviste e siti di didattica della storia fornirebbero senz’altro un valido supporto: a cominciare naturalmente dal contributo offerto da “Historia ludens” e dalla rete di scopo LabSto21. E non trascurerei il fatto che, come tutte le ricerche dimostrano, la storia contemporanea suscita di per se stessa maggiore interesse – e quindi anche maggiore collaborazione e partecipazione - da parte degli studenti. Varrebbe la pena almeno di provare …

    NOTE

    1. Infatti, mentre le Indicazioni Nazionali riguardanti gli Obiettivi Specifici di Apprendimento per i Licei indicano, e scandiscono cronologicamente, una serie di eventi e argomenti canonici della storia del Novecento da trattare obbligatoriamente, nulla di simile avviene nelle Linee Guida per il passaggio al nuovo ordinamento degli Istituti Tecnici e Professionali, nelle quali si invitano i docenti a trattare la storia del Novecento con un approccio tematico del tutto svincolato dalla successione cronologica dei principali fatti storici (si vedano gli allegati al testo delle due Direttive emanate dal MIUR in data 16 gennaio 2012, rispettivamente per gli Istituti Tecnici e per gli Istituti Professionali).

    2. Ho esaminato i Documenti di presentazione delle classi quinte alle Commissioni d’esame per l’anno scolastico 2018-19 di sei diversi Licei romani per un totale di 55 classi, appartenenti a diversi indirizzi (classico, scientifico, linguistico, scienze umane, musicale).

    3. Per non complicare eccessivamente la presentazione dei dati, ho inserito in questa colonna anche due classi che si sono fermate al ventennio fascista, senza trattare la seconda guerra mondiale.

    4. Fino alla dissoluzione dell’Urss nel 1991.

    5. Dal 1992 in avanti.

    6. I dati della Tabella 2 si riferiscono agli argomenti trattati, in sequenza cronologica, nei programmi di storia. Non sono stati presi in considerazione gli argomenti trattati sotto la voce “Cittadinanza e costituzione”, sia perché facenti parte di un percorso che si aggiunge e si affianca a quello più propriamente storico e non è sempre affidato al docente di storia, sia perché in ogni caso tali argomenti non si possono agevolmente inserire nello schema proposto nella Tabella 2. È evidente infatti che l’aver trattato, ad esempio, le istituzioni dell’Unione Europea nell’ambito di “Cittadinanza e costituzione” non significa necessariamente che la classe è arrivata col suo programma di storia alla fine del ‘900.

    7. In realtà questa situazione ottimale, come abbiamo già visto, in parecchi casi non si verifica. Nel campione da me esaminato, oltre la metà delle classi (33 su 55) sono partite dalla prima o dalla seconda metà dell’800 piuttosto che dagli inizi del ‘900 (vedi la Tabella 1).

    8. Si potrebbero infatti accorpare tra loro gli argomenti alle lettere a-b, c-d, h-i del primo percorso, gli argomenti b-c del secondo percorso, e gli argomenti a-b, c-d del terzo percorso.

    9. Anzi probabilmente sarebbero anche di più, perché non si capisce come si possa affrontare un tema complesso e importante come quello della decolonizzazione facendo riferimento soltanto alla nascita di Israele, alla questione palestinese e al movimento dei non-allineati, senza trattare l’argomento anche in termini generali e senza menzionare affatto vicende come la conquista dell’indipendenza da parte dell’India, del Vietnam, o dell’Algeria. La stessa cosa si potrebbe dire riguardo alla “lotta per lo sviluppo in Asia, Africa e America latina” che non riguarda soltanto l’India e la Cina.

    10. Sui manuali recenti si vedano gli articoli ad hoc pubblicati in Pensare storicamente. Didattica, laboratori e formazione, a cura di Salvatore Adorno, Luigi Ambrosi e Margherita Angelini, Franco Angeli, 2020.

    11 Sono molti ormai gli studi storici che insistono sull’importanza degli anni Settanta-Ottanta del Novecento come momento di svolta fondamentale nella storia contemporanea. Oltre che nel Secolo breve di Eric Hobsbawm, questa linea di pensiero è presente anche in Tommaso Detti-Giovanni Gozzini, L’età del disordine. Storia del mondo attuale. 1968-2017, Bari-Roma, Laterza, 2018; Fulvio Cammarano – Giulia Guazzaloca – Maria Serena Piretti, Storia contemporanea. Dal XIX al XXI secolo, Milano, Mondadori, 2015; Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani, 2014 (ed. orig.: Le capital au XXIesiècle, Editions du Seuil, 2013).

     

    12. Questa suddivisione è abbastanza simile a quella proposta recentemente da Antonio Brusa, che però è inserita in una più generale rimodulazione del curricolo delle scuole superiori e prevede un quarto modulo dedicato al tempo presente.

    Fonti fotografie

    Foto 1   Foto 2   Foto 3   Foto 4   Foto 5

  • L'Atlas global

    Si può rappresentare tutto con le carte: la felicità, la bellezza, i paesi spazzatura, il sovrappeso. E, naturalmente, i fatti politici, economici, demografici. Per chi ha problemi di geostoria, ecco lo strumento ideale, curato da Christian Grataloup, che gli insegnanti italiani hanno imparato ad apprezzare al convegno su storia e intercultura di Senigallia, e del quale possono leggere il bell'articolo su Novecento.org. l'Atlante globale è scritto da un'équipe di ricercatori di storia e di geografia e si avvale della collaborazione dei disegnatori di carte di Le monde e di Alexandre Nicholas, autore de Le dessus de Cartes (HL)

  • L’Immaginario della Shoah e della guerra

    Autore: Claudio Monopoli

    Continua il percorso inaugurato tre anni fa dall'Università di Bari sulla storia e la didattica della Shoah. L'insegnamento e la formazione attraverso un'equilibrata strategia didattica e fuori da ogni distorsione retorica e demagogica, sono gli obiettivi che lo hanno accompagnato fin dall’inizio. Il tema di quest’anno è stato L'immaginario della Shoah e della guerra (17 e 18 ottobre 2014). Se è vero che la nostra epoca è definibile "età delle immagini", è altrettanto vero che i metodi di comunicazione e di didattica storica sono obbligati ad affrontare questo argomento.

     

    Gli aspetti teorici

    Introducendo i lavori, Francesca R. Recchia Luciani ha esaminato il problema dell'effettiva rappresentabilità della Shoah. La cultura oggettivo-visuale e artistica ha fatto spesso ricorso a strategie di trasmissione e riproduzione di sentimenti e stati d'animo, con l'obiettivo di permettere un "transfer" emotivo nell’osservatore. Una volta aperta l'epoca "del trauma senza trauma" (D. Giglioli), la pratica della riproduzione della sofferenza, tuttavia, ha richiesto l’uso di immagini sempre più forti e spettacolari per far fronte alla perdita degli effetti emozionali che la loro estrema diffusione ha provocato, rendendo non scontato il processo di empatia. In un simile contesto, per non smettere di comprendere il dramma della sofferenza, di Auschwitz, non è più l'immagine in sé ad aiutarci, ma l'immaginazione che, richiamandosi alle nostre esperienze corporali, permette la condivisione partendo dalla constatazione della comune appartenenza al genere umano.

    Nel campo della didattica e della formazione, spesso non è facile trattare adeguatamente i temi "violenti" della storia. Ma è anche vero che non si possono escluderli dal curriculum. Partendo da questa necessità, Antonio Brusa ha proposto l’istituzione di un “laboratorio del tempo presente”. Muovendo dalle "questioni sensibili", ovvero dagli eventi angoscianti odierni, l'insegnante può sempre aprire delle "finestre didattiche" sul mondo contemporaneo. E’ fondamentale non abbandonare tali questioni alle commemorazioni e alle celebrazioni, oppure riservare loro unicamente gli ultimi istanti della programmazione. Il progetto di Laboratorio del tempo presente ha dunque l'obiettivo di costruire capacità e metodi di analisi su tematiche che attraversano l’intero racconto storico (immigrazione, malattie, guerra, ecc.) e di saggiare le capacità dei ragazzi nell’interpretarle. Il racconto scolastico, perciò, deve guardarsi dalle eccessive semplificazioni; si deve aprire al dibattito. Nel caso della guerra, deve accogliere le diverse “configurazioni” di questo evento: dall'alto, dal basso e quella culturalista (Prost e Winter). Dal canto loro, anche le immagini rischiano continuamente la banalizzazione. A questa si oppone il metodo storico: chiedersi i contesti nei quali l’immagine è prodotta, gli scopi dell’autore, i mezzi di produzione dell’immagine e, infine, la sua circolazione e il pubblico dei suoi fruitori. Questo vale tanto per un bassorilievo assiro, come per le foto delle atrocità naziste.

    Offrendo la sua preziosa testimonianza, Pino Bruno, reporter di guerra dal 1990 al 1994, ha illustrato come vengono realizzate le immagini di guerra e quali fattori influiscono sulla sua divulgazione. La stessa figura del giornalista di guerra di oggi, non più soldato come nel periodo antecedente alla guerra in Vietnam, implica una selezione all'origine dell’immagine. Un giornalista embedded, al seguito dell'esercito è obbligato a riprendere solo determinate scene, mentre i giornalisti “liberi” sono costretti a riprendere immagini lontano dalle zone di guerra. Non solo: diversi programmi di elaborazione grafica intervengono oggi sull'immagine finale, destinata alla diffusione, con la finalità di evidenziare o eliminare determinati elementi, a volte trasformando il senso complessivo dell'immagine.


    Il lavoro pratico

    I lavori della prima giornata hanno compreso un secondo blocco tematico, inaugurato dall'intervento di Elena Musci, sul tema della visita come proposta didattica. Il luogo storico si presenta come un insieme di dati materiali e simbolici in grado di richiamare eventi o figure. E’ una fonte stratificata nel tempo e "muta" se non vengono create le condizioni necessarie metterla in relazione con gli eventi passati. Per possedere le chiavi di comprensione di un luogo storico, è pertanto necessario raccontare questi raccordi e lavorare con le fonti. La visita didattica, supportata anche da mezzi digitali, può essere impostata interattivamente. Nello specifico, la Casa Rossa di Alberobello, meta della seconda giornata del corso, si presta ad un accurato lavoro di decostruzione, proprio a causa delle diverse funzioni che essa ha ricoperto a partire dal 1887.

    La Casa Rossa di Alberobello non è l'unico luogo utilizzato in Puglia come campo di concentramento. Nel suo intervento, Sergio Chiaffaratta ha illustrato questo aspetto di storia pugliese. Proprio all'indomani della guerra in Libia del 1911, circa quattromila libici vennero trasferiti nelle colonie penitenziarie delle Isole Tremiti, Gaeta, Ustica, Ponza, Caserta e Favignana. Anche durante la Grande Guerra, che aveva trasformato l’Adriatico in un fronte di battaglia, vennero istituiti numerosi campi di concentramento per i prigionieri austro-ungarici in diverse zone della Puglia e della Basilicata. Con l'emanazione delle leggi fasciste del 1926, molti dei luoghi già utilizzati nelle guerre citate furono impiegati come luoghi di confino, come ad esempio le isole Tremiti, che ospitarono diversi prigionieri omosessuali. Un altro importante passo è rappresentato delle leggi razziali del '38, che spinsero molti cittadini ebrei ad imbarcarsi dal porto di Brindisi verso la Palestina; e nel 1940 (fino al 1943) vennero istituiti numerosissimi campi di concentramento in tutt'Italia e in Puglia Fra questi: i campi di Pisticci (primo campo di concentramento italiano), Ferramonti di Tarsia, Isole Tremiti, Manfredonia, Gioia del Colle, ed ovviamente la casa Rossa di Alberobello. Con la liberazione di Bari del 1943, infine, vennero istituiti numerosi campi profughi e di transito, convertendo anche i vecchi campi di prigionia, come ad esempio i campi di Torre Tresca, Altamura e Santa Maria al Bagno.

    I lavori della prima giornata si sono conclusi con l'intervento di Raffaele Pellegrino, sul tema della Musica al servizio del Terzo Reich. Il singolare esempio preso in analisi è stato quello del campo di Terezin, situato a 60 km da Praga. In questo campo si realizzò il progetto nazista di creare un'immagine di fittizia del campo, presentato come fucina artistica e culturale. Internando musicisti ed esponenti del mondo culturale ebraico, i nazisti hanno mascherato gli orrori del campo di concentramento. La musica, inoltre, fu utilizzata nel sistema di potere del Terzo Reich come strumento di propaganda, filtrata dai nazisti attraverso la censura, i quali innalzavano a loro vessillo opere di autori da loro considerati rappresentanti della cultura ariana, come Wagner, Bach, Bruckner e Beethoven.

    La seconda parte del corso, la mattina del 18 ottobre, è consistita nella visita della Casa Rossa di Alberobello, a cura da Francesco Terzulli, autore di La casa rossa. Un campo di concentramento ad Alberobello e Una stella fra i trulli. Impiegata dal 1887 (data di fondazione) al 1939 come Scuola Agraria, fu utilizzata prima dai fascisti come campo di concentramento fino al 1943 per sudditi inglesi, ebrei stranieri, ex jugoslavi ed ebrei italiani; poi dal governo italiano come campo di prigionia per i fascisti fino al 1946; e successivamente, in età repubblicana fino al 1949, la Casa ospitò donne straniere di tutta Europa ex-collaborazioniste o prostitute o sbandate, bambini, profughi di tutta Europa, e non solo. La Casa, nel corso del tempo, ha conosciuto l’intera varietà della detenzione bellica: campo di internamento, prigionia, confino, concentramento, transito e per profughi.

     

     

  • La Cupola di Hiroshima. Un fotoracconto della bomba

    Autore: Ilaria Sabbatini


    Il mattino del 6 agosto 1945, alle 8:15, l’Aeronautica militare statunitense sganciò la bomba atomica “Little Boy” sulla città giapponese di Hiroshima, seguita tre giorni dopo dal lancio dell’ordigno “Fat Man” su Nagasaki.

    Genbaku Dome, ossia Cupola della bomba atomica, era nata nel 1915 come edificio per ospitare la Fiera commerciale della prefettura di Hiroshima. La  Sala espositiva dei prodotti della prefettura di Hiroshima era stata progettata dall’architetto ceco Jan Letzel, che aveva realizzato la struttura in stile occidentale, usando mattoni e cemento. Il palazzo, sul lato sud, si apriva su un giardino anch’esso tipicamente all’occidentale e la cupola, oggi sventrata, aveva una copertura in rame. Nel 1933 il nome fu cambiato in  Sala promozionale dell’industria della prefettura di Hiroshima e nel 1944, a causa della guerra, l’edificio venne adibito a uffici governativi.

    Il 6 agosto 1945 l’esplosione nucleare avvenne ad appena 150 metri di distanza dall’edificio. Gli occupanti morirono all’istante mentre la struttura prendeva lentamente fuoco. Al momento dell’esplosione, avvenuta a un’altezza di circa 580 metri dal suolo, tutte le costruzioni in legno, tipiche dell’urbanistica giapponese, vennero spazzate via. Le foto aeree successive all’esplosione mostrano un panorama completamente piatto, quasi vuoto. Spiccano soltanto alcuni edifici di mattoni che, pur gravemente danneggiati, sopravvissero alla bomba. Tra le strutture che resistettero alla bomba, quella della fiera era la più vicina all’ipocentro. Essa rimane tutt’oggi nello stesso stato in cui si trovava subito dopo l’attacco atomico.
     
    La posizione dell’ex Palazzo della Fiera di Hiroshima si può vedere su Google Map

    Si può fare un tour virtuale dentro la Cupola della bomba atomica

    Questa è la visione dall’esterno della Cupola della bomba atomica

    Ecco una collezione di fotografie contemporanee, che risulta interessantissima per comprendere come oggi viene vissuta la memoria di Genbaku Dome

    Quivengono documentate le prime attività di soccorso, quelle in cui si cominciano a rilevare le proporzioni degli effetti della bomba

    A questo link dell’Hiroshima Peace Memorial Museum si possono vede una serie di di fotografie degli effetti dell’esplosionesu vari oggetti conservati

     

    Il palazzo della Fiera di Hiroshima in costruzione, completato nel 1915 su progetto dell’architetto ceco Jan Letzel

     


     Il palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima sul lato sinistro del fiume Motoyatsu, uno dei sette rami dell’estuario del fiume Ota

     

     
    Hiroshima Prefectural Industrial Promotion Hall seen from the west end of Motoyasu Bridge. 1933. Taken by Masao Okuno / Courtesy of Katsuhiko Okuno
     


    Il palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima vicino al Ponte Motoyatsu, sulla biforcazione tra il fiume Ota e il fiume Motoyatsu
     


    Il ponte Motoyatsu sulla biforcazione tra il fiume Ota e il suo effluente Motoyatsu

     

     

    Il palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima dopo l’esplosione atomica, 8 settembre 1945


     
    ll palazzo della Fiera della prefettura di Hiroshima dopo l’esplosione atomica

     


     Enola gay, bombardiere B-29 Superfortress, l’aereo che sganciò la bomba il 6 agosto 1945. Enola Gay era il nome della madre del pilota Paul Tibbets.
     


    Little Boy, la bomba Mk.1, la seconda atomica costruita nell’ambito del Progetto Manhattan, è la prima arma nucleare della storia a essere stata utilizzata in un conflitto. Si tratta dell’ordigno originale prima dell’esplosione.


    Little boy, usata su Hiroshima, era la seconda bomba atomica realizzata mentre Fat man, usata su Nagasaki, era la terza. La prima nucleare era una bomba a implosione che venne fatta esplodere nel Nuovo Messico, vicino a Sonora, il 16 luglio 1945 nel Trinity test.

     

    Il fungo atomico sopra Hiroshima circa un’ora dopo l’esplosione, 6 agosto 1945


    Si incontra un problema nella ricostruzione per immagini delle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Spesso è difficile stabilire a quale luogo si riferiscano i rispettivi funghi di fallout. In alcuni video, non sufficientemente curati, Nagasaki va sotto il titolo di Hiroshima e viceversa. Altri usano addirittura il Trinity test o l’esplosione di Bikini.

    Le foto che seguono si riferiscono alle due esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Nel caso di Hiroshima la foto è avallata dal Museo della Memoria di Hiroshima, nel caso di Nagasaky dal Museo della Bomba Atomica di Nagasaky.

           Hiroshima                                Nagasaki  

                                                           

    La foto di sinistra è Hiroshima. È stata presa da un aereo che accompagnava Enola Gay con lo scopo di scattare fotografie. La foto di destra è Nagasaki, scattata il 9 agosto1945 da Charles Levy da uno degli aerei che accompagnavano l’attacco.


      Questa foto ricognizione del 1945, fornita dal Museo della Seconda Guerra Mondiale di Boston, mostra le informazioni di targeting per la missione di bombardamento atomico di Hiroshima.L’esplosione, che coinvolse il palazzo della fiera, avvenne sulla verticale dell’ospedale. Sotto il numero 22 si vede il ponte Motoyatsu sulla biforcazione tra il fiume Ota e il suo effluente Motoyatsu


     
    Diorama dell’esplosione di Little Boy. La prospettiva è con le spalle alla sorgente del fiume Ota che, dopo la prima triforcazione, a sinistra si biforca ulteriormente. Il ramo sinistro della seconda biforcazione è il fiume Motayatsu. Dopo il ponte sulla biforcazione, sulla riva sinistra, è collocato l’edificio della Fiera di Hiroshima.
     
     
    Diorama dell’esplosione di Little Boy. Sotto, a 150 metri di distanza dall’ipocentro, sulla riva sinistra del ramo sinistro dell’effluente Motayatsu (individuabile dal ponte), si trovava l’edificio della Fiera di Hiroshima, uno dei pochi a rimanere in piedi (vedi foto successiva)


     
    Sulla riva sinistra del ramo sinistro dell’effluente Motayatsu (individuabile dal ponte), si trovava l’edificio della Fiera di Hiroshima

     

     

    Vicino al ground zero, prima dell’esplosione

    Vicino al ground zero, dopo l’esplosione

     

     

     

     

    L’orario dell’esplosione, fissato da un orologio da polso esposto agli effetti della bomba


     
    L’effetto ombra creatosi durante l’esplosione

     

     
    Ragazze con le mascherine nelle strade di Hiroshima, 6 ottobre 1945

     


    Genbaku Dome, la Cupola della bomba atomica, oggi
     


    Genbaku Dome, la Cupola della bomba atomica, dall’alto, oggi

     

     

     

     

     

     

    Foto rare scattate nei giorni successivi all’evento

     

     

    Il racconto di Sunao Tsuboi sopravvissuto all’esplosione



     

  • La didattica della Shoah

    Criteri, materiali e percorsi didattici secondo lo Yad Vashem


    Autore: Maria Angela Binetti

     

    Introduzione

    La giornata della memoria e quella del ricordo sono passate e, come ogni anno, sono state accompagnate dalle solite polemiche. Per fortuna, sempre meno astiose. Trattare argomenti così scottanti, richiede più che mai all’insegnante una riflessione preliminare a freddo, che eviti facili, e spesso controproducenti, approcci emotivi e si fondi su una rigorosa analisi storiografica. La politica nazista di deportazione e sterminio fu un fenomeno complesso, che colpì non solo gli ebrei, ma anche altre categorie, come i malati mentali, i sinti e i rom, e i prigionieri di guerra sovietici (di cui circa 3.300.000 vennero lasciati morire di fame, stenti e malattie nei campi in cui erano stati rinchiusi). E’ dunque importante ricostruire nel loro insieme le motivazioni e le dinamiche di questa politica anche per comprendere lo sterminio degli ebrei. Qui presentiamo un contributo dello YadVashem, istituzione celebre nel mondo, che si segnala – per noi italiani – per i corsi di formazione che organizza ogni anno. Lo YadVashem circoscrive il suo interesse alla sola questione ebraica, e propone un approccio didattico che vuole far cogliere l’umanità e la personalità delle vittime, di ogni vittima..Ecco il materiale del corso 2012, organizzato in modo che possa essere facilmente consultato dal lettore italiano.


     

    Indice

    • La didattica della Shoah
    • Le conoscenze di base
    • I laboratori didattici
    • Le testimonianze
    • I materiali audiovisivi
    • I luoghi di memoria
    • Il seminario


    La didattica della Shoah

     

    La storia della Shoah è soprattutto una storia umana, parla di individui. Non è solo il racconto dello sterminio di massa; essa implica lo sforzo di comprendere l’animo umano e le modalità con le quali l’uomo ha affrontato le situazioni e i difficili dilemmi etici di quei terribili anni.

    L’approccio didattico dell’ISHS (International School for Holocaust Studies) alla Shoah si articola in sei punti:

    • la vittima ebrea (the jewishvictim);
    • l’indifferente (the bystander);
    • l’esecutore (the perpetretor);
    • l’approccio appropriato alle diverse fasce d’età;
    • l’interdisciplinarità:
    • il ruolo dell’educatore.

     

    Partiamo dalla vittima.

    Raccontare la storia di 6 milioni di vittime è una “sfida” che non sempre si può vincere. La missione dello Yad Vashem è di ricostruire l’identità delle vittime (anche in pochissime righe) a partire dalle foto (familiari, parenti, vacanze) che sono state  rinvenute illo tempore nelle loro tasche. Con questo sistema sono state censite 4,1 milioni ca. di vittime. I dati scritti dietro le foto sono stati inseriti in un database (The Central Database of Shoah Victims’ Names) consultabile anche on-line.
     
     

     

    Come raccontare la storia della Shoah ai nostri studenti, coinvolgendoli senza traumatizzarli?

    Bisogna partire dalla vita quotidiana degli ebrei del tempo, evidenziando che queste persone vivevano e amavano esattamente come noi, che erano prese dalle loro attività routinarie (lavoro, studio, tempo libero: musica, arte, letteratura, calcio…) e che a una certa data questa routine è stata bruscamente interrotta. Com’è cambiata la loro vita nella realtà disumana dell’Olocausto? Che ne è stato della dignità, della speranza, della fede, dell’identità di queste persone?

     

    L’approccio più corretto per insegnare la Shoah è quello di porre agli studenti dei «dilemmi morali»:

    • Sopravvivere significa affrontare e convivere con dei dilemmi morali.
    • La realtà della Shoah è una “scelta senza scelta”, ovvero quello che i tedeschi hanno scelto per gli ebrei, cioè la morte. Qualsiasi scelta fatta dagli ebrei è stata superata da quella che i tedeschi hanno compiuto al loro posto.
    • Non abbiamo il diritto di giudicare le persone e le loro decisioni.
    • Il roleplay è vivamente sconsigliato, sia per l’impossibilità da parte degli studenti di identificarsi nelle vittime ebree (e noi aggiungiamo: per loro fortuna!), sia perché il transfert emotivo è un approccio didattico scorretto.

    La storia della Shoah è spesso ridotta al “durante”, quasi dimenticando che esiste anche un “prima” e un “dopo”. Quali questioni pone il “dopo”, cioè il ritorno alla vita? I sopravvissuti all’Olocausto sono riusciti a tornare alla vita “normale” dopo la terrificante esperienza d’internamento nei campi? Si può parlare di liberazione, o è più corretto parlare di “rieducazione” (fisica e psicologica) alla vita? Sovente, tornati a casa, i sopravvissuti si sono messi alla ricerca dei loro cari, scoprendo che familiari, parenti, amici non c’erano più, e che per giunta qualcuno si era impadronito della loro casa e dei loro beni. Scoprono così di essere soli al mondo. Molti di essi trovano accoglienza nei campi profughi creati dalle autorità alleate e dall’Agenzia delle Nazioni Unite per l'Assistenza e la Riabilitazione (UNRRA), attivi in Germania, Austria e Italia, dal1945 al 1952. Un’euforia matrimoniale travolge i sopravvissuti, assillati dalla paura di restare soli, mentre il vertiginoso baby boom che si registra in seno alle nuove coppie è la risposta alla politica di sterminio nazista. Molti sono quelli che decidono di lasciare l’Europa e di emigrare negli USA, oppure alla volta di Israele. E la vendetta? Nessun desiderio di vendetta anima i sopravvissuti, bensì una certezza: quella di essere vivi e di procreare, laddove il persecutore (Hitler) è morto.

     

    Chi sono ibystanders, gli indifferenti?

    Osservatori o spettatori? Netta la risposta: gente che è stata incapace di assumersi la propria responsabilità. Durante la Shoah, milioni di europei non ebrei si sono trovati di fronte a tre opzioni in merito alla posizione da assumere nei confronti dei loro vicini di casa ebrei:

    • aiutare i persecutori;
    • aiutare gli ebrei;
    • far finta di niente e non fare nulla.

    Nel corso della guerra più di 10 milioni di europei sono stati sottoposti a una di queste scelte. Quando si è chiamati a scegliere bisogna essere informati sul “cosa”. E cosa la gente comune sapeva? Ammesso pure che non circolassero informazioni precise sul destino degli ebrei, chiunque, guardandosi attorno, avrebbe potuto cogliere le sofferenze che gli ebrei stavano patendo.  Gli indifferenti avrebbero potuto fare qualcosa, ma non l’hanno voluta fare: solo apparentemente essi non hanno responsabilità nello sterminio.


    Che cosa rende un uomo esecutore?

    Com’è stato umanamente possibile uccidere sei milioni di ebrei? Si può uccidere per adesione totale all’ideologia; perché si è esecutori degli ordini altrui (in questo modo ci si deresponsabilizza); per la pressione esercitata dal gruppo (si aderisce al gruppo per non restare emarginati, e una volta dentro, si compiono azioni scellerate, fino all’omicidio,  anche se non ci si trova in situazioni di pericolo).

     

    Come insegnare il dramma dell’Olocausto senza traumatizzare i discenti, specie se bambini?  

    Si può parlare della Shoah a qualsiasi età, anche ai più piccini, l’importante è farlo con il giusto approccio, ovvero con gli strumenti più adatti alla loro età, quelli che realmente servono a far comprendere e a educare. Non va dimenticato che, ancora oggi, a 70 anni dalla tragedia, l’Olocausto è parte integrante della narrazione collettiva quotidiana degli israeliani. Ma cosa raccontare, e come? Gli israeliani educano i loro figli alla Shoah mediante un’esposizione lenta e graduale. Quando si racconta la Shoah bisogna fornire all’uditore un’ancora di sicurezza, per evitare l’insorgenza di traumi (ad es., risparmiare ai piccini la descrizione dell’orrore, oppure presentargli solo storie a lieto fine, di persone sopravvissute allo sterminio) o le facili banalizzazioni. La storia dell’Olocausto va raccontata secondo un modello a spirale: storia dell’individuo -> storia della famiglia ristretta/allargata -> storia della comunità di appartenenza -> narrazione storica.

     

    Un approccio interdisciplinare

    Quando si racconta la Shoah non ci si deve affidare solo alle parole della Storia, ma si può e si deve fare ricorso anche alla poesia, alla letteratura, all’arte (disegni, quadri), ai film, perché tutto concorre alla ricostruzione e alla narrazione delle storie individuali e della Storia collettiva.


    Quali temi proporre?

    1. Il mondo ebraico pre-Olocausto, in modo da far conoscere chi era il popolo ebraico prima della tragedia: questo serve a restituire un volto reale ai sei milioni di vittime.
    2. Come l’individuo si è confrontato con la realtà contingente: da attore o da spettatore?
    3. Com’è stato umanamente possibile? (questo tema è più adatto agli studenti delle superiori);
    4. Il ritorno alla vita, dopo il 1945.

    Quali sono gli obiettivi di un educatore quando si appresta a insegnare la Shoah?

    Innanzitutto, va rimarcato che l’Olocausto non è stato un avvenimento unico nella Storia, bensì un avvenimento senza precedenti. È un qualcosa che va ben oltre il calpestamento della dignità e dei diritti umani. Comunicare tutto questo è difficile, e molteplici sono le sfide che si pongono all’educatore:

    • la complessità della Storia e degli eventi
    • la definizione dell’Olocausto
    • le emozioni da consapevolizzare
    • la problematicità
    • la “fatica” dell’Olocausto
    • l’indifferenza
    • la comparazione con gli altri genocidi
    • il negazionismo
    • l’antisemitismo
    • il conflitto in Medioriente.


    La tecnica di insegnamento raccomandata per vincere queste sfide è creare situazioni di apprendimento stimolanti, attraverso una pedagogia attiva e un approccio incentrato sugli studenti, escludendo il role play.

    [per saperne di più, cfr.  http://www1.yadvashem.org/yv/en/education/languages/italian/educational_materials/how_teach.asp].

    Una precisazione lessicale doverosa. Gli storici e gli educatori dello Yad Vashem utilizzano indistintamente i termini Shoah e Olocausto (Holocaust) quando si riferiscono all’uccisione delle 6 milioni di vittime ebree, perché l’idea di “sacrificio”, che secondo taluni storici è insita nel termine Holocaust, è estranea alla mentalità ebraica.

     

    Le conoscenze di base

     

    Gli otto precetti del giudaismo

    1. l’obbligo di studiare la Torah per l’intero corso della vita (quella giudaica è una comunità di apprendimento permanente);
    2. il rispetto della vita, il più importante dei precetti: “mai più il popolo ebraico  sarà vittima”;
    3. l’alimentazione: i cibi kosher (carni e pesce; mai mischiare latte e carne; divieto assoluto di mangiare cibi contaminati dal sangue);
    4. l’abbigliamento, all’insegna della modestia e con obbligo di copricapo per le donne sposate, con obbligo di indossare la kippa e lo tzittzit (lo scialle rituale con le frange) per gli uomini; 
    5. gli affari: dedicarvisi  con onestà, aiutare i poveri, donare soldi per le cause giuste;
    6. matrimonio e sessualità: i rapporti prematrimoniali sono proibiti, i rapporti sessuali sono vietati durante il ciclo mestruale; i rapporti sessuali sono concepiti nell’ottica della procreazione; è consentito divorziare;
    7. spiritualità: l’ebreo loda sempre Dio e prega in gruppo tre volte al giorno, ovunque si trovi (per le donne è sufficiente pregare una volta al giorno, perché sono considerate esseri più spirituali);
    8. il calendario: l’obbligo di osservare lo Shabbat, che va dal tramonto del venerdì al tramonto del sabato; le varie festività, suddivise in agricole, storiche, spirituali.  Quella dell’ebreo religioso, insomma, è una vita vissuta all’insegna delle obbligazioni. Dati statistici alla mano, il rabbino ci informa che la società ebraica in Israele è molto più religiosa che in Europa.

    (Rabbi Yeshaya BALOG , dello Yad Vashem)

     

     

    Ebrei in Italia, dall’antichità al fascismo

    La storia ebraica nella penisola italiana inizia nel I sec. d.C., epoca in cui è attestata la presenza  di una piccola comunità ebraica a Roma, destinata a ingrandirsi rapidamente nei secoli a venire, fino alle soglie del Medioevo, quando conosce una battuta d’arresto anche in conseguenza delle epidemie e delle invasioni barbariche che si abbattono sui resti di un Impero romano ormai in frantumi. Questa storia è scandita da importanti oscillazioni demografiche, costituite da tre fasi di espansione: l’antichità romana, il Rinascimento (in questi due periodi si registra il picco massimo di presenza ebraica in Italia) e il Risorgimento (lo Statuto albertino del 1848 concede pieni diritti civili agli ebrei), e da altrettante fasi di decrescita: il tardoantico/Medioevo, l’età della Controriforma (l’espulsione e la reclusione nei ghetti, unitamente alle precarie condizioni igienico-sanitarie e alimentari tipiche dell’Ancien Régime di certo non giovarono alle comunità ebraiche italiane), il fascismo con la vergogna delle leggi razziali (1938).  È interessante notare come le tre fasi di crescita abbiano coinciso con il diffondersi di un pluralismo culturale (il sincretismo religioso dei Romani, la fioritura rinascimentale delle arti e delle lettere) e con un certo benessere economico; di contro, le fasi di decrescita corrispondono a periodi di decadenza economica, di assenza di pluralismo culturale e di imposizione di una visione monolitica del mondo.

     

    La distribuzione geografica degli ebrei in Italia segue nei secoli un preciso itinerario, che si snoda lungo la penisola da sud a nord: nell’antichità le zone di massima concentrazione sono le regioni del Sud (Puglia, Calabria Campania); dal 1450 al 1550, la diffusione è uniforme tanto a sud quanto a nord; dal 1550 al 1848, i principali ghetti sono concentrati nelle regioni centro-settentrionali (Roma, Toscana, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte); nel XX secolo la presenza ebraica più consistente è concentrata a Roma, in Piemonte e in Emilia.

     

    Lungo questa storia si diffondono dei luoghi comuni, ancora oggi presenti nella discussione pubblica. Già nel I sec. d.C., Tacito, oltre a bollare come disgustosi i loro costumi, rimarcava alcuni tratti caratterizzanti gli ebrei: la ricchezza, la disonestà, l’autosegregazione, il disprezzo per gli altri. All’inizio del XIV sec., Dante, nel V canto del Paradiso, distingue nettamente il “noi”/i “cristiani”, da “loro”/gli “ebrei” (“Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:/ … /Se mala cupidigia altro vi grida, / uomini siate, e non pecore matte, / sì che ‘l giudeo di voi tra voi non rida!”). Più in generale, tra Medioevo e Rinascimento, l’ebreo è visto come un elemento inquinante della società cristiana, da espellere, emarginare, mal tollerare, ma, allo stesso tempo, come un  motore fondamentale del commercio e dell’economia, e dunque da attirare, preservare e difendere.  

    (Sergio DELLA PERGOLA, docente presso la “Hebrew University of Jerusalem”)

     

    Gli ebrei e il fascismo

    Nell’arco del ventennio la posizione del regime fascista verso i cittadini ebrei italiani è stata tutt’altro che uniforme, giacché è stata costantemente sottoposta a una lenta ma inesorabile mutazione di segno in negativo. Per questo è indispensabile individuare delle periodizzazioni interne che chiariscano la complessità di questo rapporto.

     

    Il primo periodo va dal 1922 al 1935/36. Sono gli anni della cosiddetta «luna di miele» tra il regime fascista e gli ebrei italiani. Si stima che 7.500 ca. cittadini ebrei italiani, su un totale di 40.000, fossero iscritti al PNF: non è dunque vero che gli ebrei del tempo fossero tutti antifascisti o afascisti. Neppure il delitto Matteotti del 1924 ne incrina l’adesione, giacché molti di loro sono politicamente allineati con la posizione della borghesia urbana italiana. Non solo, negli anni in cui Hitler comincia a manifestare apertamente il suo antisemitismo, Mussolini si presenta come il “salvatore” degli ebrei, ricevendone in cambio benevolenza. Il suo filosemitismo, però, è di facciata ed è funzionale alla propaganda politica. Dietro le quinte, infatti, il duce non manca di pubblicare anonimi articoli antisemiti (come documentato dalla corrispondenza interna interministeriale), dai quali si evince che egli crede alle voci dell’esistenza di un complotto ebraico internazionale. In questa fase il suo motto è “se non li puoi combattere, unisciti a loro”. Mussolini reputa gli ebrei soggetti “pericolosi”, perché colti, intelligenti, ricchi, astuti.

     

    Nel 1935/36 il quadro politico internazionale muta: sono gli anni della conquista dell’Etiopia e della nascita dell’Impero dell’Africa Orientale Italiana; gli anni dell’avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista. Questo però non basta a giustificare la svolta che il duce sta preparando. È tipica dei regimi totalitari l’individuazione del nemico interno da abbattere, nel nostro caso l’ebreo. Mussolini ricerca un movente pretestuoso per accusare di tradimento gli ebrei, additandoli poi all’opinione pubblica come nemici. L’occasione gli viene offerta dal fallimento di una missione diplomatica in Inghilterra che il duce affida a due ebrei, Dante Lattes e Angelo Orvieto, i quali avrebbero dovuto convincere il movimento sionista  internazionale a sostenere la causa imperialistica fascista, schierandosi contro le sanzioni economiche stabilite dalla Società delle Nazioni.

     

    Il secondo periodo va dal 1936 al 1938. Gli anni della preparazione della svolta antisemita. Ha inizio un capillare battage pubblicistico antisemita che lascia interdetta l’Unione comunità israeliane italiane (l’UCII, riconosciuta da un Regio Decreto del 1931), la quale, interpellato il Ministero degli Interni per chiedere ragione del nuovo stato delle cose, viene rassicurata che nulla è mutato nel rapporto tra gli ebrei italiani e lo Stato fascista. Dunque, ufficialmente non esiste alcun problema ebraico; addirittura, Mussolini inaugura a Civitavecchia una scuola per marinai, il cui nucleo è costituito da allievi ebrei. Intanto il regime avvia il censimento della popolazione ebraica italiana: quanti sono, in quali aree del paese sono concentrati, quali posizioni sociali occupano.

     

    Terzo periodo: 1938 - 1943. L’Europa è colpita dal ciclone delle legislazioni antisemite e l’Italia non fa eccezione. Tuttavia, la presenza della Chiesa cattolica è di ostacolo all’attuazione di un approccio al problema ebraico simile a quello nazista.  In Italia, infatti, la Chiesa cattolica vieta il divorzio (le coppie miste non possono essere sciolte dal vincolo matrimoniale), così come costituiscono un problema i numerosi i bambini nati da matrimoni misti che hanno ricevuto il battesimo (come considerarli, ebrei o ariani?).

     

    La prima reazione dell’opinione pubblica italiana alle leggi razziali è che esse siano state dettate da circostanze esterne. Circola la giustificazione confezionata a bella posta dai gerarchi fascisti. Quale invece la reazione degli ebrei? Per un meccanismo di difesa che scatta nell’uomo nei momenti di pericolo e che si traduce nell’allontanamento dei contenuti minacciosi, sembra che lì per lì gli ebrei le abbiano rimosse. È come se per essi la privazione dei diritti politici e civili non fosse classificabile come “sofferenza”.

     

    La sofferenza, quella vera, sarebbe cominciata solo nel 1943. È vero che dal 1938 al 1943 essi vivono in uno stato di privazione, ma la loro vita non è ancora a repentaglio; e poi, molti sono gli italiani che nei territori occupati dai nazifascisti (Iugoslavia, Grecia, Albania) accordano protezione agli ebrei. Addirittura, nel 1940, quando il paese entra in guerra, molti giovani ebrei fascisti scrivono al duce, supplicandolo di potersi arruolare per andare a combattere e a morire per la patria! Da non dimenticare che, nel luglio del 1939, con la legge. n. 1024, il Gran Consiglio del fascismo ammette la figura dell'ebreo "discriminato", ovvero dell'ebreo che per particolari meriti fascisti (partecipazione alla marcia su Roma, iscrizione al PNF), o patriottici (decorati della Grande Guerra) può essere trattato con maggiore clemenza. Agli ebrei “discriminati” (sono ca. 2000), infatti, le leggi razziali vengono applicate con alcune deroghe e limitazioni: ad es., è loro concesso di mantenere il conto in banca, di preservare il diritto di proprietà, di tenere in casa la servitù.

     

    Nel 1942, in accordo con le disposizione del regime, 15.000 ebrei vengono destinati al lavoro coatto; di questi soltanto 4.000 saranno effettivamente inviati; la restante parte ne sarà risparmiata, soprattutto per problemi di carattere organizzativo: la scarsità di macchinari rende difficoltosa la divisione nelle fabbriche tra ariani ed ebrei, e poi, molti ebrei sono inadatti a svolgere lavori di manovalanza operaia.

     

    Nel maggio 1943 il regime progetta i campi di lavoro. Ma non avrà il tempo di realizzarli, a causa del precipitare degli eventi (luglio 1943, caduta del fascismo). Tra gli ebrei italiani esplode un’euforia collettiva, poiché si pensa che la caduta del regime porrà finalmente termine alle discriminazioni razziali. Così non è. Il paese si spacca in due: a Sud gli Alleati; a Nord l’occupazione nazista, che rende vivo e reale, come mai prima d’ora, il pericolo. Nella RSI, infatti, centinaia di ebrei vengono arrestati dai fascisti. Secondo alcune interpretazioni, i repubblichini avrebbero arrestato gli ebrei per “proteggerli” dai rastrellamenti nazisti. La tesi non regge, perché una volta arrestati, gli ebrei sono stati consegnati ai nazisti, che li hanno deportati nei campi di sterminio. Non solo, la spoliazione dei beni degli ebrei è stata condotta da entrambi, fascisti e nazisti.

     

    Le delazioni anonime. Un capitolo doloroso. Chi erano i delatori? Perché lo facevano? Le ragioni potevano essere personali (odio verso una persona, rivalità professionale) o ideologiche (adesione al fascismo). Malgrado ciò, la maggior parte degli ebrei italiani si è salvata, e solo 8.000 sono stati deportati nei campi. Nonostante questo bilancio “positivo”, quello della comunità ebraica italiana è l’unico caso di deportazione “fuori tempo massimo”, ossia quando gli Alleati sono già nel paese, e questo va ricordato per comprendere l’eccezionalità dello “sterminio” italiano.

     

    Molti ebrei (dai 1200 ai 2000 ca.) hanno preso parte alla Resistenza, perché per essi la resistenza rappresentava un’ancora di salvezza per il processo di reintegrazione, per il recupero della loro identità italiana. La Resistenza ha significato per loro non solo liberazione dal fascismo, ma anche ritorno alla vita e alla speranza di un’Italia vera. Di contro, per i giovani ebrei questo processo è stato faticoso: essi, infatti, hanno recuperato più facilmente la dimensione comunitaria ebraica che quella italiana.

    (Iael ORVIETO, responsabile dello Yad Vashem Publishing House)


    Gli ebrei nel Nord Africa

    La questione dell’ebraismo nordafricano è relativamente recente; è solo dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso che essa si è imposta all’attenzione non soltanto della storiografia, ma anche dell’establishment ebraico israeliano. Il merito di questa emersione spetta a un volume (Enciclopedia delle comunità ebraiche: Libia  Tunisia, 1997) grazie al quale, per la prima volta, la narrazione dell’Olocausto è stata estesa anche agli ebrei nordafricani, i quali hanno poi ricevuto dallo Stato di Israele un indennizzo per le persecuzioni e le sofferenze patite.
        
    Chi sono gli ebrei nordafricani? Essi discendono da due diverse comunità: gli ebrei che vivevano da secoli tra le popolazioni locali musulmane (le prime attestazioni di ebrei in Nord Africa risalgono addirittura al I sec. d.C.) e i cosiddetti “Grana”, ovvero i discendenti di quei marrani spagnoli giunti in Italia nei secc. XV-XVI, da dove, riconvertitisi al giudaismo, partirono alla volta del Nord Africa.


    Dalla metà del XIX secolo fino agli anni del secondo conflitto mondiale, le comunità ebraiche nordafricane furono sottoposte al duplice controllo dei governi locali musulmani e delle autorità coloniali europee, nello specifico Francia (Marocco, Tunisia e Algeria) e Italia (Libia), due nazioni implicate a diverso titolo col regime nazista.

     

    Anche questi ebrei furono compresi nella Soluzione Finale, progettata da Hitler. Il piano della loro eliminazione è riscontrabile in tre documenti: iProtocolli della Conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942 (agli ebrei sefarditi è riservato l’identico destino di morte degli ebrei ashkenaziti);  ilDiario del Gran Mufti di Gerusalemme Hajj Aminel-Hussein (questi è responsabile del pogrom antiebraico durante il protettorato inglese, è un filonazista convinto e quando chiede a Hitler qual è la sorte riservata agli ebrei nordafricani, il Fuhrer gli risponde: «quando le gloriose armate tedesche conquisteranno il Caucaso, allora suonerà la riscossa del mondo arabo»);  il volantino delle forze di occupazione tedesche in Tunisia, datato 23 dicembre 1942 («gli ebrei  tunisini sono parte integrante del complotto ebraico internazionale che ha dato avvio alla guerra, e per questo pagheranno il prezzo»).
     


    La realizzazione dei piani tedeschi fa leva sulla politica razziale perseguita dalla Francia di Vichy (estensione dello “Statuto di Ebrei” nei territori coloniali sottoposti alla sua sfera d’influenza) e dall’Italia fascista (estensione delle leggi razziali in Libia); sui campi di lavoro forzato per i dissidenti in Marocco e Algeria; sulla presenza di corpi di polizia tedesca nei due paesi occupati dalle armate naziste: Libia e Tunisia.  Durante i sei mesi di occupazione nazista della Tunisia (novembre 1942-maggio 1943) le vittime ebree tunisine sono complessivamente 226. È solo una questione di tempo se il numero delle vittime si mantiene così basso.  Ma la salvezza delle comunità ebraiche fu dovuta alla scarsità le truppe di occupazione nazista in Tunisia; all’intervento degli italiani per salvare i “Grana”; alla scarsa partecipazione della popolazione araba tunisina (i nazionalisti arabi di Habib Bourghiba avevano scarso interesse a organizzare i pogrom antiebraici).

     

    Diverso il destino degli ebrei di Libia. Qui l’estensione delle leggi razziali italiane è postdatata dal 1938 al 1940 per intercessione dell’Alto Commissario Italo Balbo (si dice che non fosse antisemita), il quale fa notare a Mussolini il grosso danno che ne verrebbe per l’economia locale, e quindi per quella italiana, dall’applicazione delle leggi razziali. Alla morte di Balbo, gli ebrei libici, che fino a quel momento si sono comportati da cittadini leali, tradiscono l’Italia, passando dalla parte degli inglesi (va precisato che, nel corso della guerra, la regione della Cirenaica è alternativamente controllata da Italia e Gran Bretagna). Mussolini decide quindi di punire in maniera esemplare la loro slealtà, deportando 2.600 ebrei libici nel campo di Jiada (sud di Tripoli, alla frontiera col deserto del Sahara), dove ben 580 di essi periranno.

    (Irit ABRAMSKI, ricercatrice presso lo YadVashem)

     

    Il nuovo antisemitismo

    Quella che al termine della Seconda guerra mondiale era opinione diffusa, e cioè che la Shoah fosse stata un’esperienza talmente drammatica che mai più l’antisemitismo avrebbe abitato tra gli uomini, è stata sconfessata dall’insorgenza di nuove forme di antisemitismo.  Si tratta di un fenomeno che interessa molti paesi nel mondo e gruppi politicamente e religiosamente diversi. In comune, questo nuovo antisemitismo ha le “tre D”: Demonize, Delegitimize, Double Standards.

     

    Di recente, in alcuni paesi europei si è registrata la rinascita e/o l’ascesa di correnti antisemite di estrema destra: da Forza Nuova in Italia, a “Golden Dawn” in Grecia, a “Magyargarda” in Ungheria. La crisi economica che a vari livelli questi paesi stanno vivendo contribuisce senza dubbio a far guadagnare consensi ai movimenti di estrema destra (soprattutto nel caso della Grecia), non tanto per aderenza ideologica delle masse quanto per protesta.

     

    Nei paesi ex-comunisti è abbastanza generalizzato il fenomeno della ricerca nella storia passata di figure di eroi che siano possibilmente anticomunisti e nazionalisti. In Ucraina, ad esempio, nel 2010, il presidente uscente Viktor Iushenko decise di assegnare il titolo di “eroe” nazionale a Stepan Bandera, un leader nazionalista vicino alla Germania nazista, che aveva combattuto per l’indipendenza del proprio paese contro la Polonia e l’URSS e che aveva perseguitato gli ebrei russi e polacchi. In Ungheria stiamo assistendo al ritorno del culto dell’ammiraglio Horthy, dimenticando che quest’uomo, alleato dei nazisti, ha contribuito alla deportazione nei campi del 60% degli ebrei ungheresi. Come si spiega dunque questa idealizzazione? La risposta è semplice: la gente non conosce la storia o non vuole confrontarsi con essa.

     

    L’antisemitismo è una malattia che, storicamente, ha colpito non soltanto la Destra, ma anche la Sinistra. Stalin, ad esempio, è stato l’autore del cosiddetto «complotto dei medici», uno strumento di propaganda messo a punto dal dittatore per dimostrare l'esistenza di un piano ebraico nazionale e successivamente internazionale per la conquista del mondo. L’occasione per dispiegare il suo piano gli fu offerta, nel gennaio 1953, dall’avvelenamento per motivi di potere di due alti funzionari di partito. Dell’assassinio furono incriminati nove medici della cerchia del Cremlino, dei quali ben sei erano ebrei. Ebbe così inizio la persecuzione e l’uccisione di intellettuali e medici ebrei. Solo la morte del dittatore, sopraggiunta nel marzo dello stesso anno, pose fine alla persecuzione.
     
    Nell’Europa dell’Est, dove spesso le posizioni ufficiali hanno screditato l'Olocausto, l'antisemitismo è da sempre una realtà latente, pronta a venire allo scoperto alla prima occasione. Nel 1968, in Polonia si è registrata un’ondata di antisemitismo che ha provocato l’esodo di una parte consistente di ebrei sopravvissuti, alcuni dei quali erano per giunta comunisti intransigenti.
     
    Il conflitto israelo-palestinese è un detonatore di antisemitismo. I difensori dei palestinesi sventolano vecchi stereotipi antisemiti a sostegno della loro causa. Ad esempio, in alcune sure del Corano gli ebrei sono presentati come discendenti di certi insetti e animali come le api, i maiali, le scimmie. Oggi i musulmani fondamentalisti si riferiscono abitualmente agli ebrei come scimmie e maiali (cfr. il sito web antisemita islamico MEMRI). Non molto tempo fa, un chierico musulmano è arrivato ad affermare che gli ebrei infettano il cibo con il cancro per poi inviarlo ai paesi musulmani! In Egitto, nell’ultima campagna elettorale, l’accusa peggiore che i candidati avversari si sono lanciati l’un l’altro è stata quella di essere ebrei o filosemiti.
     
    Accanto a queste rappresentazioni si aggiungono quelle prese in prestito dall'Olocausto, ma invertite di segno. Israele è spesso tacciato di essere un paese nazista, così come Sharon viene spesso presentato come un nuovo Hitler; il massacro di Jenin del 2002, nel corso del quale morirono più di 500 palestinesi, viene ricorrentemente presentato come un genocidio. Ovviamente queste immagini sono assai potenti ed hanno l’effetto di alimentare l’odio esistente verso gli ebrei. Il fatto è che nulla di quello che fino ad oggi è occorso tra Israele e Palestina è lontanamente paragonabile a ciò che è avvenuto nell’Europa nazista.

     

    Parlare di Shoah nel mondo arabo-musulmano sovente dà vita a posizioni contrastanti:  da un lato, il negazionismo; dall’altro, la rappresentazione della tragedia palestinese come un nuovo Olocausto. È opinione diffusa che la creazione dello Stato di Israele sia successiva all’Olocausto e che sia stata appoggiata dall’Occidente per lavarsi la coscienza dall’orrore della Shoah. I palestinesi starebbero pagando per le “colpe” commesse dagli europei. Questa tesi è erronea, perché la migrazione ebraica in Palestina è cominciata ben prima delle persecuzioni naziste. Sul piano politico, dunque, la negazione dell’Olocausto è funzionale al non riconoscimento dello Stato di Israele, alla sua delegittimazione.

     

    Uno dei principali gruppi negazionisti americani è quello che si raduna attorno all’Institute for Historical Review, il cui obiettivo è trivializzare l’Olocausto, sostenendo che esso non ha alcun valore reale; ridimensionarlo, conferendogli un posto secondario rispetto a quello accordatogli dalla Storia; giustificare lo sterminio, presentandolo come un genocidio perpetrato per il bene del mondo.

     

    Antisemitismo fa spesso rima con antiamericanismo (il cosiddetto Anti-Anti), ma non solo. Un tratto peculiare del nuovo antisemitismo è che esso unisce trasversalmente gruppi ideologicamente distanti tra di loro. Neonazisti, estrema sinistra, antiamericani, no global, fondamentalisti islamici sono accomunati da uno stesso scopo: attaccare gli ebrei; attacchi che, come si è avuto modo di constatare nel corso di questo 2012 in Francia, non si limitano agli assalti verbali.

     

    (Rob ROZETT,  direttore di Biblioteca dello Yad Vashem)

     

    I laboratori didattici

     

    Quattro scatole, quattro storie. Ricordi di una scatola.

    Unità didattica per la scuola primaria che consta di quattro storie di altrettanti bambini (di cui una sola è ancora in vita) e focalizza l’attenzione su quegli aspetti più vicini all’esperienza individuale dei giovani studenti. Un’altra attività didattica adatta agli alunni sia delle ultime classi della scuola elementare, sia della scuola media è il libro “Volevo volare come una farfalla”, scaricabile nella versione italiana al seguente URL: http://www1.yadvashem.org/yv/en/education/languages/italian/lesson_plans/butterfly.asp

     

    Through Our Eyes

    Unità didattica per la scuola media che propone lo studio della Shoah attraverso la lettura di estratti di diari, testimonianze, poesie e fotografie di bambini e adolescenti originari di diversi paesi europei.  Il libro racconta in una prospettiva cronologica (dall’inizio degli anni Trenta fino al 1945) la percezione che i bambini avevano della Shoah, rivelando i pensieri e le emozioni più profonde nate dal confronto quotidiano con la morte e la distruzione. L’empatia tra il giovane studente e la storia del bambino ebreo è assicurata.

     

    The Auschwitz Album

    Unità didattica multidisciplinare (di Yael EAGLSTEIN) che combina album fotografici, testimonianze e lettere, destinata agli studenti delle superiori. The Auschwitz Album segue l’arrivo degli ebrei della comunità di Bilke (Ungheria) nei campi di Auschwitz-Birkenau, nell’estate del 1944, e offre un resoconto illustrato dell’intero processo d’internamento: la realtà concentrazionaria dei campi, il processo di disumanizzazione cui i detenuti erano sottoposti. L’esame di alcuni dettagli fotografici offre la possibilità di restituire agli ebrei un po’ di quella dignità umana brutalmente violata dai tedeschi.  L’unità didattica comprende un documento eccezionale, unico nel suo genere: l’album fotografico della famiglia di Lili Jacob, una sopravvissuta. Le foto sono state scattate da due fotografi nazisti che lavoravano ad Auschwitz per la propaganda. La problematica che l’utilizzo di queste foto pone sul piano storiografico e didattico è di carattere interpretativo. L’utilizzo delle fotografie come fonte storica, infatti, richiede molte attenzioni e precauzioni, perché è sempre il punto di vista del fotografo che tende a prevalere. Nella fattispecie, le foto documentano il punto di vista dell’aguzzino, non certo quello della vittima, quindi ciò che i nazisti volevano rappresentare. E allora, come completare la narrazione? Come dare voce alle immagini? Risposta: ricorrendo ai diari, alle memorie, alle lettere dei deportati.

     

    La vita quotidiana nel ghetto di Varsavia.

    Unità didattica di Yftach ASHKENAZY. Nell’autunno 1940 gli ebrei di Varsavia vengono rinchiusi nel ghetto. In 13 km di perimetro sono concentrati poco meno di 400.000 ebrei. Nel giro di pochi mesi la situazione sanitaria e alimentare precipita drammaticamente: donne e bambini coperti di stracci e con i volti emaciati dal freddo e dalla fame; mendicanti di tutte le età appostati lungo le strade; teste chine dei passanti che devono togliersi il cappello quando passa un tedesco; bambini che attraverso i varchi aperti nei muri (ma anche attraverso le fogne) praticano il contrabbando. Questa realtà drammatica e inumana è documentata dalle foto scattate dalla propaganda nazista. Ancora una volta si pone il problema della parzialità dell’informazione e della sua interpretazione, giacché la realtà che queste foto ci restituiscono è quella filtrata dall’obiettivo tedesco, che indugia sulla sofferenza, sull’umiliazione, sull’offesa all’umanità e alla dignità degli ebrei. Per una corretta fruizione di queste foto sul piano storico e didattico, esse sono state integrate e riequilibrate dalla parola, cioè il racconto per immagini  è affiancato dal racconto a parole, con testimonianze, diari, lettere delle vittime.

     

    Come è stato umanamente possibile

    Modulo didattico creato dall’ISHS sui carnefici e gli indifferenti durante l’Olocausto. Viene messa a confronto la testimonianza di una deportata, Hilde Sherman, con il rapporto che Salitter, un agente di polizia locale, redige per le SS in occasione del trasporto degli ebrei da Düsseldorf a Riga (11-17 dicembre 1941). La prima comparazione è di carattere formale: la scrittura del rapporto è impersonale, tecnica (compaiono molte cifre: quelle degli orari dei treni, delle piattaforme e dei vagoni, del numero di deportati), priva di qualsivoglia implicazione emotiva, esattamente come un rapporto dev’essere; sul piano linguistico, si segnala la presenza di termini che esprimono  il processo di disumanizzazione cui gli ebrei sono stati sottoposti, non solo nei fatti, ma anche nelle parole. Di contro, la testimonianza di Hilde è in prima persona, è emotivamente partecipata, da essa traspare non solo lo sgomento per quanto sta accadendo, ma anche una certa attenzione al dettaglio, espressione di un acuto spirito di osservazione.

     

    Lo scopo dell’unità didattica è di riflettere sulle responsabilità personali di quegli individui coinvolti, ciascuno al proprio livello, nell’organizzazione e nell’implementazione dei convogli che servivano a trasportare gli ebrei nei campi di sterminio dell’Europa dell’Est. Questi individui comprendevano il personale ferroviario, senza il quale nessun trasporto avrebbe potuto avere luogo, la polizia locale preposta al controllo dei trasporti, gli ufficiali delle SS che pianificavano e coordinavano le deportazioni, last but not least, il gruppo più consistente, quello dei bystanders, tutti quelli che videro i treni partire verso Est e che rimasero indifferenti al destino degli ebrei.

     

    Insegnare la Shoah attraverso la letteratura e la  poesia

    Attraversa un affascinante percorso letterario – da Pavel Friedman a Dan Pagis, da Lily Brett a Primo Levi a William Auden  (JackieMETZGER, ricercatore dello YadVashem). Al centro della lezione il Blues del profugo, un componimento poetico di W.H. Auden, uno dei più importanti poeti inglesi del XX secolo, che si confronta col problema dei profughi ebrei. In maniera preveggente (la poesia è stata scritta sei mesi prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale), Auden vi evoca lo spettro dell’ebreo tedesco profugo.  La poesia di Auden,  (la versione in italiano è scaricabile al seguente URLhttp://www1.yadvashem.org/yv/en/education/languages/italian/lesson_plans/holocaust_poetry.asp#6), è messa a confronto sia con una fotografia storica di ebrei che fanno la fila davanti a un’agenzia di viaggi di Berlino, poco prima della Notte dei Cristalli (1938), sia con un dipinto di Felix Nussbaum, Il profugo (1939), dove un enorme mappamondo troneggia in primo piano, mentre in secondo piano vediamo un profugo disperato con il suo fagotto.

     

    Primo Levi, scrittore più che poeta, ha composto due poesie: «Shemà», in apertura diSe questo è un uomo, e «Alzarsi», in coda allaTregua.  Quale il significato di queste poesie? LoShemà Israel è la preghiera più importate degli ebrei, recitata tre volte al giorno: mattina, pomeriggio, sera. Come sappiamo, Levi non era un uomo religioso, tuttavia, in questo componimento egli fa il verso alla preghiera per via della sua potenza: nella poesia «Shemà», infatti, vi è un’esortazione continua ed estenuante a ricordare e a raccontare l’ineffabile, altrimenti cose terribili si augurano all’uomo immemore. In «Alzarsi», invece, l’impossibilità dei sopravvissuti a dimenticare l’orrore è sintetizzata dall’espressione di comando “Wstawac” che risuona perpetuamente nelle loro orecchie.  

     

    «In questo vagone» di Dan Pagis è una delle più potenti poesie sulla Shoah che siano mai state composte, poiché stabilisce una linea diretta tra il fratricidio di Caino e Abele e la tragedia dell’Olocausto.

     

    Usare l’arte nella didattica della Shoah.

    Laboratorio condotto da Orit MARGALIOT è interamente basato sull’analisi di documenti iconografici, per lo più i quadri esposti nella Galleria d’Arte dello Yad Vashem più alcuni fumetti per bambini (delizioso ilMickey au champ de Gurs di Horst Rosenthal, nel quale l’autore fa dell’autoironia, rappresentandosi nelle vesti di un topo, Mickey Mouse, appunto). L’arte prodotta durante la Shoah è uno strumento che si presta bene allo studio della stessa, purché nel suo utilizzo si rispettino alcuni parametri: la categoria di appartenenza dell’opera (cfr.ultra); la storia dell’artista; il contesto storico.
     

     

    Le testimonianze

     

    Susanna CASSUTO-EVRON. UN’EBREA ITALIANA

    È un’ebrea italiana di 76 anni scampata alla deportazione e alla realtà concentrazionaria; attualmente vive in Israele, in un Kibbutz posto di fronte alla striscia di Gaza. Nel 1943, quando l’Italia è occupata dai nazisti, Susanna ha sette anni e vive a Firenze con la sua famiglia (papà, mamma, due fratelli più una sorellina in arrivo). La testimonianza di Susanna è una testimonianza paradigmatica sotto molteplici punti di vista: è la classica figlia di una famiglia ebrea ortodossa benestante (il papà Nathan è medico oculista, e quando le leggi razziali gli impediranno di esercitare la professione, diverrà rabbino capo di Firenze); è una di quei figli di Israele  accolti nei conventi cattolici, o in casa di amici, o presso famiglie partigiane, da dove, trasmigrando di luogo in luogo, è poi riuscita a sfuggire alle persecuzioni e ai rastrellamenti; durante il periodo di permanenza nell’orfanotrofio gestito dalle suore, vive in maniera profonda e drammatica il disagio culturale derivante dall’imposizione di pratiche religiose e alimentari cattoliche (la piccola Susanna percepisce tutto ciò come perdita della propria identità e prega Yahweh con tutte le sue forze perché la faccia scappare di lì…). Alla fine della guerra, Susanna ritrova parte del suo nucleo familiare: due fratelli (Daniel e David, mentre la piccola Eva è morta di polmonite), la madre (sopravvissuta ai campi), alcuni zii e i cugini (il padre e i nonni invece hanno perso la vita ad Auschwitz); si trasferisce quindi in Israele, dove si arruola nell’esercito, si sposa e si riproduce, donando al mondo figli, nipoti e pronipoti. È questa la risposta di Susanna Cassuto-Evron al piano di sterminio nazista: la moltiplicazione dei figli di Israele nella Terra Promessa. Qualche anno fa, Susanna ha raccontato la storia della sua famiglia in un libro intitolato I piccoli non fanno domande. Suo padre Nathan è stato riconosciuto “Martire dell’Olocausto” e “Medaglia d’Argento al Valore”  della Presidenza della Repubblica.

     

    Ehud LOEB E IL COMITATO DEI GIUSTI

    Nato nel 1934 a Buehl, un paesino della Germania, nell’ottobre del 1940, Ehud e i suoi genitori vengono deportati insieme ad altri 6000 ebrei nel campo di concentramento di Gurs, nel sud-ovest della Francia, da dove poi, nel 1942, la stragrande maggioranza (compresi i genitori del piccolo Ehud) sarà trasferita ad Auschwitz, per non farvi mai più ritorno. Nel 1941 l’OSE, un’organizzazione umanitaria ebrea-francese, riesce a portare fuori dal campo di Gurs 14 bambini, con il consenso dei genitori, nascondendoli presso le chiese o le famiglie cristiane, e quindi salvando loro la vita. Ehud è uno di questi. Ha così inizio un lungo periodo di nascondiglio presso le famiglie cristiane, che per un bambino ebreo significa fare i conti con la propria identità. Ehud, infatti, è costretto ad assumere una nuova identità, il che comporta l’apprendimento veloce e senza inflessione straniera della lingua locale (il francese), per evitare di essere scoperto dalla polizia tedesca; apprendere il catechismo e le preghiere, per confondersi all’interno della comunità cattolica (Ehud serve addirittura la messa come chierichetto); diventare un bambino modello, buono e ubbidiente, per non rischiare di essere cacciato dalla famiglia di accoglienza (egli ha trovato rifugio in un piccolo villaggio francese, prima presso una vedova che vive in una fattoria, poi presso la famiglia di un macellaio). Invitato a trascorrere un breve periodo di vacanza presso alcuni parenti in Svizzera, Ehud non farà più ritorno in Francia, giacché sarà accolto e adottato da costoro. Nel nuovo paese il piccolo reimparerà la lingua materna (l’ebraico) e riprenderà a frequentare regolarmente la scuola. In Svizzera Ehud vi resta fino al 1958, anno in cui decide di trasferirsi in Israele, dove entra a far parte di un’organizzazione che si occupa del supporto ai sopravvissuti della Shoah. Molti di questi, fino a quel momento, non avevano condiviso la propria esperienza con nessuno (chi per precisa volontà, chi per incapacità o impossibilità).  Cominciano a farlo proprio ora, con Ehud, cui aprono i cuori e le menti, incontro dopo incontro, raccontandogli storie inaudite e inenarrabili. Per otto anni Ehud presta assistenza ai sopravvissuti; poi decide di smettere: il portato di atrocità e sofferenza insito in queste storie è divenuto troppo gravoso per poter essere sostenuto ancora a lungo. Da questa esperienza così intensa e dolorosa Ehud ha imparato una grande verità: che non bisogna mai perdere di vista l’individualità insita nella tragedia dell’Olocausto. Ciascuno degli ebrei sopravvissuti alla Shoah è portatore di una storia individuale, di una vicenda fatta di stermini familiari e di persecuzioni sulla propria pelle, e che questo vissuto personale non può stemperarsi in un dato statistico, quandanche immenso come quello di sei milioni di vittime.

     

    È così che Ehud ha iniziato a collaborare con lo Yad Vashem e, dal 2004, è divenuto membro del Comitato per la designazione dei Giusti tra le Nazioni (istituito nel 1963), occupandosi della preparazione dei  dossier per la Francia. Il titolo di Giusto fra le Nazioni è riservato a quegli individui che hanno rischiato la propria vita per salvare quella degli ebrei. La gran parte degli individui cha hanno ottenuto il riconoscimento è di condizione sociale umile (come dimostra la storia personale di Ehud), spesso si tratta di persone molto religiose, sensibili ai valori umani, a prescindere dal credo che professano. Il procedimento che porta al conferimento del titolo è assai lungo e meticoloso e richiede che il dossier sia costruito con grande cura, raccogliendo testimonianze attendibili e assai circostanziate presso i sopravvissuti o i propri figli. Questi i criteri cui bisogna ottemperare: 1) è necessario che il non ebreo sia stato implicato personalmente nel salvataggio dell’ebreo perseguitato; 2) deve aver rischiato di perdere la vita o la libertà o la posizione sociale; 3) non si aspettava alcuna ricompensa economica (o onorificenza), né nell’immediato, né in futuro; 4) non era spinto da moventi di proselitismo religioso (conversione) o di adozione: 5) non deve aver salvato parenti prossimi (matrimoni misti) ebrei convertitisi al cristianesimo durante la guerra; 6) non deve essere stato un membro della resistenza ebraica; 7)  non deve avere un passato criminale. Ad oggi sono stati riconosciuti 24.000 Giusti fra le Nazioni.

     

    Materiali audiovisivi

     

    Come utilizzare le testimonianze filmiche in classe? Abbiamo due possibilità: 1) mostrare uno spezzone del filmato, quello che riteniamo più significativo al raggiungimento dei nostri obiettivi; 2)  mostrare l’intero filmato e osservare il personaggio agire, muoversi e raccontarsi in spazi e tempi diversi, prima e dopo l’Olocausto. L’uso della testimonianza del sopravvissuto consente di lavorare con l’empatia, che è cosa diversa dall’identificazione (il role play), ed è un ottimo strumento per combattere gli stereotipi. La storia di Ovadia Baruch, ad esempio, insegna che nei campi di sterminio sono stati deportati anche gli ebrei non polacchi; che esisteva un’importante comunità ebraica mediterranea, con un suo portato di tradizioni culturali; che non tutti gli ebrei erano ricchi e colti.

     

    Witness and Education

    Testimonianze filmiche a cura di Yad Vashem, nelle quali i sopravvissuti raccontano la storia della loro vita nei luoghi in cui gli eventi si sono consumati. I sopravvissuti sono accompagnati nel loro viaggio da esperti dell’ISHS che pongono loro domande orientate in senso didattico, in modo che la storia individuale del superstite scorra parallelamente alla Storia generale.

     

    Possa il tuo ricordo essere amore. La storia di Ovadia Baruch

    Ovadia Baruch ha 20 anni quando, nel marzo 1943, viene deportato con tutta la sua famiglia dalla Grecia ad Auschwitz-Birkenau. L’intera famiglia sarà presto mandata a morte nelle camere a gas, mentre Ovadia riuscirà a sopravvivere fino alla liberazione del campo di Mauthausen, nel maggio 1945. Durante la permanenza ad Auschwitz, Ovadia incontra Aliza Tzarfati, una giovane ebrea originaria della sua città natale. I due si innamorano, a dispetto delle condizioni inumane in cui vivono.  Il film documenta la loro storia d’amore e di sopravvivenza nel campo di Auschwitz, il loro miracoloso incontro dopo l’Olocausto e la famiglia che hanno creato in Israele.  

     

    Ritorno alla vita.

    La questione del “dopo” Shoah, ovvero del ritorno alla vita. È possibile tornare alla vita “normale” quando scopri di essere solo al mondo, senza più una casa, una famiglia e un lavoro; quando necessiti di rieducazione fisica e psicologica perché devi reimparare a mangiare e a camminare, e, soprattutto, devi superare lo shock del recente passato; quando le uniche strutture che possono offrirti accoglienza sono ancora una volta dei campi, ma questa volta di profughi; quando ti capita di dover ancora subire delle persecuzioni (alcuni ebrei polacchi, nel 1946, sono vittime di pogrom con l’atavica accusa di praticare il sacrificio rituale dei bambini cristiani); quando l’unico mezzo di trasporto che ti consente di spostarti da un luogo all’altro è ancora una volta un treno merci, con la differenza che stavolta però ci sali di tua sponte;  quando scopri che a nulla è valsa la guerra se il tuo paese è ancora sottoposto a un regime, anche se di colore diverso (molti sono gli ebrei che abbandonano l’Europa comunista per trasferirsi in Italia, Francia, Germania federale, oppure in Palestina, Usa, Australia); quando, se sei donna,  restare incinta ti sembra un autentico miracolo (le donne recluse nei campi soffrivano di amenorrea); quando, se sei un bambino dei campi profughi, una delle prime cose che fai con la paghetta che ricevi è di correre dal fotografo per farti ritrarre, perché la fotografia ti restituisce identità e dignità, ed è la prova tangibile che sei vivo; quando, se sei giovane e solo al mondo, entri a far parte del movimento sionista?

     

    Il luoghi di memoria

     

    Il dispositivo memoriale della Shoàh è complesso e vario, composto da un intreccio di luoghi di memoria. Vi è ilViale dei Giusti fra le Nazioni, dove oltre 2.000 alberi sono piantati in onore dei gentili che durante la Shoah hanno rischiato la propria vita per salvare la vita degli ebrei; il suggestivoMemoriale dei Bambini, dove, in una sala immersa nel buio e appena rischiarata da 5 piccole lampade la cui luce è rifratta mediante un gioco di specchi, una voce ripete in un incessante e dolorosoloop i nomi, la data di nascita e la provenienza del milione e mezzo di bambini ebrei sterminati dai nazisti; laSala del Memoriale, dove una fiamma perpetua arde accanto a un’urna contenente le ceneri delle vittime portate in Israele dai campi di sterminio;  laSala dei Nomi, un archivio circolare sormontato da una cupola a forma di cono ricoperta di 600 fotografie, in cui sono custoditi i nomi e le storie personali di ben tre milioni di vittime dell’Olocausto (l’archivio è consultabile dai visitatori anche on-line ed è in continua implementazione); laValle delle comunità perdute, un labirinto la cui sagoma ricorda la morfologia del Vecchio Continente, al cui interno è facile smarrirsi nel dedalo delle nazioni europee un tempo abitate dalle 5.000 comunità ebraiche decimate dai nazisti, di cui non è rimasto pressoché nulla se non il nome inciso sulle 107 pareti roccia viva di questo mausoleo a cielo aperto.
     

     

    Al Museo storico la vicenda della Shoah è raccontata da una prospettiva ebraica, lungo un percorso che si snoda attraverso 9 gallerie. La narrazione tematica e cronologica è punteggiata da finestre che si aprono sulle comunità ebraiche europee vissute e perite sotto il Nazismo e i regimi collaborazionisti, ed è condotta attraverso filmati, fotografie, documenti, lettere, diari, articoli, lavori artistici.
    LaGalleria d’arte raccoglie 10.000 opere, realizzate per lo più durante il periodo della Shoah nei ghetti, nei campi, nei covi e in altri posti dove l’impegno artistico era pressoché impossibile, a causa dello stato di totale deprivazione materiale e di collasso fisico e mentale in cui vivevano gli artisti. Malgrado ciò, i quadri sono stati realizzati e, in molti casi, sono sopravvissuti ai loro autori. Essi dunque esprimono lo spirito dei sopravvissuti e delle vittime.

     

    Il seminario

     

    Il materiale e le relazioni di questo articolo sono tratte dal seminario svoltosi a Gerusalemme dal 31 agosto al 9 settembre 2012, organizzato dal M.I.U.R. e dall’International School for Holocaust Studies dello Yad Vashem (The Holocaust Martyrs’ and Heroes’ Remembrance Authority), nell’ambito del ICHEIC Program for Holocaust  Education in Europe. Gli insegnanti che vi hanno preso parte, 18 in tutto,  rappresentavano gli Uffici Scolastici Regionali che hanno aderito all’iniziativa.  Quest’ultima è stata resa possibile grazie al prezioso lavoro di Anna Piperno dell’ IT for Cooperation on Holocaust Education, Remembrance and Research del M.I.U.R., e del suo efficiente staff (Lina Grimaldi e Giuliana di Scala).

     

    I seminari dell’International School for Holocaust Studies (ISHS) sono partiti negli anni Ottanta del secolo scorso in maniera saltuaria; solo successivamente, quando a livello internazionale si è avviata la lotta contro il negazionismo, l’ISHS ha deciso di dare il suo contributo per combattere l’antisemitismo e il negazionismo. Il Desk Italia ha lo scopo di promuovere progetti educativi per l’Italia. E’ nato nel marzo del 2005, in contemporanea con la  creazione del Dipartimento Europeo presso l’ISHS.

  • La Grande guerra poteva essere evitata?

    Autore: Daniele Boschi*  

    Un modulo Clil, ma non solo1

     

    1. Un’esperienza didattica
    2. Due opposte tesi storiografiche
    3. Il ruolo del “caso” nella storia: un colpo di pistola ha cambiato la storia del mondo?
    4. Determinismo, libertà, caso
    5. Conclusioni

     

    1.    Un’esperienza didattica

     

    In questo articolo riferirò un’esperienza didattica realizzata nel passato anno scolastico in una classe quinta del Liceo Scientifico Statale “Nomentano” di Roma. Ho proposto ai miei studenti un modulo sul tema: la Grande guerra poteva essere evitata?

    Il modulo è stato svolto in modalità CLIL: ovvero in lingua inglese e con una metodologia didattica che attribuisce allo studente il ruolo di protagonista del processo di apprendimento2 .

    L’idea di un percorso didattico su questo argomento è nata da un articolo di Luigi Cajani dedicato alle origini della Prima guerra mondiale e alla didattica della storia controfattuale3 . In questo articolo Cajani aveva esaminato le posizioni assunte dalla recente storiografia e dalla manualistica scolastica riguardo alla questione se la Prima guerra mondiale fosse o meno evitabile. Ed aveva spezzato decisamente una lancia in favore della storia controfattuale, considerandola come un utile ed interessante strumento di analisi storica, dal quale può trarre spunto anche la pratica didattica.

    Cajani aveva inoltre osservato che da parecchio tempo la storia controfattuale ha smesso di essere un tabù per gli storici: sia alcuni storici contemporaneisti italiani, sia un buon numero di studiosi dell’area anglosassone hanno fatto ricorso, in diverse occasioni, alla controfattualità, superando così l’anatema lanciato contro di essa da storici del calibro di Edward Carr e di Edward P. Thompson4 .  

    La prospettiva controfattuale è stata perseguita, con cautela, anche nel mio modulo. Questo ha impegnato la classe per un totale di nove ore di lezione, delle quali sei ore dedicate allo studio dell’argomento e tre ore destinate alle relazioni e alle verifiche finali.

    La classe è stata divisa in sei gruppi di lavoro composti da quattro o cinque studenti ciascuno. Nella prima parte del modulo (le prime sei ore) ho sottoposto agli studenti una serie di testi della lunghezza di una pagina/una pagina e mezzo, seguiti da alcune domande. Gli studenti dovevano leggere e discutere questi testi, rispondere alle domande nell’ambito del loro gruppo e poi riferire brevemente le loro conclusioni al resto della classe.

    Successivamente ho assegnato ulteriori testi da leggere a casa per approfondire vari aspetti dell’argomento. I gruppi avevano un mese di tempo per riesaminare e ridiscutere tutti i testi e per preparare una relazione scritta nella quale dovevano sostenere una propria tesi, argomentandola in modo adeguato. Il modulo si è concluso con la presentazione orale delle sei relazioni, seguita da una verifica scritta finale di tipo individuale (questa fase conclusiva ha occupato le ultime tre ore del modulo).

    Un aspetto importante della preparazione dell’attività didattica è stato quello relativo alla predisposizione dei testi da sottoporre agli studenti. Occorrevano infatti dei testi non troppo lunghi o complessi, ma allo stesso tempo dotati di un livello di articolazione e di approfondimento sufficiente a porre le basi per un confronto tra punti di vista differenti e adeguatamente motivati. Sottolineo questo aspetto perché ho l’impressione che la difficoltà di reperire o elaborare testi e materiali didattici adeguati sia uno dei principali ostacoli allo sviluppo di una pratica didattica alternativa al modello di stampo tradizionale.

    Mi soffermerò ora sulle principali tematiche affrontate nel modulo e su alcuni dei testi proposti agli studenti.

     

    2.    Due opposte tesi storiografiche

     Nella prima parte del modulo ho proposto anzitutto agli studenti le due opposte tesi di Eric Hobsbawm e di Margaret MacMillan riguardo alla questione se la Grande guerra poteva o no essere evitata. Eric Hobsbawm nel suo classico studio sulla “età degli imperi” affermò che i contrasti tra le potenze europee, derivanti dallo sviluppo del capitalismo e dall’espansione coloniale e imperialistica, avrebbero inevitabilmente prodotto, prima o poi, una guerra generale. Margaret MacMillan, nel suo recente libro intitolato The War that Ended Peace, ha invece affermato che la Grande guerra poteva essere evitata. Laddove Hobsbawm aveva posto l’accento sui processi storici di lungo e medio periodo, la MacMillan pone l’accento sulle scelte individuali, sulla cattiva qualità degli statisti che si trovarono a capo delle principali potenze europee e sul ruolo svolto da alcuni eventi che potremmo definire “casuali”5.

    Date le caratteristiche e la complessità dei due libri, non era possibile estrarre da essi dei brani che contenessero sia la tesi fondamentale dello storico, sia le argomentazioni addotte per sostenerla.

    Hobsbawm sviluppa il suo lungo e complesso ragionamento circa le origini della Prima guerra mondiale nelle quasi trenta pagine del cap. XIII dell’Età degli imperi6 . E’ stato indispensabile effettuare una sintesi di questa parte del suo libro.

    La Macmillan afferma subito con chiarezza che la Grande guerra non era inevitabile7 , ma le “prove” a sostegno di questa tesi sono sparse per l’intero suo volume, lungo circa settecento pagine. In questo caso ho preferito prendere come testo di base quello di una conferenza tenuta dalla MacMillan a Sarajevo il 27 giugno 2014 sul tema Was World War I Inevitable? e farne un breve riassunto8 .    

                                           

    Ho presentato quindi agli studenti le due opposte tesi storiografiche in un unico testo di circa trenta righe. Dopo un primo esame gli studenti si sono quasi tutti schierati a favore della tesi di Hobsbawm. Questa uniformità di giudizi mi ha lasciato alquanto perplesso e ho ipotizzato che essa fosse dovuta al fatto che la tesi di Hobsbawm faceva riferimento a fatti già noti agli studenti, come lo sviluppo del sistema capitalistico, il colonialismo, l’imperialismo; mentre la MacMillan rinviava a fatti non altrettanto noti, come ad esempio lo sviluppo di varie associazioni e movimenti di orientamento “pacifista” nel periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo.

    Ho deciso perciò di presentare la tesi della MacMillan in un secondo testo più dettagliato; a questo punto diversi studenti hanno cambiato opinione, motivando questa decisione con il fatto che la tesi della storica canadese non era risultata del tutto chiara dopo la lettura del primo testo. Questo episodio mi ha fatto comprendere un fatto importante: quando si vuole sollecitare una presa di posizione degli studenti su tesi contrapposte, è necessario che esse siano presentate non soltanto in modo equilibrato, ma anche tenendo conto delle conoscenze già in possesso degli studenti.

     

    3.    Il ruolo del “caso” nella storia: un colpo di pistola ha cambiato la storia del mondo?

     La MacMillan richiama l’attenzione sul ruolo svolto dal “caso” nella lunga catena di eventi che condussero alla Prima guerra mondiale9 . Ho deciso allora di affrontare più direttamente il tema della apparente casualità di molti eventi storici, a partire da una narrazione molto dettagliata degli avvenimenti della giornata del 28 giugno 1914 a Sarajevo, culminati nell’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono austro-ungarico, e di sua moglie Sofia.

    Tutti sappiamo che l’attentato ai danni dell’arciduca stava per fallire e andò a segno, alla fine, soltanto per il concorso di una serie di circostanze apparentemente fortuite.

    I fatti sono noti, ma li riassumo brevemente. Nel giugno del 1914 un gruppo di nazionalisti serbi, informati della decisione dell’arciduca Francesco Ferdinando di visitare la Bosnia, provincia annessa all’Impero austro-ungarico nel 1908, aveva preparato un attentato per uccidere l’erede asburgico. Nonostante l’evidente pericolo al quale l’arciduca si stava per esporre, ben poche misure furono prese per garantire la sua incolumità. La sua visita ufficiale a Sarajevo avvenne, come previsto, il 28 giugno.

     
    L’attentato di Sarajevo nel disegno di Achille Beltrame per la copertina della «Domenica del Corriere» del 5 luglio 1914.

    La mattina di quel giorno ben sette giovani terroristi serbo-bosniaci erano appostati nel centro di Sarajevo sul lungofiume Appel, dove il corteo di auto nel quale viaggiava Francesco Ferdinando doveva transitare prima di arrivare al municipio. Il primo terrorista ad entrare in azione fu Čabrinović che lanciò una bomba in direzione dell’autovettura scoperta sulla quale sedevano l’arciduca e la moglie, ma mancò il bersaglio e l’ordigno esplose sotto la vettura che seguiva, ferendo diverse persone. Mentre gli altri terroristi si dileguavano, Francesco Ferdinando proseguì il suo viaggio fino al palazzo del municipio dove ci fu una breve cerimonia. In seguito l’arciduca espresse il desiderio di recarsi in ospedale per visitare i feriti. Il corteo di auto ripercorse a ritroso il lungofiume Appel, ma l’autista che guidava il corteo, non essendo stato informato del nuovo programma, sbagliò strada girando a destra in via Francesco Giuseppe, dove si era nel frattempo appostato Gavrilo Princip. Le auto si fermarono per tornare indietro e Princip poté allora facilmente avvicinarsi all’auto dell’arciduca e uccidere lui e la moglie Sofia con due colpi di pistola esplosi da distanza ravvicinata10

    Per il racconto di questi eventi mi sono servito di un video in lingua inglese abbastanza ben fatto, tratto da una canale di “YouTube” dedicato alla Grande guerra11 . Ho proposto agli studenti la visione di questo filmato e la lettura della trascrizione del testo audio. Ho chiesto quindi agli studenti di immaginare se la Prima guerra mondiale sarebbe ugualmente scoppiata qualora l’attentato fosse fallito. La domanda non è nuova, ovviamente. In un dibattito sulla rivista on-line “Caffè Europa”, Giovanni Sabbatucci si è spinto fino alla seguente affermazione:
    «Se mentre Gavrilo Princip, l’attentatore di Sarajevo, puntava la pistola contro l’arciduca Francesco Ferdinando, una mosca fosse passata davanti al suo naso e gli avesse fatto sbagliare mira, sono assolutamente convinto che la storia del mondo sarebbe cambiata»12 .

    Avendo più tempo a disposizione, la prospettiva controfattuale avrebbe potuto essere ampliata fino a domandarsi che cosa sarebbe accaduto in Europa e nel mondo se la Grande guerra non fosse mai scoppiata.

    Ho preferito invece partire dall’attentato di Sarajevo per sollecitare gli studenti ad una riflessione di tipo filosofico sul concetto di “caso”: il “caso” esiste davvero oppure ciò che noi chiamiamo “caso” è soltanto il continuo incrociarsi, inevitabile ma impossibile da ricostruire interamente, di diverse sequenze o catene di eventi indipendenti l’una dall’altra?13

     

    4.    Determinismo, libertà, caso

     A questo punto abbiamo abbandonato del tutto l’indagine storica e ci siamo concentrati sulla riflessione filosofica. La discussione sulla inevitabilità o meno della Grande guerra evoca infatti non soltanto il tema del “caso”, ma anche quelli, ad esso correlati, del determinismo, nelle sue varie sfaccettature, e della libertà dell’uomo, ovvero del “libero arbitrio”. Sono temi attorno ai quali i filosofi hanno dibattuto fin dall’antichità e sui quali continuano a discutere ancora oggi.

    Stimolato anche dai materiali che avevo trovato sul web14 , ho pensato di proporre agli studenti, in forma sintetica, le principali posizioni presenti nel dibattito filosofico contemporaneo sul tema del libero arbitrio. Esse si possono riassumere nello schema seguente:
        
     

    In breve, il determinismo radicale afferma che essendovi un unico possibile corso di eventi gli uomini non sono liberi; il compatibilismo sostiene al contrario che determinismo e libertà non sono in contraddizione tra loro; per l’incompatibilismo radicale non solo il determinismo, ma anche l’indeterminismo rende impossibile la libertà; mentre il libertarismo afferma, al contrario, che proprio perché la realtà non è interamente soggetta a leggi di tipo deterministico, la libertà è possibile, almeno per l’uomo15.

    I testi che avevo trovato su internet erano troppo lunghi e complessi, oppure erano in lingua italiana16.  Ho deciso allora di utilizzare il testo presente sull’edizione di Wikipedia in lingua inglese alla voce Free Will17.  Anche in questo caso gli studenti, dopo aver letto il testo, dovevano rispondere ad alcune domande: non soltanto dovevano dire quale di queste quattro dottrine filosofiche sembrava a loro più plausibile, ma anche suggerire quale fosse l’atteggiamento più corretto da assumere per uno storico su questa questione, che ha carattere eminentemente filosofico, ma presenta anche evidenti implicazioni per la valutazione delle decisioni e delle scelte dei grandi protagonisti della storia.

    Lo svolgimento di questa parte del modulo è stato abbastanza problematico. I concetti filosofici implicati nel dibattito sul libero arbitrio nella filosofia contemporanea sono abbastanza complessi, a volte oscuri, e a ciò si aggiungeva la difficoltà di doverli trattare in lingua inglese; inoltre il testo di Wikipedia è in alcune parti poco chiaro e ha richiesto ulteriori spiegazioni da parte mia. Penso tuttavia che gli studenti abbiano tratto beneficio dall’aver affrontato il tema delle cause della Grande guerra in una prospettiva filosofica e sono convinto che questo approccio interdisciplinare potrebbe essere ulteriormente sviluppato attraverso un percorso didattico di respiro più ampio, basato su testi adeguati rispetto alle competenze linguistiche e all’attrezzatura mentale di uno studente di Liceo.

     

    5.    Conclusioni

     In generale gli studenti hanno partecipato all’attività didattica con notevole interesse e ci sono state discussioni abbastanza accese all’interno dei gruppi. Le relazioni finali hanno mostrato che la classe si è spaccata grosso modo a metà tra le due opposte tesi di Hobsbawm e della MacMillan, con divisioni anche interne ad alcuni dei gruppi. Tutti i gruppi hanno argomentato le proprie tesi in modo abbastanza articolato e tre su sei hanno fatto riferimento non soltanto alle tesi storiografiche esaminate, ma anche al dibattito filosofico contemporaneo.

    Anche se il mio giudizio su questa esperienza è nell’insieme positivo, non voglio nascondere le criticità che da essa sono emerse: per gli studenti la difficoltà maggiore è stata quella di dover affrontare in lingua inglese un argomento molto complesso; per me quella di organizzare, gestire e infine valutare il lavoro dei gruppi; anche la valutazione finale dei risultati raggiunti dai singoli studenti si è rivelata alquanto problematica, per la difficoltà di distinguere quanto era frutto di una elaborazione personale da quanto proveniva invece dal lavoro del gruppo. Intendo comunque riproporre di nuovo il modulo che ho illustrato, ma al di fuori del CLIL e facendo tesoro dell’esperienza già fatta.   

    *(Liceo Scientifico Statale “Nomentano”, Roma)

     

    NOTE

    1Questo articolo è un ampliamento della relazione presentata al convegno della SISSCO (Società italiana per lo studio della storia contemporanea) sul tema Insegnare la storia ai millennials, svoltosi a Roma il 27 gennaio 2017.
     2Sul CLIL (Content and Language Integrated Learning) esiste una abbondante letteratura, sia cartacea sia on-line. Chi voglia approfondire l’argomento può partire dai siti istituzionali del MIUR e dell’INDIRE  . Su “Historia ludens” si può leggere l’articolodi PAOLO CECCOLI, I dolori del professore CLIL.
     3 LUIGI CAJANI, Le origini della Prima guerra mondiale e la didattica della storia controfattuale, in “Didactica historica”, I (2015), pp. 45-50.
     4Sulla storia controfattuale e la sua rilevanza per la didattica si può leggere su questo stesso sito l’articolo di ANTONIO BRUSA, E se Alessandro avesse combattuto contro i Romani? Problemi teorici e pratici di didattica controfattuale.
     5ERIC J. HOBSBAWM, L’Età degli imperi 1875-1914, Roma-Bari, Laterza, 1987 (ed. orig.: The Age of Empire, 19872); MARGARET MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, Milano, Rizzoli, 2013 (ed. orig.: The War that Ended Peace: the Road to 1914, 2013).
     6HOSBAWM, L’Età degli imperi, cit., pp. 345-373.
     7MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, cit., p. 21.
     8La conferenza si può ascoltare su YouTube. Sempre sullo stesso tema la MacMillan ha curato una pagina del sito della BBC, intitolata How close did the world come to peace in 1914? . Quest’ultimo testo è abbastanza semplice ed è quindi accessibile anche agli studenti del quinto anno del Liceo.
     9Che cosa sarebbe successo – si chiede ad esempio la MacMillan - se il figlio e successore dell’imperatore tedesco Guglielmo I, Federico III, di orientamento liberale, non fosse morto di cancro nel 1888 e avesse regnato sulla Germania per i successivi vent’anni? La Grande guerra sarebbe scoppiata ugualmente, se nel 1914 alla guida dell’Impero tedesco vi fossero stati uomini della tempra di un Bismarck? Come sarebbero andate le cose, se non fossero usciti di scena in modo abbastanza fortuito uomini come il ministro degli Esteri tedesco Kiderlen, il ministro delle Finanze francese Caillaux, il monaco Rasputin, o lo stesso Francesco Ferdinando? Tutti uomini che avrebbe potuto dare un valido contributo al mantenimento della pace, se fossero stati ancora presenti sulla scena politica nell’estate del 1914, o nei mesi ed anni successivi. Cfr. MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, cit., pp. 107, 615, 627, 645.
     10Cfr. MACMILLAN, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, cit., pp. 607-614.  Un resoconto molto più dettagliato sia dei preparativi e dei retroscena dell’attentato, sia degli eventi del 28 giugno 1914, si può leggere in CHRISTOPHER CLARK, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 54-71, 401-410 (ed. orig.: The Sleepwalkers. How Europe Went to War in 1914, 2012).
     11Si tratta del video di INDY NEIDELL intitolato A Shot that Changed the World tratto dal canale The Great War.
     12SIMONA COLARIZI, GIOVANNI DE LUNA, GIOVANNI SABBATUCCI, NICOLA TRANFAGLIA, Forum/Il nostro "posto al sole" sotto Hitler, in “Caffè Europa”, n. 124, 10 marzo 2001 . Il testo è citato in CAJANI, Le origini della Prima guerra mondiale, cit., p. 48.
     13Gli studenti dovevano approfondire questo tema sulla voce Caso del Dizionario di filosofia on-line della Treccani.
     14Cfr. ad esempio le seguenti due voci della Stanford Encyclopedia of Philosophy: Compatibilism a cura di MICHAEL MCKENNA e di D. JUSTIN COATES, e Free Will a cura di TIMOTHY O'CONNOR; oppure la voceLibertà e determinismo, a cura di MARIO DE CARO, nella Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007).
     15Un buon punto di partenza per i docenti che vogliano affrontare questo tema è MARIO DE CARO, Il libero arbitrio. Una introduzione, Roma-Bari, Laterza, 2004.
     16Vedi la nota 14.
     17Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Free_will. Più esattamente ho utilizzato la parte introduttiva di questo articolo.

  • La guerra insegnata (parte II)*. E la didattica che abbiamo perduto.

    Autore: Antonio Brusa

     

    La storia

    Galvanizzati dal successo dello sbarco in Normandia e, insieme, preoccupati dalla resistenza feroce organizzata dai tedeschi nelle Ardenne, gli angloamericani azzardarono un assalto dietro le loro linee, per tagliarne i rifornimenti e accerchiarle. Obiettivo dell’attacco: le città di Njimegen e di Arnhem, nell’Olanda meridionale, e i ponti che attraversano i loro fiumi. Nome dell’operazione “Market Garden”, tragicamente ottimistico per come andò a finire. Tempo: dal 17 al 26  al settembre. Nove giorni di battaglia, per un autentico disastro. Migliaia di morti, il ponte di Arnhem perso, decine di migliaia di prigionieri. Obiettivo militare completamente fallito. La guerra continuò per tutto il terribile inverno del ’44 e solo nei mesi iniziali dell’anno successivo gli alleati riuscirono a sfondare la resistenza tedesca. Il Museo della Liberazione di Groesbeek, nei dintorni di Nijmegen, è uno dei tre che, sul luogo della battaglia, ne conservano la memoria. L’ho visitato e sono stato colpito sia dallo sforzo didattico che i suoi progettisti vi hanno profuso, sia dallo spirito degli oltre ottanta volontari che mantengono in vita questa istituzione. Ecco il resoconto.

     

    Il teatro dell’operazione “Market Garden”, con le due città di Nijmegen e Arnhem. Groesbeek è in basso a destra. Qui vennero paracadutate le truppe d’assalto americane. Le truppe inglesi aviotrasportate attaccarono Arnhem.

     

    Indice

    • Il museo
    • Gli oggetti didattici
    • Il memoriale

     

    Il museo

    Il complesso è composto da due edifici: il museo e il memoriale.

    Ancora prima di visitarli, ascoltando la loro storia e osservandoli dall’esterno, scopro che sono essi stessi il primo monumento storico. Infatti l’edificio museale non è altro che uno stabile “industriale”, residuato dell’immensa opera di bonifica che gli olandesi intrapresero dopo la catastrofe dello Zuidersee del 1953, quando il mare ruppe le dighe e inondò i Paesi Bassi. La bonifica terminò a metà degli anni ’80 e uno dei capannoni di lavoro, in luogo di essere smantellato, venne riciclato come contenitore museale. E’ un edificio basso, senza pretese architettoniche, dunque, ma capace di trasmettere una forte carica emotiva al visitatore olandese (ma anche allo straniero che viene informato), perché unisce due momenti di tradizione nazionale, la guerra contro il nazismo e quella contro la furia del mare.

    Il percorso museale è scandito in tre periodi, riconoscibili da colori diversi: l’avvento del nazismo, la guerra, la liberazione postbellica. Non ne parlo, né descrivo i documenti raccolti e la loro sistemazione (non sono un esperto museologo), perché sono attratto dai dispositivi didattici. Anche questi sono una testimonianza di un periodo preciso: vi riconosco la didattica post sessantotto, quella che dura fino al principio degli anni ’90, nella quale si osservano i primi tentativi (e il loro entusiasmo) di costruire un rapporto con l’oggetto storico basato sull’interazione, e non solo sul racconto delle guide. Ma è anche la didattica del Novecento, basata sulla tecnologia di quel periodo: elettricità, carta, legno e metallo. Un mondo didattico recente, ma ormai scomparso nel nostro secolo, dominato dai computer e dall’elettronica. Simile a quel mondo che ci ostiniamo a cercare, noi adulti, nei giocattoli esposti nelle librerie della Città del Sole.

     

    Il Museo della Liberazione Nazionale di Groesbeek è alloggiato in una costruzione riciclata, utilizzata originariamente per le opere di bonifica dopo l’alluvione del 1953

     

    Gli oggetti didattici

    La realtà virtuale ha conquistato il ruolo di unica via per “far vedere la storia” e ha privato di credibilità ogni altro tentativo di visualizzazione. Questo museo ci mostra come si faceva una volta: attraverso i diorami o i plastici. La realtà virtuale li ha relegati al ruolo di giocattoli scaduti. Un tempo erano uno strumento didattico di avanguardia. Costoso, richiedeva cura, capacità tecniche e studi. In questi musei ne troviamo esemplari di diverso formato. Alcuni, piccoli, rappresentano momenti emblematici dell’avvento nazista o di guerra, come lo sbarco in Normandia. Uno, a grandezza naturale, fissa una scena drammatica, del tentativo di attraversamento del fiume da parte di soldati americani, costretti a ripiegare e a curare i feriti.

    Piccoli plastici: scene di età nazista e lo sbarco in Normandia

     

     

    Quasi a grandezza naturale un momento drammatico del tentativo di attraversamento del fiume

     

    L’interattività è la parola d’ordine dell’odierna didattica digitalizzata. Come si faceva un tempo? Con le lucette e i pulsanti. Un plastico circolare, di alcuni metri di diametro, con delle sedie attorno. Il visitatore si accomoda. Una voce racconta le fasi della battaglie e, man mano, si accendono le luci che rappresentano l’avanzata di una colonna corazzata tedesca, o l’atterraggio degli alianti inglesi. Un faretto illumina i luoghi interessati dal racconto. Puoi anche premere dei pulsanti e vedere fasi particolari: come nel plastico “elettrico” degli scontri sui ponti di Nijmegen. Entrare dentro la storia? Il computer odierno rende reale questa magia. Nella didattica eroica novecentesca è ancora questione di pulsanti e lampadine. Ecco una schermata che mostra delle scelte. Siamo sotto la dominazione nazista. Ci sono dei collaborazionisti. Tu che faresti? Fai la tua scelta, premi il bottone e vedrai le conseguenze. E, infine, lo vediamo il computer, sempre collegato al pannello elettrico. Una scrittura antica (quella dei primi Word o di Wordstar: ve li ricordate?) accoppiato all’onnipresente pannello, con la sua aria da sommergibile del capitan Nemo.

     

    Seduto ai bordi del plastico, il visitatore italiano, riconoscibile dalle scarpe da ginnastica, ascolta la storia e guarda le lucette.

     

     

    Gli scontri intorno al ponte sono visualizzati dalle lucette intermittenti

     

     

    Tre scelte empatiche sulla collaborazione con i tedeschi

     

     

    Un antico computer affiancato da un pannello elettrico

     

    Anche la didattica ludica, oggi, sembra non poter fare a meno del computer, dei suoi scenari realistici, della complessa interazione garantita da programmi sempre più complessi (e costosi). Un tempo, era il regno del gioco dell’Oca, che in questo museo è utilizzato per ricostruire gli eventi dal Nazismo alla liberazione; oppure del Monopoli, che riprende lo stesso percorso e lo riformula con le sue regole specifiche. In questo caso, sono documenti autentici: giochi stampati e diffusi nell’immediato dopoguerra. Ma ci sono giochi (o attività ludiche) progettate apposta per il museo. Non sono meno interessanti. Una bilancia e dei pesi: i fatti e i pregiudizi. Riuscite a trovare un equilibrio (il fatto che sconfigge il relativo pregiudizio)? Oppure uno scaffale con  22 caselle. Accoppiatele nel modo giusto. Si accenderà la lucetta verde e avrete vinto. Infine, il gioco che mi ha commosso: un pannello verde con dei buchi, attraverso i quali si vede un colore diverso. Si chiede alla classe di scegliere il colore della pelle che preferisce (immaginate una classe olandese multicolore). Ognuno sceglie il suo, ovviamente. Si solleva il pannello, compare il petto di un giovanotto. Quei colori diversi erano variazioni della stessa pelle, dello stesso uomo. Un giochino senza pretese, oggi diremmo dall’alto della nostra ipertecnologia iperpedagogizzata. Ma un ottimo punto di partenza per una discussione sul tema (e anche un buon modo per chiudere una visita ad un museo sulla guerra).

    Funzionano queste semplici macchinette didattiche? A giudicare dai visitatori, sì. 40 mila annuali non sono pochi, per un piccolo museo, con soli tre impiegati stabili e 80 volontari che lo mandano avanti, fanno le guide o gli animatori, puliscono, tengono il bar (ampio e confortevole, come mi capita spesso di vedere oltrealpi) e il piccolo bookshop, che non vende modellini di armi, ma cappellini, magliette, agende e penne, papaveri di stoffa rossa, e libri.

     

    Il gioco dell’Oca e il Monopoli sulla liberazione

     

     

    La bilancia dei fatti e dei pregiudizi e lo scaffale delle corrispondenze

     

     

    Gioco interculturale: scegliete il colore della pelle, poi sollevate il pannello verde

     

    Il memoriale

    Il memoriale ha l’aspetto di un paracadute. Forse non fu progettato da un archistar, ma questa forma e il materiale trasparente con cui è realizzato, creano un ambiente luminoso che non ti aspetti per un luogo di memoria. Tutto è chiaro, anche il corridoio che circonda la sala delle conferenze, sulle cui pareti sono appesi i simboli dei reggimenti che parteciparono all’impresa. Da un albero stilizzato dondolano dei foglietti. Sono le riflessioni dei bambini al termine della visita. Scrive Bodine: “mai più guerre”. Sarà retorica, buonismo, quello che volete. Ma è meglio che scrivano frasi di questo genere, piuttosto che quelle che, al tempo del nazismo e durante la guerra, i bambini di entrambi i fronti erano portati a scrivere.

    Una didattica ingenua? Passata di moda? Una didattica povera, superata dai tempi? E’ facile pensarlo e qualcuno, a questo punto sarà di questa idea. La mia è divisa in due ordini di riflessioni. Il primo riguarda questa struttura e le persone che la fanno andare avanti e il flusso dei visitatori, incessante, anche in un giorno di pioggia, come quando ci sono andato io. Il confronto con l’Italia è spontaneo. Anche da noi ci sono musei di guerra: quelli del Risorgimento; quelli della prima e della seconda guerra mondiale, ai quali ho dedicato un lavoro che vedrete presto su HL; quelli della Resistenza. Ora, al di là del loro successo di pubblico, molto vario (per esempio quelli del Risorgimento non è che ne riscuotano tanto, nonostante il recente 150esimo), nei nostri musei di guerra si celebra qualcosa di nostro: il patriota che combatte per l’Indipendenza, o contro il nemico, o per la libertà e una società più giusta. Ma sempre un italiano. A Groesbeek no. Gli eroi sono americani, canadesi, inglesi, polacchi, e tanti altri. Altri, appunto. Eppure, la cura, la passione per la memoria sono palpabili e concreti, come abbiamo visto, nell’imponente numero di volontari. Memoria nazionale, certamente, ma non assistita e concretizzata da eroi egualmente nazionali. Tanta passione, mi sembra di poter dire, per “l’episodio in sé”. Qualcuno è venuto qui e ha combattuto per la libertà. E questo va ricordato.

    Sono solo i pensieri di un visitatore. Nulla di scientifico, ma non posso fare a meno di ricordare il cimitero di Corpusu (Capurso), che i baresi conoscono benissimo, dove sono sepolti i soldati polacchi che caddero in Italia, combattendo contro il nazismo. Confesso di non esserci mai entrato. Mi chiedo quanti miei concittadini hanno fatto come me e mi rammento di un esame (l’argomento era “i luoghi di memoria”), durante il quale la studentessa non seppe dirmi se questi polacchi combattevano con gli Alleati o con i Nazisti.

     

    Il secondo ordine di riflessioni è più tecnico. Quella didattica che ho cercato di raccontarvi è essa stessa un cimelio di un passato. Rende palpabile l’enorme distanza che ormai separa gli anni ’80 dall’oggi. E, paradossalmente o miracolosamente, funziona bene ancora. So che in quella regione (la crisi c’è ovunque) si fa l’ovvio ragionamento che tre musei vicini sono troppi e che sarebbe bene accorparli. Mi piacerebbe che non buttassero via questi giocattoli didattici e avessero l’intelligenza di creare loro uno spazio museale. Anche loro, come gli ambienti e le scene di vita degli anni ’40 e ’50, così ben ricostruite, meritano un posto nella memoria sociale.

     

    Il memoriale di Groesbeek a forma di paracadute

     

     

    L’interno del memoriale

     

     

    Lungo il corridoio perimetrale i simboli dei reggimenti di diversa nazionalità impegnati negli scontri

     

     

    I ragazzi scrivono le loro impressioni su biglietti, che vengono appesi a un albero.

    Mai più la guerra. Bodine

     

    *La prima parte è stata già pubblicata su HL. Descrive la didattica dei musei di guerra in Francia. Le parti successive sono dedicate alla didattica di guerra in Italia.

  • La guerra insegnata. Note di didattica per la scuola e per i musei. (Parte prima)

    Autore: Antonio Brusa


    La guerra insegnata. Note di didattica per la scuola e per i musei. (Parte prima)

     

    Indice


    1. Craonne, la città martire
    2. Gallipoli, la spiaggia sacra
    3. Perché studiare la guerra?

     

    1. Craonne. La città martire

     

     Craonne si trova nel Nord Est della Francia, sotto le Ardenne, dove si affrontarono soldati di molte guerre, europee e mondiali. Per una di quelle eccezioni che si imparano solo in loco, si pronuncia Cran (ma dubito tutti i francesi lo sappiano). La città è piccolissima, un insediamento sparso, con una vecchia scuola, adibita a mensa, e un palazzo comunale costruito con i fondi del governo svedese (omaggio alla città martire). La città importante più vicina è Laon. A un medievista brillano gli occhi a sentirne il nome. Qui si elaborò la scrittura detta “Laon A Z”, sulla quale molti studenti di paleografia, me compreso, hanno consumato i loro occhi. Anche Laon si dice “Lan”. Ho perso l’occasione di farmene bello, di questa particolare pronuncia, con Franco Magistrale, che mi insegnò quella scrittura. Mi consolo dedicandogli questo piccolo lavoro.

     

    L’alboreto di Craonne è un luogo dello spirito. Cento anni fa era l’inferno. Craonne, infatti, è una cittadina che si trova al termine dello Chemin de Dames. Il nome delizioso di questa lunga vallata viene dal 1700, quando le signore del tempo vi passeggiavano con le loro carrozze. Durante la Prima Guerra mondiale era pronunciato con terrore dai soldati. Quella valle era la linea di contatto fra le armate tedesche e quelle francesi. Nel piccolo palazzo comunale di Craonne, due plastici, forse un po’ ingenui, illustrano efficacemente la situazione militare: le trincee nemiche scorrevano parallele, a volte a pochi metri di distanza; mentre – in alto – dal costone che sovrasta la vallata, i tedeschi mitragliavano e bombardavano i francesi, che cercavano invano di ripararsi dietro fortificazioni di ogni specie.


    Quel luogo fu un macello umano. Nella prima giornata di assalti morirono quasi cinquantamila francesi. Alla fine della guerra le vittime furono diverse centinaia di migliaia, da entrambe le parti. Fra di loro, anche cinquecento italiani, di un corpo d’armata inviato dal Regno d’Italia a soccorrere l’alleato in difficoltà. Un quadro, anch’esso alquanto ingenuo, esposto nel comune, ci restituisce il senso di una tragedia ottusa. Ritrae una lunga fiumana di soldati, visti di spalle. Procedono stretti l’uno accanto all’altro verso l’orizzonte, dove c'è Craonne in fiamme, e dove moriranno. Craonne è una metonimia di ogni guerra combattuta sui campi e studiata nelle scuole.


    La cittadina di Craonne, ai piedi del costone, fu distrutta dalle artiglierie francesi. Dopo la guerra non venne ricostruita in loco, ma a pochi chilometri di distanza. Al suo posto hanno lasciato crescere gli alberi. Scendi nel parcheggio, dall'auto o dal pullman che scarica i visitatori, e ti dirigi verso il bosco. Ti inoltri per i viottoli. Riconosci facilmente che furono un tempo le strade della città. Ad ogni svolta, un cartello con la foto d’epoca ti avvisa che c’era una piazza, al posto della radura; e più avanti ancora il fornaio e poi la scuola comunale. La vita degli alberi, al posto di quella degli uomini e delle loro cose. Forse è questo il senso di pace, che l'alboreto ti comunica?

    Craonne come è oggi e come era prima della distruzione


    Più in là, verso il costone di roccia, vedo degli operai. Lavorano alle attrezzature turistiche del sito. Strade, scale, giardini curati. Il costone di roccia era stato traforato dai tedeschi, con tunnel e bunker. Uno di questi, la Caverna del Drago, è diventata un museo, al termine del quale si passa in un bar/ritrovo, che si apre sulla valle con una balconata spettacolare. Quello era il punto di vista dei soldati tedeschi, e ora è il mio. Oggi, vedo una distesa di colline morbide, con macchie alberate, fattorie, campi coltivati. Il soldato tedesco scrutava quella distesa ingrigita dal fumo, dai ruderi e dai tronchi bruciati, alla ricerca di nemici da eliminare.

     

    L’ingresso del bunker, chiamato la Caverna del Drago; il belvedere attrezzato del museo omonimo

     

    I cittadini di Craonne trovano nel turismo di guerra una fonte di sostentamento. Non c'è bisogno di una indagine accurata per capirlo. Ho la sensazione, però, che lo facciano con dignità. E' una sensazione, certo. Forse, sono anche influenzato dal fatto che la città non si limita al turismo, ma promuove una ricerca accanita e senza veli sulla guerra e sulla memoria.


    La Francia ha un rapporto particolare con la storia. A differenza del nostro paese, è facile che un dibattito storico accenda gli animi della gente comune anche se si parla di fatti accaduti un secolo fa, come è il caso della Prima Guerra mondiale. Detta in parole povere, la questione che divide gli studiosi è questa: per conservare la memoria di quel passato tragico, dobbiamo accettare tutto, usare ogni mezzo, anche la spettacolarizzazione spinta; oppure questa memoria acquista senso e utilità sociale solo se tiene viva  la tragedia e l'incomprensibilità del conflitto, che lacerarono – insieme -  quei tempi lontani, e quelli che ci separano da loro? Ci dobbiamo battere perché la memoria è un patrimonio da salvaguardare per il solo fatto di riguardare eventi decisivi; oppure dobbiamo lottare – intellettualmente e moralmente - per dare un senso a questa memoria? E che cosa deve dar senso a questa memoria? L'idea che quei fatti sono le nostre radici, il “passato senza del quale non abbiamo futuro”? O può darle senso – e quale? - la puntigliosa ricostruzione della desolazione che quei fatti portarono?


    Perché ricordare? Vale anche per la memoria la domanda che il bambino rivolse a Marc Bloch, “perché studi la storia?” E vale anche in questo campo l'ammonimento di Bloch, che gli storici sbagliano, e di grosso, a considerare scontata questa domanda?

    Il programma del convegno su Storia e Memoria

     

    2. Gallipoli. La spiaggia sacra

     

    Quindi, sono a Craonne, insieme con storici che vengono un po' da tutto il mondo, perché ci accomuna il desiderio di raccontarci qualche risposta a questa domanda. Fu una guerra mondiale: dunque non mi sorprende di ascoltare colleghi francesi, italiani, spagnoli, cechi e turchi, canadesi, americani e neozelandesi. Questi ultimi mi incuriosiscono particolarmente. Perché un neozelandese o un australiano dovrebbero porsi oggi il problema della memoria della Prima Guerra mondiale? Certamente, quelle terre inviarono dei soldati. Facevano parte dello schieramento alleato. Questo lo studiamo. Ma, tutto sommato, saremmo portati a pensare che si trattò di una guerra per loro lontana, che sentirono estranea, e quindi facilmente preda dell'oblio. No, ribatte Fanny Pascual, che insegna nell’Università della Nuova Caledonia, informando noi europei che i memoriali della Prima guerra abbondano ai nostri antipodi. Sono luoghi di memoria venerati, oggetto di turismo e di visite incessanti. Sono luoghi di fondazione della nazione.

     

    Il memoriale di Auckland in Nuova Zelanda e quello di Canberra, in Australia, con i papaveri, i fiori dei soldati, apposti dai visitatori

     

    Normalmente, quando spieghiamo in Italia la Prima guerra, tralasciamo un evento che per noi, per la nostra sensibilità, appare alquanto distante. Al principio del 1915 gli Alleati decisero di aprire un nuovo fronte in Turchia. Organizzarono una flotta e uno sbarco imponenti (la prima operazione del genere, sottolineano gli esperti di storia militare). Ma lo fecero così male che mandarono a morire centinaia di migliaia di giovani: neozelandesi e australiani. Un giudizio, questo, sul comportamento stupido e folle degli ammiragli inglesi che guidarono questa impresa sciagurata, che è condiviso dagli studiosi (lo ritroverete fedelmente su Wikipedia). Motivato, senza dubbio, questo giudizio suona però strano, qui a Craonne, dove uno si chiederebbe perché la condotta dei generali francesi,  per quanto sciagurata, sia da considerarsi militarmente corretta.


    In quel caso, ad accelerare la disfatta alleata, contribuì l'armata turca, guidata è vero da un generale tedesco, ma animata da Mostafà Keimal Ataturk, il fondatore dello stato turco moderno. Fu lui, dicono le cronache, che ebbe l'intuizione di fortificare i costoni di roccia che sovrastano le striminzite spiagge dove sbarcarono i baldi giovani dall'Oceania. E di lì i turchi, come i tedeschi a Craonne, presero a mitragliarli con comodo. Per questo motivo, conclude Loubna Lahmrari, studiosa marocchina, specialista di storia turca presso l’università di Montpellier, quella spiaggia di Gallipoli è considerata un luogo di memoria e di fondazione della nazione.


    Il cinema non poteva mancare all’appuntamento. Nel 1985, Peter Weir girò Gli anni spezzati, con Mel Gibson, nella parte di un giovane australiano che fa il portaordini durante la guerra, non riesce ad evitare il massacro e muore anche lui; la Turchia non è da meno, con ben cinque film, uno dei quali reimpiega Mel Gibson, a carattere più o meno nazionalistico.


    La medesima località è diventata un luogo sacro, per due nazioni agli antipodi. E, per giunta, ci dimostra con chiarezza la diversità del ricordo, della memoria e della storia. Per quello della memoria, essa fu teatro di eroismi e martiri. Lo sguardo della storia, invece, pur mettendo in luce le indicibili sofferenze umane che vi furono patite, ricorda che da una parte vi furono dei giovani mandati allo sbaraglio da uno stupido generale; e che dall'altra, altri giovani, per quasi un anno, si esercitarono al tiro al bersaglio umano. La conoscenza, oggi, di quel fatto – potremmo dire “la coscienza storica di quel fatto” -  a mio modo di vedere, non consiste nel “dovere di ricordarlo”; quanto, piuttosto, nell'obbligo morale e scientifico di esplorare i meccanismi sociali, culturali e politici, che lo trasformarono in un evento fondatore.

     

    3. Perché studiare la guerra?

     

    Dovremmo riflettere sull’utilità di una “educazione alla violenza”: in altri termini sulla utilità di dotare i ragazzi di un’attrezzatura mentale, che li metta in grado di far fronte a questo aspetto della vita e della storia, che abbiamo quasi del tutto eliminato nella concezione borghese della vita familiare, ma che straripa nei media e, spesso, nelle strade. E questo è oggi necessario. Non sembri paradossale -  l’analisi dei manuali non ci lascia alcun dubbio – la guerra è sparita dalla didattica.


    Il paradosso nasce dal fatto che, a causa dell’immagine di “storia-battaglia” che la grande rivista francese del secolo scorso “Les Annales” aveva creato per battere la storia tradizionale, e affermare vittoriosamente la propria idea di storia, tutti siamo convinti che gli insegnanti si dividano in due categorie: quelli che spiegano guerre, sovrani e trattati di pace; e quelli che spiegano “la società”. Le battaglie appartengono alla “storia dall’alto”. Ma in realtà: chi la spiega ancora? Ciò che vediamo, invece, è un canone piuttosto deformato, composto da una congerie di tradizioni storiche e storiografiche che si sono fuse e intrecciate fra di loro, attraverso l’uso da una parte, e con la sapiente regia commerciale delle case editrici dall’altra.


    Le guerre, dal canto loro, è vero che abbondano e ne troviamo a bizzeffe, pagina dopo pagina. Ma fate attenzione: sono citate, non sono descritte. Solo qualche volta -  a proposito di Qadesh, per esempio (la prima battaglia che trovo nei manuali: ma sta rapidamente scomparendo, a causa dei tagli di ore e conseguentemente di pagine); oppure della battaglia navale di Salamina o di quella terrestre di Canne – si trova la descrizione delle manovre degli schieramenti. Ma assai di rado leggeremo la sofferenza, i cadaveri, le ferite, la fatica terribile del combattimento, l’angoscia nella sua attesa, la spossatezza e il vuoto, alla sua fine. Sono guerre senza soldati e senza sangue. Tutto questo sia perché i testi, in genere, diventano più freddi e impersonali; sia perché l’intero apparato emotivo della comunicazione storica viene trasferito nelle immagini: e queste, sempre di più invadono i nostri manuali (e c’è da pensare che l’incipiente vicenda della storia in rete non farà che aumentare questa tendenza). Potremmo dire che la guerra dei manuali è il luogo dove si palesa la vittoria della “civiltà delle buone maniere”, che – secondo Norbert Elias – ha pian piano ripulito le nostre case dalle tracce di violenza e di sporco.


    Le eccezioni sono anch’esse significative. In occasione della prima, ma soprattutto della seconda guerra mondiale, si fa largo la descrizione della “sofferenza della popolazione”. Il martirio del fronte interno: il cibo razionato, il freddo, le donne al lavoro maschile, i bombardamenti. E, soprattutto in occasione della prima guerra, troviamo spesso il tema della “vita delle trincee”. A mio modo di vedere, queste pagine hanno molto a che vedere con l’ideologia della “gente comune”, e quindi, pur ponendosi esplicitamente come “critiche” e come “inviti alla riflessione”, corrono il rischio di ribadire convinzioni comuni e ormai scontate.


    Due eccezioni ancora mi sembrano significative, in questo occultamento della violenza, ma sono così importanti che richiedono un discorso a parte. La prima è quella della violenza “sacra”. Quella appunto che porta all’indipendenza della nazione, o alle lotte per la sua sopravvivenza. Per quanto in declino, essa è ancora presente, con modalità diverse e interessantissime da studiare, da nazione a nazione. La seconda riguarda la Shoàh: il racconto della violenza assoluta. Nei tempi recenti è diventato (e anche di questo occorre discutere) paradigmatico al punto tale che tende a sopraffare quello dominante negli ultimi decenni del secolo scorso, il racconto della Resistenza.


    I morti delle guerre manualistiche non sono mai “cadaveri”. Al massimo numeri. Settantamila romani uccisi a Canne; cinquanta milioni di morti nella seconda guerra mondiale. Indici di grandezza della guerra. Inoltre, più si risale verso il passato, più queste vittime assumono i colori dell’epica. Ecco la battaglia di Maratona. Migliaia di morti nell’esercito persiano e “solo” poche decine di ateniesi. Ecco la conquista della Gallia o della Dacia. Centinaia di migliaia di barbari uccisi e un milione catturati e fatti schiavi. Il ragazzo impara la potenza di Roma.


    Non voglio discutere o criticare il racconto epico della guerra. La rielaborazione dell’evento, nella letteratura come nel gioco, fa parte integrante del nostro modo di gestire questi fatti terribili. Il punto è: e la storia? Si deve limitare a citare questi fatti, alle loro descrizioni fredde e asettiche, e, in pratica, li deve occultare? E, magari, deve lasciare al “tema di attualità”, o all’ora di filosofia o di religione, il compito di tematizzarne e raccontarne l’angoscia? Eppure la storiografia ha elaborato potenti sistemi di indagine su questi eventi. Privarne gli allievi non sembra una scelta molto acuta.


    A molti sembra un progresso, non parlare di guerre. Spiego la vita dal basso, della gente comune, la storia di genere o le mentalità. Oppure, come si dice, “spiego la pace”. Giusto: ma non spiegare le guerre significa circondare questi fatti con un recinto di protezione, che li separa dalla storia e li confina nell’empireo degli oggetti scolastici. Li priva della loro problematicità e, perciò, li de-storicizza.


    Noi cercheremo di indagare su questo fenomeno, servendoci di una fonte e di un luogo particolari: i musei di guerra. Molto diffusi in altre nazioni (in Francia in particolare), in Italia sono presenti per la maggior parte in Italia Settentrionale e, ovviamente, con una concentrazione maggiore nelle regioni investite dalla Prima Guerra mondiale. Non mancano i musei del Risorgimento, che di recente hanno conosciuto un momento di risveglio dopo un lungo torpore: anche loro, si ricordi, sono in gran parte musei di guerra. Ho escluso da questa ricerca i musei della Resistenza: per questi occorreranno un discorso e uno studio particolari.


    Studiare la guerra nei musei serve non solo ai loro operatori. E’ utile anche per gli insegnanti. Come tutti sanno, la collaborazione fra insegnanti e operatori è fondamentale per un buon uso didattico del museo. Ma, oltre a questo, lo studio delle scelte espositive del museo aiuta docenti e storici ad approfondire questo argomento. Ci fornisce conoscenze e idee per spiegarla bene, e fare – della guerra – un oggetto di buona didattica.

     

    Fine prima parte

     

    (Seguirano la Parte seconda, sui musei tradizionali e i “musei-manuale”; la Parte terza sui “musei-laboratorio” e i “musei-provocazione”. Questo contributo è la rielaborazione della relazione che ho tenuto al convegno  di Craonne, e che verrà pubblicata in Francia)

  • La lunga guerra tra uomo e microbi

    Con una postilla sul “Laboratorio del tempo presente” (di HL)

    di Salvatore Adorno*

    Illustrazione di apertura dell’articolo di Salvatore Adorno, pubblicato da «La Sicilia», 20 marzo 2020

    Domesticazioni riuscite e no

    La vicenda del corona virus ci permette di utilizzare come chiave di lettura della storia dell’umanità il conflitto tra uomo e microbi.

    I microbi, virus e batteri, hanno una storia più lunga di quella dell’uomo. L’uomo è comparso sul pianeta 4 milioni di anni fa, quando i virus e i batteri erano già presenti da due miliardi di anni. Erano allora le più numerose forme di vita, i veri padroni della terra. Da quel momento l’uomo a grandi tappe ha forgiato il pianeta e ha riorganizzato il mondo degli altri esseri viventi in funzione del suo dominio: alcuni sono stati addomesticati come il cane e il cavallo, altri sono risultati restii al processo, come il bisonte che è stato così sterminato, altri sono rimasti ribelli come i virus e i batteri, i cosiddetti microbi: i nemici più pericolosi della specie umana.

    Per lungo tempo la forza di virus e batteri stava nel loro essere invisibili e quindi nella possibilità di agire indisturbatamente, uccidendo l’uomo. La scoperta del cannocchiale (siamo con Galileo nella prima metà del XVII secolo) e quindi del microscopio ha permesso di individuarli. Successivamente Pasteur e Kock, nel corso dell’Ottocento, hanno definito il loro ruolo nella trasmissione delle malattie, arrivando alla preparazione dei vaccini. Fleming nel primo Novecento ha scoperto gli antibiotici.

    La guerra degli uomini ai microbi

    Vaccini, antibiotici e risanamento dell’ambiente (si pensi alle bonifiche dei terreni malarici) sono state le armi con le quali l’uomo nel Novecento ha compiuto un vero “colpo di stato” nei confronti della maggioranza delle forme di vita fino ad allora dominanti, i microbi, che nella storia dell’umanità hanno ucciso mille volte più uomini di quanti ne abbiano ucciso guerre e disastri naturali.

    Non a caso, la ricerca scientifica e l’organizzazione dei sistemi sanitari nazionali hanno portato al ridimensionamento dell’azione di virus e batteri e in particolare all’eliminazione del virus del vaiolo e all’eradicazione di quello della difterite, del morbillo e di altre malattie endemiche. Tutto ciò ha contribuito in modo rilevante ad allungare la vita delle persone, migliorandone il controllo sanitario e la qualità. Un solo esempio: il vaiolo nel XX secolo, prima di scomparire definitivamente nel 1980, ha fatto 300 milioni di vittime.

    La risposta dei microbi

    La nostra epoca dei consumi di massa individuali, che inizia dopo la seconda guerra mondiale ed evolve nella globalizzazione, ha visto così un netto miglioramento delle condizioni di vita e lo sterminio dei più feroci nemici dell’uomo. Nei principali libri di storia della medicina si legge come nella seconda metà del Novecento siano diminuite le patologie legate alla trasmissione e al contagio e siano aumentate quelle tumorali e cardiopatiche legate all’inquinamento, all’alimentazione allo stress, ovvero all’attività umana. Il paradosso sta nel fatto che questa vittoria è avvenuta in un’epoca in cui si sono moltiplicate vertiginosamente le condizioni che favoriscono la diffusione e il contagio di batteri e virus: l’aumento dell’irrigazione, la crescita esponenziale dei trasporti, il deterioramento degli ecosistemi, il cambiamento delle relazioni tra animali e uomini, la nascita delle megalopoli e il moltiplicarsi all’infinito dei contatti quotidiani tra gli uomini.

    Ecco allora che la vittoria strategica sui microbi, realizzata tra la fine del XIX secolo e la seconda metà del XX secolo, risulta sempre più instabile, anche perché i batteri hanno risposto all’attacco degli antibiotici diventando resistenti MDR (multi drug resistence), producendo così nuove forme di malaria e di tubercolosi, e i virus, approfittando del sovvertimento ecologico del pianeta, sono mutati sfuggendo al controllo dei vaccini. Nel 1977, ad esempio, circa 50 milioni di esseri umani sono stati affetti da tubercolosi MDR. Per cui oggi la transizione epidemiologica che sembrava portare al trionfo dell’uomo pare essersi fermata e il nemico ritorna più pericoloso che mai nelle forme dell’HIV, della Sars, del corona virus.

    La coevoluzione tra uomo e microbi sembra di nuovo sfuggire al controllo dell’uomo.

    Una guerra che cambia la storia

    L’epidemia attuale di corona virus rappresenta l’altra faccia del dominio dell’uomo sulla natura, è la risposta della natura alla pretesa superiorità biologica dell’uomo. Un microbo sta mettendo a repentaglio il sistema dell’economia, della cultura e della società globale. L’uomo con la sua intelligenza riuscirà probabilmente a vincere questa guerra (così ormai viene rappresentata dei media) che però è anche l’ennesimo e forse più netto segnale del nostro essere entrati in un’altra fase della storia della specie. La pandemia di oggi per un verso si pone in continuità con la guerra infinita tra uomini e microbi, per un altro segna una cesura profonda perché agisce, per la prima volta e quindi in modo imprevedibile, in un pianeta iperconnesso e ipertecnologico che l’uomo ha forgiato come non mai a sua misura.

    Ambiente, migrazioni e virus

    C’è infatti uno stretto nesso tra l’emergenza ambientale, quella migratoria e quella sanitaria. Tutte e tre sono il frutto della globalizzazione e sono strettamente connesse tra loro. Tutte e tre pongono alla società globale una doppia sfida: mantenere la sicurezza e modificare gli stili di vita.

    Fino ad oggi il tema della sicurezza è stato affrontato polarizzando la paura e alzando barriere di odio nei confronti dei migranti, che tolgono lavoro, portano malattie e violenza. Questo atteggiamento spinge così a blindare il nostro stile di vita basato sui consumi di massa individuali e sull’uso indiscriminato delle risorse naturali.

    Il corona virus ribalta questa narrazione e ci dimostra all’improvviso che l’insicurezza, sanitaria ed economica, viene dalle aree più ricche ed è il prodotto della nostra società dei consumi e dell’alterazione degli equilibri ambientali che noi stessi abbiamo creato. Oggi per bloccare il virus tutte le autorità richiedono di rimodulare temporaneamente il nostro stile di vita rendendolo più controllato e più parco. A ben vedere è la stessa richiesta di Greta Thumberg, che ci invita a un cambiamento strutturale delle nostre modalità di produzione, di mobilità, di alimentazione e di svago, per salvare il pianeta dal riscaldamento globale e dall’esaurimento delle risorse.

    Di fronte all’insicurezza e alla precarietà prodotta dalla globalizzazione possiamo rispondere individuando un nemico esterno, trincerandoci nella certezza della bontà del nostro modello di vita, oppure prendendo atto che è il nostro modello di vita che genera instabilità e insicurezza, spingendoci a ripensarlo. La pandemia da corona virus e il riscaldamento globale, sono due facce di un pianeta iperconnesso e profondamente alterato nelle sue matrici naturali (acqua, suolo, aria, vita animale e vegetale), che la specie umana ha messo sotto stress.

    I segnali di questa malattia della terra sono ormai molti, forse è arrivato il momento di fermarsi a riflettere sul nostro futuro come individui, come società e come specie. Forse la politica dovrebbe occuparsi proprio di questo.

    *****
    ***

    Una postilla sul “Laboratorio del tempo presente” (di HL)

    Un’infermiera della Croce Rossa indossa una mascherina durante la pandemia del 1918 (da Jstor)

    A cosa serve parlare a scuola di corona virus? Certo, non ad aggiungere dati e polemiche a quelle che già inondano i media. Non c’è bisogno di una tabella in più o di una ulteriore raccomandazione a comportarsi correttamente. Quello che manca, e che i media non sono molto interessati a dare (comprensibilmente, vista l’emergenza), è la risposta a una folla di domande, che – per quanto inespresse – ci angosciano quanto quelle quotidiane, perché riguardano il destino della nostra società. Dopo, ci chiediamo, che cosa succederà? Ci stiamo accorgendo, infatti, che questo evento sta agendo nel nostro modo di vivere in modo molto profondo. Quindi, intuiamo, più o meno confusamente, che “il dopo” sarà diverso.

    È fondamentale cominciare a capire che cosa questo evento sta mettendo in discussione. La storia è uno degli strumenti a nostra disposizione. Lo fa in due direzioni. Quella del tempo, in primo luogo. La storia mette il nostro evento in una prospettiva temporale che, in questo caso, è lunghissima. Dura quanto l’intera vicenda umana. Coinvolge l’idea stessa di evoluzione. Adorno richiama il concetto di “coevoluzione”: quella dell’uomo e quella del virus. Se non conosciamo bene la dinamica di questo confronto, non potremo mai immaginare quale “mossa” ci convenga fare contro un avversario, adattabile almeno quanto lo siamo stati noi.

    La seconda direzione è quella della contestualizzazione. In quale contesto inserire questo evento? In quello del piccolo paese, della regione o del singolo stato? C’è una risposta ovvia: nel contesto dell’ambiente globale. C’è, infatti, una seconda coevoluzione che viene messa in gioco oggi: quella fra umanità e ambiente. E questa chiama in causa – come sottolinea Adorno – la globalizzazione con i suoi aspetti più visibili, quali le migrazioni, le crisi climatiche e i nostri stili di vita (ma potremmo aggiungere anche la finanza mondiale, le politiche internazionali e così via). Anche in questo caso, nessuna previsione futura, ma solo la lettura di una situazione con le possibili scelte: rispondiamo chiudendoci (e cioè cercando di conservare i vecchi assetti)? Oppure proveremo a modificare quegli aspetti che sembrano incidere negativamente nel dialogo fra noi e il nostro pianeta?

    Un laboratorio di cittadinanza

    Sono problemi che riguardano la vita di tutti. Quindi, è fondamentale, in una società democratica, che diano luogo a una discussione pubblica. Discuterne a scuola significa affermare il principio che, per essere buoni cittadini, occorre intervenire nel dibattito con cognizione di causa. Usando gli strumenti giusti. Quelli della storia, per esempio.

    Le piattaforme, che molti docenti usano o stanno affannosamente imparando a usare, consentono di discutere, di inviare materiali. Un laboratorio è possibile. Anzi, è molto più adatto alle tecnologie digitali di una lezione in video. L’articolo di Adorno può essere il punto di partenza. È certamente leggibile in una secondaria superiore. È una possibile apertura del dibattito. Il tempo e la contestualizzazione, come ho suggerito sopra, costituiscono la guide della discussione. All’insegnante il compito di ricondurvi i discorsi dei ragazzi che, come può succedere quando si tratta di “temi caldi”, tenderanno a scivolare nella “ricerca del colpevole” o nei “buoni o cattivi sentimenti”. Sempre in rete potremo trovare materiali da far leggere, da assegnare per gruppi, con i quali far lievitare il discorso e tenerlo aderente ai fatti e alle problematizzazioni storiche. Jstor, la più grande raccolta di riviste storiche, ne ha messi online parecchi (alcuni molto belli). Sono in inglese (ma Google traduttore si rivela una delle più grandi invenzioni del XXI secolo!). Vi permetteranno excursus nel passato e approfondimenti nelle problematiche del presente. Vi permetteranno, se saprete organizzarvi, di lavorare trasversalmente su molte discipline, da storia a scienze a letteratura.

    Insomma: anche su questo versante il “durante” – ciò che facciamo oggi – può annunciare un “dopo” alquanto diverso.

     


     

    * Questo articolo è stato scritto da Salvatore Adorno, docente di Storia dell’ambiente presso l’Università di Catania, per “La Sicilia” del 19 marzo 2020. HL ringrazia l’autore per averci consentito di riprenderlo qui, con qualche modifica, e di rilanciarlo fra i docenti.

  • La normalità dello sterminio. I nazisti, gli ebrei e gli altri

    Autore: Luigi Cajani

     

    Introduzione

    E’ ben noto il proverbio arabo, fatto proprio da Marc Bloch nell’ Apologia della storia, secondo il quale siamo figli più dei nostri tempi che dei nostri padri. E’ un detto che, quando si affronta il tema doloroso e difficile della comprensione della Shoah, suggerisce riflessioni dirimenti per uno storico. In molte ricostruzioni, infatti, si tende a privilegiare “l’asse dei padri”, cioè il lungo periodo dell’antisemitismo, invocato come la spiegazione predominante dello sterminio. Questo asse, tuttavia, va incrociato con l’asse della contemporaneità, e, quindi, con la specificità del Nazismo. Non è una differenza da poco. Nel primo caso, la Shoah è il culmine tragico di un antisemitismo secolare. Nel secondo, è l’applicazione agli ebrei della logica dello sterminio nazista.  E’ una differenza importante dal punto di vista dello storico, attento alla natura dei fenomeni che analizza. Lo è dal punto di vista della conoscenza diffusa e dell’uso sociale della storia, perché la specificità del fenomeno nazista è il baluardo più forte contro la banalizzazione della Shoah  e contro le continue analogie con situazioni tragiche del nostro mondo. Lo è, infine, dal punto di vista dell’insegnante di storia, perché riconduce all’interno di un territorio metodologicamente determinato un tema che, nelle scuole, è diventato un contenitore estremamente variegato. In questa prospettiva, hl pensa utile ripubblicare questo articolo di Luigi Cajani, uscito nella rivista “Giano”, nel 1996, la cui analisi resta valida nonostante gli anni trascorsi e le ricerche successive. (A.B.) *

     

    Le strategie naziste di occupazione

    Durante la Seconda guerra mondiale, la Germania perseguì due diverse strategie di occupazione, distinte a seconda degli ambiti territoriali  e razziali a cui si applicavano. Per l’Europa occidentale era prevista un’occupazione che, pur sfruttando le risorse locali, lasciasse però sostanzialmente immutata la struttura demografica e sociale e garantisse alla popolazione un discreto livello di vita. Per l’Europa orientale, abitata da slavi, che erano considerati razzialmente inferiori non solo ai tedeschi, ma anche agli altri europei occidentali di stirpe latina, era invece prevista un’occupazione di tipo coloniale, con l’insediamento di popolazione tedesca e con uno sfruttamento senza scrupoli delle risorse. Il popolo tedesco, secondo la propaganda nazista, mancava di Lebensraum (spazio vitale), e se lo sarebbe conquistato con la guerra in Europa orientale, dove sarebbe diventato lo Herrenvolk (popolo dei signori).

     

    Fig. 1. Il nuovo Atlante Scolastico del 1942 insegna ai bambini tedeschi “lo spazio vitale” del loro popolo 

     

    I progetti  di espansione vennero formulati nel cosiddetto Generalplan Ost (piano generale per l’est), il quale prevedeva che la zona comprendente la Polonia, la Bielorussia e l’Ucraina occidentale fosse svuotata della maggior parte dei suoi abitanti: su circa 45 milioni, 31 milioni sarebbero stati deportati al di là degli Urali, mentre gli altri sarebbero rimasti a disposizione dei coloni tedeschi che vi si sarebbero insediati1 .


    L’asservimento della Russia

    Si trattava dunque di modificare radicalmente la struttura demografica e sociale dei paesi occupati ad oriente, in funzione dell’asservimento ai tedeschi. Le conseguenze che questo sconvolgimento avrebbe avuto sulle popolazioni locali non preoccupavano affatto la dirigenza nazista, se non, appunto, nell’ottica dell’interesse del Terzo Reich. L’assoluto disinteresse per la sorte degli Untermenschen, gli uomini inferiori, emerge da più parti. Un esempio significativo è rappresentato da un progetto per lo sfruttamento delle risorse alimentari della Russia, redatto circa un mese prima dell’inizio delle ostilità. Dal punto di vista della produzione di generi alimentari la Russia presentava due zone: una eccedentaria, cioè la parte meridionale (la Russia nera) e quella caucasica, e una deficitaria, cioè la parte settentrionale, o delle foreste, e i bacini industriali di Mosca e Leningrado. Le eccedenze della prima zona sarebbero state totalmente assorbite dalla Germania, che avrebbe lasciato alla popolazione locale solo di che sopravvivere. Ciò significava che la zona deficitaria sarebbe rimasta totalmente priva dei suoi consueti rifornimenti, e pertanto i suoi abitanti, soprattutto quelli delle città, sarebbero stati ridotti alla fame.

    Di fronte a questa prospettiva - scriveva l’estensore del progetto - “l’amministrazione tedesca può certo cercare di mitigare le conseguenze della carestia... e accelerare il processo di ritorno ad un’economia di natura. Ci si può sforzare di sviluppare queste regioni nel senso di estendere la coltivazione delle patate e delle altre piante più importanti per il consumo alimentare. Ma comunque la carestia non può essere evitata. In queste regioni molte decine di milioni di uomini diverranno superflui e moriranno oppure dovranno emigrare in Siberia. Tentativi di salvare questa popolazione dalla morte per fame importando il surplus dalla Russia nera possono essere realizzati solo a spese dell’Europa. Ma così si mina la capacità di tenuta della Germania in guerra, la capacità della Germania e dell’Europa di resistere al blocco continentale.  Ciò deve essere assolutamente chiaro”2.

     

    Fig.2. Hitler e Mussolini studiano la carta geografica europea con il Feldmaresciallo Wilhelm Keitel e il generale Jodl.

     

    Lo sterminio dei prigionieri di guerra sovietici

    Lo stesso disprezzo per la vita umana ispirò il trattamento dei prigionieri sovietici: considerati solo bocche inutili da sfamare, essi vennero lasciati morire in massa di fame, di maltrattamenti e di malattie (soprattutto tifo petecchiale), quando non venivano direttamente fucilati al momento della cattura. Dei 3.350.000 prigionieri sovietici catturati dall’inizio dell’attacco all’Unione sovietica, al 1 febbraio 1942 circa il 60% aveva perso la vita3.

    Il tasso di mortalità cominciò ad abbassarsi solo quando la dirigenza nazista si rese conto che in tal modo stava dilapidando un utile capitale di forza lavoro: pertanto i prigionieri di guerra sovietici cominciarono ad essere trattati un po’ meglio, per essere impiegati nell’industria pesante e soprattutto in miniera. Nonostante questo cambiamento di politica, la loro sorte rimase comunque molto dura, la più dura fra i prigionieri in mano tedesca: si calcola che alla fine del conflitto su un totale di circa 5.700.000 prigionieri di guerra sovietici i morti siano stati circa 3.300.0004.

     

    Gli ebrei: deportazione e sterminio

    Deportazione e sterminio erano dunque due misure complementari e contigue nella politica nazista nei confronti degli slavi. Lo sterminio non era in questo caso un obiettivo diretto e autonomo, ma semplicemente la conseguenza di misure come la deportazione in Siberia o la requisizione delle risorse alimentari. Si può parlare di uno sterminio indiretto, come elemento di passaggio dalla deportazione allo sterminio diretto.

    Deportazione e sterminio fecero parte della politica nazista nei confronti degli ebrei, che prima dello sterminio aveva preso in considerazione alcune ipotesi di deportazione. Dapprima, dopo la vittoria  sulla Polonia, si era pensato di concentrare gli ebrei polacchi in una “riserva” vicino a Lublino. La deportazione in quella regione implicava consapevolmente uno sterminio: infatti, come notava Arthur Seyss-Inquart, si trattava “di una regione molto paludosa... il che avrebbe portato ad una grande decimazione degli ebrei”5.

    Questa prima idea di deportazione si rivelò inadeguata e venne sostituita, dopo la vittoria sulla Francia, dal progetto di deportazione degli ebrei in Madagascar, che venne però abbandonato nel settembre del 1940, a causa della mancata vittoria sulla Gran Bretagna, che era necessaria alla realizzazione del nuovo progetto. Il passaggio dalla deportazione allo sterminio si realizzò con la guerra contro l’Unione sovietica, iniziata il 22 giugno 1941.

     

    Lo sterminio degli ebrei

    Il rapporto fra questa guerra e lo sterminio degli ebrei è molto complesso. Un elemento di cui tener conto è che si trattava non soltanto di una guerra di espansione territoriale, ma anche di una guerra ideologica, che aveva lo scopo di annientare il comunismo, che i nazisti consideravano il loro nemico mortale, insieme all’ebraismo. Dunque all’interno di questa guerra, oltre ai piani di deportazione o eliminazione della popolazione slava, c’era un piano di sterminio mirato, una vera e propria caccia all’uomo, degli elementi politicamente pericolosi. A questo scopo vennero impartiti ordini per l’eliminazione della dirigenza comunista sovietica: la Wehrmacht, prima dell’inizio delle ostilità, emanò il cosiddetto Kommissarbefehl, che prevedeva l’eliminazione di tutti i commissari politici dell’Armata Rossa;  e subito dopo vennero organizzate quattro Einsatzgruppen, reparti  speciali incaricati della “pacificazione” delle retrovie attraverso l’eliminazione di tutti i funzionari di partito, di tutti gli elementi pericolosi (come sabotatori e agitatori) e di tutti gli ebrei nel partito e nell’amministrazione statale.

    Gli ebrei rientravano dunque, in quanto politicamente pericolosi, in questo primo piano di sterminio. Ma ben presto l’annientamento degli ebrei venne esteso oltre questo ambito politico, e investì l’intera popolazione ebraica in quanto tale. Infatti le Einsatzgruppen già dalla metà di agosto del 1941 iniziarono a fucilare in massa gli ebrei, senza distinzione di sesso o di età6, e intensificarono la loro attività nei mesi successivi: a metà aprile del 1942 il numero degli ebrei uccisi era arrivato a circa mezzo milione7.

    Gli ebrei sovietici diventavano così oggetto di sterminio totale. E la loro sorte divenne quella di tutti gli ebrei europei. Infatti proprio in quei mesi venne decisa e messa a punto la “soluzione finale del problema ebraico”. Nel dicembre del 1941 entrò in funzione il primo campo sterminio, Bełzec, seguito ben presto da Chełmno, Sobibór e Treblinka, e il processo di sterminio fece un salto tecnologico, passando dalle fucilazioni delle Einsatzgruppen ai camion a gas e alle camere a gas. Infine il 20 gennaio 1942 si tenne infatti la conferenza di Wannsee, che definì le modalità della deportazione degli ebrei europei. Le Einsatzgruppen continuavano intanto i loro massacri, utilizzando anch’esse i camion a gas, oltre alle fucilazioni: nella primavera del 1943 - secondo alcune stime - avevano ucciso complessivamente 1.250.000 ebrei, oltre ad altre centinaia di migliaia di cittadini sovietici non ebrei8.

     

    Fig. 3. In questa cartina interattiva, realizzata dall’Istituto Maiorana di Bergamo, le notizie sintetiche sui principali campi di concentramento tedeschi

     

    Problemi aperti: la tesi di Browning

    Se è indubbio che la “soluzione finale” venne decisa durante la prima fase della guerra contro l’Unione sovietica, nell’estate o nell’autunno del 1941, ci sono ancora questioni irrisolte riguardo alla cronologia e alle motivazioni di questa decisione, e al ruolo avuto non solo da Hitler, ma anche dai vari esponenti della dirigenza nazista. Non sono infatti stati rintracciati ordini scritti, ed è anche possibile che non siano mai esistiti, dato il segreto di cui si voleva circondare la materia. Gli storici si dividono sostanzialmente intorno a due ipotesi. Christopher Browning, ad esempio, sostiene che Hitler decise di sterminare gli ebrei intorno alla metà di luglio del 1941, quando la vittoria definitiva sull’Unione sovietica sembrava facile e imminente. Sarebbe stata dunque l’euforia del successo a spingerlo a compiere il salto di qualità nella persecuzione degli ebrei, facendogli abbandonare ogni esitazione rispetto alle misure estreme9. In questo contesto va inserito un documento, recante una data imprecisata del  luglio 1941, nel quale Göring conferiva a Heydrich i pieni poteri per la “soluzione globale” (Gesamtlösung) della questione ebraica in Europa10, e  la prima gasazione sperimentale con lo Zyklon B, fatta ad Auschwitz il 3 settembre su un gruppo di prigionieri di guerra sovietici.

     

    Problemi aperti: la tesi di Mayer

    Opposta è invece l’ipotesi di Arno Mayer, secondo il quale Hitler avrebbe deciso di sterminare gli ebrei non durante la prima fase dell’attacco all’Unione sovietica, ma  durante l’autunno, di fronte alle prime serie difficoltà, che facevano fallire il sogno di un nuovo Blitzkrieg. Secondo Mayer, dopo l’euforia delle prime due settimane di guerra già a fine luglio la dirigenza nazista doveva ammettere che l’avanzata rallentava e si faceva sempre più costosa, contrariamente a quanto previsto. I primi insuccessi militari avrebbero spinto dunque Hitler a eliminare intanto coloro che considerava i principali responsabili di tutti i mali della Germania: gli ebrei.

    Mayer sostiene che i primi massacri di ebrei sovietici, nel luglio, furono opera non tanto delle Einsatzgruppen, ma degli antisemiti locali, che scatenavano dei pogrom appena arrivavano le truppe tedesche. I reparti tedeschi - egli scrive - iniziarono i grandi massacri di ebrei solo “dopo l’autunno del 1941, quando l’Armata Rossa aveva rallentato l’avanzata tedesca imponendo i più tremendi e sanguinosi combattimenti.... Da quel momento, i comandanti della Wehrmacht e delle Einsatzgruppen denunciarono specificatamente gli ebrei come mandanti, membri e fiancheggiatori delle attività partigiane dietro le linee tedesche e si servirono di queste accuse per giustificare il fatto di averli scelti come capri espiatori dell’ostinata resistenza sovietica....”.  

    Secondo Mayer,  per Hitler e la dirigenza nazista lo sterminio degli ebrei fu un’opzione che venne adottata solo a causa del fallimento dei piani legati alla guerra contro l’Unione sovietica. Egli scrive infatti: “Non si può... affermare che lo sterminio degli ebrei sovietici sia stato parte integrante del grande disegno di Hitler di creare un Reich millenario. Dopo una breve e vittoriosa campagna; i nazisti si proponevano di trasferire gli ebrei d’Europa, compresi quelli russi, in una riserva come quella di Lublino, al di là del Volga o degli Urali. E’ soltanto dopo aver preso coscienza dell’enorme difficoltà di vincere la guerra e di ”liberare” Mosca... che i fanatici nazisti concentrarono la loro attenzione sugli ebrei, la più accessibile e vulnerabile incarnazione del “giudebolscevismo”...” 11.

    Secondo Mayer sarebbero dunque state l’”angoscia” e la “paura” di fronte al fallimento dei suoi sogni di potere a spingere Hitler a decidere lo sterminio degli ebrei.

     

    Le obiezioni di Vidal-Naquet

    Questa tesi non ha mancato di suscitare perplessità: in particolare Pierre Vidal-Naquet, nella prefazione all’edizione francese del libro di Mayer, ha messo in discussione proprio la cronologia della consapevolezza del fallimento da parte della dirigenza nazista, rimproverando a Mayer di non essere stato chiaro in proposito: “Quando è cominciata la sconfitta? - scrive Vidal-Naquet - Negli ultimi giorni di luglio? In agosto? Il 19 settembre, giorno in cui fu conquistata a caro prezzo Kiev? Il 1° dicembre, con le dimissioni di von Rundstedt? Oppure l’8 dicembre, quando venne sospesa l’offensiva? Lo storico può certo stabilire qual è stato il momento della sconfitta,  e Arno Mayer ha tutto il diritto di ritenere che  sia stato l’autunno del 1941, e non l’autunno-inverno del 1942 (Stalingrado e sbarco il Africa settentrionale), a segnare il punto di svolta nella guerra. Ma dovrebbe anche provare... che già a settembre, o al più tardi in ottobre, Hitler e i suoi crociati erano consapevoli di essere ormai sconfitti”12.

     

    La normalità dello sterminio

    Al di là di queste due ipotesi, se la decisione di sterminare gli ebrei sia stata in frutto di un delirio di onnipotenza o di un senso di frustrazione, dell’euforia o della rabbia, ipotesi che rimangono aperte e che non necessariamente si escludono totalmente l’un l’altra, mi sembra che ci sia comunque un punto fermo: e cioè che la dimensione dello sterminio, già insita nella cultura nazista, divenne proprio nel contesto della guerra contro l’Unione sovietica un’opzione tranquillamente accettata e praticata. Si sterminarono gli slavi e si sterminarono gli ebrei, perché inutili o pericolosi. Ma prima di allora erano stati sterminati oltre 70.000 malati mentali, tedeschi, questa volta, e non appartenenti a razze inferiori, ma comunque “lebensunwerte Leben”, vite senza valore13. E poi sarebbe venuto il momento degli Zingari.

     


    Fig. 4. “Il trasporto del ricordo”, è il titolo del monumento eretto a Pirna, una delle località tedesche dove, fra il 1940 e il 1941, si compì l’Aktion T4, con l’uccisione sistematica di oltre 70mila malati psichici

     

    Questi stermini, pur tanto diversi fra loro nelle motivazioni e nelle modalità di esecuzione, hanno in comune il fatto di essere  “normali”. Se fra una deportazione e uno sterminio diretto esiste un salto di qualità, esiste però anche, ed è forse più importante, un elemento di continuità, se osserviamo queste due strategie dal punto di vista nazista, per i quali l’obiettivo era quello di una pulizia etnica del Reich e dell’Europa occidentale, eliminandone la presenza ebraica, e di una pulizia ancora più radicale, un vero e proprio svuotamento etnico, nei territori dell’est. La scelta delle due opzioni, deportazione o sterminio, non rappresentava tanto un salto culturale, la brusca radicalizzazione di una strategia, ma dipendeva piuttosto dalla loro efficacia e dalla loro praticabilità. In questo senso la guerra contro l’Unione sovietica, che faceva aumentare considerevolmente il numero degli ebrei nella zona di influenza tedesca, ma rendeva impraticabile, almeno a breve, l’opzione di una deportazione al di là degli Urali, fece diventare l’opzione dello sterminio come l’unica praticabile.

     

    Tra le letture più recenti, si consigliano

    Enzo Traverso, Simon Levi Sullam, Marcello Flores, Marina Cattaruzza (a cura di), Storia della Shoah, Torino, UTET, 2005-2006
    Christopher Browning, Le origini della soluzione finale: l'evoluzione della politica antiebraica del nazismo: settembre 1939-marzo 1942, Milano, Il Saggiatore, 2008

     

    Note

    1. Cfr. DIETRICH EICHHOLTZ, Geschichte der deutschen Kriegswirtschaft 1939-1945, II, Berlin, Akademie Verlag, 1985, pp. 434-435.

    2.  Bericht des Wirtschaftsstabes Ost, Gruppe Landwirtschaft vom 23. Mai 1941: Richtlinien für die Wirtschaftspolitik zur Ausnutzung russischer Quellen für die Ernährung der deutschen Wehrmacht und zum Teil für die deutsche Zivilbevölkerung (doc. 126 EC), in Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher vor dem Internationalen Militärgerichtshof. Nürnberg 14. November 1945 - 1. Oktober 1946, Nürnberg, 1949, XXXVI, pp. 135-157, qui pp. 144-145.

    3.  CHRISTIAN STREIT, Keine Kamaraden. Die Wehrmacht und die sowjetischen Kriegsgefangenen 1941-1945, Bonn, Verlag J.H.W. Dietz Nachf., 1991, p. 136.
    4.  Ibidem, p. 244.

    5.  Bericht über eine Inspektionsreise Seyss-Inquarts in Polen vom 17. bis 22. November 1939  (doc.  2278-PS), in Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher..., cit.,  XXX, pp. 84-101, qui p. 95.
    6.  Cfr. PHILIPPE BURRIN, Hitler and the Jews. The Genesis of the Holocaust, London, Melbourne,Auckland, Edward Arnold, 1994, p. 110 (ed. orig. Hitler et les juifs. Genèse d’un génocide, Paris, Seuil, 1989).
    7.  Cfr. GERT ROBEL, Sowjetunion, in Dimension des Völkermords. Die Zahl der jüdischen Opfer des Nationalsozialismus, a cura di Wolfgang Benz, München, Oldenbourg, 1991, p. 543.
    8.  Cfr. Einsaztgruppen, in Enzyklopädie des Holocaust, München - Zürich, Piper, I, 1995, p. 399. L’edizione originale di questa enciclopedia è stata pubblicata contemporaneamente in ebraico in Israele, col titolo  Entsiklopedja shel ha-shoa, e in inglese negli USA, col titolo Encyclopedia of the Holocaust.
    9.  CHRISTOPHER BROWNING, L’origine de la solution finale: du contexte militaire et politique à la prise de décision (1939-1941), in La politique nazie d’extermination (a cura di François Bédarida), Paris, Albin Michel, 1989, pp. 156-176.
    10.   Auftrag Görings an Heydrich vom Juli 1943 zur Vorbereitung einer Gesamtlösung der Judenfrage im deutschen Einflussgebiet in Europa (doc. 710-PS), in Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher..., cit.,  XXVI, pp. 266-267.
    11.  ARNO MAYER, Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea, Milano, Arnoldo Mondadori, 1990, pp. 242-243 (ed. orig. Why Did the Heavens not Darken? The “Final Solution” in History, New York, Pantheon Books, 1988).
    12.  ARNO MAYER, La “solution finale” dans l’histoire, Paris, Éditions La Découverte, 1990,  p. VI.
    13.   Cfr. MICHAEL BURLEIGH, WOLFGANG LIPPERMANN, Lo stato razziale, Germaia 1933-1945, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 127-151.

  • La rivoluzione simulata

    Autore: Salvatore Di Pasqua

    Siamo intervenuti già altre volte sul tema del gioco, della simulazione e della didattica empatica. Ora cominciano ad arrivare i resoconti di insegnanti. Questo giunge da una scuola superiore di Pordenone. Si tratta di un percorso misto, in parte tradizionale e in parte “innovativo” (metto le virgolette perché solo in Italia la didattica empatica è considerata ancora tale). I colleghi a cui l’esperienza piacerà, hanno qui tutti i  materiali per ripeterla. E per HL, sia pure con qualche giorno di ritardo, è un bel modo per ricordare la Révolution (HL).

     

    Indice 

    •    La proposta didattica
    •    Partiamo dalla lezione e dal manuale
    •    I materiali di approfondimento
    •    Letture
    •    Elenco di parole, di concetti e di frasi fornito ai ragazzi
    •    La fase operativa
    •    I lavori degli studenti
    •    Qualche breve considerazione
    •    Il riflesso sull’insegnante
    •    Sitografia


    La proposta didattica

    La difficoltà  di sviluppare curiosità e interesse per quanto è distante nel tempo e di recuperare di conseguenza una sensibilità per la dimensione storica, mi ha spinto a richiedere agli studenti di una  classe quarta1  di simulare un discorso ai tempi della  rivoluzione francese precisandone il contesto,  individuando  correttamente i riferimenti storici e ponendo attenzione non solo alla verosimiglianza della situazione ipotizzata ma anche a quella del lessico adoperato.  Lo studente autore dell’intervento doveva innanzitutto chiarire la propria posizione rispetto agli eventi:  se cioè intendeva assumere la parte di un rappresentante del Terzo stato durante la convocazione degli Stati generali, di un deputato girondino che discute della condanna a morte del re, oppure immaginare di essere Robespierre che si rivolge ai membri della Convenzione, o ancora interpretare una donna che pone all'Assemblea nazionale il problema dei diritti delle donne e delle cittadine, e così via. Quindi elaborare un discorso credibile e coerente  tanto nella prospettiva storica, quanto (come si è detto) sotto un profilo più strettamente retorico.


    Partiamo dalla lezione e dal manuale

    Il libro di testo in adozione (il secondo volume del Giardina, Sabbatucci, Vidotto, Laterza), unito alle mie spiegazioni, è stato il punto di partenza per fornire un quadro generale degli eventi, già orientato tuttavia al coinvolgimento “emotivo” degli allievi. In tal senso durante le lezioni sono stati accentuati nella loro natura  “drammatica”  (di fatti cioè che rappresentano per chi li vive dei veri e propri snodi in quanto pongono i protagonisti di fronte a scelte cruciali, cambiamenti risolutivi) alcuni avvenimenti che hanno preceduto e accompagnato la Rivoluzione francese: il senso di consapevole gravità con cui vengono preparati i Cahiers de doléances, la decisione del Terzo stato di autoproclamarsi Assemblea nazionale con il solenne giuramento di non sciogliersi fino a quando la Francia non avesse avuto una costituzione, gli assalti – in più occasioni scomposti e feroci – del popolo parigino, la passione con cui i deputati  della Convenzione confrontano le loro posizioni, le reazioni alla fuga del re,  lo scontro tra  girondini e montagnardi,  il patriottismo dei volontari marsigliesi che entrano a Parigi cantando Allons enfants de la Patrie, le condanne a morte durante il periodo del terrore che coinvolgono  anche figure di rivoluzionari storici come Brissot, Hébert, Danton, la controversa, e insieme affascinante,  personalità  dell’incorruttibile Robespierre…

    In altre parole l’argomento “Rivoluzione francese” è stato presentato in modo tale da interrogare il vissuto degli allievi (la loro coscienza di giovani che si vanno formando) attraverso uno scambio passato-presente che si è sforzato di essere non un’indistinta sovrapposizione di fatti e giudizi, ma problematica ricerca di nessi,  possibilità di stabilire  un ponte tra uomini che appartengono a periodi, società, culture diversi.


    I materiali d’approfondimento

    Per raggiungere questo scopo i materiali di partenza sono stati integrati da vari documenti e fonti.
    Ho attinto le mie informazioni principalmente da altri manuali scolastici (Bertini, Lepre, Manzoni-Occhipinti, Guarracino…), ma anche da letture personali (Soboul, Lefebvre…) e da ricerche sul Web.

     

    Fino a questo momento si era trattato di svolgere  nel complesso un lavoro abbastanza tradizionale e di “routine”, che non si discostava molto, se non per il taglio e l’intenzione, da analoghe lezioni da me stesso tenute in altre classi e in altri anni: gli strumenti erano quelli che un qualsiasi insegnante di storia di solito adopera quando vuole approfondire un argomento. La consapevolezza di una  richiesta finale meno scontata (la costruzione autonoma di un discorso che  doveva diventare oggetto di verifica e di valutazione) mi ha spinto tuttavia a cercare anche  altri materiali che potessero essere d’aiuto agli studenti e a fornire nel contempo qualche modello per il loro lavoro.


    Letture

    In classe ho letto il testo della Marsigliese, frammenti di discorsi di Sieyès,  Robespierre, Saint-Just, Olimpe de Gouges (su quest’ultima ho anche fornito agli allievi informazioni particolareggiate sulla vita e le opere principali); ho commentato alcuni documenti che ritenevo essenziali per una conoscenza meno sommaria dell’argomento (i Cahiers de doléances della Parrocchia di Vollerague, della Comunità di Aigues-Vives, della Città di Beaucaire, della Siniscalchia di Nîmes; la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, quella del 24 giugno 1793, la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina di Olympe de Gouges del settembre 1791 e altro ancora); infine, per aiutare gli studenti a non allontanarsi troppo dal clima e dallo stile propri del periodo rivoluzionario, obiettivo abbastanza ambizioso se si pensa  che la richiesta era rivolta a giovani con limitate conoscenze del vocabolario settecentesco, ho predisposto un elenco di parole ed espressioni che ricorrevano con una certa frequenza in testi e documenti  prodotti da alcuni dei  principali artefici della rivoluzione francese. Per tale elenco mi sono servito soprattutto di un volume curato da Cesare Vetter il cui titolo è La felicità è un’idea nuova in Europa. Contributo al lessico della rivoluzione  francese (Trieste, 2005). In questo studio sono tra l’altro indicate in lingua francese  le liste di frequenza di  parole, nonché di lessie composte e complesse, che compaiono più frequentemente nelle opere di Robespierre, di  Marat e di Saint-Just.

    Je dis que, si le peuple ne se lève pas tout entier, la liberté est perdue (Maximilien Robespierre)


    Elenco di parole, di concetti e di frasi fornito ai ragazzi

     

    PAROLE
    Aristocrazia/Aristocratici /Nobili /Nobiltà
    Assemblea
    Bene
    Bisogno
    Cittadino/i
    Comitato
    Coraggio
    Cospiratori
    Costituzione
    Diritto/i
    Donna/e
    Eroe
    Fede
    Felicità
    Generale
    Giacobino/i
    Giustizia
    Governo
    Guerra
    Istituzione
    Legge/i
    Libertà/Libero
    Natura
    Nazione
    Nemico/i (della repubblica)
    Oppressione
    Ordine (inteso come “appartenenza a un ordine”)
    Passione/i
    Patriota/i
    Popolo
    Potere
    Proprietà
    Pubblico
    Ragione
    Rappresentanti
    Re/Sovrano
    Repubblica
    Rivoluzione
    Salute
    Società
    Tiranno/Tirannia
    Uguaglianza
    Umanità
    Utile
    Verità
    Virtù

     

    LESSIE COMPOSTE E COMPLESSE
    Amici della libertà
    Amore dell’umanità/della patria
    Bene comune/generale/pubblico
    Buon cittadino/i
    Cittadini virtuosi
    Diritto naturale/politico /di assemblea/ di petizione
    Felicità pubblica/dell’umanità/degli uomini/del popolo/della società
    Gloriosa rivoluzione
    Governo rivoluzionario
    Interesse generale/pubblico/della nazione
    Libertà di stampa/di culto/di opinione /individuale/pubblica
    Nemici della Libertà/del popolo/della repubblica/della rivoluzione
    Salute della patria/del popolo/pubblica
    Volontà generale

     

    FRASI  ESTRAPOLATE DA  DOCUMENTI E TESTI VARI
    Che cos'è il Terzo stato? Tutto. Che cosa è stato finora nell'ordinamento politico? Nulla. Che cosa chiede?

    Divenirvi  qualche cosa (E. J. Sieyès, Che cos'è il Terzo stato?, 1789).

    Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali possono essere fondate solo sull'utilità comune (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, Art. 1, 1789).

    La Donna nasce libera ed ha gli stessi diritti dell'uomo. Le distinzioni sociali possono essere fondate solo sull'utilità comune (Olympe de Gouges, Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, art. 1, 1791).

    Popolo, se il re sarà assolto, ricordati che noi non saremo più degni della tua fiducia e tu potrai accusarci di perfidia (L. A. de Saint-Just, 13 novembre 1792: Discorso alla Convenzione).

    I principali diritti dell’uomo sono di provvedere alla conservazione della propria esistenza e della propria libertà (M. Robespierre,  24 aprile 1793: Discorso alla Convenzione).

    L’uomo è nato per la felicità e per la libertà: e tuttavia egli è dappertutto schiavo ed infelice! (M. Robespierre, 10 maggio 1793: Discorso alla Convenzione).

    Un uomo che manca di virtù pubbliche non può avere delle virtù private (M. Robespierre, 9 luglio 1794: Discorso ai giacobini).

    Il bene pubblico, la felicità di tutti: ecco  l’unico oggetto del patriottismo; l’amore della giustizia e dell’uguaglianza:  ecco la sua passione (M. Robespierre, Considerazioni su una delle principali cause dei nostri mali, in «Le défenseur de la constitution», n. 3, 31 maggio 1792).

    Popolo di Francia! […] È giunto il momento di fondare la Repubblica degli Uguali, questo grande asilo aperto a tutti gli uomini (Manifesto degli Uguali, 1794).

    I nemici del popolo sono quelli che cercano di annientare la libertà pubblica, sia con la forza, sia con l’astuzia (Legge 22 pratile, art. 5, 10 giugno 1794).

    PEUPLE DE FRANCE !
    Pendant quinze siècles tu as vécu esclave, et par conséquent malheureux. Depuis six années tu respires à peine, dans l'attente de l'indépendance, du bonheur et de l'égalit

    (Sylvain Maréchal, Manifeste des Égaux)

     

    La fase operativa

    Conclusa tra novembre e dicembre questa fase (l’intero modulo “rivoluzione francese” è stato articolato in 10 ore di lezione; per dare maggiore continuità al lavoro, avendo solo due ore settimanali a disposizione per la storia, ho utilizzato anche alcune ore dell’altra materia che insegno in classe:  italiano), ho chiesto ai ragazzi di predisporre  il loro  discorso in forma scritta  come compito da svolgere durante la pausa natalizia. Eventuali difficoltà o richieste di chiarimento  mi potevano essere formulate  attraverso il contatto della posta elettronica.

    Al rientro dalle vacanze ho proceduto alla verifica dei lavori svolti; ho chiesto a ciascuno allievo di leggere il proprio discorso  curando il piano dell’oralità:  la lettura doveva essere accompagnata da un tono adatto alla situazione simulata e tradursi in un’oratoria che puntava a coinvolgere gli ascoltatori e a provocarne l’assenso. Per dare maggiore enfasi al discorso ho invitato i ragazzi a posizionarsi in piedi davanti alla cattedra assumendo un ruolo centrale nella classe mentre io sedevo tra i banchi.

    Alla lettura ha fatto seguito la mia valutazione “sommativa”  (un breve commento sul lavoro svolto che si è poi convertito  in un voto); quindi  ho chiesto agli studenti  “interrogati” di inviarmi il file del loro discorso per procedere a un’analisi meno legata a quelle esigenze più strettamente scolastiche cui è pur sempre tenuto un insegnante (la necessità di dare un voto alla singola prestazione di uno studente).  

     

    I lavori degli studenti

    L’osservazione più evidente che  ho  ricavato dalla lettura dei vari lavori è che gli studenti  “si erano calati in una parte”: essi avevano cioè scelto in base ai loro orientamenti emotivi, culturali e ideologici, anche forse senza esserne del tutto consapevoli. La condanna a morte di Luigi XVI ad esempio ha visto la classe  (molti studenti avevano scelto questo avvenimento come sfondo per costruire il loro discorso) divisa in due contrapposti schieramenti: i favorevoli alla condanna (la maggioranza) e coloro che, pur censurando il comportamento del re, avanzavano seri dubbi non tanto sulla moralità di questo atto quanto piuttosto sull’utilità e la sua coerenza con i principi illuministici e rivoluzionari.

    Le motivazioni di questo secondo gruppo di studenti risultano particolarmente interessanti per gli argomenti che introducono e l’individuazione dei punti critici della condanna a morte.
    Assumendo la parte di un parlamentare girondino che  si rivolge alla Convenzione durante il processo di Luigi XVI nel gennaio 1793,  uno studente della classe, Marco, così  difende il re:

    Cari cittadini nonché parlamentari francesi, sarò diretto, siamo tutti d’accordo su un punto: il nostro sovrano non è in grado di governare e reggere il nostro grande paese; questo lo abbiamo già appurato e abbiamo già approvato la sua destituzione dalla carica di re il settembre scorso. Il re ormai non ha più alcun potere decisionale su nulla; è un uomo come gli altri, come noi, e come tale ha dei diritti che sono il diritto alla conservazione della propria esistenza e la libertà, libertà peraltro già toltagli subito dopo un più che sospetto ritrovamento di documenti compromettenti nei suoi appartamenti nel palazzo delle Tuileries, che lo incriminano e dimostrano come sia in combutta coi sovrani di Prussia e Austria, nostri dichiarati nemici, per far invadere la Francia e riottenere così il suo potere.
    Ma questo è tutto da dimostrarsi perché chiunque avrebbe potuto mettere quei documenti nelle stanze del re e chiunque avrebbe potuto corrompere un inserviente del palazzo per nascondere lì i suddetti documenti, anche un membro di questo Parlamento che vorrebbe toglierlo di mezzo e che ne trarrebbe profitto.
    Signori, ora siamo dove siamo grazie a questa nostra rivoluzione e io vi dico che non avremmo potuto fare di meglio, perché ci ha permesso di affermarci come persone con diritti, come cittadini. E per questo quasi tutti gli stati europei ci hanno dichiarato guerra, ci vedono deboli, isolati e senza un unico punto di riferimento; se adesso mandassimo al patibolo l’ex sovrano gli stati nemici si accanirebbero con ancora più ferocia su di noi e comunque non ci mostreremmo tanto diversi da quei sovrani dispotici come tra l’altro lo era il nostro ultimo re: siamo sicuri che la sua morte sia utile alla nostra società? È nell’interesse generale uccidere brutalmente un uomo finito?
    Penso che la nostra patria non abbia bisogno di una giustizia simile e che anzi tale comportamento leda alla sua salute. La futura repubblica non dovrebbe basarsi sulla morte di un re ma sull’umanità di coloro che l’hanno fondata e che l’amministrano. Faccio richiesta a voi da parte di tutti i girondini di ascoltare la volontà generale del popolo francese perché riteniamo che una decisione di tale portata debba essere rimessa al popolo e non ai soli rappresentanti di esso in quest’aula2 .

      Luigi XVI davanti alla Convenzione per il processo


    Anche Andrea, che fa sua la posizione del leader dei girondini Jacques Pierre Brissot,  si appella al senso di responsabilità dei deputati della Convenzione invitandoli a riflettere, prima del loro voto, sulla complessità della decisione e sulle conseguenze  dell’atto che stanno per compiere:


    Colleghi deputati rappresentanti dei cittadini francesi, con la gloriosa rivoluzione, compiuta dal popolo grazie all’unione di vere passioni come giustizia e uguaglianza e comuni obiettivi come il bene pubblico e la felicità di tutti, lo Stato di Francia lascia a tutto il mondo in eredità gli ideali di libertà, affinché questi possano moltiplicare e alimentare le speranze che noi abbiamo generato.
    I principali diritti dell’uomo per i quali noi abbiamo lottato sono: il diritto alla conservazione della propria esistenza e la libertà.
    Per sostenere questi ideali noi dobbiamo dare un’immagine di cambiamento dimostrando allo stesso tempo di attenerci con coerenza a ciò che noi aspiravamo e che abbiamo conseguito.
    Nonostante tutti noi siamo a conoscenza della colpevolezza del nostro sovrano nell’essersi dimostrato privo di virtù pubbliche, traditore della patria e nemico della repubblica, della libertà, del popolo, della rivoluzione, annuncio che i girondini voteranno contro la condanna a morte del re Luigi XVI, non per salvare la vita del nostro sovrano ma per difendere l’immagine del nostro paese di fronte agli altri Stati.
    Come possiamo rinnegare i diritti per i quali ci siamo battuti?
    Che immagine di Stato rinnovato diamo al mondo se condanniamo a morte il nostro re?
    Io chiedo fortemente a tutti i rappresentanti dei cittadini di riflettere e di pensare all’interesse pubblico e alle conseguenze che potrebbero portare i nostri voti e spero che in futuro non ci dovremo pentire della strada seguita oggi3 .
      Les principaux droits de l'homme sont celui de pourvoir  à la conservation de son l'existence, et la liberté

     

    Non meno interessanti comunque risultano le posizioni (e le argomentazioni di supporto) degli allievi che invece optano per la condanna a morte del  re.
    Una studentessa, Anna, si chiede:

    Si può definire re colui che non pensa al bene e ai bisogni del suo popolo? Colui che ha cercato di mantenere ad ogni costo il suo potere, andando quindi contro le necessità dei cittadini? Ma ancora, si può definire re colui che non prende decisioni, che rimane passivo davanti agli eventi?
    Riflettete, dobbiamo dare pietà ad un uomo che si è dimostrato vile scappando da Parigi durante una fase delicata della nostra Nazione e che ha alimentato l’instabilità sociale e la situazione di confusione politica in cui ci troviamo?
    Come se non bastasse, ci ha incoraggiati a intraprendere una guerra contro gli austro-prussiani, una guerra nella quale Luigi XVI riponeva le sue segrete speranze per restaurare il suo potere assoluto.
    Siamo riusciti a vincere questa guerra grazie alle sole nostre forze e abbiamo sconfitto alla fine i nemici della Francia. Ora rimane una sola minaccia per la sopravvivenza di questa gloriosa rivoluzione: la figura del re.
    Come possiamo noi non condannare un uomo che con le sue azioni ha messo in pericolo tutti noi, ci ha esposti a gravi pericoli  non curandosi del bene comune, della sorte di uomini, donne, bambini della nostra amata Patria?
    E in conclusione, se voi tuttora dopo il mio discorso mi chiedete ancora: “Ma chi siamo noi per condannare a morte Luigi XVI?”. Bé, Signori, noi siamo il popolo, il popolo che si oppone alla tirannia del sovrano e che ora, per dimostrare la sua forza e potenza, ucciderà colui che è stato il simbolo dell’Assolutismo4 .

    Il 21 gennaio 1793 Luigi XVI viene ghigliottinato a Parigi in Piazza della Rivoluzione


    Qualche breve considerazione

    Anche se l’argomento “condanna a morte del re” è stato quello che ha finito per catturare l’interesse della maggior parte  degli allievi, non sono mancate scelte e orientamenti diversi. Qualcuno, come Giada o Martina, ha voluto rivendicare di fronte all’Assemblea nazionale del 1791 i diritti delle donne in nome di un più esteso (e meno sessista)  concetto di uguaglianza, qualche altro, come Nico, ha realizzato un discorso compatibile con quello tenuto da un rappresentante del Terzo stato nella sala della Pallacorda il 20 giugno 1789 e così via, in un alternarsi certamente limitato di varianti, che ha dato luogo comunque a un confronto interessante di idee e posizioni e, quel che più conta nel contesto “lezione di storia”, alla riproduzione di informazioni in una situazione diversa da quella più strettamente disciplinare, che diventavano dunque acquisizioni (competenze) trasversali capaci di trasmigrare in altri ambiti e di essere utilizzate in modo autonomo.

     

    Il riflesso sull’insegnante

    Il lavoro che ho proposto agli allievi della quarta B non è stato senza riflesso sulla mia attività di docente. Come ogni approfondimento in cui si dà spazio all’iniziativa degli studenti ho dovuto procedere alla veridicità dei loro apporti. Ciò non è stato sempre facile, per molteplici ragioni. Alle difficoltà strutturali o istituzionali che ogni insegnante ben conosce (tempo contingentato, incombenze burocratiche, esigenze del programma…) si sono aggiunte questioni legate alla conoscenza disciplinare. Ad esempio uno studente, ipotizzando di essere un rappresentante del Terzo stato che si rivolge all’Assemblea nazionale nella sala della Pallacorda, così inizia il suo discorso: “Noi deputati siamo cittadini francesi provenienti da…”.

    In casi come questo (abbastanza frequenti negli elaborati che gli allievi mi avevano consegnato) più che verificare una generica  preparazione occorreva  accertare qualcosa di più  specifico: il grado di attendibilità delle scelte lessicali rispetto a un preciso riferimento storico (i termini “deputati” e “cittadini”  in quel contesto erano plausibili?).

    Nel momento in cui l’insegnante  si avventura in un campo “incognito”  non può fare affidamento  solo sulle sue acquisizioni “pregresse”; deve essere pronto a un confronto meno scontato e più aperto, con gli studenti e con la disciplina. L’insegnante può così di fronte alla classe  dimostrare un’altra dote: ammettere i propri limiti riconoscendo che alcune conoscenze richiedono competenze particolari e specialistiche, e che nessuno può essere così bravo e preparato da saper trovare sempre una risposta. In situazioni di incertezza si può  anche prendere tempo per andare ad appurare la natura di una informazione, magari sottoponendo a un esperto i propri dubbi.  Una dose di umiltà e un clima di maggiore franchezza tra docente e allievi è il risultato, non strettamente disciplinare ma fondamentale per il clima in cui si determina l’apprendimento, che un lavoro come questo si porta dietro, oltre naturalmente a chiedersi come un determinato avvenimento sia potuto accadere.

     

    SITOGRAFIA

    La felicità è un’idea nuova in Europa. Contributo al lessico della Rivoluzione francese
    http://www.openstarts.units.it/xmlui/bitstream/handle/10077/8299/Vetter-I.pdf?sequence=1
    M. Robespierre, Esposizione dei miei principi, maggio 1792                
     http://www.giovanniarmillotta.it/metodo/robespierre02.htm  

    M.  Robespierre, Discorso alla Convenzione, 24 aprile 1793
     http://www.giovanniarmillotta.it/metodo/robespierre03.htm

    M.  Robespierre, Discorso alla Convenzione,  10 maggio 1793
     http://www.giovanniarmillotta.it/metodo/robespierre04.htm

    E. J. Sieyès, Che cos'è il Terzo stato?
    http://www.storiaestorici.it/index.asp?art=241

    Cahiers de doléances
    http://www.pbmstoria.it/unita/04474n-01cs2/percorsi/txt/0704.php

    Abolizione diritti feudali
    http://www.pbmstoria.it/unita/04474n-01cs2/percorsi/txt/0706.php  

    Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino 1789
    http://www.dircost.unito.it/cs/docs/francia1789.htm  

    Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino 1793
    http://www.dircost.unito.it/cs/docs/francia180.htm  

    Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina
    http://www.consiglieraparitaroma.it/public/files/De%20Gouges%20stralci%20della%20Dichiarazione%20dei%20diritti%20delle%20donne.pdf

    Olympe de Gouges. Le donne e la rivoluzione
    http://www2.units.it/compalit2011/NIEDDU.pdf

    Risposta al cittadino Robespierre di Olympe de Gouges
    http://www.universitadelledonne.it/olympe.htm

    Il manifesto degli Eguali
    http://digilander.libero.it/education/dati_box/STO_2/BABEUF.pdf

     

    NOTE

    [1] Si tratta della quarta B ad indirizzo afm (amministrazione, finanza, marketing) dell’Istituto tecnico del settore economico “Odorico Mattiussi” di Pordenone. Tengo a precisare che è una classe di studenti attenti, in genere interessati alle proposte dell’insegnante, attivi dal punto di vista dello studio e della partecipazione.

    [2] Intervento realizzato da Marco Magini.

    [3] Autore di questo discorso è Andrea Pezzot.

    [4] Questo discorso è stato proposto da Anna Magarotti.

     

  • La storia come Powerful Knowledge.

    Per uscire dal dibattito fra competenze e conoscenze*

    di Claudia Villani

     

    Dalle competenze alle conoscenze, andata e ritorno?

    Pare che nelle teorie dell’educazione stia maturando un cambiamento di rotta, rispetto alla filosofia delle competenze che ci ha accompagnato negli ultimi due decenni. Ne è convinto Arthur Chapman, docente di didattica della storia presso l'UCL Institute of Education (University College, London), curatore del volume Knowing History in Schools: Powerful knowledge and the powers of knowledge1.

    Chapman, che sviluppa la sua riflessione soprattutto a partire dai “curriculum studies”, sostiene che si sarebbe verificato un vero e proprio knowledge turn sia a livello internazionale (OCSE 20192), sia in Inghilterra (20113). Mentre nel primo decennio del XXI secolo, in diversi contesti nazionali e internazionali i curricola scolastici vengono indirizzati verso la valorizzazione di competenze trasversali e transdisciplinari, si sarebbe prodotta recentemente una inversione di tendenza, con il ritorno alla centralità delle conoscenze e delle singole discipline. Questo cambiamento secondo Champan è favorito da un insieme di elementi: l’emergere delle nuove teorie sul “Powerful knowledge”, il fallimento in alcuni paesi dell’approccio delle competenze trasversali, l’affermazione di governi conservatori favorevoli a politiche educative neo-tradizionali. Questa svolta verso curricola basati sulle conoscenze può essere interpretata, infatti, in modi radicalmente diversi: come restaurazione della didattica tradizionale fondata sulla trasmissione delle conoscenze disciplinari, come aggiornamento o revisione radicale del rapporto tra conoscenze e competenze.

    Cerchiamo di capire meglio analizzando le due principali novità segnalate da Chapman: 1) la teoria del powerful knowledge; 2) il Learning Compass 2030 dell’OCSE, che introduce il nuovo concetto di competenze trasformative e dedica una sezione apposita alle conoscenze.

     

    Curriculum e "powerful knowledge"

    Nella riflessione di Michael Young, sociologo dell’educazione, il “Powerful knowledge”4 è inteso come principio guida per l’organizzazione delle conoscenze e delle risorse (materiali e umane) nei curricola scolastici. Un curriculum ispirato al Powerful knowledge5, secondo questa teoria, deve avere alcune caratteristiche fondamentali:

    • rispettare due tipi di confini: 1) tra le discipline all'interno del curriculum; 2) tra discipline insegnate e conoscenze spontanee provenienti dalla “vita quotidiana”;
    • questi confini non limitano l'apprendimento, anzi sono importanti per permettere agli studenti di costruire consapevolmente i loro percorsi di conoscenza;
    • a differenza della conoscenza che gli studenti acquisiscono spontaneamente mentre crescono, la conoscenza potente deve essere acquisita volontariamente dagli studenti a scuola, grazie alle conoscenze specialistiche degli insegnanti;
    • questa conoscenza è specializzata e prende la forma delle singole discipline, che tendono ad essere coerenti con la produzione di nuove conoscenze nelle università;
    • tutti gli studenti devono avere il diritto di acquisire la migliore conoscenza offerta dalle singole discipline durante il loro percorso scolastico, consentendogli di colmare le differenze dovute alla provenienza sociale e al background culturale, che possono aumentare la distanza tra scuola e vita familiare, tra saperi specialistici e sapere comune.

     

    Powerful knowledge and Powerful historical knowledge

    Young riconosce che la sua teoria deve molto al lavoro di Peter Lee ed altri ricercatori sulla didattica della storia, interessati a capire come gli studenti possano diventare “historically literate”. Da qui proviene l’intuizione fondamentale:

    Sebbene un curriculum sia analiticamente distinto dalle relazioni pedagogiche che gli insegnanti sviluppano con i loro studenti, non può essere separato da esse senza diventare un corpo inerte di conoscenze che, nella migliore delle ipotesi, gli studenti potranno solo memorizzare e rigurgitare. Per un curriculum trascurare il suo scopo di trasformare la coscienza degli studenti significa permettere che l'acquisizione della conoscenza sia poco più che una memorizzazione6.

    Un curriculum basato sul Powerful knowledge, insomma, è un curriculum capace di consegnare le grammatiche dei saperi nelle mani degli studenti. Ma per fare questo, non si può non partire dal modo specifico in un cui le conoscenze vengono prodotte, validate, costruite, revisionate nelle diverse discipline, come mostra chiaramente la tabella 1, che Chapman ricava dai lavori di Young:

    Tabella 1: caratteristiche del powerful knowledge

     

    Una conoscenza è powerful knowledge se:

    distinta dal senso comune e dalle conoscenze spontanee derivate dall'esperienza quotidiana;
    sistematica: nei diversi ambiti del sapere i singoli casi e i concetti non sono mai isolati tra loro, ma collegati secondo procedure specifiche (inferenze, deduzioni, confronti, interpretazioni, ecc.);
    specializzata: prodotta in comunità epistemiche disciplinari;
    obiettiva e affidabile: la revisione tra pari e altri controlli procedurali vengono esercitati nelle comunità disciplinari.

     

    Poiché ha queste caratteristiche, il powerful knowledge:

    • ha migliori pretese di verità rispetto ad altre tipologie di conoscenza sulle questioni e i problemi che affronta;
    • può dare a coloro che la conoscono e la comprendono il potere di agire nel e sul mondo, in specifici e rilevanti ambiti e campi d’azione7.

     

    Ecco perché la riflessione teorica e la ricerca didattica sull’insegnamento della storia costituiscono un esempio tipico dei problemi affrontati nella teoria del Powerful knowledge. Nelle maggiori scuole di didattica della storia, infatti, da qualche decennio si lavora su tutti gli aspetti della conoscenza storica, dai curricoli all’alfabetizzazione storica, dagli strumenti didattici alla capacità di pensare storicamente, all’acquisizione di una coscienza storica all’altezza dei tempi in cui viviamo8. In comune tutti gli approcci hanno sicuramente l’attenzione al modo con cui vengono costruite le conoscenze storiche (le procedure, il metodo), ritenendolo parte essenziale e necessaria dell’insegnamento della storia.

     

    Le condizioni per il Powerful knowledge

    Siccome in genere la conoscenza è distribuita nella società in modo diseguale e l’accesso ad una educazione di qualità spesso dipende dalle diseguaglianze sociali, secondo Young occorre compiere scelte politiche chiare per espandere e redistribuire le risorse dedicate all'istruzione pubblica, alla formazione degli insegnanti, alla costruzione di comunità epistemiche che mettano in comunicazione scuole e università, per migliorare l'apprendimento e l'accesso alla conoscenza. Senza queste scelte non si può veramente parlare di una democratizzazione dell’accesso al potere della conoscenza, cioè dell’uguaglianza nell’accesso alle risorse epistemologiche delle diverse discipline.

    I curricula che mirano a sviluppare una conoscenza potente richiedono dunque insegnanti esperti, consapevoli delle forme della conoscenza e dello stato attuale della conoscenza nei diversi ambiti del sapere, oltre che della storia dello sviluppo di quei saperi; e una pianificazione complessa per fornire progressione nella comprensione di un certo numero di dimensioni della conoscenza:

    • conoscenza del contenuto di ciò che è noto nei domini;
    • conoscenza concettuale e comprensione delle idee organizzative che strutturano il contenuto in insiemi o sistemi significativi e dinamici;
    • conoscenza procedurale: comprensione di come le conoscenze sono convalidate e sviluppate (epistemologia);
    • abilità rilevanti necessarie per implementare le procedure, gestire le informazioni e organizzare il proprio apprendimento nel dominio9.

    Secondo questo approccio non avrebbe senso una politica educativa orientata alle competenze trasversali e generiche, poiché fallirebbe proprio l’obiettivo di fondo: consegnare le chiavi con cui si costruiscono effettivamente le conoscenze in ogni singolo e specifico ambito disciplinare, secondo le procedure (l’epistemologia) e i contenuti propri di ogni disciplina.

    Diventa centrale, in quest’ottica, l’investimento nella formazione degli insegnanti e la costruzione delle cosiddette “comunità epistemiche”, per mantenere un collegamento costante con i luoghi dove si continuano a costruire le conoscenze (le università), dove cioè le singole discipline raggiungono la massima vicinanza possibile alla “verità” nei diversi ambiti del sapere.

    Ha ragione quindi Chapman a mettere in evidenza la distanza con l’approccio delle competenze maturato in Europa tra fine anni Novanta e primi anni del XXI secolo. Non rimane che verificare se e in quale misura le recenti politiche educative, a livello nazionale e internazionale, si stiano muovendo a favore delle conoscenze, per quali conoscenze e se questo indichi un effettivo superamento della “filosofia delle competenze chiave”10, trasversali, generali, che ci accompagna dall’inizio del secolo.

     

    La filosofia delle competenze generali

    Nel 2005 l’OCSE varava il noto rapporto sulla definizione e selezione delle competenze chiave11 (progetto DESECO) for a Succesful Life and Well-Functioning Society, approdo di un decennio di indagini sui sistemi educativi nazionali, sulla confrontabilità dei titoli di studio, nell’ambito del successo delle teorie sulla cosiddetta learning society, la società del Terzo millennio, fondata sulla valorizzazione del capitale umano, delle conoscenze e dell’apprendimento permanente, essenziali nel mondo complesso, plurale, accelerato, globalizzato in cui viviamo.

    Si tratta di uno snodo importante, non tanto per l’elenco delle competenze chiave che contiene (tra l’altro costantemente rivisto e aggiornato), ma per la filosofia delle competenze che contiene: per avere successo e per il benessere della società nel suo insieme occorre acquisire competenze generali che richiedono più della semplice capacità di maneggiare ristretti ambiti del sapere.

    La svolta verso una formazione per competenze generali viene motivata partendo dal bisogno di maneggiare una società che cambia rapidamente, sempre più multiculturale, digitale e globalizzata; in cui l’istruzione e il lavoro devono essere capaci di cambiare e rinnovarsi altrettanto rapidamente, lungo tutta la vita; in cui – di conseguenza – nei curricula personali standardizzati diventa importante segnalare quali abilità generali si possiedono, piuttosto che le conoscenze specifiche in ambiti particolari.

    Sarebbe interessante esaminare i “ricettari” di competenze chiave prodotti dai vari organismi internazionali e nazionali, ripetutamente aggiornati, che creano combinazioni sempre diverse e inventano neologismi presi a prestito dalle più disparate discipline. Ci limitiamo a suggerire di indagare questi elenchi come documenti che rivelano un modo di analizzare il presente e concepire le sfide per il futuro. Ad esempio: registro una crisi di legittimità della politica nei sistemi democratici? Manca il senso di cittadinanza? Allora serve una competenza chiave (generale): la competenza di cittadinanza, o competenza civica. Esiste una mancanza di competitività delle imprese? Allora serve la competenza chiave dell’imprenditorialità. Siamo cascati nell’ennesima crisi finanziaria? Senza esserne consapevoli? Allora serve la competenza finanziaria, magari spiegando fin dalle elementari i meccanismi del risparmio e dell’investimento, come avrebbe detto il signor Banks a Michael, cercando di convincerlo a depositare i suoi due penny in un conto bancario nell’indimenticabile Mary Poppins, film del 1964. E si potrebbe continuare all’infinito.

     

    01Fig.1: Il signor Banks istruisce Michael sull’importanza del risparmio bancario (Mary Poppins, Walt Disney Production 1964)

     

    È evidente il circolo vizioso prodotto da questa filosofia delle competenze: invece che investire nella capacità di costruire conoscenze specifiche che possano aiutare ad affrontare problemi, si decide di investire nella capacità generica di risolvere i problemi.

    Nella stessa direzione si muovono purtroppo anche le Raccomandazioni dell’Unione Europea12.

     

    Scenari possibili

    Applicata in senso letterale, questa politica educativa produrrebbe uno dei tre scenari che Chapman discute nel libro, sempre ispirandosi ai lavori di Young:

     

    Scenario 1 (o delle competenze generali)
    • Integrazione delle materie scolastiche
    • Confini deboli tra le materie, come tra conoscenza scolastica e conoscenza spontanea
    • Organizzazione del contenuto dei curricula in termini generici, di solito basati su abilità e attività generiche (competenze trasversali)

      

    Lo scenario 1 indica una possibile evoluzione dei sistemi educativi che interpreti alla lettera la filosofia delle competenze chiave. Secondo Chapman, in Inghilterra, con la revisione del Curricolo Nazionale nel 2013, e nell’OCSE, con il Learning Compass 2030, ci sarebbero importanti segnali di inversione di tendenza, ma bisognerebbe evitare che la “rivincita” delle conoscenze sulle competenze si traduca, all’opposto, nello scenario 2. Una delle reazioni possibili alla filosofia delle competenze, alimentata dalle paure e dalle incertezze in cui navighiamo ormai da un decennio, potrebbe essere infatti quella di tornare al passato, recuperando le conoscenze disciplinari in uno scenario di questo tipo:

     

    Scenario 2 (o del content knowledge)
    • Separazione delle materie scolastiche
    • Confini stabili tra le materie scolastiche, la cui natura e il cui contenuto è inteso come dato, e tra la conoscenza la conoscenza scolastica e la conoscenza quotidiana
    • Organizzazione del contenuto curricolare in termini di materie e contenuti

     

    Nel caso dell’insegnamento della storia, ad esempio, sono forti le spinte verso il ritorno ad una storia identitaria, di derivazione ottocentesca, tesa a costruire, rinsaldare, difendere l’identità nazionale (ed europea, intesa sempre in senso identitario). Basti fare l’esempio del recente canone storico olandese, voluto dal governo per difendere il patrimonio e l’identità della nazione, in risposta alle preoccupazioni sulle lacune e sull’eclettismo delle conoscenze storiche degli studenti olandesi. Così si abbandona però ogni Powerful historical knowledge, spezzando il legame con la ricerca storica e con l’università e riaprendo la porta ad una conoscenza al servizio delle ideologie13, pericolosamente divisiva. Queste ed altre preoccupazioni hanno spinto infatti il Consiglio d’Europa a promuovere nel novembre del 2020 un Osservatorio internazionale sull’insegnamento della storia14.

    Rispetto a questo modello, come abbiamo visto, lo scenario del Powerful knowledge, condiviso da Chapman, pur recuperando l’accento sulle discipline, le intende in modo diverso, come insieme sistematico di contenuti, concetti, abilità e attività:

     

    Scenario 3 (o del poweful knowledge)
    • Separazione delle materie scolastiche
    • Confini stabili e non fissi tra le materie scolastiche, la cui natura e il cui contenuto è inteso variare con il progresso della conoscenza e con il cambiamento del rapporto tra conoscenza scolastica e conoscenza quotidiana
    • Organizzazione del contenuto curricolare in termini di materie, coinvolgendo contenuti, concetti, abilità e attività

     

    Se in questo scenario si muovono già – come abbiamo detto - le maggiori scuole di ricerca sull’insegnamento e sull’apprendimento della storia, secondo Chapman andrebbe in questa direzione anche il recente rapporto dell’OCSE sul futuro dell’educazione e delle competenze, il Learning Compass 2030, esito di un progetto avviato nel 2015 con lo scopo di aggiornare e rivedere le proposte del DESECO. È davvero così? Proviamo ad esaminare alcune parti di questo recente documento dell’OCSE.

     

    L'OCSE e l'Agenda 2030

    02

     

    Questo è l’incipit del lungo e ambizioso documento dell’OCSE chiamato LEARNING COMPASS 2030, strutturato in un capitolo introduttivo (Background del Progetto Future of Education and Skills 2030 dell'OCSE) e 8 capitoli tematici (Concept Note):

    1. Learning Compass 2030
    2. Agency degli studenti per il 2030
    3. Fondamenti per il 2030
    4. Competenze trasformative per il 2030
    5. Conoscenze per il 2030
    6. Competenze per il 2030
    7. Atteggiamenti e valori per il 2030
    8. Ciclo anticipazione-azione-riflessione per il 2030

    Proprio come una bussola orienta un viaggiatore, il Learning Compass 2030 dell'OCSE ha l’ambizione di fornire un sistema di orientamento internazionale per le politiche educative, indicando conoscenze, competenze, atteggiamenti e valori ritenuti fondamentali per “navigare” nelle incertezze del presente e per contribuire a plasmare il futuro coerentemente con gli obiettivi dell’Agenda ONU 2030, nell’ottica della formazione permanente.

     

    03

     

    Non è questa la sede per analizzare l’intero rapporto, che rivede tanti aspetti del documento del 2005, su cui sarebbe interessante ragionare (come la distinzione tra core foundations, transformative competences, skills, knowledge e attitudes). E’ utile però riflettere sulle premesse e sull’approccio dell’intero progetto Future of Education and Skills 2030, di cui attualmente è in corso la seconda fase, dedicata alle strategie e metodologie didattiche. L’intero progetto, infatti, parte da un’analisi del passato, dei sistemi educativi del XIX e del XX secolo, e propone una “visione per il XXI secolo” (Background del progetto Future of Education and Skills 2030 dell'OCSE).

    04jpg

     

    Un sistema educativo per il XXI secolo

    L’intero progetto adotta l’Agenda ONU 2030 come migliore approssimazione delle idee di benessere e sostenibilità verso cui orientare le politiche educative. L’apprendimento è considerato efficace se è in grado di promuovere capacità e senso di responsabilità, individuali e collettive, in questa direzione. L’ambizione è quindi quella di ripensare l’intero sistema educativo, guardando oltre i modelli che si sono affermati nel XIX e nel XX secolo. Nella tabella 2 viene riassunta l’analisi sviluppata nel capitolo introduttivo del Learning Compass15.

     

    Tabella 2: mutamenti storici e didattici fra XIX e XXI secolo

      XIX secolo XX secolo Visioni per il XXI secolo
    Eventi mondiali Guerre civili, segregazione razziale,
    colonialismo e imperialismo
    Prima e Seconda guerra mondiale, indipendenza degli
    stati nazionali, guerra fredda
    Interdipendenza tra gli stati nazionali,
    decentralizzazione del potere, attacchi terroristici,
    nazionalismo
    Innovazioni tecnologiche Elettricità, telefono Internet Tecnologia cibernetica (social media, AI, 3-D stampa, robotica)
    Industria principale e business climate • Industria petrolifera, Industria tessile
    • Produzione di massa a macchina
    • Focus sul profitto
    • Computer, elettronica, finanza
    • Passaggio dal manuale alle macchine -automazione
    • Produzione su misura di beni e servizi; servizi per i singoli consumatori
    • Responsabilità sociale delle imprese
    • Social media, Internet delle cose, big data, digitalizzazione, post-verità (fake news)
    • Economia condivisa, imprenditoria sociale
    • I consumatori partecipano alla produzione di beni e servizi
    • Focus sulla creazione di valore e di significato
    • Passaggio aziendale alla creazione di valore condiviso; anche per contribuire al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile
    Rapporto con l'ambiente • Gli uomini conquistano la natura
    • Gli esseri umani possiedono la natura (in particolare,
    terra) oltre al lavoro e al capitale come fattori
    di produzione
    • Gli uomini cominciano a realizzare la necessità di proteggere la natura (conservazione ambientale
    conservazione/protezione)
    • Concentrarsi sul capitale umano
    • Gli uomini coesistono con la natura; gli uomini sono parte della madre natura
    • Concentrarsi sullo sviluppo sostenibile
    • Sostenere la crescita verde
    • La natura è considerata come uno degli importanti
    capitali - capitale naturale, capitale umano, capitale culturale e sociale
    Cambiamenti nella società Miglioramento degli standard di vita e reddito medio Globalizzazione, baby boom, aumento dell’accesso alle informazioni Migrazione accelerata, urbanizzazione, maggiore aspettativa di vita, diminuzione del tasso di fertilità, crescente disuguaglianza, esaurimento delle risorse naturali, cambiamento climatico
    Organizzazione del lavoro • Divisione del lavoro - per esempio, assemblaggio in
    • fabbriche - linee di assemblaggio
    • Organizzazione gerarchica
    • Trasparenza nell'organizzazione
    • Organizzazione con delega di
    responsabilità e rendicontazione
    • Trasparenza nell'organizzazione
    • Organizzazione con delega di responsabilità e
    responsabilità condivisa
    • Organizzazione orizzontale, aperta, flessibile, trasparente e orientata al lavoro di squadra
    Organizzazione del lavoro e cambiamenti nella scuola dell'obbligo • Scuola pubblica universale (istruzione primaria
    e secondaria)
    • Divergenza emergente nella scolarizzazione (per esempio, scuola privata e a domicilio)
    • Competizione tra scuole
    • Reti/partnership emergenti tra scuole
    • Collaborazione emergente tra le scuole
    • Collaborazione emergente tra scuole e
    • comunità a tutti i livelli (meta-, meso-, micro), dentro una visione del sistema educativo come parte di un ecosistema più ampio
    Curriculum • Prepararsi al mercato del lavoro; educazione per il lavoro
    • Solo discipline accademiche (matematica, lingua)
    • Statico, lineare e standardizzato
    • Preparare all'indipendenza; educazione per la realizzazione individuale
    • Allargamento (aggiunta di educazione fisica, altri campi);
    • Ancora statico, lineare e standardizzato
    • Preparare all'interdipendenza; educazione alla
    cittadinanza
    • Riequilibrio delle discipline in ampiezza e in profondità
    • Curricoli non lineari, dinamici e flessibili; focus su apprendimento più personalizzato
    Fonte: www.youtube.com/watch?v=mlXvQKUS-Q

     

    Un curricolo non lineare, dinamico e flessibile

    Soffermiamoci sull’ultima riga della tabella, quella dedicata al modello di curricolo scolastico. Sorvoliamo per ora sul dato curioso per cui l’educazione alla cittadinanza figurerebbe solo nella “visione per il XXI” secolo mentre nei secoli precedenti lo scopo dei curricola sarebbe l’educazione al lavoro (XIX secolo) e la realizzazione individuale (XX secolo)16. Gli altri principi per i curricola del XXI secolo sono quelli della personalizzazione, flessibilità e non linearità. Basterebbero questi elementi per fare un confronto con il modello del Powerful Knowledge (tabella 3). Ma per comprendere cosa si intenda nel documento per “riequilibrio tra gli ambiti disciplinari in ampiezza e profondità” anticiperò qui una serie di elementi ricavati dal capitolo 5 del Learning Compass (Conoscenze per il 2030), che vedremo più in dettaglio dopo.

     

    POWERFUL KNOWLEDGE LEARNING COMPASS
       

    - flessibilità come aggiornamento coerente con i progressi delle conoscenze nelle università (confini stabili tra le materie, anche se non immobili)

    - personalizzazione dell’apprendimento come garanzia che tutti gli studenti possano acquisire la “migliore conoscenza” offerta dalle singole discipline durante il loro percorso scolastico, colmando le differenze che possono aumentare la distanza tra scuola e vita

    - valorizzazione della sistematicità, specializzazione, dell’epistemologia propria delle singole discipline, rispettando la distinzione tra le materie scolastiche

    - flessibilità, non linearità e dinamicità del curricolo, in nome di obiettivi generali (educazione alla cittadinanza e all’interdipendenza) e della

    - personalizzazione dell’apprendimento, inteso come adeguamento alle differenze tra i singoli studenti (conoscenze e abilità precedenti, diversi atteggiamenti e valori), per consentire di “imparare in modo diverso”

    - valorizzazione delle conoscenze interdisciplinari, epistemiche e procedurali; valorizzazione delle conoscenze disciplinari in quanto trasferibili in altri contesti e ambiti del sapere17

     

    La non linearità, flessibilità e personalizzazione del curriculum, come viene chiarito in altri capitoli del documento, viene intesa come una garanzia di maggiore aderenza alle condizioni dell’apprendimento in tempi di accelerazione e complessità crescenti. Le scuole dell’obbligo rappresentano uno dei tasselli di un sistema educativo allargato, che deve attivare e promuovere feedback a tutti i livelli (stakeholders, territori, ecc.).

    Bastano queste poche righe per capire come il Learning Compass contenga importanti differenze rispetto all’approccio del Powerful knowledge, ma ciò risulterà ancora più chiaro se si considerano la riclassificazione delle conoscenze (che in parte riassorbono ex-competenze trasversali) e delle competenze.

     

    06Learning Compass, p. 73

     

    Le conoscenze si fanno in 4: disciplinari, interdisciplinari, epistemiche, procedurali

    Dei quattro tipi di conoscenze descritti nel documento vengono messe in rilievo le potenzialità generali e generalizzabili, poiché, si legge testualmente, “i sistemi educativi di tutto il mondo stanno passando dalla definizione di materie e conoscenze curricolari come collezioni di fatti, verso la comprensione delle discipline come sistemi interrelati”. Perciò le conoscenze che possono essere trasferite e adattate a diversi contesti sono considerate fondamentali per migliorare la qualità dell’apprendimento. Le possibili relazioni con altri domini del sapere sono meno evidenti nel caso delle conoscenze disciplinari in senso stretto, più evidenti ed esplicite nelle altre tipologie di conoscenza.

    In una società in continuo cambiamento, quindi, si riconosce una parziale utilità delle conoscenze disciplinari (“concetti specifici della materia e contenuti dettagliati”), ma non c’è partita rispetto alle conoscenze interdisciplinari, epistemiche e procedurali, di cui si sottolineano proprio le ricadute generali sulla capacità di adattare, applicare, dare significato, praticare, ciò che si apprende.

    Se consideriamo più da vicino le conoscenze epistemiche e procedurali, nel documento dell’OCSE assumono un significato molto diverso dal Powerful knowledge. Il confronto tra i due modelli appare evidente nella tabella 418:

    Tabella 4: Le conoscenze secondo il Powerful Knowledge e il Learning Compass

     

    POWERFUL KNOWLEDGE LEARNING COMPASS
      Conoscenze epistemiche

    • distinta dall'esperienza quotidiana, dotata di una sua sistematicità ed epistemologia

    • prodotta in comunità epistemiche disciplinari, in cui la revisione avviene tra pari

    • conoscenza delle diverse forme e usi della conoscenza, per capire lo scopo dell'apprendimento, l'applicazione dell'apprendimento

    • comprendere come i professionisti pensano, agiscono, lavorano

      Conoscenze procedurali

    • comprensione di come le conoscenze sono convalidate e sviluppate (epistemologia);

    • può dare a coloro che la conoscono e la comprendono il potere di agire nel e sul mondo, in specifici ambiti e campi d’azione

    • comprensione di come si fa qualcosa per raggiungere un obiettivo;

    • valorizzando soprattutto quelle conoscenze procedurali che sono trasferibili, utilizzabili in diversi contesti e situazioni

    Come divento capace di implementare le procedure, gestire le informazioni e organizzare il mio apprendimento nel dominio?
    Come costruire conoscenze sistematiche, affidabili e oggettive in questo ambito?
    Come pensano, agiscono, lavorano i professionisti in questo ambito? Che tipo di codici etici di condotta hanno? Cosa imparano e perché? Per cosa posso usare questa conoscenza nella mia vita?

     

    L’unica volta in cui nel documento viene nominata la teoria di Young è per invitare a prestare attenzione ai curricoli e alle metodologie di insegnamento delle singole discipline, per essere sicuri di riuscire a collegare ciò che si impara in un ambito disciplinare alle possibili applicazioni pratiche: “Per esempio, gli ingegneri imparano a risolvere problemi di ingegneria, ma i loro curricula raramente insegnano a pensare quali problemi gli ingegneri dovrebbero cercare di risolvere”. Sembra evidente che il tipo di conoscenza che interessa nel Learning Compass è, ancora una volta, quella estraibile dai contesti disciplinari nella forma generica di abilità, procedure, capacità.

     

    Conoscenze trasformative o competenze trasformative?

    07Learning Compass, p. 61

     

    Ancora più chiaramente si conferma questo tipo di approccio nel capitolo 4 del Learning Compass, dedicato al tema delle competenze. Chiarita la visione per il XXI secolo, allineati gli obiettivi all’agenda ONU 2030, il documento dell’OCSE rilancia la filosofia delle competenze generali: in società sempre più multiculturali e interdipendenti e in economie in cui l'impatto delle nuove tecnologie richiede nuovi livelli di abilità e comprensione, occorre orientare il sistema allargato dell’apprendimento all’acquisizione di quel tipo di abilità e attitudini che servono per fronteggiare i problemi e ”modellare il futuro per una vita migliore”. Queste abilità – chiamate competenze trasformative – sono proprie degli esseri umani (nessuna tecnologia può sostituirle!); possono essere usate in contesti e ambiti diversi; consentono di navigare attraverso diverse esperienze e situazioni, per tutta la vita, fronteggiando cambiamenti, incertezze, sfide sempre nuove.

    All’opposto, come abbiamo visto sopra, Young parla di conoscenze trasformative, se mi passate il termine, cioè di conoscenze in grado di “trasformare la coscienza stessa” degli studenti. Le competenze trasformative nel Learning Compass 2030 sono tre: creare nuovo valore, saper fronteggiare tensioni e dilemmi, essere responsabili. Cambia il “ricettario”, ma non cambia la filosofia delle competenze, come mostra la tabella 5, che riassume i contenuti del capitolo e richiama alcuni degli esempi forniti.

     

    Tabella 5: le tre competenze trasformative del Learning Compass 2030 

    COMPETENZE TRASFORMATIVE
      Filosofia delle competenze Esempi
    CREARE NUOVO VALORE

    Siccome per affrontare le sfide globali serve essere capaci di innovazione,
    bisogna promuovere la capacità di creare nuove conoscenze, idee, tecniche, strategie e soluzioni:

    saper creare nuovi valori culturali e sociali

    • Thames Valley District School Board, Ontario, Canada. Si cita il manifesto educativo ma anche la Greenhouse Academy, un'attività in serra gestita dagli studenti, che implica: far fronte a scelte complicate, senso di responsabilità nei vari aspetti dell'attività, agency e co-agency, creazione di nuovo valore per se stessi, per l'azienda e per le comunità che servono.

    Singing with Friends, un'attività di service learning in cui dal 2014 studenti di 16-17 anni del United World College of South East Asia si incontrano settimanalmente con dieci membri della Down Syndrome Association of Singapore. La musica ha il potere di riunire le persone, rafforzare la fiducia, trasmettendo l'importanza di ascoltare e imparare dalle esperienze degli altri.

    Tokyo Gakugei University International Secondary School: laboratorio di economia domestica su come scegliere e usare un detersivo in modo responsabile, determinandone l’impatto ambientale ed economico; studiando un imballaggio che informi il consumatore responsabile.

    GESTIRE TENSIONI E DILEMMI

    Siccome per affrontare le sfide del futuro serve essere capaci di gestire tensioni conflitti, dilemmi tra una pluralità di punti di vista diversi,
    bisogna promuovere la capacità di:
    -riconoscere e riconciliare bisogni, prospettive, interessi, idee diverse;
    -risolvere dilemmi (per esempio, tra equità e libertà; diversità e universalità):

    saper gestire tensioni e dilemmi

    ASSUNZIONE DI RESPONSABILITA'

    Siccome per avere a che fare con il cambiamento, le novità, la diversità, l’incertezza, la complessità bisogna essere capaci di fare scelte responsabili,
    occorre promuovere la capacità di
    lavorare con altri e considerare le conseguenze delle proprie scelte attraverso una lente etica:

    saper agire con responsabilità

     

    Se ancora ci fossero dubbi sul carattere generale, generico e trasversale delle competenze trasformative basta aggiungere che nel Learning Compass si sottolinea come debbano essere insegnate e apprese incorporandole nei curricula e nell’approccio formativo di tutte le discipline: “Per esempio – si legge nel documento - i paesi possono incorporare la competenza di "creare nuovo valore" in materie come le arti, il linguaggio, la tecnologia, l’economia domestica, la matematica e le scienze, usando un approccio interdisciplinare”.

     

    Una scuola senza bussola

    In un bel saggio Baldacci delinea due prospettive molto diverse per le politiche educative e per la scuola: da una parte sintonizzarsi con le esigenze (esterne) dell’economia e dello sviluppo, dall’altra con quelle (interne) della formazione di cittadini consapevoli e non subalterni19. Spesso e volentieri il dibattito sulle competenze chiave dai primi anni 2000 in poi è stato schiacciato su questa contrapposizione20, ma è indubbio che nella sua prima formulazione la filosofia delle competenze rispondeva ad una visione della società e delle sfide per il futuro più angusta, più economicista, di quella del Learning Compass.

    È sicuramente un pregio del recente documento dell’OCSE aver agganciato all’Agenda ONU 2030 la propria visione per il XXI secolo per il sistema educativo allargato e per la scuola dell’obbligo. Rimane però il circolo vizioso della filosofia delle competenze: siccome la società è sempre più complessa, accelerata, plurale, occorre far apprendere le capacità di agire (responsabilmente) per gestire la complessità, il cambiamento, la pluralità. Il problema (educativo) coincide con la soluzione (educativa) proposta. E quindi: competenze generali per tutti, competenze context-specific21 in risposta alle emergenze del presente.

    D’altra parte, se il modello del Powerful knowledge indica una strategia efficace per consegnare nelle mani degli studenti le chiavi della conoscenza in ogni specifico ambito del sapere, manca forse una chiara analisi delle condizioni e del contesto in cui si realizza il percorso di apprendimento: il “qui ed ora” di studenti e insegnanti. Manca il coraggio di una “visione per il XXI secolo”. Ogni sapere e ogni epistemologia vengono sollecitati infatti in modo specifico dalle sfide e dai dilemmi del presente. Insomma, come intendere un Powerful knowledge per il XXI secolo? Powerful knowledge: for what?22

    In bilico tra spinte diverse la scuola rischia in verità di perdere la bussola, piuttosto che trovarla. In Italia, ad esempio, la ricezione del modello delle competenze chiave è stata meno radicale rispetto al caso inglese da cui parte Chapman. Ma anche da noi si sono levati gli scudi e si è aperta una discussione a tratti molto aspra sulla filosofia delle competenze. Che succederà ora, di fronte agli scenari presentati da Chapman, di fronte al Learning Compass, al Powerful Knowledge, alla tentazione di tornare a modelli più tradizionali? Si riaprirà la diatriba su conoscenze e competenze?

    Sicuramente assisteremo nuovamente ad appelli in difesa della scuola “vera”, quella dello scenario 1, quella delle discipline di una volta, che presidiano il “retaggio culturale” degli italiani23. Oppure, magari, potremo finalmente investire nella creazione di comunità epistemiche (scuole-università) per offrire conoscenze radicate nelle epistemologie disciplinari, ma anche adeguate alle domande, ai percorsi, agli sguardi diversi di studenti, insegnanti e cittadini di questo inizio secolo.

     

    La storia come Powerful knowledge

    L’esempio della storia è chiarissimo. Siamo circondati da narrazioni e usi del passato che in parte soddisfano bisogni di svago e intrattenimento, in parte rispondono ad un più profondo bisogno di orientamento nel tempo. Intanto “la storia che conta”, la storia da tramandare alle future generazioni, è tornata ad essere una questione sensibile. Di fronte alla moltiplicazione degli usi e degli abusi del passato, di fronte al rimescolamento e alla ridefinizione delle identità collettive, di fronte alle guerre della memoria e all’abbattimento delle statue, le istituzioni e la politica intervengono, come sempre hanno fatto, per presidiare “la storia da ricordare, tramandare, insegnare”, in ragione della propria visione della cittadinanza e dei suoi valori fondanti. Il calendario civile nelle scuole, di aggiunta in aggiunta, non ha quasi più spazi liberi e nemmeno produce gli effetti sperati.

    Difficile orientarsi. L’insegnamento della storia perde non solo ore, ma viene schiacciato tra i tempi delle giornate della memoria, gli obiettivi delle competenze trasversali (di cittadinanza, ambientale, ecc.) e l’inerzia dei curricoli. In Italia ci lavorano in pochi, Historia Ludens fra questi. Mentre gli storici sembrano disinteressati, nonostante l’epistemologia storica abbia sviluppato raffinati strumenti di analisi, di interpretazione, di revisione e confronto, proprio a partire da sguardi nuovi sul passato e nonostante la necessità di far fronte alla continua perdita di importanza che la storia ha nelle nostre scuole.

    Si può disegnare un curricolo di storia all’altezza dei tempi in cui viviamo: un curricolo “ricco di conoscenze”, “potente” negli strumenti epistemologici, in grado di aiutarci a navigare consapevolmente nel presente globalizzato e iper-mediatizzato in cui viviamo, “aperto” al futuro e non custode di tradizioni. Altrimenti il rischio è grande, come scrive Young, nell’intervento di chiusura del libro su citato:

     

     

    Il potere dei concetti storici non risiede, come nelle scienze, nella loro capacità di sostituire concetti quotidiani, ma nel loro uso per sfidare le visioni convenzionali del passato e del presente (…). Senza l'opportunità di acquisire concetti storici, la capacità intellettuale degli studenti può essere impoverita; potrebbero non essere in grado di prendere le migliori decisioni per plasmare il loro futuro, perché i futuri sono sempre estrapolazioni dal presente e il presente ha sempre un passato incorporato24

     


     

    Breve bibliografia

     

    -  Adorno S., Ambrosi L., Angelini M., a cura di, Pensare storicamente: didattica, laboratori, manuali, 2020, Franco Angeli.

    - Cajani L., Lässig S., Repoussi M., eds., The Palgrave Handbook of Conflict and History Education in the Post-Cold War Era, 2019, Palgrave Macmillan.

    - Thünemann H., Köster M., Zülsdorf-Kersting M., eds., Researching History Education. International Perspectives and Disciplinary Traditions, 2019, Wochenshau Verlag.

    - Valseriati E., Prospettive per la Didattica della Storia in Italia e in Europa (2019); https://www.newdigitalfrontiers.com/it/book/prospettive-per-la-didattica-della-storia-in-italia-e-in-europa_116/

    - Brusa.A, Corso di Didattica della storai. Lezione 4b. Il manuale e l’alfabetizzazione storica.
    http://www.historialudens.it/ricerca.html?searchword=lezione%204b&searchphrase=all

    - Cajani L., a cura di,

     

    Note

      * Note a partire da Chapman, Arthur, ed. Knowing History in Schools: Powerful knowledge and the powers of knowledge. UCL Press, 2021.

     

    1 A. Chapman, ed., Knowing History in Schools: Powerful knowledge and the powers of knowledge, UCL Press, 2021.

    2 OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development) (2019) OECD Future of Education and Skills 2030: Conceptual learning framework. OECD Learning Compass 2030. OECD.
    https://www.oecd.org/education/2030-project/teaching-and-learning/learning/ - [ultimo accesso per tutti i link: 4 maggio 2021].

    3 DfE (Department for Education) (2011) Framework for the National Curriculum: A report by the expert panel for the national curriculum review. London: Department for Education.
    https://www.gov.uk/government/publications/framework-for-the-national-curriculum-a-report-by-the-expert-panel-for-the-national-curriculum-review.

    4 Difficile proporre una traduzione in italiano di “powerful knowledge”, poiché bisognerebbe mettere insieme l’idea di una conoscenza forte, sistematica, approfondita, ricca, con quella del suo radicamento in un consolidato ambito disciplinare, dotato di procedute epistemologiche sorvegliate e vagliate tra pari. Solo questo tipo di conoscenza nelle mani degli studenti costituisce, secondo questo approccio, uno strumento potente.

    5 M. Young, Powerful knowledge or the powers of knowledge: A dialogue with history educators, in Knowing History cit., pp.234-259.

    6 Ivi, p.245.

    7 Schema tratto da M. Young, Powerful knowledge as a curriculum principle, cit. in A. Chapman, Introduction: Historical knowledge and the “knowledge turn”, in Knowing History cit. p. 9.

    8 Si rimanda alle breve rassegna bibliografica.

    9 Ivi, p.8.

    10 Forse varrebbe veramente la pena rileggere l’intera questione della “società della conoscenza”, e delle sue varie traduzioni politiche e sociali, come “società delle competenze”, o meglio, come “key competencies society”. Cfr A. Caputo, Ripensare le competenze filosofiche a scuola. Problemi e prospettive, Carocci 2019, pp. 21-48.

    11 OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development), The Definition and Selection Key Competencies: Executive summary, 2005 http://www.oecd.org/pisa/35070367.pdf.

    12 Come è noto, in linea con la Strategia di Lisbona, anche l’UE si è mossa su questi temi, in particolare con la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente, rivista poi nel 2018. In entrambi i casi cambiano le ricette, ma l’approccio rimane quello descritto sopra, rimane il circolo vizioso tra emergenze individuate politicamente e competenze generiche chiamate a rispondervi.

    13 Cfr. M. Grever, The Netherlands, in Cajani, Lässig, Repoussi, 2019, pp. 385-402.

    14 “Nel contesto dell'ascesa del populismo, un insegnamento della storia che favorisca molteplici punti di vista e un pensiero critico è essenziale per lo sviluppo di una cultura della democrazia. Nel mettere in risalto le pratiche che incoraggiano un insegnamento della storia in linea con i valori del Consiglio d'Europa, l'Osservatorio contribuirà a rafforzare la resistenza contro la manipolazione e il travisamento della storia e favorirà la promozione della pace e del dialogo”. 
    https://search.coe.int/directorate_of_communications/Pages/result_details.aspx?ObjectId=0900001680a07d8c

    15 OECD Future of Education and Skills 2030 cit., p.12. Anche le immagini sulle tre tipologie di aule scolastiche sono tratte dal capitolo introduttivo del rapporto.

    16 Quali discipline avevano in mente gli estensori del rapporto? Non certo le discipline umanistiche, la storia, la letteratura, ecc. Basti pensare agli studi sul rapporto tra nazionalizzazione delle masse e scuola pubblica dal XIX ai giorni nostri.

    17 Vedi il paragrafo “Le conoscenze si fanno in 4”.

    18 La colonna del Learning Compass riprende le definizioni contenute nel capitolo 5 del documento dell’OCSE.

    19 Baldacci M., La scuola al bivio. Mercato o democrazia?, 2019, Franco Angeli.

    20 La filosofia delle competenze chiave, proprio per la sua approssimazione e derivazione da teorie, bisogni, interessi diversi, è stata teatro di battaglia e di competizione tra visioni anche molto distanti tra loro.

    21 Pag. 46, Capitolo 3 (Fondamenti per il 2030).

    22 È l’interessante domanda che si pone K. Nordgren nel suo saggio contenuto nel volume curato da Chapman da cui siamo partiti: Powerful knowledge for what? History education and 45-degree, in Knowing History cit., pp. 177-201.

    23 Accenti di questo tipo si leggono anche nell’appello per le scienze umane di tre illustri intellettuali italiani, Alberto Asor Rosa Ernesto Galli della Loggia e Roberto Esposito.
    https://www.rivistailmulino.it/a/un-appello-per-le-scienze-umane.

    24 Knowing History cit., p.250.

  • La storia della guerra. Dai militari agli storici, o dalle caserme alle scuole?*

    La commemorazione del Centenario della Prima Guerra mondiale

    Da Moratti, a Gelmini a Giannini, l’elenco delle ministre della scuola affascinate dal mondo militare comincia a diventare lungo. Forse qualcuno ricorda l’idea che ai militari dovesse essere affidata la commemorazione scolastica del 4 novembre. Oggi si va più in là: è la memoria della Prima Guerra mondiale che ispira l’intesa fra Miur e Ministero della Difesa, intitolata “Favorire l’approfondimento della Costituzione italiana e dei principi della Dichiarazione universale dei diritti umani, in riferimento all’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione”.  

    Questo accordo, infatti, è stato siglato in occasione del Centenario della guerra, ma con lo scopo più ampio di contribuire all’educazione civile dei ragazzi e a diffondere la “cultura della difesa”. Secondo le due ministre, potranno essere utilizzati i militari più adatti all’insegnamento. Probabilmente, occorrerebbero militari capaci di fare storia. Non dubito che ce ne siano in Italia. Per attrezzarvi nella valutazione, vi propongo un mio adattamento della voce histoire-bataille, scritta da Nicolas Offenstadt per un dizionario storiografico francese. Così, potrete capire il modello storiografico, al quale il graduato che verrà in classe fa riferimento. Meglio ancora, dal momento che la storia della guerra è un argomento importante e degno di essere trattato, vi offrirà il destro per spiegarla voi, direttamente, agli alunni e ai militari che vorranno venire a scuola a impararla. Come sempre, vi invito, dopo questa lettura a prendere in mano l’originale Nicolas Offenstadt, Histoire-bataille, in C. Delacroix, F. Dosse, P. Garcia, N. Offenstadt (dir), Historiographie 1. Concepts et débats, 2010, pp. 163-169. (HL)

     

    La storia della guerra, fatta dagli storici e dai militari

    (…) La storia delle guerre in quanto tali ha sempre interessato molto gli storici. A dire il vero, la storia militare ha coinvolto, fino ad oggi, anche i militari. Per loro, la storia delle battaglie è “maestra di vita”: dai combattimenti del passato occorre ricavare delle lezioni per il presente militare e per i combattimenti futuri. Il grande storico militare, tanto discusso quanto influente, Hans Delbrueck (1848-1929) polemizzò nei suoi scritti contro gli storici dello stato maggiore intorno ai problemi storiografici del tempo.

    Criticò la pretesa dei militari di avere il monopolio in questo campo, cercando, contro quello che allora si pensava, di mettere a punto una storia militare più universale, più colta e meno eroica, meno isolata, inoltre, dalla politica, dall’economia e dalla cultura.
    (…)


    Come i militari fanno la storia della guerra

    A lungo questa storia militare è stata concepita come una storia della strategia e della tattica. Le battaglie e i combattimenti erano studiati e analizzati con uno sguardo d’insieme, precisamente quello del comando: gli obiettivi della battaglia, i piani preparati, la realizzazione delle operazioni a scala complessiva, o almeno a quella di grandi unità di combattimento, i risultati in rapporto alle previsioni o alle speranze di quelli che li hanno iniziati, la valutazione del risultato (battaglia vinta o persa, “decisiva” o no). Questo tipo di storia militare, ancora oggi viva, si inscrive in una storiografia istituzionale, politica, di storia “dall’alto”  in certo senso, legata a quella dei grandi uomini,   siano essi grandi decisori nella sala di comando,  oppure  comandanti  sul campo di battaglia.

    In particolare, la storia militare si è mal connessa, proprio per questi presupposti, con quelle innovazioni che hanno caratterizzato la scienza storica a partire dal XIX secolo: rivoluzione scientifica, allargamento dei punti di vista, l’attenzione alle strutture e alle mentalità, un’accresciuta riflessività.
    (…)

     

    Storia della guerra e identità nazionale

    (…) Scritta largamente da militari o da storici-militari,  la storia delle battaglie occupa un ruolo importante nel “romanzo nazionale” dei grandi paesi a tradizione militare. Le battaglie, quelle vittoriose, si vedono assegnare un ruolo cruciale o la missione di portatrici di simboli nella costruzione della nazione. Esse erano spesso presentate – e lo sono ancora -  come se fossero delle epopee. Molte di loro sono anche state analizzate, in questa prospettiva, come “luoghi di memoria”: Alesia, o Verdun in Francia, Tannenberg o Stalingrado per la Germania.  

    I lavori più recenti si sforzano in effetti di mettere in prospettiva critica questi miti identitari, le letture eroiche e entusiaste dei combattenti liberatori, ivi compresi gli eventi fondatori della Seconda Guerra mondiale, come la Battaglia di Inghilterra del 1940 (con il mito dei few against the many), o lo sbarco in Normandia del 1944, con una eroizzazione semplificatrice dei soldati. (…)


    Civili inglesi si rifugiano nella metropolitana (1940). Nel 1941, il ministero dell’Aviazione britannico pubblicò una brochure di trentadue pagine per costruire intorno alla Battaglia di Inghilterra un’aura leggendaria. Questa brochure venne diffusa in milioni di esemplari.La “battaglia dei pochi contro i molti”, come recitava il mito che ne nacque, è studiata da Richard Overy


    Una nuova “storia-battaglia”

    Da una trentina di anni a questa parte, la storiografia si è evoluta parecchio, al punto da evocare ormai una “nuova storia-battaglia”, che sarebbe lontana sia dall’immagine negativa associata come uno stigma a questo termine, sia dalla realtà di una storia dei combattimenti visti dall’alto e inserita in una semplice narrazione istituzionale e eventografica.  (…)

    Il primo di questi rinnovamenti, legato alle riflessioni sul racconto storico, riguarda le domande stesse che rivolgiamo alla battaglia. Che cos’è una battaglia o un combattimento? La risposta è meno semplice e più aperta di quanto non appaia. I racconti, soprattutto quelli che descrivono la battaglia, giocano la loro parte nella sua definizione; e le controversie per darle un nome, definire la sua estensione spaziale o più ancora la sua cronologia, cancellare o valorizzare un protagonista creano problemi complicati, che conviene sciogliere.

     

    Un caso esemplare della Prima Guerra mondiale: lo Chemin des Dames

    Queste domande sulla costituzione stessa dell’oggetto “battaglia” caratterizzano una ricerca collettiva sullo Chemin des Dames (1917). Lo scacco di questa grande offensiva, dalla quale si sperava tanto, indusse i commentatori francesi a esitare sulla maniera migliore per chiamare quella battaglia, per darne la versione meno negativa possibile (“Battaglia dell’Aisne”, “Chemin des Dames”, “Offensiva Nivelle” ecc.). Da subito, i discorsi dominanti cercarono di minimizzare la sconfitta o di trasformarla in vittorie parziali. La difficile narrazione dello Chemin des Dames, legata, per giunta, agli ammutinamenti, continuò, dopo l’evento, nella scrittura della storia (la battaglia vi occupa spesso un piccolo posto); e le commemorazioni che se ne fecero furono ora discrete ora complesse. Così, lo Chemin des Dames può essere qualificato come “evento senza forma”, tanto la messa in scena della sua estensione geografica e la sua ampiezza cronologica variano secondo i discorsi, per non parlare delle discussioni politiche e dei dibattiti interpretativi.
     

    Nicolas Offenstadt ha diretto quest’opera collettiva, dedicata allo Chemin de Dames, un “inferno”, come dicevano gli stessi soldati. Di questo massacro, e della sua rimozione francese, ci parla Giovanni de Luna. Di Craonne e dello Chemin de Dames si parla su HL a proposito di didattica museale.

     

    Gli storici rovesciano il punto di vista dei militari

    Oltre a queste domande, la “nuova storia-battaglia” rovescia i luoghi e le scale di osservazione. Con il libro molto importante di John Keegan, Il volto della Battaglia,  che studia insieme Azincourt (1415), Waterloo (1815) e la Somme (1916), i soldati nella loro esperienza del combattimento, nelle loro pratiche, le loro maniere di fare e di sentire la guerra diventano il cuore dell’interrogazione storica. Gli storici tentano di leggere la battaglia “al livello del suolo”, di comprendere le motivazioni dei combattenti, ma anche i loro comportamenti in combattimento, sia che si tratti dei gesti tecnici, dei sentimenti, delle reazioni psicologiche sia che si tratti dell’esercizio della violenza. Lo fanno anche per i periodi più antichi, come mostra lo studio “archeologico” del combattimento nella Grecia antica, condotto da Victor Hanson che segue l’oplita dalla polis fino alla morte sul campo di battaglia, attraversando tutte le fasi dell’azione militare.

     
    Qui troverete lo schema del libro di Keegan; due libri di Hanson ci spiegano fino in fondo la sua tesi – molto discussa – che mette in correlazione la straordinaria capacità di uccidere della società occidentale, con la sua democrazia. Quitrovi L’Arte occidentale della guerra

     

    La storia della guerra non è più una “storia-battaglia”

    In senso più ampio, i nuovi approcci della battaglia sganciano (dal mondo militare) l’oggetto “combattimento”, per situare i soldati nelle società del loro tempo con le loro credenze e le loro maniere di fare: è questo l’incontro fecondante con le innovazioni della storia culturale, un incontro avvenuto non senza dibattiti.  (…)

      Per rendersi conto del modo diverso di raccontare una battaglia, si può confrontare la ricostruzione proposta da arsbellica, secondo i canoni dell’histoire-bataille, e lo studio rivoluzionario di George Duby, La domenica di Bouvines. 27 luglio 1214 (del 1973), Einaudi, Torino. Di Duby, la Rai mette a disposizione le interessantissime interviste di metodologia storica

     

    Il lavoro di George Duby sulla battaglia di Bouvines ha, da questo punto di vista, marcato una rottura, altrettanto importante di quella del libro di Keegan. Il medievista ha inquadrato la battaglia del 1214 almeno da un triplo punto di vista. Dapprima, quello della contestualizzazione della battaglia in rapporto alla guerra e alla pace nel mondo medievale (“una sociologia della guerra”), poi in quello della sua narrazione da parte dei cronisti e delle fonti, e infine, dal punto di vista, legato a questi, delle costruzioni leggendarie che l’hanno accompagnata (…)

    Così, la storia delle battaglie è ormai integrata nell’insieme delle ricerche storiografiche contemporanee (ivi comprese quelle di genere) anche se l’espressione “storia-battaglia” resta il simbolo di una maniera di fare che molti storici rifiutano e che, pur tuttavia, perdura largamente nella storiografia militare.

    *Traduzione e adattamento di Antonio Brusa

  • La storia di Ovadia Baruch. Una testimonianza filmica della Shoah. Laboratorio didattico

    Autore: Mariangela Binetti

     

    Di Mariangela Binetti i lettori di HL conoscono già il suo report dal Seminario di formazione dello Yad Vashem, nel quale si spiega la metodologia didattica che vi viene insegnata. Da quell’esperienza Mariangela ha ricavato il laboratorio che qui riportiamo, che è stato presentato ai docenti durante il seminario Conoscere, pensare, insegnare la Shoah, che troverete sempre su HL. Questo articolo si compone di una breve presentazione e del materiale allegato, pronto per l’uso. (HL)

     

    Ci sono due esigenze, che mi hanno spinto a progettare questo laboratorio: la prima didattica e la seconda professionale.

    L’esigenza didattica risiede nel fatto che, avendo ereditato una quinta Liceo linguistico abituata all’apprendimento mnemonico della Storia,  ignara, quindi, dei fondamenti di metodologia storica, disabituata all’argomentazione e incapace di problematizzare un fatto storico, urgeva coniugare in maniera stringente il discorso metodologico con la trasmissione delle conoscenze storiche indispensabili ad affrontare gli esami conclusivi del ciclo scolastico superiore (in previsione ovviamente degli Esami di Stato). Cosa c’è di meglio dell’uso di una testimonianza filmica di un sopravvissuto ad Auschwitz come documento storico?

    L’esigenza professionale risiedeva nel fatto che dovessi presentare un’attività didattica sulla Shoah al follow up romano dell’aprile 2013, riservato ai docenti che avevano frequentato il  Seminario di formazione sulla Shoah presso lo Yad Vashem di Gerusalemme, nel periodo dal 31 agosto al 9 settembre 2012. Il seminario è stato organizzato dal M.I.U.R. e dall’International School for Holocaust Studies (ISHS) dello Yad Vashem, nell’ambito del ICHEIC Program for Holocaust Education in Europe (su questo seminario si veda l’articolo già pubblicato su HL).
    Al follow up romano hanno preso parte, oltre ai 18 docenti italiani coinvolti,  Anna Piperno, IT for Cooperation on Holocaust Education, Remembrance and Research  del M.I.U.R., con il suo staff, e Yiftach  Ashkenatzy, educatore presso l’ISHS dello Yad Vahem.
        
    Ecco dunque l’idea di trasformare un docufilm, donatomi dallo Yad Vashem, in un progetto didattico. Si tratta di  May your memory be love. The history of Ovadia Baruch. Questo docufilm fa parte del gruppo delle testimonianze filmiche Witness and Education,  nelle quali i sopravvissuti raccontano la storia della loro vita nei luoghi in cui gli eventi si sono consumati. I sopravvissuti sono accompagnati nel loro viaggio da esperti dell’ISHS che pongono loro domande orientate in senso didattico, in modo che la storia individuale del superstite scorra parallelamente alla Storia generale. (Lo troverete nel materiale allegato)

    Ovadia Baruch, il protagonista, ha 20 anni quando, nel marzo 1943, viene deportato con tutta la sua famiglia dalla Grecia ad Auschwitz-Birkenau. L’intera famiglia venne rapidamente mandata a morte nelle camere a gas, mentre Ovadia riuscì a sopravvivere fino alla liberazione del campo, nel maggio 1945. Durante la permanenza ad Auschwitz, Ovadia incontra Aliza Tzarfati, una giovane ebrea originaria della sua città natale. I due si innamorano, a dispetto delle condizioni inumane in cui vivono.  Il film documenta la loro storia d’amore e di sopravvivenza nel campo di Auschwitz, il loro miracoloso incontro dopo l’Olocausto e la famiglia che hanno creato in Israele.  

    La tecnica narrativa sottesa al docufilm, unitamente alle linee guida della cosiddetta Filosofia didattica dell’ISHS hanno consentito un aggancio ripetuto alla programmazione disciplinare, nei tempi e nei modi descritti nel materiali allegati.  La testimonianza filmica di un sopravvissuto alla realtà concentrazionaria  può essere usata in classe in due modi:
    1)    mostrare uno spezzone del filmato, quello che riteniamo più significativo al raggiungimento dei nostri obiettivi;

    2)    mostrare l’intero filmato e osservare il personaggio agire, muoversi e raccontarsi in spazi e tempi diversi, prima e dopo l’Olocausto.

    L’uso della testimonianza del sopravvissuto consente di lavorare con l’empatia, ed è un ottimo strumento per combattere gli stereotipi. La storia di Ovadia Baruch, ad esempio, insegna che nei campi di sterminio sono stati deportati anche gli ebrei non polacchi; che esisteva un’importante comunità ebraica mediterranea,  con un suo portato di tradizioni culturali; che non tutti gli ebrei erano ricchi e colti.

     

    Allegati:


    May Your Memory Be Love. The history of Ovadia Baruch

    Alcune sequenze reperite su Youtube.  

    1.    Education
    2.    At the Jewish Museum and Synagogue in Salonika
    3.    Arrival at Auschwitz
    4.    Working at an Auschwitz sub-camp
    5.    Ovadia and Aliza's First Meeting
    6.    Archives at Auschwitz-Birkenau
    7.    The Return to Life

     

    Documenti in PDF

    Mappa mentale della Shoah

    Schema dell'Unità didattica

    Sequenza didattica

    Scheda alunni

     

    Documenti in Power Point

    Yad Vashem

     

     

  • La tua Kitty

    Laboratorio di scrittura dedicato ad Anne Frank, per la Giornata della Memoria 2014

    Autore: Marco Cecalupo
         
    Introduzione
    Cara Kitty,... La tua Anne. Così tutti abbiamo letto milioni di volte nel libro Het Achterhuis (Il retrocasa), più noto come il Diario di Anna Frank. E se Kitty fossi tu? Da questa semplice consegna a studenti di seconda media in una scuola di Reggio Emilia, si sviluppa la partecipazione alla Giornata della Memoria 2014.

     
    Abstract
    La tua Kitty è un laboratorio di scrittura epistolare empatica, nel quale gli studenti di due classi di seconda media di una scuola di Reggio Emilia hanno simulato di ricevere una pseudolettera inviata da Anna Frank alla sua migliore amica immaginaria Kitty. Dopo aver assunto il ruolo di Kitty, gli studenti hanno scritto delle lettere di risposta ad Anna. Le lettere di risposta sono state esposte in una biblioteca pubblica di quartiere in occasione della giornata della memoria 2014. Sono stati realizzati anche dei segnalibro con estratti delle lettere.

     

    Il Laboratorio

     

    E se Kitty fossi io, oggi?
    Quest'anno le mie classi di terza media (3D e 3E della scuola DaVinci di Reggio Emilia) hanno partecipato alla giornata della memoria con un lavoro... dell'anno scorso; studiavamo le scritture private/pubbliche (lettere, diari, blog, chat, ecc...) e ci siamo imbattuti nel cosiddetto Diario di Anna Frank, un insieme di pseudo lettere (inviate appunto da Anne a Kitty, un'amica immaginaria) scritte, riscritte, riviste, corrette, censurate e infine pubblicate in un libro da un certo numero di persone (autrice, papà, amici di famiglia, curatori, editore, ecc.), che milioni di altre persone hanno letto in tutto il mondo; abbiamo allora provato uno dei tanti nostri esperimenti di scrittura, e ci siamo chiesti: "E se Kitty fossi io, oggi?". Allora ho dato agli alunni una pseudolettera di Anne ciascuno, con la seguente consegna: "Tu sei Kitty, oggi ti è arrivata questa lettera, rispondi" (per la verità c'erano altre indicazioni tecnico-letterarie, per esempio incrociare la microstoria con la macrostoria, o fingere di non sapere cosa sarebbe accaduto ad Anne).

     

    I segnalibro
    In allegato trovate i segnalibro che pubblicizzano l'esposizione delle cinquanta lettere integrali scritte ad Anna Frank nel laboratorio di italiano dalle due attuali terze, che negli scorsi pomeriggi con un gruppo di alunni della 3D (Manal, Virginia, Tyrone, Francesca, Luisa, Amin e Antonio, che ringrazio) abbiamo sistemato su due grandi cartelloni nella Biblioteca Ospizio, la nostra biblioteca di quartiere che in questi tre anni ci ha ospitato spesso (per scegliere, leggere, scrivere, discutere, ascoltare, giocare, cercare, immaginare insieme), e dunque arricchito tantissimo.

    Per il fronte, abbiamo scelto insieme dal web le foto: Anna che sorride, Anna quasi mai sola, Anna all'aperto. Sul retro, ci sono degli estratti delle lettere di risposta, selezionati dagli studenti del gruppo, con non poca difficoltà (la consegna era: scegliete le dieci righe che vi fanno più emozionare, o che farebbero più emozionare la mamma o il papà di Anne, se le potessero leggere).


    Il senso della memoria
        
    Mi sono chiesto tante volte in questi giorni il senso di questa operazione, l'insegnamento che ne possono trarre i miei studenti, e ne ho parlato anche un po' con loro già l'anno scorso. Dunque una giornata della memoria senza campi, con ebrei e nazisti sullo sfondo, con parole e faccine che in un gioco di realtà/finzione (verosimile), rimbalzano dalla penna di un'adolescente alla tastiera di altri adolescenti di un altro spazio-tempo, che dimostrano di stare al gioco, cioè di saper dialogare. Che senso ha? Non ho trovato una risposta, ma le lettere mi piacevano, e sono andato avanti.

    Intanto gli studenti stanno già risolvendo due nuovi compiti: ricostruire lo sfondo di quella macrostoria e intervenire nel proprio presente. Il 27 gennaio 2014 la lezione/commemorazione è stata l'analisi di una pagina di un sito negazionista, sulla - a suo dire - controversa questione della cosiddetta "colonna di Kula", cioè il dispositivo meccanico per l'erogazione del Zyklon-B nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau.

    Qualche giorno dopo i miei studenti dovevano spiegare alla prof di scienze (che ha commemorato la giornata con una lezione di genetica sull'inesistenza delle razze) come era stato facile mettere in crisi l'intero l'impianto argomentativo del saggio di tale Robert Countess, specialista in greco del Nuovo Testamento.

    Qualcuno dal fondo dell'aula ha riassunto così: “Prof, il testo si incarta da solo!”. Forse il risultato sarà aver voglia di scrivere in inglese sul blog di Malala, fare meno "mi piace", indignarsi quando è necessario, aver voglia di partecipare?


     La parola agli studenti
        
    Questa è la presentazione del progetto scritta da due studentesse della classe 3D:

    La tua Kitty è stato un progetto che ci è servito per capire molte cose.

    Innanzitutto abbiamo dovuto immedesimarci in Kitty, provando a dare risposte ad Anna. Cosa che ci ha messi molto alla prova, perché tutti volevamo rispondere ad Anna nel migliore dei modi. Quindi abbiamo svolto questo ruolo di migliore amica ed abbiamo capito quanto fosse difficile per Anna vivere in quei tempi.

    Due giorni prima della giornata della memoria ci siamo riuniti in un piccolo gruppo, ed abbiamo fatto dei cartelloni. Dedicandoli ad Anna. Abbiamo messo solo le nostre risposte, primo perché le lettere di Anna sono famosissime, secondo per suscitare l'interesse delle persone nel momento in cui avessero letto le risposte.

  • Le foibe: i fatti, la costruzione della memoria, la ricerca storica.

    Autore: Antonio Brusa

     

    Le foibe: i fatti, la costruzione della memoria, la ricerca storica.
    Strumenti per la didattica1

     

    Sommario

    a. Introduzione
    b. I fatti, cronologia e carte
    c. Una storia tra politica e scuola
    d. La didattica. Qualche avvertenza

     

    A. Introduzione

    Digito “foibe” sul motore di ricerca. Un milione e duecentosettantamila pagine (al 10 febbraio 2013). Si aprono con l’immancabile Wikipedia, poi è un susseguirsi di voci contrastanti: ora un giornale di destra, ora il sito Anpi, ora il circolo anarchico e poi quello neofascista. Dopo un centinaio di titoli, finalmente, compare qualche storico: è la manchette del libro di Raoul Pupo e Roberto Spazzali.

    Un testo di riferimento, preceduto però da un cupo avvertimento. Attenti: secondo la sinistra va a finire che gli italiani si sono meritati di finire ammazzati. Mi accorgo, da storico non specialista del problema, che mi oriento con grande difficoltà in questo frastuono di documenti, foto, invettive, svelamenti di silenzi e disvelamenti di svelamenti. Mi chiedo: cosa farà uno studente, al quale l’improvvido prof abbia dato la consegna di onorare la Giornata del Ricordo con una bella e esaustiva ricerca su internet? E, al contrario, il docente prudente si dovrà limitare ai manuali? Farà ricorso dalla documentazione prodotta dal ministero? Oppure si darà alle fotocopie da libri e da ricerche? O, ancora, visto che gli editori aprono siti, in cui travasano paginate di materiali, darà ordine di scaricarle, magari sui tablet nuovi di zecca, in omaggio alla modernizzazione impartita dal Miur?


    Naturalmente HL non pretende di risolvere questo problema. Sa bene che questa sarà solo l’ultramilionesima pagina. Vuole però offrire uno strumento rapido di consultazione, nel quale ci siano le conoscenze essenziali che aiutino il prof a costruire un percorso didattico e gli forniscano gli strumenti critici fondamentali.  Luigi Cajani, che insegna storia moderna e didattica della storia alla Sapienza di Roma,  ha condotto un’accurata ricerca su come i manuali hanno trattato questo tema che, parzialmente pubblicata in Germania, verrà finalmente edita a breve in Italia.  Dal suo lavoro abbiamo ricavato questo strumento.

     

    In una recente intervista, il cantante  Simone Cristicchi mette insieme, in un unico calderone, Auschwitz, la risiera di san Sabba e le foibe e ritiene che, ancora oggi, la sinistra tenti di occultare quei tragici fatti. Dice, ancora, che non ha mai studiato questo argomento storico, e che tali convinzioni sono solo il frutto delle sue considerazioni personali. E’ la prova, credo, della diffusione ormai endemica di luoghi comuni e di stereotipi, sedimentati nella nostra società nei sessant’anni che ci separano ormai da quegli avvenimenti. E, se ce ne fosse bisogno, un incentivo in più per trattarli correttamente in classe.

     


    B. I fatti

     

    Da un dossier, ormai storico, pubblicato dalla rivista “I Viaggi di Erodoto” nel 1998, a cura di Franco Cecotti e Raoul Pupo2, ricavo le notizie essenziali e la cartina, relative alla storia delle foibe. Si deve partire dal quadro del popolamento della regione (dalla Venezia Giulia fino a comprendere tutta l’Istria). Si tratta di un territorio abitato da genti che parlano lingue diverse e di diversa composizione etnica. Difficile dare numeri certi, dal momento che i censimenti (ci spiegano gli studiosi) non erano sempre affidabili, perché erano, spesso “guidati” dai censitori, interessati a modificare le proporzioni etniche a proprio vantaggio. Le città erano prevalentemente abitate da italiani. Ma non mancavano gli slavi, che, ad esempio a Trieste raggiunsero le 50 mila unità. Allo stesso modo, la predominanza slava nelle campagne non era assoluta. Sia perché vi erano contadini e imprenditori italiani; sia perché abbondavano rumeni, ungheresi, ebrei; sia perché la stessa componente slava era a sua volta frazionata in popolazioni spesso in contrasto fra di loro. Nel corso del XIX secolo, si era sviluppato un doppio irredentismo. Quello degli italiani, che reclamavano l’unificazione con il neonato Regno, e quello slavo, tutto teso a costruire un’identità nazionale, spesso marcata fortemente dalla religione. Al tempo stesso, la regione era attraversata dai conflitti che interessavano tutta l’Europa: fra città e campagna; fra possidenti e agricoltori; fra ceti operai e contadini; fra borghesie (italiana e slava) in competizione fra di loro.

     

    In questo quadro di lungo periodo, i momenti fondamentali, fissati dalla cartina, sono i seguenti:

     

    Primo periodo: dal Trattato di Rapallo (1920), poi modificato dal Trattato di Roma del 1924, fino al 1941. Durante questo periodo, il confine del 1918 viene spostato fino a comprendere gran parte dell’Istria.

     

    Secondo Periodo: Dal 1941 fino al 1943. A seguito dell’invasione della Jugoslavia, il confine italiano viene spostato fino a comprendere buona parte della Slovenia, con la capitale Lubiana, che diventa una provincia italiana.

     

    Terzo Periodo: Dal 1943 al 1945. Dopo l’8 settembre, la Germania assume il controllo diretto dell’intera regione Venezia Giulia-Istria-Slovenia, che, con il nome di Adriatisches Küstenland viene governata dalle truppe tedesche, con l’aiuto di collaborazionisti locali. La tragedia delle foibe si articola in due fasi, al principio e alla fine di questo periodo.


    L’intera regione “Adriatisches Küstenland”, o “Regione del Litorale Adriatico”, con i confini successivi dopo la prima guerra mondiale, dopo l’impresa di Fiume e dopo l’invasione jugoslava

     

    Cronologia essenziale

     

    1941


    6 aprile: inizia l’invasione della Jugoslavia. Debole resistenza locale

     

    17 aprile: spartizione della Jugoslavia fra Germania, Bulgaria, Italia e Ungheria. All’Italia tocca il Montenegro, una parte del Kosovo e della Macedonia, parte della Dalmazia e la Slovenia. La Croazia da vita al regime guidato da Ante Pavelić, che viene diviso a sua volta in due zone di influenza, italiana e tedesca.

     

    3 maggio. Il nuovo commissario italiano, Grazioli, promuove una politica di fascistizzazione e di italianizzazione della regione.

     

    http://casarrubea.files.wordpress.com/2010/02/campi-di-concentramento-transit0001.jpg (con interventi che “antologizzano” bene il dibattito pubblico in Italia)


    Estate: scoppia la rivolta in Montenegro. Movimenti di resistenza in Slovenia. Feroce repressione italiana.

     

    1942/1943

     

    Il Fronte di Liberazione slavo unisce comunisti, cristiano-sociali e liberali. L’Italia promuove lo stato di “guerra totale”. Il generale Mario Roatta, al comando della II armata, assume il controllo politico della regione. Centinaia di processi sommari, con decine di condanne a morte e migliaia di condannati all’ergastolo o a pene di 30 anni. E’ molto difficile un censimento preciso. Tone Ferenc, storico sloveno, ha registrato 1569 esecuzioni capitali; 1376 decessi nei campi di concentramento italiani, dove furono deportate 25 mila persone, pari grosso modo all’8% della popolazione slovena (336 mila abitanti), ma a questo dato minimo va aggiunto un gran numero, nell’ordine delle molte migliaia, di vittime della guerra antipartigiana3.

    Il campo di concentramento di Gonars.

     

    Carta dei campi di concentramento.

     

    1943.

     

    8 settembre. L’esercito italiano è allo sbando. La Slovenia vive un periodo di interregno, durante il quale si scatenano sommosse prima a carattere contadino (jacqueries), poi a carattere nazionalistico anti-italiano. Processi sommari, a seguito dei quali 5-700 italiani vengono uccisi e gettati nelle foibe.

     

    1944

     

    Entra in azione l’Ozra, la polizia politica partigiana. Il suo compito, al principio, è quello di scovare i fascisti. Rapidamente diventa quello di annientare i “reazionari”, categoria nella quale si comprendono italiani, avversari del regime comunista e vittime di vendette occasionali.

     

    1945

     

    Maggio-inizi giugno. E’ la seconda fase delle foibe, diretta, questa volta, politicamente “dall’alto”. Impossibile il conto preciso delle vittime, peraltro non tutte gettate nelle foibe, ma in gran parte fucilate nei campi di concentramento: le stime oscillano fra i 5 e i 10 mila morti.

    Mappa delle principali foibe

     

    1945-1956

     

    L’esodo. Circa 300 mila italiani abbandonano la regione. La maggior parte di loro si insedia nel territorio nazionale.

     


    C. Una storia tra politica e scuola

     

    Il lungo silenzio del dopoguerra

    La vicenda del confine orientale ha visto alternativamente italiani e jugoslavi (in particolare sloveni e croati) nel ruolo di oppressori e oppressi, di vittime e carnefici. Per lungo tempo ha ricevuto scarsa attenzione da parte della dalla storiografia italiana e di conseguenza nessuna dalla scuola, come scrivevano i curatori del dossier della rivista “I Viaggi di Erodoto”. Le cause di questo lungo silenzio erano molte. In generale, per quanto riguarda l’insieme di queste vicende, va rilevato che le fonti d’archivio italiane e jugoslave rimasero in massima parte inaccessibili per decenni, sia per i normali tempi di segretezza che per l’imbarazzo che queste vicende suscitavano, per motivi diversi, in entrambi i governi. Per quanto riguarda il ruolo degli italiani come oppressori e carnefici, erano mancati quei processi, che consentono di raccogliere informazioni e danno loro risonanza presso l’opinione pubblica. La Jugoslavia aveva compilato una lista di militari italiani accusati di aver commesso crimini di guerra, in primo luogo  generali che avevano comandato le forze d’occupazione, ma non ne aveva ottenuto l’estradizione.

     

    La Banda Guidi-Colotti agiva sull’altopiano del Carso triestino, con il compito di reprimere il movimento insurrezionale sloveno. Dall’intervista a Alessandra Kersevan, nella quale se ne descrivono le gesta

     

    I governi italiani infatti poterono rifiutarsi di concederla, grazie all’appoggio degli Alleati, nel complesso gioco diplomatico che aveva come sfondo l’incipiente guerra fredda4. Per quanto riguarda invece gli italiani come vittime di massacri e del massiccio esodo nel dopoguerra, i maggiori partiti politici mostrarono un chiaro interesse a non sollevare la questione.


    I partiti italiani e la questione delle foibe

    La Democrazia Cristiana, il partito costantemente al governo dal dopoguerra, perseguì, nel contesto internazionale della guerra fredda, una politica di accomodamento con la Jugoslavia, che sfociò nel trattato di Osimo del 1975, con cui venne fissato in maniera definitiva il confine fra i due Stati. Il Partito Comunista Italiano, la seconda maggiore forza politica, costantemente all’opposizione, aveva pure esso steso volentieri un velo di silenzio, perché corresponsabile di quanto avevano subito gli italiani, dal momento che fra il 1943 e il 1945 aveva appoggiato in vario modo la politica annessionistica jugoslava. Un esponente di quel partito, Gianni Cervetti, ha così ricostruito autocriticamente, nel 2007, quella scelta:

     

    Fu un errore gravissimo, ma preferimmo rimuovere. … Il tema delle foibe diventò una parte della questione dei rapporti al confine orientale, cioè dei rapporti con la Jugoslavia». Il «Partito» ne discusse, negli anni Cinquanta e Sessanta, ma ne discusse … «soprattutto a Trieste e in modo molto acceso. Ma poi si fece un gran lavoro per stabilire rapporti di buon vicinato sul confine» con lo stato titino. E così ideologia e diplomazia si fusero e «queste due cause portarono a un errore gravissimo che fu quello di rimuovere il dramma delle foibe, di stendere non un velo ma una vera e propria coperta, per nascondere quello che non si voleva vedere. E non se ne parlò più5.

     

    Solo il Movimento Sociale Italiano, partito erede del fascismo e della Repubblica Sociale Italiana e che era ai margini della vita politica italiana, faceva sua la causa degli esuli giuliani e dalmati. Nell’opinione pubblica, dunque, memoria e rimozione delle sofferenze degli italiani erano politicamente divise.

     

    La rimozione sociale

    Per quanto riguarda le violenze commesse dagli italiani, regnava una diffusa inconsapevolezza, che va vista nel più generale contesto di una rimozione di lunga durata di tutti i crimini di guerra italiani, compiuti sia durante la Seconda guerra mondiale che, in precedenza, il Etiopia e in Libia. Un’inconsapevolezza alimentata dalle memorie autoassolutorie pubblicate immediatamente dopo la fine della guerra dal generale Mario Roatta6, comandante della II Armata in Slovenia dal gennaio 1942 e dal suo ufficiale di Stato Maggiore Giacomo Zanussi7, nonché dalla prima ricostruzione fatta nel 1978 da Salvatore Loi8 per conto della Stato Maggiore dell’Esercito Italiano.

     

    Le prime ricerche storiche

    Un primo quadro della durezza dell’occupazione italiana in Slovenia emerse da un breve saggio di Teodoro Sala del 19669, che si basava sugli studi di storici jugoslavi, in particolare Ivo Juvančič e Tone Ferenc, e citava alcuni importanti documenti italiani conservati nell’archivio dell’Institut za zgodovino delavskega gibanja di Lubiana, fra cui i bandi emanati nel 1941 dall’Alto commissario Emilio Grazioli e da Mussolini, la Circolare n. 3 C emanata nel 1942 dal generale Mario Roatta, comandante della II Armata dal gennaio 1942, dove si davano dure indicazioni sulla lotta antipartigiana, e il fonogramma del generale Mario Robotti che conteneva una frase divenuta famosa: “si ammazza troppo poco!”.

    Teodoro Sala, a lungo presidente della Commissione didattica dell’Insmli, la rete degli Istituti per lo studio dei movimenti di Liberazione, si è prodigato per sensibilizzare storici e insegnanti sulla vicenda delle foibe e del confine orientale.

     


    Sala accennava però appena al fenomeno della deportazione degli sloveni nei campi di concentramento. Più in generale sulla Jugoslavia, uscirono negli anni ’70 le memorie del cappellano militare Pietro Brignoli10 e le ricerche dello scrittore Giacomo Scotti11. Si trattava complessivamente di pochissimi scritti, talora di nicchia, e di scarsissimo impatto sull’opinione pubblica. Maggiore era stata l’attenzione sull’Africa, soprattutto grazie allo storico Angelo Del Boca, che aveva scritto sull’Etiopia12 e sulla Libia13, e su quest’ultima era uscito nel 1977 anche un libro del giornalista Eric Salerno14.

     

    Il ruolo dei media

    L’Etiopia salì comunque alla ribalta soprattutto con il documentario televisivo L’Impero, un’avventura africana, scritto e diretto dal regista Massimo Sani con la consulenza di Del Boca, trasmesso in seconda serata dalla prima rete della RAI il 3 ottobre 1985, in occasione del cinquantenario dello scoppio della guerra15. In particolare, vennero presentate molte prove dell’uso dei gas asfissianti.

     

    Durante questo seminario, organizzato dall’istituto Storico della Resistenza friulano vennero proiettati il film di Ken Kirby, Fascist Legacy, di Lordan Zafranović, La caduta dell’Italia (1981) e Occupazione in 26 immagini (1978), oltre ai documentari di Massimo Sani, Quell’Italia del ’43 (1993) e di Alessandra Kersevan e Stefano Raspa, The Gonars Memorial 1941-1943: il simbolo della memoria italiana perduta (2005).


    Pochi anni dopo il documentario di Sani un altro documentario televisivo, questa volta non italiano, venne ad affrontare l’intera questione dei crimini di guerra italiani, non solo in Etiopia ma anche in Libia e nei Balcani. Si trattò di Fascist Legacy, messo in onda il 1 e l’8 novembre 1989 dalla BBC con la regia di Ken Kirby e con la consulenza del giornalista americano Michael Palumbo, il quale per primo aveva lavorato sui fondi della United Nations War Crimes Commission. Per quanto riguarda la Libia, il documentario dava conto della durissima repressione fra gli anni ’20 e ’30, e per l’Etiopia parlava non solo dell’uso di gas asfissianti, ma anche del bombardamento di ospedali della Croce rossa durante la guerra e, successivamente, della sanguinosa rappresaglia seguita al fallito attentato contro il governatore Rodolfo Graziani. Per quanto riguarda la Jugoslavia, il documentario trattava in particolare del campo di concentramento nell’isola di Arbe (Rab in croato), dove si ebbe un alto tasso di mortalità, e si spiegavano le ragioni della mancata consegna dei criminali di guerra italiani alla Jugoslavia. Il documentario suscitò reazioni negative da parte italiana, forse proprio per le questioni legate alla Seconda guerra mondiale. L’ambasciata italiana a Londra protestò immediatamente con la BBC, denunciando una denigrazione dell l’Italia. La RAI acquistò il documentario nel 1991, ma non lo trasmise mai. Pertanto esso circolò soltanto in circoli antifascisti italiani, e solo nel 2004 venne diffuso dall’emittente privata La7.


    Le nuove ricerche storiche

    Intanto, nel corso degli anni ’80, le ricerche storiche sui rapporti italo-jugoslavi presero un nuovo e deciso impulso, soprattutto a causa  del mutare della situazione politica della Jugoslavia, dove dopo la morte di Tito nel 1980 si aprì una crisi politica che portò nel 1991 alla sua dissoluzione. La fine del regime comunista portò con sé una revisione critica della sua storia e mise in moto nuove ricerche e l’accesso a nuove fonti d’archivio16, fra cui il libro Fašisti brez krinke: Dokumenti 1941-1942, di Tone Ferenc, del 1987, tradotto nel 1994 in italiano17. Anche in Italia vennero avviate nuove ricerche d’archivio: l’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito affidò a Marco Cuzzi una ricerca sull’occupazione della Slovenia, pubblicata nel 199818, dalla quale emersero molti dettagli sulle violenze a danno dei civili esercitate dagli italiani nelle azioni di repressione e rappresaglia. E’ così iniziato un filone di ricerche sulla guerra italiana nei Balcani, che non si è ancora esaurito19.

     

    Soldati italiani guardano vittime slovene


    Un importante segno di questo cambiamento dei tempi fu la mozione approvata all’unanimità dal consiglio comunale di Trieste nel 1990 in cui si auspicava la costituzione di una commissione storica italo-jugoslava che prendesse in esame la storia del rapporto fra i due Stati. Subito dopo la Jugoslavia si dissolse, e la proposta venne concretizzata nel 1993, per iniziativa dei rispettivi ministeri degli Esteri, con la costituzione di due commissioni, una italo-croata e l’altra italo-slovena.

     

    La commissione italo-slovena

    La prima commissione si arenò quasi subito20, mentre la seconda21 riuscì a produrre nel 2000 un rapporto22 che ricostruiva in maniera sostanzialmente equilibrata la storia comune fra il 1880 e il 1956. Dopo aver ricordato la politica di “distruzione integrale dell'identità nazionale slovena e croata” portata avanti dall’Italia nel periodo fra le due guerre, e le violenze a danno degli sloveni durante la Seconda guerra mondiale, dall’internamento in campi di concentramento, all’incendio di villaggi, alla fucilazione di ostaggi, gli autori passano a parlare delle violenze subite dagli italiani ad opera degli jugoslavi subito dopo l’armistizio del 1943 e dopo la fine della guerra, nel 1945, chiarendo il duplice significato di queste violenze, come conseguenza dell’occupazione italiana ma anche come strumento di un piano politico volto all’annessione di quelle zone alla Jugoslavia:

     

    Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo23.

     

    Esumazione di salme da una foiba. Immagine di apertura Rai 1, del 10 febbraio 2012

     

    Nelle scuole italiane si comincia a studiare meglio il Novecento

    Altri elementi sopraggiunsero in quegli anni ad animare il dibattito sulla storia recente dell’Italia. In primo luogo la decisione del ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer, che nel 1996 stabilì che il programma di storia dell’ultimo anno della scuola medie e della scuola secondaria superiore venisse dedicato al solo Novecento, mentre fino ad allora si studiava anche l’Ottocento24. Questo notevole ampliamento dello studio della storia contemporanea riaccese l’annosa polemica sull’opportunità di insegnare la storia contemporanea, una polemica tutta italiana, che aveva avuto origine nell’immediato dopoguerra, quando, nel corso della defascistizzazione della scuola, condotta dalla Sotto-commissione per l’educazione della Commissione Alleata di Controllo, venne sospeso l’insegnamento della storia successiva alla fine della Prima guerra mondiale, che nei manuali era la parte più intrisa di ideologia fascista25. Questa decisione doveva essere una misura d’emergenza in attesa di nuovi manuali ispirati a principi democratici, ma venne mantenuta fino al 1960, creando una situazione del tutto inedita, e paradossale, nella scuola italiana. Il fatto era che il fascismo e la Resistenza erano temi scottanti, su cui la Democrazia Cristiana, dopo aver estromesso i socialisti e i comunisti dal governo dal 1947, preferiva stendere un velo di silenzio, in un’ottica moderata. La sinistra, che stava all’opposizione, ne reclamava invece lo studio, anche per combattere nostalgie fasciste. Solo con il mutare del clima politico e la prima apertura a sinistra lo studio degli anni più recenti venne reintrodotto nei programmi, ma la divisione fra destra e sinistra sull’opportunità di insegnare la storia contemporanea non svanì mai, e appunto riemerse vivacemente in occasione in occasione del decreto di Berlinguer. Fra i fautori, a sinistra, Vittorio Foa affermava l’importanza di uno studio attento del Novecento nella formazione dei giovani: “Gli studenti devono studiare questo secolo per capire il rapporto fra il ricordo del passato e il futuro della loro vita”26. Fra gli oppositori, a destra, Indro Montanelli scriveva invece: “Esistono dei testi scolastici di Storia contemporanea dei quali ci si possa fidare come equilibrio e imparzialità? Non ne conosco27”.

    La polemica divenne particolarmente rovente a causa della profonda crisi politica che l’Italia stava attraversando in quegli anni, con la fine o la profonda trasformazione di partiti storici come la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano e il Partito Comunista Italiano, e la nascita di nuovi partiti come la Lega Nord e Forza Italia. Il Movimento Sociale Italiano si trasformò in Alleanza Nazionale e grazie all’alleanza con Forza Italia arrivò per la prima volta della sua storia al governo. In questa nuova fase politica, questo partito cercò naturalmente anche una legittimazione del proprio passato, attraverso l’attacco al paradigma antifascista28, che permeava l’insegnamento della storia, indipendentemente dall’orientamento marxista, liberale o cattolico degli autori dei manuali. In particolare vennero denunciati, anche con libri di grande diffusione come quelli del giornalista Giampaolo Pansa29, i crimini commessi dai partigiani, in particolare subito dopo la fine del conflitto, e si rivendicò dignità anche per i combattenti della Repubblica Sociale Italiana, nella quale qualcuno dei membri più anziani di Alleanza Nazionale aveva militato, con l’argomento che anche loro si erano battuti per la Patria. In tal modo si voleva eliminare uno storico conflitto, da cui era nata la Repubblica, e promuovere una pacificazione nazionale.

     

    La battaglia sui libri di testo

    Uno dei momenti più aspri della polemica, che investì direttamente l’insegnamento della storia, fu l’autunno del 2000, quando, il 9 novembre, il Consiglio della regione Lazio, di cui era presidente Francesco Storace, di Alleanza Nazionale, approvò una mozione in cui accusava i manuali di storia per la scuola superiore di mistificare la storia italiana, con una faziosità mirante a alimentare “uno scontro generazionale” e a impedire “la ricostruzione di un'identità nazionale comune a tutti i cittadini italiani e l'affermarsi di un sentimento di autentica pacificazione nazionale”. La mozione lamentava poi la mancanza in Italia di un’autorità di controllo sui libri di testo, e per ovviare almeno parzialmente a questa carenza impegnava il presidente a istituire una commissione di esperti che svolgesse un'analisi attenta dei testi scolastici evidenziandone carenze o ricostruzioni arbitrarie, nonché a promuovere la scrittura di nuovi libri di testo da diffondere nelle scuole della regione.

    Nella mozione si faceva riferimento ad un opuscolo di poche pagine30 diffuso poco tempo prima dai militanti di Azione Studentesca, un’organizzazione di Alleanza Nazionale, nel quale, con argomentazioni molto elementari si denunciavano alcuni fra i più diffusi manuali di storia per le scuole secondarie superiori come inquinati dall’ideologia di sinistra, che portava la maggior parte di loro a tacere dei massacri delle foibe e, nei rari casi in cui ne parlavano, a negare a questi massacri il carattere di pulizia etnica antitaliana. In particolare quest’accusa veniva rivolta al Camera-Fabietti31, insieme a quella di rifiutare esplicitamente di mettere sullo stesso piano etico-politico partigiani e repubblichini. Oltre che a queste vicende, gli autori davano ancor maggiore attenzione agli eventi più recenti della storia italiana, dagli anni del terrorismo al governo Berlusconi, accusando molti manuali di fare solo propaganda elettorale.

    Immediatamente altri consigli regionali governati dalla destra votarono iniziative analoghe, scatenando un’immediata valanga di furibonde reazioni negative non solo da parte di esponenti politici di sinistra, ma anche più in generale fra gli storici e nel mondo della scuola. In effetti, non era solo l’attacco al paradigma antifascista a suscitare indignazione, ma anche l’idea di un controllo sui libri di testo, che era stato abolito dopo la fine del fascismo. In proposito il Presidente del Consiglio Giuliano Amato affermò con chiarezza, nel corso del dibattito alla Camera dei Deputati, che si tenne il 15 novembre, che nessun organismo pubblico deve interferire in materia di testi scolastici, e che la commissione prevista nella mozione rappresentava “una forma di censura dissuasiva invece che proibitiva” che può avere “un effetto omologante pericolosissimo su quella che deve rimanere una dialettica tra libertà, tra autori, tra insegnanti e autori e tra insegnanti e studenti”32. Di fronte a questa levata di scudi, Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, al momento all’opposizione, che pur aveva salutato la mozione della regione Lazio rallegrandosi del fatto che “i nostri figli non dovranno … più studiare su testi di storia con deviazioni marxiste”, preferì fare marcia indietro, affermando che bisognava stare attenti a non passare dalla parte del torto “offrendo pretesti di critica” agli avversari33, preoccupato evidentemente di un riflesso negativo di queste proteste sulla prossima campagna elettorale. E tutta l’iniziativa finì nel dimenticatoio.

     

    Un caso esemplare: Il manuale di Camera e Fabietti

    Ormai, sotto la spinta di nuove ricerche storiche e polemiche politiche e culturali, anche il mondo della scuola cominciava ad occuparsi delle vicende del confine orientale. Il confronto fra i manuali per le scuole secondarie superiori fino alla metà degli anni ’90 e quelli successivi è eloquente. Ad esempio, il Camera-Fabietti, nella terza edizione del 1987, presentava solo una cartina con una breve didascalia che sottolineava come dopo la Seconda guerra mondiale l’Italia avesse perso quasi tutte le acquisizioni fatte dopo la Prima guerra mondiale, con l’eccezione di Trieste, Gorizia e Monfalcone34. Nella successiva edizione di questo manuale, del 1999, si trova una nuova scheda (firmata da Camera) dal titolo Foibe e Risiera di San Sabba, lunga ben 5 pagine35, a riprova della nuova attenzione a quegli eventi, ma senza la completezza e l’equilibro dell’informazione, che caratterizzava invece il dossier della rivista I viaggi di Erodoto. Camera si sofferma in primo luogo sulla politica di italianizzazione forzata delle popolazioni slave nei territori annessi dopo la Prima guerra. Passando però alla Seconda guerra mondiale, egli presenta le violenze italiane in maniera del tutto minimizzatrice e fuorviante, addirittura eufemistica:

     

    al presidio delle terre balcaniche occupate e alla lotta contro i partigiani slavi parteciparono più di trenta divisioni italiane, che nell’adempimento di questa sciagurata funzione certo non ci attirarono le simpatie dei popoli assoggettati36.

     

    A questa carente informazione ne segue una più precisa sulla Risiera di San Sabba, un campo di concentramento ed eliminazione presso Trieste, dove furono sterminati a migliaia non solo ebrei, ma anche e soprattutto oppositori politici, resistenti e partigiani sloveni e croati,  che fu installato dai tedeschi quando, dopo l’armistizio italiano, assunsero il controllo della regione, ma di cui anche le autorità repubblichine furono corresponsabili. Con queste due informazioni, di peso molto ineguale, Camera spiega il risentimento degli sloveni nei confronti degli italiani. E passa poi a descrivere le violenze subite da questi ultimi, distinguendo due fasi: la prima immediatamente successiva all’armistizio dell’8 settembre 1943, nei pochi giorni di vuoto di potere prima che i tedeschi prendessero il controllo della zona, e durante i quali furono uccise fra le 500 e le 700 persone. L’autore spiega questi eventi come una conseguenza di uno “sfogo dell’ira popolare sloveno-croata contro gli italo-fascisti”, senza quel disegno politico preordinato che invece caratterizzò la violenze della seconda fase, nel maggio-giugno del 1945. Camera analizza qui con inusuale dovizia di documenti le intenzioni di Tito di annettere alla Jugoslavia tutta la Venezia Giulia, e quindi la decisione di combattere non solo contro gli italiani fascisti e responsabili di crimini di guerra, ma anche contro gli italiani antifascisti, come i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) di Trieste, che volevano che quelle zone rimanessero all’Italia, e che in quanto tali erano automaticamente nemici dell’armata liberatrice jugoslava. Chiara e documentata è anche la denuncia delle responsabilità del Comitato cittadino del partito comunista di Trieste, il quale nel 1944 uscì dal CLN per appoggiare la politica di Tito. Si noti, a margine, quanto sia grossolana e infondata l’accusa mossa all’autore dall’opuscolo di Azione studentesca di negare la dimensione etnica delle violenze antitaliane. Sul numero delle vittime di questa seconda fase l’autore non si pronuncia, rilevando l’incertezza dei dati, e denunciando la strumentalizzazione politica fattane dalla destra italiana, ma anche la negazione della gravità di quegli eventi da parte di chi, nella sinistra italiana, diceva che in quelle terre si era solo fatta giustizia. Insomma, una posizione che prendeva nettamente le distanze da entrambe le parti.


    I manuali italiani degli ultimi venti anni

    I manuali italiani, dunque, cominciano a parlare di foibe nel corso degli anni ’90 (per quanto prima della querelle sui libri di testo che abbiamo appena ricordato). Difficile darne conto completamente, dato il loro altissimo numero e, soprattutto, considerando il fatto che gli editori ne presentano versioni nuove a ripetizione. Esaminandone alcuni, si scopre che, in realtà, la vera storia occultata non è quella delle foibe, quanto piuttosto quella del comportamento degli italiani in Slovenia. A volte, si cita solo “la brutale dominazione nazifascista”, senza ulteriori dettagli. Si parla di «programma di distruzione delle identità», e di “eliminazione delle istituzioni nazionali  slovene e croate”. Si spiega che il solo sentimento di vendetta non basta a spiegare questa tragedia e si fa riferimento a un non meglio precisato intreccio complesso di fattori. Si ricorda il sentimento anti-italiano, diffuso nel mondo slavo ben prima della seconda guerra mondiale. Si denuncia l’opera di “fascistizzazione anche violenta”. Ma le descrizioni più dettagliate sono riservate al comportamento slavo:  

     

    I partigiani comunisti jugoslavi … facevano ben poche distinzioni fra fascisti e italiani; … essi consideravano l’intera popolazione italiana come nemica e procedettero a massacri contro i civili, che gettavano, già uccisi o ancora vivi, con mani e piedi legati, nelle foibe, le profonde cavità carsiche del terreno. Il loro intento era non solo di ripulire il territorio dai  fascisti, ma di costringere l’intera popolazione di lingua italiana all’esodo. Anni dopo la fine della guerra si procedette al parziale recupero dei resti degli “infoibati”, sicuramente diverse migliaia. Gli esuli dalla Venezia Giulia furono 300.00037

     

    Fra i rari esempi di trattazione equilibrata, citerei il recente manuale di Alberto Mario Banti. Questi, infatti, oltre a parlare delle foibe, descrive, anche se sommariamente e senza citare singoli episodi, la politica repressiva italiana sia in Grecia che in Jugoslavia, fatta di rastrellamenti, esecuzioni di civili sospetti di appoggiare i partigiani, distruzione di villaggi e deportazioni, e cita anche in generale Roatta38. Banti inserisce la repressione italiana nel più generale contesto della “guerra contro i civili”, che caratterizzò in vario modo il comportamento delle truppe tedesche e italiane, e delle cui vittime egli dà un sommario bilancio nei vari teatri di guerra, soffermandosi peraltro sugli episodi di cui furono responsabili i tedeschi.

     

    Lettera censurata di un internato croato nel campo di Gonars.

     

    La Giornata del Ricordo

    Il quadro distorto e manchevole, che la manualistica mette in evidenza, rischia di essere aggravato dall’intervento della politica sulla storia e sul suo insegnamento. Infatti il Parlamento italiano ha istituito nel 2004 la celebrazione di una “Giornata del Ricordo” per commemorare le foibe e l’esodo degli Italiani dall’Istria e dalla Dalmazia39, e fra queste celebrazioni la legge prevede “iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado”. Il dibattito parlamentare su questa legge, che è stata votata non solo dalla maggioranza di centro-destra al governo, che l’ha proposta, ma anche da buon parte dell’opposizione di sinistra, con l’eccezione dei partiti della Rifondazione Comunista e dei Comunisti Italiani, si è concentrato sulle violenze subite dagli italiani, e solo pochi sono stati i riferimenti al contesto generale e alle violenze subite in precedenza dagli jugoslavi, riferimenti peraltro viziati da quella imprecisione e genericità già lamentata a proposito di vari manuali di storia. Nel corso del dibattito alla Camera dei Deputati, tenuto il 10 febbraio 2004, Pietro Fassino, segretario dei Democratici di Sinistra, si limitò a parlare di “misfatti” e “angherie” commessi durante l’occupazione italiana, precisando che comunque a suo avviso non potevano giustificare le successive violenze commesse contro gli italiani40. Il giorno scelto per questa celebrazione è stato il 10 febbraio, anniversario della firma del Trattato di Parigi che nel 1947 assegnò l’Istria alla Jugoslavia.

    Questa scelta della politica italiana è in continuità con la decisione presa dal ministero degli Esteri di non pubblicare il rapporto della commissione italo-slovena41, nonostante la raccomandazione dei due copresidenti, raccomandazione che venne invece accolta dall’omologo ministero sloveno. Con la legge sulla “giornata del ricordo” la politica italiana ha così vanificato il senso del lavoro degli storici: superare le memorie contrapposte con un discorso storico comune. E così facendo ha smentito proprio le sue buone intenzioni iniziali. La Slovenia, peraltro, ha finito per seguire la stessa strada dell’Italia, cadendo nella provocazione e decidendo di contrapporle una sua celebrazione.

     

    La comunità slava triestina era corposa, oltre 50 mila abitanti. Aveva teatri, centri culturali, bar e scuole. Qui è il Narodni Dom, incendiato dai fascisti nel 1920

     

    Si proposero dapprima date che ricordavano le violenze italiane, come l’anniversario dell’incendio del Narodni Dom di Trieste, la Casa del Popolo slava, compiuto nel 1920 da nazionalisti italiani, o la fucilazione di cinque sloveni condannati nel 1930 dal Tribunale Speciale42, ma alla fine si scelse una data che commemorava una vittoria slovena, il 15 settembre del 1947, quando entrò in vigore quello stesso Trattato di Parigi che assegnava alla Jugoslavia il Primorska, cioè il litorale adriatico43. Così, lo stesso trattato viene celebrato in Italia e in Slovenia, ma in date diverse e con segno opposto.

     

    La scuola e la Giornata del Ricordo

    Importante, a questo punto, è vedere come reagisce la scuola italiana all’imposizione di celebrare il 10 febbraio. Si è visto come i manuali di storia tendano per lo più ad una rappresentazione squilibrata dell’intera vicenda, e questa tendenza può essere facilmente aggravata dalla legge del 2004. Un volume pubblicato nel 2010 dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca44, che presenta un quadro di iniziative prese nelle scuole, conferma che nei vari interventi didattici ci si è concentrati solo sulle violenze subite dagli italiani. E simile impostazione ha il materiale didattico prodotto dall’Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea45. In senso opposto va peraltro l’iniziativa congiunta presa nel 2007 dalla giunta provinciale di Roma (allora di centro-sinistra) e dal Liceo scientifico statale “P. Paleocapa” di Rovigo, con due convegni, i cui atti sono stati poi pubblicati in un unico volume46. L‘iniziativa è stata posta esplicitamente in continuità con i lavori della commissione italo-slovena, ed ha riunito storici italiani, sloveni e croati, che hanno composto un quadro a più voci su tutti gli aspetti principali di quelle vicende a partire dalla metà dell’Ottocento.

    Il problema di un insegnamento equilibrato delle vicende del confine orientale dell’Italia è dunque ancora lontano dalla soluzione, e va notato che anche la manualistica slovena mostra uno squilibrio, di segno opposto a quello della manualistica italiana,  portando l’attenzione sull’occupazione italiana e ignorando le violenze antitaliane, come si rileva ad esempio in uno dei manuali più diffusi, quello di Božo Repe47. La ricerca storica congiunta ha compiuto passi molto importanti, ma la politica, dopo iniziali aperture, è tornata a contrapposizioni strumentali, che probabilmente hanno una maggiore efficacia là dove, come in Slovenia, i manuali scolastici sono sottoposti al controllo delle autorità ministeriali.

     

    D. La didattica. Qualche avvertenza

     

    Per avviare un buon approfondimento sul tema  è opportuno, al principio, sincerarsi che gli allievi padroneggino alcuni concetti, utili sempre per la correttezza del ragionamento storico, ma indispensabili in temi caldi, come questo48. Ad esempio: i ragazzi (come molti adulti) tendono a ragionare in termini di “colpevoli”. Gli storici, invece, parlano di cause, individuano responsabilità a diversi gradi. E’ opportuna la distinzione, dal momento che occorre aiutare gli allievi a separare il piano giuridico (e politico) da quello storico. Inoltre, questo argomento richiama con insistenza parole/concetti quali “identità”, “memoria collettiva”, “memoria condivisa”, “etnia”, “confini” e così via. Si faccia attenzione, in questi casi, al fatto che questi termini designano dei processi di costruzione politica: non indicano dati “naturali” o “essenziali” di una popolazione, come spesso si crede. La vicenda delle foibe, in particolare, è anche un momento di costruzione identitaria, sia pure con tempi e modalità diversi, da entrambi i fronti; ed è stata un argomento per tracciare e rendere definitivi dei confini. Questo vuol dire che una buona trattazione di questo tema implica una programmazione accurata precedente, dal momento che è impossibile avviare l’apprendimento di questo complesso di termini in una sola unità didattica. In mancanza di questi prerequisiti, il docente deve mettere nel conto il fatto che gli allievi tenderanno a usare questi concetti nella forma stereotipata, consueta nella società, e rafforzata purtroppo dal dibattito pubblico.

     

    Recupero di resti umani dalla foiba di Vines, località Faraguni, presso Albonad’Istria negli ultimi mesi del 1943, Dahttp://www.dismappa.it/giorno-del-ricordo-2013/, che riporta le iniziative ufficiali del comune di Verona in occasione della giornata della memoria del 2013. Vi si riporta una ricca documentazione, che si sforza di essere equilibrata fra le tesi della Kersevan, definita “negazionista” e la testimonianza, molto contestata da parte storica, di Graziano Udovisi, testimone “infoibato”.

     

     Per comprendere storicamente il fatto “foibe”, occorre contestualizzarlo. I processi cognitivi sono fondamentalmente due. Il primo “verticale”, inserisce la strage in una retta cronologica. Questa attività serve a ricostruire una catena, sicuramente non lineare ma complessa, di relazioni, che aiuta a mettere in prospettiva questa tragedia. Un primo strumento (oltre alle conoscenze eventualmente riportate nel manuale) possono essere la cronologia riportata sopra e i dati sul popolamento e sulla complessità della storia regionale. Il secondo modo per contestualizzare un fatto è “orizzontale”. Occorre disporre “le foibe” sul tavolo dei fenomeni simili. In questo caso,  quelli che caratterizzano l’immediato dopo-guerra, con le vendette, le espulsioni e gli eccidi di massa, a danno sia dei fascisti e dei nazisti, ma soprattutto delle popolazioni civili. A seguito di questo processo drammatico, oltre dieci milioni di civili furono cacciati dalle loro terre. Tedeschi dalla Polonia e dalla Cechia, ungheresi e rumeni dalla Jugoslavia, italiani dall’Istria. Si contarono oltre due milioni di vittime. La contestualizzazione è fondamentale sia per capire il fatto delle foibe, sia per discuterne in classe, evitando gli equivoci del dibattito pubblico, che tende a inserire nella stessa categoria di “massacro”, eccidi storicamente diversi, quali quelli perpetrati dal nazismo durante la guerra e quelli a danno delle popolazioni sconfitte, dopo la guerra. Alcuni storici, di recente, dilatano i tempi, includendo in questi processi di migrazione forzata una cronologia che risale a metà ottocento49.

     

    L’istituto Storico della Resistenza di Trieste pubblica fra l’altro un dvd con una ricca documentazione, ben equilibrata, sulle violenze italiane e slave

     

    Tuttavia, il “fatto” foibe è ormai inseparabile dal processo di rimozione/rimemorizazione, attraverso il quale è giunto fino a noi. Il complesso delle notizie (film, documentari, denunce, memoriali e diari, interviste, biografie, articoli di giornale e, infine, l’intero circuito mediatico-digitale) è lo strumento fondamentale attraverso il quale questo processo si è attivato. Questa consapevolezza è vitale, per il docente che voglia avviare gli allievi alla sua comprensione. Infatti, le cosiddette “fonti”, alle quali gli studenti rischiano di abbeverarsi sono le stesse protagoniste del processo di rielaborazione dell’evento. Queste attivano un complicato gioco di rimandi all’interno del quale ci si perde facilmente. Un gioco che non si basa più sugli eventi del passato, così come riusciamo a ricostruirli, ma sulla reinterpretazione di quei fatti. O meglio, su dei “fatti interpretati”. Su dei “fattoidi”, come qualche volta si dice, quando si parla di media. Quindi, l’eccidio diventa – di volta in volta: “pulizia etnica”, “massacro comunista” e così via. Pensiamo di analizzare una tragedia della seconda guerra mondiale, e ci troviamo, senza saperlo, a discutere – invece – dell’opinione di questo giornalista o di quell’uomo politico.

     

    Tenere, dunque, le strade separate quanto più possibile (per quanto esse si intreccino inevitabilmente, come abbiamo visto nella ricostruzione di Luigi Cajani). Da una parte la strada della rielaborazione politico/sociale; dall’altra quella della ricostruzione storica. Sono diverse fra di loro non per la passione politica che le attraversa. Anche gli storici hanno le loro appartenenze. Sono diverse per tanti motivi. Quello che qui sottolineo è dato dagli scopi: lo storico vuole ricostruire un fatto. Può fare questo lavoro bene o male. Ma il suo obiettivo, quale che sia la sua appartenenza, è conoscitivo. Il politico o l’operatore dei media vogliono altro: convincere, interessare, stupire, scandalizzare, rassicurare. Obiettivi legittimi, che qui non contesto. Sottolineo solo che sono altri, rispetto all’obiettivo fondamentale e assoluto della conoscenza.

     

    Due mestieri diversi. E conseguentemente, opere diverse e procedimenti diversi per costruirle.

     

    Come fare a tenerli separati? Certamente, pretendere di riuscirvi con una sola unità didattica, e per giunta su un tema scottante come questo, è chiedere troppo. Si tratta di obiettivi di lungo periodo, che vanno accuratamente preparati nel corso del curricolo, soprattutto attraverso qualche attività di laboratorio, che insegni agli allievi (concretamente) che cosa vuol dire lavorare con dei documenti, cimentarsi nell’attività di ricostruzione di un fatto.

     

    Tuttavia, nella prassi didattica internazionale, si è trovato che un buon sistema per affrontare questi temi caldi è quello della didattica controversiale: insegnare a discutere, o meglio insegnare le regole della discussione storica. Una o più tesi da sostenere50. Degli argomenti e dei documenti come prove da citare nelle proprie argomentazioni. Il prof svolge il ruolo di regolatore della controversia. Al termine del lavoro non è importante osservare chi vince e chi perde, quanto ritornare sulla discussione stessa per valutarne la regolarità e per osservare la differenza fra questa e il talk show, nel quale gli argomenti si sovrappongono e i giudizi si confondono con i fatti.

     

    A differenza del talk show, infine, nel quale non vale nessun principio di auctoritas, se non la capacità di realizzare una performance (in fin dei conti si tratta di uno spettacolo), il dibattito storico ruota intorno al riconoscimento scientifico dello storico. Alle sue capacità e alla considerazione che le sue tesi riscuotono presso i colleghi. Per questo, gli storici (che troverete citati in abbondanza nel testo di Cajani) sono i punti di riferimento di chiunque voglia accedere al processo di ricostruzione del passato. Quindi, la conclusione più idonea di una unità controversiale è la lettura diretta di un brano storiografico appropriato. Lo si apprezzerà più a fondo, dopo aver sperimentato il fuoco di un dibattito.

     

    Per quanto riguarda questa “cassetta di strumenti”, penso che la chiusura migliore siano le parole con le quali Filippo Focardi finisce il suo libro sul “cattivo tedesco e il bravo italiano”:

     

    “Nel luglio 2010 ha avuto grande significato politico e simbolico l’incontro a Trieste fra il presidente Giorgio Napolitano, il presidente sloveno Danilo Türk e quello croato Ivo Josipović in occasione del concerto diretto dal maestro Riccardo Muti eseguito in piazza unità d’Italia da un’orchestra di musicisti dei tre paesi. Prima del concerto, come atto di reciproca riconciliazione i tre presidenti hanno deposto una corona di fronte alla lapide che ricorda l’incendio del Narodni Dom la Casa del Popolo slovena data alle fiamme nel 1920 dai nazionalisti italiani (poco dopo confluiti nel fascismo), recandosi poi insieme a rendere omaggio al monumento che ricorda l’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia (…) Nell’occasione, i due presidenti (italiano e croato) hanno ricordato sia “la tragedia delle vittime del fascismo italiano” sia le vittime “della folle vendetta delle autorità postbelliche dell’ex-Jugoslavia” (…)

     

    Un internato nel campo di Arbe.

     

    Ma insieme ai gesti simbolici, e prima ancora di essi, servirebbe una ben maggiore diffusione della conoscenza della nostra storia, a partire dalle scuole. E’ doveroso che gli studenti conoscano Sant’Anna di Stazzema e Monte Sole, come Auschwitz e le foibe, ma dovrebbero sapere anche che cosa hanno rappresentato Domenikon (in Grecia) e Raab (Arbe), per non dire di Debrà Libanos in Etiopia. Allo stesso modo può avere un valore formativo che venga loro additato l’esempio di un Giorgio Perlasca, ma non dovrebbero essere taciute le colpe di un Rodolfo Graziani o di un Mario Roatta. Anche così si costruisce una memoria europea fondata sull’etica della responsabilità e aperta alla dimensione globale e multietnica delle società in cui viviamo, al di là di una memoria nazionale finora centrata su se stessa, vittimistica e autocelebrativa”51



     

    Il sacrario di Basovizza Il memoriale di Gonar

     

    Note

    1. Il testo è ricavato in gran parte da un contributo di Luigi Cajani, che io ho ridotto e organizzato: Luigi Cajani, Die Ostgrenze Italiens im 20. Jahrhundert. Eine Geschichte zwischen Politik und Schule, in Patrick Ostermann, Claudia Müller, Karl-Siegbert Rehberg (Hg.), Der Grenzraum als Erinnerungsort. Über den Wandel zu einer postnationalen Erinnerungskultur in Europa, Bielefeld, transcript Verlag, 2012, pp. 153-170. Le immagini sono ricavate da internet e si intendono controllate al 10 febbraio 2013.
    2. Franco Cecotti, Raoul Pupo, Il confine orientale. Una Storia rimossa, in “I viaggi di Erodoto”, 12, 34, 1998, pp. 88-150 (con la riproduzione del contributo fondamentale di Carlo Schiffrer, Sguardo storico sui rapporti fra italiani e slavi nella Venezia Giulia, pp. 127-150).
    3. Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, Bari 2013, p. 132.
    4. Cfr. Filippo Focardi, La questione della punizione dei criminali di guerra in Italia dopo la fine del secondo conflitto mondiale, in “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, 80 (2000), pp. 543-624.
    5. Gianna Fregonara, Cervetti: così noi del Pci arrivammo al negazionismo, in “Corriere della Sera”, 12.2.2007.
    6. Mario Roatta, Otto milioni di baionette, L'esercito italiano in guerra dal 1940 al 1944,  Milano, A. Mondadori, 1946.
    7. Giacomo Zanussi, Guerra e catastrofe d’Italia. 1: giugno 1940-giugno 1943, Roma, Corso [1945].
    8. Salvatore Loi, Le operazioni delle unità italiane in Jugoslavia (1941-1943), Roma, Ufficio storico SME 1978
    9. Teodoro Sala, Occupazione militare e amministrazione civile nella «provincia» di Lubiana (1941-1943), in Enzo Collotti, Teodoro Sala, Giorgio Vaccarino, L’Italia nell’Europa danubiana durante la seconda guerra mondiale, Milano, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, 1967, pp. 73-93.
    10. Pietro Brignoli, Santa Messa per i miei fucilati, Milano, Longanesi, 1973.
    11. Giacomo Scotti, “Bono taliano” Gli italiani in Jugoslavia (1941-43), Milano, La Pietra, 1977.
    12. In particolare i quattro volumi dell’opera Gli italiani in Africa orientale, pubblicati dall’editore Latera fra il 1976 e il 1987.
    13. Gli Italiani in Libia, due volumi pubblicati da Mondadori nel 1997.
    14. Eric Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell'avventura coloniale (1911-1931), Milano, SugarCo, 1979.
    15. Giuseppe Mayda, Cinquant’anni fa, in Abissinia, in “La Stampa”, 13.7. 1985; Ugo Buzzolan, Com’era buio quel posto al sole, in “La Stampa”, 3.10.1985; Arminio Savioli, Guerra d’Etiopia Vietnam italiano, in “l’Unità”, 3.10.1985; Beniamino Placido, 19 salve di cannone. E Craxi ringraziò: Africa, ciao, in “la Repubblica” 6/7.10.1985.
    16. Cfr. Nevenka Troha, La questione delle “foibe” negli archivi sloveni e Italiani, in Jože Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Torino, Giulio Einaudi editore, 2009, pp. 245-294, qui pp. 245 s.
    17. Tone Ferenc, La provincia “italiana” di Lubiana. Documenti 1941-1942, Udine, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, 1994.
    18. Marco Cuzzi, L’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943), Roma, Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio storico, 1998.
    19. Si vedano: L’Italia fascista potenza occupante: lo scacchiere balcanico, dossier monografico a cura di Brunello Mantelli in “Quale storia”, XXX, n. 1, giugno 2002; Davide Rodogno, Il Nuovo Ordine Mediterraneo. Le politiche di occupazione dell'Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino, Bollati Boringhieri, 2003; Costantino di Sante (a cura di), Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Verona, ombre corte, 2005; Davide Conti, L'occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della "brava gente" (1940-1943), Roma, Odradek, 2008; Elena Aga Rossi, Maria Teresa Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani, Bologna, Società editrice il Mulino, 2011; Amedeo Osti Guerrazzi, L’Esercito italiano in Slovenia 1941-1943. Strategie di repressione antipartigiana, Roma, Viella, 2011.
    20. Va peraltro segnalato il successo di una contemporanea iniziativa congiunta della Società di Studi Fiumani di Roma e dello Hrvatski Institut za Povijest di Zagabria, sulle vittime italiane a Fiume, che rivestiva anche un carattere di ufficialità politica, avendo avuto l’alto patronato del Presidente della Repubblica italiana Oscar Luigi Scalfaro e l’approvazione del Presidente della Repubblica di Croazia Franjo Tudman. Ne è scaturito un volume bilingue: Amleto Ballarini, Mihael Sobolevski (a cura di), Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-47) - Žrtve talijanske nacionalnosti u Rijeci i okolici (1939-1947), Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per gli Archivi, 2002.
    21. All’inizio la Commissione comprendeva per la parte italiana Sergio Bartole (copresidente), Fulvio Tomizza, Lucio Toth, Fulvio Salimbeni, Elio Apih, Paola Pagnini e Angelo Ara. Per diversi motivi si sono avute le dimissioni del copresidente, sostituito da Giorgio Conetti, e di Fulvio Tomizza e Elio Apih, sostituiti con Marina Cataruzza e Raoul Pupo. Per la parte slovena furono nominati Milica Kacin Wohinz (copresidente), France Dolinar, Boris Gombac, Branko Marušic, Boris Mlakar, Nevenka Troha e Andrej Vovko. Boris Mlakar si dimise dapprima e fu sostituito da Aleksander Vuga, ma rientrò successivamente in seguito alle dimissioni di Boris Gombac.
    22. Relazione della Commissione italo-slovena sui rapporti fra i due Paesi fra il 1880 e il 1956, in “Storia contemporanea in Friuli”, XXX (2000), n. 31, pp. 9 – 35, qui p. 28. Il testo sloveno in Slovensko-italijanski odnosi 1880-1956. Porocilo slovensko - italijanske zgodovinsko - kulturne komisije (Koper - Capodistria, 25. julij 2000), Ljubljana, Nova revija, 2001.
    23. Relazione della Commissione italo-slovena …, cit., p. 28
    24. Ministero della Pubblica Istruzione, Decreto n 682 del 4.11.1996: Modifiche delle disposizioni relative alla suddivisione annuale del programma di Storia.
    25. Cfr. Sotto-commissione dell’Educazione della Commissione Alleata in Italia, La politica e la legislazione scolastica in Italia dal 1922 al 1943, con cenni introduttivi sui periodi precedenti e una parte conclusiva sul periodo post-fascista…, Garzanti, 1947, p. 389.
    26. M. Ajello, Cari ragazzi, finalmente scoprirete un secolo. Il vostro, in “Il Messaggero”, 1 ottobre 1996.
    27. Il progetto Berlinguer? Che brividi! (La stanza di Montanelli), in “Corriere della Sera”, 5 ottobre 1996.
    28. Per una ricostruzione generale si veda Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Torino, Giulio Einaudi editore, 2004.
    29. Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, Milano, Sperling & Kupfer, 2003.
    30. Quando la storia diventa una favola... sinistra!, s.n.t.
    31. L’edizione qui presa in esame è Augusto Camera, Renato Fabietti, Elementi di storia. XX secolo, quarta edizione, Bologna, Zanichelli, 1999.
    32. Camera dei Deputati- XIII Legislatura, Resoconto stenografico dell'Assemblea, Seduta n. 811 del 15.11.2000.
    33. Wanda Valli, Berlusconi sulla scuola “No ai testi marxisti” ,in “la Repubblica”, 13.11.2000.
    34. Augusto Camera, Renato Fabietti, L’età contemporanea, Bologna, Zanichelli, 1987, p. 1373.
    35. Augusto Camera, Renato Fabietti, Elementi di storia. XX secolo, Bologna, Zanichelli, 1999, pp. 1564-1568.
    36. Ivi, p. 1565.
    37. Questo brano, da considerarsi solo esemplare, è tratto da Adriano Prosperi, Paolo Viola, Corso di storia. Il secolo XX, Milano, Einaudi scuola, 2000, pp. 224 e 231. Gli altri manuali presi in considerazione sono: Alberto De Bernardi, Scipione Guarracino, La conoscenza storica. Manuale. 3. Il Novecento, Milano, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 2000; A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Storia, documenti. storiografia. Il mondo contemporaneo, Roma – Bari, Editori Laterza, 19941, p. 951; Luca Baldissara,  Stefano Battilossi, Corso di storia e percorsi di approfondimento, nuove edizione, con temi di educazione civica e lezioni di metodo. Volume 3, il Novecento, Firenze, Sansoni per la Scuola, 2003; Massimo Cattaneo, Claudio Canonici, Albertina Vittoria, Manuale di storia. Il Novecento e il nuovo millennio, Bologna, Zanichelli, 2009, pp. 375 s; Pietro Cataldi, Ennio Abate, Sara Luperini, Lidia Marchiani, Cinzia Spingola, Di fronte alla storia. Eventi, persone, luoghi fra passato e presente. 3. Il Novecento e oltre (dal 1914 a oggi), Palermo, G. B. Palumbo editore, 2009, p. 238
    38. Alberto Mario Banti, Il senso del tempo. Manuale di storia. 1870-oggi, Roma-Bari, Editori Laterza, 2008, pp. 455 s.
    39. Legge 30 marzo 2004, n. 92: Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati, in “Gazzetta Ufficiale” n. 86, 13.4.2004.
    40. Camera dei Deputati, Atti parlamentari, XIV Legislatura — Discussioni — Seduta dell’11 febbraio 2004 — N. 422, p. 28.
    41. Peraltro neppure un governo di centrosinistra ha ritenuto di intervenire in tal senso. Ad una interrogazione in proposito presentata l’8 febbraio 2007, dalla deputata Anna Maria Cardano, di Rifondazione comunista, il Ministero degli Esteri rispose infatti che “tenuto quindi conto anche del lungo tempo trascorso, non appare opportuna una nuova pubblicazione ufficiale della relazione, mentre potrebbe essere utile una sua diffusione nel mondo della cultura e della scuola” (Atto Camera, Risposta scritta pubblicata mercoledì 30 maggio 2007 nell'allegato B della seduta n. 161 all'interrogazione 4-02510 presentata da Cardano).
    42. Bojan Brezigar, Globlji pomen “dneva kasneje”, in “Primorski dnevnik”, 1.9.2005.
    43. Zakon o praznikih in dela prostih dnevih v Republiki Sloveniji uradno precišceno besedilo, in  “Uradni list Republike Slovenije”, n. 112 / 15 dicembre  2005, pp. 12019 s.
    44. Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e per l’Autonomia Scolastica (a cura della), Le vicende del confine orientale ed il mondo della scuola, in “Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istruzione”, 133/2010.
    45. Giovanni Codovini,  Dino Renato Nardelli, Le Foibe. Una storia dai confini mobili. Archivio simulato per la scuola secondaria di secondo grado, Perugia, Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea, 2005.
    46. Pierluigi Pallante (a cura di), Il giorno del ricordo. La tragedia delle foibe, presentazione di Oscar Luigi Scalfaro, Introduzione di Nicola Zingaretti, Editori Riuniti, Roma 2010.
    47. Božo Repe, Sobodna zgodovina. Zgodovina za 4. Letnik gimnazij, Ljubjiana, Modrijan, 2008, pp. 188ss, 213 ss.
    48. Franco Ceccotti – professore e storico di frontiera -  ha scritto una pagina molto sentita sulla difficoltà di insegnare questo tema, e al tempo stesso sulla passione di insegnarlo. Insegnare in una regione di frontiera, in http://www.irsml.eu/didattica/materiali-scuola/156-f-cecotti-insegnare-in-una-regione-di-frontiera
    49. Antonio Ferrara, Niccolò Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa: 1953, Il mulino, Bologna 2012
    50. Mary Wolley, T.E.A.C.H. Teaching Emotive And Controversial History: vedine la recensione in “Mundus, 1, 2006, pp. 222 s.
    51. Filippo Focardi, Il cattivo tedesco, cit., pp. 191-193

     

  • Le parole calde della giornata della memoria. Strumenti per studiare la storia e non per commemorarla

    di Antonio Brusa

    Sommario: La contestualizzazione dei fenomeni è un’attività specifica dello storico, utilissima, in occasione della giornata della memoria, per evitare la ritualità della commemorazione e rientrare nella buona pratica scolastica. Contestualizzare un fatto di memoria è un compito particolarmente difficile. Se ne presenta un dizionario essenziale, ricavato dal convegno L’invenzione del nemico (1998)

    In occasione del sessantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali si svolse presso la Camera dei Deputati un convegno, organizzato anche dall’Ismli, al quale parteciparono Laurana Lajolo, che allora dirigeva la Commissione Didattica della rete degli istituti storici della Resistenza, Tristano Matta e Enzo Collotti. (L’invenzione del Nemico, palazzo san Macuto, 3 dicembre 1998). I testi del convegno si trovano in “Novecento”, una rivista online, che al momento “tace”, ma che si spera possa riprendere nella sua funzione di raccolta e riproposizione di strumenti per l’insegnamento del secolo scorso. Da quegli articoli ricavo questo dizionarietto, di “parole calde” che riguardano gli antecedenti dello Sterminio e i suoi rapporti col presente. Mi auguro che possa risultare utile per contestualizzare il “fatto Shoah”: un’operazione fondamentale per la comprensione storica di questa tragedia. Lo studio del fenomeno – lo ribadiscono le recenti indicazioni programmatiche per la scuola di base – e non la sua commemorazione è l’obiettivo specifico del lavoro scolastico. Anche nella giornata della memoria.

    Chi, incuriosito da questo dizionario, vorrà leggere gli originali, può andare nel sito dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, dove troverà gli articoli di Matta, Collotti e Lajolo, qui siglati rispettivamente con TM , EC e LL

     

     

    Abuso di memoria

    È necessario riflettere sui rischi che oggi corriamo di una rielaborazione, e vera e propria manipolazione, della memoria diffusa della storia di questo secolo, rischi derivanti dall’uso commerciale che il mercato dei mezzi di comunicazione di massa fa di quella memoria – e che in fondo sarebbe un aspetto più aggiornato, una variante, di quella invenzione della tradizione che Hobsbawn e Ranger hanno tanto efficacemente individuato come uno dei momenti non secondari nel processo di elaborazione dell’immaginario delle identità nazionali e culturali. Rischi che sono sotto gli occhi di qualsiasi osservatore solo avveduto, e che vanno ben al di là dell’episodio in fondo innocente che ho precedentemente richiamato. TM

    Accelerazione totalitaria

    La strumentalizzazione della lotta contro gli ebrei, al di là del generico connotato razzistico, assume grande rilevanza sia nel tentativo di rivitalizzare dall'interno il costume di vita fascista, sia nella sua proiezione verso l'esterno come creazione di un mito collettivo destinato ad assolvere primaria importanza nella preparazione psicologica della guerra. Null'altro che una anticipazione dell'immagine dell'ebreo come longa manus dello straniero e del nemico, che sarà diffusa alla vigilia e nel corso della guerra. In questo senso la questione del razzismo antiebraico si configura come una delle componenti di quel processo di accelerazione totalitaria (l'espressione è di Emilio Gentile) che la politica del regime avvia dopo il 1936. EC

    Antisemitismo, colonialismo, nazionalismo

    La campagna contro gli ebrei e la legislazione contro di essi non furono introdotte dal fascismo per imposizione della Germania. Esse furono iniziativa e prodotto autonomo del regime fascista, in un contesto europeo e internazionale, in cui, soprattutto dopo il 1933, l'esigenza di adeguarsi ai lineamenti politici che si stavano sviluppando in Germania rispondeva a una scelta di campo fondamentale, contro la democrazia e per la modifica ad ogni costo, anche a costo della guerra, dell'ordinamento di pace che aveva fatto seguito alla conclusione del primo conflitto mondiale. E tuttavia la spinta a una politica della razza nel fascismo italiano fu connaturata allo stesso retaggio nazionalista, che esaltava la superiorità della stirpe come fatto biologico e non solo culturale; che esaltava l'espansionismo italiano attraverso la concezione tardo-coloniale delle colonie come colonie di popolamento, ossia sede di trasferimento e di nuovo insediamento dell'eccedenza demografica dell'Italia e simbolo di superiorità della civiltà e della razza italiane. Per questo la guerra d'aggressione contro l'Abissinia nel 1935-36 non fu l'inizio ma l'occasione per mettere a fuoco una politica razzista dell'Italia fascista, che poteva portare a un momento di sintesi e di unificazione di esperienze diverse, che il fascismo come regime stava ormai realizzando in settori particolari, dal razzismo nei confronti delle minoranze nazionali entrate sotto la sovranità dello stato italiano dopo la prima guerra mondiale (con particolare riferimento alle minoranze slave della Venezia Giulia, ma non solo ad esse), al razzismo praticato nei territori coloniali. Qui dopo la conquista dell'Etiopia, peraltro mai interamente conquistata per il sopravvivere di tenaci isole di resistenza e di guerriglia che mineranno profondamente il dominio dell'Italia ancor prima dei rovesci militari che nel 1941-42 dovevano decretare la definitiva sconfitta dell'impero, fu instaurato un vero e proprio regime di separazione razziale, un vero e proprio prototipo di apartheid, come tutti gli studi più recenti consentono di caratterizzarlo. EC

    Antisemitismo e politica identitaria

    L'antisemitismo fascista si colloca così al crocevia tra l'inserimento, con la lotta ai "diversi", in un motivo tipico del pensiero antidemocratico e antiegualitario della destra fascista e filofascista e la ricerca di una identità forte dell' "italiano nuovo"tipica della fase di costruzione dell'impero. La costruzione dell'italiano nuovo comportava l'omogeneizzazione di una mentalità collettiva; la collettivizzazione di un modello fascista applicato agli individui e alla società, e l'irrigidimento di questo comportamento in un modello razzista. L'appello al razzismo coloniale non sembrò sufficiente per realizzare la mobilitazione razzista di cui il regime aveva bisogno per rilanciare la spinta volontarista e rafforzare il consenso intorno a sé. La possibilità di utilizzare direttamente la mobilitazione all'interno della stessa società italiana offerta dal fatto di additare l'ebreo come "il nemico fra noi", fu la ragione ultima della riesumazione e addirittura dell'invenzione di un pericolo ebraico. EC

    Appaesamento

    Nel saggio didattico Educa il luogo che è inserito tra gli apparati di Un percorso della memoria, Cova e Baiesi contemplano anche l’ipotesi dell’abbandono tra le forme possibili del rapporto con i luoghi della memoria, accanto a quelle della monumentalizzazione e della restituzione, ma contrappongono ad esse la loro proposta di appaesamento, cioé di inserimento "costituzionale" in un continuum con i luoghi della vita sociale e civile, sola premessa perché quei luoghi possano quotidianamente essere vissuti come autentico messaggio di pace. In ogni caso si tratta di una scelta politica, di politica della memoria nell’ultimo caso, di politica dell’oblio nel primo. TM

    Didattica laboratoriale

    I laboratori di didattica della storia sono luoghi di discussione e di elaborazione per realizzare una ricerca didattica a partire da un contesto circoscritto e quindi delineabile in tutte le sue configurazioni, sperimentando una pratica che superi l’impostazione tradizionale della lezione e preveda, invece, il coinvolgimento attivo di chi insegna e di chi apprende, nel percorso di studio e nelle forme di comunicazione e di socializzazione.
    Con questa metodologia, gli studenti possono imparare non solo a ricostruire, attraverso i documenti, un fatto storico, ma anche cominciare a pensare storicamente il passato, così da poter interpretare il presente e progettare il futuro. LL

     

    Luogo di memoria


    Il concetto classico di "luogo della memoria" è notoriamente quello definito già negli anni Ottanta in Francia da Pierre Nora ed ormai ripreso dai grandi dizionari. Il Robert lo definisce come "un’unità significativa, di natura materiale o ideale, che la volontà degli uomini o il lavoro del tempo ha trasformato in elemento simbolico di una comunità". Nora colloca l’origine dei luoghi della memoria nella deritualizzazione che caratterizza la nostra epoca: sono dei resti, dei frammenti del passato, che diventano i riti di una civiltà ormai priva appunto di ritualità. In questa accezione due agenti decisivi giocano un ruolo essenziale: la volontà degli uomini di definire uno spazio per installarvi, sacralizzandolo, un frammento del proprio passato, il trascorrere del tempo che da una parte minaccia e mette a rischio la sopravvivenza del ricordo di quel passato e dall’altra seleziona quei frammenti di passato la cui salvezza, attraverso la monumentalizzazione e la sacralizzazione risulta essenziale all’identità di una comunità. Un’accezione più ristretta è stata di recente coniata — lo osserva in un suo recente utilissimo saggio Ersilia Alessandrone Perona — sempre in Francia per definire quei luoghi del ricordo che non sono ancora entrati nella grande memoria collettiva della seconda guerra mondiale. Si tratta dei luoghi nati per mantenere il ricordo delle tante memorie divise in cui nel dopoguerra si è frammentata, sia nello spazio che nei contenuti, la memoria della partecipazione dei francesi alla guerra, per effetto della stessa complessità di questa partecipazione. Sono dunque luoghi "del ricordo" che possono anche divenire, in seguito, "della memoria" nel senso definito da P. Nora — e questo potrebbe essere il caso, secondo gli autori della definizione, proprio dei memorial della deportazione —, ma non è detto che questo avvenga necessariamente. Perché ciò avvenga, aggiungerei io, devono ancora operare i due agenti individuati dalla definizione del Robert, il tempo e soprattutto la volontà degli uomini. TM

    Monumenti italiani

    Per restare nel campo dei luoghi italiani della deportazione e della discriminazione, ad esempio, a Carpi, comune di cui Fossoli è frazione, opera una Fondazione culturale ed un Museo Monumento al deportato particolarmente attivo sul fronte dell’aggiornamento degli insegnanti e nell’organizzazione di viaggi di studio.

     




    A Trieste è stata realizzata, negli anni Settanta, la monumentalizzazione diretta del sito della Risiera, al cui interno tuttavia è stato inserito un Museo storico che è luogo attivo di diffusione culturale tra i visitatori e soprattutto per le scuole, attraverso uno sperimentato servizio didattico gestito dal Comune.
    A Ferramonti (Cs) opera, tra le mille difficoltà derivanti dalla ancora irrisolta sistemazione dei resti del sito, una vivace ed ormai autorevole "Fondazione internazionale "Ferramonti di Tarsia" per l’Amicizia tra i Popoli.
    Il modello è comunque in espansione: l’ultima realizzazione in ordine di tempo è la "Casa della Resistenza" sorta nell’area monumentale di Fondotoce di Verbania. TM



    Politica della monumentalizzazione

    Il destino dei luoghi della memoria dipende comunque da una scelta politica, di politica culturale. Desidero chiarire meglio questo punto. Nel sottolineare l’importanza di una politica della memoria, da contrapporre alla scelta dell’oblio, sia chiaro sono ben lontano dall’auspicare l’imposizione dall’alto, ad opera del potere politico, di una memoria storica unificante, di cui credo una società democraticamente matura non abbia bisogno per definire la propria identità. Intendo rifarmi piuttosto al concetto di ricostruzione di una memoria, così come è stato elaborato da Maurice Halbwachs, che guardava al modo in cui certe tracce del passato possono essere riattivate nel presente, nella società, attraverso la loro strutturazione in un sistema rappresentativo legittimo e coerente per essere correttamente ri-proposte alla rielaborazione da parte delle nuove generazioni. In questo senso, una prassi coerente ed attiva di tutela dei luoghi fisici delle memorie italiane della discriminazione e dello sterminio, mi sembra dovrebbe essere considerata un prerequisito, un dato scontato, ma purtroppo così non è. L’ancoraggio al luogo fisico autentico, in qualsiasi delle sue forme sia oggi a noi pervenuto — della monumentalizzazione, della restituzione o dell’abbandono — è comunque a mio giudizio un fondamentale, direi quasi necessario, complemento alla testimonianza dei superstiti nella trasmissione della memoria della persecuzione e della deportazione. Lo ha capito molto bene Claude Lanzmann, il quale nel suo capolavoro Shoah, il più importante film-documento sullo sterminio degli ebrei d’Europa (documento in sé, non documentario, perché di documenti storici in esso non ne compaiono), ha scelto di collocare la maggior parte delle interviste ai superstiti nei luoghi, spogli ed essenziali, così come essi ci appaiono. Consapevole del fatto che ancora oggi, nonostante l’erosione materiale e temporale, essi — i luoghi — parlano al visitatore che vuole intendere. Di qui la funzione specifica ed il potenziale straordinario di quelle diverse forme di conservazione attiva e trasmissione della memoria, che hanno potuto sorgere proprio sui luoghi fisici, sui siti stessi in cui gli eventi che esse ricordano si sono svolti. TM

    Revisionismo storico

    Il revisionismo storico tende a minimizzare i provvedimenti e le procedure, a non individuare responsabilità storiche precise, indicando piuttosto nel clima di un’epoca totalitaria la ragione di tanto orrore. Questo orientamento interpretativo ha influenzato il pensare comune anche di molti docenti e studenti. Il rinvio alla documentazione esistente e a quella che ancora si può far emergere con ricerche intelligenti comporta, invece, la "revisione" del revisionismo e del negazionismo, che vuole dimostrare addirittura che i lager non erano luoghi di sterminio.
    L’analisi dei documenti produce una conoscenza della realtà e dello sviluppo delle leggi razziali, che non possono essere storicamente sottovalutati o minimizzati, esistono le leggi e le circolari applicative, i censimenti nominativi degli ebrei in ogni città, i campi di internamento degli ebrei stranieri, i nomi delle persone "allontanate", gli elenchi dei deportati e dei morti nei Lager. Si possono leggere o ascoltare testimonianze, memorie, narrazioni di fatti incontrovertibili. Si può vedere con i nostri occhi ciò che resta, come monumento permanente della memoria, di lager italiani e stranieri. Il profondo impatto emotivo si accompagna alla conoscenza storica e ci fa diventare, a nostra volta, testimoni: i campi di sterminio sono esistiti e hanno funzionato per disumanizzare uomini e donne, sfruttandoli con il lavoro coatto, e per produrre morte con diligenza burocratica e con ferocia ideologica. LL

    Valori

    Non intendiamo, con la nostra impostazione critica sulla storia del Novecento, diventare "trasmettitori" di valori, creduti ormai superati, ma vogliamo, attraverso il nesso fecondo memoria-storia, "riscrivere i valori" insieme alle nuove generazioni, non dimenticare né dal punto di vista storico né da quello emotivo che i razzismi sono un problema aperto e che la strada per il rispetto delle minoranze etniche, culturali e religiose e la convivenza civile va percorsa ogni giorno con tenacia e consapevolezza. Intendiamo anche offrire occasioni di riflessione sulle responsabilità istituzionali, collettive e individuali per smontare gli alibi di chi "non sapeva quello che stava succedendo" e per rispondere alle domande originarie e tremendamente attuali: "come è potuto succedere?" e "potrà accadere ancora?", considerando che le violazioni dei diritti umani continuano a verificarsi anche nella storia recente (basti pensare, a titolo d’esempio, ai desaparecidos di Pinochet, all’apartheid, alla pulizia etnica nella ex-Jugoslavia, ma non solo) e potranno trovare nuove forme di legittimazione o di acquiescenza. LL

  • Libertà per la storia. Un appello contro il reato di negazionismo

    Evitiamo che il parlamento italiano prenda una decisione avventata, contro la quale si stanno mobilitando storici e docenti.

    La strada della verità storica di Stato, che è propria dei regimi totalitari, non serve a far crescere coscienza e consapevolezza dei crimini del passato, ma rischia di trasformare in paladini della libertà d’espressione coloro che osano pronunciare giudizi contrari non solo alla verità storica ampiamente acclarata ma allo stesso buon senso.

    Fare una legge crea la perversa convinzione che il problema sia risolto, e quindi possa essere accantonato e rimosso. Mentre occorrerebbe una incisiva campagna educativa, nelle scuole e nei mezzi di comunicazioni di massa, chiamando a partecipare l’intera società. Il razzismo si sconfigge con l’educazione, la cultura e la ricerca; le manifestazioni di odio e apologia di razzismo con le leggi che già esistono. È la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica che può creare gli unici anticorpi capaci di estirpare o almeno isolare le posizioni negazioniste.

     

    Firma la petizione su avaaz.org

     

     

     

Questo sito utilizza cookies tecnici e di terze parti per funzionalità quali la condivisione sui social network e/o la visualizzazione di media. Chiudendo questo banner, cliccando in un'area sottostante o accedendo ad un'altra pagina del sito, acconsenti all’uso dei cookie. Se non acconsenti all'utilizzo dei cookie di terze parti, alcune di queste funzionalità potrebbero essere non disponibili.