educazione alla cittadinanza

  • “A. Gramsci - N. Pende”. Una strana coppia, nell’anniversario delle Leggi razziali

    di Antonio Brusa

    Targa

    Se vi capita di passare da Noicattaro, piccolo centro in provincia di Bari, celebre per le sue uve, potrete ammirare la targa dell’Istituto Comprensivo “A. Gramsci - N. Pende”. Noicattaro è la città natale di Nicola Pende; a pochi chilometri di distanza c’è Turi, con il carcere dove, fra il 1927 e il 1934, venne rinchiuso Antonio Gramsci. Il primo fu uno scienziato che Mussolini celebrò; il secondo un comunista che lo stesso mise in galera.

    Non è il sorprendente omaggio alla nuova moda rossobruna, illustrata da intellettuali ben abbronzati, per la quale Gramsci, essendo un filosofo amato dalla destra, starebbe bene insieme a Pende, scienziato coccolato dal fascismo. Ad accomunare questi due personaggi, antitetici nella storia italiana come nella cultura mondiale, è una burocrazia ottusa, incapace di considerare il senso e il valore delle persone. Quelle morte, alle quali sono intitolati i due plessi scolastici, ora accorpati in un comprensivo; quelle vive, e in particolare gli allievi, alle quali un giorno occorrerà spiegare per bene chi era l’uno e chi era l’altro.

    Nicola Pende, medico ed endocrinologo, fu, infatti, autore di libri fondamentali per la costruzione di un’ideologia razzista italiana. Sostenne l’unicità della razza italiana e la necessità di evitare che si mescolasse con altre razze. Una precauzione necessaria, soprattutto dopo la conquista dell’Etiopia. Ecco cosa scriveva: [occorre evitare] “che i suoi coloni e soldati, incoscientemente, creino in Africa un mondo di meticci, che la razza più equilibrata e più bella che sia germogliata sotto il sole si fonda con razze seminegre o negre, primitive e fondamentalmente lontane per caratteri biopsicologici quali sono le razze etiopiche». (la Repubblica 14-09-2006)

    Antonio Gramsci è la dimostrazione che, anche in un periodo nel quale il razzismo era un’ideologia corrente, si poteva essere decisamente antirazzisti. E Gramsci lo fu per vari motivi, come ci spiega Enrico Mordenti: sia perché sentiva sulla sua pelle di sardo la violenza dell’ideologia razzista, sia perché conosceva bene il razzismo antimeridionalista che covava da decenni nell’Italia centro-settentrionale, sia per la sua ostinata avversione a quegli studiosi positivisti che, fra Ottocento e primo Novecento, costruirono le basi scientifiche del razzismo. In un suo scambio di lettere con la cognata Tania Schucht, che aveva manifestato seri propositi antisemiti, dichiarò:

    «Io stesso non ho nessuna razza: mio padre è di origine albanese recente (la famiglia scappò dall'Epiro dopo o durante le guerre del 1821 e si italianizzò rapidamente); mia nonna era una Gonzalez e discendeva da qualche famiglia italo-spagnola dell'Italia meridionale (come ne rimasero molte dopo la cessazione del dominio spagnolo); mia madre è sarda per il padre e per la madre e la Sardegna fu unita al Piemonte solo nel 1847 dopo essere stata un feudo personale e un patrimonio dei principi piemontesi, che la ebbero in cambio della Sicilia che era troppo lontana e meno difendibile».

    Un nome imbarazzante

    Anni fa, nel 2006, venni contattato da alcune professoresse della scuola “N. Pende” (allora indipendente). Mi raccontarono la loro difficoltà nel giustificare, presso i bambini, il nome della loro scuola. Mi dissero che i tentativi di cambiarlo erano falliti tutti. Nicola Pende è una gloria locale, a Noicattaro. È il concittadino degno del Nobel, ingiustamente accusato di antisemitismo; un luminare che, nel dopoguerra, non evitò di curare gratuitamente i poveri.

    Targa2

    Proposi di organizzare un convegno, nel quale avremmo fatto venire i più grandi specialisti della questione, per spiegare alla cittadinanza chi era Nicola Pende, il suo ruolo centrale nella elaborazione italiana del razzismo e nella sua propaganda, ma anche il suo reale valore come scienziato. Avremmo certamente dato alla cittadinanza materia per riflettere, e magari accettare il cambiamento di quel nome. La proposta piacque alla preside. Ne parlò col sindaco, che si dichiarò pronto a finanziare l’iniziativa. La call fu elettrizzante. Una decina di studiosi, da tutto il mondo, accolsero l’invito, entusiasti di raccontare come stavano le cose direttamente ai concittadini di Pende. Quando conoscemmo il testo della delibera comunale, che finanziava il nostro convegno, dichiarando che avrebbe avuto lo scopo di “rilanciare la figura del nostro illustre concittadino”, tutti si tirarono indietro. Il convegno non si fece e la cosa, per me, finì lì.

    Non fu lo stesso per il sindaco di Noicattaro, nel corso della polemica contro Pende, suscitata da I dieci, il libro di Franco Cuomo, uscito l’anno precedente, per i tipi di Baldini Castoldi Dalai, nel quale si denunciavano gli scienziati che avevano aderito al Manifesto della Razza, fra i quali appunto il nostro. La città di Bari, in quella occasione, aveva deciso di cancellare il nome di Pende dallo stradario cittadino: ad essa il sindaco di Noicattaro rispondeva annunciando un convegno internazionale che avrebbe rimesso a posto le cose. Purtroppo, era proprio quello che avevamo annullato, a seguito della sua delibera. (La Gazzetta del Mezzogiorno 01-02-2006)

    Convegni se ne svolsero, successivamente, sia pure più limitati. Uno di questi, nel 2012, fu organizzato dalla stessa scuola. Le foto su internet ne mostrano l’auditorio pieno. Sono corredate da un resoconto dove leggiamo che Pende fu un modello di etica medica; certo, fu fascista come tutti, ma ne pagò le conseguenze, perdendo, proprio per questo motivo, il premio Nobel.

    Perché parlare ancora di questi fatti

    Sono tornato su queste vicende preparando la Summer School sulla Tolleranza (Trani 3-5 settembre), nell’anniversario della promulgazione delle Leggi Razziali del 1938. La sera del 4 settembre, infatti, terremo un “Processo a Nicola Pende”. Verranno studiosi, giuristi, politici e giornalisti. Pro e contro, come d’obbligo in un processo. Ma non si tratterà né di una celebrazione, né di un tentativo di condannare o assolvere nessuno. Il “processo” si svolge all’interno della scuola di didattica della storia. Dunque: scienza e didattica. La mise en scène serve a coinvolgere il pubblico, sollecitare il dibattito, ma non deve trarre in inganno. Gli storici non emettono sentenze. Descrivono fatti, aprono problemi. E, per la verità, sotto la lente di questi giudici particolari, non ci sarà il solo razzismo di Nicola Pende, oggetto ben conosciuto in ambito storico, e che non ha affatto bisogno della nostra Scuola, per essere indagato.

    Tolleranza

    Sotto inchiesta sarà il nostro rapporto con quei fatti di ottant’anni fa. Dobbiamo dimenticare, perdonare, limitarci a comprendere, dichiarare la nostra distanza, soprassedere, far finta di niente, continuare nelle complicità o cercare vendette postume? Non sono semplici curiosità storiche. La limpidità del nostro presente dipende, anche, dall’onestà con la quale riusciamo a proporci queste domande e a formulare delle nostre risposte. E queste, dipendono – a loro volta – dalla conoscenza precisa di quegli eventi.

    La confusione, e il conseguente non capirci più nulla, che denunciamo quotidianamente quando ci guardiamo attorno, hanno, perciò, qualcosa a che vedere con il rapporto superficiale e approssimativo che il nostro paese intrattiene col proprio passato. E, da questo punto di vista, la “strana coppia”, incisa su quella targa, oltre a denunciare una burocrazia plumbea, è la testimone perfetta di un paese dalla memoria sciatta.

    Informazioni sulla Summer School, organizzata dall’Istituto Nazionale per lo studio dell’età contemporanea e della Resistenza, “F.Parri”, e dal comune di Trani.

    Su Antonio Gramsci, “Novecento.org” ha pubblicato un dossier storico-filosofico-didattico, curato da Lea Durante e Claudia Villani.

  • Abbecedari della cittadinanza per pensare e costruire comunità

    photo 2023 04 16 14 01 32 Circa 2000 studenti, 30 scuole, 150 classi delle Scuole di Bari e dintorni (dall’Infanzia ai Licei), in dialogo con i 20 docenti del gruppo interdisciplinare Uniba AbCD (Abbecedario della cittadinanza democratica), con numerosi altri colleghi, esperti, studenti universitari, dottorandi e dottori di ricerca coinvolti nel progetto, con i partner delle Associazioni e gli stakeholders territoriali e politici messi in rete.

    Il progetto Abbecedario della cittadinanza democratica è tra i vincitori del bando competitivo Horizon Europe Seeds Uniba ed è finanziato dal Fondo per la promozione e lo sviluppo delle politiche del Programma Nazionale per la Ricerca (PNR) assegnato all’Ateneo, per “Iniziative di ricerca interdisciplinare che esplorino temi di rilievo trasversale per il PNR”. L’iniziativa del 20-21 aprile si inserisce, inoltre, tra quelle promosse dall’Orientamento consapevole Uniba.

    Historia ludens partecipa a questa straordinaria kermesse con laboratori e giochi. Non perdete l’occasione di iscrivervi.

     

     

     

    Di seguito il calendario degli incontri:

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    Il programma completo in PDF puoi scaricarlo qui.

     

  • Guerre vecchie e guerre nuove. I concetti per capire le nuove guerre

    Autore: Antonio Brusa

     

    Appunti da Yves Michaud

     

    Indice

    Introduzione
    Le domande sulle nuove guerre
    I concetti tradizionali della guerra
    Un prontuario di nuovi concetti
    Uno scenario nuovo
    Uno scenario in movimento

    Introduzione
    Nell’ottica di un Laboratorio del tempo presente, avere un prontuario di concetti sulla guerra è essenziale. Lo ricavo da Yves Michaud, che  insegna filosofia presso l’Università di Rouen.  Negli anni ’80 pubblicò un libretto sulla violenza per la collana “Que sais-je?”, quell’eccezionale canale di cultura di massa che in Italia non si è mai riusciti a riprodurre, nonostante i molti tentativi di imitazione. L’ultima edizione è aggiornata al 2012. In questo testo seguo abbastanza fedelmente il brano di Michaud. Poche volte lo riassumo o lo integro. L’ho suddiviso e titolato in modo che sia un testo consultabile a scuola. Come sempre, invito il lettore volenteroso, o che volesse citarlo a leggere la fonte: Yves Michaud, La violence, Puf, Paris 2012, pp. 55-67. Dello stesso autore segnalo: Changement dans la violence. Essai sur la bienveillance universelle et la peur, Odile Jacob, Paris 2002. Inoltre, sulle vecchie e nuove guerre si veda la rapida messa a punto di Nicola Labanca, sullaTreccani online(Atlante-Geopolitico).  (HL)

      Carta mondiale dei conflitti

    Le domande sulle  nuove guerre

    Conflitti interni o esterni?
    In molte occasioni è difficile distinguerli. In Africa, per esempio, quando si scontrano etnie di confine, si mettono in moto subito attori internazionali e i paesi confinanti, col risultato immediato dell’internazionalizzazione del conflitto. Una mondializzazione che spesso è moltiplicata dallo stesso intervento internazionale per ristabilire la pace

    Quali sono i nuovi campi di battaglia?
    Questi spesso non sono più delimitati e identificabili. Si possono trovare nel cuore delle popolazioni civili, lontano dai luoghi dove risiedono i contendenti, nelle zone turistiche o in mezzo alle città. I contendenti, spesso, non sono degli stati, ma aspirano a divenirlo: palestinesi, minoranze dell’ex-Unione sovietica, movimenti autonomisti o indipendentisti, musulmani di Bosnia, macedoni, albanesi del Kosovo, curdi della Turchia o dell’Iran, tamil di Ceylon ecc. Altri, invece, non aspirano nemmeno a diventare stati: fra questi i movimenti terroristi, come al-Qaida o i movimenti altermondialisti.

    In quali regioni scoppiano questi conflitti?
    Sia che esplodano, sia che covino sotto la cenere, spesso questi conflitti nascono dalla decomposizione di antiche unità politiche, come l’Urss o la Jugoslavia. Altri nascono in zone conflittuali “congelate” dall’equilibrio della guerra fredda e suscettibili di nuove riorganizzazioni: gli Emirati arabi e il Quwait, il corno d’Africa, le coste del Mediterraneo, la Cina e Taiwan, la maggior parte dei confini territoriali della Cina.  Altri ancora risalgono ad antichi conflitti di civilizzazione.

    Perché si mondializzano?
    Tutti questi conflitti sono abbondantemente mediatizzati. Mettono in gioco le organizzazioni internazionali e le Ong che si occupano di assistenza umanitaria. I flussi migratori, infine, contribuiscono a internazionalizzare i conflitti, trasferendoli dalle regioni di partenza dei migranti a quelle di arrivo: un esempio è la ripresa dell’antisemitismo in Francia, dovuta in buona parte all’esportazione del conflitto israelo-palestinese.


    I concetti tradizionali della guerra

    Il sistema della guerra
    Nel corso dei millenni, le società umane hanno elaborato un complesso sistema per regolare la violenza fra gruppi, o per cercare di regolarla. Le basi di questo sistema sono:

    -    La dichiarazione di guerra o la guerra-sorpresa
    -    La pace solenne
    -    La distruzione totale dell’avversario
    -    Le leggi del combattimento
    -    I modi di soccorso dei feriti e il recupero dei caduti

    La razionalità della guerra
    Nel XIX secolo, questo sistema giunge ad una regolamentazione rigorosa, che viene sistematizzata daKarl von Clausewitz. Questa si riassume nella celebre affermazione: “la guerra è la continuazione della diplomazia con altri mezzi”. Questa affermazione suppone che i soggetti che fanno la guerra siano “razionali”. Come la diplomazia cerca di ottenere dei vantaggi o di minimizzare degli svantaggi, allo stesso modo la guerra cerca di ottenere vantaggi (un guadagno territoriale, economico, commerciale) o di limitare le perdite.

    E’ il sistema di regole o “il modo di considerare la guerra” al quale siamo abituati. Questo sistema presuppone che gli attori siano degli stati sovrani, con eserciti a comando centralizzato, in forte relazione col mondo politico e a forte inerzia: quando la macchina bellica si mette in moto, è difficile arrestarla. In questo mondo di regole si sono svolti i conflitti europei, e le guerre per la divisione del mondo fra stati europei e imperi americano e sovietico.

    Lo stato sovrano
    “Stato sovrano” vuol dire che ogni stato giudica la legittimità della violenza al proprio interno. Ma quando si tratta di uno scontro fra stati, non esiste un’autorità superiore, che possa imporre regole e il loro rispetto. Ci si deve accontentare del diritto internazionale: una “stabilizzazione relativa e sempre temporanea di regole fra stati”, fermo restando che ogni stato resta giudice della legittimità del proprio intervento. Lo stesso diritto, perciò, può diventare occasione di guerra, quando, ad esempio, si dichiara di far rispettare una frontiera violata, o un trattato precedentemente violato.

    Internazionalizzazione della guerra
    Il dispositivo giuridico, poi, deve fare i conti con l’enorme capacità di uccisione, raggiunta dalla macchina bellica negli ultimi due secoli. Questa ha condotto gli stati e le società a ragionare sulle alleanze, sulla cooperazione internazionale, a fare attenzione all’equilibrio fra le forze e ha portato, ancora, allo sviluppo di una coscienza umanitaria internazionale e al bisogno di pace, indispensabile per l’economia e per l’industria.
    Ai nostri giorni, i vecchi concetti di von Clausewitz non bastano più per capire il dispiegamento della violenza internazionale contemporanea. Occorrono nuovi concetti.

     

    Un prontuario di nuovi concetti

    Genocidio
    Lo potremmo intendere come una forma di guerra diretta contro uno o più gruppi umani, piuttosto che contro qualche stato, con l’intenzione di sterminarli. Conosciamo molti esempi di genocidio: da quello degli harare in sud africa, perpetrato dai tedeschi al principio del novecento, a quello degli armeni, condotto dai turchi (ben coadiuvati dai curdi) durante la prima guerra mondiale; nella seconda guerra conosciamo quello contro gli ebrei e i rom e, nel secondo dopoguerra sono ancora nella nostra memoria il genocidio del Rwanda, contro i tutzi, quello compiuto dai khmer rossi in Cambogia e quelli balcanici. A questi esempi potremmo aggiungerne molti altri.

    Al genocidio in quanto tale va assimilata la “pulizia etnica”, che consiste nell’impiego della violenza e del terrore al fine di eliminare la presenza di alcune minoranze, in un determinato territorio, uccidendole o costringendole alla fuga.

    I genocidi non sono una particolarità del XX secolo (e del nostro). La specificità, invece, consiste nella sistematicità della persecuzione. Il fatto che sia spesso uno stato ad essere l’autore del genocidio forse è legato alla difficoltà di conservare l’unità territoriale o al tentativo di superare una forte crisi. Gli iniziatori di un genocidio utilizzano il loro obiettivo come un capro espiatorio dei problemi nazionali.

    Iperterrorismo
    Fino alla seconda metà del XIX secolo, il terrorismo faceva parte di una politica mirante all’acquisizione del potere o a esercitare una pressione sul potere politico, attraverso assassini di personalità politiche o ad attentati mirati. Il cambiamento fondamentale è avvenuto quando il terrorismo è diventato internazionale e si è trasformato in “guerra durante la pace”. I fattori che hanno favorito questo cambiamento sono: la facilità dei trasporti, la copertura mediatica mondiale, la vulnerabilità degli obiettivi possibili (gruppi di turisti, ambasciate, rappresentanze commerciali, mezzi di trasporto ecc.), le armi potenti, facili da nascondere, spostare o montare, ma anche le armi facili da inventare, come dimostra l’attentato delle Torri gemelle, compiuto con due aerei di linea, trasformati in missili.

    La nozione di iperterrorismo fa riferimento al carattere mondiale dell’azione, sulla sua natura spettacolare, e sugli effetti militari e politici che questa raggiunge. E’ una nuova forma di guerra, a causa di una logistica nuova, della natura degli obiettivi e dei protagonisti. Un piccolo gruppo di terroristi può condurre una “guerra liquida”, imprevedibile, ottenere successi notevoli e obbligare l’avversario a adottare misure di precauzione, dalle conseguenze psicologiche, economiche e politiche numerose e costose.

    L’iperterrorismo rientra nel quadro razionale di von Clausewitz, se guardiamo i suoi effetti: in realtà si tratta di imporre la propria volontà a un soggetto nemico, a costringerlo, per esempio a modificare la sua politica. Lo si è visto con gli attentati di Atocha, in Spagna (2004), che influirono sui risultati elettorali al punto da far vincere gli avversari del governo in carica.

    Se guardiamo la natura dei soggetti, invece, l’iperterrorismo non rientra più nel canone di von Clausewitz, perché in genere non è condotto da stati (con alcune eccezioni degli anni ’90 dello scorso secolo, quando fu diretto da Libia, Siria e Iran). L’iperterrorismo è condotto piuttosto da una sorta di nebulosa, da una sorta di multinazionale (politica o religiosa) in guerra contro gli stati.

    L’efficacia di questa azione è notevole, dal momento che è una guerra condotta durante la pace, in un territorio retto da regole di pace, approfittando dei benefici dello stato di diritto.

    Guerra asimmetrica
    La guerra è asimmetrica quando è condotta da due protagonisti che rispettano regole diverse, usano armi diverse e hanno campi diversi di battaglia. Un esempio è la guerra che al-Qaida conduce contro gli Usa, a partire dall’attentato delle Torri Gemelle: il campo di battaglia è mobile e vario e la componente della comunicazione è essenziale. Anche la risposta americana rientra nel campo delle guerre asimmetriche: si svolge con un controllo della rete di comunicazione, uso di forze speciali e di materiali innovativi.

    Ci sono molti motivi per ritenere che una delle cause della guerra asimmetrica si trova nella superiorità assoluta raggiunta dagli Stati, sia nel campo della guerra convenzionale che in quello nucleare. Questa superiorità, spinge gli avversari a cercare altri terreni e altre forme di scontro. Si tratta di abbandonare quei terreni, nei quali la superiorità avversaria è insuperabile, e crearne altri, nei quali il nemico si trovi in difficoltà.

    Guerra preventiva
    Dopo gli attentati dell’11 settembre, diventa una forma di guerra sempre più invocata. Con un termine inglese è detta anche preemption war. Gli stati la invocano per difendersi da altri stati, definiti “canaglia” (in inglese rogue nations). Il pericolo rappresentato dalle armi nucleari della Corea del Nord o dell’Iran, o dalle armi biologiche, che si ipotizzava possedesse Saddam Hussein, dittatore irakeno, il sostegno che la Siria ha fornito all’iperterrorismo, hanno giustificato – agli occhi degli stati occidentali – il ricorso ad azioni preventive. Lo scopo dichiarato era quello di impedire che la capacità distruttrice di questi gruppi raggiungesse una soglia irreversibile, tale da minacciare gli stati più forti e da costringerli ad una logica di mutua dissuasione.

    L’idea della guerra preventiva si basa su questo schema: da una parte ci sono gli stati “imprevedibili”, dotati di armi potenzialmente di distruzione di massa (nucleari, biologiche, chimiche); dall’altra gli stati “razionali”, dotati di capacità di dissuasione. Questo schema impone che la guerra preventiva non possa essere dichiarata da un solo stato, dal momento che apparirebbe come un intervento imperialista, o un terrorismo di stato; essa necessita, dunque, l’intervento di una coalizione.

    Guerra umanitaria
    Oppure, eufemisticamente, “ingerenza umanitaria”. Si ha quando si interviene in un territorio per evitare dei disastri come la carestia, il genocidio, la pulizia etnica, le guerre civili lunghissime, le violazioni sistematiche dei Diritti dell’Umanità.

    La casistica di questa guerra è varia. Ci sono gli interventi per proteggere l’azione di organizzazioni non militari, come in Sierra Leone, Liberia, Rwanda; per separare i contendenti, come in Bosnia o in Costa d’Avorio; per reprimere una delle parti, considerata fomentatrice della guerra, come quando si è intervenuti contro la Serbia nella crisi del Kosovo, contro l’Irak, nella prima guerra del Golfo, contro la famiglia del colonnello Ghaddafi, in Libia.

    Anche in questo caso, è indispensabile che l’intervento sia approvato dalla comunità internazionale, altrimenti verrebbe interpretato come un’ingerenza imperiale o neocolonialista.

    Occorre, è appena il caso di dirlo, riconoscere che, al di là dei buoni sentimenti, la nozione di guerra umanitaria è ambigua. Sa una parte, gli agenti non governativi, come certe Ong, possono lucrare vantaggi dalla situazione di guerra, attirare simpatie o raccogliere finanziamenti. Dall’altra, l’intervento umanitario rischia di estendere e prolungare il conflitto, dal momento che immette sul campo di battaglia risorse che alimentano gli stessi contendenti (attraverso l’imposizione di tasse, o attraverso la loro rivendita). In questo modo, accade che chi vuole placare la crisi contribuisce a renderla cronica.

    Infine, i campi di rifugiati, sotto l’ombrello delle organizzazioni umanitarie, possono destabilizzare l’economia di una regione, introducendo una seconda economia artificiale.

    Guerra giusta
    Era una nozione di età medievale, quando ci si interrogava sulle cause che potevano giustificare un’azione violenta (ma non bisogna dimenticare che questo strumento giuridico era molto usato dai romani). In pratica, si invoca un principio di ordine superiore, in base al quale si giustifica l’intervento militare.
    E’ indubbio che questo appello al giudizio di dio, o a qualche altro valore trascendentale, apre la porta alla variante della guerra giusta, che è costituita dalla “guerra santa”, combattuta contro coloro che hanno una credenza religiosa (o politica) diversa.

    Società civile internazionale
    Alcuni autori, come Michael Ignatieff  o  Mary Kaldor, autrice di un testo fondamentale sulle nuove guerre, sostengono la tesi della nascita di una comunità di cittadini del mondo, che si sforzerebbero di pesare sulla gestione delle relazioni internazionali, sia quando ci sono dei conflitti, sia quando si tratta di sostenere cause umanitarie, sanitarie o ambientali. Ricavano questa idea dal fatto che esiste una comunità internazionale, che si sta sviluppando un diritto penale internazionale, che si moltiplicano le istituzioni internazionali che si battono per la cooperazione e per la pace, che ci sono organizzazioni non governative che vanno in soccorso di popolazioni in difficoltà.

    Fanno parte dei “cittadini del mondo”, coloro che si occupano professionalmente dei problemi umanitari, gli uomini dalla “grande coscienza”, le associazioni che rappresentano – dal canto loro – soggetti collettivi (Greenpeace, WWF, Attac, i gruppi altermondialisti ecc.). Questi soggetti agiscono per influire sulle decisioni degli organismi internazionali e sull’azione politica dei diversi stati.

    E’ importante notare che – contrariamente a quanto si pensa in Italia e in Francia – nozione di “società civile” non si oppone a quella di “mondo politico”. Nella sua idea originaria, nata dal pensiero di Locke e di Kant, la società civile implica, per contropartita (almeno come orizzonte finale) la costituzione di uno Stato mondiale cosmopolita. Quindi, al posto di opporsi al mondo politico, la società civile lo prefigura.

     

    Uno scenario nuovo

    Nessuna di queste nozioni è totalmente nuova. La novità consiste nel fatto che esse sono necessarie, tutte insieme, per comprendere lo scenario attuale. Uno scenario totalmente nuovo.

    Le guerriglie, un tempo nazionali o confinate in determinati territori, sono diventate internazionali. Si può dire che esiste un terrorismo globalizzato, che trova le sue radici nella diffusione degli armamenti nucleari, e nel quale gli stessi genocidi si sono banalizzati.

    Il mondo non è più governato da una o due superpotenze. E’ multipolare. Localmente ci sono superpotenze in grado di esercitare una forte influenza sulla porzione di mondo circostante (India, Cina, Nigeria, Sud Africa, Australia ecc).

    Aumentano gli stati che non sono in grado di gestire con efficacia i conflitti interni (come la Russia), gli stati nei quali si diffondono movimenti autonomistici o indipendentisti (Italia, Spagna).

    Si diffonde l’aspirazione alla “sovranità nazionale”, ma, al tempo stesso, questa si svuota progressivamente, a causa di trattati internazionali, o a causa dell’impossibilità di una sola nazione di gestire un conflitto, dal momento che questo si internazionalizza rapidamente.

     

    Uno scenario in movimento

    Certamente, la proliferazione delle organizzazioni internazionali, per quanto esse non riescano ad essere sempre efficaci come si vorrebbe, testimonia quanto sia diffusa la volontà di non ripetere l’incubo della seconda guerra mondiale.

    Questo desiderio nasce in uno scenario che vede lo sviluppo di due tendenze opposte: da una parte, la frammentazione del mondo, che sempre di più sembra costituito da stati sovrani, in una situazione potenziale di guerra; dall’altra l’incremento della solidarietà internazionale e dell’interdipendenza.

    A questa seconda tendenza fanno riferimento due nuovi processi. Il primo è la diffusione dell’idea dei “diritti umani”, accettati da moltissimi (anche se l’accettazione è spesso solo di facciata); dall’altra, la lenta costituzione di un diritto internazionale, di un sistema di pene che valga per tutti, esercitato da comunità internazionali. Indubbiamente non si tratta della comunità cosmopolita vagheggiata da Kant. E’ un codice di leggi in progress, fatto di aggiustamenti, di decisioni parziali, spesso stipulate fra singoli soggetti. Tuttavia progredisce, e lascia sperare che si stia costruendo un nuovo ordine internazionale.

  • Il paesaggio storico come laboratorio per l’apprendimento della Storia, della Geografia e dell’Educazione civile

    Autore: Marika De Filippis

     

    Marika De Filippis, archeologa e abilitata presso il Tfa di Bari, ha partecipato al seminario sul paesaggio storico, organizzato da Proteo in ricordo di Luciana Bresil, indimenticabile docente della scuola media “Michelangelo” di Bari, e colonna della didattica della storia presso il Cidi. In attesa di pubblicare i contributi per esteso, HL le ha chiesto di farcene una rapida sintesi (HL).

    Le questioni di fondo

    Saverio Russo, che insegna storia moderna presso l’Università di Foggia, ci aiuta a chiarire gli elementi essenziali dello studio del Paesaggio storico a partire dalle due opere che lo hanno introdotto in Italia. I contributi di Emilio Sereni con la sua Storia del paesaggio agrario italiano (edito da Laterza) e di Marc Bloch con I caratteri originali della storia rurale francese (pubblicato da Einaudi) sono il fondamento di un modo di fare storia, che cerca le sue fonti non solo nei documenti scritti, ma in tutte le tracce tangibili, anche se non sempre evidenti, che l’uomo lascia dietro di sé. In particolare, un numero notevole di queste tracce sembra conservato dal paesaggio, «coscientemente e sistematicamente» modificato dall’uomo nel tempo. Il paesaggio è, dunque, il punto di raccordo tra lo studio dello storico e quello del geografo. Per tali ragioni sembra sempre più necessario promuovere forme di tutela nei confronti di un paesaggio che è progressivamente percepito come Patrimonio non solo naturale, ma anche storico. Su tale linea si pone l’iniziativa di alcune regioni italiane - tra cui la Regione Puglia - di dotarsi di un Piano Paesaggistico e Territoriale (per la verità di attuazione difficoltosa e macchinosa). Saverio Russo, quindi, sostiene che la più efficace forma di tutela del paesaggio, non possa essere soltanto normativa, legislativa e in qualche modo coercitiva, ma debba essere soprattutto culturale. Dalla ricerca storica, perciò, si entra nella dimensione scolastica, individuata come luogo privilegiato in cui favorire la conoscenza del paesaggio, e quindi  sensibilizzare per lo meno i futuri cittadini sulla necessità di tutelare questo straordinario bene.

     

    Quattro esempi laboratoriali

    Come attivare questo interesse? Con lezioni, visite guidate, spiegazioni, video? La didattica promuove la strada laboratoriale: attraverso il coinvolgimento degli allievi, dunque. Ecco quattro esempi.

    Il primo è di Elena Musci, dottoranda dell’Università di Foggia e autrice del volume Scoprire e Giocare a Castel del Monte (edito da Adda). Si tratta del gioco escursione, visto come proposta alternativa alla visita guidata, al fine di sostituire l’ascolto passivo o poco interattivo, con pratiche attive in cui i ragazzi scoprono autonomamente, pur se guidati dal gioco, i luoghi che stanno visitando. Tale tecnica consente ai ragazzi di trasformarsi in reali costruttori di una conoscenza significativa e duratura. In particolare le proposte elaborate per Castel del Monte, sono modulate su tre diverse fasce d’età. Elena Musci si concentra sul mistery game Giallo Murgiano, basato sugli atti di un processo per un omicidio avvenuto nel 1783 nei dintorni del Castello e che coinvolse pastori abruzzesi e contadini locali. I ragazzi attraverso le indagini, che richiedono l’uso di documenti scritti, fotografie, carte storiche ma anche dell’Igm, sono condotti in un’attenta osservazione degli elementi storico-architettonici dell’edificio e delle caratteristiche del paesaggio che circonda il castello. Il gioco mette quindi in campo non soltanto traguardi di competenza e strumenti pertinenti all’ambito storico, ma anche a quello geografico, insieme a capacità di osservazione, di problem solving, di cooperazione, di orientamento e di logica, straordinariamente interessanti e in linea con le Nuove Indicazioni.

    Il medesimo approccio che coniuga rigore storico ed esigenze didattiche, anima il lavoro di Fabio Armenise e del suo gruppo, la Compagnia d’arme Stratos, un’associazione di Ricerca, Ricostruzione e Rievocazione storica, attiva nel territorio pugliese da diversi anni. L’intervento si è soffermato in particolar modo sulle pratiche della rievocazione e della ricostruzione storica, come strategie di sempre maggiore successo per la promozione dei Beni Culturali, ma anche come forme di didattica immersiva, in cui i ragazzi sono condotti a toccare con mano gli oggetti, a vederli in azione e a comprenderne la reale funzione. La proposta didattica del dott. Armenise è finalizzata ad una comprensione del fatto storico, che passa di certo attraverso i documenti testuali, iconografici e materiali, ma che sfrutta anche la possibilità dell’esperienza diretta e attiva (per approfondire: Gilda Depalo, Fabio Armenise, La pratica della rievocazione storica in Italia, in Mundus n.5-6, Palumbo editore, Palermo 2010, pp 206-211).

    La terza proposta di lavoro si muove ancora lungo la pista dell’esperienza diretta. Riguarda il gioco di esplorazione, elaborato nell’ambito dell’Associazione Historia Ludens, presentato da due studiosi di preistoria, Valentina Ventura e  Mario Iannone. Qui il gioco consente di saltare il divario temporale e di immergersi in un quadro storico, culturale ed economico enormemente diverso da quello a cui i ragazzi sono abituati. Il gioco Dentro la Lama, a scuola di preistoria, infatti, pensato per una lama del Sud-Est barese, ma facilmente esportabile, richiede ai ragazzi di studiare attentamente il territorio, al fine di poter operare le giuste decisioni per insediarsi. Divisi in tribù, in gara vicendevole, imparano a conoscere e a riconoscere i segni di vita dell’uomo lasciati in un paesaggio apparentemente naturale, ma che racchiude una forte valenza storica.

    L’ultima proposta è di Sergio Chiaffarata, speleologo che - nell’ambito del corso di Didattica della Storia dell’Università di Bari - collabora alla progettazione di quella che – per scherzo ma non troppo – abbiamo chiamato la Didattica della talpa.Si tratta di coniugare l’enorme patrimonio di ipogei, di cui la città di Bari è dotata, ai momenti fondamentali del curricolo, dalla Preistoria all’Età contemporanea.

    La proposta è bivalente e si rivolge sia alla didattica attraverso i luoghi che sono stati protagonisti della storia, sia alla conoscenza del territorio e del paesaggio urbano e suburbano, al fine di stimolare la nascita di una consapevolezza civile ed ecologica di tutela.

     

    Paesaggio storico e competenze di cittadinanza

    Laboratori, manipolazione di oggetti, esplorazione di ambienti. La didattica del paesaggio è qualcosa che riguarda la storia locale, l’uscita sul territorio e, perciò, qualcosa di tutto sommato marginale, nell’economia di un curricolo che ha comunque altre esigenze conoscitive e formative? La risposta è decisamente negativa, secondo Antonio Brusa, che argomenta il suo ragionamento attraverso tre diverse storie: quella del Lago Averno nei Campi Flegrei, quella de Las Médulas nella provincia di Leòn in Spagna e quella dell’estinzione della mega-fauna erbivora. Tre storie che apparentemente non hanno nulla in comune, poiché la prima narra del grande cantiere per la realizzazione del Portus Julius a opera di Ottaviano, la seconda racconta dell’estrazione dell’oro attraverso la rovinosa distruzione dei monti del sud della Cantabria, e la terza riferisce dell’estinzione, causata in buona parte da Homo Sapiens, della grande famiglia di gitanteschi mammiferi erbivori che, fino a 10 mila anni fa, condizionavano e modellavano l’assetto vegetazionale del nostro pianeta. Le tre storie, tuttavia, ruotano intorno a profonde modifiche del paesaggio, non percepite come tali nel passato, e che solo la nostra coscienza ecologica ci porta a conoscere e a valutare negativamente.

    Tre storie tragiche che nascondono un messaggio positivo: siamo il primo periodo della storia della specie umana, nel quale gli uomini si “accorgono” del loro impatto sull’ambiente. Cominciano a percepirsi come parte di questo e, quindi, come corresponsabili della sua vita. Ecco, al fondo, a cosa serve studiare il paesaggio. Non certamente a costruire inutili, quanto falsi, brand identitari (come purtroppo vuole tanta didattica sedicente “innovativa”). Serve, invece, a introiettare nella figura del “cittadino responsabile” la prospettiva di una corretta ecologia umana. Nello studio del paesaggio, perciò, si salda fortemente il nesso fra storia, geografia e educazione civile.

     

    Il Convegno è stato presentato da Franca Roca, responsabile settore formazione di Proteo. Vittoria Saracino, del Cidi, ha parlato di Luciana Bresil, mentre i saluti sono stati portati da Antonietta Scurani, Dirigente della scuola "MIchelangelo" e da Anna Cammalleri, Dirigente dell'Ufficio scolastico Regionale della Puglia.

  • L'educazione alla cittadinanza in Europa

    di Antonio Prampolini

      EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA IN EUROPA IMMAGINE 1 A completamento delle sitografie sull’educazione civica già pubblicate in precedenza su HL (Italia, Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Organizzazioni/reti europee) si propone di seguito una sitografia riepilogativa per autori al fine di facilitare la consultazione delle numerose fonti segnalate.

    Tutti i links sono stati controllati alla data del 26/09/2020

     

     

    INDICE AUTORI

    A

    Adernò Giuseppe,Educazione civica, storia della “Cenerentola” della scuola, in «Tecnica della Scuola», 13 maggio 2019.

    Advisory Group on Citizenship, Final report: Education for citizenship and the teaching of democracy in schools,Great Britain. 22 September 1998.

    Anbar Maram, Citizenship Education in Spain,26/10/2015.

    Apitzsch Ursula,Citizenship and Gender,inThe Making of Citizens in Europe - II. Dimensions of Citizenship Education, 11/05/2015.

    Association des Professeurs d’Histoire et de Géographie,education civique”, links ai numerosiarticoli presenti sul sito dell’associazione riguardanti i rapporti tra l’insegnamento della storia/geografia e l’educazione civica.

    Association for Citizenship Teaching (ACT), citizenship education, progetti, risorse didattiche, pubblicazioni sul tema nel sito dell’associazione fondata nel 2001 da Bernard Crick.

    Brusa Antonio,Del pasticcio dell’Educazione civica e dei suoi legami ambigui con la storia,in «Historia Ludens», 17 giugno 2019.

    Bundesarbeitsgemeinschaft Politische Bildung Online,Politische Bildung in Schule und JugendArbeit,portale per insegnanti e studenti dedicato all'educazione alla cittadinanza che propone Dossier sulle principali questioni del tempo presente.

    Bundeszentrale für politisce Bildung, sito bilingue (tedesco e inglese) dell’Agenzia federale per l'educazione civica. Il sito affronta il tema dell'educazione alla cittadinanza in una prospettiva nazionale, europea e internazionale, offrendo agli interessati una vasta gamma di risorse riguardanti sia il mondo scolastico che extrascolastico.

    C

    Cameron-Curry Leslie, Pozzi Marco, Troia Sandra,Dalla competenza digitale alla cittadinanza digitale: esperienze di apprendimento,Didamatica (AICA), 2014.

    Chiosso Giorgio,Educazione e cittadinanza. Il punto di vista pedagogico,2009.

    Cimò Erica,Educazione alla cittadinanza: una disciplina per formare cittadini consapevoli di una Europa multiculturale,INDIRE, 14/11/2017;L’educazione alla cittadinanza in Europa nel nuovo quaderno di Eurydice Italia, 04/03/2019.

    Citizenship Education Longitudinal Study – CELS,Citizenship education in England 2001-2010: young people’s practices and prospects for the future, final report, Department for Education, November 2010.

    Consiglio d’Europa,Carta sull’Educazione per la Cittadinanza Democratica e l’Educazione ai Diritti Umani, 11/05/2010;Approcci contemporanei all’educazione alla cittadinanza europea.

    ► Corradini Luciano,Educazione civica e Costituzione. Il legame necessario, in «Scuola e Formazione», n. 5/8, maggio-agosto 2019.

    ► Council of Europe,Charter on Education for Democratic Citizenship and Human Rights Education,11/05/2010;Edu4Europe: Education for European democratic citizenship,Forum – 1st edition “Future visions of Europe”,19-21/11/2019; citizenship education,education civique,risorse in lingua  inglese e francese presenti nel sito del Consiglio d’Europa.

    ► Crespo Garay Cristina,España suspende en Europa en educación cívica, 26/02/2018.

    D

    Decreto del Presidente della Repubblica 14 giugno 1955, n. 503,Programmi didattici per la scuola primaria.

    Decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno 1958 n. 585,Programmi per l’insegnamento dell’educazione civica negli istituti e scuole di istruzione secondaria e artistica.

    Decreto del Presidente della Repubblica 12 febbraio 1985 n.104,Approvazione dei nuovi programmi didattici per la scuola primaria.

    ► Democratic Life,citizenship education, risorse presenti nel sito dell’omonima associazione inglese che ha come compito istituzionale il rafforzamento e l'estensione dell’educazione civica tra i giovani.

    Department for Education, "citizenship education",links alla documentazione sull’educazione civicanel sistema scolastico inglese presenti nel sito del dipartimento.

    ►  Detjen Joachim,Politische Bildung,Konrad Adenauer Stiftung, 2007.

    ►  Di Cesare Rosella (a cura di),Dossier del Sevizio Studi del Senato in materia di insegnamento scolastico dell'educazione civica,n.130, giugno 2019.

    E

    Éduscol,"education civique",links alla vasta documentazione in materia del sito pedagogico del Ministère de l'Éducation nationale et de la Jeunesse.

    ► EPALE – Electronic Platform for Adult Learning in Europe (European Commission), "citizenship education", risultati della ricerca sulla piattaforma digitale.

    ► European Association for the Education of Adults – EAEA,"citizenship education",risultati della ricerca sul sito dell’associazione.

    ► European Association of History Educators (EUROCLIO),"citizenship education",risultati della ricerca sul sito dell’associazione.

    ► European Union,citizenship education, linksa documenti e iniziative sull’educazione civica nei paesi europei sul sito ufficiale dell’Unione.

    ► Eurydice,"citizenship education","education civique","educazione civica", le risorse digitali segnalate dalla rete d’informazione della Commissione Europea per la conoscenza dei sistemi e delle politiche nel settore educativo degli stati dell’Unione;Mission and Activities;Citizenship Education at School in Europe,Report 2017;Annexes: National Information and Websites, Report 2017;Eurydice Brief Citizenship Education at School in Europe 2017.

    Eurydice Italia,L’educazione alla cittadinanza a scuola in Europa, Report 2017;Eurydice in breve. L'educazione alla cittadinanza a scuola in Europa 2017.

    F

    Fondation Res Publica"education civique", links sull’argomento nel sito della fondazione francese, riconosciuta di pubblica utilità, creata nel 2005 e presieduta da Jean-Pierre Chevènement.

    Fondazione Giangiacomo Feltrinelli,"educazione civica", articoli e iniziative nel sito della fondazione.

    Frevert Ute,How to Become a Good European Citizen: Present Challenges and Past Experiences,in The Making of Citizens in Europe - I. Citizenship and European Citizenship, 11/05/2015.

    ► Friedrich-Ebert-Stiftung"politische bildung", ampia documentazione sull’educazione civica offerta dal sito della fondazione collegata al Partito socialdemocratico tedesco (SPD).

    EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA IN EUROPA IMMAGINE 2

    G

    ►  Galichet François, L’éducation à la citoyenneté dans les programmes d’enseignement français nécessairement laïcs et leur mise en œuvre,Colloque international salésien de Lyon, 20-24 août 2005.

    ►  Georgi Viola B.,New Perspectives on Citizenship Education in Europe, inThe Making of Citizens in Europe - Introduction, 11/05/2015;Citizenship and Diversity,in The Making of Citizens in Europe - II. Dimensions of Citizenship Education,11/05/2015.

    ► González Pérez Teresa,La educación cívica en españa: retrospectiva y perspectiva, in «História da Educação», vol.18 n.42, Jan./Apr. 2014.

    ► Gosewinkel Dieter,Historical Reflections on Citizenship in Europe, inThe Making of Citizens in Europe - I. Citizenship and European Citizenship,11/05/2015.

    ►   Grüne Petra,NECE – Networking European Citizenship Education – International exchange to encourage the advancement of civic education,26/04/2017.

    H

    ► Holford Naomi and Venables Tony,Dimensions and Challenges of European Citizenship Today, inThe Making of Citizens in Europe - I. Citizenship and European Citizenship, 11/05/2015.

    I

    Instituto Nacional Electoral – INE,"educación para la ciudadanía", links a documenti propri e di terzi sull’educazione civica proposti nel sito dell’istituto.

    Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa (INDIRE), articolisulla"educazione civica" e su temi collegati presenti nel sito dell’istituto.

    ►  Istituto Regionale Ricerca Educativa dell’Emilia Romagna (IRREER),programmi/direttive scolastiche e articoli di approfondimento sull'insegnamento dell’educazione civica nel sito dell’istituto.

    J

    ► Jackson Ben,Thomas Humphrey Marshall,in «Encyclopaedia Britannica».

    K

    ► Kahn Pierre,Education civique: nouveaux programmes, vieille morale, «Libération», 11 juillet 2018.

    ► Kalina Andreas,Faktensammlung zum Stand der Politischen Bildung in Deutschland,Konrad Adenauer Stiftung, 2014.

    ► Kerr David,Citizenship Education in England: The Making of a New Subject,November 2003;Research on Citizenship Education in Europe: A Survey,inThe Making of Citizens in Europe -V. Quality Assurance and the Implementation of Citizenship Education,11/05/2015;Citizenship Education in the UK,20/10/2015.

    Konrad-Adenauer-Stiftung,"politische bildung", fonti sull’educazione civica nel sito della fondazione tedesca collegata all'Unione Cristiano Democratica (CDU).

    ► Krek Janez,Quality Assurance in (Citizenship) Education,inThe Making of Citizens in Europe -V. Quality Assurance and the Implementation of Citizenship Education,11/05/2015.

     

    EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA IN EUROPA IMMAGINE 3

    L

    Lange Dirk,Citizenship Education in Germany,in The Making of Citizens in Europe-III. Perspectives on Citizenship Education: Country Profiles, 11/05/2015.

    Lange Valerie,Politische Bildung in der Schule – ein Statusbericht, Friedrich Ebert Stiftung,2018.

    Legge 28 marzo 2003, n. 53,Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione professionale.

    Legge 30 ottobre 2008, n. 169,Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1º settembre 2008, n. 137, recante disposizioni urgenti in materia di istruzione e università (Italia).

    ► Legge 20 agosto 2019, n. 92,Introduzione dell'insegnamento scolastico dell'educazione civica.

    Lifelong Learning Platform,"citizenship education",risultati della ricerca sulla piattaforma digitale di apprendimento permanente che riunisce 42 organizzazioni europee attive nel campo dell'istruzione, della formazione e della gioventù.

    Liga Española de la Educación y la Cultura Popular,la ciudadanía a través de la educación,una ONG laica e indipendente che promuove la cittadinanza attraverso un’educazione democratica e solidale.

    Loeffel Laurence, Instruction civique et éducation morale: entre discipline et «métadiscipline»,2003.

    Lohrenscheit Claudia,Citizenship and Human Rights, inThe Making of Citizens in Europe - II. Dimensions of Citizenship Education, 11/05/2015.

    ► López Facal Ramon, Educación para la ciudadanía hoy (disponibile online anche in lingua italiana), 2016.

    M

    Marschall Stefan,The Online Making of Citizens: Wahl-O-Mat,inThe Making of Citizens in Europe -IV. New Approaches to Citizenship Education,11/05/2015.

    Massing Peter,Bundes-und Landeszentralen für politische Bildung,2015.

    Ministère de l'Éducation nationale et de la Jeunesse,"éducation civique",vasta documentazione in materia sul sito ministeriale comprendente: normative, programmi scolastici, politiche e pratiche educative, seminari e conferenze, studi e ricerche.

    Ministerio de Educación y Ciencia,Real Decreto 1513/2006, de 7 de diciembre, por el que se establecen las enseñanzas mínimas de la Educación primaria;Real Decreto 1631/2006, de 29 de diciembre, por el que se establecen las enseñanzas mínimas correspondientes a la Educación Secundaria Obligatoria.

    ► Ministerio de Educación y Formación Profesional,"educación para la ciudadanía",ampia documentazione in materia (leggi, regolamenti, programmi scolastici, riflessioni, studi e ricerche) sul sito del ministero.

    Ministero dell'Istruzione - Ministero dell'Università e della Ricerca,"educazione civica", norme, regolamenti, iniziative sul sito ministeriale.

    Musée Aubois d'Histoire de l'Éducation,L’enseignement de la morale dans les écoles communales à l’époque de Jules Ferry.

    N

    ► NECE (Networking European Citizenship Education), "citizenship education", informazioni e approfondimenti sull’educazione civica in Europa nel sito della rete transnazionale creata e gestita dall’Agenzia federale tedesca per l’educazione civica (Bundeszentrale für Politische Bildung – BpB).

    O

    Olafsdottir Olof, Education for Democratic Citizenship and Human Rights: A Project by the Council of Europe,inThe Making of Citizens in Europe -IV. New Approaches to Citizenship Education,11/05/2015.

    Osler Audrey, Starkey Hugh, Citizenship Education in France and England: contrasting approaches to national identity and diversity,2009.

    P

    ► Papisca Antonio,Il Consiglio d’Europa definisce e aggiorna contenuti e metodi dell’educazione civica,Centro diritti umani - Università di Padova, 2010.

    ► Parasote Martin, Randt Paull,The Role of Éducation Civique in the Creation of French Citoyens, Humanity in Action, January 2009.

    ► Peron Elise,Citizenship Education in France,inThe Making of Citizens in Europe - III. Perspectives on Citizenship Education: Country Profiles,2015.

    R

    Richard Jonathan, L’enseignement moral et civique de 1944 à 2014, Science politique. École pratique des hautes études - EPHE PARIS, 2015.

    ►  Rus Calin, Intercultural and Citizenship Education through the Use of Information Technologies,inThe Making of Citizens in Europe -IV. New Approaches to Citizenship Education,11/05/2015.

    S

    Sale Mirella,Cittadinanza digitale a Scuola, un’ora preziosa: tutte le novità,19/09/2019.

    W

    Wikipedia,edizione in lingua italiana:Consiglio d’Europa,Eurydice;edizione in lingua francese:Lois Jules Ferry, Jean-Pierre Chevènement; edizione in lingua tedesca:Politische Bildung, Bundeszentrale für politische Bildung (BpB),Landeszentralen für politische Bildung; edizione in lingua inglese:Denazification,Beveridge Report,Thomas Humphrey Marshall, Bernard Crick,Andrew Phillips,European Association of History Educators (EUROCLIO); edizione in lingua spagnola:Educación para la Ciudadanía y los Derechos Humanos (EpC),Ley orgánica para la mejora de la calidad educativa (LOMCE).

    Y

      Young Citizens,"citizenship education",materiali vari presenti nel sito dell’omonima fondazione inglese creata da Andrew Phillips con lo scopo di favorire la diffusione dell’educazione civica tra i giovani.

  • L'Orologio dell'Apocalisse e le humanities


    Quando i sovietici installarono i missili SS20 e gli Usa i Pershing, avemmo tutti paura. Erano "armi di teatro" si diceva. Cioè potevano essere usati senza scatenare una Mutua Distruzione Assicurata (MAD), cosa che aveva trattenuto le superpotenze di allora dall'usare le bombe all'idrogeno. Naturalmente non ci credette nessuno, nemmeno in Italia, dove notoriamente siamo di bocca buona, anche perché i Pershing li avevano piazzati proprio qui. Era il 1984. Non so più a quante manifestazioni per la pace partecipai (io e tantissimi altri, di tanti orientamenti politici) e quanti documenti firmammo; ma ricordo che ogni notte, andando a letto, provavo un certo senso di angoscia.

    Il fatto era che i tg avevano parlato dell' "Orologio dell'Apocalisse", il Doomsday Clock, che certi scienziati aggiornavano, spostando le lancette verso la mezzanotte o allontanandole, a seconda della vicinanza o meno dalla Fine del Mondo, l'ora dell'Apocalisse. Era il 1984 e quest'orologio segnava tre minuti alla mezzanotte. Ci stavamo, quasi. Perciò andavamo a letto senza sapere se ci sarebbe stato un giorno dopo.

    Quell'orologio esiste dal secondo dopoguerra, quando un gruppo di scienziati, afferenti al "The Bulletin of Atomic Scientists" ha cominciato ad aggiornarlo annualmente, mettendolo in bella vista sulla prima pagina della loro rivista. E' stato una volta sola vicino ai due minuti, nel 1953, quando gli Usa sperimentarono la bomba all'idrogeno e l'URRS non ce l'aveva ancora. Poi, per ben tre volte è stato a tre minuti: nel 1947, quando l'URSS sperimentò la sua, di bomba atomica; nel 1984, quella che ricordo io e, sorpresa assai poco piacevole, nel 2015.

    Apprendo quest'ultimo aggiornamento dall'articolo di Giovanni Spataro, su "Le Scienze" di questo mese (Luglio 2015, pp. 44 s). E questa è la prima grande differenza con gli anni '80: oggi devo leggere una rivista scientifica per saperlo, perché i media traboccano di Grexit, Isis, Triton e Flegetonte (per non parlare del teatrino italiano, ma questo anche allora faceva spettacolo). La seconda differenza è che quelle lancette diventarono un problema caldissimo dal punto di vista politico. Per motivi diversi, certamente, scatenarono un dibattito, del quale oggi non mi sembra di rilevare qualche traccia. La terza differenza è che il rischio, in passato, fu esclusivamente militare, mentre oggi ha diverse componenti.

    Infatti, il rischio militare non si è affatto attenuato: il numero delle bombe nucleari è esorbitante; gli investimenti che le due (ex?) superpotenze vi destinano sono ingentissimi; i possibili lanciatori di bombe si sono moltiplicati e agiscono tutti su fronti molto caldi (Israele- Iran; India-Pakistan; Corea del Nord ecc). Accanto a questo, inoltre, agiscono due altri fattori di rischio: quello ambientale-climatico e quello del controllo difficile delle tecnologie (armi biologiche, ciberterrorismo ecc.). Entrambi, dicono quegli scienziati, sono prossimi alla deflagrazione.

    Oggi, dunque, agisce una miscela molto più pericolosa di quelle che ci hanno terrorizzato in passato: ma non riesce a diventare un problema politico centrale. Nel passato, infatti, la gestione politica del conflitto ebbe successo, spostando all'indietro le lancette fatidiche. Oggi, invece, per quanto ogni tanto qualcuno ne parli in giro e si facciano convegni qua e là, anche di grande risonanza, è indubbio che l'idea della prossimità alla Fine non tocchi la sensibilità diffusa, politica e no.

    Questo non fa che aumentare i fattori di rischio.

    Dice Spataro che ogni volta che le lancette si avvicinano alla fine, la questione fondamentale fu politica. Quella era la causa del rischio e fu a livello politico che si trovarono delle risposte. Questo è vero anche oggi, e ad un grado superiore, potremmo dire, perché si tratta di discutere di interessi, scelte, individuali e collettive, di dirottare investimenti da un settore all'altro, di prevedere che, con l'aggravarsi della crisi, diventeranno inevitabili le esplosioni di conflitti sociali; di costruire capacità di esercitare governo anche al di fuori dei propri confini nazionali.

    Una buona politica non chiede solo delle persone perbene e competenti nel proprio settore (come vorremmo tutti). Esige una buona capacità di leggere i problemi, di capire la società, di parlare con le persone, di istruire i cittadini in modo che sappiano stabilire gerarchie credibili dei mille problemi che travolgono la loro esistenza. E questo vuol dire: "humanities" (passi il termine inglese, visto che si tratta di un problema internazionale). L'incapacità diffusa, infatti, dei governanti come dei cittadini, di riconoscere i problemi di una società, è rivelatrice, a mio modo chiarissima, di uno straordinario deficit di "humanities".

    Per questo è sorprendente osservare l'attuale "attacco alle humanities", sferrato in modo particolare nel settore formativo. Seguendo, invece, il ragionamento di Spataro ( e degli scienziati del "Bullettin"), essendo la questione politica, ci si dovrebbe impegnare in tutto ciò che aumenta la nostra capacità di comprendere la società. Se si potesse, perciò, fare una postilla al loro lavoro meritorio, vorrei aggiungere, come quarto fattore di rischio, l'insensibilità dei governi verso la formazione storico sociale dei loro cittadini.

    http://thebulletin.org/timeline

  • L’educazione alla cittadinanza nel Web. Parte prima: l’Italia

    di Antonio Prampolini

    La recente legge 92/2019, che prevede l’introduzione nella scuola italiana dell’insegnamento dell’educazione civica, ha posto il tema all’ordine del giorno del dibattito politico del quale «Historia Ludens»ha già riportato la sintesi (e la critica).

    Bandiera italiana

    In questo contesto si è ritenuto possa essere utile una sitografia sull’educazione alla cittadinanza (storia, normativa, indirizzi pedagogici e orientamenti politici, esperienze didattiche e divulgative) oltre che in Italia, in Francia, Germania, Inghilterra-UK, Spagna e nelle istituzioni/reti europee.

    La sitografia (elaborata con un’ottica comparativa) consiste in schede informative sintetiche con i link alle risorse della rete, l’elenco delle fonti e la segnalazione dei siti web di istituzioni/associazioni/fondazioni/network che affrontano, offrendo notizie e approfondimenti, il tema dell’educazione alla cittadinanza.

    L’introduzione dell’Educazione Civica

    Con l’accordo quasi unanime di tutte le forze politiche, sia di governo che di opposizione, il Parlamento italiano ha approvato nel 2019 la legge denominata Introduzione dell'insegnamento scolastico dell'educazione civica (Legge n. 92 del 20 agosto). L’insegnamento, specifico e trasversale, sarà obbligatorio nel primo e secondo ciclo di istruzione a decorrere dall’anno scolastico 2020/21 e impegnerà insegnanti e studenti per un totale annuo di 33 ore, che non saranno aggiuntive ma ricomprese nel monte orario già esistente. In realtà, la legge 92 non “introduce” ma “re-introduce” un insegnamento all’educazione civica caratterizzato da abbandoni e riprese.

    Da Moro a Gelmini: cinquant’anni di educazione civica

    Nel 1958, Aldo Moro, allora ministro della pubblica istruzione, lo aveva fermamente e convintamente voluto nella scuola secondaria come parte dell’insegnamento della storia, per educare, alla luce dei principi di libertà e democrazia sanciti dalla Costituzione della Repubblica, le nuove generazioni a «crescere come persone responsabili, cittadini attivi e lavoratori competenti». Un'educazione civica, quella caldeggiata da Moro, radicalmente diversa nei contenuti e nelle finalità rispetto a quella, intrisa di retorica patriottica e risorgimentale, che era stata insegnata ai giovani nell’Italia post-unitaria, e, soprattutto, a quella nazionalista, militarista ed anche razzista impartita durante il Ventennio mussoliniano.

    L’educazione alla cittadinanza nella scuola primaria e/o secondaria ha assunto nomi diversi nelle direttive/iniziative/proposte di legge emanate e/o sostenute dai vari ministri delle pubblica istruzione che si sono succediti nel corso della seconda metà del ‘900 fino ai giorni nostri: Educazione morale e civile (Ermini, 1955); Educazione civica (Moro, 1958); Educazione alla convivenza democratica (Falcucci, 1985); Educazione civica e cultura costituzionale (Lombardi, 1996); Educazione alla convivenza civile (Moratti, 2003); Cittadinanza e Costituzione (Gelmini, 2008).

    Il succedersi delle diverse iniziative/proposte di legge non deve però trarre in inganno. L’educazione alla cittadinanza ha rappresentato nella realtà del sistema scolastico italiano una “materia non materia”, che, priva di un’adeguata considerazione e dei necessari supporti organizzativi e didattici, è stata condannata ad una inevitabile marginalità.

    La legge attuale

    La legge 92/2019 stabilisce all’articolo 3 che l’insegnamento dell’educazione civica dovrà affrontare numerose tematiche, tra queste: la Costituzione e le istituzioni dello Stato italiano, dell’Unione europea e degli organismi internazionali; l’Agenda 2030 (ONU) per lo sviluppo sostenibile; la cittadinanza digitale; il diritto del lavoro; la tutela del patrimonio ambientale/culturale e delle produzioni agroalimentari del territorio; il contrasto alle mafie; la protezione civile; il volontariato; il codice della strada.

    L’articolo 4 si sofferma in particolare sulla conoscenza della Costituzione italiana posta a «fondamento dell’educazione civica», mentre l’articolo 5 elenca le finalità dell’educazione alla cittadinanza digitale, che comprendono: la critica delle fonti in Internet; l’accesso ai servizi telematici pubblici e privati; l’osservanza delle norme comportamentali e di riservatezza negli ambienti digitali (nei social network in particolare), la lotta a tutte le forme di cyberbullismo.

    Argomenti e obiettivi indubbiamente importanti e degni di considerazione, ma la loro eccessiva ampiezza e ambizione, oltre alla loro oggettiva complessità (soprattutto se rapportati al limitato numero di ore assegnato alla nuova materia, alle poche risorse destinate alla formazione dei docenti, all’assenza di una retribuzione specifica per l’impegnativa attività dei coordinatori) fanno presagire fin da ora che difficilmente la scuola italiana sarà in grado di affrontarli nel quadro di una concreta ed efficace educazione alla cittadinanza.

    Se certamente la scuola è un’istituzione che deve giocare un ruolo fondamentale nell’educazione civica, non può però essere gravata di un compito superiore alle sue forze. In questo rivolgersi alla scuola come fosse un “ospedale” a cui affidare la cura di tutti i mali che affliggono la nostra contemporaneità si riflette l’incapacità della politica (non solo in Italia) di trovare risposte adeguate alla crisi valoriale e comportamentale delle nuove generazioni; risposte che non possono essere confinate al mondo della scuola ma che devono coinvolgere e impegnare l’intera società.

    Fonti

    LEGGI E DIRETTIVE MINISTERIALI

    Decreto Presidente della Repubblica 14 giugno 1955, n. 503, Programmi didattici per la scuola primaria.

    Decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno 1958 n. 585, Programmi per l’insegnamento dell’educazione civica negli istituti e scuole di istruzione secondaria e artistica.

    Decreto del Presidente della Repubblica 12 febbraio 1985, Approvazione dei nuovi programmi didattici per la scuola primaria.

    Legge 28 marzo 2003, n. 53, Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione professionale.

    Legge 30 ottobre 2008, n. 169, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1º settembre 2008, n. 137, recante disposizioni urgenti in materia di istruzione e università.

    Legge 20 agosto 2019, n. 92, Introduzione dell'insegnamento scolastico dell'educazione civica.

    ARTICOLI

    Adernò G. (2019), Educazione civica, storia della “Cenerentola” della scuola, in «Tecnica della Scuola», 13 maggio 2019.

    Brusa A. (2019), Del pasticcio dell’Educazione civica e dei suoi legami ambigui con la storia, in «Historia Ludens», 17 giugno 2019.

    Cameron-Curry L., Pozzi M., Troia S. (2014), Dalla competenza digitale alla cittadinanza digitale: esperienze di apprendimento.

    Chiosso G., Educazione e cittadinanza. Il punto di vista pedagogico.

    Corradini L. (2019), Educazione civica e Costituzione. Il legame necessario, in «Scuola e Formazione», n. 5/8, maggio-agosto 2019.

    Di Cesare R. (a cura di) (2019), Dossier del Sevizio Studi del Senato in materia di insegnamento scolastico dell'educazione civica.

    Sale M. (2019), Cittadinanza digitale a Scuola, un’ora preziosa: tutte le novità.

    SITI WEB

    Sito del Ministero dell'Istruzione e del Ministero dell'Università e della Ricerca. Il sito offre informazioni varie (norme, regolamenti, iniziative) riguardanti l'educazione civica.

    Sito dell'Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa (INDIRE), ente di ricerca del Ministero dell’Istruzione. Il sito contiene alcuni articoli sull'educazione alla cittadinanza e su temi collegati.

    Sito dell’Istituto Regionale Ricerca Educativa dell’Emilia Romagna (IRREER) dedicato alla didattica della storia e delle scienze sociali. Il sito permette di accedere a programmi/direttive scolastiche e ad articoli di approfondimento sull'insegnamento dell'educazione civica.

    Sito della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. La ricerca all'interno del sito con le parole "educazione civica" segnala alcuni articoli e iniziative sul tema.

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  • L’educazione alla cittadinanza nel Web. Parte quarta: l’Inghilterra (UK)

    di Antonio Prampolini

    Citizenship Education

    Nonostante sia la patria della democrazia parlamentare e, nell’immediato secondo dopoguerra, abbia sperimentato il Welfare State (Piano Beveridge) e abbia dato con Thomas H. Marshall un contributo fondamentale alla definizione storico-sociologica del concetto di cittadinanza, l’Inghilterra, a differenza di altri paesi europei come Francia e Germania, ha affrontato con forte ritardo il tema dell’educazione alla cittadinanza.

    Solo a partire dal 2002, la citizenship education è stata introdotta come materia specifica nel curricolo delle scuole pubbliche per gli studenti di età compresa tra gli 11 e i 16 anni su indicazione della Citizenship Advisory Group (CAG), una commissione consultiva presieduta da Bernard Crick(nota anche come Crick Group) che si era fatta promotrice nel 1998 di un’intensa ed efficace politica di alfabetizzazione civica dei giovani nelle scuole e degli adulti nella società per ovviare alla scarsa partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e al diffuso assenteismo elettorale che caratterizzavano l’Inghilterra, come gli altri paesi europei, alla fine del XX Secolo.

    I tre pilastri della Citizenship education

    Il Crick Group aveva concordato sul fatto che una buona educazione alla cittadinanza richiede la compresenza di tre elementi distinti ma strettamente correlati. Primo elemento: responsabilità morale e sociale (i giovani devono imparare ad avere fiducia in se stessi e ad assumere, sia in classe che al di fuori della scuola, comportamenti moralmente e socialmente responsabili verso gli altri e le autorità). Secondo elemento: coinvolgimento delle comunità (l’educazione civica non può basarsi solo sulla trasmissione di contenuti culturali ma deve includere anche la prestazione di servizi alle comunità di appartenenza come pure la partecipazione di queste alle attività formative dei giovani). Terzo elemento: alfabetizzazione politica (vale a dire impegnarsi nella formazione di cittadini pienamente consapevoli dei loro diritti e in grado di prendere parte alla “vita pubblica”, nel significato più ampio del termine, per affrontare questioni non solo a livello locale e nazionale, ma anche globale).

    L’integrazione e il terrorismo

    Nel corso degli anni 2000 il contesto e i contenuti della citizenship education sono cambiati. Come conseguenza dell’emergere delle tensioni razziali nel Nord dell'Inghilterra nel 2001 e dell’attentato a Londra nel 2005 da parte dei terroristi islamici "allevati in casa", l’integrazione e la lotta al terrorismo sono diventati progressivamente gli obiettivi principali dell’educazione alla cittadinanza nelle scuole e nella società. I governi conservatori dal 2010 hanno poi ulteriormente enfatizzato il ruolo dell’educazione civica quale barriera contro l’estremismo (in particolare di matrice islamica) a spese dello sviluppo delle competenze e degli impegni di cittadinanza attiva.

    Nel 2010, un’indagine sull’insegnamento dell’educazione alla cittadinanza nelle scuole inglesi (Citizenship Education Longitudinal Study – CELS), ha evidenziato che, per essere efficace e duraturo nel tempo, necessità di continuità nei curricula degli studenti come pure di docenti preparati e di materiali didattici di qualità. Condizioni, queste, che però in Inghilterra sono state rispettate solo eccezionalmente. E questo si è verificato, soprattutto, a causa del cambiamento delle priorità assegnate all’educazione civica da parte delle forze politiche (laburisti e conservatori) che si sono succedute al governo dal 2002 ad oggi. Cambiamento che ha impedito alla citizenship education di radicarsi saldamente nella scuola e nella società inglesi.

    Fonti

    Articoli on line

    Advisory Group on Citizenship (1998), Final report: Education for citizenship and the teaching of democracy in schools.

    Citizenship Education Longitudinal Study – CELS (2010), Citizenship education in England 2001-2010: young people’s practices and prospects for the future.

    Jackson B. (2019), T.H. Marshall, in «Encyclopaedia Britannica».

    Kerr D. (2003), Citizenship Education in England: The Making of a New Subject.

    Kerr D. (2015), Citizenship Education in the UK.

    Osler A., Starkey H. (2009), Citizenship Education in France and England: contrasting approaches to national identity and diversity.

    Prampolini A. (2019), Il concetto di cittadinanza dal Fascismo a oggi. Le edizioni dell’Enciclopedia Treccani come fonte storica, in «Historia Ludens», 01/12/2019.

    Wikipedia, Beveridge Report.

    Wikipedia, Bernard Crick.

    Wikipedia, Andrew Phillips.

    Siti web

    ► Sito del Department for Education dove è possibile accedere ai reports sulla citizenship education nel sistema scolastico inglese.

    ► Sito della Association for Citizenship Teaching (ACT) fondata nel 2001 da Bernard Crick. Il motore di ricerca interno permette di accedere alle risorse offerte dall’ACT in materia di insegnamento/apprendimento della citizenship education.

    ► Sito della Democratic Life, un'organizzazione che ha come compito istituzionale il rafforzamento e l'estensione del diritto dei giovani alla citizenship education in Inghilterra.

    ► Sito della Young Citizens, una fondazione creata da Andrew Phillips con lo scopo di favorire la diffusione tra i giovani della citizenship education.

  • L’educazione alla cittadinanza nel Web. Parte quinta: la Spagna

    di Antonio Prampolini

    Educación para la Ciudadanía

    Nella Spagna degli anni 2000 l’educazione alla cittadinanza è stata affrontata in un clima di accesa conflittualità politica e ideologica caratterizzato dall’aspra lotta tra i due principali partiti che si sono alternati alla guida del paese (il partito socialista PSOE e il partito popolare PP) e dalla pregiudiziale opposizione della Chiesa cattolica nei confronti del processo di laicizzazione della società e, in particolare, della scuola.

    Dopo il lungo periodo della dittatura di Franco (1939–1975), la Spagna era ritornata tardivamente e faticosamente alla democrazia lasciandosi alle spalle i programmi di educazione alla cittadinanza basati sulla promozione del patriottismo, sull’apprendimento dei valori del cattolicesimo tradizionale e sull’imposizione dell’ideologia politica del regime.

    Nel 2006, il governo socialista di Rodríguez Zapatero (accogliendo le raccomandazioni espresse nel 2002 dal Consiglio d’Europa) ha introdotto sia nella scuola primaria che secondaria la Educación para la Ciudadanía y los Derechos Humanos (Educazione alla Cittadinanza e ai Diritti Umani).

    L’obiettivo del nuovo insegnamento era così esplicitato dalla legge che lo istituiva nella scuola secondaria: «L'educazione alla cittadinanza mira a favorire lo sviluppo di persone libere, attraverso il rafforzamento dell’autostima e del senso di responsabilità, per formare cittadini dotati di propri criteri di giudizio, rispettosi, partecipativi e solidali, desiderosi di conoscere i propri diritti e di assumere i propri doveri in modo da poter esercitare la cittadinanza in modo efficace e responsabile».

    Il contenuto della nuova materia di insegnamento era articolato in diversi moduli didattici: Scuola primaria: modulo 1 - Individui e relazioni interpersonali e sociali, modulo 2 - La vita in comunità, modulo 3 - Vivere in società; Scuola secondaria: modulo 1 - Approccio rispettoso della diversità, modulo 2 - Relazioni interpersonali e partecipazione, modulo 3 - Doveri e diritti dei cittadini, modulo 4 - Le società democratiche del XXI secolo, modulo 5 - Cittadinanza in un mondo globale.

    Educazione alla cittadinanza e conflitto con la Chiesa

    El Roto, noto disegnatore satirico spagnolo,
    sull’avversione della Chiesa nei riguardi dell’Educazione alla cittadinanza

    La Educación para la Ciudadanía y los Derechos Humanos ha da subito creato forti polemiche tra le forze politiche, tra il governo socialista e la Chiesa cattolica con le sue numerose organizzazioni. Per le opposizioni, l’introduzione della nuova materia d’insegnamento rappresentava un progetto di indottrinamento che espropriava le famiglie e la Chiesa del loro ruolo educativo. Con l’obbiettivo di bloccare tale progetto, è nata in Spagna una vera e propria “battaglia giudiziaria” di fronte ai Tribunales Superiores de Justicia, alla Corte Constitucional ed anche alla Corte Europea dei Diritti Umani.

    Nel gennaio del 2012, José Ignacio Wert, ministro della pubblica istruzione del governo guidato da Mariano Rajoy, annuncia il progetto di una nuova educazione alla cittadinanza, in sostituzione della precedente voluta dai socialisti, denominata Educación Cívica Constitucional, «libera da questioni controverse e da indottrinamenti ideologici». Il progetto non verrà però realizzato (la riforma dell’istruzione del novembre 2013, nota come LOMCE, non lo prevede).

    La storia recente dell’educazione alla cittadinanza in Spagna evidenzia come il conflitto radicale tra i partiti, le incertezze nella politica scolastica dei governi, l’opposizione di fondo della Chiesa cattolica, sommati all’inadeguata formazione pedagogica dei docenti, hanno rappresentato il principale ostacolo all’introduzione e allo sviluppo nelle scuole di un corretto ed efficace insegnamento di questa materia.

    Fonti

    Articoli e documenti on line

    Anbar M. (2015), Citizenship Education in Spain.

    Council Of Europe (2002), Recomendación (2002)12 del Comité de Ministros a los Estados miembros relativa a la educación para la ciudadanía democrática.

    Crespo Garay C. (2018), España suspende en Europa en educación cívica.

    González Pérez T. (2014), La educación cívica en españa: retrospectiva y perspectiva.

    López Facal R. (2016), L'educazione alla cittadinanza oggi.

    López Facal R. (a cura di) (2010), Ciudadania, numero speciale di «Iber», Aprile 2010.

    Wikipedia, Educación para la Ciudadanía y los Derechos Humanos (EpC), 23/01/2020.

    Wikipedia, Ley orgánica para la mejora de la calidad educativa (LOMCE), 23/01/2020.

    Leggi

    Ministerio de Educacióny Ciencia, Real Decreto 1513/2006, de 7 de diciembre, por el que se establecen las enseñanzas mínimas de la Educación primaria.

    Ministerio de Educacióny Ciencia, Real Decreto 1631/2006, de 29 de diciembre, por el que se establecen las enseñanzas mínimas correspondientes a la Educación Secundaria Obligatoria.

    Siti web

    ► Sito del Ministerio de Educación y Formación Profesional. Digitando educación para la ciudadanía nel campo di testo del motore di ricerca interno del sito è possibile accedere ad un'ampia documentazione in materia (leggi, regolamenti, programmi scolastici, riflessioni, studi e ricerche).

    ► Sito del Instituto Nacional Electoral – INE. Il sito propone una selezione di link a documenti propri e di terzi sulla educación para la ciudadanía.

    ► Sito della Liga Española de la Educación y la Cultura Popular, una ONG laica e indipendente che promuove la cittadinanza attraverso una educazione democratica e solidale.

    Fonti immagini

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  • L’educazione alla cittadinanza nel Web. Parte seconda: la Francia

    di Antonio Prampolini

    La Marianne, simbolo della repubblica francese, nelle sue varie versionLa Marianne, simbolo della repubblica francese, nelle sue varie versioni

    Educazione civica, educazione repubblicana

    In Francia, l'educazione alla cittadinanza (che è idealmente e storicamente legata alla Rivoluzione del 1789, vale a dire a un progetto di trasformazione democratica ed egualitaria della società), è una costante di “lungo periodo” del sistema educativo nazionale. Una costante che però ha risentito nel passato, e risente nel presente, del mutare delle congiunture politiche e sociali.

    Il carattere specifico del modello di “cittadinanza repubblicana”, basato sulla netta distinzione tra la sfera privata (quella delle appartenenze familiari, sociali, culturali e religiose) e la sfera pubblica (il mondo della politica in tutte le sue forme) ha conferito una particolare importanza alla éducation civique e al ruolo centrale della scuola nella formazione dei cittadini francesi. Alla scuola è stata affidata la missione di definire cosa significa essere cittadini della Repubblica e di garantire che vi sia una comprensione comune dei relativi diritti e doveri.

    Jules Ferry e l’istruzione morale e civica

    L’introduzione nella scuola francese dell’educazione civica come specifica materia d’insegnamento risale al tempo della Terza Repubblica (1870-1940), quando Jules Ferry con la legge 28 marzo 1882, trasformò la scuola elementare in secolare e obbligatoria per i giovani dai 6 ai 13 anni, e inserì la «instruction morale et civique» tra le priorità nazionali insieme alla lotta all’analfabetismo. Una materia, questa, che oscillava tra la morale individuale, l’apprendimento delle regole della vita collettiva e la preparazione dei futuri cittadini della Repubblica, e che, ponendosi come alternativa laica all’educazione morale impartita dalla Chiesa cattolica, aveva alimentato aspri conflitti con le autorità ecclesiastiche e i loro sostenitori.

    Un patriottismo con una forte connotazione bellica antitedesca ha, in particolare, caratterizzato l’educazione alla cittadinanza nei primi decenni della Terza Repubblica; la perdita dell'Alsazia-Lorena in seguito alla guerra franco-prussiana del 1870-71 era una ferita aperta nell’orgoglio nazionale dei francesi. Una connotazione che si attenuerà solo dopo il ritorno dell’Alsazia-Lorena alla Francia nel 1919 e il tragico bilancio in termini di costi umani ed economici del primo conflitto mondiale.

    La crisi del secondo dopoguerra

    Terminata la seconda guerra mondiale, in una Francia traumatizzata dalla sconfitta militare, dall'occupazione tedesca e dalla collaborazione del governo di Vichy con il regime nazista, emerge l’esigenza di un rinnovato impegno della scuola per la éducation civique. Tra il 1945 e il 1948 viene estesa come materia d’insegnamento alle scuole superiori.

    Negli anni Sessanta la éducation civique cade in disuso, tanto che nel 1969 ne viene soppresso l’insegnamento nelle scuole elementari. La prosperità economica e la crescita dei consumi sono i nuovi fattori d’integrazione della società francese, che sembra non avere più bisogno di questa materia.

    Alla metà degli anni Ottanta cambia il contesto; la crisi dell’economia e della società francesi impongono il ritorno a questa disciplina. La disoccupazione, l’immigrazione extraeuropea, l’impoverimento delle periferie urbane con lo sviluppo di fenomeni come la delinquenza, la tossicodipendenza, il razzismo, l’aumento della violenza all’interno delle scuole fanno sì che l’educazione alla cittadinanza venga vista come un rimedio per la crisi della società e della stessa scuola. Un’educazione il cui obiettivo non è più quello di creare e rafforzare un sentimento di appartenenza nazionale, ma, più prosaicamente, di indirizzare i giovani (che sempre più frequentemente appartengono a razze, culture e religioni diverse) verso comportamenti di socializzazione che consentano una vita in comune.

    Con l’inizio del nuovo secolo il quadro generale non migliora, anzi, la crisi economica mondiale (2007-2013) e il ripetersi di eventi terroristici di matrice islamica (2012 – 2018) hanno aggravato ulteriormente la situazione e prodotto un diffuso malessere e una generale insicurezza.

    Charlie Hebdo e la ripresa dell’educazione civica

    Subito dopo gli attacchi terroristici del 7 gennaio 2015 (attentato alla sede di Charlie Hebdo), il nuovo ministro dell’educazione nazionale, Najat Vallaud-Belkacem, ha annunciato una «grande mobilitazione della scuola per il rafforzamento della trasmissione dei valori della Repubblica». Dall'anno scolastico 2015-2016, gli studenti delle scuole primarie e secondarie in Francia hanno nel loro curricolo una nuova materia: enseignement moral et civique (EMC). Se i programmi sono molto simili ai precedenti, la novità è che ora l’EMC beneficia di ore specifiche dedicate esclusivamente a questo insegnamento: un'ora alla settimana nella scuola elementare e un'ora ogni quindici giorni nella scuola secondaria.

    I cambiamenti nell'educazione alla cittadinanza in Francia hanno sempre coinciso con situazioni di crisi. Non è diverso oggi. La società francese, alle prese con i problemi della globalizzazione, del multiculturalismo, del terrorismo, si interroga sulla validità del proprio modello di cittadinanza. Di conseguenza, anche l’éducation civique sta attraversando una crisi testimoniata dagli accesi dibattiti e dalle forti controversie di cui è oggetto.

    Fonti

    ARTICOLI E LIBRI

    Galichet F. (2005), L’éducation à la citoyenneté dans les programmes d’enseignement français nécessairement laïcs et leur mise en œuvre.

    Kahn P. (2015), L'enseignement moral et civique a pour ambition la construction d'une culture morale et civique fondée sur l'articulation des trois éléments constitutifs de toute culture: des valeurs, des savoirs et des pratiques.

    Kahn P. (2018), Education civique: nouveaux programmes, vieille morale, Libération, 11 juillet 2018.

    Loeffel L. (2009), Instruction civique et éducation morale: entre discipline et «métadiscipline».

    Musée Aubois d'Histoire de l'Éducation, L’enseignement de la morale dans les écoles communales à l’époque de Jules Ferry.

    Osler A. & Starkey H. (2009), Citizenship Education in France and England: contrasting approaches to national identity and diversity.

    Parasote M. (2009), The Role of Éducation Civique in the Creation of French Citoyens.

    Peron E. (2015), Citizenship Education in France, in The Making of Citizens in Europe - III. Perspectives on Citizenship Education: Country Profiles.

    Richard J. (2015), L’enseignement moral et civique de 1944 à 2014, Science politique. École pratique des hautes études - EPHE PARIS.

    Wikipedia, Jules Ferry.

    Wikipedia, Les lois Jules Ferry.

    SITI WEB

    ► Sito del Ministère de l'Éducation nationale et de la Jeunesse che permette di effettuare due tipi di ricerche sulla éducation civique: una circoscritta ai propri contenuti e un’altraestesa a quelli di tutti i siti di enti/istituti pubblici francesi. La vasta documentazione in materia comprende: normative, programmi scolastici, politiche e pratiche educative, seminari e conferenze, studi e ricerche.

    ► Sito pedagogico del Ministère de l'Éducation nationale et de la Jeunesse. Digitando education civique nel campo di testo del motore di ricerca interno vengono elencate le numerose risorse che il sito offre sull’argomento.

    ► Sito della Association des Professeurs d’Histoire et de Géographie. Dal sito è possibile accedere a diversi articoli riguardanti i rapporti tra le loro materie d’insegnamento e la education civique.

    ► Sito della Fondation Res Publica; una fondazione francese, riconosciuta di pubblica utilità, creata nel 2005 e presieduta da Jean-Pierre Chevènement con l’obiettivo di analizzare le principali sfide della società contemporanea sia nel contesto nazionale che in quello del mondo globalizzato. La Fondation ha pubblicato testi di riflessione su argomenti specifici che comprendono anche la education civique.

     

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  • L’educazione alla cittadinanza nel Web. Parte sesta: l’Europa

    L’educazione alla cittadinanza nell’attività delle organizzazioni e delle reti europee

    di Antonio Prampolini

     

    Il CONSIGLIO D’EUROPA

    Il Consiglio d’Europa (Council of Europe / Conseil de l'Europe), dalla sua creazione (1949) a oggi, ha sempre riconosciuto all’istruzione/educazione un ruolo centrale nella promozione della democrazia e dei diritti umani. Numerose sono perciò le “raccomandazioni” rivolte in tale ambito agli stati membri dell’organizzazione; raccomandazioni che, pur non essendo giuridicamente vincolanti, sono però da apprezzarsi per il loro contributo all’introduzione di buone pratiche didattiche/divulgative e all’innalzamento degli standard educativi nel Vecchio Continente.

    Tra queste, fondamentale è la Carta per l'educazione alla cittadinanza democratica e l'educazione ai diritti umani (Charter on Education for Democratic Citizenship and Human Rights Education). Approvata nel 2010 dal Comitato dei Ministri (Committee of Ministers) degli stati membri, la Carta contiene raccomandazioni in materia di educazione alla cittadinanza che riguardano tutti i livelli dell’istruzione scolastica (dalle scuole di infanzia all’università) e tutti i tipi di educazione (formale, non formale, generale, professionale), ed è articolata in più sezioni: Disposizioni generali, Finalità e principi, Politiche educative, Valutazione e cooperazione.

    La Carta definisce la «educazione alla cittadinanza democratica» come l’attività formativa che si propone di offrire ai giovani (ma anche agli adulti) le conoscenze e le abilità necessarie ad esercitare e difendere i loro diritti e a svolgere un ruolo responsabile nella società. Un’attività che, come sottolinea la Carta, richiede un «processo di insegnamento/apprendimento permanente» che deve coinvolgere non solo la scuola (dove un’efficace educazione alla cittadinanza deve basarsi su di una adeguata formazione dei docenti) ma anche le famiglie, le istituzioni pubbliche, i governi e le organizzazioni non governative, i media e il pubblico in generale, con l’obiettivo di promuovere la coesione sociale, l’uguaglianza di genere e il dialogo interculturale.

    Il Consiglio d’Europa e la Commissione Europea

    Da segnalare, tra le iniziative recenti del Consiglio d’Europa in partnership con la Commissione Europea (EU), il Forum on European Education for Democratic Citizenship (Edu4Europe) che riunisce i professionisti dei settori dell'istruzione e del mondo giovanile, ricercatori, responsabili politici, organizzazioni della società civile e altre entità coinvolte nell'educazione alla cittadinanza democratica europea (il primo incontro tra i partecipanti al forum si è svolto a Strasburgo nel novembre del 2019).

    Alla base dell’iniziativa c’è la consapevolezza della particolare congiuntura politica e sociale che sta attraversando oggi l’Europa. La crescente diffusione di fenomeni di estremismo nazionalista e di razzismo combinata con la crisi economia che ha colpito in particolare i ceti medio-bassi, il divario sempre maggiore tra i gruppi privilegiati e quelli socialmente esclusi, i problemi generati dai flussi migratori di massa, gli eventi terroristici di matrice islamica, nonché l’emergere di una vera e propria ostilità verso l’Europa e le sue organizzazioni comunitarie impongono un impegno straordinario da parte di tutti coloro che si occupano nel Vecchio Continente di processi educativi.

    Un impegno che deve avere come faro una concezione aperta e multiculturale della cittadinanza europea, intesa come «un'idea dinamica e complessa profondamente connessa con gli ideali di democrazia, partecipazione e diritti umani /e che/ mira creare uno spazio in cui le questioni civiche, politiche e sociali possano essere affrontate in una visione che supera i confini degli stati e i limiti delle culture nazionali».

    EURYDICE (Unione Europea)

    Eurydice, la rete d’informazione della Commissione Europea (istituita nel 1980 per approfondire la conoscenza dei sistemi e delle politiche nel settore educativo degli stati dell’Unione) ha pubblicato nel novembre del 2017 un importante rapporto, Citizenship Education at School in Europe (L’educazione alla cittadinanza a scuola in Europa), che offre un’ampia panoramica di come l’insegnamento dell’educazione civica viene affrontato nelle scuole pubbliche dei 28 stati membri dell’UE, oltre che in Bosnia ed Erzegovina, ex-Repubblica jugoslava di Macedonia, Islanda, Liechtenstein, Montenegro, Norvegia, Serbia, Svizzera e Turchia.

    Il rapporto è suddiviso in quattro capitoli/temi (organizzazione del curricolo e contenuti; insegnamento, apprendimento e partecipazione attiva; valutazione degli studenti e valutazione della scuola; formazione degli insegnanti) che includono studi di caso sulle iniziative nel settore dell’educazione civica in Austria, Belgio (Comunità fiamminga), Estonia, Francia. Il rapporto è inoltre completato da allegati (Annexes: National Information and Websites) che trattano diversi argomenti, che vanno dalle strategie/approcci all’educazione alla cittadinanza nei curricoli nazionali alle attività di formazione e supporto agli insegnanti.

    I risultati dell’indagine Eurydice sono stati riassunti in un utile documento di sintesi: Eurydice Brief Citizenship Education at School in Europe 2017 (Eurydice in breve L'educazione alla cittadinanza a scuola in Europa 2017.

    La NECE

    NECE- Networking European Citizenship Education è una rete transnazionale creata e gestita dall’Agenzia federale tedesca per l’educazione civica (Bundeszentrale für Politische Bildung – BpB) che si propone come piattaforma/forum di dialogo tra tutti coloro che a vario titolo si occupano di educazione alla cittadinanza in Europa (e non solo) per favorire la loro interazione e promuovere l’adozione di adeguate politiche a livello nazionale e internazionale.

    Dal 2007, NECE (che si propone quale «laboratorio transdisciplinare e transnazionale») è impegnata nell’organizzare incontri, conferenze, gruppi di studio avvalendosi anche della collaborazione di altre reti europee che operano nello stesso settore o che sono interessate ai temi dell’educazione civica come DARE (Democracy and Human Rights Education in Europe), EAEA (European Association for the Education of Adults), European Alternatives, EUROCLIO.

    NECE pubblica sul proprio sito una Newsletter periodica dove fornisce informazioni e approfondimenti sulle proprie attività ed anche su progetti europei, eventi, dibattiti e pubblicazioni in materia di educazione alla cittadinanza. La rete NECE opera facendo propria la consapevolezza che i concetti di cittadinanza europea, globale o cosmopolita devono essere riflessi più fortemente e utilizzati più frequentemente nelle pratiche educative dei singoli stati del Vecchio Continente.

    Fonti

    Articoli e documenti online

    Cimò E. (2017), Educazione alla cittadinanza: una disciplina per formare cittadini consapevoli di una Europa multiculturale, 14/11/2017.

    Cimò E. (2019), L’educazione alla cittadinanza in Europa nel nuovo quaderno di Eurydice Italia.

    Consiglio d’Europa (2010), Carta del Consiglio d’Europa sull’Educazione per la Cittadinanza Democratica e l’Educazione ai Diritti Umani.

    Consiglio d’Europa, Approcci contemporanei all’educazione alla cittadinanza europea.

    Council of Europe (2010), Recommendation of the Committee of Ministers to member stateson the Council of Europe Charter on Education for Democratic Citizenship and Human Rights Education.

    Council of Europe (2019), Edu4Europe: Education for European democratic citizenship forum - 1ST EDITION: “FUTURE VISIONS OF EUROPE”.

    Eurydice, About us.

    Eurydice (2017), Citizenship Education at School in Europe 2017.

    Eurydice (2017), Citizenship Education at School in Europe 2017 - Annexes: National Information and Websites.

    Eurydice (2018), Eurydice Brief Citizenship Education at School in Europe 2017.

    Eurydice Italia (2018), L’educazione alla cittadinanza a scuola in Europa 2017.

    Eurydice Italia (2018), Eurydice in breve. L'educazione alla cittadinanza a scuola in Europa 2017.

    Grüne P. (2017), NECE – Networking European Citizenship Education – International exchange to encourage the advancement of civic education.

    NECE, Who we are.

    Papisca A. (2010), Il Consiglio d’Europa definisce e aggiorna contenuti e metodi dell’educazione civica, Centro diritti umani - Università di Padova.

    Wikipedia, Consiglio d’Europa.

    Wikipedia, Eurydice.

    Siti web

    ► Sito multilingue del Consiglio d’Europa. La ricerca con le parole: “citizenship education”, “education civique”, segnala le numerose risorse offerte dal sito sull’argomento.

    ► Sezione in lingua inglese del sito EACEA - Education, Audiovisual and Culture Executive Agency (European Commission) dedicata a Eurydice, la rete d’informazione della Commissione Europea per la conoscenza dei sistemi e delle politiche nel settore educativo degli stati dell’Unione. Ricerche con “citizenship education”, “education civique”, “educazione civica”.

    ►Sito multilingue dell’Unione Europea. Il motore di ricerca interno consente di individuare testi/documenti/iniziative sulla citizenship education

    ► Sezione in lingua inglese del sito della Bundeszentrale für Politische Bildung – BpB riservata a NECE (rete transnazionale creata e gestita dalla stessa BpB che si dedica allo studio dell’educazione civica europea e globale). La sezione permette di accedere a numerose risorse informative e di approfondimento sulla "citizenship education".

    ► Sito in lingua inglese della European Association for the Education of Adults – EAEA. Ricerca con “citizenship education”.

    ► Sito in lingua inglese della European Association of History Educators (EUROCLIO). Ricerca con “citizenship education”.

    ► Sito multilingue della EPALE – Electronic Platform for Adult Learning in Europe (European Commission). Ricerca con “citizenship education”.

    ► Sito in lingua inglese di Lifelong Learning Platform, piattaforma di apprendimento permanente che riunisce 42 organizzazioni europee attive nel campo dell'istruzione, della formazione e della gioventù. Ricerca con “citizenship education".

  • L’educazione alla cittadinanza nel Web. Parte terza: la Germania

    di Antonio Prampolini

    Politische Bildung

    La storia dell'educazione alla cittadinanza nella Germania (Repubblica Federale) della seconda metà del Novecento è strettamente legata al processo di costruzione e sviluppo di un sistema democratico politicamente stabile e socialmente evoluto.

    Il fallimento dell'esperimento democratico della Repubblica di Weimar e la facilità con cui Hitler aveva conquistato il potere in Germania nel 1933 erano, in parte, da imputarsi ai sistemi educativi fortemente autoritari e pertanto incapaci di trasmettere i valori della democrazia. Da ciò la necessità, a partire già dagli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale e al crollo del regime nazista, nella Germania occupata delle potenze vincitrici (1945-1949), di dare corso ad un vasto programma di “rieducazione–denazificazione” del popolo tedesco.

    Dopo la caduta del Muro di Berlino (novembre 1989) e la riunificazione del paese (ottobre 1990), nelle regioni della Germania dell’Est (ex DDR) l’educazione alla cittadinanza (Politische Bildung, cioè “formazione politica”) è ritornata ad imporsi come necessario antidoto al pesante indottrinamento ideologico a cui erano stati sottoposti i tedeschi di quei territori sotto il regime comunista.

    I tre principi della Politische Bildung

    Nonostante la circolazione di idee contrastanti sul concetto e sulla pratica dell’educazione alla cittadinanza, esiste in Germania un accordo diffuso su alcuni principi di base noti come Consenso di Beutelsbach dal nome della località dove nel 1976 si era svolta una conferenza degli insegnanti delle scuole della Germania Occidentale. La conferenza aveva prodotto un documento unitario in cui venivano definite le linee guida da seguire nell’insegnamento-apprendimento dell’educazione alla cittadinanza; educazione che avrebbe dovuto essere «oggettiva e critica, libera da ogni forma di indottrinamento».

    Le linee guida erano state riassunte in tre principi/postulati. Il primo (das Überwältigungsverbot): agli insegnanti è vietato imporre le loro opinioni agli studenti; il secondo (das Kontroversitätsgebot): gli argomenti devono essere affrontati attraverso il confronto delle idee contrapposte; il terzo: lo scopo principale dell’educazione alla cittadinanza è quello di fornire ad ogni studente gli strumenti conoscitivi per poter valutare criticamente situazioni/problemi e scegliere liberamente la propria posizione in merito, sviluppando così un’autonoma e personale visione politica del mondo.

    Politische Bildung e democrazia: il Manifesto di Monaco

    Alle soglie del nuovo secolo, l’Agenzia Federale per l'Educazione Civica (Bundeszentrale für politische Bildung - BpB), e le Agenzie Statali dei singoli länder (Landeszentrale für politische Bildung - LpB), hanno redatto un documento, noto come Manifesto di Monaco (Münchner Manifest) del 26 maggio 1997, dal titolo significativo La democrazia ha bisogno dell'educazione civica (Demokratie braucht politische Bildung). In tale documento venivano indicati i contenuti, le modalità e gli obiettivi della loro azione, finalizzata a rafforzare la consapevolezza democratica dei cittadini e a promuovere la loro partecipazione attiva alla vita politica.

    Il Manifesto prendeva atto del un nuovo e difficile contesto economico, sociale, culturale in cui le Agenzie si trovavano (e si trovano oggi) ad operare; contesto caratterizzato, in particolare, dai processi di globalizzazione della produzione/offerta di beni e servizi, dalla rivoluzione digitale e dai suoi effetti sull’occupazione, dai flussi migratori di popolazioni extraeuropee e dai problemi connessi con la loro integrazione nella società tedesca, dall’inquinamento ambientale.

    Le agenzie della Politische Bildung

    In Germania sono numerose le istituzioni/associazioni/fondazioni che si occupano a vario titolo dell’educazione alla cittadinanza. Nelle scuole, a tutti i livelli di istruzione, l’educazione alla cittadinanza è strutturata come insegnamento specifico, a cui, nelle maggior parte dei casi, non viene dedicata più di una ora alla settimana. I contenuti, le modalità didattiche, le appartenenze disciplinari dei docenti possono differire nei 16 länder che compongono lo stato federale. A ciascun länder infatti compete la gestione della politica scolastica nel proprio territorio.

    Tra le istituzioni pubbliche non scolastiche, particolarmente importante, ampia e articolata è l’attività svolta dall’Agenzia federale per l’educazione civica (Bundeszentrale für politische Bildung – BpB). L’Agenzia, che fa parte del Ministero Federale degli Interni, è stata fondata nel novembre del 1952 e offre da decenni un utile supporto a tutti coloro che operano nel settore dell’educazione alla cittadinanza, pubblicando testi/documenti/materiali didattici su argomenti generali (come storia, democrazia, società, economia, cultura, media e istruzione) e su temi specifici attinenti la vita politica tedesca ed europea, organizzando corsi di formazione e seminari/conferenze per insegnanti e ricercatori, viaggi della memoria per studenti e cittadini, promuovendo reti professionali (tra queste, in particolare, Networking European Citizenship Education – NECE), affrontando le problematiche connesse all’uso dei social media.

    FONTI

    ARTICOLI ONLINE

    Detjen J., Politische Bildung, Konrad Adenauer Stiftung.

    Kalina A. (2014), Faktensammlung zum Stand der Politischen Bildung in Deutschland, Konrad Adenauer Stiftung, 2014,

    Lange D. (2015), Citizenship Education in Germany, in The Making of Citizens in Europe - III. Perspectives on Citizenship Education: Country Profiles.

    Lange V. (2018), Politische Bildung in der Schule – ein Statusbericht, Friedrich Ebert Stiftung.

    Massing P. (2015), Bundes-und Landeszentralen für politische Bildung.

    Wikipedia, Bundeszentrale für politische Bildung (BpB).

    Wikipedia, Denazification.

    Wikipedia, Landeszentralen für politische Bildung.

    Wikipedia, Politische Bildung.

    SITI WEB

    ► Sito della Bundeszentrale für politisce Bildung (Agenzia federale per l'educazione civica). Il sito bilingue (tedesco e inglese) affronta il tema dell'educazione alla cittadinanza in una prospettiva nazionale, europea e internazionale, offrendo agli interessati una vasta gamma di risorse riguardanti sia il mondo scolastico che extrascolastico. È diviso in sezioni: Politik, Internationales, Geschichte (Storia), Gesellschaft (Società), Nachsclagen (Ricerche), Veranstaltungen (Eventi), Lernen (Apprendimento), Mediathek.

    ► Da visitare anche i siti delle 16 Landeszentrale für politische Bildung (Agenzie regionali per l'educazione civica): Bayern, Berlin, Brandeburg, Hessen, Baden-Württemberg, Schleswig-Holstein, Bremen, Hamburg, Mecklenburg-Vorpommern, Nordrhein-Westfalen, Rheinland-Pfalz, Saarland, Sachsen-Anhalt, Thüringen, Niedersachsen, Sachsen.

    ► Sito della Friedrich-Ebert-Stiftung, fondazione collegata al Partito Socialdemocratico (SPD), che permette di accedere ad un'ampia documentazione in materia di educazione civica (politische bildung).

    ► Sito della Konrad-Adenauer-Stiftung, fondazione collegata all'Unione Cristiano Democratica (CDU) che contiene diverse fonti attinenti all'educazione civica (politische bildung).

    ► Sito Politische Bildung in Schule und JugendArbeit, portale per insegnanti e studenti dedicato all'educazione alla cittadinanzahe propone Dossier sulle principali questioni del tempo presente; tra questi: Digitalisierung und Democratie, Populismus und Nationalismus, Islamistische Terroranschläge auf Europa.

  • Le Giornate civiche

    di Antonio Brusa

    Immagine1  Inizia lunedì 13 dicembre, all’IC6 di Modena, una sperimentazione di Educazione Civica diversa, credo, dalle moltissime che le scuole italiane stanno provando, trasformando a volte in un’occasione di crescita uno degli aspetti più deludenti della legge 92/2019, secondo il quale la nuova disciplina va insegnata senza oneri né personale aggiuntivi. Nella maggior parte delle situazioni che conosco, ogni materia ha riservato all’Educazione civica qualche ora, in modo da raggiungere le 33 previste. Molte di meno sono le scuole che hanno progettato formule diverse, come per esempio le “settimane di studio”, durante le quali tutte le discipline si concentrano su questo o quel tema.

    Il progetto modenese si articola in “Giornate civiche”. Tre ogni anno, ciascuna su un tema scelto all’interno di quelli segnalati dalle Linee Guida: ma non solo, come si vede dal programma di quest’anno che prevede una giornata dedicata a Memoria e Cittadinanza. Si ispirano, queste giornate, alla prima legge sull’EC italiana, quella promossa da Aldo Moro nel 1958. Secondo questa legge, l’EC è una disciplina ibrida che si articola su tre livelli:

    a. Quello istituzionale, della scuola come comunità di insegnanti e docenti

    b. Quello multidisciplinare, dal momento che l’Ec è una dimensione presente in ogni materia

    c. Quello specifico della storia, dal momento che la formazione del cittadino non può essere privata della dimensione politica, e quindi dell’analisi di istituzioni, ordinamenti e comportamenti, valori che nascono dentro la storia, e in particolare (sosteneva Moro) della storia contemporanea.

    Di conseguenza, il progetto prevede momenti nei quali la scuola “insieme” lavora sull’Ec e momenti separati di lavoro nelle classi. I tre temi, scelti per quest’anno, sono: i diritti umani, memoria e cittadinanza, la Terra. Ogni tema è gestito da un gruppo diverso di docenti, che approntano i materiali preparatori, danno le linee guida per le esercitazioni in classe e curano la valutazione delle prove finali. Ma la “lettura” dei temi, cioè il taglio da dare ad ogni intervento, è collettiva ed è centrata sulla storia. I “diritti umani” non nascono come funghi, partoriti da menti benevole, ma sono il frutto tormentato di rivolgimenti che attraversano l’intera vicenda umana. La Terra non è un soggetto separato dall’Umanità, che questa deve rispettare perché è ben educata, ma il luogo dove si è formata, dove vive e deve continuare a vivere. Così come le diverse giornate della Memoria possono essere accorpate in una riflessione comprensiva sul fatto che le politiche della memoria sono diventate uno degli strumenti più adoperati dagli stati, o da organizzazioni sovranazionali, come l’EU o l’ONU, per formare i propri cittadini.

    Ogni Giornata è preceduta da una fase preparatoria, svolta nelle singole classi, su materiali raccolti dal gruppo organizzatore. La giornata, poi, si scandisce in questo modo: una Lectio (che può essere svolta anche da esperti esterni) alla quale assistono tutte le classi (in tempo di Covid: parte in presenza, parte in remoto); una fase di discussione nelle proprie classi, coi propri docenti. In un giorno successivo si prevede l’elaborazione di un compito. Sono contemplate articolazioni differenti per la secondaria e per la primaria. Il tutto per undici ore di lavoro.

    Non so se il MI ha previsto un monitoraggio delle miriadi di soluzioni adottate dalle scuole. Sarebbe un’occasione unica per verificare le loro capacità organizzative e progettuali e quali sono le idee circolanti sull’EC. Per quanto riguarda questo progetto, una volta messo a punto, provvederemo a comunicarlo ai colleghi sia attraverso HL, sia nella rete LabSto21, che si occupa della messa in opera di un curricolo di storia (e ora anche di EC) concreto e sostenibile.

    Bibliografia

    Per quanto riguarda gli aspetti “teorici” di questa sperimentazione, si veda Antonio Brusa, Un’educazione civica critica. Il rapporto con la storia, in “Scuola Democratica”, 2021 https://www.rivisteweb.it/issn/1129-731X/issue/8212 . HL è intervenuta molte volte su questo tema. In particolare, per quanto riguarda l’analisi della legge 92, si veda Del Pasticcio dell’educazione civica e dei suoi legami ambigui con la storia http://www.historialudens.it/geostoria-e-cittadinanza/332-del-pasticcio-dell-educazione-civica-e-dei-suoi-legami-ambigui-con-la-storia.html
    Per informazioni scrivere a Simona Ansaloni: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

     

  • Le migrazioni fra dibattito pubblico e didattica in classe

    Autore: Antonio Brusa

     

    Introduzione

    Abbiamo lavorato un anno intero, ad Alessandria, sul tema delle migrazioni. Un bel gruppo di scuole, organizzate dall’Isral (Istituto per la storia della resistenza di Alessandria), guidato da Luciana Ziruolo. Il materiale, composto da alcune riflessioni storico-pedagogiche, dallo studio di caso, provato in decine di classi, e dalle valutazioni sulla sua efficacia, è stato pubblicato in volumetto: Didattica. Storia. Intercultura. Una sperimentazione nella provincia di Alessandria (Falsopiano, Alessandria 2015). Qui ne riporto il mio contributo, con alcune modifiche, in modo che – insieme agli altri articoli su questo argomento pubblicati su HL – il docente abbia a sua disposizione un panorama ampio della questione, dagli aspetti teorici, come in questo caso, alle applicazioni pratiche come nei lavori didattici che troverete nel sito.


    Indice

    La migrazione diventa un tema centrale del dibattito pubblico
    Il dibattito pubblico elimina la complessità del fenomeno
    La sottovalutazione politica del fenomeno migratorio
    La sottovalutazione didattica
    La migrazione odierna e la “fine dei territori”
    Un dilemma che attraversa la scuola
    La mobilità non è un’eccezione della storia
    La migrazione odierna e l’educazione civile

     

    La migrazione diventa un tema centrale del dibattito pubblico

    Barconi gremiti di uomini scivolano davanti ai nostri occhi, quando parliamo di migrazione. Impossibile fermarli nel pensiero, come impossibile è arrestarne in mare la flotta. Sono l'icona di un fenomeno le cui proporzioni angosciano tutti. Noi, come il resto del mondo. Appena una quindicina di anni fa si sosteneva che il disorientamento degli italiani fosse dovuto al fatto che, da paese di emigranti quale fu e aveva ormai dimenticato di essere stato, era improvvisamente diventato una meta di immigranti. Era una società impreparata, si disse, a differenza delle popolazioni dell'Europa del nord che, al contrario, avevano avuto il tempo di approntare strutture sociali, economiche e mentali per fronteggiare il flusso degli stranieri, fra i quali centinaia di migliaia di nostri connazionali. Le reazioni odierne mostrano che la paura di essere sommersi da uno tzunami umano coinvolge senza distinzione paesi di vecchia e di nuova immigrazione.

    La dimensione del fenomeno è tale che ha spiazzato il repertorio argomentativo, elaborato nel  dibattito pubblico novecentesco, in Europa come in Italia. Me ne accorgo leggendo il manualetto di Pierre-Yves Bulteau, En finir avec les idées fausses propagées par l'extrême droite (Les éditions de l'Atelier, 2014), una raccolta di argomentazioni di sinistra, sollecitata dalla grande avanzata dell'estrema destra in Francia. Questo libro mostra come l'intero fronte dell’opposizione fra "reazionari" e "progressisti" si sia dislocato pienamente nel campo della migrazione. I temi tradizionali della polemica fra destra e sinistra (libertà/autorità, estensione dei diritti civili, femminismo o diritti dei lavoratori) occupano poche pagine. La quasi totalità del nuovo "prontuario per la discussione pubblica" è focalizzata sul tema della migrazione: l'accoglienza, l'incidenza degli stranieri sul lavoro, sull'identità nazionale, le difficoltà di convivenza civile, ecc.


    Il dibattito pubblico elimina la complessità del fenomeno

    La destra coglie un'angoscia diffusa delle popolazioni europee. La sinistra risponde con una batteria analitica di argomenti: smonta qualche preoccupazione come quella della concorrenza sul posto di lavoro, ne attenua altre, come nel caso dell'ordine pubblico, alcune le rovescia (come per esempio quella sul razzismo degli stranieri nei confronti dei locali), di altre ne sposta le cause (non è colpa dell'emigrazione, ma delle politiche internazionali neoliberali). Fa largo uso di cifre e largo appello ai valori della solidarietà, in un contrasto speculare con i valori dell'identità, sostenuti dalla destra. Al dunque, le due tesi si attestano su azioni politiche elementari: respingere o accogliere. Una contrapposizione che riflette le antinomie primordiali fra bontà e cattiveria; fra egoismo e altruismo. Così rozze nella loro elementarità, da metterci in guardia: lungo questo fronte non si costruisce nessuna politica e, per quanto riguarda i compiti della scuola, nessuna didattica.

    Quando si parla di migrazione, dunque, sembra instaurarsi una sorta di parallelismo fra le scissioni dell'opinione pubblica e le pratiche dell'insegnamento. Ciò avviene sia perché il fenomeno migratorio è uno dei temi caldi, una delle "questioni sensibili", al centro delle attenzioni degli studiosi di didattica della storia ormai da tempo; sia perché le strutture dell'argomentazione transitano con grande facilità dal campo del quotidiano a quello dello studio. Ne deriva la sensazione spiacevole di non riuscire a scorgere una differenza apprezzabile fra un lavoro sull'emigrazione, svolto in classe, e una discussione in famiglia o al bar, in un talk show o nella contesa politica. L'alternativa secca e inevitabilmente tendente al moraleggiante, fra accoglienza e respingimento, ne è, a mio parere, una delle prove più evidenti. Ma forse proprio questo problema, uno dei più insidiosi nei processi di formazione, ci permette di intuire una strada didattica capace di aggredire in profondità il fenomeno, perché attraverso la messa a fuoco delle le analogie e delle differenze fra discorso pubblico e scientifico si riescono a intravvedere strategie di formazione più aggressive ed efficaci.


    Stereotipi diffusi sulla migrazione

    Una riprova della osmosi fra discorso pubblico e pratica didattica può essere verificata dal docente con un semplice lavoro di ricognizione delle preconoscenze (quello che nella vulgata didattica si chiama ormai brainstorming). Si vedrà, quasi certamente, l’emergere di qualcuno di questi stereotipi diffusi, che qui riporto nella versione di Cesare Grazioli. Su Novecento.org e su Historia Ludens


    1.    “Le migrazioni sono un fenomeno anomalo, la regola dovrebbe essere che ognuno stia a casa propria!”

    2.    “Siccome gli immigrati arrivano a causa della povertà e del sottosviluppo dei loro paesi, il rimedio è di favorire lo sviluppo interno dei paesi del Sud, cioè aiutarli a non avere bisogno di emigrazione”

    3.    “Qui in Italia si fanno pochi figli, mentre gli immigrati vengono da paesi dove ne fanno tanti, come l’Africa, perciò ci sommergeranno, l’Italia perderà la sua identità e in poche generazioni saremo tutti neri!”

    4.    “Con tutta la disoccupazione, soprattutto giovanile, che c’è in Italia (e nei paesi europei mediterranei),non è possibile accettare l’immigrazione, che toglie il lavoro a noi italiani”

    5.    “Qui in Italia (o in Europa) siamo già in troppi: non solo non c’è spazio per accogliere altra immigrazione, ma anzi, sarebbe meglio che la popolazione calasse; ne guadagnerebbe anche la qualità dell’ambiente.”


    La sottovalutazione politica del fenomeno migratorio

    La sottovalutazione mi sembra una caratteristica che accomuna discorso didattico e pubblico. E' una consapevolezza, questa, che comincia a farsi largo anche nei media: se ne fa interprete, ad esempio, Ernesto Galli della Loggia in un suo editoriale nel "Corriere della Sera". Nel pubblico, la sottovalutazione si mostra laddove si lascia intendere che esista un numero ristretto di soluzioni immediatamente efficaci (leviamo di mezzo i barconi; costruiamo più campi di accoglienza all'estero;  e, per contro, mettiamo a punto un'accoglienza più umana...). Questa sottovalutazione è consolatoria, perché autorizza la speranza che si tratti di un fenomeno episodico o tutt'al più contingente. Quindi risolvibile – per la destra come per la sinistra - con provvedimenti puntuali e limitati nel tempo, il che vuol dire con risorse contenute, rispetto a quelle che vanno, invece, destinate ai problemi di fondo delle nostre società.  


    La sottovalutazione didattica

    A questa sottovalutazione pubblica corrisponde, nel discorso scolastico, l'abitudine a ridurre il tema della migrazione ad un'apposita unità didattica; oppure a risolverlo nella questione dell'accoglienza dell'eventuale immigrato; oppure, ancora, ad confinarlo nel curricolo parallelo dei progetti a latere del curricolo formale, in una delle tante “educazioni” che stanno progressivamente spogliando le discipline tradizionali della loro capacità di mettere in discussione gli aspetti più inquietanti della realtà.

    La sottovalutazione trae origine, anche, da un errore intellettuale: quello di considerare il fatto migratorio come un accidente spiacevole dei nostri tempi. Una valutazione corretta, invece, dovrebbe muovere dalla constatazione che si tratta di un fatto strutturale. Al fondo del fenomeno migratorio, infatti, ci sono rivoluzioni straordinarie, che riguardano le coordinate storiche fondamentali: lo spazio e il tempo. Dal punto di vista dello spazio, vediamo che i “territori” si connettono in un continuum mondiale, e che sempre più gli individui fanno coincidere l'orizzonte di risoluzione dei propri problemi con quello planetario. A questa rivoluzione spaziale corrisponde un'altrettanto violenta rivoluzione temporale, che genera un tempo diverso, talmente ben delineato, da imporsi come una delle chiavi di volta della costruzione didattica del passato e della definizione del presente.

    In estrema sintesi, potremmo descrivere questa rivoluzione con queste parole:

    "Nel corso dell'età moderna gli europei appresero a risolvere i loro problemi all'interno di territori ben definiti: gli Stati. Fra Ottocento e Novecento questi territori hanno cominciato ad rivelarsi insufficienti. Milioni di europei hanno deciso di affrontare la questione della propria sopravvivenza negli spazi mondiali. Non fu una necessità unicamente europea. Contemporaneamente, infatti, si attivavano altri due focolai migratori: l’India e la Cina. Negli ultimi decenni del Novecento, questi tre focolai tradizionali di migrazione si sono sfrangiati e moltiplicati, diffusi nel mondo. Oggi, al principio del secolo XXI, la "mobilità nel pianeta" si propone come un'opzione per sette miliardi di persone".


    La migrazione odierna e la “fine dei territori”

    Per quanto essenziale, questo racconto mette in risalto alcuni problemi storico-didattici di grande rilevanza, non solo per la formazione storica ma anche per quella alla cittadinanza. Il prima, "il mondo che abbiamo perduto", per riprendere il titolo di un vecchio libro di Peter Laslett (Jaka book, 1973), fu caratterizzato da quel processo che molti storici chiamano "la formazione dei territori".

    E' un processo che prende le mosse dal cuore del Medioevo, intorno al X-XI secolo, quando i multiformi centri di potere riuscirono ad affermare il loro controllo su terre, che fino ad allora erano state semplicemente in loro possesso.  Si definì nell'età moderna, a partire dal XVI secolo, con la creazione dei territori europei (gli Stati moderni) e delle loro componenti: strutturali (istituzioni, governo, leggi) e umane, il cittadino con il suo corredo di diritti e doveri. All’interno degli Stati si elaborarono i dispositivi ideologici per la comprensione del mondo ma anche per la produzione scientifica e per la formazione dei cittadini. E, per quello che riguarda da vicino gli insegnanti, è dentro questo processo che nasce la storia, nel suo doppio ruolo di disciplina scientifica e formativa.

    E' dunque, ai "territori" che noi leghiamo l'insieme dei problemi connessi con il tema dell'emigrazione e che, potremmo dire, sono il succo di ogni educazione civile: chi ha diritto a vivere in un determinato territorio? Quali sono le norme per trasferisi da un territorio all'altro? Quali sono i costrutti culturali, necessari per vivere in un determinato territorio e quali le norme e le abitudini che ne regolano la convivenza degli abitanti?

    Per converso, il dopo potremmo definirlo, sulla falsariga di Bertrand Badie, "La fine dei territori" (Asterios, 1996). E' il momento storico, lungamente preparato nel Novecento, nel quale il potere degli Stati sugli elementi costitutivi del proprio territorio viene meno o comincia a indebolirsi, dal dominio sull'ambiente, al controllo dei flussi di ricchezza e di uomini, alla costruzione della "famiglia nazionale" dei sudditi prima e dei cittadini poi. E' questo insieme di dispositivi che entra in crisi, nel corso del Novecento, lasciando a noi l'immane compito di rivederli e aggiornarli. Un compito che dobbiamo affrontare comunque (migrazione o no) e il cui costo è enorme, sia se lo osserviamo dal punto di vista dei conservatori sia da quello dei progressisti.
     
    Perciò, il cambiamento investe prepotente anche il campo della formazione, soprattutto quello della formazione storica. Pone domande stringenti alle sue strutture di base (scopi, contenuti e metodi), per come furono elaborate nel corso della formazione degli stati ottocenteschi, sulla loro reale efficacia nella situazione odierna. Questa considerazione, apparentemente teorica e lontana da quelle che il docente considera le urgenze del quotidiano, è talmente pressante che si manifesta ogni volta che si tenta di sperimentare qualche innovazione, come, in questo caso, “il tema della migrazione”. Ogni volta, infatti, dietro la denuncia del tempo che manca e che è sempre troppo poco, si intuisce una sorta di rigetto, messo in atto dal dispositivo didattico vigente.


    Un dilemma che attraversa la scuola

    Non si tratta di peculiarità italiane, né di casi locali. Pressocché in tutte le nazioni è ormai di prassi il dibattito fra i sostenitori della conservazione e i ricercatori di nuovi assetti didattici. In Italia, poi, l'alternanza dei governi di centro-destra e di centro sinistra ha mostrato magnificamente la diversità e la distanza fra le due opzioni. La destra (Moratti-Gelmini), infatti, ha prodotto un programma dalla chiara matrice nazionale (2003) finalizzato alla costruzione diffusa di un' "identità giudaico-cristiana", evidentemente da far assimilare a tutti, nativi italiani e stranieri. La sinistra ha elaborato un' ipotesi di programma di storia mondiale (De Mauro 2001) e programmi di storia multiscalari per la scuola di base (Fioroni-Profumo 2007 e 2011), con una parte di storia mondiale obbligatoria per tutti, e quadri di storia a scale più ridotte, da scegliersi a seconda delle programmazioni locali, con l'invito a un largo uso di strutture di insegnamento diverse dalla lezione (dai laboratori, agli studi di caso, alle indagini sul territorio ecc).  La constatazione che un'oscillazione così marcata sia pressocché ignota agli insegnanti è la palese dimostrazione del fatto che la messa in opera dei due programmi è talmente costosa, che non è stata presa in seria considerazione dall'Amministrazione, che si è limitata, nel corso dell’ultimo quindicennio, a progetti di aggiornamento limitati e tutto sommato ininfluenti.


    La mobilità non è un’eccezione della storia

    Nella visione storica dei programmi tradizionali  - ancora largamente, per quanto inconsapevolmente, condivisa dai docenti – la vicenda italo-europea è "la storia normale". Tutto ciò che si propone di diverso, come in questo caso la migrazione, costituisce una sorta di "interruzione di percorso".

    Ora, proprio il caso della mobilità umana dimostra la fallacia di questa convinzione. Ciò  che noi pensiamo come "modello normale" (l'Europa degli Stati e dei cittadini), in realtà, è un eccezione, una sorta di luogo esotico, nell’ “enciclopedia delle storie”. La traiettoria della cronologia ci mostra che questa "normalità" ebbe un prima, costituito dall'Europa medievale, un'area di intensa mobilità, i cui centri di sedentarietà (città e villaggi) furono caratterizzati da una forte inclusività, certamente fino al XIII secolo. Anzi: secondo i teorici del Global Middle Age, fino a tutto il XVI secolo . Ed ebbe un dopo, nel quale l'Europa degli Stati cedette il passo a un doppio territorio, uno – l'Unione Europea - caratterizzato da una quasi totale mobilità interna, che costituisce una frazione notevole dell'attuale movimento migratorio; l'altro frammentato in una pluralità di stati contrassegnati da una forte mobilità in uscita.

    L'identica sensazione di estrema particolarità della "normalità europea" la otteniamo, ancora, se inseriamo il nostro subcontinente in un quadro mondiale. Non solo perché, come abbiamo accennato sopra, per tutta l'Età moderna furono tre i centri di espansione demografica planetaria (e l’Europa fra questi); ma perché l'intera vicenda della specie umana mostra come il suo evolversi sia caratterizzato dal gioco continuo fra mobilità e sedentarietà; fra i processi di deriva genetica e culturale, connessi con la separazione dei gruppi umani, e quelli inversi del meticciato, connessi con le diverse modalità dell’interazione umana (su questo si veda Manning, Migration in World History, Routledge 2013). La ricerca storica, dunque, ribalta il senso comune: la   "normalità" è un mondo nel quale la migrazione è contemplata fra le possibilità dell'esistenza. L'Europa degli Stati, con il disciplinamento rigoroso degli spostamenti, è una autentica interruzione di questa "normalità".

    Trasferiti nella concretezza del curricolo, questi ragionamenti ci inducono a pensare che la migrazione non può essere trattata come un incidente saltuario (se ne parla a proposito di indoeuropei, barbari medievali, migranti italiani e extracomunitari). Essa è un elemento strutturale della vicenda umana sul pianeta terra. Quando giunge una crisi (alimentare, demografica, politica o ambientale), l'alternativa di fondo si ripresenta inderogabile: morire o spostarsi. Questa alternativa si articola sia all'interno delle aree definite dalla politica o dalla cultura (per esempio all'interno dell'Impero romano, o nel mondo ellenico), sia fra regioni vicendevolmente esotiche (per esempio, fra Europa e America). Ad ogni spostamento, ai gruppi umani si pone la questione della convivenza fra diversi che, a sua volta, ci consegna una gamma pressocché infinita di soluzioni, pacifiche o conflittuali: dalle città doppie dell'antichità mediorientale, a quelle aperte del medioevo europeo, a imperi tolleranti e no, alle città munite di ghetti, inaugurate nella nostra modernità, alla strage dei nativi, come nel caso della Conquista dell’America, al melting pot delle città americane del Novecento.


    La migrazione odierna e l’educazione civile

    Tuttavia, proprio il confronto dei fatti che viviamo con la strutturalità del fenomeno migratorio, mette in evidenza le caratteristiche peculiari dei nostri giorni. Queste emergono in un forte intreccio con gli altri elementi costitutivi della storia mondiale novecentesca, quali: la sbalorditiva crescita demografica, che in un secolo ha portato gli umani da una parte a moltiplicarsi per sette, dall'altra a occcupare la terra in modo totalmente squilibrato (su questo rinvio al lavoro che Cesare Grazioli ha ricavato dalle ricerche fondamentali di Livi Bacci, citato sopra); l'inedito rapporto con l'ambiente che questa massa umana instaura col mondo globalizzato; l’abbattimento dei costi del trasporto;  la distribuzione tragicamente ineguale delle ricchezze e il retaggio del colonialismo europeo; fino a portati della storia più recente, fra i quali la proliferazione delle "nuove guerre" e la debolezza politica delle Organizzazioni internazionali.

    Comprendere il fenomeno migratorio, dunque, consisterà nella capacità di ricostruire questo intreccio di fattori, di breve e lungo periodo. Di capire che l’attuale processo migratorio fa parte del faticoso tornante storico, attraverso il quale stiamo entrando nel mondo del XXI secolo.

    Questa consapevolezza non porterà i docenti, né tantomeno gli allievi, a elaborare soluzioni miracolose. Potrebbe metterli entrambi, invece, in grado di valutare la credibilità di quelle circolanti, di destra o di sinistra. Di capire se costituiscono degli impegni di prospettiva lunga, delle soluzioni limitate, oppure delle operazioni di propaganda. La percezione viva della novità del nostro mondo, e in questo del tema della migrazione, sarà il miglior antidoto contro i luoghi comuni del dibattito pubblico.

    A loro volta, gli insegnanti dovrebbero cominciare a formulare strategie articolate nella cosiddetta educazione interculturale. Lo sconvolgimento provocato da questi fenomeni è tale da aver favorito la rapidissima comparsa di una enciclopedia di stereotipi, con la quale la società tenta di comprendere un fenomeno che le appare nuovo e distruttivo. E’ dunque illusorio pensare di modificare questi costrutti con “l’unità didattica interculturale”. Si tratta di un lavoro difficile e lungo, perché, da una parte, come abbiamo visto, implica una buona revisione del modo con il quale guardiamo il passato in genere; dall’altra mette in crisi degli strumenti di vita quotidiana, quali in definitiva sono gli stereotipi sulla migrazione, ai quali gli allievi sono tenacemente attaccati.

    Il sentirsi, infine, dentro un processo comune - gli allievi come gli insegnanti, gli stranieri come gli italiani - potrebbe far capire a tutti che in gioco non è soltanto la convivenza ordinata nel presente (un bene che dovrebbe essere condiviso), quanto piuttosto la progettazione di un futuro che già richiede la compartecipazione di tutti.

    In questa somma di consapevolezze, probabilmente, consiste l'apporto all'educazione civile che la conoscenza storica può offrire.

  • Palatucci. Ricerca storica e storie alternative

    di Antonio Brusa

    1. Il canale di Fiume

    Non esiste alcuna evidenza, documentaria e storiografica, del “canale di Fiume”, quel sistema di soccorso degli ebrei che avrebbe permesso a Giovanni Palatucci, capo dell’Ufficio-Stranieri della questura di Fiume, di salvare cinquemila vite umane, nel corso della seconda guerra mondiale. Questa è la conclusione del lavoro paziente di verifica, che Michele Sarfatti ha condotto, partendo dall’articolo che sostanziò di credibilità storica la saga dello “Schindler italiano”: quel saggio di Antonio Luksic Jamin, apparso sulla rivista del Movimento di Liberazione (oggi «Italia Contemporanea») nel 1955, nel quale si descriveva l’operazione di salvataggio di massa, attuata da Palatucci a rischio della sua vita. Un episodio del quale erano circolate fino ad allora notizie sporadiche, ma dietro il quale si celava un’amara verità. Giovanni Palatucci era un funzionario dello stato realmente a rischio: tanto che venne accusato di tradimento per collusione con il nemico e internato a Dachau, dove morì all’età di 36 anni.

    Fotomontaggio di francobollo commemorativo1 – Francobollo commemorativo del 2009, in un fotomontaggio del «Giornale della Numismatica», intitolato a un Giusto da non dimenticare

    Quell’articolo restò negli archivi per oltre venti anni. Verso la fine degli anni ’70 del secolo scorso, fu ripreso da storici amatoriali, ripubblicato e ampliato. La sua vicenda acquistò notorietà col passare del tempo. Nel 1990 Palatucci fu proclamato “Giusto tra le nazioni” dallo Yad Vashem. E, nei rivolgimenti della politica italiana al principio di questo secolo, la sua storia non mancò di eccitare gli animi. Ne nacquero controversie pubbliche fra i sostenitori di un eroe italiano che poteva affiancarsi al più noto Giorgio Perlasca, e quelli che, al contrario, cominciavano a dubitare della credibilità della vicenda.

    Il racconto, nel frattempo, prendeva la strada dei media. “Chi l’ha visto?”, la popolare trasmissione dedicata ai fatti di cronaca più inquietanti, inaugurava gli interventi ospitando un documentario di Giuseppe Rinaldi, "Il questore di Fiume". Il documentario era stato presentato ufficialmente alla Scuola Superiore di Polizia di Roma, alla presenza del presidente della Rai e del rabbino capo di Roma Elio Toaff, che non mancarono di far cenno alle astuzie e ai mezzi semileciti, utilizzati da Palatucci per realizzare i suoi propositi. La Rai intervenne più volte, sempre esaltando la figura del martire. Gli dedicò un documentario all’interno della serie “La Storia siamo noi”, diretto da Maurizio Malabruzzi, nel quale Gianni Minoli intervista dei “testimoni oculari” della vicenda, denuncia il “lungo e delittuoso silenzio” che l’ha occultata, ma – come viene notato dagli interventi nella chat, alcuni dei quali ricordano la rimozione, che nel frattempo era avvenuta, di Palatucci dall’elenco dei Giusti tra le nazioni – non ne presenta alcun documento.

    Il promo del film Senza Confini2 – Il promo del film Senza Confini sull’ “eroe italiano che salvò migliaia di vite”, messo in onda da Rai1 in occasione del Giorno della Memoria del 2013

    Per chiudere, Rai1 produce “Senza confini”, film diretto da Fabrizio Costa. «Molti, specialmente i più giovani, non sanno ancora chi è Palatucci, peraltro assente da qualsiasi libro di storia», si spiega nella presentazione del film, nella quale Chiara Caselli, che interpreta il ruolo della protagonista femminile, mette in evidenza il rapporto speciale che quest’opera vuole avere con la storia: «Recitare un ruolo ispirato ad un personaggio reale – dichiara – è per me un piacere istintivo».

    2. Sostenitori e contrari

    Ma la battaglia è già divampata. «Lo Schindler italiano che collaborava con i nazisti», titolava «la Repubblica» nel 2013, riprendendo con tempestività straordinaria l’articolo, apparso il giorno prima sull’«Independent»; subito rintuzzata dall’«Avvenire», che invece metteva l’accento sulla mancanza delle fonti di accusa contro Palatucci. Bufale e controbufale: si getta nella mischia «Il Fatto Quotidiano», che spara ad alzo zero contro chi aveva costruito la «bufala dello Schindler nazista», servendosi del lavoro di Nazareno Giusti, scrittore e fumettista, che «ha ripercorso la storia del funzionario di polizia attraverso le interviste a chi l’ha conosciuto e studiato».

    Gli schieramenti erano compositi e qualificati. Da una parte, troviamo Giovanni Paolo II, per il quale Palatucci era un martire. Con lui, i sostenitori della sua canonizzazione, ma anche istituzioni laiche, fondamentali per la memoria storica italiana, come l’Anpi. Di contro, diversi esponenti della comunità ebraica, che mettevano in luce la responsabilità di Palatucci nella deportazione di centinaia di ebrei. Leggendo le chat del tempo, si notano lo sconcerto e il disorientamento, quelli che, a loro dire, avevano già annusato l’inganno, e (come accade in questi circuiti comunicativi) anche le esecrazioni e le prese di posizione violenta.

    «Inviterei ad una maggiore prudenza prima di esprimere giudizi affrettati. Lasciamo lavorare gli storici». Michele Sarfatti, del Centro di Documentazione Ebraica, che è una della massime autorità della ricerca storica sul campo, parla giustamente della necessità di verificare i dati. Con queste parole, "gbocca" cercava di calmare gli animi, intervenendo nella chat seguita all’articolo su «la Repubblica», ricordato sopra.

    3. La parola agli storici

    A questo accertamento ci si è avvicinati per gradi. Di una «ricerca condotta da studiosi americani» informava storiain.net, che riportava analiticamente i risultati favorevoli, ma elencava anche i dubbi. Quasi contemporaneamente, Natalia Indrimi, direttrice del «Centro Primo Levi» di New York forniva notizie del tutto critiche, provenienti anch’esse da ricerche americane. Spiegava, inoltre, il contesto nel quale questo mito era stato creato: «La vicenda di Palatucci nasce in un momento in cui ovunque si sentiva la necessità di un “dopoguerra conciliatorio” (…) la Chiesa doveva scrollarsi di dosso il sospetto del silenzio, lo Stato italiano era uscito dalla guerra senza fare i conti con il fascismo e avrebbe aspettato 50 anni prima di fare i conti con le leggi razziali; Israele a sua volta, era uno stato giovane, isolato, con il bisogno di crearsi delle alleanze, degli amici… In questo contesto Palatucci, salvatore degli ebrei, era una storia “condivisibile” (e utile) a più livelli».

    Un periodo, il dopoguerra, fortemente bisognoso di eroi. Ce lo descrive Tommaso Caliò, mostrando come la Chiesa tenta di costruire un pantheon di martiri cattolici, da opporre ai martiri della Resistenza comunista, perché, al contrario di questi, santi di pacificazione (I santi della Resistenza. Nascita e sviluppo di una proposta agiografica dal dopoguerra al pontificato wojtiliano, in «Italia Contemporanea», aprile 2017, n. 283, pp. 41 ss). E Palatucci è cattolico, come ricordano costantemente le sue biografie, e nipote di un vescovo che svolge un ruolo sia nella storia del salvataggio degli ebrei, sia nella costruzione della sua memoria.

    Due eroi cattolici3 – «I giovani ne sanno poco. La scuola non li aiuta a capire». Due eroi cattolici, Giovanni Palatucci e Sabato Martelli Castaldi, uniti nella commemorazione (1996)

    Nel frattempo Michele Sarfatti ha terminato la sua indagine. Questa viene pubblicata nel medesimo numero di «Italia Contemporanea», nel quale leggiamo il saggio di Caliò Un articolo del 1955 su 5.000 ebrei croati salvatisi per mezzo del “canale di Fiume” diretto da Giovanni Palatucci. Una verifica storiografica e documentaria (pp. 147-181). Il lavoro di Sarfatti ci offre due certezze: la storia del salvataggio di massa, allo stato della documentazione, è da considerarsi inventata; al contrario, la documentazione testimonia di centinaia di ebrei, respinti alla frontiera, quando non catturati dalle forze di polizia italiana e inviati a morire nei campi di sterminio. «La verifica documentaria delle affermazioni di Luksich su “5.000” ebrei entrati a Fiume nella Croazia tramite un “canale” coordinato o “diretto” dal capo dell’Ufficio stranieri della Questura di Fiume Giovanni Palatucci si conclude con un esito negativo: quelle affermazioni non sono suffragate da fonti documentari rintracciabili e sono incompatibili con quanto contenuto nelle fonti documentarie rintracciate» (p. 180).

    Quindi: non esistono testimonianze a supporto di operazioni collettive di salvataggio. Quelle che esistono provano, invece, la partecipazione italiana alle operazioni di sterminio.

    4. Gli stereotipi colti

    Quasi in concomitanza con la pubblicazione dell’articolo di Sarfatti, su «La Stampa» Amedeo Osti Guerrazzi elenca «i miti, le leggende, le grossolane falsificazioni, che vengono riprese periodicamente da storici improvvisati che promettono di rivelare “la vera verità”, o “le verità nascoste” della storiografia “ufficiale”». Il mito di Palatucci sembra rientrare, appunto, in un corposo dossier mitografico, costruito sulle vicende sanguinosissime che caratterizzarono l’immediato dopoguerra (e sulle quali, credo, sia obbligatoria la lettura di K. Lowe, Il continente selvaggio, Laterza 2014). Secondo Osti Guerrazzi, ne fanno parte le storie inventate “accumulatesi sulla strage delle fosse Ardeatine”; il mito dei 300 mila fascisti uccisi dopo la fine della guerra; la leggenda della R.S.I, “voluta da Mussolini per fare da ‘scudo’ agli italiani contro la vendetta tedesca”.

    La responsabilità di queste (e altre storie) è certamente dei mestatori della politica, ma – continua Osti Guerrazzi – anche di numerosi storici (o, come abbiamo visto nel caso di Palatucci, di tanti storici dilettanti) che hanno utilizzato «in maniera totalmente acritica», memorie e documenti di quel periodo. Il risultato è stato che «miti e leggende sul fascismo sono state a volte traghettate nella storiografia scientifica, dando una patente di plausibilità anche alle teorie più strampalate».

    “Stereotipi colti”, ancora una volta. Idee, ricostruzioni del passato, atteggiamenti e giudizi che vengono elaborati sul confine tra storia e società, o che transitano da un campo all’altro. Strutture conoscitive che gli studiosi hanno lungamente sottovalutato, o che hanno considerato marginali, rispetto al loro compito centrale, quello di discutere con i colleghi storici dell’avanzamento delle conoscenze. Oggi, invece, irrompono in massa. Sono le “vere conoscenze” che le voci della rete oppongono alla “conoscenza ufficiale dell’accademia”. Non possono essere più ignorate. Lo storico se ne deve far carico: si sta verificando, per la sua disciplina, esattamente ciò che accade in altri campi, un tempo controllati unicamente da medici, scienziati, filosofi. Queste storie inventate (o “alternative”, come si comincia a dire nella letteratura internazionale) non sono unicamente il frutto di conoscenze approssimative. Errori da bacchettare e bufale, che basta prendere in giro.

    5. Alternativa, ma di successo

    Evitiamo, ancora, di depositare la vicenda di Palatucci nel ripostiglio dell’angusta politica nazionale, concentrata nell’uso meschino della memoria delle vicende post-belliche. Se ci riflettiamo, infatti, essa nasce dentro una rivista e si dovrebbe chiudere, settant’anni dopo, dentro la stessa rivista, con un articolo dal tono definitivo. E tale sarebbe stata la sua parabola, se, come era accaduto nei primi venti anni, il suo spazio di discussione fosse restato quello degli studiosi. Tuttavia, nel corso del tempo, essa ha dato luogo a una storia alternativa, che ha cominciato a marciare con le proprie gambe: pubblicazioni edificanti, trasmissioni televisive, controversie online, e l’apparato della commemorazione, sia nel quadro delle giornate della memoria scolastiche, sia in quello più circoscritto, ma fortemente significativo, della Scuola Superiore di Polizia, dove – ancora nel 2017 – il vice-questore di Fiume veniva ricordato alla presenza del capo della Polizia Franco Gabrielli e del presidente dell’Unione comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni.

    Una giornata della memoria4 – Una giornata della memoria

    Questa storia è provvista della carta vincente di essere bella e consolatoria. Lo storytelling di un eroe che non ha paura di tradire i suoi ideali politici, pur di salvare delle vite umane. Ideali che, inoltre, realizza attraverso metodi – gli stratagemmi e le furbizie – particolarmente apprezzati nella aneddotica identitaria italiana (ribaditi, come va notato, anche nella commemorazione ufficiale appena citata).

    All’indomani del processo di beatificazione, il padre gesuita Piersandro Vanzan scrisse: «La figura e l’opera di Giovanni Palatucci – ultimo questore di Fiume italiana, nato a Montella (AV) il 31 maggio 1909 e morto di stenti tra le sevizie a Dachau, il 10 febbraio 1945 – lungi dallo sbiadirsi, ingigantiscono col tempo» (La “Shoah” e Giuseppe Palatucci, in «La Civiltà Cattolica», 2003, quaderno 3662, p. 149).

    6. Miti e formazione storica

    Lo storico non è profeta. Ma gli è consentito non nutrire eccessive speranze sul potere “sbiadente” della ricerca di Michele Sarfatti, e quindi sulla sua capacità di arrestare quel processo di “ingigantimento” che il tempo riserva alle storie, quando queste diventano miti. Ed è facile immaginare, sulla scorta degli innumerevoli esempi che i media ci hanno proposto negli ultimi decenni, un futuro dibattito, nel quale lo storico viene messo in minoranza dalla schiera dei sostenitori della verità alternativa.

    Dovremmo, ancora, evitare di catalogare questo (come le analoghe storie alternative, che imperversano nella nostra società) nel comparto dei meri “errori di erudizione”. Si tratta, invece, di prendere di petto la questione della diffusione sociale di miti che, al contrario di quello che sostiene una certa narratologia pedagogica, hanno discutibili effetti sulla formazione del cittadino.

    The fantastic life of Giovanni Palatucci5 – The fantastic life of Giovanni Palatucci

    I miti, infatti, impediscono di vedere la realtà nel suo complesso. Conseguentemente, rischiano di diventare assolutori per gli individui che ne fanno uso. È vero per Palatucci: «Oggi, a settant’anni di distanza, Palatucci è un mito che ci impedisce persino di porci delle domande fondamentali sul nostro passato», scrive Indrimi. Quelle domande che darebbero risposte dirette all’individuo, capaci di metterlo in discussione, perché fanno uscire dall’ombra «le tante persone guidate da buone intenzioni, dal senso del dovere, ma che comunque obbedirono ad una logica distruttiva».

    I miti trasportano i fatti in un sistema strutturato intorno a concetti che esulano dal ragionamento storico. Colpa, pentimento, assoluzione. Il fenomeno della loro diffusione ha, certamente, qualcosa a che vedere con la proliferazione inarrestabile delle giornate commemorative. Si celebra, ci si commuove, e ciò vale da pentimento e redenzione. Ma, colpevolizzando noi stessi o colpevolizzando gli altri, evitiamo di insegnare la complessità delle cose e la capacità di documentarci attentamente sul loro stato.

    Queste “visioni alternative” odierne fanno leva sulla inabilità sociale nel rielaborare i fatti tragici del passato. La loro fondamentale opposizione con la storia, non nasce solo dall’ignoranza delle cose, ma dalla insofferenza per il percorso di analisi che la disciplina storica impone. La bella storia di Palatucci è frutto, anche, di questa intolleranza di un passato difficile.

     

    Fonti delle immagini

    Immagine 1   Immagine 2   Immagine 3   Immagine 4   Immagine 5

  • Sulle tracce di un monaco in visita a Lucca

    Autore: Marco Cecalupo

     

    Un gioco di orienteering per conoscere il paesaggio urbano medievale. Con testi facilitati e per una classe interculturale.

     

    Marco Cecalupo è stato uno dei primi studenti di didattica della storia, a Bari. A lungo ha collaborato con questo insegnamento. Ora insegna a Reggio Emilia, e fa parte del Comitato scientifico di Historia Ludens. Questo è il racconto della costruzione e dello svolgimento di un gioco-escursione, giocato negli ultimi due anni (2012 e 2013) da cinque classi di prima media di Reggio Emilia nella città di Lucca, corredato dai materiali di gioco e da commenti e foto prodotte dai giocatori. Sul modello didattico impostato presso la Summer School “Emilio Sereni” di Gattatico (RE), questa attività coniuga lo studio del paesaggio urbano con l’intercultura e l’educazione civile. (HL)

     

    Indice

    1. Perché facciamo le visite di istruzione
    2. La progettazione della visita a Lucca
    3. Il gioco: la lettera di Anselmo a Lucca
    4. Un gioco per tutti
    5. I commenti dei giocatori
    6. Conclusioni

     

    1. Perché facciamo le visite d'istruzione

    Secondo alcuni colleghi, noi della Scuola Secondaria di Primo GradoLeonardo da Vinci di Reggio Emilia siamo semplicemente pazzi. Secondo altri, più maliziosamente, svalutiamo la professionalità della categoria. Motivo? Nella nostra scuola organizziamo ancora le visite d'istruzione, senza ricevere finanziamenti specifici né per gli studenti né tanto meno per i docenti. Perché lo facciamo? Perché pensiamo che non siano unextra o un premio, ma semplicemente uno strumento del nostro fare scuola - come la lezione, il laboratorio, il film o la verifica – a cui non vogliamo rinunciare. In questa ostinata abitudine siamo sostenuti da famiglie e studenti, che ogni anno escogitano iniziative per tirar su qualche euro, e permettere così una partecipazione il più larga possibile.

    Noi pensiamo che le visite d'istruzione siano utili per molti motivi: si frequentano luoghi pubblici, dotati di regole specifiche da rispettare; si riscontra una forte motivazione da parte degli studenti; si aumenta la consapevolezza di cosa sia il patrimonio culturale e di come goderne; si allenano i cinque sensi; e infine, ci si stanca a camminare, ma si resta soddisfatti di aver compiuto uno sforzo, un lavoro giocoso o appassionante.

     

    Oltre alle uscite in orario curricolare (cinema, teatro, museo, ecc.), tutte le classi della scuola fanno in un anno due visite didattiche lunghe, anche di più giorni. La prima è una uscita d'accoglienza, serve soprattutto a creare il gruppo-classe, ad allenarsi a contesti diversi dall'aula; ha un programma soft, di solito in località distanti pochi chilometri, o già conosciute negli studi di storia, di arte o geografia; l'altra è percepita da tutti come “la vera gita”, inserita nelle programmazioni di classe e di disciplina. E' quella attesa, costruita, preparata con maggior cura da docenti e alunni.

     

    2. La progettazione della visita a Lucca

    Anche in queste occasioni, gli insegnanti devono dimostrare di essere ottimibricoleurs dell'educazione. Non si inventa nulla, si prendono le idee e i modelli qua e là, e il contesto (cioè il luogo da visitare, la propria classe, ciò che si studia) orienta l'attività che ci si pone di realizzare.

    Il mio obiettivo, dunque, era visitare la città di Lucca con delle classi di prima media. In questo caso, mi sono ispirato a tre precedenti: un gioco che altri docenti della nostra scuola hanno creato qualche anno fa per visitare il centro storico di Firenze, e che ancora rappresenta la visita d'accoglienza delle classi seconde; il modello di gioco-escursione proposto da Historia Ludens, di cui si può leggere in questo sito l'articolo che ne illustra la dinamica fondamentale; un laboratorio pomeridiano sul paesaggio urbano medievale di Reggio Emilia, svolto durante l'anno dagli educatori del Gruppo Educativo Territoriale del Comune a stretto contatto con i docenti, di cui si racconterà una prossima volta.

     

    E' stato necessario recarsi in avanscoperta a Lucca prima della visita, per diverse ragioni: prendere contatti con l'URP e l'Ufficio turistico del Comune; visitare le piazze, le strade e le chiese; calcolare le distanze e i tempi di percorrenza per spostarsi da un luogo all'altro; verificare l'accessibilità dei siti (orari, giorni di chiusura, barriere architettoniche, ecc.); incontrare persone che potessero collaborare con noi (in particolare, presso il Palazzo Mansi, ho preso contatto con le Antiche Tessiture Lucchesi, una associazione locale di donne che fanno, per mestiere e per diletto, l'archeologia sperimentale della seta); sapere se fossero previsti eventi speciali come mostre, feste, fiere, che avrebbero potuto essere integrati nella visita o, al contrario, rappresentare un impedimento (limitazioni del traffico, parcheggi consentiti, chiusure programmate di strade o siti).

    Senza questa fase, la visita sarebbe stata sicuramente più povera. Vediamo perché.

     

    3. Il gioco: la lettera di Anselmo a Lucca

    Arrivati sotto le mura del centro storico di Lucca, gli studenti si dividono in gruppi e ricevono il materiale del gioco: una lettera, una mappa, dei quesiti.
        
    La lettera, scritta in una lingua strana, una sorta di italiano volgare, sembrerebbe prodotta nel XIV secolo da un monaco che, durante il suo pellegrinaggio lungo la via francigena, faceva sosta in città e ne informava i confratelli di un monastero in Campania. Nella lettera, il monaco Anselmo racconta del percorso che egli compie nel borgo, delle chiese e delle piazze che visita, delle persone che incontra e con cui dialoga, delle sensazioni che prova.
        
    La mappa riproduce invece la città com'è oggi, e individua gli stessi luoghi visitati dal monaco, numerati secondo il percorso che egli sembra aver fatto.
        
    I quesiti hanno uno scopo preciso, che è poi l'obiettivo finale del gioco: risolvendoli, si è in grado di affermare se la lettera di Anselmo sia autentica o se, invece, sia un documento falso, prodotto per chissà quale ragione nei secoli successivi.

    Per risolvere il mistero della lettera, quindi, è necessario compiere operazioni che richiedono competenze diverse. Bisogna cercare le strade, ripercorrerle, localizzarle sulla mappa; si devono considerare i cambiamenti del paesaggio urbano negli ultimi 700 anni, che mostrano elementi assenti agli occhi di Anselmo; bisogna immaginare le mura romane, medievali e moderne della città come tre anelli concentrici; si devono formulare delle ipotesi, laddove la situazione non permette di chiarire con certezza alcune questioni; è necessario parlare coi cittadini di Lucca o entrare nei negozi; si devono trovare prove contenute oggi nei musei, nei cartelli stradali, o nei dolci in vendita nei forni...
        
    Un solo quesito valga come esempio: a Lucca si lavorava la seta? Oggi non esistono più gli antichi laboratori serici, e il quartiere che vi era dedicato ha cancellato qualsiasi segno esteriore (se non tracce nella toponomastica) di questa produzione artigianale che, vanto della città, esportava tessuti di lusso presso le maggiori corti europee. Come risolvere il quesito? Ci si reca nel palazzo indicato, che oggi è un museo nazionale. Si interroga il personale del museo sulla presenza al suo interno di reperti o manufatti che possano aiutare a rispondere. E quando si arriva nelle sale che contengono gli antichi telai e tutti gli altri attrezzi, si incontrano alcune donne che, assoldati alcuni studenti come garzoni di bottega, ci mostrano come funzionano i telai e le altre fasi della produzione.

    Il gioco viene condotto in autonomia dal gruppo di studenti, il docente che li accompagna ha solo la funzione di sorvegliare; le decisioni relative al percorso, alle soste necessarie, alle risposte ai quesiti, competono in modo esclusivo agli studenti, che hanno solo l'obbligo di giungere al punto di raccolta finale entro una certa ora, per riposarsi e discutere un po' tutti insieme.

     

    4. Un gioco per tutti

    Per favorire la partecipazione al gioco da parte di nuovi cittadini, cioè gli studenti che parlano lingue madre diverse dall'italiano e che lo apprendono come seconda (o terza) lingua, e degli studenti che per varie ragioni presentano difficoltà nella lettura e nella comprensione del testo, ho preparato una versione facilitata della lettera, riscritta con lessico e sintassi ad alta leggibilità (e nella lingua italiana attuale). Non è stata eliminata alcuna indicazione spaziale, ma ho modificato il font simil-medievale, che sembrava un elemento di disturbo alla comprensione, non indispensabile. Tutte le altre parti del gioco (regole, quesiti e mappa) sono state utilizzate senza modifiche.

    Il costante e consistente arrivo nelle nostre classi di studenti provenienti dalla Cina, ha richiesto l'ulteriore preparazione di una versione in lingua cinese1 della missiva di Anselmo.

     

    5. I commenti dei giocatori

    Dopo l'estate, ho chiesto agli studenti che hanno giocato a Lucca cosa ne pensassero. In primo luogo, ho domandato se le regole del gioco fossero chiare. Poi li ho invitati a riportare cosa ricordassero e ad elencare aspetti positivi e negativi. Ecco un sunto di cosa mi hanno raccontato.

     

    Giacomo: L'aspetto positivo è che ho girato una città che non avevo mai visto, l'aspetto negativo è che è volata la giornata.

     

    Laura: E' una città molto bella ed interessante, con molti monumenti antichi, è anche strana perché circondata dalle mura. Si mangiava bene. Aspetti negativi: è piuttosto isolata e non ci sono molte vie di comunicazione, riguardo ai miei compagni non c'erano aspetti negativi.

     

    Rahel: Ho capito presto il gioco e le sue regole. E' un gioco che si basa sull'orientamento e sulla capacità di essere bravi in storia. Mi ha sempre colpito l'intelligenza che avevano i romani quando hanno cominciato a costruire le mura e la città. L'aspetto positivo è imparare qualcosa di più e imparare ad orientarsi in una città che non conosciamo. L'aspetto negativo è che in squadra ci sono persone di carattere diverso.

     

    Anna: Io mi ricordo delle case attaccate fatte a forma di cerchio, con una grande porta dove si entra, poi dentro c'erano dei negozi e ristoranti.

     

    Alessia Yuan: Mi ricordo del buccellato (tipico dolce di Lucca), delle mura, delle chiese, dei negozi, le strade, il fossato. Ora i quesiti non me li ricordo, ma so che le domande erano facili, ma trovare i posti era il difficile. L'aspetto positivo era che la città era piena di culture, quello negativo che si camminava tanto, si girava in tondo, e io non ho un buon senso dell'orientamento, e faceva caldo.

     

    Francesco: La città vista da fuori mi sembrava molto grande e si vedeva chiaramente che aveva all'epoca una bella tecnica di difesa.

     

    Luigi: Si, ho capito le regole del gioco, bastava solo esplorare Lucca, che è bellissima. L'aspetto negativo è che si doveva camminare tanto.

     

    Lea: Mi ricordo benissimo della fatica che abbiamo fatto per cercare il punto d'incontro, il buonissimo sapore dolce del buccellato e quelle bellissime chiese.

     

    Come si può notare, le risposte non sono univoche, ma contraddittorie. Alcune in particolare mi inducono a pensare dei cambiamenti per gli anni a venire:
        
    Tiffany: Mi è piaciuto visitare le chiese, invece negativo è il tempo, il mio gruppo non ha avuto il tempo per finire l'ultimo quesito.

     

    Ting Ting: Quando ho visto le mura, molto grandi, mi sono piaciute. La cosa positiva è aver camminato e aver conosciuto una città nuova, non mi è piaciuto non poterla visitare tutta, la città.

     

    Luca: Era molto semplice, infatti io e la squadra in cui ero siamo subito partiti in velocità. Mi ricordo che all'interno sembra un labirinto squadrato, perché la città è di origine romana. Il quesito più difficile era quello sugli ingredienti del buccellato. L'aspetto negativo era che in alcuni punti le squadre si incontravano, però quello più bello è stato che era molto divertente.

     

    Simone: Di positivo c'è che giravano poche macchine e di negativo c'è che non capivo mai dove ero.

     

    Giovanni: Ricordo molto poco, cioè qualche chiesa, le mura e il pane con l'uvetta.

     

    6. Conclusioni

    Evidentemente, il gioco-escursione non è una panacea, una bacchetta magica, ma solo (e vi pare poco?) un irrinunciabile tassello del percorso di formazione dei nostri cittadini-studenti. Lascio le conclusioni a due ottimi allievi, che lo stato italiano si ostina a considerare non-cittadini:
        
    Salimata: Ho avuto l'impressione che la città innanzitutto fosse antica, perché aveva delle mura molto vecchie. Mi è sembrata anche molto grande, perché avevamo già visto una parte di città all'esterno e vi era una parte molto grande all'interno. Mi è piaciuta fin da subito. Mi sono, in seguito, domandata come la vegetazione facesse a crescere sulle mura, ma questo pensiero è scomparso immediatamente (n.d.A.: al rientro in classe abbiamo visto una sezione delle mura per chiarire questo apparente mistero). Ho capito subito le regole del gioco, perché ero super eccitata e non vedevo l'ora di cominciare! Infatti erano anche molto semplici! Si doveva girare nella città seguendo il percorso della carta e in ogni luogo segnato dovevamo scrivere di esserci stati e rispondere ad alcune domande. Non ricordo tante cose perché è passato un po' di tempo. Comunque ricordo delle chiese, dei negozi, ma anche persone accoglienti e generose. […] Credo che sia stata molto produttiva questa uscita e anche molto divertente. Mi è piaciuto anche il fatto di conoscere persone di altre classi. Non credo che ci siano stati aspetti negativi, almeno per me! E' un'esperienza che mi piacerebbe ripetere con altre città.

     

    Artsiom: Ho capito presto, dovevamo cercare i posti visitati da fra Anselmo. Il gioco era molto bello ma mi è dispiaciuto che fra Anselmo non esisteva, in realtà era il prof Cecalupo.

     

     

     

    Note

    1. traduzione a cura di Zhang Meng Jia

     

  • The Saigon Execution: “La foto che fece perdere la guerra”

    Laboratorio su una foto iconica: lettura e contestualizzazione*

    di Antonio Brusa 

     

    The Saigon Executione la guerra del Vietnam

     

    saigonE. Adams/Associated Press, General Nguyễn Ngọc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon (1968)All’una e trenta della mattina del 31 gennaio del 1968 i marines nordvietnamiti e i vietcong (i guerriglieri comunisti del sud Vietnam) scatenarono l’offensiva del Têt (il Capodanno vietnamita). Ottantamila soldati attaccarono contemporaneamente le più importanti città del Vietnam del sud. Contavano sulla sollevazione della popolazione, stanca degli americani e della guerra, e sul rapido disfacimento delle truppe del Vietnam del Sud, che ritenevano un esercito-fantoccio al servizio degli Usa. Si lanciarono all’attacco convinti che non sarebbero più ritornati nei loro rifugi nella foresta e che avrebbero ributtato in mare gli invasori. La loro sconfitta fu cocente. La popolazione, per quanto antiamericana potesse essere considerata, non guardava affatto con simpatia i soldati del nord e non si ribellò. L’esercito sud-vietnamita difese strenuamente le città, mentre gli americani ebbero modo di scatenare per intero la loro potenza di fuoco su bande di guerriglieri venute finalmente allo scoperto. Le cifre non consentono dubbi: i combattenti comunisti contarono circa 60 mila morti; la coalizione americana circa 4.500 (La cronistoria della battaglia su “Retestorica”;) all’offensiva del Têt e agli eventi del ’68 è dedicato il sesto episodio della Guerra del Vietnam (PBS, 2017) di Ken Burst e Lynn Novick, significativamente intitolato Tutto cade a pezzi, che sarà oggetto di analisi nell’ultima parte di questo laboratorio: altri riferimenti si troveranno nella sitografia sui movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam, curata da Antonio Prampolini e pubblicata qui, su HL.

    2mappeL’Offensiva del Têt su Pinterest (a; https://www.pinterest.it/pin/417286721693184202/) e la guerra del Vietnam secondo l’Enciclopedia Treccani (b; http://www.treccani.it/enciclopedia/vietnam/)

    La battaglia che gli americani avevano vinto sul campo fu da loro persa politicamente. Pochi giorni dopo la sua fine, nel marzo del 1968, sospesero i bombardamenti nel Nord Vietnam, chiesero l’apertura di colloqui di pace e il presidente Lyndon B. Johnson decise di non ripresentarsi alle elezioni. Il generale William Westmoreland, comandante in capo delle armate americane, che aveva chiesto altri 200 mila soldati per concludere la guerra, fu richiamato in patria. Prese il via un estenuante e contorto percorso diplomatico che portò, nel 1975, a fermare il conflitto più lungo al quale gli Usa abbiano mai partecipato (G. Herring, America Longest War. 1950-1975 , Temple University Press, Philadelphia 1979).

    Sulle ragioni del sorprendente esito di quella battaglia, storici, politici e giornalisti hanno discusso a lungo. Hanno ragionato sul costo della guerra e il peso che questa aveva sulle finanze americane, sulla mobilitazione militare della quale il nord comunista aveva dato ampia dimostrazione, insieme con la sua tenacia nel resistere a un nemico enormemente più forte, sulle titubanze e i contrasti della dirigenza americana, sullo choc della gente che si sentì ingannata dai proclami trionfali di Johnson e Westmoreland (G. W. Hopkins, Historians and the Vietnam War. The Conflitcs Over Interpretations continue, in “Studies in Popular Culture”, 23, 2, 2000, pp. 99-108, 100).

     

    La foto iconica

    Fra le cause di questa sconfitta si citano spesso i media e, in particolare, alcune foto che ebbero un successo straordinario, dal momento che apparvero su giornali e tv di tutto il mondo. Erano immagini che colpivano il lettore. Non avevano bisogno di didascalie (No caption needed), talmente chiaro era il loro messaggio sulla brutalità della guerra. Erano foto iconiche. Robert Lariman e John Lucaites ci insegnano che per definire iconica una foto sono necessarie quattro caratteristiche:

    • è conosciuta da tutti,
    • evoca delle emozioni,
    • viene replicata all’infinito dai media,
    • continua a essere replicata nel corso del tempo (No Caption Needed: Iconic Photographs, Public Culture, and Liberal Democracy, Chicago, 2007).

    Questo genere di immagini “acquista immediatamente un carattere simbolico”: lo scrisse Wicki Goldberg, la studiosa che usò per prima questa espressione – foto iconica –  per distinguere quelle che avevano il potere metonimico di sintetizzare una storia in un colpo d’occhio e, qualche volta, addirittura di cambiarla (N. Smith Damen et al. (2018), The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon e W. Goldberg, The Power of Photography: How Photographs Changed our Lives, New York, 1991).

    Tutti ne conserviamo qualcuna in qualche angolo della memoria, come il miliziano ucciso durante la Guerra civile spagnola; o il vecchio siciliano che indica la strada al ragazzone yankee appena sbarcato in Sicilia nel 1943, entrambe frutto del genio visivo di Robert Capa; il bambino di Varsavia, immortalato da un anonimo fotografo al servizio di Hitler, e l’altro bambino, Ālān Kurdî, ripreso da Nilüfer Demir, morto sulla spiaggia di Bodrum. Le conserviamo non solo per la loro bellezza tecnica e per il loro carattere simbolico, ma perché attribuiamo loro un qualche significato profondo, un “valore” che le rende importanti ai nostri occhi.

    La guerra del Vietnam ce ne ha lasciate almeno sette:

    • The Burning Monkdi Malcom Browne (1963). Thích Quảng Đức era un monaco buddista che si diede fuoco per protestare contro il regime sud-vietnamita. “Nessuna fotografia nella storia del giornalismo ha mai generato le stesse emozioni di questa”, dichiarò John Kennedy.
    • Reaching out di Larry Barrows (1966), che informò gli americani che anche i marines potevano cadere in battaglia;
    • General Nguien Ngoc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon (1968) fu scattata da Eddie Adams per le strade di Saigon. È conosciuta anche con altri nomi: Rough Justice on a Saigon Street (Giustizia sommaria in una strada di Saigon), Têt execution o Saigon Execution, dizione che userò in questo contributo. Vinse il premio Pulitzer nel 1969 e, da allora, diventò il prototipo della foto che cambia la storia (M. Astor, A Photo That Changed the Course of the Vietnam War, 1 febbraio 2018, “N.Y. Times” e  R. Hamilton, Image and Context: The Production and Reproduction of The Execution of a VC Suspect by Eddie Adams, in J. Walsh et al. (eds.), Vietnam Images: War and Representation, Editorial Board, Lumiere (Co-operative Press Ltd 1989, p. 171).
    • And Babies? (1968) è il titolo del manifesto tratto dalla foto di Ron Haeberle, fotografo dell’esercito americano, che testimoniava le atrocità del massacro di My Lay, un evento che scosse l’opinione pubblica mondiale;
    • Kent State Massacre (1970), scattata da uno studente, John Filo, per testimoniare la sparatoria della Guardia Nazionale contro i giovani che protestavano contro la guerra del Vietnam;
    • Accidental Napalm(1972), di Nick Ut, la celebre foto della bambina nuda che fugge dal villaggio incendiato dal napalm;
    • Helicopter evacuation from Sai Gon(1975), di Hubert van Es che ritrae l’elicottero che imbarca i fuggiaschi dal terrazzo della residenza del capo della Cia a Saigon.

    Al principio del suo Flags of our Fathers(2006), il film che racconta le memorie ferite dei marines che issarono la bandiera americana sul monte Suribachi a Jwo Jima, Clint Easwood accosta The Saigon Execution alla celebre foto che ritrae la scena dell’alzabandiera (Raising the Flag on Iwo Jima), per la quale Joe Rosenthal guadagnò il Pulitzer in quello stesso 1945, proprio perché entrambe – si dice nel film - ebbero il potere di cambiare la storia: questa incoraggiando la popolazione americana a sostenere una guerra che pareva a molti troppo lunga e sanguinosa; quella, la Saigon Execution, convincendola della sua crudeltà inutile.

    The Saigon execution èinclusa da "Time"fra le cento foto che contrassegnano la storia contemporanea. Oltre a questa, il 1968 – un anno record! - ne conta altre tre: l’invasione di Praga, il saluto col pugno chiuso dei quattrocentisti neri alle olimpiadi del Messico e l’Earthrise, la foto del sorgere della terra scattata da Bill Anders mentre orbitava intorno alla luna.

    Su The Saigon execution imposterò un modello di laboratorio storico per questo genere di fonte visiva che ne permetta di mettere a fuoco i problemi storico-didattici e, al tempo stesso, fornisca ai docenti qualche idea concreta di lavoro

     

    Prima fase: lettura della fonte

    Una foto iconica si presta, quasi per natura, a un percorso che parte dall’approccio emotivo e si chiude con la riflessione critica. Lo organizzo in quattro fasi, che per ragioni di comodità vengono pubblicate in due puntate.

    Nella prima fase, dopo aver chiesto agli allievi di esprimere le proprie impressioni, li si guida alla lettura strutturata della fonte. Nella seconda, si sottopongono a revisione critica gli elementi ottenuti dalla lettura: confronto tra fonti diverse, valutazione della fonte e sua contestualizzazione. Nella terza, si affronta la questione del rapporto fra passato e presente, dal punto di vista della comunicazione e dei problemi etici che questa comporta. Nella quarta, infine, si focalizza l’attenzione degli allievi sul contributo che la storiografia può dare nella costruzione di una visione critica di quell’evento. Queste fasi sono organizzate, ancora, secondo un ordine progressivo di difficoltà. Le prime due sono composte da testi brevi, molto legati all’osservazione della fonte. Nelle successive, invece, i testi sono più lunghi e invitano a riflettere su questioni sociologiche, storiche e memoriali. Come si ribadirà in seguito, ogni fase può essere svolta sia nel modo tradizionale (lezioni e lettura dei testi: non mi occupo in questa sede della valutazione), sia in forme didattiche partecipate, delle quali si fornirà sempre un modello. Tuttavia, per favorire il docente che voglia provare strategie diverse, i brani sono di lunghezza breve (escluso gli ultimi due), in modo da poter essere “montati” altrimenti.

    Scrivono Jeffrey Walsh e James Aulich, i curatori di Vietnam Images: War and Representation (cit, pp. 1-9), che un’immagine cristallizza l’evento e lo decontestualizza. Il compito dello storico è quello di riportarlo nel suo contesto.  È questo lavoro che ci permette, da una parte, di capire in profondità quell’evento e, dall’altra, di rapportarci a quello correttamente, sia pure a distanza di quasi mezzo secolo. “Rapportarsi correttamente” vuol dire fare i conti con questioni quali la memoria pubblica, l’uso pubblico della storia, la cosiddetta “memoria condivisa” e i media, nuovi e vecchi, che sono lo strumento principale di socializzazione di questi problemi. Si tratta, dunque, di fare storia, ma al tempo stesso educazione alla cittadinanza e, come si vedrà soprattutto nella seconda parte (nelle proposte di Valerio Bernardi e Giulia Perrino), convocare intorno al tema posto dalla Saigon Execution altre discipline, come la filosofia e le scienze della comunicazione e artistiche.

    In questo laboratorio i documenti e i materiali non andrebbero presentati insieme, in un unico dossier, ma poco per volta, secondo le modalità che vengono di seguito indicate. Ho cercato di realizzare un’antica idea di Scipione Guarracino, che vagheggiava un’attività nella quale ad ogni nuovo documento gli allievi fossero spinti a modificare le conclusioni fino a quel momento raggiunte (S. Guarracino, La logica della ricerca e la didattica dell’archivio, in Didattica della storia e archivi. Atti degli incontri di studio, Caltanissetta, 1-2 dicembre 1986, a cura di C. Torrisi, Caltanissetta-Roma 1987, pp. 55-85). Mi sembra una buona strategia per far rivivere agli allievi il gusto della scoperta progressiva, tipico di una ricerca scientifica.

    Dopo aver motivato i ragazzi al lavoro e fornito gli elementi essenziali di contestualizzazione (date, luogo e motivi della guerra; cenni sull’Offensiva del Têt), l’insegnante presenta la foto, chiede di commentarla o di esprimere che cosa provano guardandola. Chiede, ancora, di ipotizzare che cosa essa rappresenti. In pratica, mette alla prova il potere della fonte iconica di suscitare emozioni senza bisogno di tante parole. Afferma un manuale recente: “La fotografia cattura perfettamente la drammaticità della morte e la disumanità della guerra. Il volto contratto del condannato e quello vuoto e rilassato dell’esecutore” (A. Graziosi, a cura di, Storie. Il passato nel presente, Giunti, Firenze 2019, p. 502). Il contrasto fra i due protagonisti della foto sollecita sentimenti e pensieri. Li si trascrive man mano che vengono espressi.

    Altre domande sono suggerite dallo stesso manuale: “le immagini della violenza contro i prigionieri vietcong ebbero un effetto dirompente nell’opinione pubblica americana”. Per riprendere il titolo di questo contributo, questa fu una foto “spartiacque”. Fino a quella foto, era stata una guerra di bravi ragazzi. Dopo, cominciò ad essere una sporca guerra. Perché? Chiediamo agli allievi di congetturare delle risposte.

     

    Una lettura strutturata

    Robert Hamilton fornisce un saggio di lettura denotativa di questa foto. Può essere una guida per mettere in luce particolari sfuggiti e stilare una descrizione analitica precisa.

     

    La fotografia mostra due figure principali. Una, in uniforme, è vista di profilo, con il braccio teso mentre punta una pistola alla testa dell’altra figura, che è in posizione frontale, veste una camicia a scacchi e ha le mani dietro la schiena. La fotografia include anche due figure marginali e l’ombra di una terza; ci sono alcune costruzioni in secondo piano, che vanno da destra verso sinistra, come uno scenario indistinto e poco chiaro.  Le due figure in primo piano stanno in piedi, in contrasto tonale con lo sfondo indistinto. La postura e l’espressione indicano che il colpo è stato appena sparato.

    La scena potrebbe indicare che “un soldato o un poliziotto spara a un civile disarmato per strada” (R. Hamilton, cit., p. 172).

     

    Angie Lovelace ci fornisce, invece, un modello di descrizione fortemente connotata, “semiotica”, come la definisce (Iconic photos of the Vietnam War era: A semiotic analysis as a means of understanting, 2010). In ogni caso, una descrizione molto partecipata.

    Il boia doveva essere consapevole della macchina fotografica puntata su di lui quando ha deciso di puntare la pistola contro il vietcong prigioniero. Ha girato il corpo e il viso lontano dall’obiettivo, nascondendo così la sua espressione e lo scopo della sua azione. Dal canto suo, il volto della vittima rivela paura e l’angoscia di essere ucciso.

    La camicia scozzese spiegazzata della vittima è l'opposto della mimetica tipica di un militare. Il suo abbigliamento dice a chi guarda che non è un militare, ma un cittadino che viene colpito a sangue freddo. Viene sparato a bruciapelo, senza processo, in una strada deserta. Non viene sparato con un mitra o un fucile, armi che in genere portano i soldati, ma con una pistola. Ciò accentua la disumanità della scena, perché questa non rappresenta più un’azione militare, ma l’odio fra due uomini, o, in questo caso, l’odio fra le due parti in conflitto

    La posizione delle braccia dei due personaggi mostra la disparità del potere. Il braccio del tiratore è steso orizzontalmente. Mentre preme il grilletto, i muscoli del suo braccio si tendono, mostrando il potere che sta esercitando sulla sua vittima. Le braccia del vietcong non sono visibili; sono legate dietro la schiena. Mostrano la sua privazione di potere e la sua impossibilità di reagire. Il vietcong è immobile. Nessuno lo sta trattenendo, ma non sta cercando di scappare. Ha accettato il suo destino. Non prova nemmeno a ruotare il suo corpo o a sottrarsi al colpo di pistola e al suo destino imminente.

    Il soldato a sinistra digrigna i denti. Il suo volto mostra l’emozione per l’atto raccapricciante che sta guardando.

    Questa foto crea empatia per la vittima e criminalizza l’esecutore. Si può anche non conoscere la situazione concreta, ma questo non impedisce di simpatizzare con la vittima e considerare questa scena inumana. Questa foto mostra un atto disumano, che enfatizza la disumanità della guerra del Vietnam nel suo complesso”  (A. Lovelace, cit., pp. 40-41).

     

    Procedimento didattico

    Questi due brani possono essere usati in vari modi. Possono essere spiegati oppure dati direttamente in lettura. Il docente li può tenere per sé e utilizzare come scaletta per domande guida per l’analisi, in un dialogo informale con gli allievi. Altrimenti, in modo più formale, proporrà di completare una tabella - individualmente o in gruppi - per poi controllarla avvalendosi delle descrizioni di Hamilton e Lovelace.

    Ciò che è importante, comunque, è tenere per fermo che più attenta è l’analisi del documento, più vivaci saranno le discussioni successive.

    Particolare della foto Descrizione analitica.   Significato                       
    Testa e volto dell'esecutore    
    Testa e volto della vittima    
    Corpo e braccia dell'esecutore    
    Corpo e braccia della vittima    
    Abbigliamento dell'esecutore    
    Abbigliamento della vittima    
    Armi    
    Personaggi secondari    
    Sfondo    

     

    La scena e i protagonisti

    In questa parte del laboratorio suggerisco di dividere la classe in tre gruppi. A tutti verrà consegnato il primo testo, la descrizione della scena (di seguito: testo a). Poi si suddivideranno le tre biografie (testi b, c, d), una per ciascun gruppo. Ogni gruppo, dunque, avrà due testi da leggere e commentare. Essendo testi brevi, si può prevedere un tempo ragionevolmente ridotto. Richard Stocktonpropone una ricostruzione dettagliata della vicenda, che può servire da guida all’insegnante per seguire il lavoro dei gruppi e gestire la discussione collettiva finale, facendo attenzione a non anticipare – e bruciare così – i temi che verranno presentati successivamente (The Story Behind Eddie Adams’ Iconic “Saigon Execution” Photo, 2020)

     

    a. La scena (per tutti i gruppi)

    Il primo febbraio i marines sudvietnamiti catturarono un sospetto vietcong presso la Pagoda buddista dove si era asserragliato un commando comunista. L’unica identificazione militare del prigioniero era una pistola, del tipo solitamente usato dagli ufficiali vietcong. Indossava una camicia a scacchi e pantaloncini corti. Fu condotto per la strada, con le mani legate dietro la schiena, di fronte al generale di brigata Nguyễn Ngọc Loan, capo della Polizia nazionale. Quando il prigioniero gli si avvicinò, Loan estrasse il revolver e lo agitò per allontanare i marines. Senza dire una parola, puntò la pistola alla tempia del prigioniero e premette il grilletto. L’uomo cadde per terra, mentre il sangue schizzava dalla ferita”. (Hamilton, p. 173). Poi, diretto verso i presenti, disse: “Questa gente uccide molti americani e molti dei nostri. Buddha mi perdonerà. (C. Bonnet, L'exécution de Saïgon: quand le photographe devient l'ami du tueur, “L’OBS”, 2017)

    saigon sequence

    Dalla sequenza delle foto si capisce che il reporter ha continuato a scattare anche dopo l’uccisione. Infatti, si vede il vietcong a terra e, nell’ultima inquadratura, un soldato americano che lo riprende, dopo che gli è stato posto sul petto un numero di riconoscimento. Poco dopo, non ripreso dal fotografo, passa un camion militare che raccoglie il corpo per seppellirlo in un posto ancora sconosciuto. 

     

    b. Nguyễn Ngọc Loan (1930 – 1998)

    Loan pizzeriaLoan nella sua pizzeria “Les trois continents” - in https://vietbao.com/a279394/ky-niem-voi-tuong-nguyen-ngoc-loan

    Aveva fatto l’aviatore nell’esercito del Vietnam del sud. Apprezzato per la sua bravura, ma anche grazie ad amicizie altolocate, fece carriera diventando generale e capo della polizia di Saigon. Svolgeva il suo lavoro con estremo rigore e spietatezza. Non faceva sconti a nessuno, nemmeno agli americani, che – difatti – lo consideravano un piantagrane fastidioso. Era adorato dai suoi uomini, tenacemente anticomunista e, al tempo stesso, convinto nazionalista, con un forte senso dello stato. Così lo descrive Pham Phong Dinh, un suo amico. Sappiamo, tuttavia, che fece accordi con la mafia locale, e dai proventi del traffico di oppio ricavava denaro da distribuire ai suoi agenti (Ho Dieu Anh and Spencer C. Tucker, voce Nguyễn Ngọc Loan, in Martin J. Manning and Clarence R. Wyatt (a cura di), Encyclopedia of Media and Propaganda in Wartime America, Clio, Oxford, 2011, p. 667).

     

    Aveva trentotto anni quando gli fu assegnato il compito di difendere il quartiere dove si trovava la Pagoda buddista, uno degli obiettivi dei guerriglieri durante l’Offensiva del Têt. La foto dell’esecuzione lo rese famoso e detestato in tutto il mondo. Tre mesi dopo l’Offensiva, fu ferito gravemente. Gli dovettero amputare una gamba. Trasportato in Australia per essere curato, venne riconosciuto e costretto a ritornare in Vietnam.

     

    Oriana Fallaci scrisse di lui che era la persona più odiata di Saigon. Lo aveva intervistato mentre era in ospedale. Gli chiese il motivo di quell’uccisione brutale. Lui rispose che il vietcong sparava senza uniforme. Era un vigliacco. Lo uccise perché fu preso da un moto di collera. “Forse fui veramente cattivo - concluse congedandosi dalla giornalista -  ma colui che uccisi era forse migliore di me?” (Niente e così sia, Rizzoli, Milano 1969, pp. 203-206)

     

    Nel 1975, quando il Vietnam del Nord vinse definitivamente la guerra, scappò negli Stati Uniti, dove aprì una pizzeria. La foto continuava a perseguitarlo anche qui. Denunciato per crimini di guerra, venne assolto da un tribunale americano: fra i testimoni a sua difesa ci fu lo stesso Eddie Adams, che nel frattempo era diventato suo amico. Morì di cancro nel 1998. Adams gli dedicò un elogio sul “Time”, nel quale scrisse: “in quella fotografia morirono due persone: il destinatario del proiettile e il generale Nguyễn Ngọc Loan. Io ho ucciso il generale con la mia macchina fotografica” (Eulogy: General Nguyen Ngoc Loan, “Time”, 27 luglio 1998).

     

     c. Nguyễn Văn Lém (1931 o 1932 – Saigon, 1 febbraio 1968)

    Nguyễn Văn Lém è stato un attivista vietnamita, membro del Fronte di Liberazione Nazionale, nelle cui fila combatteva col nome di battaglia di Bai Lop. Fu sommariamente giustiziato a Saigon dal capo della Polizia Nazionale della Repubblica del Vietnam, Nguyễn Ngọc Loan, durante l'offensiva del Têt, di fronte ad un cameraman dell'NBC e ad un fotografo dell'Associated Press, Eddie Adams. Il vietcong in questione era stato arrestato in quanto sospettato di aver ucciso un ufficiale sud vietnamita, sua moglie e sei dei suoi figli (uno dei quali sopravvisse). Nella stessa azione la sua unità, della quale Lém era l'ufficiale superiore, aveva inoltre sommariamente fucilato altri 31 civili. (Wikipedia e A. Miconi, Saigon Execution 1968: “The Photo that lost the War”, in “Problemi dell’informazione”, 63, 1, pp. 63-86).

     

    mogliePhilip Jones Griffiths, (1996), Nguyễn Thi Lop mostra un giornale con la foto del marito e la medaglia al valore del Vietnam, in https://pro.magnumphotos.com/Asset/-29YL5346576G.hIl giorno in cui fu ucciso, Nguyễn Thi Lop, sua moglie – che allora aveva 30 anni ed era incinta di un mese - vide i suoi vicini riuniti attorno a un giornale e si avvicinò loro. "Guarda Loan che uccide un vietcong!" uno di loro le disse. "Capii all'istante che era Lém", dichiarò in seguito Lop, "ma non potevo dire nulla, dovevo nascondere il mio dolore e portarmelo dietro come il fardello di un venditore ambulante mentre vagavo per la città cercando di scoprire in silenzio cosa fosse successo. Ero troppo terrorizzata per avvicinarmi alla sua unità per paura di essere identificata".

    Nel 1998, in occasione della morte del generale Loan, viene intervistata da un giornalista. È una bisnonna di 66 anni che non vuole dimenticare il passato. Ha battezzato sua figlia Loan “nel tentativo di purificare l'anima dell'uomo che lei chiama il male". Dice: “Una sola cosa avrei voluto: incontrare Loan e chiedergli perché aveva ucciso mio marito” (War secret dies with killer of Saigon, in “South China Morning Post”, 23 luglio 1998). Non serba rancore nei confronti del fotografo, perché solo grazie a lui – dice – si è conservato il ricordo di Lém, del quale non si trovò nemmeno il cadavere.

     

    Saigon Execution è esposta nel Museo della Guerra di Ho Chi Minh City (il nome odierno di Saigon). Nel nuovo contesto ha cambiato significato. Non testimonia la lotta fra mondo libero e comunismo né l’orrore della guerra. È il simbolo dei “tormenti del Vietnam” (R. Hamilton, cit., p. 181) e della guerra per la liberazione nazionale, per la quale Nguyễn Văn Lém è un eroe.

     

    d. Eddie Adams

    È il terzo protagonista di questa scena. Non compare nella foto, ma senza di lui quell’uccisione non sarebbe diventata l’Esecuzione di Saigon.

    Eddie Adams si era specializzato nei fotoreportage di guerra sotto le armi, avendo combattuto in Corea nel corpo dei marines, al principio degli anni ’50. Poi aveva cominciato a lavorare per l’Associated Press (AP), la più grande agenzia americana di fotogiornalismo. Nella sua lunga carriera ha scattato migliaia di foto, che gli avevano meritato oltre 500 premi e riconoscimenti di vario genere. Ma la foto per la quale è ricordato, e che lo rese celebre, fu proprio l’istantanea dell’uccisione di Nguyễn Văn Lém.

     

    meme lezamaIl fotografo vittima della sua foto. Montaggio (meme) di Julio Lezama, in Victimas o Victimarios, cit.Confessava di sentire quasi un senso di colpa per quella foto. Per lui, il Generale Nguyễn Ngọc Loan era una brava persona, un eroe che la foto trasformò in un mostro. In quei giorni Saigon era piena di cadaveri. Si sparava a vista contro chiunque. La foto non racconta tutta la storia – diceva - ma solo un pezzo. Racconta bugie e il generale ne era stato una vittima.

    Ma anche lui, in qualche modo, ne era una vittima. Si sentiva perseguitato da quella foto. Diceva di aver realizzato decine di reportage nei quali “nessuno si era fatto male”. Non gli piaceva di essere ricordato solo per quell’assassinio. Non sopportava, lui – ex-marine e sostenitore degli Usa – che la sua foto venisse usata come simbolo della politica militarista degli Stati Uniti dagli studenti che, nel frattempo, occupavano le Università e manifestavano nelle piazze di tutto il mondo. Non sopportava che fosse diventata “un dannosissimo e perfetto strumento di propaganda nelle mani del Vietnam del nord” (R. Hamilton, cit.,  p. 179).

     

    Quando il generale estrasse la pistola, pensava che l’avrebbe usata per minacciare il prigioniero, per farlo confessare. Dichiarò che non avrebbe mai immaginato che avrebbe sparato (BB news, 29 gennaio 2018). Ma, dopo il colpo, Loan si voltò verso di lui e disse che quell’uomo aveva ucciso molti americani e molti vietnamiti (qui Eddie Adams parla della Saigon Execution, nel 2008).

     

    Discussione e lezione conclusiva

    I tre gruppi, dopo aver letto e discusso brevemente le biografie, confrontano le loro conclusioni. Tutti insieme, poi, verificano le impressioni espresse all’inizio dell’attività. Erano corrette? Vanno modificate e in che modo? È accettabile l’assunto che una foto iconica “non ha bisogno di didascalie”?

    Può essere usato come “innesco della discussione” questo testo di Julio Lezama, che gioca molto sull’emotività. Nel caso l’unità di lavoro finisca qui, l’insegnante terrà conto – per la sua lezione conclusiva - dell’andamento del dibattito, dei problemi emersi e, soprattutto, dei nuovi dati presentati nella seconda fase.

     

    TRE FOTO

     (J. Lezama, Victimas o Victimarios, cit., con qualche modifica)

     

    Seconda fase. Lettura critica e contestualizzazione della fonte

    Adams pulitzerEddie Adams riceve il Premio Pulitzer nel 1969 e mostra la foto premiata, in J. Lezema, Victimas o Victimarios cit.

     

    Procedimento didattico

    Questa seconda fase si apre con uno schema riassuntivo delle conclusioni raggiunte, che si potrebbe comporre con l’aiuto di questa tabella:

     

      Le nostre conclusioni
    Eddie Adams  
    Nguyễn Ngọc Loan  
    Nguyễn Văn Lém  
    Impatto della foto con il pubblico  
    Incidenza della foto nella guerra  

     

    Anche in questa seconda fase consiglio tre gruppi di discussione:

    • sulla produzione della fonte iconica (testo e);
    • sul’affidabilità dei testimoni (testo f);
    • sul suo impatto sul pubblico (testo g).

    L’insegnante consegna a ciascun gruppo uno dei tre testi (e, f, g), insieme con quelli già esaminati nella prima fase (a, b, c, d). Quindi ogni gruppo avrà un dossier di cinque testi su cui lavorare, dei quali almeno due già letti e commentati. Essendo, anche in questo caso, testi brevi, si prevedrà un tempo ragionevolmente ridotto. Terminata l’analisi, ci si riunisce e si decidono le eventuali modifiche da apportare allo schema iniziale. Come per la fase precedente, se il lavoro ha preso troppo tempo, si può chiudere a questo punto con la lezione conclusiva. Altrimenti, si passerà alla terza fase.

     

    Il laboratorio di discussione

    Come abbiamo appena detto, l’insegnante consegna a ciascun gruppo il piccolo dossier e i gruppi si riuniscono separatamente per discuterlo. Questa volta, però, sono necessarie alcune avvertenze, dal momento che i nuovi testi metteranno in luce delle contraddizioni e faranno sorgere molti dubbi.

    La rete – e, in genere, la storia pubblica -  ci ha abituato a paralogismi, derivanti in larga misura dall’impianto argomentativo del negazionismo. Nel nostro caso in particolare, occorrerà fare attenzione alla regola del “falsum in uno, falsum in toto”, tipica dei legal thriller in tv e ampiamente usata nella storia “faidate”. Un testimone dice una bugia, dunque è screditato e la sua testimonianza va rigettata interamente. (Su questa “parastoria” sono già intervenuto qui, su HL).

    L’assunto storico, invece, è che tutti i testimoni “dicono bugie”, nel senso che raccontano la realtà dal loro punto di vista, e nel senso ancora che, col passare del tempo, cambiano opinione e riformulano la loro esperienza (la storiografia ha ampiamente lavorato su questi punti). Le regole della parastoria sono, a ben vedere, delle scorciatoie per pigri. La bravura dello storico è proprio quella di lavorare con pazienza sulle testimonianze, rispettandole tutte, eliminare “le scorie” e cercare di delineare una ricostruzione della realtà alla quale la fonte fa riferimento, mai facile e lineare, sempre piena di dubbi.

    Posti, dunque, di fronte a questi nuovi documenti, sarà possibile che gli allievi ricorrano a qualcuno degli espedienti conoscitivi parastorici: “allora tutto è falso”, “allora questo testimone è un imbroglione”, “allora non si può sapere cosa accadde”. Il docente sceglie se prevenire le possibili interpretazioni sbagliate con una breve lezione prima del laboratorio, oppure aspettare gli allievi al varco, con le loro interpretazioni spontanee, e discuterne con loro. “Ogni documento è menzogna. Sta allo storico di non fare l’ingenuo”: Jacques Le Goff scrisse questa regola aurea nel 1978. Vale anche per le foto iconiche (potrà essere utile attrezzarsi con la rilettura della voce monumento/documento dell’Enciclopedia Einaudi).

    Nella redazione del testo riassuntivo della discussione, dunque, il fatto in sé non va messo in dubbio. Susan Sontag, la celebre scrittrice e studiosa della fotografia, ci assicura che non c’è alcun motivo per sospettare dell’autenticità di quello che vediamo nella foto che Eddie Adams scattò il primo febbraio del 1968 (S. Sontag, Regarding pain of the Others, Picador, N.Y. 2003, p. 47). Le domande, le incertezze, le ipotesi, le suggestioni contrastanti riguarderanno i motivi di questa azione, le intenzioni dei protagonisti, il suo significato, il contesto e l’impatto che questa ebbe sulla società.

    Ecco i nuovi testi da consegnare agli allievi.

     

    e. La produzione della fonte

    Eddie Adams è solo uno dei 537 addetti stampa che seguono la guerra. L’Associated Press (AP), l’agenzia per la quale Adams lavora, è presente in forze con più di venti fotografi. Ogni giorno di guerra vengono scattate migliaia di foto. Solo poche di queste passano il filtro delle redazioni e vengono comprate dai media. Solo pochissime diventeranno le “foto che tutti guardano”, quelle che ti rendono famoso. Si può immaginare quanto sia spietata la concorrenza fra i reporter. Confessa Horst Faas, rivale acceso di Adams: "Cercavo di apparire sui giornali ogni giorno, per battere la concorrenza con foto migliori" (A. Hamilton, Horst Faas. The Chronicler of Vietnam who captured horror, 2012).

     

    E, per converso, poiché i media erano una macchina enorme che viveva delle loro foto, si può immaginare quale pressione le diverse agenzie fotografiche esercitassero sui fotoreporter, spingendoli a correre rischi a non finire pur di scattare un’istantanea di successo. Non dobbiamo dimenticare che, nel corso di quella guerra, ben 135 di loro persero la vita (T. Bartimus, A homage to the photojournalists lost to decades of war in Vietnam, 29 aprile 2020). 

     

    Adams era supportato da una troupe della NBC, una delle più importanti reti televisive americane, che lo seguiva nella sua caccia. Quella mattina, dunque, quando si seppe che un vietcong era stato catturato, il gruppo di giornalisti si precipitò per strada, seguì il drappello di soldati che scortava il prigioniero e, quando questi fu portato di fronte al generale, si schierò per riprendere ciò che sarebbe accaduto. Questo vuol dire che la foto mostra unicamente alcuni dei partecipanti alla vicenda. Ma il generale Loan non è solo con la sua vittima. Ha di fronte a sé un gruppo di fotoreporter e cameramen, con i loro assistenti, armati di macchine fotografiche, telecamere e microfoni. Sa che, attraverso loro, è osservato da un pubblico mondiale. Loan, quindi, vuol dare una lezione al mondo. “Non avrebbe giustiziato sommariamente il sospetto vietcong se non ci fossero stati dei giornalisti a testimoniarlo”, conclude lapidariamente Susan Sontag (S. Sontag, Regarding pain of the Others, Picador, N.Y. 2003, p. 47).

     

    È versaigon camera oscuraThe Saigon Execution, nella camera oscura, dopo essere stata sviluppata, viene messa ad asciugare.o che, successivamente, Adams ebbe a dolersi di questa foto. Aggiunse, per rincarare la dose, che era una foto sbagliata, fatta male, che non l’avrebbe mai voluta scattare (M. Persivale in “Corriere della Sera”, 24 dic. 2009) . Ma Peter Arnett, uno dei giornalisti americani più famosi e seguiti, racconta di quella notte in cui Adams sviluppò i negativi, aiutato proprio da Horst Faas che li esaminava con la lente di ingrandimento: rivela che quando questi vide la foto “mormorò 'maledetto' e consegnò il film a Eddie che lo guardò e lanciò un ‘whoop’ ". I due fotografi avevano capito a colpo d’occhio che quella foto valeva oro (In guerra con Eddie Adams, “The digital Journalist”, ottobre 2004). Infatti, quando il rollino giunse nella sede dell’AP, i giornalisti esplosero in esclamazioni di giubilo (R. Hamilton, cit., p. 182).

     

    f. L’affidabilità dei testimoni

     

    Non abbiamo testimonianze dirette e al tempo stesso complete della Saigon Execution. I testimoni raccontano i particolari poco per volta, spesso dopo anni. Per esempio: che cosa disse Loan, dopo aver ucciso il vietcong? Adams, in varie occasioni, dichiarò che pronunciò queste parole: "Ha ucciso molti dei miei uomini e molti della tua gente". Questa frase viene riportata concordemente dalla stampa del tempo (R. Hamilton, cit., pp. 175-176). Invece, secondo David D. Perlmutter, studioso di foto iconiche che scrive nel 2004, Lém avrebbe detto: “Molti americani sono stati uccisi in questi ultimi giorni e molti dei miei migliori amici vietnamiti. Ora lo capisci? Buddha lo capirebbe”. Altri, ancora, specificano: “Buddha mi perdonerà”. (C. Bonnet, cit., 2017). Ma noi possiamo pensare, leggendo l’intervista di Oriana Fallaci, che Loan era cristiano (“aveva un crocifisso al collo”). Quanto sono credibili le aggiunte?

     

    Inoltre: come faceva Loan a sapere che Lém aveva ammazzato senza pietà una famiglia intera? La sequenza delle foto, e più ancora il video girato dalla NBC, non sembrano lasciare spazio a un momento in cui il generale viene informato. Il prigioniero arriva e viene immediatamente giustiziato: il tutto in meno di dieci secondi. Nella ricostruzione di Ken Burns, il viet cong arriva, Loan ordina a un soldato di ucciderlo, e quando questo indugia, allontana tutti agitando la pistola, dice “ti giustizio” e lo uccide. (In The Execution of a vietcong, History Channel, 2016, min. 2.20-2.30, con spezzoni di intervista a Adams e alla moglie di Lém).

     

    Le precisazioni si aggiungono e si accavallano col passare del tempo: ha ucciso una famiglia intera, con i nonni e i bambini; no, era la famiglia di un amico di Loan; in più, ha ordinato la fucilazione di oltre trenta civili. Oriana Fallaci chiede a Loan perché non divulgò subito i crimini commessi da Lém. Lui rispose, con uno scatto di orgoglio, che non aveva bisogno di giustificazioni. Potremmo rivolgere la stessa domanda all’Amministrazione Usa, quando si accorse che la foto stava diventando uno strumento della propaganda antiamericana. Perché non dirlo subito, per fermare l’uso ostile di quella foto? Nel 1985, Ted Welch notava una contraddizione in una intervista che Adams aveva appena rilasciato a “Newsweek”. Questi, infatti, aveva affermato che “quell’uomo aveva ucciso il miglior amico di Loan e tutta la sua famiglia”. Welch trovava che questa coincidenza fosse difficile da credere, e si chiedeva perché Loan (o Adams stesso, aggiungiamo noi) non avesse divulgato questa informazione, data l’attenzione pubblica che l’esecuzione aveva richiamato” (R. Hamilton, pp. 181 s.).

     

    Lém, il vietcong, è veramente un assassino spietato? La moglie sostiene che non ha mai fatto nulla di male e che, in realtà, lo si è confuso con un'altra persona. Notizia ripresa dalla versione vietnamita di Wikipedia che mette in dubbio l’identità della vittima.

     

    g. L’impatto sociale della fonte

    Lo ripetono in molti, quasi come un mantra, nei commenti e nei libri che parlano della Saigon Execution: quella foto fu una bomba psicologica che allontanò la maggioranza della popolazione dal sostegno alla guerra e costrinse l’amministrazione americana a iniziare una procedura di sganciamento. È la foto che fece perdere la guerra.

     

    Sostiene questa tesi Peter Braestrup, fotoreporter tra i più impegnati in quella guerra (Big Story: How the American Press and Television reported the Crisis of Tet 1968: vedine la buona recensione di George Herring, 1979). Ma di parere decisamente diverso è Don Oberdorfer, anche lui un giornalista sempre presente sui campi di battaglia.

     

    Potremmo continuare con le citazioni: la discussione fra gli addetti ai lavori è inesauribile. Per trovare qualche punto fermo, dobbiamo uscire da quel dibattito e cercare tracce concrete dell’impatto popolare della foto. Se, dunque, andiamo a vedere i sondaggi, questi ci danno un risultato paradossale: da una parte aumentano coloro che pensano che la guerra verrà perduta; ma dall’altra, ed è questo che ci interessa, i sostenitori della guerra non diminuiscono affatto, anzi aumentano. Infatti, i contrari all’intervento americano, che erano il 52% nel febbraio del 1967, scesero al 42% un anno dopo, a foto già pubblicata (W. M. Hammond, The Tet Offensive and the News Media, in “ Army History”, 70, 2009, pp. 6-16, 9 ). David D. Perlmutter (2004) scrive che “non c’è nessuna prova che questa foto abbia avuto un effetto significativo sulla pubblica opinione americana”. E conclude il suo studio sulle fonti iconiche sostenendo che quello della “foto che fece perdere la guerra” è solo un mito. 

     

    Ciò che va in crisi – continuano a raccontarci le ricerche sul campo -  è la fiducia in Lindon Johnson, il Presidente americano. La gente non crede più che sia la persona adatta a guidare la nazione. Contro di lui si schierano, quindi, sia i pacifisti, che lo accusano di aver aumentato a dismisura l’impegno americano nel Vietnam, sia i "falchi frustrati", i sostenitori della guerra che lo avevano appoggiato fino a quel momento, ma che ora vogliono che venga sostituito da un nuovo condottiero. (P. Hagopian, The “Frustrated Hawks, Tet 1968, and the Transformation of American Politics, in “European Journal of American Studies, 2008, numero speciale sul ’68).

     

    Ma non si tratta di interpretazioni spontanee. Perché l’icona sviluppi le sua forza ha bisogno di persone, di apparati che ne guidino la lettura. Il potere sociale della foto non promana dall’immagine in quanto tale (N. Smith Dahmen et al., The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon).

     

    Quella foto fu usata dall’apparato propagandistico vietnamita e in tutto il mondo diventò il simbolo dell’aggressione americana. Fu autentica benzina per i movimenti contestatori pacifisti, ma – osserva Martin Kemp – “potremmo supporre che venisse usata anche per dire ai Vietcong : “ecco cosa vi può capitare …” (Christ to Coke. How image become ikon, Oxford U.P, 2012, p. 207). Forse fu proprio questa sua duttilità che non dissuase gli americani dal loro appoggio alla guerra e dal desiderio “di fargliela pagare” ai guerriglieri comunisti. D’altra parte, non ci erano riuscite le ben quarantamila immagini prodotte e fatte circolare dal movimento pacifista. Ciò che questa foto ottenne (o rinforzò) fu il giudizio negativo sul modo con il quale l’amministrazione stava conducendo quella guerra, ma non sulla guerra in sé. (D. Kunzle, Killingly Funny: US Posters of the Vietnam Era, in Vietnam lmages: War and Representation, cit., pp. 112-122).

     

    Inoltre, in quel 1968 avvennero altri fatti gravissimi che sconcertarono gli elettori americani e che influirono nell’orientarli politicamente: l’assassinio di Martin Luther King, il leader del movimento per i diritti civili dei neri (15 gennaio); l’assassinio di Bob Kennedy, il fratello di John, che privò del suo principale candidato l’ala progressista del partito Democratico (6 giugno). Il 20 agosto le truppe del patto di Varsavia invasero Praga e – evento probabilmente decisivo – il 26 agosto la Convention del partito Democraticosi spaccò fra i sostenitori della guerra – i falchi frustrati – e i pacifisti, . Questa degenerò in scontri violenti, nei quali intervenne brutalmente la polizia. Ha scritto di recente Louis Menand che da quel momento gli elettori bianchi abbandonarono il partito Democratico, come apparve chiaramente alle elezioni presidenziali del successivo 5 novembre, che consegnarono a Richard Nixon la palma del vincitore (David Culbert discute l’impatto complessivo di questi eventi sull’opinione pubblica americana in Television's Visual Impact on Decision-Making in the USA, 1968: The Tet Offensive and Chicago's  democratic National Convention in “Journal of Contemporary History”, 33, 3, 1998, pp. 419-449).

     

    La foto ebbe certamente il potere di deprimere il Presidente Johnson, al punto da spingerlo a non ripresentarsi per il secondo mandato. Ebbe un grande impatto sulle élites mediatiche, sui giornalisti, la gente di cultura, i politici, i giovani del Sessantotto. Sul resto della popolazione – la maggioranza - non sembra aver avuto lo stesso effetto. Con le parole di Perlmutter: “The Saigon Execution colpì Johnson, ma non la gente, che non si lascia convincere da una sola foto, e per la quale la vittima era comunque un nemico, uno che spara ai nostri ragazzi”. William M. Hammond è ancora più chiaro: “Quello che la maggior parte del pubblico pensava aveva poco a che vedere con quello che presumevano i critici dei media” (The Press in Vietnam as agent of defeat, in “Reviews in American History”, 17, 2,1989, pp. 313-323, 315).

     

    “Il punto cruciale, quindi, è che il contesto più importante - e spesso trascurato - della valutazione di un'immagine iconica sono i pregiudizi del pubblico; come sempre, credere è vedere. Le persone possono guardare qualsiasi immagine e creare ciò che vogliono farne. I commentatori d'élite si inoltrano su un terreno psicologico molto incerto quando affermano che qualsiasi immagine "naturalmente" provoca una certa reazione. Un'immagine può essere "divertente" per una persona e "rivoltante" per un'altra”. (N. Smith Dahmenet al., cit.).

     

    Il punto sul dibattito in classe

    Il dossier appena esaminato dovrebbe permettere alla classe di giungere a nuove conclusioni, con le quali modificare quelle che hanno aperto questa seconda fase.

    Che cosa ci dice della guerra del Vietnam questa foto, se la guardiamo al di fuori del suo contesto? Nulla di più di ciò che si deve dire, normalmente, di qualsiasi guerra. L’orrore della morte. Nelle guerre si uccide e si viene uccisi. La fonte aggiunge a questa informazione una emozione così violenta da indurre un forte senso di ripulsa. È probabile che questa sia la reazione di tutti, ieri come oggi. Ma “ripudiare la guerra in generale”, come abbiamo visto, non equivale al rigetto di quella guerra particolare.  

     

    Ciò che interessa lo storico non sono (soltanto) le reazioni emotive. Sono piuttosto i giudizi e le conseguenze che ne ricava il destinatario di quella foto. Questo laboratorio dovrebbe aver permesso di scoprire che, nel passato, ognuno vi ha ascoltato e visto cose diverse: il vietnamita, il giovane contestatore, il presidente Johnson o il suo successore, Richard Nixon, un esponente della minoranza colta o della maggioranza popolare americana. Ognuno ha visto nella foto qualcosa che confermava suoi convincimenti precedenti.

     

    Questo laboratorio, di conseguenza, ha posto il problema di cosa possiamo vederci noi. Innanzitutto, ci ha indotto a prendere qualche distanza dalla lettura spontanea di una fonte iconica. Forse è proprio questa che favorisce la mitologizzazione dell’immagine. Nell’analisi micro (la scena dell’esecuzione), abbiamo osservato, invece, che quella foto non ci racconta di protagonisti completamente cattivi, né di vittime del tutto innocenti. Per quanto riguarda il contesto generale, abbiamo intravisto una macchina poderosa, quella dei media, che agisce in una situazione politica e militare complessa, che si avvale di questa foto come di un potente strumento di combattimento. Quella foto, dunque, non ci informa sulla guerra (della quale non ci dice molto di più di quello che sappiamo da altre fonti e, oltre tutto, ce lo dice anche con qualche incertezza), ma è essa stessa un’arma di quella guerra. Se la guerra è un orrore, quella foto non va considerata da noi come uno “spiraglio per guardarlo meglio”, ma come uno degli strumenti in qualche modo coinvolto nella sua produzione.

     

    Certo, di molta parte delle testimonianze di guerra si può dire che sono talmente coinvolte nel conflitto da farne parte attiva. Lo specifico della foto iconica è proprio in quella sua potenza evocativa che fa pensare a tutti (anche a molti studiosi) che non ha bisogno di didascalie. No captions needed. Ma, senza parole, l’icona può essere piegata a molte interpretazioni e, quindi, usata da molti soggetti. "Il potere delle immagini iconiche non è una forza unica che copre tutte le eventualità. Piuttosto, un'immagine iconica può avere potenzialità diverse che possono o meno coincidere con l'interpretazione di quell'immagine o il modo in cui tale immagine viene impiegata”. (N. Smith Dahmen et al., cit., The Influence-Network Model of the Photojournalistic Icon).

     

    *questa è la prima parte di un articolo sulla Saigon Execution, a sua volta parte di un corposo intervento di HL sul Sessantotto, composto da due interventi su “Sessantotto. Un anno spartiacque”, scritti da me; da due sitografie sul Sessantotto e una sui movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam, scritte da Antonio Prampolini; una presentazione multimediale interattiva per svolgere il laboratorio con una LIM oppure a distanza, curata da Lucia Boschetti. 

  • The Saigon Execution. “La foto che fece perdere la guerra”. (Seconda parte)*

    Laboratorio su una foto iconica: il rapporto col presente. 
    Con un'appendice interdisciplinare di filosofia e storia dell'arte.

    di Antonio Brusa

     

    Introduzione

    Dopo aver analizzato e contestualizzato The Saigon Execution nella prima parte di questo laboratorio, ora cerchiamo di approfondire il rapporto fra noi e quel documento di cinquant’anni fa. Si tratta di lavorare in uno spazio quasi naturalmente interdisciplinare, dal momento che vi sono interessate filosofia, letteratura e le discipline della comunicazione in curricolo (visiva e no). Qui ci occuperemo solo del versante storico/storiografico, lasciando ai colleghi il compito di approfondire le tracce delle altre materie.

    01Fig. 1 E. Adams/Associated Press, General Nguyễn Ngọc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon (1968).Nguyen Hanhil regista del filmato della NBC, che come si è già visto, venne girato mentre Adams scattava la foto, confessa che quella scena è ancora oggi intollerabile (in “IndieWire”, 23 sett. 2017). Ha spiegato con efficacia Susan Sontag: “Chi guarda oggi, anche a molti anni di distanza da quando quella foto fu scattata, è come chi guardava allora… bene, uno può fissare queste facce a lungo e non raggiungere mai il fondo del mistero, e dell’indecenza, di essere una sorta di co-spettatore” (Regarding pain of the Others,  cit, pp. 47 s.).

    Più di cinquant’anni ci separano dalla nascita di quell’icona. Dentro questo mezzo secolo si sono susseguiti cambiamenti quali di rado studiamo in altri periodi storici. Con quella guerra è finito il trentennio postbellico di crescita galoppante che gli storici chiamano “l’età d’oro”. La successiva globalizzazione ha creato un nuovo scenario mondiale che, dopo la crisi del 2008 e quella attuale del Covid19, probabilmente ci riserva mutamenti ancora più radicali. In ciascuna di queste epoche, nonostante la loro diversità, l’icona di Saigon non ha cessato di scioccare chi la guardava. Ogni volta, come scrive Sontag, ha creato nello spettatore la sensazione di essere in quella strada di Saigon. Quando guardiamo la foto, quei cinquant’anni sembrano svanire: è la straordinaria capacità dell’icona di nascondere il tempo.

    Ricontestualizzare quella foto è anche capire la differenza fra il mondo nel quale venne prodotta e quello nel quale, noi, oggi, la osserviamo. È riuscire a “vedere” il tempo che si frappone come un filtro attivo fra noi e la fonte, modificandone continuamente il senso e, insieme, riuscire a collocarci nel “posto giusto” per guardare quell’evento.

    Il materiale di questa sezione può essere organizzato didatticamente in vari modi. Da quello più tradizionale, come supporto per una o due lezione, a modelli più interattivi e di discussione, sulla falsariga delle proposte precedenti. Divido il percorso ancora una volta in due fasi. Nella prima (la terza fase del percorso completo) si affronta la questione della differenza fra il nostro tempo e gli anni ’60 dal punto di vista della circolazione e della fruizione delle immagini. Successivamente, a partire dall’analisi del documentario di Ken Burns e Lynn Nowick War in Vietnam (visibile in Italia su Netflix), si porrà la questione fondamentale del rapporto fra la storia scientifica e l’uso pubblico del passato.

    Per la terza fase suggerisco di fornire agli allievi una tabella per fissare le idee durante la lettura del dossier, composto, possibilmente, da tutti i brani che qui sono riportati. La tecnica è quella già sperimentata. Il dossier si legge individualmente (anche a casa) o nel piccolo gruppo e si compila contestualmente la tabella. Poi si discutono le conclusioni in plenaria: interesserà scoprire se gli allievi comprenderanno fino in fondo la necessità di una solida educazione all’uso dei media e alla lettura delle immagini nella nostra società della comunicazione. I testi di questa sezione sono più lunghi e concettualmente più densi della sezione precedente. Quindi la durata di questa fase dipenderà dalla competenza della classe.

     

     

    Anni ‘60

    Oggi

    Osservazioni/conclusioni personali

    Numero immagini e strumenti per produrle

         

    Deperibilità immagini

         

    Soggetti produttori delle immagini

         

    Agenzie di produzione/regolazione della circolazione delle immagini

         

    Cultura/etica dei produttori di immagini

         

    Cultura/etica dei fruitori di immagini

         

     

    1. Terza fase: dalle icone ai selfie

    Numeri e differenze di mondi

     

    "Quest'anno scatteremo mille e duecento miliardi di foto", ha scritto nel 2017 Caroline Cakebread. Se l’incremento è quello descritto dal grafico – più o meno cento miliardi l’anno - le foto scattate in questo 2020 dovranno aggirarsi intorno ai millecinquecento miliardi. Al tempo della guerra del Vietnam il numero delle foto era sui 3 miliardi ogni anno. Una quantità imponente rispetto al passato, che già allora marcò la differenza fra quella guerra e tutte le precedenti. La medesima quantità diventa irrisoria se confrontata con quella dei tempi attuali, quando un miliardo di foto si consuma in quarantott’ore, e basta una settimana per produrre tutte le foto che si facevano allora in un anno. È una disparità che ci avvisa dell’enorme distanza (che non è solo tecnologica) fra il nostro mondo e quello di The Saigon Execution.

    02Fig. 2 Gli smartphone producono il boom fotografico 

    Infatti, se la rivoluzione della tecnologia è scandita dal passaggio della macchina analogica a quella digitale e, in questo scorcio di secolo, agli smartphone, ad essa si accompagna un rivolgimento culturale complessivo, dovuto al fatto che la rete trasforma il pubblico che guarda la foto nell’attore principale della sua diffusione. (Questa “rivoluzione fotografica” è parte della più vasta rivoluzione digitale, sulla quale si veda il dossier per le scuole curato da A. Cavalli, su “Mundus. Rivista di didattica della storia”, 3-4, 2009, pp. 62-90). 

    Saigon Execution venne stampata in piena “Golden Age” della fotografia. Era il periodo nel quale il sistema professionisti/agenzie/media dominava la circolazione delle immagini. Queste, come abbiamo già visto nella seconda fase di questo lavoro, erano realizzate da fotografi professionisti, spesso dipendenti da grandi agenzie; venivano selezionate dalle direzioni dei giornali e dei network e da queste distribuite in tutto il mondo. Questo sistema, che aveva gestito l’informazione su guerre, matrimoni regali, assassini di presidenti, morti di principesse, viene travolto quasi di colpo dallo “tzunami delle immagini”.

    Di colpo, i produttori di foto si sono moltiplicati all’infinito, e ciascuno di essi è diventato il possibile punto di partenza di una distribuzione mondiale.

     

    Una foto emblematica del presente

    03Fig. 3 J. Krums, The Hudson Miracle (2009) https://twitter.com/jkrums/status/1121915133?lang=e.The Hudson Miracle (2009)la foto dell'aereo fortunosamente ammarato nell'Hudson, fu scattata col suo cellulare da Janis Krumsun giovane emigrato lettone che si trovava per caso su un aliscafo di linea che, visto l’incidente, aveva sollecitamente virato per andare a salvare i passeggeri. L’aveva twittata ai suoi 170 followers, commentandola come si fa con gli amici: “C’è un aereo sull’Hudson. Sono sul ferry per recuperare le persone. Pazzesco”.  La foto divenne virale. In un battibaleno entrò nelle redazioni e nelle case della gente comune di tutto il mondo. I fotogiornalisti dell’AP arrivarono sul posto troppo tardi, beffati da uno sconosciuto. "E' la cronaca istantanea fatta dai cittadini",  commentò quel giorno la stampa Citizen photo of Hudson River plane crash shows Web's reporting power, in "Los Angeles Times", 15 gennaio 2009).

    Dentro quel commento vi era l’aspettativa dell’annullamento di due distanze: quella tra il fatto e la cronaca (dal momento che questa diventava istantanea) e quella fra il cittadino e il giornalista (dal momento che le due figure si identificavano).  The Hudson Miracle sembrava far emergere il lato positivo – democratico - di quell’11 settembre di otto anni prima, quando l’umanità intera vide compiersi sotto i suoi occhi l’attentato alle Torri gemelle.

     

    Icone perenni e icone a tempo

    Giudicato dall’osservatorio del XXI secolo, il mondo dello smartphone è quello della disintermediazione, opposto a quello di una camera oscura dove qualche Eddie Adams decide che cosa gli altri debbano vedere della guerra e come lo debbano vedere. Citizen-journalist contro Citizen Kane, potremmo dire con una facile battuta. Quel mondo, infatti, ci appare elitario, se lo confrontiamo al nostro, della produzione e del consumo di massa delle immagini. “C’era una golden age delle immagini iconiche, caratterizzata dal controllo top-down delle élites mediatiche. Ora, quest’era è finita, o sta finendo”. Ma in luogo di cedere il passo alla nuova età della democrazia informativa, il tempo nuovo sembra caratterizzato da “anarchia e da caos” (N. Smith Dahmen et al., cit.).

    Il caos si vede nelle immagini che si accavallano, si diffondono alla velocità della luce e scompaiono quasi con altrettanta rapidità. Anche quelle che diventano famose, e sono condivise da tutti nei social media, spariscono nel giro di pochi giorni. Sono le “hypericons” del XXI secolo. Questo neologismo designa icone a scadenza rapida, che durano a volte pochi giorni e svaniscono, trascinando spesso con sé le emozioni che hanno suscitato. 

    Un caso esemplare è quello della foto di Alan KurdiSi tratta di un’istantanea molto simile a quella di Adams, dal momento che venne scattata da una fotografa professionista per un’agenzia di foto (Turkish Dogan New Agency, 2015) e diventò rapidamente un’icona potente, capace di smuovere governi. A cinque anni di distanza, ha conservato una certa carica emotiva (non si può restare impassibili guardando quel bambino), ma la sua forza politica e sociale, diluitasi nelle centinaia di morti in mare e cambiato il clima politico generale, è ormai incapace di incidere, come pure fece per breve tempo, sulle misure restrittive anti-migrazione (Dahmen ed al., cit., pp. 295 ss.). .). Il pubblico, sommerso da questo “tzunami nel salotto”, è quasi anestetizzato dalle tragedie che commuovono e scorrono veloci sui vari display domestici. Ne sono disorientati anche i professionisti dell’immagine. James Estrin intervista giornalisti e addetti ai media che si interrogano sulla difficoltà di produrre immagini che vincano l'immenso rumore di fondo della rete, che restino nel tempo e, addirittura, se ci sarà ancora spazio per qualcuno che faccia il loro mestiere. (Fact and Fiction in Modern Photography, 2015).

     

    Krums e Adams. Due mondi a confronto

    Il caos e l’anarchia caratterizzano anche il soggetto centrale di questa nuova società della comunicazione, il cittadino produttore/consumatore di immagini. È, come annunciava il “Los Angeles Times”, il prototipo del nuovo cittadino democratico? Anche in questo caso, l’Hudson Miracle è emblematico.

    Il commento via twitter che Janis Krums invia agli amici è una sorta di didascalia che ci aiuta a trovare qualche risposta. “Pazzesco”, digita Krums. “Pazzesco!” esclamano quelli che riprendono incidenti stradali, tzunami e terremoti, animali domestici, un arresto, una scazzottata, e riversano tutto nella rete.  “Pazzesco, esagerato, forte, allucinante” non sono solo espressioni tipiche del gergo fra pari, ma sono anche il criterio e la ragione per la quale l’immagine viene prodotta e messa in circolazione. A differenza di Adams, Krums non ha il dovere di mostrare ai concittadini eventi che giudica notevoli. Ha, piuttosto, il piacere di condividere con gli amici qualcosa di divertente, eccitante, strano.

    In altri casi, è l’indignazione o il desiderio di giustizia a muovere il cittadino, come fu per Ramsey Orta, che nel 2014 filmò il poliziotto che strozzava il suo amico nero, Eric Garner, che morì lamentandosi di non riuscire a respirare: "I can't breathe". Una frase che è diventata il nome della foto virale, una canzone di Bea Miller, una tshirt dell’NBA, il grido di protesta delle comunità nere e che ha certamente contribuito (ma cinque anni dopo!) a punire il poliziotto assassino. Rapidamente dimenticata, com’è tipico delle hypericons, pochi l’hanno ricordata quando è tornata tragicamente alla ribalta per il fatto analogo avvenuto a Minneapolis (25 maggio 2020), messo in rete da una passante, Darnella Frazer che il giorno dopo è tornata sul luogo facendosi riprendere in un lungo video, a sua volta prontamente fatto girare online.  “I can’t breathe, quel grido di dolore che doveva cambiare il mondo (ma nulla è cambiato), titola Enzo Boldi su “Giornalettismo” (27/5/2020), uno dei pochi che accomunò da subito le due violenze. Per triste ironia, in questo flusso di immagini, l’unico cambiamento duraturo è stata la prigione, inflitta a Ramsey Orta con i pretesti più disparati, per i quali è ancora detenuto nel 2020. 04Fig. 4 I due I can’t breathe di Eric Gardner, New York 2014, e George Floyd, Minneapolis 2020 accostati da “Giornalettismo”. https://www.giornalettismo.com/george-floyd-i-cant-breathe/

     

    I selfie: condividere conoscenze o emozioni?

    Nella didascalia di Krums troviamo altri motivi di emblematicità. Il giovane, infatti, dopo aver dato la notizia (“c’è un aereo nell’Hudson”), comunica ai suoi followers che lui è proprio là dove si svolge la vicenda. Esserci. C’è un qualcosa di decisivo, del quale tutti parlano o parleranno, qualcosa di storico? Ci sono anch’io. È il mondo del selfie – del narcisismo digitale - che si celebra in quella foto. Krums, inoltre, si trova per caso in quel luogo: e anche questo è emblematico. Chi avrebbe mai detto che un giovane lettone, di passaggio a New York, avrebbe immortalato l’impresa di Chesley Sullenberger - Sully - il pilota che Clint Eastwood trasformò nell’eroe dell’omonimo film (2016)? Bene: quella foto, fortunosa quanto l’ammaraggio, ha regalato al suo autore una celebrità, che, per quanto effimera, gli ha procurato attraenti opportunità lavorative. Non è poco per un ragazzo di ventiquattro anni, con la testa piena di sogni ma senza un lavoro stabile. E’ il caso, dunque, che ti può far diventare l’autore di un’icona mondiale, come ti può far comprare il biglietto giusto del Gratta e Vinci (Christina Zdanovitcz, "Miracle on the Hudson" Twitpic changed his life CNN, 15 gennaio 2014 e S. Maistrello, Giornalismo e nuovi media. L’informazione al tempo delCitizen Journalist, Apogeo, Milano 2010, passim e cap. IV).

    Come le loro icone, Krums e Adams sono metonimie di due mondi, entrambi caratterizzati dalla pervasività delle immagini, ma opposti da molti punti di vista. Mentre il mondo di Adams è governato da soggetti razionali, che designano un’icona per scopi comunicativi o politici (qui non discutiamo se siano condivisibili o no), quello di Krums appare dominato dal ribollire di una varietà incommensurabile di intenzionalità individuali. Da una parte, troviamo professionalità spinte fino al rischio della vita; dall’altra, la voglia di eternare e condividere un brivido, non cambia molto se di complicità, di stupore, di orrore o di indignazione. Non è lontano dal vero (perché in rete ne abbondano esempi rivoltanti) che, se accadesse oggi, l’esecuzione di Saigon avverrebbe all’interno di un capannello di soldati e gente comune, armati tutti di cellulare. E questa, forse, sarebbe una nuova icona del XXI secolo.

    05Fig. 5 “La gente vittima degli attacchi terroristici usa i cellulari per registrare la propria esperienza” (AP, Londra, 7 luglio 2005)

    All’indomani degli attentati di Londra del 2005, Yoki Noguchi raccontava, dalle pagine della “Washington Post”, di una società futura dove innumerevoli Abraham Zapruder (il fotografo amatoriale dell’assassinio di J.F. Kennedy), grazie ai loro cellulari avrebbero assicurato ai loro concittadini un’informazione diretta e immediata. Sono in molti, dunque, a convenire con questo punto di vista e alcuni eventi, come il G8 (Genova, 2001), hanno dato anche agli italiani un assaggio di questa informazione democratica. Sfortunatamente, la connessione fra democrazia e rivoluzione digitale non pare una caratteristica stabile del XXI secolo. John Bridge e Helle Siøvag, analizzando quasi in diretta la copertura mediatica dell’assassinio di Benazir Bhutto (2007), esprimono un loro timore: “Non vorremmo concludere che questa marea crescente di riprese amatoriali, che scaturisce dagli eventi di un mondo in cambiamento, sia priva anche di un briciolo di quelle promesse rivoluzionarie contenute nella rivoluzione digitale” (Amateur images in the professional new, 2007).

     

    Icone sconsacrate

    06Fig. 6 “Con Blingee possiamo attenuare lo choc dei capitoli più oscuri della Storia” assicura Ultimate Outsider nel suo blog: http://blog.ultimateoutsider.com/2009/10/pimp-my-history.html

    “Icona”, di per sé, è un termine religioso che designa un oggetto sacro e immutabile. La foto iconica non è scalfita dal tempo, né gli uomini osano modificarla. È un’immagine “santificata”. È quasi naturale, dunque, che un’icona venga monumentalizzata, come è il caso – visto sopra - della Saigon Execution nel museo della guerra di Ho Chi Minh City; o trasformata letteralmente in un monumento, com’è accaduto all’alzabandiera di Jwo Jima nel cimitero di Arlington. L’icona del XXI secolo, all’opposto, non solo è caduca, ma è destinata a essere modificata da mille mouse, nel gioco inesauribile di meme, che ne “degradano progressivamente la portata simbolica”. E, in luogo di contribuire a diffondere un’immagine “santificata”, ne producono una “trivializzata” (S. Boudana et al., Reviving icons to death: when historic photographs become digital memes, in “Media, Culture & Society”, 2017, 39(8), pp. 1210– 1230, 1216).

    07Fig. 7 The Saigon Execution nella versione di Dolan & Bogs (comics a loro volta deformazioni dei personaggi classici di Walt Disney e dei Looney Tunes): https://knowyourmeme.com/photos/324948-dolan#trending-bar

    08Fig. 8 Hydra Online, Nam Flashback, 2016. La didascalia recita: "back in vietnam, they use hair dryers on us." https://steamcommunity.com/sharedfiles/filedetails/?id=827997981

    09Fig. 9 “Belle immagini possono essere utilizzate come sfondo del desktop, wallpaper o sfondo per il tuo cellulare”, recita la pubblicità di 4ever (http://immagini.4ever.eu/tag/26183/lego?pg=6), a sua volta una trivializzazione del lavoro di Mike Stimpson (https://www.urbancontest.com/photography/mike-stimpson-lego-starwars)

    Semiologi e studiosi di storia dell’arte prendono seriamente in esame questi meme. Ne leggono le potenzialità decostruttive, dissacranti, a volte il cinismo. Ma, quali che siano i valori che riescono scorgervi, questi sembrano esterni alla gamma dei significati che abbiamo visto accompagnare la storia della Saigon Execution. Sembra che il mondo attuale (o una parte di questo mondo) accetti di malavoglia di essere quel co-spettatore, del quale ci ha parlato Susan Sontag, quasi che ne rifiuti l’orrore insondabile, o non riesca a percepirlo. Questi giochi visivi sembrano voler chiudere con il passato e affermare un presente talmente distante da permettere di scherzare con raffigurazioni che per decenni sono state considerate sacre. Forse ci dicono che è finito il potere delle icone di comunicare valori, quei valori.

    Chiudo questa breve rassegna non con un meme, ma con il fotogramma di un film porno, che adopera la Saigon Execution come sfondo di una scena di sesso: autentico emblema del processo di sconsacrazione/trivializzazione delle icone (Sylvia Shin Huey Chong, The Oriental Obscene, Duke UP., Duran e London 2012, p. 92)

    10Fig. 10 “La violenza e l’oscenità sessuale si incontrano: la foto di Adam fa da sfondo a una scena erotica” (Sylvia Shin Huey Chong).

    Credo che questi materiali e questi ragionamenti ci autorizzino a usare anche per Saigon Execution le parole che Frédéric Rousseau ha riservato al Bambino di Varsavia, l’icona forse per antonomasia della Shoah: “L’immagine del Ghetto di Varsavia non è più un documento: ha smesso di essere uno strumento pedagogico; sfocata, travestita, abusata, stravolta, sequestrata, ha perduto la sua capacità di messa in guardia: non informa più; è erosa dagli usi distorti” (Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia, Laterza, Bari 2009, p. 152. I. Rossini ne scrive una recensione esaustiva nell’Officina della storia).

     

    Il mito della stampa indipendente

    Per chiudere il confronto fra passato e presente abbiamo bisogno di abbattere l’ultimo mito mediatico del Vietnam: che fu una guerra, forse la sola, nella quale la copertura dell’informazione fu completa e indipendente. Quindi, non fu unicamente questione di questa o quella foto: fu l’insieme dei media che, in luogo di sostenere l’amministrazione, come aveva fatto durante la Seconda Guerra mondiale, assunse un atteggiamento ostile che si rivelò fatale (questa tesi, oltre che da Nixon, fu sostenuta da Samuel Huntington alla Conferenza della Trilateral nel 1975: in D. Hattin, The "Uncensored War", Oxford U.P., N.Y., 1986, pp. 4 s ). Questo mito ha generato un’autentica malattia, la “sindrome del Vietnam”, che l’amministrazione Usa ha impiegato molti anni per curare e sostituire con l’Embed System, “il sistema di controllo e di repressione politica del pensiero, in nome della libertà, di maggior successo dai tempi dell’egemonia dell’impero romano” (Greg McLaughlin, The War Correspondent, Pluto Press, London 2016, p. 158).

     

    Diversi studiosi si sono adoperati per demolire la credenza di una stampa di guerra complessivamente avversa alla politica americana in Vietnam. Nonostante ciò, questa continua ad avere un largo credito ed è ampiamente riportata anche dai manuali. In essa c’è, indubbiamente, una parte di verità: quella che riguarda il gran numero di fotogiornalisti e cameramen che si aggiravano nel Vietnam del Sud; il fatto che gli Usa, non avendo mai dichiarato ufficialmente guerra al Vietnam del Nord, non emanarono quelle direttive che solitamente limitano l’attività della stampa durante un conflitto (per quanto abbiano cercato in molti modi di condizionarla); e, ovviamente, il confronto con il ferreo controllo dell’informazione (Embed System) che l’amministrazione americana attuò a partire dall’invasione di Granada (1983).

    Questo, però, non volle dire che i media – nel loro complesso - produssero una narrazione della guerra vietnamita critica, se non ostile, nei confronti dell’amministrazione americana, e nemmeno che, come scrive il corrispondente di guerra Robert Elegant, “quella guerra fu combattuta più sulle pagine dei giornali che sui campi di battaglia” (How to Lose A War: The Press and Viet Nam, 1981). Al contrario, una profusione di dati alla mano, William M. Hammond dimostra che la maggior parte dei servizi giornalistici sostenne l’amministrazione, anche dopo l’Offensiva del Tet, mentre al movimento pacifista venne riservato un trattamento in genere sfavorevole (W. M. Hammond, Reporting Vietnam: Media et Military at War,Lawrence, U.P. of Kansas, 1998: vedine la recensione).

     

    Etica, conoscenza e cittadinanza

    Come nacque, allora, questa falsa conoscenza? Fu opera principalmente di tre soggetti. In primo luogo dell’apparato militare, che aveva tutto l’interesse a trovare un capro espiatorio della disfatta (M. Griffin, Media Images of War, in “Media, War & Conflict”, 3,1, 2010, pp. 7– 41, 20 ); poi, della destra conservatrice, che sosteneva la tesi che la stampa aveva indebolito in modo irrimediabile il fronte interno; e infine, paradossalmente, della stampa progressista, che si difendeva rivendicando il ruolo di “cane da guardia” dei cittadini contro le menzogne della politica. Scrive Daniel Hattin che queste due ultime posizioni, per quanto politicamente inconciliabili, collaborarono di fatto nel creare la convinzione che i media furono contrari all’amministrazione. (The "Uncensored War", cit.)

    Al di là della documentazione imponente che questi storici mettono in campo (e senza entrare nei dettagli della discussione storiografica), qui ci interessa richiamare l’argomento culturale fondamentale che regge il loro discorso e che, in genere, è condiviso dagli studiosi della comunicazione. Il fatto cioè che il sistema informativo americano, che nasce e si consolida come “quarto ramo dello stato”, non poteva strutturalmente essere, e non lo fu in quell’occasione, “antiamericano”. Il dovere di informare correttamente, che in quel sistema è non solo un dato professionale ma anche una norma etico/politica, va collocato nel quadro di una lealtà verso lo stato mai messa in discussione, soprattutto, come nel caso del Vietnam, ai tempi della Guerra fredda. C’è una vocazione pedagogica di fondo in quell’idea di giornalismo, costruita sull’esigenza di soddisfare il “diritto” dei cittadini americani di tenere “sotto i propri occhi” ogni angolo del pianeta. Era un nesso politico forte, in America, quello fra realtà, media e cittadinanza.

    Quest’ultima considerazione ci permette di chiudere il confronto fra i due mondi dell’informazione – quello degli anni ’60 e l’odierno – completandolo col punto di vista etico. Nel mondo della “Golden Age”, il professionista dell’informazione, agente portante della “quarta colonna dello stato”, sente il peso del suo compito. Pensiamo ai tormenti sull’opportunità della Saigon Execution che afflissero Adams.  Nel mondo attuale, il soggetto esulta per il numero di like che la sua foto ha ottenuto. In quello passato, chi guarda la foto, ne ricava un’idea e l’utilizza per svolgere un ruolo nel gioco politico nazionale (votare, discutere di politica con gli amici, farsi un’opinione della guerra, prendere posizione ecc). In questo, chi guarda la foto e gli piace, può limitarsi a rimetterla in circolo senza altri intendimenti che quello di spartire un sentimento con i followers e di incrementare il loro numero. A quel mondo informativo, dunque, è connesso un profilo di cittadino e un intento di formazione alla cittadinanza che nel secondo sono assenti, o sono affidati unicamente alla sensibilità individuale. Questa mancanza di formazione ai media (nel produrli e nell’usufruirne) mostra tutta la sua criticità proprio oggi, al tempo dello “tzunami delle immagini”. (Sul tema dell’analfabetismo iconico si veda il mio Una grammatica delle immagini: la cultura iconografica tra manuali e didattica della storia, in “Visual History”, 3, 2017).

     

    2. Quarta fase. The American Tragedy, fra storia e archeologia dei sentimenti

    Dalla camera oscura all'aula: la foto in classe.

     

    In questa fase entra in gioco la storiografia e il suo rapporto con l’uso pubblico della storia. Anche in questo caso immagino due alternative. Quella tradizionale, con una lezione possibilmente animata dalla proiezione dei video indicati; e quella partecipata, con lettura, discussione in gruppi, e plenaria conclusiva. Ho introdotto, ancora, alcuni elementi di didattica. Sono naturali, da una parte, perché si inizia con una clip didattica americana; ma credo che siano utili alla fine del percorso formativo degli allievi per discutere con loro del senso della formazione storica (e in pratica, lavorare nel campo delle metaconoscenze).

     

    Guida alla lettura della clip

    The Vietnam War è un’imponente serie televisiva, girata da Ken Burns e Lynn Nowick per la PBS (2017), che in dieci puntate racconta la guerra del Vietnam, servendosi di spezzoni di filmati e di telegiornali, di foto d’epoca e di ben 79 testimonianze di sopravvissuti, rappresentanti di tutte le forze in campo. Attualmente fa parte del pacchetto di Netflix. Abbiamo già citato, al principio di questo articolo, la sesta puntata Tutto cade a pezzi,dedicata all’Offensiva del Têt, con l’episodio dell’esecuzione di Lèm. Qui dobbiamo richiamarla, perché è corredata da una unità di lavoro specifica per le scuole. (Tutta la serie offre un’ampia sezione dedicata alla scuola: Ken Burns in the classroom. Peraltro il sito Pbs learning media è gratuito, ricchissimo di unità di lavoro di storia contemporanea, interamente basate su materiali multimediali, che, rivisti criticamente, sono utilizzabili anche in Italia, grazie a Google traduttore e alla sottotitolatura delle clip).

    L’unità di lavoro dura due ore scolastiche di 50’. Comprende quattro clip della durata di 3/5 minuti ciascuna. Quella dell’uccisione di Lèm è la più breve, di 1.58’’. È corredata da istruzioni per i prof e dalla sequenza operativa (A media analysis activity), costituita da nove domande aperte e da una prova sintetica finale: “Scrivi un editoriale sull’Offensiva del Tet”.

    La clip Execution of a Viet Cong Soldier è centrata sul video della NBC, incastonato fra spezzoni di guerra e interviste. Si apre con un Lyndon Johnson che annuncia in tv che il tentativo comunista di ottenere una vittoria militare e psicologica è fallito. Seguono cadaveri e scene di combattimento, mentre la voce fuori campo spiega che queste immagini inondavano di violenza le case delle famiglie americane. Ora il filmato si blocca sulla foto di Adams. Un testimone oculare (non si specifica che è un marine americano) racconta che era vicinissimo ai due protagonisti. Ricorda che il fotografo scattò la foto nel momento preciso in cui il generale premeva il grilletto e che vide il proiettile uscire dalla testa di Lém. Il vietnamita morì sotto i suoi occhi. Aggiunge un commento sullo choc che quella foto provocò in America, e afferma che quella foto indusse gli americani a chiedersi se non stessero aiutando “quelli sbagliati”. Subito dopo, un altro testimone, un addetto stampa dell’esercito, conferma che quella foto, vista a pranzo o a colazione, riempì di orrore gli americani, al punto che si chiesero quando tutto questo sarebbe finito. E, per ultimo, un militare sud vietnamita conclude che quella foto mise in pessima luce l’esercito del suo paese, che (lo dice mentre scorrono le immagini del generale Loan che fuma sorridente) da quel momento venne considerato dagli americani un alleato sbagliato. Quella foto, sentenzia nelle ultime battute della clip, fu il turning point della guerra.

    11 12Fig. 11 Il presidente Lyndon B. Johnson e il giornalista Garnett D. “Jack” Horner https://prde.upress.virginia.edu/conversations/4005941

    La tesi interpretativa di Burns e Nowick emerge con chiarezza in un’altra clip di questo dossier: Press Coverage of the War. Questa si apre ancora una volta con Johnson che si lamenta del trattamento bugiardo che la stampa sta riservando alla guerra (si tace sul fatto che questa telefonata a un giornalista amico, Jack Horner della “Washington Star”, ha lo scopo di attaccare la stampa avversaria: qui la trascrizione completa della telefonata).

    Johnson protesta che non è possibile presentare come una disfatta una battaglia nella quale “il Buon Dio ci ha permesso di uccidere 20 mila nemici e noi abbiamo avuto solo 400 morti”. La voce fuori campo prosegue spiegando che i media si concentrarono solo su Saigon, mentre nel resto del paese i Vietcong venivano respinti dai sud vietnamiti e dagli americani. Fra il crepitio dei mitra e i soldati che corrono da tutte le parti, un giornalista informa i telespettatori che forse è stato ferito a una gamba (sic!). Si chiude con la frase infelicissima che un maggiore dell’esercito avrebbe detto a un reporter dopo la battaglia di Ben Tre, una città sita nel delta del Mekong: It became necessary to destroy the town to save it (“E’ stato necessario distruggere la città per salvarla”).

    Si può prevedere che cosa un allievo americano avrà risposto a domande quali: “secondo te la copertura mediatica fu corretta?” e che cosa avrà scritto nel compito finale, che gli raccomanda di spiegare, in forma convincente e in buona scrittura, “perché il pubblico americano si fece dell’Offensiva del Tet un’idea diversa da quella del Governo degli Stati Uniti”. Né sarà sbagliato pensare che questa unità di lavoro radicherà negli studenti la convinzione che la Saigon Execution fu una delle cause della sconfitta.

    Milioni di spettatori fanno di Ken Burns il public historian più ascoltato negli Usa. Qui ci interessa notare che, per la serie sulla guerra del Vietnam, Burns ha volutamente fatto a meno della presenza degli storici accademici. Ha dichiarato che sono noiosi e allontanano il pubblico con le loro sottigliezze e le loro continue discussioni. Invece - ecco la sua convinzione - occorre che la gente ascolti una narrazione condivisa da tutti e curi le ferite causate da questa tragedia. Per questo, la sua è una “storia dal basso”, che racconta una comune sofferenza: di vietnamiti comunisti e no, di americani militari e civili, pacifisti e guerrafondai. In conclusione la sua tesi sembra essere questa: poiché nel discorso pubblico la storia accademica è controproducente, meglio lasciar parlare le fonti: film, giornali, testimoni, canzoni e foto. (Andrew Gawtorpe, Ken Burns, The Vietnam War and the Purpose of History, in “Journal of Strategic Studies”, 43, 1, 2020, pp. 154-169,).

    Questa presa di distanza dalla storia professionale è l’occasione giusta per mettere in luce il contributo della disciplina nel compito di rapportarsi a un passato doloroso. Cerco di farlo sviluppando due ordini di ragionamento e tenendo conto – in particolar modo – delle questioni didattiche connesse: in primo luogo, l’ordine della narrazione complessiva, quello in pratica della storia generale (in realtà un problema poco sentito nella didattica anglosassone); in secondo luogo, le questioni di epistemologia e metodologia collegate con l’uso dei documenti.

    Il primo punto riguarda le grandi narrazioni all’interno delle quali collochiamo la guerra del Vietnam e il caso specifico della nostra foto. Oltre che dal punto di vista storiografico, queste sono fondamentali da quello formativo, perché “danno un senso” all’evento che a volte resta nella memoria degli allievi più a lungo del ricordo del fatto specifico. Sono, inoltre, indispensabili per collocare il singolo episodio entro una programmazione di lungo respiro sia per quanto riguarda il racconto storico complessivo (dell’annualità o del ciclo intero), sia per quanto riguarda lo sviluppo delle capacità di ragionamento storico.

    Il secondo mette in luce ancora meglio come un uso approssimativo (o spontaneo), comunque non professionale della metodologia storica, porta a conseguenze non del tutto accettabili. La “storia dal basso”, contro la “storia delle élite” richiama insistentemente slogan che siamo abituati a classificare come populisti.

     

    Testo a. Cosa potrebbe insegnare la storia generale: il "senso" della guerra. (da consegnare agli allievi)

    Craig Lockard, già una trentina d’anni fa, spiegava le possibilità conoscitive offerte della world history. Questa insegna che possiamo inserire quella guerra in tre diversi contesti spazio-temporali. Ciascuno di questi scenari cambia il “senso” della guerra e, in particolare, della scena che stiamo analizzando.

    Lo scenario regionale – del Vietnam -  ce la fa vedere come un episodio della lunga teoria di ribellioni, secondo alcuni studiosi millenaria, che ha punteggiato la resistenza del Vietnam, prima contro la pressione cinese, poi contro quella francese e americana e, da ultimo, di nuovo contro quella cinese. È la storia di un indomabile nazionalismo, che accomuna e al tempo stesso divide il vietcong e il generale, mentre Adams sembra un osservatore esterno. Se allarghiamo lo sguardo includendo nel nostro scenario gli Usa, entriamo in un secondo ambito spazio-temporale, quello della guerra fredda e della politica americana di controllo del mondo. In questo scenario troviamo da una parte il comunista Lèm e dall’altra i sostenitori del blocco occidentale, americani e sudvietnamiti.

    Per ultimo, ecco l’orizzonte mondiale – il più ampio – che non può che parlarci del processo di colonizzazione-decolonizzazione, che dalla metà del XIX secolo fino al secondo dopoguerra inoltrato, ha sconvolto molte parti del pianeta, e del quale la guerra del Vietnam è stato l’ultimo grande teatro, e che divide i nostri protagonisti ancora in modo diverso: da una parte i colonizzati indocinesi, dall’altra l’americano Adams e la sua corte di giornalisti, tormentati dai dubbi.  (C. Lockard, Meeting yesterday head-on.The Vietnam War in Vietnamese, American and World History, in “Journal of World History”, 5, 2, 1994), pp. 227-270;  George W. Hopkins, Historians and the Vietnam War: Conflicts over Interpretations continue, in  “Studies in Popular Culture”, 23, 2, 2000, pp. 99-108; N. F. Bradley e M B. Young (a cura di) Making Sense of the Vietnam Wars: Local, National, and Transnational, Oxford U.P., 2008)

    13Fig.12 Mel Gibson e il generale Hal More, la cui impresa viene raccontata in We Were Soldiers https://www.hollywoodreporter.com/news/lt-gen-hal-moore-depicted-we-were-soldiers-dies-at-94-975234La questione si fa più intricata se ci addentriamo nel dibattito storiografico americano. In estrema sintesi, questo può essere diviso in due campi (una rassegna informata, purtroppo non recentissima, è O. Bergamini, La guerra del Vietnam nella storiografia americana degli anni Novanta). Nel primo ci sono i “revisionisti neo-conservatori”. Le loro tesi si organizzano intorno a due capisaldi. Da una parte, la considerazione che quella del Vietnam fu una noble war. Questa espressione, che Ronald Reagan rese celebre, significa guardare a quel conflitto come uno scontro fra combattenti che hanno diritto, entrambi, all’onore della memoria (teoria spettacolarizzata nel film We Were Soldiers, di Randall Wallace, con Mel Gibson, 2002).

    Fu un tentativo sfortunato, “un atto di idealismo imprudente”, scrisse Norman Podhoretz, uno dei più influenti autori di questa corrente, dovuto all’urgenza di proteggere il mondo dalla tirannia comunista (Why We Were in Vietnam, Simon and Schuster, Michigan University, 1982, p. 210). Dall’altra, questa storiografia fa un largo uso della storia controfattuale, alla ricerca dei motivi che hanno portato alla sconfitta: “si sarebbe perso se …?” Dentro questi interrogativi, insieme con la burocrazia, gli errori militari e le incapacità politiche, ritroviamo la nostra foto: si sarebbe perso se la stampa non le avesse dato quel risalto? e se non avesse “accoltellato alla schiena” i combattenti, come scrisse Westmoreland nelle sue memorie?

    Sul versante opposto ecco la vasta famiglia degli “ortodossi”, con le numerose varianti interne. Il punto di partenza di questi storici (in realtà sono la maggior parte degli storici accademici, dal momento che alla scuola neoconservatrice appartengono, con pochissime eccezioni, giornalisti, politici e reduci) è che quella guerra non si poteva vincere, e che, perciò, all’analista tocca il compito di scoprire le cause, le evoluzioni militari, sociali e politiche che hanno influito sul corso degli eventi. A questa famiglia occorre aggiungere il recentissimo gruppo di storici che Andrew Preston chiama “i veri revisionisti”: sono studiosi vietnamiti, cinesi e americani che conoscono le lingue orientali, e perciò sono in grado di accedere alla documentazione originale e fornire una descrizione di prima mano della “Guerra Americana” (come viene chiamata in Vietnam).

    Non c’è accordo fra il mondo revisionista e quello ortodosso, e, all’interno di questo, fra storici di impostazione radicale, moderata o neo-vietnamita. Burns ha ragione. Il Vietnam, ancora dopo mezzo secolo, è un argomento divisivo. Tuttavia, ciò che il regista non comprende è che un conto è il conflitto delle memorie all’interno di una società, un conto è la controversia accademica. Questa è connaturata al ragionamento storiografico; è uno degli strumenti fondamentali attraverso il quale gli storici incrementano la conoscenza del passato. Privando il pubblico (e la scuola) di quel dibattito, Burns sottrae loro uno strumento di conoscenza e di formazione, indispensabile in un tempo di lacerazione delle memorie. Per giunta, priva il suo lavoro di formidabili elementi di controllo, che gli avrebbero impedito, per esempio, di raccontare che quella foto è il turning point della guerra, fatto – come abbiamo visto - ampiamente smentito dalla ricerca.

    Questa, peraltro, ha insistito sull’impossibilità di un qualsiasi turning point in una vicenda estremamente complessa, nella quale si sono fuse diverse guerre, un po’ come nella Resistenza italiana secondo la lezione magistrale di Claudio Pavone: la guerra di liberazione nazionalista e anticoloniale, la guerra ideologica (pro e contro il comunismo) e quella geopolitica mondiale, la guerra civile fra Nord e Sud e quella sociale ed economica fra città e campagna, fra mondo rurale e modernizzazione urbana, come la Cambogia avrebbe sperimentato di lì a poco. (J. Dumbrell, Rethinking the Vietnam War, Palgrave Macmillan, Basingstoke and New York, 2012. Vedine la discussione in A. Preston, Rethinking the Vietnam War. Ortodoxy and Revisionism, in “International Politics Reviews”, 1, 2012, pp. 37–48.). E, per tornare alla nostra foto, questa complessità si riflette interamente in quella scena e sui protagonisti, aumentando le nostre domande e i punti di vista a partire dai quali la possiamo osservare.

    14Fig. 13 La scena della roulette russa in The Deer Hunter https://www.youtube.com/watch?v=4wv2K3J__X0

    Spogliata della complessità, resta il sangue della battaglia e dei suoi martiri, vietnamiti o americani che siano. Come nel brano di Julio Lezama, che abbiamo letto sopra, tutti sono vittime. È una tragedia vietnamita, ma anche americana. Burns scava nel fatto storico per riportare alla luce un orrore che la nostra società fa fatica a percepire. Tom White definisce la sua ricerca "archeologia emotiva" (The Accidental Historian: Ken Burns Mines America's Past, 2003). Sono i sentimenti, dice Burns, che trasformano la storia nel farmaco che ci guarisce.  Così facendo, lo storico-regista si incanala lungo una linea interpretativa ben divulgata da Hollywood e aperta da Il Cacciatore di Michael Cimino (The Deer Hunter, 1978), nel quale le vere vittime sono quelle americane, impoverite in patria da una deindustrializzazione feroce che la Great Society (il piano di sviluppo economico promosso da Johnson) non era riuscita a fermare, e sottomesse, nell’inferno vietnamita, al gesto della pistola puntata alla tempia, iconicizzato da Adams e leit motiv del film (Andrea Miconi racconta bene il collegamento fra questa foto e la filmografia hollywoodiana: Saigon Execution, 1968: “The Photo that lost the War”, in “Problemi dell’informazione”, 63, 1, pp. 63-86).

    Allontanandosi dalla storia, Ken Burns sembra entrare nel grande circuito mondiale delle emozioni, al quale da un potente contributo proprio quello “tzunami delle immagini” che caratterizza la comunicazione iconica odierna. Procede nella direzione esattamente contraria della storiografia, che, stando alle parole di Andrew Preston, pur con tutte le sue divisioni, sta riuscendo “a far a meno delle battaglie emotive” per costruire una conoscenza più controllata e multiprospettica di quella guerra infelice (Preston, cit. p. 39). E noi sappiamo, dagli studi sui processi di riconciliazione, che, per lenire le ferite della memoria, non c’è nulla che possa sostituire l’accurata ricostruzione dei fatti unita al mutuo ri-conoscimento dei propri torti.

     

    Testo b. I rischi di una metodologia storica adattata: storia dal basso e fonti (da consegnare agli allievi)

    Torniamo alla clip didattica della Saigon Execution. Le fonti che vengono adoperate sono il filmato della NBC, la foto di Adams e tre testimoni, due americani e un sudvietnamita. Tutti militari. Non viene citato (nemmeno nel documentario per il pubblico) nessuno degli studiosi che abbiamo conosciuto in questo articolo, nessun giornalista famoso, nessun decisore politico. È una buona visualizzazione di quello che Ken Burns chiama “storia dal basso”.

    L’effetto primo che questa narrazione ottiene è quello dell’empatia. C’era della gente, lì. Guardava con i propri occhi, esattamente come oggi può accadere allo spettatore di un incidente automobilistico, che riprende e mette online il filmato. È gente come noi. Il regista riesce a comunicarci la sensazione di essere presenti, inorriditi come i co-spettatori di Susan Sontag. È un risultato da non sottovalutare, nella nostra società di “icone sconsacrate”.

    L’effetto secondo è quello della verità. Il marine racconta quello che ha visto, i particolari, il colpo, il sangue. Le parole confermano esattamente le immagini. Due fonti diverse coincidono alla lettera. Il regista ci convince che non è possibile che le cose siano andate diversamente: un sudvietnamita, alleato degli americani, spara a bruciapelo un “soldato” Vietcong (dice proprio così, non “guerrigliero”, forse in omaggio alla teoria della noble war). Anche questo è un risultato da non sottovalutare, nella società del complotto e delle fake news.

    C’è un terzo effetto, questa volta preoccupante, che potremmo chiamare del “trasferimento di fiducia”. Il marine/testimone ci fornisce due ordini di notizie: il primo riguarda la scena che ha visto; il secondo riferisce dell’eco che questa scena ebbe in America. Queste due informazioni hanno uno statuto epistemologico molto diverso. Il primo è quello dell’autopsia. È uno statuto molto solido, come abbiamo appena notato: ma non ha nulla a che spartire con il secondo, molto più incerto, che riguarda ciò che pensarono decine di milioni di americani (e che il testimone non può “aver visto”). Ed ecco che il regista riesce a far slittare il grado di fiducia/verità, che lo spettatore attribuisce alla prima informazione, anche alla seconda, quella che riguarda l’opinione pubblica americana. Ascoltate senza soluzione di continuità, entrambe le conoscenza acquistano, per il pubblico (e per l’allievo), la stessa marca di “verità”.

    Il quarto effetto è quello della conferma. Lo stesso processo di “trasferimento di fiducia” viene ripetuto per le testimonianze dell’addetto militare americano e del graduato sudvietnamita. Il regista conduce il pubblico a convincersi che le cose non poterono andare diversamente da come la clip ce le fa “vedere/ascoltare”. 

    È chiaro che il testimone appropriato del “terzo effetto” non potrebbe che essere uno studioso che ha censito migliaia di articoli di giornale, ha elaborato i sondaggi di milioni di cittadini americani e seguito l’evoluzione del pensiero sulla guerra dei costruttori di opinioni. Privandosi di questa testimonianza, inevitabilmente una “testimonianza dall’alto”, Burns si è fatto portavoce (credo inconsapevole) della vulgata della destra conservatrice. Un’atroce ironia per un sostenitore acceso, e pubblico finanziatore, dei democratici.

    Sembra che Burns e Nowick sbandierino la prospettiva della “storia dal basso” in una sorta di polemica contro la “storia ufficiale”. Forse rimarrebbero sorpresi nel sapere che non si tratta di una scelta controcorrente, quanto di una possibilità ampiamente prevista dalla storiografia. Ma utilizzare concettualizzazioni di provenienza scientifica, senza le adeguate “istruzioni per l’uso”, conduce a risultati che destano preoccupazione. Vediamo nel dettaglio.

    La prospettiva della “guerra raccontata dal basso” fu formalizzata da Antoine Prost e Jay Winter, quando misero ordine nella marea di studi (oltre cinquantamila) sulla prima guerra mondiale. La guerra, scrissero, può essere raccontata in tre “configurazioni”. Quella dall’alto (militare e politica), quella sociale, come scontro di gruppi e di economie, e quella culturale: la storia dal basso. Con le parole di Prost: “Questa concezione costruisce una guerra tragica, i cui principali attori non agiscono, ma subiscono. Sono vittime. Sono gente anonima che viene schiacciata da una situazione straordinaria, di fronte alla quale sono impotenti. Questa concezione della storia non è del tutto nuova. È nel periodo fra le due guerre che è stata promossa dai reduci. Emerge in certi racconti dei sopravvissuti delle trincee. Ma bisogna attendere gli ultimi due decenni perché acquisti la sua importanza con le storie della brutalizzazione, del dolore, della sofferenza, della violenza e della speranza”. (A. Prost, J. Winter, Penser la Grande Guerre. Un essai d’historiographie, Paris, Seuil, 2004; il virgolettato da una conferenza di Prost del 2015).

    Ognuna di queste concezioni ha la sua utilità, perché mette in risalto aspetti della guerra che non si scorgono da altre angolazioni. Ma, al tempo stesso, ognuna ha dei difetti. Nel caso della “storia dal basso”, questa fa perdere di vista le responsabilità individuali della guerra. Se tutti sono vittime, chi è il carnefice? Non si arriva, così, alla banalizzazione della guerra si chiede Gaines M. Foster? (With Defeat: Post-Vietnam America and the Post-Civil War South, “VQR. A national journal of Literature and discussion”, 1990).

    La prospettiva “dal basso” diventa dominante nella nostra società, anche perché viene favorita da due processi di rilevanza mondiale. Il primo è quello della “sacralizzazione della vittima”, frutto della costruzione della memoria di Auschwitz. Il secondo è quello dell’egemonia del culturalismo di matrice americana. Il punto di vista di Burns e Nowick sembra nascere da questa doppia spinta più che dalla consapevolezza storiografica. Ma come sappiamo da numerosissimi casi di storia pubblica, la vittimizzazione dei protagonisti produce spesso la loro equiparazione e, soprattutto, spinge molti a identificarsi empaticamente con loro.

    È ciò che queste fonti visive ci dicono essere accaduto in America. Ce lo spiega Sylvia Shin Huey Chong comparando la foto di Adams col film di Michael Cimino, e raccontandoci il paradosso dell’identificazione fra il guerrigliero Lèm e Nick (Christofer Warren), il prigioniero americano costretto alla roulette russa dal malvagio vietcong, nella scena madre del Cacciatore. Un rovesciamento delle parti reso imbarazzante dal fatto che erano proprio gli americani a costringere i vietnamiti a questo gioco prima di ucciderli, come appurò il processo per la strage di My Lai (Restgagging the War: The Deer Hunter and the Primal Scene of Violence, in “Cinema Journal”, 44, 2, 2005). Il rovesciamento si completa e diventa un fatto sociale quando il generale Loan venne segnalato in America come un individuo da far oggetto di riprovazione pubblica: il profugo vietnamita che negli Usa fa successo col suo ristorante, mentre i reduci sono costretti a una vita di stenti (Sylvia Shin Huey Chong, The Oriental Obscene: Violence and Racial Fantasies in the Vietnam Era, Duke UP, Durham and London, 2012, pp. 170 ss.).

    Shin Huey Chong, nello stesso libro, ci spiega un ulteriore passaggio, che riguarda le tre icone della guerra del Vietnam alle quale fu assegnato il ruolo di “foto che cambiarono la guerra”: quella di Adams, la foto della bambina ustionata dal napalm e quella dei sudvietnamiti che tentano disperatamente di imbarcarsi sull’elicottero americano (vedile nella prima parte di questo articolo). Fa osservare che in queste foto c’è una netta separazione fra i protagonisti delle violenze, tutti vietnamiti (del nord e del sud fa lo stesso: sono tutti “orientali”), e chi riprende la scena, che è un americano (da notare che il fotografo di Accidental Napalm, per quanto vietnamita, fu naturalizzato statunitense). La violenza, sembrano dire queste immagini, è solo dei vietnamiti, tutta al di là dei confini degli Usa.  È la razzializzazione del male. Questo si identifica con “l’oscenità orientale”, della quale i bianchi americani non sono responsabili, ma solo osservatori, magari inorriditi dalla cattiveria bestiale che li circonda.

    Staccata dalla ricostruzione storica, questa ricostruzione pubblica del passato, della quale la foto e i film esaminati sono delle autentiche “immagini iconiche”, assolve il presente: figlio di una “tragedia americana” degli anni ’60, della quale sono svaniti i responsabili storici, e vittima, nel corso del tempo, degli assalti e della denigrazione della stampa, delle élite intellettuali e di tutti coloro che, nel mondo, hanno contribuito a diffondere la sua immagine negativa.

     

    Riconciliarsi senza la storia?

    “L’ironia – dichiara Edward F. Palm, maggiore dei marines – è che, dopo tutto, sembra che abbiamo vinto” (30 aprile 2020: 45 years after Vietnam War ended, here's how we should remember it). Se quella guerra fu condotta per difendere il sistema consumistico-capitalista, ha indubbiamente ragione. Nel Vietnam attuale (in qualche modo sulla falsariga del suo attuale nemico principale, la Cina) convivono i resti del vecchio regime politico comunista, ma con assetti economici, culturali e sociali postbellici, certamente più simili a quelli americani che a quelli del frugalissimo Vietnam del Nord. Potremmo dire che dove ha perso William Westmoreland, Bill Gates ha vinto. Un trionfo per il softpower statunitense.

    A Saigon, nel 2019, si incontrarono Kim Jong Un e Donald Trump in un tentativo di riavvicinare Usa e Corea del Nord. Fu naturale, allora, paragonare i rispettivi dopoguerra. Mentre la Corea del Nord continua nel suo stato di belligeranza, il Vietnam ha intrapreso, ormai da un quarto di secolo, una fruttuosa politica di distensione con gli Usa. La sua società sembra essere passata, quasi senza soluzione di continuità, “dai bombardamenti al Big Mac”. Gli anziani ricordano le atrocità passate, ma i giovani ne conservano a stento qualche notizia. Denis D. Gray e Hau Dinh, corrispondenti dell’AP, raccolgono delle testimonianze. Dinh Thanh Huyen, una studentessa di 19 anni, dichiara: “Sono nata dopo la guerra e ne so qualcosa solo dai film americani e dai libri”. È in coda per entrare in un affollato McDonald’s ad Hanoi. Spiega che è felice che gli antichi nemici siano cambiati e si concede una bella massima: “La storia ci serve per imparare, non per conservare rancore” (“AP News”, 23 febbraio, 2019, From Bombers to Big Mac). Non sembra essere la sola: le inchieste ci informano che oltre il 70% dei vietnamiti vede positivamente gli Usa (Xuan Loc Doan, in “Asia Times”, 30 ag. 2018,).

    Questa strategia di riappacificazione ha coinvolto numerosi aspetti del rapporto fra i due stati: commerciali ed economici, geopolitici (il contenimento della Cina), la questione dei diritti umani e della libertà religiosa, i risarcimenti e la liberazione dei prigionieri di guerra, gli scambi di studenti, il turismo. Sembra che venga evitato accuratamente il tema della storia, o meglio (seguendo la classificazione di Prost e Winter), della “storia dall’alto”, quella che indaga sulle cause della guerra e sulle sue responsabilità (Frederick Z. Brown, Rapprochement Between Vietnam and United States, “Contemporary Southeast Asia”, 32, 3, 2010, pp. 317-42).

    Mentre Donald Trump e Kim Yong Un si incontravano a Saigon, sul delta del Mekong si svolgeva un altro incontro, senza dubbio più toccante. John Kerry, ex segretario di stato americano e candidato democratico alla presidenza, stringeva la mano a Vo Van Tam, un abitante della regione. Esattamente cinquant’anni prima, e proprio in quel luogo, i due si erano trovati faccia a faccia e avevano tentato di uccidersi. Edward Miller, storico e consigliere di Ken Burns, mette in rilievo la straordinaria efficacia simbolica di quel gesto. Ma si chiede: “Quale può essere il suo senso in una nazione, come gli Usa, lacerata fra ortodossi e revisionisti; e come il Vietnam, spaccato fra vietnamiti del nord e quelli del sud?”. Per questo, conclude, quello fra Usa e Vietnam è un “conflitto non conciliato” (Vietnam War perspective: the unreeconciled conflict, in “Usa Today”, 15 dicembree, 2019,).

    In effetti, la riconciliazione si dovrebbe attivare su tre fronti: uno esterno, fra i due stati, e gli altri due al loro interno. Ma ogni volta il suo presupposto dovrebbe essere quello dell’accertamento dei fatti e del riconoscimento vicendevole delle responsabilità. In questo compito il ruolo della storia è insostituibile. Ora, se dal punto di vista della ricerca questo percorso prosegue e si fa sempre più completo, in particolare con l’apporto della nuova storiografia vietnamita, dal punto di vista della storia diffusa c’è il prevalere di una vittimizzazione che non favorisce per nulla una rielaborazione corretta del proprio passato: perché dove c’è una vittima, c’è sempre un altro che svolge il ruolo del carnefice. E questo, normalmente, è proprio il soggetto con il quale ci si dovrebbe riappacificare.

    Il processo di riappacificazione non sembra marciare nemmeno dal punto di vista della storia insegnata. L’analisi dei manuali non è affatto incoraggiante. Nel Vietnam, nonostante i cambiamenti che abbiamo segnalato sopra, la manualistica sembra aver cristallizzato la narrazione degli anni ’70, con i buoni che combattono contro i cattivi e l’esercito del sud Vietnam imbelle e al servizio del nemico. Negli Usa la situazione non è migliore (si deve tener conto che lì i manuali non sono obbligatori e che gli insegnanti dispongono di numerosi strumenti alternativi, forniti direttamente da Università e centri di ricerca didattica). I manuali americani evitano con cura di parlare delle atrocità commesse dai loro soldati. Parlano delle sofferenze della guerra, ma solo di quelle americane. Conservano l’impostazione tradizionale nazionalista ed esaltatrice del “ruolo pacificatore” che gli Usa svolgono nel mondo. James W. Lowen, autore di Lies my teacher told me (un vendutissimo libro di debunking delle falsità contenute nei libri di testo: Atria Books 1995) studia anche le foto, che – meritoriamente – considera uno strumento fondamentale della comunicazione storica. Ci informa che abbondano quelle di marines che saltano dagli elicotteri e si fanno largo nella giungla, ma che scarseggiano proprio quelle iconiche. Si trova qualche volta la Accidental Napalm, mai la Saigon Execution. Questi manuali, adeguandosi al comportamento più diffuso dei docenti, evitano ciò che può essere, in classe o con le famiglie, fonte di controversia. La guerra del Vietnam, conclude, ha aperto una profonda ferita nella società americana: ma evitare di parlarne è il modo peggiore per curarla.  (Historical Reconciliation and United States History Texbooks about Vietnam, in “The Journal of Northeast Asian History”, 7, 2, 2010, pp. 37-59).

    Loan e Lèm sono l’uno accanto all’altro. Chi ha la pistola uccide l’altro. La scena sarebbe stata identica anche a parti inverse, perché i due protagonisti sono nemici totali. Oggi quei protagonisti dovrebbero interrogarsi sulle ragioni di quell’odio e discutere se queste hanno ancora motivo di sussistere. Il terzo protagonista è l’americano. Anche lui dovrebbe riflettere sui motivi che lo hanno spinto lì. Doveva difendere dei principi sacrosanti? Salvaguardare un ordine internazionale o dei propri interessi? Tentare di bloccare una guerra civile sanguinosa?

    Christian G. Appy propone questo esperimento mentale. Scrive: partiamo dal presupposto dell’intromissione in una guerra locale – che sia per un nobile motivo o per un tragico errore in questo momento non ci interessa - e immaginiamo di applicarla alla guerra di Secessione americana. Questa volta, la potenza straniera è l’Impero Britannico che appoggia il sud. Come chiameremmo noi, ora, quella guerra? “Probabilmente la seconda guerra di Indipendenza – risponde - e, per i neri, la prima guerra di Liberazione”.

    Preoccuperebbero anche noi italiani le conclusioni del suo ragionamento: “Se continuiamo a scusare la condotta americana in Vietnam come un intervento ben intenzionato, seppure tragico, piuttosto che un'affermazione intenzionale del potere imperiale, abbiamo meno probabilità di sfidare gli attuali gestori della guerra che ci hanno di nuovo impantanato in guerre che sembrano non finire mai, basate su false prove o pretesti profondamente fuorvianti” (What was the Vietnam War about?, in “The N.Y. Times”, 26 marzo 2018,).

     

    Nota didattica finale.

    Questo percorso è composto da quattro fasi, suddivise in due sezioni distinte, che su HL pubblichiamo separatamente per ragioni editoriali, ma che vanno lette insieme. Nella prima si propongono testi brevi centrati su elementi specifici ben riconoscibili: i personaggi, la foto, gli utilizzatori della foto. Nella seconda, invece, i testi sono più lunghi e soprattutto riguardano temi di riflessione storiografica: il ruolo delle immagini nella società, la differenza e il rapporto fra passato e presente, il rapporto fra immagini e formazione della cittadinanza, il rapporto fra storia professionale e storia pubblica e fra “ragione e sentimento”, la questione della riconciliazione e della rielaborazione collettiva dei passati dolorosi. Il percorso, dunque, è scandito dal semplice/concreto al complesso/astratto, nel modo consueto di qualsiasi buona didattica.

    Sottolineo due particolarità non del tutto tradizionali. Della prima si è già accennato all’inizio dell’articolo. Le informazioni non vengono date nella forma sistematica del saggio (tesi storiografiche, dibattito, elementi di novità proposti, racconto sequenziale degli eventi ecc.), ma in modo progressivo, per favorire un meccanismo “sintesi-scoperta-messa in discussione della sintesi-nuova scoperta” che cerca di partecipare agli allievi il piacere del “viaggio intellettuale alla scoperta di …”. Ho cercato di simulare il procedimento tipico dello storico (e in generale dello scienziato) di procedere per scoperte e aggiustamenti successivi. Avevo in mente, scrivendo questo articolo, l’esordio di un antico saggio di Edoardo Grendi sul “senso comune storico”, nel quale si paragona lo storico a un alpinista che, man mano che sale, ammira paesaggi sempre diversi (“Quaderni Storici”, XIV, 41, agosto 1979).

    La seconda particolarità è, probabilmente, più polemica nei confronti del “senso comune didattico”. Secondo questo, infatti, un percorso dovrebbe partire dagli elementi fattuali e solo alla fine giungere ai problemi, ricompensa finale di un itinerario che, invece, non può che essere di “duro lavoro”. A mio modo di vedere, questa impostazione è sbagliata: dal punto di vista pedagogico, perché i ragazzi si appassionano ai problemi e non alla mera acquisizione dei fatti ed è bene sfruttare questa propensione tutte le volte che è possibile. È anche incongruente dal punto di vista scientifico, se si tiene per ferma la tesi che Lucien Febvre amava ripetere, che dove non ci sono problemi non c’è storia.

    Di conseguenza, il materiale è organizzato in modo da porre problemi in ognuna delle quattro fasi in cui è suddiviso il percorso. Ovvio, dunque, che questi problemi non verranno mai “chiusi”, ma transiteranno nella fase successiva, arricchendosi di nuove domande. E, in ogni caso, spetterà al docente il compito della messa a punto finale, cioè di una “chiusura dei problemi” che, a sua volta, non potrà che essere – come ogni scoperta scientifica - provvisoria.

    Ferma restando la possibilità di usare questo materiale secondo un’impostazione del tutto frontale, qui si suggerisce una formula mista, nella quale diversi tipi di lezione (introduttiva, partecipativa, di riorganizzazione concettuale, indispensabile quest’ultima in un lavoro di aggiustamenti progressivi) si intrecciano con momenti operativi (lettura individuale, lettura e lavoro in piccoli gruppi, discussione in plenaria), mentre i materiali proposti sono scritti, iconografici (le diverse foto) e mediali (le clip didattiche o eventuali spezzoni di film o di documentari citati). La medesima impostazione “mista”, permette di utilizzare – se intervengono ragioni di tempo o di convenienza didattica - solo una parte di questo itinerario. In questo caso, nell’introduzione o nella conclusione, l’insegnante si incaricherà di riassumere in una lezione frontale le conoscenze che riterrà opportune per “incorniciare” il segmento operativo che ha selezionato. Come vedranno i più fedeli di HL, ci sarà una terza possibilità, con un uso ben strutturato dalle tecnologie, che è stata preparata da Lucia Boschetti.

    Non ho allegato nessuna tabella di valutazione: un po’ perché è l’aspetto che conosco meno del vasto campo della didattica della storia; un altro po’ perché sono affezionato a quel tipo di valutazione che puoi formulare osservando gli allievi al lavoro. Ma se qualche volenteroso la vorrà progettare, sarà il benvenuto.

    Mentre scrivevo questo articolo ho notato che, quasi ad ogni piè sospinto, spuntavano particolari che sembravano degni di approfondimento. Credo che sia il rischio principale per l’insegnante che vorrà sperimentare questo percorso. Occorre molta disciplina per stare dentro tempi contenuti: massimo due ore per la prima sezione e, forse, tre per la terza. D’altra parte, si sarà presumibilmente nella seconda parte dell’anno di terminale, e gli esami che incombono detteranno regole ferree di risparmio temporale.

    A parte le eventuali sperimentazioni, questo articolo vuole proporre un modello di utilizzazione didattica della foto iconica, che potrebbe essere applicato in linea di principio anche ad altri documenti simili. L’icona è una fonte particolare. Ha un forte appeal emotivo, si propone come una sintesi istantanea di un periodo o di un fatto complesso, ha una struttura estetica rimarchevole e, infine, è consacrata come icona da un’utilizzazione vastissima e duratura. Questa sua ricchezza aumenta esponenzialmente il potere di attrazione dell’immagine e tende a trasformarla in una trappola comunicativa quasi irresistibile. Si guarda la Saigon Execution e si pensa di aver capito tutto della guerra del Vietnam. Ma, non appena si scrosti l’aura di sacralità che avvolge l’icona, si scopre che questa è un veicolo di emozioni, idee e giudizi, elaborati nel corso del tempo da soggetti ben individuabili. Queste caratteristiche della fonte iconica autorizzano strategie didattiche che giocano nella terra di mezzo tra sentimenti, immaginazione, valori da una parte, e ragionamenti, deduzioni, prove dall’altra. Fra storia pubblica e storia scientifica. Autorizzano, ancora, operazioni didattiche che, nella stessa analisi della foto, permettono di individuare problemi di amplissima rilevanza spazio-temporale.

    Per questi motivi, ben trattata didatticamente, la fonte iconica si presta a diventare un momento forte di un’alfabetizzazione alla lettura delle immagini, e, al tempo stesso, l’ancoraggio mentale di conoscenze storiche che sono solitamente destinate al rapido oblio che segue la fine degli studi (per gli approfondimenti tecnici, rimando ancora al mio Una grammatica delle immagini: la cultura iconografica tra manuali e didattica della storia, in “Visual History”, 3, 2017,).

    *questa è la seconda parte di un articolo sulla Saigon Execution, a sua volta parte di un corposo intervento di HL sul Sessantotto, composto da altri due miei interventi su “Sessantotto. Un anno spartiacque”; da due sitografie sul Sessantotto e una sui movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam, scritte da Antonio Prampolini; seguirà ancora un articolo sulle tecnologie, scritto da Lucia Boschetti.

     

    Appendice

    Aperture interdisciplinari

     

    1. Filosofia

    di Valerio Bernardi

     

    Una foto, tre possibili letture filosofiche

     

    La foto realista

    Saigon Executionè una foto che fa parte della grande età della fotografia “realista”, quella che in Italia non ha rappresentato la guerra quanto “il dopo-guerra”: pensiamo qui soprattutto alle foto di Franco Pinna che accompagnarono le spedizioni di Ernesto De Martino negli anni 1950 e che pensavano di dare conto della realtà. In effetti una tale interpretazione del dato fotografico derivava da un’idea ben precisa che era scaturita anche nell’analisi della società di massa dei francofortesi. La famosa opera di Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica (cfr. la nuova edizione: Einaudi, Torino, 2017) scritta negli anni Trenta già dava conto di questa idea, anche se non dimenticava che colui che si trovava dietro la fotocamera (o telecamera) stesse interpretando il dato con i suoi occhi.

     

    La realtà manipolata

    L’idea che una foto rappresenti una “realtà manipolata” è entrata prepotentemente nel mondo del post-moderno e della società di photoshop (o programmi similari) e degli smartphone che permettono a chiunque (e non solo ai grandi fotografi che continuano comunque una certa tradizione di rappresentazione) di rappresentare la “propria” realtà.

    Di fronte a questa valanga di immagini risulta sempre più difficile leggere la foto come documento (lo vediamo nella composita proposta didattica qui fatta), ma anche come documento di vita. Le possibili letture filosofiche di una foto che possono essere fatte oggi in questa situazione (e che possono avere anche una loro applicazione didattica) sono, a nostro parere, tre e tengono tutte conto della situazione di shitstorm che può scatenarsi anche per le immagini oggi.  Chiameremo per comodità queste tre possibili interpretazioni, post-strutturalista, post-heideggeriana e analitica, sapendo di fare una forzatura storiografica, ma non dal punto di vista teoretico.

     

    La foto codice. Roland Barthes

    Nel primo caso, potremo dire che la lezione che viene ripresa è quella degli studi di Roland Barthes (La camera chiara, Einaudi, Torino, 2010) che dimostra che la foto è di per sé “codice” e che, pertanto, non riuscirà mai ad incontrare la verità oggettiva, in quanto è un’illusione tecnica che ritrae l’entrata degli esseri umani nello scatto in un determinato momento senza volerne definire l’autenticità. La foto, quindi, è un’ombra della Verità, simile alle ombre della caverna platonica. Essa, pertanto, esprime il “mio” punto di vista senza occuparsi della realtà. Anche le foto della Guerra del Vietnam avrebbero queste caratteristiche e quindi non servirebbero a narrare una storia, ma la storia del fotografo che le ha fatte.

     

    La foto punctum.Byung Chul-Han

    La seconda lettura, invece, deriva da quello che scrive Byung Chul-Han, docente di estetica in Germania ed uno dei più interessanti filosofi contemporanei. Per Chul-Han se è vero che la foto ha un suo codice, una delle sue caratteristiche è il punctum,ovvero il fissare un momento che può per noi suscitare essenzialmente sensazioni (gradevoli o sgradevoli che siano). Il problema è che questo, benché possa essere vero per le grandi foto del passato (quelle di tutto il XX secolo) lo è molto meno oggi. L’invasione del mezzo fotografico non ci dà più la possibilità di analizzare con calma una foto, perché noi siamo abituati a continue sequenze e a non provare di fatto sensazioni. Per salvare il bello (parafrasando il titolo del suo testo La salvezza del bello, Nottetempo, 2019), bisogna fare uno sforzo per superare la nostra società trasparente, dove non si riesce a vedere in profondità per tornare a provare quei sentimenti e quelle sensazioni che possono farci immedesimare e leggere l’immagine. Una domanda che ci dovremo porre per questo autore è: quante immagini come Saigon Execution, così vicine tecnicamente alla odierna pornografia, oggi riescono a narrarci qualcosa? Quanto il nostro “occhio” riuscirà a dare una giusta lettura di un’immagine che somiglia molto a quelle che noi tendiamo a scattare quanto vogliamo rappresentare la “cruda” realtà?

     

    La foto analitica. Nicholas Wolterstorff

    Un’ultima lettura, poi, proviene dal mondo anglosassone. I filosofi analitici negli ultimi anni hanno cercato di superare il concetto di bello che deriva dalla cosiddetta tradizione standard (quella che appunto risale a Platone e Aristotele) e si sono chiesti a cosa possano servire le espressioni artistiche in genere (e la fotografia in modo particolare). In questo caso gioca un ruolo fondamentale la memoria e la rievocazione. Per Nicholas Wolterstorff, infatti, un’opera d’arte (come lo sono diventate anche le fotografie che documentano ciò che è accaduto in Vietnam) non serve solo per la sua gradevolezza, ma soprattutto perché su di essa possiamo piangere, ridere, ricordare, meditare. La funzione dell’oggetto fotografico qui viene ad essere quello di una riflessione che prescinde anch’essa dal dato oggettivo, ma che recupera altri aspetti dell’opera d’arte (per comprendere meglio il concetto si veda: N. Wolterstorff, Why Philosophy of Art Cannot Handel Kissing, Touching, and Crying, in “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 61,1, pp. 17 - 27 ) come quello di suscitare emozioni a prescindere dal bello. Una foto come Saigon Execution ben depone a questo tipo di interpretazione.

     

    Tutte e tre le letture del dato fotografico (abbiamo esaminato quelle più puramente “filosofiche”) potrebbero essere di ulteriore approfondimento rispetto alla lettura storica e potrebbero introdurre alcune delle nozioni di estetica che oggi sono discusse e che possono anche essere oggetto di riflessione da parte degli studenti, in un percorso che sia di tipo interdisciplinare.

     

    2. Storia dell'arte

    di Giulia Perrino

     

    Un laboratorio di storia dell'arte sulla fonte iconica

     “Questo articolo vuole proporre un modello di utilizzazione didattica della foto iconica. Questa è una fonte particolare. Ha un forte appeal emotivo, si propone come una sintesi istantanea di un periodoo di un fatto complesso, ha una struttura estetica rimarchevole e, infine, è consacrata come icona da un’utilizzazione vastissima e duratura (…). Per questi motivi, ben trattata didatticamente, la fonte iconica si presta a diventare un momento forte di un’alfabetizzazione alla lettura delle immagini (…)”.

    Parto di qui per agganciare al laboratorio di Storia un mini-laboratorio di due ore nella disciplina che per eccellenza analizza le immagini nel corso del suo sviluppo storico, la Storia dell’Arte. L’occasione è ghiotta infatti per lavorare con gli studenti sul rapporto tra l’Immagine e il suo tempo (il tempo istantaneo della produzione, il tempo breve della fruizione, il tempo lungo – se c’è – della rifunzionalizzazione) e su quali siano le caratteristiche che rendono un’immagine iconica.

     

    I metodi di studio più adottati

    Uno degli approcci di lettura più impiegati (soprattutto nella manualistica corrente anche recente) per la lettura delle immagini resta quello estetico: si tratta di una caratteristica intrinseca alla disciplina che ne ha salvaguardato lo statuto in anni difficili (si veda Cesare De Seta, Perché studiare storia dell’arte, Donzelli 2008,  in particolare le pp. 41-44) per quanto mostri segni tangibili di invecchiamento. A questo approccio, hanno fatto da contraltare a partire dagli anni Ottanta del Novecento inserti metodologici di tipo storico-sociale, senza apprezzabili integrazioni con il metodo iconologico-iconografico.Solo in anni molto più recenti si è fatta strada una lettura sperimentale delle immagini e dei beni culturali in genere legata al concetto di patrimonio e al suo rapporto con il territorio.

    Per lo statuto scolastico della disciplina, sono impostazioni decisamente migliori rispetto anche solo a venti anni fa, ma che restano fondamentalmente slegate dal valore e dal senso trasversale e dalla potenzialità multidisciplinare che può offrire una lettura dell’immagine che le attraversi tutte, le discipline.

    In altre parole (e arrivando al dunque): ho una fotografia intitolata Saigon Execution e il collega di Storia ci sta costruendo su un laboratorio didattico. Che ci faccio? Come intervengo? Cosa aggiungo (e cosa se necessario tolgo)?

     

    Estetica ed emotività

    Può sembrare piuttosto retrò, ma io mi sento portata a tornare al senso originario, al valore intrinseco di ciò che noi chiamiamo arte, cioè al valore estetico. E ci torno però per un motivo: per usare specialmente il suo appeal emotivo. Un’immagine ha sempre dalla sua parte la fondamentale componente estetica che coinvolge la vista, lo sguardo, e procede secondo un canale di comunicazione che usa un linguaggio altro da quello testuale: si tratta di un canale che di solito smuove meccanismi profondi – ma non immediati - di comprensione, legati di solito alle emozioni (positive o negative). Questo lo sappiamo tutti. Ma cosa me ne faccio di queste consapevolezze per analizzare e interpretare l’immagine? Per capirne il senso e il significato anche sganciandola dal suo contesto (se mai poi per riconnetterla successivamente)? Come faccio a distinguere, per esempio, i suoi codici forti dai codici deboli (al proposito si consulti: Pina Belli D’Elia, Per una educazione al vedere, in Media Significati Metodi nella Formazione, a cura di V. A. Baldassarre [Quaderni della cattedra di Pedagogia Sperimentale, Università di Bari, 1], Modugno 1993, pp. 161-175)?

    Il Laboratorio inizia con la visione e dall’analisi di tutta la sequenza delle immagini del fotografo Adams (vedi la fig. 3 della prima parte di questo articolo). Entrando in medias res, senza particolari spiegazioni introduttive ma con una consegna chiara e in un tempo limitato (10 minuti) si chiede agli studenti, divisi in due gruppi, di indicare quale tra le 12 immagini proposte è quella ritenuta più forte e rappresentativa. In questa fase gli studenti non è necessario conoscano la storia legata alle immagini. Devono limitarsi a motivare la scelta compilando la griglia sottostante. In pratica, questa prima parte potrebbe coincidere, grosso modo, con quella prevista nel laboratorio di Storia e si potrebbe pensare di condurla insieme al collega di Storia, in compresenza.

    IMMAGINE

    Descrizione analitica (cosa vedo)

    Significato (cosa capisco, cosa mi sembra che stia succedendo)

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    Dopo aver terminato il Laboratorio di Storia, avendo anche maturato tutti gli elementi di discussione relativi alle informazioni fondamentali e di corredo che sono state restituite sul contesto storico del luogo e del tempo e sui protagonisti dell’episodio fotografico (il carnefice, la vittima, il fotografo), gli studenti riprendono il Laboratorio di Storia dell’Arte, per concentrare l’attenzione sull’analisi della sola immagine divenuta iconica, con l’obiettivo di valutare quali elementi hanno reso tale l’immagine.

     

    Icona fotografica e icone pittoriche

    La seconda parte del laboratorio sarà agganciata alla seconda parte del Laboratorio di Storia, laddove si discute del concetto di icona. Il lavoro questa volta parte da una breve definizione teorica dei concetti di immagine e di icona. Non è necessario però ripercorrere lineamenti classici di storia dell’arte bizantina. Si può lavorare invece discutendo in primis le definizioni (cosa è un’immagine, cosa è una icona) e proseguire presentando immagini simili sul piano iconografico a quella di partenza, evocando l’appeal emotivo cui si faceva riferimento all’inizio del lavoro.

    Facile è il paragone tra la vittima della Saigon Execution e il Cristo flagellato di Caravaggio. Meno scontato, ma forse altrettanto efficace è quello tra il personaggio a sinistra, colto di sorpresa in un ghigno sgradevole, e i ceffi che identificano – facendo leva sul senso estetico del brutto – i “cattivi” (nel senso originario di “prigionieri del male”) della Salita al Calvario di Bosh. Ci si può sbizzarrire usando anche confronti più coerenti sul piano temporale, per esempio mostrando i dipinti del tedesco Georg Grosz, che attacca il sistema della guerra in modo molto evidente nei suoi lavori espressionisti.

    Altri aspetti su cui si può lavorare, sempre nella direzione della ricostruzione del sistema di “segni” che compongono la scena, sono il rapporto tra superficie e sfondo; il ruolo delle comparse o delle figure di contorno; il rapporto tra bianco/nero e colore. In questo caso si può decidere di giocare la partita esclusivamente in ambito di Storia della Fotografia, proponendo confronti in ambiti di settore. Impossibile non ricordare gli scatti dei reportage di guerra di Robert Capa, di cui si propongono qui due scatti, tra cui quello notissimo del soldato ucciso durante la Guerra di Spagna (http://www.grandi-fotografi.com/robert-capa). Ma è soprattutto sui cataloghi on line della Magnum Photo (https://www.magnumphotos.com) o del Premio Internazionale World Press Photo (https://www.worldpressphoto.org/collection/photocontest/winners/2020) che si offrono innumerevoli spunti: e non da ultimo vanno considerati i lavori di fotografi socialmente impegnati come Sebastiao Salgado (ottima occasione per mostrare eventualmente in classe il film a lui dedicato da Wim Wenders, Il sale della terra).

    In tutti i paragoni proposti la lettura corretta dell’immagine passa comunque dal riconoscimento, dopo lettura e interpretazione dei segni, del soggetto iconografico e dunque dalla consapevolezza che lo studente – guidato dal docente – deve possedere dei fatti che stanno alla base della costruzione dell’immagine stessa: questo perché i fatti, cioè la narrazione degli episodi che vengono stigmatizzati nelle immagini, hanno un’incidenza precisa (che va ricostruita a posteriori) sia nel caso della costruzione dell’immagine fotografica (che appunto è costruita dal fotografo – mai improvvisatore – e questa è un’ottima occasione per smitizzare l’idea del fotografo che preme il dito sul grilletto guidato da un istinto magico o da pura fortuna, come si dice sia accaduto a Robert Capa per lo scatto del miliziano ferito a morte) sia dell’immagine dipinta dal pittore, che segue sempre, come noto, precisi canoni estetici che sono il prodotto del suo tempo, del tempo del pittore. E’ per questo che studiamo le immagini: per ricostruire attraverso i canoni estetici i valori e i costumi sociali del tempo, non il contrario.

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    La riflessione sull'icona

    A questo punto, dopo aver guidato la lettura delle immagini iconiche scelte (la fotografia e il dipinto) secondo parametri noti nella letteratura di settore (analisi della scena, disposizione dei personaggi, gestualità, espressività eccetera), si tornerà al lavoro iniziale: si compareranno dunque i risultati emersi nella prima griglia compilata, in cui si chiedeva ai due gruppi di studenti di indicare l’immagine più “forte” (e ora potremo sostituire l’aggettivo con forte con “iconica”) tra le dodici della sequenza e valutare, con discussione guidata, se la conoscenza dei fatti e il dibattito storico emerso nel Laboratorio di Storia intorno alla Saigon Execution possa ora cambiare la percezione degli studenti sul valore e sul senso dell’immagine iconica. In sostanza l’obiettivo finale che deve porsi il docente è quello di far riflettere gli studenti su una domanda e sulle sue risposte: cosa rende la foto in oggetto un’immagine così forte da diventare – tra le atre – iconica?

    Il docente avrà cura in questa fase di condurre la riflessione degli studenti sul doppio canale del campo estetico-visivo (lavorando sui segni ritenuti validi per indicare l’immagine o le immagini forti) e sul campo dei contenuti e del racconto intorno alle immagini (ovvero sulla storia, sui fatti e dunque sul significato dell’immagine nella lunga durata, nel tempo), cercando di far emergere il peso specifico di entrambe le componenti nella costruzione, nella fruizione e nella persistenza o durata nel tempo di una immagine iconica.

    Se resta tempo, può risultare molto stimolante chiedere agli studenti di riflettere insieme sul perché alcune immagini (come per esempio la Flagellazione di Caravaggio) perdurino nel loro valore di iconenel tempo e aprire un dibattito sull’opinione che gli studenti hanno maturato sul possibile valore di immagine iconica nel futuro della Saigon Execution.

  • Un'enciclopedia minima (e visiva) della città

    di Antonio Brusa

    Si deve al genio di Arnaldo “Bibo” Cecchini l’idea di una rapida enciclopedia sulla città, fatta di video di una decina di minuti: L’ambiente della specie umana. Vi si parla della definizione della città, della sua storia, delle sue ingiustizie, della sostenibilità, della città come luogo di apprendimento e di gioco, o, infine della città come sistema complesso e al tempo stesso fragile. Un’opera che, penso, potrà essere ben utilizzata nella didattica delle materie geo-storico-sociali.

    Il mio video parla di storia della città. Qui ne riporto l’abstract. Sintetizzare in dieci minuti la storia della città è sempre un’impresa pericolosa. Lo si può fare da tanti punti di vista, tutti inevitabilmente parziali. Vorrei che il mio aiutasse ad aprire qualche discussione in classe.

    01Fig.1: Nel cosmo urbano, ben separato dal mondo esterno, si ordinano le diverse attività cittadine 

    Storia rapidissima della città.

     Secondo la ricostruzione di Mario Liverani, le prime città sumere si caratterizzavano come organismi sociali complessi, che ponevano due problemi di fondo: il governo (chi governa e come governa) e il rapporto con il territorio (chi può far parte della città e chi ne deve stare fuori). Le città affrontarono questi due problemi creando uno strumento politico (il re-dio), uno strumento economico-culturale (il governo attraverso la meritocrazia e l'ideologia) e regolando il dissidio fra inclusione ed esclusione con delle ritualità e con un sistema concettuale che usiamo ancora oggi (il cittadino e il villano; il civile e il barbaro).

    Questo prima sistema urbano resse per duemila anni. Nel 1600 a.C, conobbe il suo crollo con la scomparsa di tutte le città sumere. C’era un terzo problema che quelle città dovettero affrontare: con enormi successi nel breve/medio/lungo periodo, ma con una catastrofe nel lunghissimo. Quello dell'ambiente. L'eccessivo sfruttamento dei suoli produsse una lenta salinizzazione che li rese improduttivi. La terra di Sumer diventò una landa impaludata, interrotta dai resti delle antiche città, e abitata da pescatori e zanzare.

    Questa parabola potrebbe essere lo specchio di una parabola più generale, quella dell’intera storia delle città, così come la vediamo guardandola dall’alto del nostro XXI secolo, nel quale la città sembra aver definitivamente vinto, dal momento che oltre la metà della popolazione umana vive in un qualche complesso urbano.

     

    La città dal cosmo ordinato all'universo caotico

    Cercando dall’alto il punto di partenza di questa storia globale, scorgiamo i primi segni sull’ambiente di un insediamento umano: quelli che i primi agricoltori tracciano con il loro lavoro. Questi furono i segni premonitori della città.

     

    02Fig.2: Il modello di Christaller applicato agli Usa, mostra come le città disegnino un reticolo che interconnette i vari centri urbani e, al tempo stesso, organizza il territorio

     

    Secondo Walter Christaller (un geografo tedesco dell’Ottocento) la città si riconosce quando questa modifica diventa ordinata. L’ambiente viene domesticato, disponendosi in cerchi concentrici intorno alla città, subordinati a una logica economica (il costo del trasporto dei frutti della terra) e merceologica (la loro deperibilità). Christaller scopre questa “grammatica del rapporto fra città e territorio”, osservando le città della Baviera a lui contemporanee. Infatti, dalla loro nascita fino all’età moderna, le città non avevano fatto altro che “disciplinare” l’ambiente. Fino all’avvento della globalizzazione, che ha destrutturato quella grammatica, dal momento che – eccetto i gruppi umani acculturati dalle ideologie salutiste – le popolazioni del mondo non mangiano più a chilometro zero.

    Il pianeta terra è diventato l’ambiente unico della città globale, forse caotico, forse organizzato secondo logiche che ci sfuggono.

     

    Apocalissi e speranze urbane

     Il secolo XXI, dunque, secolo dell’apocalissi urbana? Concentriamoci su un altro aspetto delle città, quale ci viene mostrato in particolare dagli insediamenti urbani europei a partire dall’XI secolo. Noi sappiamo perfettamente che erano luoghi pericolosi per la vita umana. Insalubri e poco sicuri. Si vive più a lungo in campagna che in città. E parecchio. Lo sappiamo e – come ci dice tanta letteratura popolare – lo sapevano anche allora. Nonostante ciò, masse di contadini non cessavano di abbandonare i più sicuri luoghi natii per recarsi nelle città. Rischiavano la vita, ma li sorreggeva la speranza di cambiarla. Ce lo racconta bene Carlo Cipolla. La speranza di cambiare è stato uno dei motori principali dello sviluppo spettacolare della civilizzazione europea.

     

    03Fig.3: Ben Ibebe, Urban slum Fonte

     

    Se i paragoni e le parabole valgono qualcosa, potremmo pensare lo stesso degli infernali slums che circondano le immense metropoli africane, americane e cinesi. Un luogo dove l’umanità si riversa, sperando. Così Alberto Salza chiude il suo libro più vero, Niente, un libro di antropologia della povertà estrema (che potrete leggere su Historia Ludens).

     

  • Una scuola che non discute l’Educazione Civica.

    1 Il convegno di Scuola Democratica su "Educazione civica, oltre le regole".

    Giorno 16 novembre 2021, a partire dalle h. 9.45. LINK

    di Antonio Brusa

     

    In quante maniere si fa educazione civica in Italia? Al momento non lo sa nessuno. Spero che il Ministero stia raccogliendo i dati e ce li faccia conoscere. A quel che vedo (un centinaio di curricula di scuole diverse, che grazie a Antonio Prampolini ho potuto esaminare), il modo più diffuso è quello di spalmare la materia su tutte le discipline. Ma c’è chi conserva l’assetto tradizionale, assegnando ai docenti di storia il compito maggiore e chi, soprattutto alle superiori, utilizza a questo scopo i docenti di economia e diritto.

    Tutte le scuole, dunque, impegnate nell’ingegneria degli orari e dei vincoli sindacali. Nessuna, a quello che mi consta che si sta interrogando su alcuni fatti che sono decisivi per capire che cosa si sta facendo e dove la scuola si sta cacciando.

    Il primo è che per la prima volta nella storia della Repubblica, da quando Aldo Moro introdusse l’EC, questa è stata separata dalla storia.

    Il secondo è che l’intero dibattito parlamentare è stato “a-disciplinare”. L’EC, per i nostri eletti, è una materia che si pratica e non si studia. Mariastella Gelmini, che da ministra aveva tirato in ballo la Bibbia Laica, nel dibattito si è spinta ancora avanti, lasciando pensare a un’educazione civica come una sorta di “catechismo laico”, guida per “la vita di ogni giorno” (cit.).

    Il terzo, è che le Linee-guida non sono le tavole della Legge, ma un disperato tentativo di dare intellegibilità a un testo legislativo sgangherato e posticcio (“un minestrone”, a detta di qualche parlamentare, forse in un soprassalto di coscienza).

    2 Ciononostante, vedo le scuole (e tanti insegnanti) che hanno rapidamente trasformato queste modeste basi culturali nel dogma della tripartizione dell’EC: la Costituzione, l’educazione digitale e quella ambientale. E constato che nessuno si chiede che cosa voglia dire la separazione fra storia e EC.

    Bene: basta leggere la legge istitutiva di Aldo Moro, nella quale si parlava di una materia “ibrida”, che coinvolge le scuole come istituzioni, è presente in tutte le discipline, ma “concentrica” con la storia, e in particolare con la storia contemporanea: il momento nel quale si sono create le istituzioni che reggono la nostra vita e (attenzione: il testo è del 1958) e si costruisce la Repubblica sulle rovine della Guerra e del Fascismo. Per Aldo Moro, l’EC è formazione del “cittadino politico”. Staccare la storia dall’EC, significa privarla della sua valenza di formazione politica, e ridurla al ruolo di formatrice del bravo ragazzo, che finalmente non trolleggia, non bulleggia, è inclusivo, non si droga e non inquina. (Ne parlo nell’articolo sul numero speciale di “Scuola Democratica” e nel resoconto che ho pubblicato su hl).

    Quindi i Consigli di istituto sono di fronte ad una scelta strategica del loro piano formativo: vogliono un’EC che vada a ridosso della cronaca nera, così come appare dal desolante dibattito parlamentare che ha partorito questa legge? Oppure vogliono lavorare per formare un cittadino che sappia leggere la valenza politica dei problemi che viviamo e ai quali stiamo andando incontro?

    Provo a rispondere a queste domande al mio solito modo: andando in una scuola e mettendo in pratica alcune idee. Lo sto facendo grazie all’impegno delle insegnanti dell’IC6 di Modena. Un progetto al momento entusiasmante. Ne pubblicheremo i primi esiti su HL.

    Ma di tutto ciò si parla al convegno di Milano, organizzato da Alessandro Cavalli e Nando della Chiesa, con Bruno Losito, Annamaria Ajello, Luciano Benadusi, Ludovico Albert, Milena Santerini e tanti altri. L’incontro è aperto a tutti. A partire dalle 9.45: LINK 

     

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