Autore: Antonio Brusa

Il grande fiume scorre nella foresta, la nemica acerrima dei Romani.  Un canale, ben curato, attraversa la pianura centuriata. Sullo sfondo, la Brescia odierna. Fra queste scene, che ti avvolgono dagli schermi curvati, si snoda “Roma e le genti del Po” . Una mostra che, mi auguro, segna la fine della mania etnicistica che ha caratterizzato le esposizioni degli ultimi trent’anni (i Balti, i Celti, i Greci dell’Occidente, i Barbari e i Romani).  Un avvilente ossequio all’andazzo ideologico, che, in tempi ancora freschi, ha spinto gli organizzatori a confinare nello spazio nascosto dei cataloghi quegli studi (di Gasparri e di Pohl, per esempio) che dimostravano l’abuso del termine “popolo”, per indicare aggregazioni antiche, le cui caratteristiche non corrispondono a quelle odierne. Saggi che solo uno storico si andava a leggere, mentre il visitatore ignaro (al quale queste mostre sono, in primis, dirette) se ne usciva con l’idea che “un tempo questa terra era abitata da popoli felici, che poi vennero oppressi da Roma, conquistatrice di ieri (e ladrona oggi)”.

In questa esposizione scopri che i Veneti e i Cenomani erano alleati dei Romani, e da questi ampiamente premiati. Che i Boi e gli Insubri erano federazioni tribali (e non popoli, dunque) e, spesso, si trattava di élites, che si insediavano in terre, abitate da una congerie di popolazioni italiche, con le quali, dopo iniziali fasi di conflitto, trovavano un modus vivendi pacifico, dando origine a “nuove popolazioni”. Si vedono tesoretti di monete puniche, siceliote, sarde e italiche. Dracme celtiche, coniate sul modello di quelle greche. Templi insubri dedicati a divinità delle quali l’interpretatio aveva fornito il corrispettivo latino, e che, in ogni caso, erano rappresentate con aspetti latini, come il sacrario di Atena a Mediolanum, dove i celti custodivano le loro insegne auree. Iscrizioni bilingue, nomi personali misti (un po’ latini e un po’ celti o veneti). Modi di vestire altrettanto contaminati. Scopri, confrontando con i documenti le idee che ti porti appresso, che gli elmi con le corna erano bellamente etruschi e che, se nei musei siciliani si trovano dei sicilianissimi “soli delle alpi”, qui, nelle piane lombarde, si usava il simbolo  adottato dalla Sicilia come marchio identitario.

Scopri che la valle romanizzata è altrettanto padana di quella celtica, etrusca, veneta o ligure. E la bellezza di questo territorio è proprio quella di conservare la sedimentazione di queste fasi. E, da insegnante, ne trai la giusta conclusione che lo scopo di una corretta educazione al patrimonio è quella  di mettere in grado gli abitanti attuali di questa pianura a leggere questo territorio, a capirne la ricchezza straordinaria e a sentire la responsabilità di custodirla. Quale che sia la loro origine.

 

Si intravede, fra le righe della mostra, il quadro della “etnogenesi”, un fenomeno, noto agli storici soprattutto attraverso gli studi della scuola di Vienna, della quale Walter Pohl è il maestro riconosciuto. In questo modello, i “popoli” non esistono, ma sono costruzioni incessanti, ieri come oggi. Rielaborazioni di elementi locali e esogeni che non si bloccano mai ad un livello “celtico” o “etrusco” o “romano”. O “italiano”. E’ quindi un abuso contemporaneo staccare delle immagini da un contesto che è in evoluzione continua, per farne il simbolo di una inesistente identità autentica. L’etnogenesi è un fenomeno complesso, che va letto con attenzione e senza mitizzazioni. Nemmeno quelle ireniche. Nella mostra si trovano gli spunti giusti: nelle armi e nell’esaltazione degli eroi, che combattono su fronti multiformi. Punici, celti, romani, liguri o veneti o sanniti. Nei trofei, come la testa di Albino Postumio, antenato del costruttore della Postumia, che fu dorata e custodita in un sacrario celtico. Nel frontone del tempio di Talamone, dove i romani avevano rappresentato il conflitto con gli italici, presentandosi come i Tebani che sconfiggevano i Sette e li mandavano all’inferno.

In questa complessità c’è spazio anche per la poesia. L’ultima parte della mostra è dedicata ai poetae novi e, credo non solo per me, è stata una sorpresa commovente scoprire che il ritratto di poeta, ritrovato a Sirmione, è proprio quello di Catullo. E’ la tesi di Paolo Moreno, e da questo momento, guai a chi me la tocca.

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