di Antonio Brusa
1. Che cos'è un laboratorio didattico
Il termine “laboratorio” è l’applicazione al campo delle discipline di una struttura produttivo/formativa centrale nel passato, ridotta oggi allo spazio di una nicchia: l’atelier dell’artigiano. Un tempo esistevano “le botteghe” e si mandava il figlio “a bottega”, dove l’artigiano proponeva all’allievo un frammento di attività, tipica del suo mestiere. L’allievo si esercitava e, quando terminava il lavoro, il “maestro” gli mostrava il suo “capolavoro”: “ecco come si fa”. L’apprendimento avveniva fondamentalmente in due momenti: il primo era “svolgere il compito”; il secondo era “valutare” la distanza fra questo e il modello del maestro. Nel primo momento l’allievo apprende il “know how”, nel secondo comincia a rendersi conto del cammino che deve fare per raggiungere l’abilità del maestro. Conoscenza e metaconoscenza vanno di pari passo in un laboratorio. Ogni docente sa che questo abbinamento costituisce un profondo incentivo al processo di formazione1.
Questa metafora elementare ci suggerisce alcune considerazioni che appaiono in controtendenza, se le applichiamo alla grande varietà di “laboratori” che troviamo nelle nostre scuole, e alle discussioni che si accendono intorno a questi. La prima è che i laboratori non sono un incoraggiamento al narcisismo degli allievi e, per quanto riguarda i bambini delle primarie, dei loro genitori. Non sono il luogo dove si realizzano i lavori che alla fine dell’anno si mettono in mostra, o, come accade sempre più spesso, si affidano orgogliosamente alla rete. I prodotti degli allievi sono prove e pietre miliari di un percorso formativo, non oggetti da ammirare. La seconda considerazione è che i laboratori non sono il luogo dove si forma il “piccolo storico” o il “piccolo chimico”. Al contrario, qui l’allievo inizia a conoscere il processo, a volte complicato, che permette allo studioso di raggiungere quella data conoscenza o di ottenere quel risultato che i libri o i media ci consegnano bell’è fatto. Nel laboratorio gli allievi si vaccinano contro uno dei virus distruttivi della nostra società: la disintermediazione, un fenomeno dilagante secondo il quale le competenze non sono necessarie, dal momento che le conoscenze sono alla portata di tutti. Lo scopo finale di un laboratorio, dunque, non è un allievo che proclama: “questo l’ho fatto io”, illudendosi di “saper fare storia” e quindi di competere con il professionista, ma un allievo che apprende a rispettarlo e a tenere nel giusto conto i risultati di un lavoro di cui ha apprezzato la difficoltà. La terza considerazione è che “il sapere come si costruisce una conoscenza storica”, obiettivo finale di un apprendimento laboratoriale, è un sapere vitale per il cittadino, perché lo aiuta a valutare criticamente le informazioni in base alle quali legge l’evoluzione sociale e prende decisioni personali o pubbliche.
2. "Docenti artigiani" dentro il laboratorio dello storico
Il laboratorio mette in discussione la cultura storica degli insegnanti. Questa, solitamente, è finalizzata alla padronanza del percorso che va dalla comprensione di un testo alla sua narrazione. Per gestire un laboratorio, invece, non occorre soltanto “capire un testo storico e raccontarlo ad altri”, ma saperci guardare dentro, rendersi conto dei suoi meccanismi, immaginare le fonti dal quale è stato ricavato e dominare i problemi connessi con il lavoro sulle fonti, “metterci le mani”. Occorre diventare “artigiani della storia”. Quando l’insegnante ha – come ha scritto Ivo Mattozzi – una “mente laboratoriale”, trasforma una narrazione nella palestra dove esercitarsi, lavorare e giocare2. Tutto ciò è qualcosa che dovrebbe far parte della formazione di base del docente, e non dovrebbe essere rimandato a corsi post-universitari, nei quali, invece, si dovrebbero perfezionare atteggiamenti già assimilati durante gli studi universitari, e corredarli delle nuove acquisizioni che la ricerca didattica mette a sua disposizione.
Un progetto utopico, si dirà, soprattutto se guardiamo a questi fatti dall’osservatorio italiano, caratterizzato dall’ostilità delle Università (e in particolare delle facoltà umanistiche) ad assumersi il carico della formazione professionale dei docenti, incentivando la ricerca didattica e modificando i curricoli in funzione di questa. Di conseguenza, una “mente laboratoriale” è qualcosa che il docente italiano si autocostruisce con pazienza nel corso di una formazione in servizio caratterizzata – strutturalmente, noi italiani ormai dovremmo riconoscerlo - dal volontariato3.
3. Tanti laboratori, troppi laboratori. Come scegliere?
La mancanza di una professionalizzazione formale ha fatto sì che, quando nel corso degli anni Ottanta del secolo passato ha cominciato a diffondersi nelle scuole l’idea di laboratorio, ogni docente se ne è fatta una propria e ogni editore ne ha propagandato una sua versione. Per laboratorio, quindi, si intende una vastissima gamma di mediatori didattici, che vanno dalla ricerca simil-professionale, al documento corredato da domande di comprensione, alla discussione informale, a una qualsiasi attività digitale. In sé, questa varietà potrebbe essere un pregio della comunità didattica italiana. Tuttavia, in mancanza di standard di riferimento, questa varietà significa solo una confusione nella quale, come accade in economia, la didattica cattiva di solito scaccia quella buona. In questa situazione, proporre un modello non è solo consegnare ai docenti un mediatore supportato da una ricerca storico-didattica, ma è anche fornire uno strumento per imparare a valutare le proposte circolanti e individuare altri modelli affidabili, nel caos che caratterizza la situazione attuale italiana.
Il modello che presento ha alcune caratteristiche formali. La prima è la brevità delle attività. Credo che un laboratorio debba essere breve per poter essere inserito facilmente in un curricolo. Un’attività che si prolunga nel tempo (ho visto laboratori di decine e decine di ore) è invasiva. Obbliga il docente a eliminare parti significative del curricolo, con un costo molto grave in termini di formazione. La seconda caratteristica è la sua semplicità. Un’attività lunga e complessa non facilita le attività di metacognizione. Una ricerca a 360° è talmente ricca e piena di intoppi e di problemi, che l’allievo non distinguerà chiaramente lo “strumento cognitivo” che sta apprendendo, ma tenderà a portare a termine un lavoro indistinto che, per colmo dell’ironia, chiamerà “ricerca storica”. La terza è che il laboratorio non è un’attività libera, finalizzata a una qualche produzione creativa. Al contrario, deve essere provvisto di regole. Un’attività totalmente destrutturata (“cercate”, “discutete”, “fate una relazione su”, “presentate in modo originale”) corre il rischio di essere realizzata con strumenti concettuali ingenui. L’allievo ottiene un prodotto, ma non sa quali “regole storiche per pensare” ha esercitato. La quarta, per contro, è che questa attività non deve essere eccessivamente strutturata, fatta di esercizi in sequenza rigida. Si soffoca qualsiasi libertà interpretativa del discente: qualità indispensabile in un laboratorio. Molte attività riportate nei manuali soffrono di questo problema. Documenti provvisti di griglie di lettura, a volte anche pensate con intelligenza, guidano passo passo l’allievo nella comprensione del testo o dell’immagine. Gli chiedono delle risposte, ma non sollecitano affatto la sua capacità di interrogare i documenti, che è una delle operazioni fondamentali in un laboratorio.
Regole unite a libertà: sembra un ossimoro, ma un laboratorio vive di questo matrimonio difficile.
4. Un laboratorio bello e normalmente impossibile
Un laboratorio interessa di solito un complesso di capacità che appartengono a molte discipline: la lettura dei testi o delle immagini o l’apprendimento delle tecnologie digitali. Se queste prendono troppo tempo, ne rimane poco per sviluppare le abilità specifiche della storia. Quindi, dal momento che il tempo assegnato alla nostra disciplina è ridotto, occorrerebbe “valutare il peso” della storia all’interno di un laboratorio, prima di includerlo nel curricolo. Forse il caso attualmente più ricorrente è quello delle tecnologie: ad esempio, un lavoro di animazione digitale, che prende quasi tutto il tempo per illustrare una storia di venti righe, sarà un ottimo esempio di laboratorio digitale del tutto ininfluente nella formazione storica.
Un caso autorevole ci aiuterà a chiarire questo punto. Si tratta della rappresentazione a Roubaix di una pièce ricavata da un celebre libro di Serge Gruzinski sul confronto/scontro fra gli europei e gli imperi mesoamericani e cinesi4. Roubaix è un luogo emblematico dei problemi sociali attuali, non solo francesi. Nella sua fase di crescita ha attratto immigrati da tutto il mondo che, a causa della rapida deindustralizzazione degli anni Ottanta/Novanta, si sono improvvisamente trovati privi di un buon lavoro. Una società, unita da una comune speranza di sviluppo, si frammenta di colpo in cento comunità vicendevolmente ostili. Facile immaginare le difficoltà dei docenti in questa situazione esplosiva. L’idea di un professore di Liceo è stata quella di usare il libro di Gruzinski per mettere in scena l’incontro fra genti di origine e cultura diverse. Ecco l’esperienza, nelle parole dello stesso storico.
“Il professore ha, dapprima, ricavato dal libro documenti e carte, per corredarne le sue lezioni di storia. In un secondo tempo, ha chiesto agli studenti di trasformare in dialoghi gli scambi che avevano fatto incontrare o scontrare gli europei e i loro ospiti. In due mesi, essi hanno composto dialoghi, che hanno imparato a memoria, e insieme hanno partecipato alla messa in scena di queste due storie, senza dubbio molto distanti dalle loro preoccupazioni quotidiane. Gli uni sono diventati dei cinesi o degli aztechi, gli altri dei portoghesi o degli spagnoli; non senza difficoltà, una giovane musulmana ha accettato di salire sul palco e di interpretare la parte della compagna india di Cortes, la Malinche, che fu un’intermediaria preziosa fra i conquistatori e gli aztechi. Gli allievi hanno interpretato episodi drammatici, come la messa a morte dell’imperatore Moctezuma dai suoi, o l’arresto dei portoghesi da parte delle autorità cinesi. Ma lo spettacolo comprendeva anche momenti di osservazione e di scambio, che mettevano faccia a faccia Moctezuma e i suoi ospiti castigliani, o ancora l’imperatore cinese Zheng-de e i suoi visitatori portoghesi”.
Proviamo a stilare un bilancio disciplinare di questa esperienza. Sono da considerarsi risultati positivi il coinvolgimento entusiastico di studenti, che fino a quel momento avevano escluso la storia dal novero dei loro interessi, e della cittadinanza alla quale la scuola ha offerto un momento di riflessione su un problema che la lacera dolorosamente. Da ascrivere ai risultati positivi è anche l’acquisizione di conoscenze importanti, sia sulla colonizzazione cinquecentesca, sia sul problema della convivenza fra diversi. A queste positività fanno riscontro il fatto che una quota notevole delle operazioni disciplinari (leggere il libro di Gruzinski e selezionarne i passi significativi) è stata compiuta dal docente e che, dei due mesi necessari per la preparazione dell’evento teatrale, la parte del leone è stata fatta dalle pesanti incombenze della messa in scena. La palestra - per riprendere la metafora vista sopra – è servita più per la recitazione che per esercitarsi a leggere un fatto storico. Si è trattato insomma di una felice terapia d’urto in una situazione drammatica che, tuttavia, non può essere considerata paradigmatica della didattica quotidiana. Una didattica eroica, meritoria in tante occasioni nelle quali una scuola si può trovare, ma non uno strumento normale della routine giornaliera del curricolo di storia.
5. Il laboratorio e la lezione
In questa routine, il docente ha due strade per comunicare agli allievi un fatto storico. La prima è quella diretta del racconto; la seconda è quella indiretta del laboratorio. Entrambe richiedono approcci operativi specifici. Il racconto (la lezione, il film, il documentario, la video immersione, ecc.) vuole che l’allievo impari a decostruire ciò che l’insegnante offre e a ricostruirlo in forma personale, attraverso l’esposizione orale o scritta. Il laboratorio parte dalla materia prima dello storico, i documenti, e invita l’allievo a rielaborarli per produrre un racconto. Le due strade sono complementari. Più laboratori faccio e più intuisco la complessità celata dentro un racconto; più racconti conosco, meglio riesco nell’intento di immaginare una storia, dietro la serie di documenti che mi passano sotto gli occhi. Una buona programmazione fa un uso intelligente delle due vie di comunicazione. Affida, per esempio, alle lezioni la costruzione dei grandi quadri storici, o la fascinazione per una biografia o una battaglia; mentre ai laboratori chiede di curare dei particolari, di insegnare l’analisi o sviluppare la capacità di interrogare e problematizzare, di trasformare un argomento storico in un terreno di scoperte.
Se le due strade corrono parallele, non altrettanto lo sono le dotazioni didattiche per percorrerle agevolmente. Infatti, per quanto riguarda la comunicazione diretta, l’insegnante dispone di modelli di lezione attraenti (per esempio può studiarsi le clip di qualche bravo comunicatore) e di tanti altri strumenti comunicativi e multimediali (per non parlare dello sviluppo della Public History), che ne potenziano la capacità di farsi intendere. Alle spalle di questo successo ci sono un paio di millenni di studio sulla retorica e un lavoro sulla comunicazione storica di oltre due secoli, durante i quali si sono prodotte le semplificazioni di base sulle quali si lavora in classe. Nessuno spiega la rivoluzione francese a “grandezza naturale”, come la si trova sulla scrivania del ricercatore. Tutti, invece, hanno a disposizione delle “riduzioni” di quel racconto, che lo rendono gestibile in classe. Questo lavoro, che in Italia si chiama spesso “trasposizione didattica” e che più propriamente andrebbe definito “secondarizzazione”, si è realizzato solo per la comunicazione diretta. Per quella indiretta, che lavora più sulle metodologie, non è avvenuta una secondarizzazione generalizzata dei modelli di ricerca e dei singoli elementi dei quali sono costituiti5. L’insegnante, quindi si trova di fronte al modello di ricerca professionale, che non funzionerà mai in una classe; oppure di fronte a delle letture pedagogizzate di questo modello, che, per quanto fatte con intelligenza, rischiano di non essere riconosciute come pertinenti, o considerate troppo vaghe dagli storici, o di perdersi in liste interminabili di obiettivi e competenze.
1 Questo articolo è il complemento “pratico” del mio Il laboratorio nel curricolo di storia. Modelli e problemi, in pp. 49-58, in S. Adorno, L. Ambrosi, M. Angelini (a cura di), Pensare storicamente, Franco Angeli, Milano 2020, pp. 49-58, con la bibliografia più aggiornata su questo argomento. Il riferimento ovvio dell’artigiano-storico è al fondamentale libro di Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino, diverse edizioni.
2 I. Mattozzi, La mente laboratoriale, in P. Bernardi (a cura di), Guida alla didattica del laboratorio storico, Utet, Novara 2006, cap. II.
3 Sulla difficoltà tutta italiana di costruire una tradizione scientifica in Didattica della storia, si veda L. Cajani, Le vicende della didattica della storia in Italia, in E. Valseriati (a cura di), Prospettive per la Didattica della Storia in Italia e in Europa, New Digital Frontiers, Palermo 2019, ora in
https://www.academia.edu/38782430/Prospettive_per_la_Didattica_della_Storia_in_Italia_e_in_Europa_a_c._di_E._Valseriati_New_Digital_Frontiers_Palermo_2019_pp._7-12
e M. Angelini, Didattica della storia: nascita e sviluppo di una disciplina, in S. Adorno, L. Ambrosi, M. Angelini (a cura di), cit., pp. 1-9.
4 A. Gruzinski, L'aigle et le dragon: Démesure européenne et mondialisation au XVIe siècle, Fayard, Paris 2012.
L’esperienza didattica è raccontata di Id., L’histoire, pour quoi faire?, Fayard, Paris 2012, tradotto in Italia da Raffaello Cortina col titolo Abbiamo ancora bisogno della storia? Il senso del passato nel mondo globalizzato (2016), nel quale non troverete il capitolo dedicato alla didattica, significativamente eliminato dall’editore. Michel Huber e Alain Dalongeville hanno scritto Enseigner l'histoire autrement: Devenir les héros des évènements du passé, Chronique sociale, Lion 2002, dove si discute di didattiche alternative ed empatiche: un tema di rapida espansione nell’orto italiano delle didattiche spontanee.
Ho descritto la vicenda di Gruzinski in Historia Ludens: http://www.historialudens.it/didattica-della-storia/225-un-nobel-per-la-storia-serge-gruzinski-e-la-ricerca-di-una-nuova-storia-da-insegnare-nel-xxi-secolo.html
5 S. Doussot, Didactique de l’histoire. Outils et pratiques de l’enquête historienne en classe, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2011.