di Alessandro Cavalli
Identità personali e identità collettive
Tutti gli esseri umani, prima o poi, consapevolmente o inconsapevolmente, si chiedono: chi sono io? Cioè, riflettono sul concetto di identità. Da Freud in poi sappiamo (in realtà lo sapevamo anche prima di lui) che la domanda ne contiene almeno altre due o tre: chi vogliamo essere (super-ego), chi non sappiano di essere (es o inconscio) e chi pensiamo di essere (Ego).
Tutto questo riguarda l'identità personale, ma non esaurisce il problema. Ognuno di noi infatti non è un individuo isolato, ma fa parte (appartiene) a diverse collettività alle quale facciamo riferimento quando parliamo di “noi”. Alcune identità collettive sono facilmente comprensibili: ad esempio, l'identità di genere (che peraltro anch'essa è messa in discussione dalle componenti LGBT), l'identità legata al corso di vita (bambini, adolescenti, giovani, adulti, anziani, vecchi, per quanto la definizione di queste fasi muti fortemente nel tempo e tra culture diverse), l'identità generazionale (che dipende dalla fase storica nella quale attraversiamo le diverse fasi del corso di vita). Possiamo interpretare queste appartenenze in modi diversi, ma è abbastanza difficile cambiare genere, cancellare la propria data di nascita sulla carta d'identità, oppure nascondere efficacemente la propria età.
Altre identità collettive, altri “noi”, fanno parte di processi in cui conta molto l'intenzione, la volontà, sono cioè oggetto di processi di “identificazione”. Sono le identità religiose, le identità sociali-ideologico-politiche, le identità territoriali e le loro possibili combinazioni. È su queste ultime che vorrei qui fermare l'attenzione.
“Avere radici” o “mettere radici”
Nella lingua tedesca esiste un termine: Heimat, - una parola diversa da Nation e Vaterland (nazione e patria) - per indicare il senso di appartenenza alla realtà locale-territoriale, alla sua storia, ai suoi costumi, ai suoi paesaggi. Il concetto di Heimat è probabilmente legato alla fase agricola delle popolazioni umane in cui la gente non si spostava per gran parte della vita, se non nel raggio di pochi chilometri, dal luogo in cui era nato. C'è certamente una parentela tra il concetto di Heimat e quello di comunità (Gemeinschaft). Oggi, nell'epoca di una più frequente mobilità territoriale di massa, non parlo del turismo di massa, il concetto dovrà essere riformulato, mantenendo però il legame con l'esperienza individuale legata al territorio. La persona mobile, che ha vissuto in luoghi diversi dove ha sia pure provvisoriamente stabilito la propria “casa”, non è “privo di radici”, ma ha “messo radici”, in posti diversi. Comunque, la Heimat è dove si è nati e cresciuti e non è privo di significato che i termini nazione, patria e madrepatria facciano riferimento alla nascita, non soltanto a quella fisica, legata a una madre e un padre concreti, ma anche al fatto che siamo nati in una società che esisteva prima della nostra nascita e che, presumibilmente, esisterà anche dopo la nostra morte.
Vi sono quattro aspetti della tematica dell'idea di “nazione” che bisogna approfondire in modo particolare: 1. il rapporto tra nazione e democrazia; 2. Il rapporto tra nazione e stato nazionale; 3. il rapporto tra nazione e coesione sociale; 4. Nazioni che diventano imperi, nazioni che lottano contro gli imperi.
Fig.1: Giovanni Fattori, Il campo italiano alla battaglia di Magenta, 1862, Collezione privata. Le immagini di questo articolo sono tratte dal blog Pensieri Lib(e)ri: Fonte
Il rapporto fra nazione e democrazia
Non bisogna dimenticare che l'idea moderna di nazione nasce in epoca recente, grosso modo con la rivoluzione francese, quando cambia il fondamento di legittimità, cioè di sovranità, sul quale si fonda il potere. Se prima si governava per “grazia di Dio”, ora si governa per “volontà della nazione”. Il popolo diventa, almeno formalmente, ma i simboli hanno il loro peso, il titolare della
sovranità. Ma come si definisce il popolo? Chi appartiene e chi non appartiene al popolo? L'unico modo è quello di fissare dei confini precisi per definire chi sta dentro (gode cioè del diritto di cittadinanza) e chi sta fuori ed è privo di tale diritto. Quindi, dove c'è uno stato, il popolo è definito territorialmente in base ai confini dello stato. Il nesso popolo-nazione-stato è quindi strutturalmente connesso all'avvento della democrazia e cioè è legato al cambiamento di legittimità sul quale si fonda il potere di governare. Sono tuttavia le vicende della storia politica a tracciare questi confini.
Questo in linea generale. Per i singoli stati nazionali la storia prevede percorsi in parte diversi, connessi, tra l'altro, alle diverse forme di governo, al passaggio in certi casi dalla monarchia alla repubblica e alla architettura costituzionale. Si possono imparare molte cose dagli storici del diritto costituzionale comparato.
Bisogna comunque distinguere tra nazioni che si formano sulla base dei confini di uno stato precedente (per intenderci, Francia, Portogallo, Spagna, Regno Unito, ecc.) e nazioni che si formano su un territorio che non era precedentemente unificato su base statuale/territoriale. Nel primo caso, il problema consiste nel trasformare i sudditi in cittadini senza modificare, se non in alcuni casi marginalmente, i confini dello stato, accettando i confini che si sono più o meno consolidati in relazioni alle guerre, ai trattati di pace, agli accorpamenti conseguiti a vicende dinastiche, ecc.
Nel secondo caso, invece, si tratta della fondazione di un nuovo stato laddove prima vi era una pluralità di stati. Vi sono due grandi casi nella storia dell'Europa dove la nazione si forma contestualmente alla formazione dello stato nella seconda metà del XIX secolo: il Regno d'Italia e il Reich germanico.
La vicenda della formazione dello stato nazionale in Italia è singolare e illuminante. Noi chiamiamo questo processo “risorgimento”, cioè ri-nascita, quindi ri-costruzione di qualcosa che esisteva già prima, qualcosa di permanente (se non addirittura di eterno) che era stato diviso e che ora ri-sorge. Ricordiamoci i versi famosi dell'Inno di Mameli: “l'Italia s'è desta”, cioè prima era solo dormiente, e, nella strofa che nessuno conosce, si canterebbe “noi siamo da secoli calpesti e derisi…”. Un processo che è nello stesso tempo di unificazione, di “conquista”, anche militare, da parte del Regno piemontese che si congiunge al movimento nazional-democratico che si appella al popolo-nazione. Il problema è che di stati ce ne sono tanti e così anche di popoli anche se questi, nella visione onirica mazziniana, vengono considerati “fratelli”. Le sorelle non avevano ancora conquistato la “voce”.
Il rapporto tra nazione e stato nazionale
Nella narrazione risorgimentale, quella che la nuova commissione di riforma vorrebbe mettere al centro del processo formativo dei cittadini italiani, il processo di unificazione nazionale viene presentato in prima istanza come storia delle “guerre di indipendenza” dall'Austria-Ungheria, ovvero dall'Impero asburgico che era succeduto ai resti del millenario Impero sacro-romano. Non dimentichiamoci che perfino in alcuni manuali di storia la guerra del 1915-18 veniva presentata come l'ultima (quarta) guerra di indipendenza in quanto il processo di unificazione nazionale non si sarebbe concluso senza la liberazione di Trento e Trieste dal giogo di un impero, peraltro in via di dissoluzione.
Nel Risorgimento si saldano in realtà quattro processi: l'egemonia piemontese, la conquista democratica dei diritti di cittadinanza; l'unificazione di una pluralità di formazioni statuali; l'indipendenza da una potenza straniera: un movimento democratico di unificazione e indipendenza.
La formazione e l'affermazione storica dello stato nazionale ha evocato l'esistenza di un'entità mitica “la nazione Italia” le cui origini si perdono nella notte dei tempi.
Anche in Germania l'unificazione ha comportato la scomparsa di una pluralità di stati, ma la potenza militare della Prussia è stata assai più determinante di quanto non sia stato in Italia il ruolo del Piemonte. Rusconi ha confrontato Bismarck e Cavour e le differenze sono più evidenti delle somiglianze. In Germania la rivoluzione democratica si era già arenata nella Paulskirche di Francoforte nel 1848, e avrà vita breve tra il 1919 e il 1933 solo nella repubblica weimariana, e, inoltre, l'unificazione (cioè, la creazione di quello che viene denominato Secondo Reich) non ha significato la conquista dell'indipendenza da qualche impero straniero.
È significativo che per recuperare un'unità perduta si debba risalire al nono secolo quando Ottone di Sassonia riuscì a farsi nominare dal papa al vertice del Sacro Romano Impero. Tuttavia, parlando della Germania come verspaetete Nation, Helmuth Plessner ha introdotto la categoria delle “nazioni tardive” che si applica almeno in parte anche al caso italiano.
Mentre in Italia, l'operazione tutta ideologica di far risalire l'italianità alla romanità è stata più facile (l’Italia è coronata dalla vittoria che Iddio fece schiava di Roma), in Germania la definizione della “germanità” (Deutschtum) ha richiesto più che altrove il ricorso a teorie della razza il cui esito finale è stato ben noto.
Fig.2: Giovanni Fattori, Lo staffato, 1979, Galleria degli Uffizi.
Il rapporto tra nazione e coesione sociale
Bisogna infine considerare il terzo fattore e cioè che la nazione nasce agli albori delle società industriale. Le società umane, almeno da quando si è affermato il diritto di proprietà della terra, hanno conosciuto diverse forme di disuguaglianza, partendo dalla divisione verticale tra ricchi e poveri. Ciò non ha mai provocato delle vere e proprie “lotte di classe”, ma piuttosto delle rivolte contadine contro i signori. Semplificando molto, si può dire che con le società industriali si presenta anche una nuova forma di lotta di classe quando gli “sfruttati” incominciano a darsi una organizzazione, prima informale e clandestina, poi più strutturata e riconosciuta. Viene meno la coesione sociale, il consenso minimo, il legame che tiene unite le società e impedisce la guerra civile, l'esplodere dei conflitti interni.
È con l'accentuarsi dei conflitti sociali legati alla distribuzione diseguale delle opportunità che la nazione si erge come forza che rappresenta l'interesse comune a stare insieme e a superare il conflitto di classe. Il fallimento dell'internazionalismo socialista, della fratellanza proletaria, della solidarietà di classe quando si è trattato di affermare l'interesse nazionale nella Prima Guerra Mondiale dimostra in modo evidente come l'idea di nazione abbia avuto una potente funzione di integrazione sociale.
Nazioni che diventano imperi, nazioni che lottano contro gli imperi
Queste rapide riflessioni sul caso italiano (ma non solo) mi consentono di allargare la ricerca in una direzione che è stata finora un po' troppo trascurata e cioè come in molti casi le nazioni nascano e si consolidino in reazione ad un rapporto di dipendenza di tipo imperiale.
Come sostiene Herfried Muenkler, gli imperi sono stati nella storia delle grandi organizzazioni politiche sovra-nazionali, nel senso che riguardano forme di dominio di uno stato su altri stati, o semi-stati, in passato, ovvero di una tribù su un'altra tribù, di un popolo su altri popoli, quando i popoli hanno incominciato a contare qualcosa e ad identificarsi con degli stati. Il caso italiano quindi è soltanto un caso di una costellazione dove la posta il gioco è il valore dell'indipendenza, il rifiuto di uno stato/popolo di accettare la sottomissione ad un altro stato/popolo.
Se prendiamo il caso dell'Europa dell'Est (quella che si trova oltre il limes che definiva i confini dell'impero romano) ci rendiamo conto che si tratta di un'area che di volta in volta è stata contesa da tre imperi: asburgico, ottomano, zarista. Si può credo spiegare la straordinaria resilienza dell'idea di nazione in questo pezzo d'Europa con il fatto che le identità collettive di queste popolazioni si sono formate invariabilmente in difesa della propria indipendenza di fronte alle pretese di dominio da parte di poteri imperiali.
La nazione si forma per affermare la propria indipendenza e/o autonomia. Il dominio si fonda in ultima istanza sulla potenza militare, cioè sulla guerra, che decide chi sono di volta in volta i vinti e i vincitori.
Talvolta i vinti accettano di buon grado la propria dipendenza senza impegnarsi in una prova di forza, adottando i tratti culturali del vincitore o ritagliandosi un proprio spazio di autonomia. Ma, sia per affermare la propria indipendenza, sia per difendere una propria autonomia, è necessario che si formi una qualche identità collettiva e questa è l'idea di nazione.
Molto spesso, anche se non sempre, l'identità collettiva si forma sulla base della comunità linguistica, perché la lingua è lo strumento per comunicare e quindi per istaurare rapporti sociali e quindi costruire “società”. In moltissimi casi, i vinti adottano, o sono costretti ad adottare, la lingua del vincitore. Così, ad esempio, la lingua non costituisce il fattore decisivo dell'identità collettiva (della nazione) argentina o brasiliana, mentre in Ucraina l'indipendenza ha rinnovato una lingua che stava probabilmente estinguendosi in quanto gran parte della popolazione aveva ormai imparato il russo a scuola.
La nazione quindi nasce nel tentativo (riuscito) di affermare la propria indipendenza o di garantire la propria autonomia nei confronti del potere imperiale. Sono gli imperi che, quando scatenano una reazione, creano, o meglio, favoriscono la creazione delle nazioni. Quando pensiamo al concetto di impero pensiamo soprattutto al dominio dall'alto, un processo sostanzialmente top-down. Ma questo è solo un lato della questione: l'impero indica un rapporto dove è presente anche una dimensione bottom-up. I subordinati (ad esempio, le élite ma non solo degli stati satelliti) possono accettare la sub-ordinazione perché la ritengono non solo legittima, riconoscono cioè la superiorità del potere dominante, ma anche vantaggiosa se le modalità con cui viene esercitata consentono il grado di autonomia desiderato.
Così come i signori medievali riconoscevano l'autorità dell'imperatore, molti ras-locali hanno operato, non importa se in buona o cattiva fede, come agenti del potere imperiale. Resta però che lo stato si forma e diventa nazione solo nel rapporto di opposizione al potere imperiale.
Queste considerazioni, applicate agli imperi ex-coloniali, spiegano come dalla caduta o anche solo dal declino delle forme classiche di colonialismo si siano formate delle new nations, spesso attraverso conflitti cruenti, altre volte per spontaneo ritiro del potere imperiale, altre volte ancora per specifico intervento di promozione, più o meno artificiale, di new nations. In sintesi, i processi storici attraverso i quali si sono formate le nazioni non tolgono nulla al carattere ideologico in base al quale si giustifica la loro esistenza. La de-colonizzazione di ampie regioni del mondo ha comportato la frammentazione degli imperi coloniali e la formazione di decine di nuovi stati-nazione. La decadenza degli stati nazione che erano stati imperi (sostanzialmente, Regno Unito, Portogallo, Spagna e Francia, nonché Belgio e Paesi Bassi e, sia pure per un breve periodo, anche Italia e Germania) ha dato luogo alla formazione di stati-nazione post-coloniali.
Fig.3: Giovanni Fattori, Soldati abbandonati, Collezione privata.
Gli imperi non sono scomparsi
Per concludere, spostando lo sguardo sul presente, è banale constatare che gli imperi non sono scomparsi, ma possono assumere forme diverse. Nella famosa fotografia della Conferenza di Yalta del 1945 ci sono solo tre personaggi: Wilson, Stalin e Churchill. Un impero in ascesa, un impero che stava allargandosi e consolidandosi e un impero quasi sull'orlo del declino. Poi c'è stata la fase bipolare dell'equilibrio del terrore, chiusa a Berlino con la caduta del muro. Poi il mondo imperiale uni-polare americano ed ora, dopo l'ascesa delle potenze orientali di India e soprattutto Cina si incomincia a parlare di “ritorno degli imperi”. In Europa c'è talvolta qualche esitazione a parlare di impero americano. La Nato è sicuramente un'alleanza tra stati tutti formalmente sovrani, ma è chiara l'asimmetria dei rapporti tra gli USA e gli altri partner. Non c'è dubbio che si tratti di unequal partnership. È chiaro che, ad esempio, l'Ucraina preferisce questa alleanza asimmetrica alla prospettiva di tornare ad essere parte integrante di quello che è stato un tempo l'impero sovietico. Se possono, gli umani preferiscono poter scegliere il padrone da servire, piuttosto che esse scelti da lui e obbligati a servirlo.
C'è sicuramente un'ampia letteratura, che non conosco in modo adeguato, sulla politica americana nei confronti dei vari tentativi di unificare l'Europa. Se qualche studioso tentasse una rassegna di questa letteratura, penso che ne risulterebbe un quadro ricco di ambivalenze. La domanda da porsi è la seguente: c'è un'effettiva volontà dell'Europa di liberarsi da questo rapporto di dipendenza per istaurare un'alleanza più equilibrata, oppure i vantaggi della dipendenza superano i costi dell'indipendenza? Se l'Europa avesse voglia di lottare per la propria indipendenza dovrebbe in qualche forma sviluppare, oltre una propria forza armata, un senso collettivo di appartenenza che dovrebbe essere però qualcosa di diverso dall'idea di nazione. Che l'Europa non possa diventare una nazione è chiaro, anche se c'è chi parla di “idea di Europa”, di “cultura europea” o di “spirito europeo”. Giustamente è stato scelto per l'Europa il motto “unità nella diversità” (che peraltro vale anche per ciascuno dei suoi grandi paesi).
L’unificazione pacifica dell’Europa
Se c'è qualcosa che accomuna gli stati/popoli d'Europa è che per secoli si sono fatti la guerra tra di loro. Da tre/quarti di secolo però hanno smesso questa loro antica abitudine e hanno incominciato a costruire, con coraggio, ma anche con tante esitazioni, un ordinamento sovranazionale che potrebbe eventualmente sfociare in una federazione di stati. I modelli di ordinamento sovranazionale sono essenzialmente solo due: l'impero, dove ci sono dominanti e dominati, e la federazione, dove tutti, su un piano di sostanziale parità. concorrono ad attribuire reali ma limitati poteri ad una comune istituzione centrale, lasciando ampie autonomie ai livelli nazionale, regionale e locale.
Non si è, credo, riflettuto abbastanza sui modi con cui si è allargata l'Unione Europea. Si è partiti con i sei paesi che avevano firmato il trattato della Comunità del Carbone e dell'Acciaio (C.E.C.A) e il trattato dell'Euratom e si è arrivati all'attuale composizione di ventisette stati-nazione (erano ventotto prima della Brexit). L'allargamento è avvenuto senza sparare un sol colpo di fucile e senza atti di sottomissione, ma attraverso la libera volontà dei singoli stati di far parte di un'Unione più grande. Certo, l'adesione non è “senza condizioni” (solo la “resa” può essere “senza condizioni), è necessario il rispetto di regole comuni e ciò spiega come spesso le negoziazioni per l'adesione abbiano richiesto tempi lunghi e verifiche minuziose.
Anche Carlo V, Napoleone e Hitler hanno voluto unificare l'Europa estendendo i confini dei loro imperi impiegando la potenza dei loro eserciti, all'Unione Europea è riuscita l'operazione di allargare i suoi confini senza dover esercitare violenza. Si potrà dire che l'UE non è uno stato e neppure un impero e quindi ha potuto espandersi senza potenza militare. La ragione che ha reso possibile questo straordinario processo è un’altra: il fatto di aver adottato (sia pure per ora soltanto negli auspici) il modello federale che aveva consentito alle tredici colonie britanniche di formare il nucleo iniziale di quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti d'America.
Fig.4: Giovanni Fattori, Il dimenticato (Pro patria mori), 1900, collezione privata.
Il modello americano e l’identità europea
Gli USA sono un modello da imitare, però soltanto per quanto riguarda il modello della loro formazione. Una volta formatasi hanno dovuto affrontare una serie di sfide: come conciliare la presenza di una società schiavista, semi feudale e rurale degli stati del Sud con una società acquisitiva, individualistica impegnata nella rivoluzione industriale degli stati del Nord. Non sono stati in grado di affrontare la sfida senza far ricorso alle armi e hanno dovuto impegnarsi in una sanguinosa guerra civile. Hanno invece facilmente risolto, ma in modo solo apparentemente pacifico, il problema dei rapporti con le popolazioni autoctone, confinandole nelle riserve. Hanno cercato di tenere insieme in modi tutto sommato soddisfacenti popolazioni culturalmente molto eterogenee, provenienti da tutti gli altri continenti del globo. Per fare questo hanno dovuto però costruire una “nazione” cercando di cancellare il più possibile le differenze. Se l'Europa vuole essere un'unità nella diversità, gli USA hanno cercato di creare un'unità dalla diversità. Non sorprende che questo abbia comportato, almeno dalle seconde generazioni in poi, la quasi completa cancellazione delle lingue di provenienza e l'adozione di una lingua comune.
In questa complessa operazione di nation building, gli USA sono stati favoriti dall'aver dovuto (o dall'aver voluto) assumere un ruolo chiave negli equilibri internazionali, vincendo le tendenze isolazioniste, dall'intervento nella Prima Guerra Mondiale in poi. Da allora gli USA si sono sempre trovati nella condizione di dover fronteggiare un nemico, prima la Germania e il suo tentativo di unificare l'Europa, poi l'Unione Sovietica e il comunismo. Il modo migliore per costruire una nazione è avere, o farsi, dei nemici.
L'Europa non potrà seguire il modello americano: non sarà mai una “nazione”, certamente non avrà mai una lingua comune (se non l'inglese come seconda lingua). Ci possiamo chiedere se avrà dei nemici in contrapposizione ai quali sviluppare una forte identità collettiva comune. Certamente, né gli Stati Uniti, né la Russia di Putin, né la Cina di Xi Jinping hanno interesse all'unità europea. Agli Stati Uniti va bene un'alleanza squilibrata a loro favore in cui peraltro devono accollarsi il peso maggiore della difesa dei loro alleati europei. Gorbachev aveva capito che alla lunga gli interessi russi e quelli dell'Europa erano destinati a convergere, ma Putin ha dimostrato con l'invasione dell'Ucraina di pensarla in modo diverso: la Russia di Putin è ostile all'Unione Europea, anzi punta sul mantenimento della sua divisione per poter nutrire i suoi sogni neo-imperiali. La Cina e i paesi del Brics potrebbero essere potenziali alleati di un'Unione Europea effettivamente unita e quindi non sembra che possano assumere il ruolo di nemici di fronte ai quali l'Europa possa fare fronte comune.
La spinta ad un'unificazione politica più stretta, an ever closer union among the peoples of Europe, non verrà dal di fuori. Potrà venire solo dall'interno in situazioni di crisi. Se ciò accadrà potrà solo essere oggetto di auspicio, non di previsione. Bisogna volerlo, non possiamo saperlo. Ma se accadrà, dimostrerà efficacemente a tutti i popoli della terra che la convivenza pacifica tra stati e popoli diversi che si sono aspramente combattuti fino all'altroieri è possibile.
Un'identità collettiva l'Europa non la può trovare nel suo passato, ma soltanto nel suo futuro, vale a dire nella mission che rivolge a tutti gli altri popoli della terra.
Bibliografia essenziale
F. Goio, Saggi sulla nazione, Trieste, EUT Edizioni Università di Trieste, 2021: opera disponibile ad accesso aperto
https://www.openstarts.units.it/server/api/core/bitstreams/e92c2e5e-adec-4720-b41e-087ecb0132b3/content.
E. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo, Torino, Einaudi, 1991.
H. Kohn, L’idea del nazionalismo nel suo sviluppo storico, Firenze, La Nuova Italia, 1956.
F. Tuccari, La nazione, Laterza, Bari 2000.
* Articolo concesso gentilmente dalla rivista "Algebar", presso la quale è in corso di pubblicazione.