di Antonio Brusa
Il ritratto che mi ha fatto Mattia, di tre anni, vorrei fosse il “logo” del mio giro siciliano, a discutere di storia. Mattia era fra i duecentocinquanta giovani dell'Università Kore di Enna con i quali ho parlato di storia nelle elementari; a Catania e a Palermo, invece, ho affrontato il tema della tolleranza con il Cidi. Argomenti, come vedremo subito, spinosi e difficili. Il piccolo Mattia li rende più amichevoli.
La storia nella primaria
Agli studenti della Kore ho presentato le conclusioni di una ricerca, iniziata quattro anni fa (con le colleghe di Scienze della formazione di Bari), durante la quale ho analizzato numerosi sussidiari. L’esito sconfortante di questo lavoro mi spinge a lanciare un allarme. Non credo che si possa andare avanti in questo modo: o, in altri termini, è troppo tempo che tolleriamo una situazione inaccettabile.
I sussidiari ci restituiscono l’immagine di una scuola sclerotizzata, che ha largamente ignorato le riforme che dalla metà degli anni ’80 (la ministra Franca Falcucci: ricordate?) hanno cercato di modificare a fondo l’insegnamento della storia. Sono, infatti, pressoché identici – nella sostanza del racconto storico - a quelli di quarant’anni fa.
La fila dei popoli, dai sumeri ai romani, si succede ininterrotta da decenni nelle nostre scuole. E, quel che è peggio, il racconto di questi popoli, oltre a conservare quegli elementi di criticità che la ricerca didattica ha messo in luce da oltre mezzo secolo (primo fra tutti l’eccessiva brevità, che impedisce qualsiasi avviamento al ragionamento storico), sono letteralmente infarciti di stereotipi, misconoscenze e autentiche sciatterie. È vero che la scuola è ricchissima di esperienze, a volte bellissime, che non hanno molto a che vedere con questi manuali. Ma non si può non tenere conto del forte impatto che questi hanno in molte realtà scolastiche (quanti insegnanti seguono i manuali più o meno pedissequamente?).
Una realtà grave, quanto ignorata
Credo che questa realtà, nella gravità attuale, vada conosciuta: pena la nostra incapacità di cercare delle soluzioni adeguate. È una sensazione che formulo leggendo la recente intervista che Andrea Giardina ha concesso al “Corriere”, che sembra ignorare questo problema e fornisce un quadro della realtà della scuola, che corrisponde poco a ciò lasciano capire i manuali.
Secondo lo storico, infatti, gli insegnanti si perdono nella spiegazione di miti e leggende (quando invece, almeno in terza, quarta e quinta, prevale la vecchissima vulgata manualistica) e non si studia, come si dovrebbe a suo dire, la storia dei nonni e dei genitori (cosa che probabilmente si fa anche con troppa enfasi nel primo biennio delle elementari). Ad accrescere la confusione del lettore, ci si mette il giornalista che inventa un titolo, dal quale si deduce che il grande storico proporrebbe una storia che dal passato vada verso il presente. “Studiare la storia al contrario”.
Come back to the Future: la storia a ritroso.
Uno stupefacente, quanto involontario, ritorno a un passato lontanissimo. Dobbiamo risalire, infatti, al 1883, per trovare il ministro Baccelli che perorò la necessità di sperimentare una storia a ritroso, con l’argomento che “doversi nelle scuole inferiori pervenire alla conoscenza dell’ignoto per la via del noto” (un luogo comune della didattica durissimo a morire, come si vede) e che quindi occorreva “assegnare lo studio della storia moderna la precedenza sull’antica”. Commenta Gianni di Pietro che quell’esperimento fu un clamoroso fallimento, inapplicato nelle elementari del tempo, e confinato per alcuni anni in alcuni istituti nautici, fino a che non fu abolito qualche anno dopo (Da strumento ideologico a disciplina formativa. I programmi di storia nell’Italia contemporanea, Bruno Mondadori, 1991, pp. 264-265).
I sostenitori della necessità dell’insegnamento della storia (giornalisti, storici, gente comune) non mancano di riferirsi al detto che “conoscere il passato serve per evitare di ripeterne gli errori”. Mi meraviglia sempre scoprire che, nell’unico campo in cui risulterebbe vero – quello della didattica storica – esso venga sistematicamente ignorato.
Tolleranza
A Palermo e a Catania, invece, ho ripreso il tema centrale della Summer School di Trani (ne potete leggere la traccia su HL, nell'articolo su Nicola Pende, mentre i materiali li potrete trovare su Novecento.org). Il tema è quello, oggi caldissimo, della tolleranza.
L'ho affrontato con Francesco Remotti, del quale attendo con ansia la pubblicazione dell'ultima sua fatica sulla "somiglianza" (uscirà per Laterza). Sono decenni che abbiamo battuto sulle "differenze", sostiene l’antropologo. Su molte cose a ragione. Ma questa assolutizzazione forse ha qualcosa a che vedere con la ripresa di quella ipostatizzazione della differenza, che è alla base della ripresa di razzismi, xenofobie e, più in generale, con la voglia di "distruzione dell'avversario", che caratterizza molta parte dei discorsi pubblici, politici e no?
Coesistere o convivere?
Scoprire, studiare, soffermarsi sulle "somiglianze" non vuol dire "negare le differenze", proprio perché "somigliarsi" è diverso da "essere uguali". Ma sulle somiglianze si possono costruire modelli di convivenza che consentono di guardare a un futuro di collaborazione fra diversi. Consentono di alzare la posta, laddove le coesistenze basate sul rispetto e sulla ipostatizzazione delle "differenze" stanno dando luogo a un multiculturalismo sempre più problematico. Come non pensare, a questo punto, alle questioni sollevate da Cinzia Sciuto nel suo Non c'è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo (Feltrinelli, 2018)?
Prospettive di lavoro
Problemi diversi che, tuttavia, condividono due aspetti: da una parte la loro indubbia urgenza; dall’altra i contesti che rendono penosa la vita a chi vorrebbe affrontarli a scuola. Nel primo caso, la risoluta compattezza dei sussidiari impedisce di trovare alternative a racconti, storiograficamente talmente arretrati da essere controproducenti. Nel secondo, il clima ostile fa sì che il solo pronunciare la parola “tolleranza” apra la stura ad ogni genere di improperi: ne ho avuto la prova quando, dopo aver lanciato su internet la Summer School di Trani, sono stato fatto oggetto di post non propriamente benevoli.
In entrambi i casi, condizione preliminare per dare battaglia è il ritrovarsi e lavorare insieme. In Sicilia abbiamo visto che questo si può. Ci sono quattro Cidi attivi nella regione (Palermo, Messina, Catania e Gela). Insegnamenti di didattica della storia cominciano a funzionare bene a Catania e a Enna. Quindi le basi per partire ci sono. Di altre iniziative (e in particolare della fondazione della rete di scopo Il laboratorio del Tempo presente) HL non mancherà di dare le informazioni.
Il logo di Mattia, perciò, vorrei fosse il buon augurio per un lavoro da portare avanti.