Autori: Antonio Brusa, Teresa Cavone, Maria Pia De Bellis, Mario Iannone, Chiara Palmieri, Valentina Ventura
Introduzione
Negli ultimi due decenni si sono diffuse nelle scuole alcune proposte didattiche che nei decenni precedenti erano state esclusive dei gruppi più innovativi italiani. Fra queste, il laboratorio e la didattica operativa. A questo aspetto positivo, fa riscontro un aspetto negativo. Questa diffusione non è stata accompagnata da una riflessione e da un aggiornamento culturale adeguati. Di conseguenza, imperversano nelle scuole i “simil-laboratori” e la pseudo-operatività. Imitazioni dell’operatività vera, si riducono a esercizi e questionari, a giochini a volte privi di senso. Un fenomeno analogo è accaduto per una pratica innovativa fra le più promettenti: l’archeologia sperimentale. Una pratica che, di per sé, interessa maggiormente i musei, dove ha trovato una notevole diffusione (soprattutto all’estero, per quanto non manchino eccellenti esperienze anche in Italia), ma che – nei decenni passati - cercammo di introdurre nelle scuole. Con gli allievi e i docenti di Historia Ludens, infatti, realizzammo un buon numero di prove in classe, che dettero origine a pubblicazioni e relazioni anche a livello internazionale. Riteniamo che la loro riproposizione (con gli aggiornamenti e le piccole modifiche necessarie) possa essere utile ai docenti sia per aiutarli a ricostruire una indispensabile memoria storica della scuola, sia per fornire loro una strumentazione critica per muoversi nel mercato delle paccottiglie didattiche, al quale – mi pare – sta dando un potente contributo il recente ingresso del digitale e un educational che vende come miracolosamente efficace “il fare comunque qualcosa”. L’articolo che segue è una sorta di premessa teorica ai vari modelli di esperienze che si trovano già su HL, a cura di Marco Cecalupo (sulle escursioni e sulle Terramare), e a quelli che seguiranno a breve, sui laboratori della selce, dell’argilla e della pittura preistoriche.
Al tempo stesso, questi modelli didattici e questi racconti di esperienze vorrebbero essere un incoraggiamento ai lettori, perché tentino di riprovarli nelle loro classi, nonostante i tanti ostacoli, che nel corso del tempo si sono accumulati: il tempo violentemente ridotto dal duo Gelmini-Moratti, la contrazione dello spazio riservato alla preistoria nelle superiori e (forse anche) nelle elementari, i nuovi modelli orario, che impediscono compresenze e lavori più approfonditi e distesi.
Sommario
Didattica e epistemologia
Rielaborare didatticamente un argomento scientifico
Un modello teorico di esperienza pratica
Un orizzonte di lavoro ancora aperto
Didattica e epistemologia1
La celebre affermazione di Jean Piaget, che il capire procede attraverso il fare, costituisce il grande vantaggio didattico dell'archeologia sperimentale e della preistoria e, al tempo stesso, ne provoca l'equivoco di fondo.
Infatti il rapporto “mano-cervello” (Leroi-Gourhan) è uno dei motivi centrali sia della riflessione scientifica che della pratica didattica. E' presente e a volte ben raccontato in molti manuali scolastici in circolazione. Sicuramente fa parte del bagaglio professionale di un buon professore di media inferiore o del principio delle superiori. Inoltre, dal punto di vista dell'archeologia sperimentale, il "fare" è la struttura epistemologica portante dell'intero progetto scientifico della disciplina. Ai più, sembra dunque naturale concludere che la somma fra i due approcci porti ad una didattica semplice, spontanea, immediatamente fruibile dagli allievi.
A questa ipotesi pare dare forza anche il complesso delle esperienze didattiche fin qui effettuate, caratterizzate, in Italia e all'estero, dall'entusiasmo dei partecipanti. Bambini e adolescenti frequentano con evidente piacere i gruppi di archeologia sperimentale e imparano molto sulla preistoria. E' dunque comprensibile cedere alla convinzione di aver scoperto una strada finalmente in discesa per insegnare storia. Tale facilità risalta con grande evidenza se la confrontiamo con la letteratura storico-didattica, la quale tende piuttosto a descrivere difficoltà, problemi di motivazione allo studio e si sforza di elaborare strategie, inevitabilmente complesse, per il loro superamento. In conclusione: l'archeologia sperimentale sembra aprire una metodologia di studio agevole per la storia, in contrasto con tutte le altre “vie alla storie”, per le quali, invece, la didattica prospetta problemi che, con il passare del tempo, si fanno sempre più ardui.
Si tratta di una contraddizione solo apparente. Per rendersene conto, occorre applicare alle esperienze (quali vengono conosciute dalla letteratura circolante in Italia) i criteri di valutazione didattica che ormai devono essere considerati standard: criteri che mirano a descrivere con finezza il processo formativo vissuto dall'allievo (situazione di partenza, abilità acquisite, conoscenze possedute, obiettivi e prestazioni raggiunti); criteri d'impiego didattico: tempo richiesto, costo del materiale, numero di persone impiegate, replicabilità dell'esperienza. Una rapida analisi è sufficiente a farci ritenere come tali esperienze siano straordinariamente efficaci da un punto di vista comunicativo della passione e della conoscenza della preistoria, ma da un punto di vista didattico, cioè quando ci interroghiamo sulla qualità dell’apprendimento - risultano spesso generiche e poco economiche. Potrebbero utilmente essere catalogate nel grande alveo delle ricerche storiche in classe, che nel passato – fra gli anni ’60 e gli anni ’80 - hanno contrassegnato una fase eroica della didattica storica italiana. Esse hanno dimostrato da una parte che è possibile avviare degli allievi anche in età molto verde a lavori di archivio o su documenti di prima mano; ma hanno anche mostrato come ciò sia possibile a patto di un grande dispendio di energie da parte degli insegnanti e, spesso, delle istituzioni e a patto di stravolgere o rivedere interamente il programma di studi.
Rielaborare didatticamente un argomento scientifico
Un lavoro sulla preistoria che voglia aspirare a diventare uno strumento effettivamente utilizzabile nelle scuole italiane deve accettare preliminarmente il vincolo di una limitazione straordinaria del tempo e del costo dell'esperienza.
Sono due vincoli difficili da accettare, soprattutto da parte degli studiosi. Questi (ma anche molti insegnanti) sono portati a raccontare tutto, a comprimere le loro conoscenze piuttosto che a selezionarle. Questi vincoli, solo apparentemente pratici, pongono in realtà, come vedremo, dei problemi epistemologici alquanto complessi, tanto da costringere a riesaminare i rapporti tra ricerca e didattica, così come sono generalmente concepiti.
Dal punto di vista della ricerca infatti, il processo conoscitivo trova un suo limite solo nel completamento, sia pure epistemologicamente provvisorio, dell'intero panorama dei fatti e delle questioni connesse con un determinato problema. Questo vale sia se l'argomento è di carattere teorico (il processo di ominazione, la neolitizzazione, ecc.), sia se l'argomento è più propriamente sperimentale, come il taglio della selce, la tessitura, la lavorazione dell'argilla, ecc.
Il modo tradizionale e più ovvio di trasporre in didattica un itinerario conoscitivo scientifico è quello di ridurlo. Di miniaturizzarlo. E' ciò che avviene di norma nei manuali scolastici e nella letteratura divulgativa. Ciò avviene ancora in molte delle iniziative che nella tradizione museale italiana vengono catalogate come "didattiche". Questo modo di affrontare la didattica mostra tutti i suoi difetti proprio nel campo dell'archeologia sperimentale. Infatti di un qualsiasi discorso si può sempre produrre una rielaborazione ridotta, una affabulazione che sia al tempo stesso comprensibile da un non competente (per quanto l'uso di tali testi sintetici oggi sia sottoposto a una critica serrata nella letteratura didattica specifica). Ma di una sequenza di azioni (un autentico algoritmo) è alquanto improbabile produrre una versione ridotta. I gesti che il ricercatore compie per scheggiare la selce, riproducendo ad esempio la tecnica Levallois, dovrebbero essere identici anche per l'allievo; il tempo che il ricercatore impiega per la sequenza di operazioni dovrebbe essere identico, se non realisticamente maggiore, per l'allievo. Di qui, paradossalmente, proviene l'impossibilità di riprodurre per l'archeologia sperimentale le modalità tradizionali che hanno costituito il legame tra ricerca e didattica nelle altre branche storiche: la riduzione e l'affabulazione.
Ora l'equivoco dal quale siamo partiti si svela, e ci mostra come oltre l'apparenza di grande facilità, è proprio l'archeologia sperimentale a mettere drammaticamente in evidenza la difficoltà dei rapporti tra ricerca e didattica. Infatti se dobbiamo essere coerenti con le argomentazioni su esposte, la direzione che la ricerca didattica deve intraprendere per operare nel campo dell'archeologia sperimentale, è quella della selezione dei gesti, all'interno della sequenza dell’algoritmo scientifico, più che la loro miniaturizzazione. E, perciò, nella creazione di un nuovo algoritmo, questa volta didattico.
Tale nuova sequenza di operazioni non potrà mai portare alla produzione di un manufatto scientificamente accettabile. Sa sarà una sorta di "aborto scientifico", mi rendo conto, destinato a riscuotere le perplessità degli esperti, più che il loro interesse. La validità di questo nuovo stratagemma dovrà essere misurata con un criterio nuovo, scientifico (che non dovrà mai mancare) e didattico insieme.
Si dovrebbe accettare il fatto che il terreno della didattica storica è, all’interno del vasto campo delle discipline storiche, un terreno autonomo, nel quale le regole della formazione devono accompagnare di pari passo quelle scientifiche. La validità di tale processo si misura dunque, oltre che dalla affidabilità scientifica delle conoscenze, dalla bontà del percorso compiuto dall'allievo. Perciò, una sequenza didattica, incomprensibile spesso dallo studioso, proprio a causa della selezione, ritrova comprensibilità nel campo didattico, dove si giustifica se riesce a descrivere e a provocare un percorso formativo, che giunga a obiettivi apprezzabili da entrambi: lo scienziato e l'insegnante.
Un modello teorico di esperienza pratica
Partendo da queste premesse, il gruppo di ricerca didattica ha selezionato alcune brevi sequenze gestuali all'interno di quelle più complesse e complete elaborate dagli archeologi sperimentali. Ad esempio la percussione diretta applicata per la produzione di schegge funzionali, è stata scorporata dal complesso delle tecniche preistoriche effettivamente ricostruite per la lavorazione della selce. Dell'intera sequenza di operazioni necessarie per riprodurre la ceramica neolitica, sono state scelte solo poche operazioni relative alla lavorazione della materia prima e alla realizzazione di forme e decorazioni semplici; l'applicazione del colore con le dita è il solo tratto tecnico ricavato dall'universo gestuale ben più complesso dell'artista preistorico. Così decontestualizzati questi segmenti gestuali perdono il loro senso scientifico. Essi perciò vanno letti nella nuova contestualizzazione didattica.
Ecco, dunque, in sintesi il laboratorio della selce: al principio gli allievi sono spinti a manipolare oggetti, a descriverli, a classificare le loro sensazioni. Esprimono liberamente le inferenze spontanee.
A poco a poco vengono portati ad apprezzare le qualità fisiche della selce. A questo punto si insegna loro la percussione diretta e vengono invitati a scheggiare. Si racconta loro dell'esistenza di strumenti complessi e sono guidati alla costruzione di un coltello.
Ora sono in grado di costruire inferenze corrette o accettabili. Un brano storiografico piuttosto complesso chiude questo modello di laboratorio. Tutto nello spazio di sei-otto ore, in una classe normale di venticinque ragazzi, con un insegnante e uno sperimentatore.
Se si valuta questo percorso dal punto di vista scientifico lo si troverà superficiale nella descrizione e nell'analisi dei materiali, approssimativo nella ricostruzione della scheggiatura, anacronistico nell'accostare tecniche ed oggetti appartenuti ad epoche diverse e nel comprimerle cronologicamente. Ma ora se ne prendano in considerazione gli aspetti didattici: si parte con allievi che spesso posseggono una grande quantità di informazioni sulla preistoria di diversa provenienza (cartoni animati, film, fumetti, giocattoli ecc.). Queste convivono e si intrecciano in modo inestricabile con conoscenze di provenienza scolastica. Spesso, infatti, gli allievi di prima media esibiscono una buona familiarità con il materiale iconico manualistico: bifacciali (soprattutto), pitture, oggetti e strumenti vari, archeologi al lavoro, ecc. Tuttavia, da bravi animali cittadini, non hanno mai manipolato pietre, ossa, resina secca, conchiglie. Sanno passare da una notizia rappresentata o scritta a conclusioni accettabili (inferiscono, dunque, correttamente). Ma, per contro, stanno già maturando, fin da piccoli, quelle cattive disposizioni alla lettura che ben presto, come sappiamo dalle indagini correnti, porteranno un gran numero di loro alla disaffezione al libro. Hanno, nei confronti della storia, i problemi di motivazione che molti segnalano e che, col passare dei tempo scolastico, tendono ad accrescersi.
Abbiamo notato che il nostro breve Laboratorio della selce li ha portati rapidamente da una manipolazione incerta di alcuni materiali all'apprezzamento e alla valutazione dell'approccio epistemologico della stessa archeologia sperimentale ("in che modo, ridando vita agli oggetti, lo studioso riesce a capire il passato": questo il succo di un difficile brano di Binford che è stato proposto alla loro lettura silenziosa, al termine del lavoro).
Confrontiamo ancora una volta i due procedimenti didattici. In quello "ricco", l'archeologia sperimentale cerca di coinvolgere i giovani allievi nel proprio discorso scientifico. Solo apparentemente si decentra al servizio degli altri. In realtà è autoreferente. Nel nostro laboratorio "povero", l'archeologia sperimentale si fa strumento per la formazione. Non vuole coinvolgere gli altri ma si fa coinvolgere nel processo di crescita degli allievi. Si nega, potremmo dire, per formare. Ma proprio qui ribalta l'equivoco e riscopre la verità della sintesi originaria tra mano e cervello. Infatti proprio accettando come vincolo di partenza le capacità manipolative degli allievi, permette a questi di vivere (più che apprezzare soltanto intellettualmente) il progresso che si innesca quando si connettono le abilità manuali e quelle intellettive. Come abbiamo notato, infatti, gli allievi, che pure erano in grado di compiere inferenze interessanti a partire dalle immagini e dalle notizie raccontate nel testo scolastico, erano del tutto afasici nei confronti dell'oggetto materiale: non riuscivano a elaborare nessuna inferenza, nessuna classificazione utile, nessuna descrizione apprezzabile a partire dalle sensazioni fisiche, quali durezza, peso, rugosità, ecc. Apprendere la preistoria in questa situazione era (è) come apprenderla negando il rapporto mano-cervello. La bontà e l'efficacia della sequenza didattica si valutano nella realizzazione di quel rapporto: al suo termine gli allievi connettevano correttamente la manipolazione della pietra con la riflessione epistemologica dello storico. Avevano cioè conquistato un aspetto essenziale sia del loro oggetto di studio, sia del metodo archeologico (manipolare per capire).
Un orizzonte di lavoro ancora aperto
Il gruppo di lavoro (originariamente lo chiamammo Prehistoria Ludens), composto da studenti e laureati in discipline preistoriche e didattiche, da docenti elementari e medi, progettò (nel corso del 1995) nell'Università di Bari tre laboratori - selce, argilla e colori -, e ne condusse una prima sperimentazione in alcune scuole medie, elementari e superiori.
Il lavoro si svolse seguendo delle fasi precise. Dapprima si è proceduto a selezionare accuratamente i segmenti gestuali da sperimentare (questa attività è stata sicuramente la più lunga e difficoltosa, dal momento che richiedeva ai partecipanti - soprattutto a quelli esperti di preistoria - grandi "sacrifici" e rinunce). Attorno a questi segmenti, si sono costruiti dei frame narrativi e di simulazione (il vecchio racconta..., un giorno una tribù..., dopo la grande caccia...). Si è rigorosamente limitato il materiale (una sacca con pochi oggetti, oppure tre scodelle di colore e alcuni grandi fogli di carta, oppure un paio di panetti di argilla) e si sono previsti tempi di realizzazione.
Durante la fase della sperimentazione si è curato in particolare il problema della gestione della classe, dell'attenzione e della partecipazione degli allievi. Si sono registrati accuratamente le risposte e gli interventi. Si è così scoperto il problema fondamentale dell'incapacità degli allievi di operare inferenze accettabili a partire dalle sensazioni tattili: e questa scoperta ha obbligato il gruppo a rielaborare il progetto in funzione "terapeutica" di tale bisogno. La fase successiva del lavoro ha mirato a verificare la riproducibilità dei moduli didattici attraverso la ripetizione dell'esperienza in numerose classi (abbiamo raggiunto oltre 500 ragazzi). La conclusione dell'esperimento, sulla effettiva replicabilità nelle classi è (da allora) del tutto aperta: sappiamo che molti docenti hanno letto e tentato di riprovare in classe queste esperienze; ma abbiamo visto che molti operatori museali ne hanno tratto un buon utile. Confidiamo che il numero relativamente alto (molto di più che nel passato) di docenti e di nuovi docenti che hanno frequentato scuole di archeologia o hanno partecipato a sessioni di scavo, possa riaprire una stagione di sperimentazioni, efficace e quanto mai divertente.
Bibliografia
(si citano soltanto i testi ai quali si è fatto stretto riferimento: mancano perciò i testi successivi agli anni ‘90)
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Note:
- tratto da: A. BRUSA, T. CAVONE, M.P. DE BELLIS, M. IANNONE, V. VENTURA, Fare e capire. Osservazioni didattiche sull’Archeologia Sperimentale, in Atti del XIII Congresso Internazionale delle Scienze Preistoriche e Protostoriche, Forlì 8-14 Settembre 1996